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SCRITTURE PER LA SCENA-ALLEGRI

Nella premessa, Luigi Allegri afferma che l’opera d’arte risponde solo a sé stessa e che non può
essere compresa e giudicata utilizzando i medesimi strumenti concettuali necessari per comprendere
giudicare la realtà. I personaggi dei testi teatrali sono entità artificiali e non persone reali, e le
vicende in cui sono implicati possono anche assomigliare a quelle della realtà ma non dovrebbero
essere valutate e giudicate in base a questa corrispondenza: Amleto non è una persona ma un
personaggio, e la sua vicenda si colloca non nell’ambito della vita vissuta ma in un testo teatrale,
che è un’opera prodotta dall’ingegno artistico di William Shakespeare secondo regole che
appartengono alla sua poetica ma anche allo spirito del tempo in cui è stata scritta.

È certamente legittimo leggere i testi teatrali come se si contemplasse la vita fuori dalla finestra e
dunque attribuire una psicologia naturale ai personaggi teatrali, fornendo loro una concretezza di
vita, di comportamenti, di azioni e di emozioni simili alle nostre di persone reali. I testi sono
strutture significanti che rispondono ai meccanismi costruttivi artificiali, proprio in quanto prodotti
estetici. La scrittura drammaturgica, come peraltro anche lo spettacolo teatrale, dovrebbe essere
letta attraverso strumenti concettuali specifici: i testi teatrali sono diversi rispetto a testi di altra
natura rispetto alla realtà che in molti casi cercano di rappresentare. Proprio per questo sarà
necessario sempre inserire il testo nel contesto dell’epoca storica e della società in cui è stato scritto,
ma analizzarlo anche in rapporto alla specificità delle modalità di organizzazione e di produzione
dello spettacolo, all’idea di teatro di cui è espressione e di cui mantiene manifesta i segni nella
propria struttura.

Occorre dunque analizzare il testo e cercare di comprenderne struttura e significati anche meno
palesi, ma conservando comunque per quanto possibile un approccio libero alla lettura, evitando di
trasformarla in un’arida e artificiosa decostruzione del testo e mantenendo intatto invece il fascino
della scrittura, abbandonandosi al piacere del testo. Perché questi testi, anche quando scritti in
epoche molto lontane dalla nostra contemporaneità, conservano spesso una straordinaria vitalità
comunicativa anche per noi donne e uomini di oggi e manifestano una fascinazione ancora intatta e
una sorprendente capacità di emozionarci.

DI COSA STIAMO PARLANDO

Verso la fine del Medioevo, quando iniziano a recuperare le testimonianze della cultura antica, gli
umanisti si trovano di fronte ad una forma per loro sostanzialmente sconosciuta, il teatro, che
constatano avere avuto grande diffusione nella cultura greca e romana ma che per secoli era sparito
dalla società medievale a causa della violenta campagna ideologica scatenata contro di esso dalla
cultura cristiana. Recuperano i testi che a quel fenomeno erano collegati, soprattutto le opere dei
drammaturghi latini come Seneca, Terenzio o Plauto, che i copisti dei monasteri hanno continuato a
trascrivere e conservare. Gli umanisti possono verificare che quei testi hanno una struttura
differente dagli altri e sanno che, proprio perché legati ad un fenomeno sociale, non dovevano
essere soltanto letti ma in qualche modo dovevano essere utilizzati per produrre quell’evento
teatrale di cui si trattava proprio di individuare la nozione.

Tentando di ricostruire la struttura e le modalità di funzionamento del Teatro, l’ipotesi che viene
formulata e argomentata già dal XIII secolo e variamente per un paio di secoli è per noi moderni
molto curiosa: nelle rappresentazioni antiche ci sarebbe stata dunque una sorta di edicola dalla quale
il poeta leggeva il proprio testo, con degli attori muti e mascherati al di sotto che ne
rappresentavano i contenuti a gesti, attorniati dagli spettatori.

