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Storia del teatro e dello spettacolo (1a parte)

Prof.ssa Caterina Pagnini


(A.A. 2022-2023)

Appunti integrati e annotati a cura di


Cercofans

Fonti
Sulla storia dello spettacolo antico non abbiamo fonti specifiche. Bisogna ricorrere a fonti
indirette.
Per il teatro greco, la pittura vascolare (la decorazione dei vasi) è quella che ci dà
maggiori informazioni. Dato che i vasi erano di uso comune, il fatto di trovarvi
rappresentate figure di attori e scene di arti performative, conferma che il teatro era
considerato importante nella vita di tutti i giorni.
Un celebre esempio è il vaso di Prónomos (esposto al Museo Archeologico di Napoli),
che rappresenta attori, danzatori e musici dopo uno spettacolo (cfr MAZZONI, p. 94-95)1.
Si vedono maschere portate in mano (solo una è indossata da un coreuta, in veste di
satiro, che sta danzando) e strumenti musicali come l’aulós (strumento a fiato ad ancia,
spesso raffigurato come doppio aulós) e la cetra. Una scritta indica come si chiamava
l’auleta: Prónomos, da cui viene il nome del vaso.
Abbiamo poi le fonti monumentali: gli edifici teatrali. Anche la scultura greca può essere
una fonte interessante. Ad esempio, i bassorilievi e le statue del Museo Nazionale di Atene
in gran parte raffigurano azioni performative, a conferma dell’importanza rivestita dallo
spettacolo nella cultura greca antica.
I testi teatrali antichi purtroppo non sono una fonte sulla spettacolarità, infatti nulla dicono
della materialità dello spettacolo. Solo a partire dal Quattro-Cinquecento, infatti, troviamo
testi teatrali con didascalie che danno indicazioni di scena.
Tra le fonti letterarie di particolare interesse è la “Poetica” di Aristotele (vedi sotto).

Il teatro e la polis
La società greca era basata sul concetto di democrazia (con le dovute eccezioni, cfr
Sparta). Il cuore di questa idea politica era la polis. Ogni polis era una città-stato, aveva un
suo governo che agiva (almeno idealmente) tendendo a rappresentare tutti i cittadini.
L’agorà era il centro politico della polis, dove tutti i cittadini potevano discutere
liberamente. Alla base della democrazia c’era l’istruzione, che doveva essere accessibile
a tutti e incrementata con tutti i mezzi possibili. Uno di questi era il teatro.
Il teatro è la base della divulgazione dell’istruzione. Con lo strumento potente della visione,
i cittadini erano educati ai principi della società civile. Quindi il teatro greco non era mero
intrattenimento, ma un momento collettivo di educazione civile.
Le rappresentazioni teatrali erano fatte in concomitanza con momenti forti dell’anno, in
particolare in marzo-aprile, quando si svolgevano le Grandi Dionisie, feste dedicate a
Dioniso, dio del teatro. In questa occasione, i cittadini dovevano spostarsi dalla città,
compiendo una sorta di processione, verso la campagna dove erano collocati i teatri.
Questi erano distanti dalla città, completamente inseriti nel contesto naturale. Il motivo è
che l’abbandono delle occupazioni quotidiane e il viaggio collettivo immergendosi nella
natura era un momento di preparazione a un’esperienza speciale. Niente doveva ricordare
gli impegni della quotidianità.