Nel vuoto di teatro provocato dalla cultura medievale, si era perduta proprio la nozione stessadi
rappresentazione, quel meccanismo fondamentale nel teatro secondo cui un attore assume l’identità
di un personaggio nella sua totalità, parole, gesti, comportamenti. Meccanismo per noi consueto ma
che di fatto era sconosciuto nella pratica dello spettacolo medievale, basato sulle performance dei
giullari o sulle cerimonie tramutate in spettacolo del cosiddetto teatro religioso. La conseguenza
teorica è che la parola e la scrittura restano separate dall’azione, e dunque il testo teatrale di
Terenzio o di Seneca viene assunto come un qualsiasi altro testo, solo da leggere. Mentre il testo
teatrale, noi oggi lo sappiamo bene, proprio in virtù del fatto che deve essere rappresentato dagli
attori in uno spazio e un tempo condiviso con gli spettatori, ha una funzione diversa dalla sola
lettura, anche pubblica, e per questo ha una struttura formale differente rispetto agli altri testi.

Com’è fatto dunque un testo teatrale? Come si differenzia dagli altri testi? Naturalmente ci sono
degli elementi che ritroviamo comuni in altre tipologie di testi. Il titolo, ad esempio, che in qualche
modo indirizza la lettura del testo nella direzione voluta dall’autore. Una differenza può riscontrarsi
tuttavia nel fatto che, essendo il testo teatrale spesso incentrato su un personaggio, più
frequentemente che altrove si trovano titoli che, specie nella tragedia, identificano il personaggio
principale (es. molte tragedie di Racine o Alfieri). In altri contesti, ad esempio nella commedia, sarà
più frequente trovare un titolo che identifica un vizio più che un personaggio, o meglio un
personaggio che diventa la personificazione di un vizio. In altri ancora, come nel dramma moderno,
il titolo indicherà piuttosto una situazione o una condizione, inducendo simbolicamente una chiave
di lettura dell’opera: per fare qualche nome, Casa di bambola o Spettri di Ibsen, o ancora Il giardino
dei ciliegi di Cechov. Talvolta il titolo può essere depistante, come ad esempio nel caso
dell’Agamennone di Eschilo in cui la vera protagonista è in realtà Clitennestra. Specie nel ‘900, il
meccanismo del depistaggio indotto dal titolo può anche essere più spregiudicato: basti pensare che
Eugène Ionesco intitola un suo testo La cantantrice calva, quando nel testo non c’è traccia di
cantanti, né calve né pettinate, se non in uno scambio di battute volutamente assurdo (“e la
cantantrice calva?”, “si pettina sempre allo stesso modo!”).

Altrettanto fuorviante è spesso il sottotitolo che il drammaturgo utilizza per specificare il genere a
cui l’opera dovrebbe appartenere. Nel teatro greco o nei drammi shakespeariani non c’è bisogno di
specificazioni, visto che il titolo e il contesto sono auto significanti. È semmai nella drammaturgia
moderna che compaiono indicazioni più interessanti: ad esempio Cechov designa Il gabbiano, Tre
sorelle e Il giardino dei ciliegi come “commedie in quattro atti”, anche se i finali sono amari. Lo
stesso Pirandello sottotitola Così è (se vi pare) come “parabola in tre atti”, indirizzando la lettura del
testo verso un’interpretazione metaforica, come appunto si trattasse di una parabola esemplare. Se
spesso le indicazioni sono generiche, altre volte sono molto più precise, come I creditori, ad
esempio, che è definita “tragicommedia”, una categoria utilizzata nel teatro del 500 e soprattutto del
600 e di cui si erano perse le tracce da secoli.

Un testo teatrale ha al proprio interno delle scansioni. La tragedia greca possiede una rigida struttura
con cadenze interne, tra prologo, parodo (entrata in scena del coro), episodi (a cui è demandato lo
svolgimento dell’azione), stasimi (gli interventi del coro a commento) ed esodo, ma senza cesure. E
senza cesure sono anche le commedie romane, quelle di Plauto e Terenzio, la cui partizione in atti è
opera degli editori rinascimentali. Perché è appunto nel contesto della cultura rinascimentale che
nasce quell’unità drammaturgica che è l’atto, la scansione che da lì diventa canonica nei testi
teatrali. L’interruzione della continuità del testo prodotta dagli atti è molto più determinante
significativa: al cambio di atto quasi sempre cambia l’ambientazione dell’azione e spesso anche la
dimensione temporale. In questo modo l’atto si definisce come un’unità che ha in sé una propria
compiutezza drammatica, una propria unità strutturale. Gli atti sono poi numerati progressivamente
e sono di numero variabile: uno (e allora il testo si qualificherà come atto unico), tre, quattro o
cinque, molto raramente due, se non in certi casi della drammaturgia contemporanea.