1 Da qui in avanti, per le fonti iconogra che, si fa riferimento al volume di Stefano Mazzoni, Atlante
iconogra co, Titivillus 2003.
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Le rappresentazioni teatrali avevano carattere competitivo. Gli autori in gara presentavano
una tetralogia, composta da tre tragedie e un dramma satiresco. C’erano anche concorsi
di commedia. Le rappresentazioni andavano avanti per giornate intere.
La scena (skené) era essenziale, inizialmente assente (venne introdotta come spogliatoio
per gli attori e solo in seguito fu decorata e usata come elemento scenico, ndr). La
scenografia era costituita dal panorama naturale.
L’attore declamava un testo poetico di altissimo livello, rimanendo fermo su una pedana di
dimensioni ridotte. Non potevano esserci molti attori in scena. Eschilo fu il primo a portare
gli attori da uno a due, Sofocle introdusse il terzo attore e la decorazione della scena (cfr
Poetica, 4). Gli attori - specialmente se erano più di uno - non avevano molto spazio
d’azione e dovevano limitarsi a usare la voce.
Molto più ampia era l’orkhéstra, lo spazio - dapprima trapezioidale e poi circolare - in cui
agiva il coro. Il nome “orchestra” ha a che fare con la danza (orkhéomai: danzo). Ai lati
dell’orchestra c’erano corridoi (párodoi) di entrata e uscita usati dal coro. Il coro era un
personaggio collettivo (composto da 12-24 persone) che aveva un compito non solo
performativo (danzava) ma declamava anche versi, come un unico personaggio.
Gli attori, come già detto, non avevano molta libertà di movimento. Specialmente i tragici
calzavano coturni, sandali con delle zeppe che ne aumentavano la statura ma ne
limitavano di molto i movimenti.
Attori e coreuti indossavano delle maschere. Sulla funzione della maschera si è molto
discusso. Non serviva ad aumentare il volume della voce, semmai a modificarne il suono.
L’acustica era assicurata dalla struttura del teatro. Esemplare, da questo punto di vista, è il
teatro di Epidauro, teatro in muratura del IV secolo a.C., dove la voce dell’attore si sente
perfettamente in vetta alla cavea come dalla prima fila (cfr MAZZONI, p. 90).
Molto più probabilmente la funzione principale della maschera era di far scomparire
l’identità dell’attore, nascondendone il volto. Gli attori erano dilettanti, cittadini che avevano
un ruolo pubblico, erano conosciuti nella quotidianità e quindi dovevano rendersi
irriconoscibili. Inoltre, le maschere potevano essere usate dallo stesso attore per
interpretare più personaggi.
Si trattava di un teatro di parola, intellettuale. Gli attori, dovendo restare fermi in scena,
dovevano avere una grande capacità nell’uso della voce, una grande musicalità nel
recitare versi. Erano accompagnati da strumenti musicali a fiato (tipicamente l’aulós) e a
corda (la cetra).
Gli spettatori sedevano nel kóilon, o théatron (in latino cavea), cioè su gradinate
trapezioidali o semicircolari (a seconda della forma dell’orchestra). Anticamente costruite
in legno, sfruttando il declivio di una collina, poi - dal IV secolo a.C. - in pietra.
Lo spettatore interagiva dal punto di vista emozionale, entrando in consonanza con le
emozioni trasmesse dagli attori e dagli altri spettatori intorno a lui. Si trattava di un forte
momento comunitario, una grande esperienza catartica collettiva (cfr il concetto di catarsi
secondo Aristotele).