All’interno degli atti ci sono poi le scene, unità drammatiche ancora più piccole, anch’esse
numerate progressivamente all’interno dello stesso atto. Le scene tuttavia solo raramente
possiedono un’unità e un’autonomia compiute, dato che la scansione in scene, per convenzione, è
determinata solo dal cambiamento del numero dei personaggi in palcoscenico: la scena cambia
numerazione, anche se la vicenda prosegue senza interruzioni, solo perché è entrato un nuovo
personaggio o qualcuno è uscito. Questa, ad esempio, è la ragione per cui Sei personaggi in cerca
d’autore di Pirandello non ha scansioni in scene, perché i personaggi sono sempre assieme sul
palco. E peraltro quel testo non avrebbe tecnicamente neanche una partizione in atti, perché le due
interruzioni che consentono gli intervalli sono giustificate dalla necessità di andare altrove per
scrivere il testo e dall’incidente tecnico del sipario calato per sbaglio. In generale, nei testi
contemporanei in cui saltano molti dei parametri della drammaturgia tradizionale, non è inconsueto
trovare testi senza scansione in atti ma solo in scene, oppure con atti ma senza scene interne, o
ancora senza alcuna partizione di alcun tipo.

Sfogliando un qualsiasi testo teatrale si vede poi che al suo interno presenta due tipi di scritture,
solitamente una in carattere tondo e una in carattere corsivo. In tondo sono le battute dei personaggi,
precedute dal nome di chi le pronuncia, e in corsivo sono le didascalie. Le battute costituiscono
l’enunciazione di ciascun personaggio, ossia le parole che il personaggio pronuncia. È l’insieme
delle battute che definisce sia l’identità del personaggio sia la rete dei suoi rapporti con gli altri
personaggi. Le didascalie hanno invece la funzione di contestualizzare le battute, indicando ad
esempio la modalità e il tono con cui devono essere pronunciate, definendo così l’intenzionalità di
quell’atto verbale. Altre volte la didascalia specifica le azioni, i gesti, anche le espressioni della
mimica facciale dei personaggi, e fornisce ancora una volta informazioni sulla coerenza tra
l’enunciazione verbale e il comportamento, oppure indica le reazioni di altri al discorso di un
personaggio o il manifestarsi in scena di elementi non verbali, come i suoni e i rumori, i
cambiamenti di luce, la presenza significante di oggetti: in qualche modo si può dire che la
didascalia fornisca alle battute il sottotesto. Per fare solo un esempio, non si capirebbe l’ambiguità
sostanziale della scena di Casa di bambola di Ibsen in cui Nora mette in atto un sottile processo di
seduzione del dottor Rank, a cui vuole chiedere un prestito per uscire da un pasticcio in cui si trova,
se la didascalia non avvertisse che «durante la scena che segue comincia a imbrunire», di modo che
man mano che l’operazione di seduzione procede, la luce progressivamente si abbassa, fino a
raggiungere la penombra.

Se il testo, ossia l’insieme delle battute, definisce l’enunciato, il sottotesto, in quest’accezione,


definisce il contesto, la modalità con cui l’enunciato dovrebbe essere inteso e interpretato.
Soprattutto nella drammaturgia moderna, tuttavia, la didascalia assume anche un compito più
impegnativo, che è quello di definire la struttura dello spazio in cui si svolge l’azione, l’impianto
scenografico: basterebbe leggere le didascalie a ogni apertura d’atto dei testi di Ibsen o di Cechov
per comprendere questa funzione.