La Poetica di Aristotele
Una tragedia efficace produce la catarsi (purificazione interiore). Non è un effetto
automatico. Secondo Aristotele, questa efficacia dipende in primo luogo dal lavoro del
poeta: “l’efficacia della tragedia infatti si conserva anche senza la rappresentazione e
senza gli attori” (Poetica 6). Insomma, la tragedia funziona anche se viene letta in
solitudine.
In effetti, Aristotele nella Poetica non si occupa della spettacolarità, la sua è una riflessione
sulla poesia narrativa, che egli suddivide in poesia rappresentativa (tragedia, commedia)
e poesia epica o della storia (cfr i poemi omerici). La parte che qui più ci interessa è
quella relativa alla poesia rappresentativa, di cui Aristotele tratta nei capitoli 1-19.
L’intenzione di Aristotele non era quella di imporre delle regole. La sua è una riflessione
libera. Saranno gli umanisti del ’400 a dare a questo testo un valore prescrittivo,
estraendone delle regole fisse di scrittura teatrale. NB: Le famose tre “unità aristoteliche”
(d’azione, di tempo e di luogo) non si trovano come tali nella Poetica, sono un’invenzione
degli umanisti.
Gli umanisti del ’400 portarono avanti un recupero degli autori antichi, traducendo le opere
greche in latino o in volgare. Inizialmente queste opere vengono riproposte nella loro
letteralità, poi vengono riadattate. La Poetica di Aristotele è un caso particolare perché fin
dagli inizi viene rielaborata.
Nell’Umanesimo si iniziano a scrivere trattati che danno una struttura scientifica alle varie
discipline. Per i trattati sulla scienza teatrale si utilizza la Poetica di Aristotele e ad essa si
ispirano delle regole che in origine non c’erano.
Aristotele, nella Poetica, introduce due concetti fondamentali: quello di mimesi e quello di
catarsi.
La mimesi, ovvero l’imitazione, è la capacità di riprodurre fedelmente qualcosa. Secondo
Aristotele, la poesia deve imitare la realtà. Questo perché il suo scopo è quello di educare,
di dare un insegnamento e le conoscenze, fin dalla prima infanzia, si acquisiscono per
imitazione (Poetica, 4).
Aristotele nota che la poesia epica ha un arco temporale amplissimo, che la rende non
rappresentabile… Invece la poesia rappresentativa, per necessità, deve avere un arco
temporale ridotto. Scrive: “Mentre la tragedia cerca di restare nell’ambito di una sola
giornata, o di superarlo di poco, l’epica diversa perché indeterminata nel tempo”
(Poetica, 5).
Un’altra caratteristica della poesia rappresentativa è quella di imitare persone in azione
(dram: azione). In base alla qualità delle persone imitate, si distinguono la tragedia
(persone serie) e la commedia (persone dappoco). Aristotele ritiene la tragedia superiore
alla commedia. Dato che non ci si può immedesimare in una persona peggiore di noi, la
commedia non porta alla catarsi. Il riso è una cosa stolta. Di conseguenza In un celebre
passo della Poetica annuncia “della commedia parlerò in seguito” (Poetica, 6), ma poi non
ne parla… Questa parte è forse andata perduta? Più probabilmente non è mai stata
scritta, proprio perché Aristotele le attribuiva scarso valore.
La tragedia, secondo la definizione di Aristotele, è “imitazione di un’azione seria e
compiuta, avente una sua grandezza, in un linguaggio condito di ornamenti, di persone
che agiscono e non tramite una narrazione, che attraverso la pietà e la paura produce la
purificazione di questi sentimenti” (Poetica, 6).
Al centro della tragedia c’è un evento traumatico che porta a uno svolgimento e a una fine
tragica. Attraverso la pietà e la paura ispirati da questi eventi avviene la catarsi, la
purificazione interiore.
Secondo Aristotele la paura e la pietà non possono essere suscitate da un personaggio
troppo perfetto che cade in disgrazia (questo ripugna al senso morale), né da un
personaggio malvagio che passa dalla sfortuna alla fortuna o viceversa (cose che non
suscitano né paura né pietà), ma si deve rappresentare un personaggio intermedio, simile
allo spettatore, che cade nella sfortuna non per vizio o malvagità, ma per qualche “errore”
(Poetica, 13). Questo suscita paura e pietà.
La paura e la pietà, scrive Aristotele, possono essere suscitate anche per effetto dello
spettacolo (cioè delle cose mostrate in scena) ma una tragedia efficace produce questi
sentimenti semplicemente grazie alla trama, al “sistema degli eventi” (dice Aristotele,
“questo è preferibile”, Poetica, 14).
Gli strumenti che il poeta usa per rendere efficace la trama sono il colpo di scena, che
rovescia i fatti nel loro contrario (peripezia) e il riconoscimento (agnizione). Vi sarebbe
poi il fatto orrendo mostrato in scena (Poetica, 12), ma su quest’ultimo Aristotele non si
sofferma. Nel teatro greco, infatti, si evitava di mostrare i fatti di sangue sulla scena:

questi venivano raccontati e commentati dal coro (o da un messaggero). Oltre a
raccontare il fatto, il coro si muoveva nell’orchestra in modo da catturare emotivamente lo
spettatore. L’enfasi è posta più sull’angoscia interiore che sull’orrore. In questo modo lo
spettatore si immedesima maggiormente nel personaggio (vederlo compiere azioni terribili
potrebbe produrre l’effetto contrario), prova pietà per lui e giunge alla catarsi.

La Medea di Euripide
È una tragedia di straordinaria attualità. Euripide (485 a.C. - 406 a.C) sceglie il
personaggio di Medea attingendo alla mitologia tradizionale ma lo tratta in modo del tutto
originale. Nel mito non c’è la decisione della madre di uccidere i figli: questi venivano
uccisi dai Corinti, o in un’altra versione venivano uccisi dalla stessa Medea ma
accidentalmente. Euripide inventa l’uccisione volontaria dei figli, appesantendo così
una vicenda già di per sé truce. Questa riscrittura risultò tanto efficace da imporsi nella
successiva tradizione del mito.
La tragedia Medea fu rappresentata in occasione delle feste dionisiache del 431 a.C.
Euripide non vinse la gara, ottenne il terzo premio, eppure la sua Medea ebbe un grande
impatto sul pubblico per la sua novità.
Euripide pone al centro della tragedia un unico personaggio principale: Medea. Ci sono
vari interlocutori ma nessuno di pari importanza. Il personaggio che fa da contraltare alla
protagonista è solo il Coro, che rappresenta le donne di Corinto ma anche l’alter ego di
Medea, la sua coscienza. Gli uomini che passano sulla scena (Giasone, Creonte, il
pedagogo, il nunzio…) sono insignificanti.
All’inizio in scena c’è la nutrice, personaggio ricorrente anche nel teatro moderno, che
conosce Medea fin da piccola e l’ha accompagnata fino in Grecia. La scena si svolge 10
anni dopo l’arrivo di Medea a Corinto.
Nella famosa impresa per ottenere il vello d’oro, Giasone si è avvalso dell’aiuto di Medea,
che è arrivata a far uccidere il fratello per amore di Giasone. Come ricompensa, Giasone
la sposa. Così Medea taglia i ponti con la patria e la famiglia per seguire il marito. Ora
però Giasone ha deciso di lasciare Medea per sposare la figlia2 di Creonte re di Corinto.
Creonte decreta l’esilio di Medea e dei suoi due figli, e Giasone non fa nulla per impedirlo,
anzi. La nutrice ci informa della disperazione di Medea per il tradimento subito.
Nel testo viene detto che Medea è una sóphe, sapiente, istruita. Inoltre è straniera, viene
dalla Colchide (l’attuale Georgia), quindi è un occhio esterno che può valutare e
denunciare obiettivamente i disagi della donna in Grecia. Euripide utilizza il mito per
proporre una riflessione sulla situazione della donna nella società greca. Emblematico è il
monologo in cui Medea parla della dote (“Siamo costrette a comprarci un marito”) e
dell’impossibilità di ripudiarlo. L’uomo è più libero, può sempre uscire di casa, mentre la
donna è costretta a rimanere tra le mura domestiche. Se è vero che tocca agli uomini
andare in guerra, questa è preferibile ai dolori del parto, dice Medea. Tutto questo con
espressioni di grande forza e modernità.
Medea è una donna difficile, problematica: viene definita “leonessa”, “sguardo di toro”,
“furente”… Il furore (thymos) è il tratto che caratterizza Medea, che si impone anche sulla
sua indole materna. Euripide fa di Medea un eroe (cfr Achille), che ha subito un torto e
come tale ha diritto alla sua vendetta. Il furor non è rabbia, non è un’emozione
momentanea. Medea sa fin dall’inizio che deve vendicarsi e dialoga col suo furore. Infine
arriva ad uccidere i figli perché, al pari di un eroe, non può sopportare di essere derisa dai
suoi nemici per la sventura che le è capitata. Teme anche di essere condannata a morte
per l’uccisione di Creúsa, e non vuol lasciare i figli a subire la ritorsione e il disprezzo. Ma
l’intento principale nel sopprimere i figli è quello di far soffrire Giasone fino alla morte.