Nel teatro antico o in Shakespeare non ci sono didascalie e spesso quelle che compaiono sono
aggiunte dagli editori posteriori. Perché quegli autori erano anche realizzatori in scena delle proprie
opere, e dunque non avevano affatto bisogno di inserire nel testo le indicazioni per la messa in
scena, di cui loro stessi erano responsabili. La didascalia descrittiva diventa necessaria per il
drammaturgo quando la sua scrittura si stacca dall’operatività scenica, che diviene una competenza
affidata ad altre mani. Il drammaturgo sente allora l’obbligo di preservare l’unitarietà del mondo
poetico che ha creato e dunque cerca di pre-scrivere (scrivere prima) le future messe in scena: lo
strumento che gli consente questa possibilità è appunto la didascalia.

Il momento di svolta è nel Settecento, quando la letteratura drammatica e l’organizzazione dello


spettacolo sostanzialmente si separano, quando si consolidano le nuove professionalità dei direttori
di scena e dei capocomici, che porteranno poi, verso la fine del secolo successivo, alla nascita del
regista in senso moderno. Le didascalie cominciano a essere più precise in Goldoni, ad esempio, ma
non in Alfieri, che infatti mette in scena autonomamente i suoi testi, e poi via via più
insistentemente imperative nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento. Basterebbe pensare alle
didascalie puntigliose dell’Ernani di Victor Hugo, ad esempio, con la definizione precisa dei colori
delle tende e degli arredi e la designazione degli abiti secondo la moda corrente. Fino a giungere al
paradosso di certi testi del Novecento maturo, in cui l’ipertrofia delle didascalie arriva ad annullare
completamente le battute, come nei due Atti senza parole di Samuel Beckett, costituiti solo da una
lunga e ininterrotta didascalia senza una sola parola pronunciata. E sarà esattamente questa volontà
del drammaturgo di predeterminare le forme dello spettacolo che verrà contestata in epoca
contemporanea, quando il regista o comunque l’operatore dello spettacolo rivendica la propria
autonomia espressiva e concettuale, liberata dalle prescrizioni del testo.

Ma è tempo di passare dalla mera descrizione esterna del testo teatrale a una sua definizione in
termini formali e strutturali. E allora, necessariamente, occorre partire dal primo trattato di teoria
Poetica di Aristotele. Egli definisce il testo teatrale per differenza, istituendo una distinzione netta
tra l’epica (ossia il racconto) e la tragedia (ossia il teatro). Il teatro si distingue dal racconto proprio
perché non c’è un narratore onnisciente che descrive le azioni, le psicologie e le motivazioni dei
personaggi ma ci sono solo personaggi che agiscono e parlano in prima persona. Nel testo teatrale,
invece, il drammaturgo definisce lo sviluppo della vicenda e le modalità di azione e di intervento
dei personaggi, ma in assenza del narratore che tiene le fila del racconto i personaggi possono e
devono definire la loro individualità solo sulla base delle parole che pronunciano e delle azioni che
compiono, senza che il narratore possa contestualizzarle o commentarle per favorire la
comprensione del lettore.

Il personaggio teatrale prevede espressamente questo suo cambio di statuto, dall’entità fantasmatica
che è nel testo alla materialità reale dell’attore sul palcoscenico. È proprio per questo che Aristotele
assegna alla tragedia una preminenza, perché «possiede tutto ciò che possiede l’epica [...] e in più in
non piccola parte la musica grazie a cui i piaceri acquistano più evidente consistenza, e questa
evidenza la possiede sia alla lettura sia all’esecuzione.

Nella Poetica si fonda dunque il canone della drammaturgia della cultura occidentale. “La tragedia
si definisce in quanto imitazione di un’azione seria è compiuta di persone che agiscono”: con questa
definizione Aristotele pone due punti fermi. Il primo che la tragedia imita, ossia rappresenta,
«un’azione», una sola, intendendo naturalmente una sola vicenda, con ciò fondando a norma
strutturale quella che poi il classicismo rinascimentale codificherà come l’unità di azione, una delle
cosiddette tre unità aristoteliche, assieme alle altre due, di luogo e di tempo. Il secondo, che è il più
importante, è che se la tragedia è imitazione di azioni, le azioni possono essere rappresentate solo
dagli attori nella pratica dell’evento scenico. Ed è questo un dato fondamentale per definire il testo
teatrale, perché lo caratterizza come una scrittura a priori rispetto allo spettacolo ma che tuttavia è al
suo servizio, ossia è una scrittura che non ha una propria autosufficienza estetica ma è costruita in
funzione dello spettacolo, che ne è il fine ultimo.

Aristotele aggiunge che «l’efficacia della tragedia sussiste anche senza rappresentazioni e senza
attori» e che, «anche senza movimenti [i movimenti degli attori, la rappresentazione sulla scena], la
tragedia realizza le sue proprietà come l’epica, perché quale essa sia si rivela chiaramente alla
lettura». Aristotele così, proprio mentre definisce la diversità, e anche la superiorità, del teatro
rispetto al racconto, con un movimento circolare sembra assimilare la scrittura per il teatro alle altre
scritture, dunque fruibile anche solo alla lettura. Movimento apparentemente (e forse anche
realmente) contradditorio, ma comprensibile all’interno dei parametri e dei valori della cultura
greca, che assegna al logos, ossia alla parola, al discorso verbale portatore del pensiero, la funzione
primaria di elaborazione e di trasmissione della cultura e dei saperi.

Nasce da qui, e dalla pagina di una fonte autorevolissima, l’istituzione di una supremazia del logos,
della parola, anche nella sua definizione di parola scritta, su ogni altra forma di espressione e di
comunicazione. E conseguentemente, si afferma nel tempo anche il principio che il testo teatrale
viene prima, cronologicamente ma in certo senso anche ontologicamente, di un evento teatrale a cui
il testo dovrebbe invece servire e che con questa impostazione teorica assume sostanzialmente la
funzione di illustrarlo. Anche nelle epoche successive questa concezione, con la gerarchia tra testo e
spettacolo che ne consegue, potrà talvolta attenuare la sua rigidità ma non verrà mai sovvertita,
tranne che, almeno in parte, nella prassi di certi fenomeni storici come la Commedia dell’Arte e
soprattutto nella teoria e nella prassi della cultura novecentesca. Questa idea della supremazia del
testo, e anzi della sua autosufficienza, già teorizzata almeno in parte da Aristotele, è ancora oggi
talmente radicata che scorrendo i manuali scolastici delle varie letterature. I testi teatrali vengono
analizzati nella loro valenza letteraria, con strumenti critici non dissimili da quelli utilizzati per gli
altri generi, ponendo attenzione alla poetica generale dell’autore, alle sue scelte linguistiche, alla
struttura della trama, alla psicologia dei personaggi e alle dinamiche dei loro rapporti reciproci, alla
morale che se ne può trarre, all’intenzionalità sociale o politica che vi è eventualmente inscritta. Ma
quasi mai coinvolgendo nel discorso le modalità e le convenzioni dello spettacolo che ha prodotto
quei testi e che sono molto differenti nelle epoche e nelle culture. Così, fin dagli studi scolastici, ci
si abitua a pensare che Goldoni non è tanto diverso da Manzoni, se non per il fatto che scrive opere
classificabili come commedie anziché romanzi o poesie. Si tratta appunto della tradizione che
considera il testo come forma di letteratura teatrale, non tanto differente dagli altri testi
letterari.

Nella a famosa prefazione alle Opere nell’edizione Bettinelli del 1750, Goldoni dichiara di aver
intrapreso la propria riforma della commedia sulla scorta di due libri essenziali, il Mondo e il
Teatro. E cioè l’osservazione della realtà (il Mondo) e la sapienza artigiana del mestiere di teatrante
(il Teatro), ma non la letteratura, non la poesia, non la tensione a un modello di scrittura. Perché
Goldoni è uno scrittore-teatrante, o meglio un teatrante-scrittore, spesso un drammaturgo al servizio
di una compagnia e che comunque sempre scrive a diretto contatto con la realtà e le esigenze del
palcoscenico. Non compone dunque con l’occhio alla letteratura ma con l’occhio alla scena, pronto
a permettere che sia la scena a guidare la scrittura, producendo un testo che non possiede quindi
l’intangibilità dell’opera ma è disponibile a integrarsi con gli altri elementi dello spettacolo e a
farsene condizionare nella stesura stessa del testo. In questi casi il testo è più lontano dalla
dimensione della letteratura teatrale, anche se resta attento alle questioni stilistiche e letterarie, e più
vicino a quella del copione. Perché il copione è scritto in funzione dello spettacolo e soprattutto è
disponibile a modificarsi nel caso in cui l’impatto con la scena sia insoddisfacente.