2 Creúsa, che non viene mai nominata.


L’idea che Medea fosse una maga è assente in Euripide. Si tratta di una tradizione che
deriva da Seneca, il quale scrisse una versione latina di questa tragedia. Per Seneca,
Medea agisce in maniera tanto efferata da non poter essere considerata una donna
normale. Per questo la presenta come una maga. Al contrario, in Euripide Medea è una
donna come le altre. Sa maneggiare i veleni: la pharmakéia, l’uso delle erbe come
medicine o come veleno, era una pratica comune nella Grecia dell’epoca. Così anche le
maledizioni, che Medea scaglia, erano una pratica normale nelle culture antiche.
Medea è un intelletto superiore. Manipola gli altri personaggi, conosce la loro psicologia, le
loro debolezze e inganna tutti. Chiede a Creonte un giorno di tempo, prima di andare in
esilio. Creonte non si fida di lei e la vuole esiliare subito. Medea però riesce a convincerlo
e questo decreta la tragedia. Poi Medea inganna anche Giasone, assumendo lo stereotipo
della donna debole, cioè quello che la società e lo stesso Giasone si aspettano da una
donna. Giasone, rassicurato, le concede di restare per un altro giorno e di mandare,
tramite i figli, un dono nuziale a Creúsa: un manto e una corona. Per convincere Giasone,
Medea usa qui un altro stereotipo femminile: quello della vanità femminile. Creúsa
apprezzerà senz’altro un bellissimo vestito e una corona nuova.
L’unico personaggio che Medea non può ingannare è il Coro, a cui deve dire tutto. Di fatto
è la sua coscienza, che cerca di dissuaderla dal compiere il gesto di uccidere i propri figli.
Ma non le dà certo torto sul proposito di vendicarsi di Giasone, eliminando la sua nuova
moglie e il suocero.
Il manto e la corona che Medea invia a Creúsa sono avvelenati. Quando li indossa,
Creúsa prende fuoco e il padre, nel tentativo di salvarla, brucia anche lui. È il coro a
raccontarci questa scena orribile.
Si sentono poi le voci dei bambini che stanno per essere uccisi dalla madre, azione che
non ci viene mostrata ma che viene commentata con disperazione dal Coro. Arriva infine
Giasone in cerca di Medea e viene a sapere dal Coro che la donna ha ucciso i suoi figli.
Giasone vorrebbe vedere i loro corpi ma Medea appare sul soprascena, a bordo del carro
del Sole donatole da Apollo, su cui ha caricato anche i cadaveri dei figli. Medea diviene
così l’immagine della vendetta divina, il deus ex machina.
Giasone si lamenta, la maledice, ed è qui che Medea, rispondendo, esprime il senso della
sua vendetta: “Tu non potrai ridere di me” e “Non è ancora il momento di piangere, pensa
a quando sarai vecchio”. Il coro commenta che a volte gli dei puniscono in maniera
imperscrutabile, ma che la punizione di Giasone è stata giusta.
Questa considerazione positiva riguardo a Medea ovviamente non c’è in Seneca, che
tratta Medea dall’inizio alla fine come un personaggio malvagio, che nel finale non sale sul
carro del Sole ma scompare nel palazzo reale di Corinto in fiamme.