Questo è il caso in cui è lecito e conveniente parlare di drammaturgia in senso pieno. Se un testo
appartiene alla letteratura teatrale perché risponde più alle esigenze della letteratura che a quelle
della scena, apparterrà invece alla drammaturgia un testo che abbia la realizzazione scenica come
fine primario e dunque sia cosciente dei meccanismi della rappresentabilità concreta. Perché nella
nozione e nell’etimologia stessa di drammaturgia è implicata la dimensione del fare. La
drammaturgia è costruzione di situazioni drammatiche più che di un ordito letterario, la cui essenza
sta nelle dinamiche dei personaggi, nelle loro tensioni reciproche, nel loro rapportarsi con lo spazio
e il tempo della scena, nell’attenzione al contesto delle pratiche teatrali della società dello spettacolo
in cui si inserisce.
LA STRUTTURA DRAMMATICA

La forma drammatica, nella sua sostanza tradizionale, prevede lo sviluppo di una vicenda affidata
principalmente alla parola, prima scritta e poi detta, la costruzione quindi di un universo parallelo o
tangente o mimetico rispetto a quello reale, intreccio tenuto assieme da un filo unitario, personaggi
che alimentano questo intreccio con la loro azione e con caratteri e psicologia che consentano loro
di assumere comportamenti e caratteristiche di persone reali, uno spazio e un tempo definiti in cui
tutto accade, infine soprattutto il meccanismo della rappresentazione a dar senso a quanto avviene
sulla scena, quale che essa sia. Questa definizione viene sostanzialmente dalla Poetica di Aristotele:
il modello non rimane poi sempre stabile e uguale a sé stesso, perché ogni cultura lo adatta ai propri
valori e alle proprie modalità di spettacolo, ma questa è la struttura che ci viene dalla tradizione.