Lo spettacolo nella società romana


Non bisogna pensare alla civiltà romana come successiva a quella greca, in realtà sono
contemporanee. C’è però indubbiamente un grande influsso della cultura greca su quella
romana.
Fonti importanti riguardo al teatro romano sono i monumenti, ad esempio il teatro di
Bosra in Siria, costruito nel II secolo d.C.(cfr MAZZONI, p 116). Tra le fonti letterarie, il De
Architectura di Vitruvio, architetto romano del I secolo a.C., che nel V libro della sua opera,
dà i criteri costruttivi dei teatri, indicando proporzioni e forme geometriche. Vitruvio include
piantine che illustrano l’edificio teatrale.
I teatri romani erano edifici imponenti costruiti in calcestruzzo (opus cementicium).
Elemento caratteristico all’interno dei teatri romani è una scena fissa ed edificata, lo
scenafronte (frons scenae), che consiste in un elemento in muratura a più piani, simile
alla facciata di un palazzo sulla quale si aprono tre porte: una più grande al centro,
denominata porta regia (porta regale) e due laterali, chiamate portae minores (porte
minori). Queste porte immettono sul palcoscenico, che è dotato di un proscenio in legno
che sporge nello spazio dell’orchestra.
L’orchestra è di dimensioni ridotte, ha una forma semicircolare, e non serve più per il coro
ma è riservata ai posti d’onore per gli spettatori (auditorium). Vi si accede attraverso dei
corridoi a volta (versurae). La gran parte del pubblico sedeva nella cavea, che era
semicircolare, e vi accedeva attraverso aperture con corridoi e scale. Vitruvio prevede
anche casse di risonanza, bagni, ecc… Pur non essendoci un tetto, c’era la possibilità di
una copertura tramite velaria, teli in canapa che proteggevano gli spettatori dalle
intemperie o dalla canicola (tecnica in uso sulle navi).
Il teatro romano, a differenza di quello greco, sorgeva nella città, inserito nel contesto
urbano. La sua funzione principale era quella di rappresentare il potere politico (cfr il
teatro di Pompeo, primo teatro in muratura a Roma, 55 a.C.). Per questo doveva essere
imponente, incutere soggezione. “Monumento” viene da monere (ammonire). Durante il
periodo imperiale vennero costruiti numerosi teatri nelle provincie più lontane (dalle Gallie
alla Mauritania) per simboleggiare l’immanenza del potere centrale.
Paradossalmente, questi monumenti maestosi e solenni sono stati costruiti quando la
drammaturgia alta non attirava più il pubblico. Nei teatri di epoca imperiale la tragedia
viene soppiantata dalla pantomima. La pantomima fu introdotta a Roma nel I secolo a.C.
da Pilade e Batillo, entrambi provenienti dall’Asia minore, che divennero veri e propri idoli
del pubblico, divi protetti dai patrizi e con gruppi di fans che si schieravano per l’uno o per
l’altro. Intelligentemente, i due decisero di spartirsi il repertorio: Pilade si specializzò nella
pantomima tragica e Batillo in quella comica…
Lo strumento del mimo è l’uso esclusivo del corpo, compreso il volto. Quindi non usa la
maschera perché esprime i sentimenti e le emozioni anche attraverso le espressioni
facciali. Inoltre, col cambio dei costumi impersona personaggi diversi. Strumenti a
percussione e sonagli enfatizzano i suoi movimenti. Venivano utilizzati anche strumenti a
fiato e a corda. Poteva esserci anche un narratore che all’inizio contestualizzava la storia,
ma la bravura del mimo stava nel riuscire a raccontare tutto con i gesti.
Gli spettacoli più apprezzati però erano gli spettacoli circensi, soprattutto le corse delle
bighe, poi i combattimenti dei gladiatori, i ludi venatori con bestie feroci e le naumachie
(battaglie navali), che si svolgevano nei circhi e negli anfiteatri3. Il loro scopo era quello di
divertire (far divergere l’attenzione dai problemi quotidiani). Trovandosi in città, gli
spettacoli erano fruibili costantemente, a differenza di quelli greci, non erano legati a
periodi specifici dell’anno. Prevalente in ambito romano è l’aspetto visivo e spettacolare
mentre si perde la funzione educativa e comunitaria del teatro greco. Presso i romani, gli
spettacoli erano essenzialmente uno strumento di potere, servivano a distrarre il popolo e
a creare consenso intorno all’imperatore che offriva lo spettacolo alla plebe (panem et
circenses4 usati in modo demagogico).
I tragediografi greci del V secolo a.C. erano considerati dei classici e venivano imitati dagli
autori latini, ma il gusto per la tragedia classica era ormai appannaggio di élite intellettuali.
Un tratto caratteristico che manifesta il mutamento di sensibilità rispetto alla cultura greca,
è la rappresentazione scenica della violenza che, come abbiamo detto, era esclusa dal
teatro greco e che diventa invece elemento ricorrente nella tragedia degli autori romani.
L’unico autore latino del quale ci siano giunte tragedie in modo non frammentario è
Seneca (4 a.C.- 65 d.C.).