Il testo teatrale ha un inizio, un centro e una fine. La struttura drammatica è data dunque da un
progredire dell’azione in cui i fatti si concatenano coerentemente, sino aggiungere al momento
fondamentale, che è quello del conflitto (o quello della collisione, come la chiama Hegel) che
porterà alla conclusione. Che la struttura drammatica abbia come punto centrale il conflitto è
del resto un punto fermo delle teorie della drammaturgia. Può trattarsi di un conflitto tra
personaggi, un conflitto tra un personaggio e la società, un conflitto di valori, ma il
confronto e lo scontro costituiscono molto spesso il vero punto del dramma, perché solo
dallo scontro emerge il nodo in cui sta il senso del dramma. Il filo conduttore dell’intreccio
sono dunque le peripezie del personaggio principale, e la struttura drammatica si conformerà
queste peripezie. Perché il personaggio avrà un obiettivo da perseguire, a volte con il
supporto di un aiutante, ma le cose non potranno andare così lisce: interverranno uno o più
antagonisti, che frapporranno ostacoli al raggiungimento dello scopo che si è prefisso il
protagonista, producendo dunque dei conflitti che andranno a costituire il nodo della
vicenda. Tutto questo produrrà la tensione drammatica, che si accumulerà attraverso un
climax progressivo fino a portare inevitabilmente all’intervento di un elemento che
determinerà la scena madre, o quella che nei manuali di drammaturgia e di sceneggiatura è
spesso definita la scena obbligatoria, in cui si dà lo scioglimento del nodo e che conduce alla
conclusione, tragica o rassicurante che sia. Lo schema funziona generalmente anche con la
struttura della commedia e anche il dramma moderno può agevolmente calarsi in questa
struttura. Ma nei testi quasi mai le vicende sono espresse in questa maniera lineare, con una
rappresentazione che le mette in fila cronologicamente dall’inizio alla fine. Perché il testo
teatrale risponde poi ad altre necessità strutturali. Per questo occorre istituire una differenza
fondamentale di struttura e di funzione tra fabula e intreccio. Dove la fabula è la descrizione
della storia non nell’ordine in cui viene esposta nel testo ma, appunto, in ordine cronologico,
attraverso il racconto di tutto quanto nel testo viene presupposto, ricordato, raccontato dai
personaggi anche in momenti diversi. La struttura dell’intreccio, pur presentando i medesimi
contenuti, è molto diversa dalla struttura della fabula: l’intreccio in realtà si costruisce più
sulla base delle situazioni che sulla base dei personaggi. Una consolidata tradizione teorica,
tra Settecento e Ottocento, vuole che le situazioni drammatiche siano 36. Questi schemi
servono a definire dei modelli attanziali, in cui i personaggi non sono Document shared on
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considerati nella loro dimensione psicologica ma nella dinamica che esprimono appunto
come attanti, ossia come portatori di funzioni di azione nella struttura drammaturgica del
testo. Le funzioni saranno dunque entità astratte e puramente formali come il soggetto,
l’oggetto, l’oppositore, l’aiutante e poche altre. E un personaggio potrà assumere funzioni
diverse nel corso del testo, così come una stessa funzione può essere assunta da personaggi
diversi. Per completare l’analisi della struttura di un testo teatrale, occorre tuttavia
considerare ancora un altro elemento, ossia il rapporto con il lettore/spettatore. Perché il
testo non dimentica mai che alla fine si rivolge al proprio lettore, magari istituendo come
figura astratta, come fa Umberto Eco con il suo lettore modello rispetto al quale struttura la
propria strategia comunicativa. Un testo teatrale è ancora più pigro di un testo narrativo,
perché sconta l’assenza del narratore che tiene assieme le fila del discorso. Quindi un testo
drammaturgico ha bisogno ancora di più dell’apporto creativo e interpretativo del lettore e
poi dello spettatore. Il testo ha sempre presente il proprio lettore/spettatore, è sempre a lui
che si rivolge, anche quando ha eliminato, come nel dramma moderno, ogni allocuzione
diretta al pubblico tramite i prologhi che spiegano le intenzioni dell’autore. Altrimenti non
troverebbero senso espedienti teatrali come gli a parte, coi quali un personaggio
volutamente nasconde il proprio discorso agli altri personaggi in scena e comunica il proprio
pensiero direttamente agli spettatori, oppure i monologhi, enunciati di un dialogo
apparentemente senza interlocutori ma che invece ha come interlocutore precisamente il
lettore/spettatore. Proprio questi strumenti dell’armamentario drammaturgico servono
all’autore per istituire un rapporto diretto con il lettore, che viene così posto molto spesso in
una situazione di superiorità cognitiva rispetto ai personaggi stessi. Il lettore può infatti
trovarsi in posizioni diverse rispetto al testo, proprio riguardo al suo grado di
consapevolezza delle vicende rappresentate. I testi possono anche mostrare quell’effetto che
certi trattati e manuali chiamano ironia drammaturgica, in cui il lettore sa cose che i
personaggi non sanno perché precedentemente nell’intreccio è venuto a conoscenza di
notizie o fatti che i personaggi della scena che si sta sviluppando non conoscono. Questi
espedienti drammaturgici servono a ricordarci che un testo non può e non deve dire tutto,
ma ha bisogno dell’intervento interpretativo del lettore per raggiungere compiutamente il
suo scopo. Questo intervento sarà necessariamente diverso a seconda della cultura, della
sensibilità, della capacità interpretativa di ogni lettore, e questo permetterà al testo di essere
letto a livelli diversi e sotto angolature differenti. Cosa che rende un testo drammaturgico
passibile di interpretazioni molteplici e anche molto differenziate, sia in fase di lettura sia in
fase di messa in scena. Per questo è necessario che il lettore consapevole sia in grado di
integrare al testo un suo sottotesto, ossia una complessità ulteriore di significati che nel testo
non sono espliciti. Un livello minimale di sottotesto è fornito dalle didascalie, quando
forniscono un contesto esplicativo alle battute, indirizzandone la comprensione. Ma il
sottotesto può e deve funzionare anche su un piano più generale, quando si tratta di
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(te.criscuolo@studenti.unina.it) estrarre ed interpretare dei significati che il testo non
esplicita o che addirittura tenta di nascondere.

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