3 Gli an teatri si di erenziavano dai teatri perché avevano forma ovale, la cavea era a tutto tondo e al centro
c’era una vasta area coperta di sabbia (arena) dove si svolgevano i giochi. Alcuni an teatri potevano essere
allagati per realizzare battaglie navali (cfr piazza Navona, che originariamente era un an teatro utilizzato per
questo tipo di spettacoli).
4 «Pane e giochi circensi» è un’espressione divenuta proverbiale, contenuta nella Satira X di Giovenale.
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La “VII lettera a Lucilio” di Seneca
Filosofo stoico, Seneca ha un’etica molto elevata e un alto senso della giustizia. Tutore del
futuro imperatore Nerone, quando questi salì al trono si allontanò da lui dopo alcuni anni e
si ritirò a vita privata. Forse implicato in una congiura contro Nerone, Seneca cadde vittima
della repressione dell’imperatore e scelse il suicidio.
Durante il suo ritiro dalla scena politica (62-65 d.C.), Seneca scrisse la sua opera più
celebre: le Lettere morali a Lucilio, un’opera epistolare in cui propone alla meditazione
dell’amico vari temi di natura etica.
Nella Settima lettera mette in guardia Lucilio dall’influsso della folla, che ha un potere di
persuasione, secondo lui, sempre negativo. La massa porta all’omologazione e
all’adattamento verso il basso. Seneca porta l’esempio degli spettacoli circensi, in cui si
impara sempre qualche vizio. “Quando rientro in casa non ho gli stessi costumi di quando
sono uscito”, scrive Seneca. Questo perché mi lascio condizionare dalla massa e finisco
per tradire me stessi, nascondendo la mia personalità per uniformarmi alla massa.
Nei giochi sanguinosi del teatro, si rivelano gli impulsi peggiori dell’umanit , la crudelt e la
violenza incontrollata. Quando c’è da decidere la vita o la morte di un gladiatore, la
folla inneggia e condiziona la decisione. Preso a sé il singolo probabilmente non
oserebbe decretare la morte di un essere umano, ma nella folla la coscienza è
addormentata, il singolo si lascia trascinare e fa quello che non avrebbe mai pensato di
poter arrivare a fare.
Quella di Seneca è una testimonianza importante perché parla degli spettacoli di massa a
lui contemporanei. Gli spettacoli erano usati per persuadere il popolo della potenza
dell’imperatore e della sua generosità nell’offrire giochi circensi (che erano gratuiti, non si
pagava un biglietto). È lo spettacolo del potere, un’idea che sarà ripresa in epoca
moderna.
Ma perché la sofferenza e la morte vengono spettacolarizzate? Servono a esorcizzare la
paura della nostra morte (cfr i passanti che rallentano per vedere le conseguenze di un
incidente). Anche le esecuzioni capitali sono state spesso concepite come spettacoli.
Assistere all’uccisione di un altro serve a scongiurare che questo possa capitare a noi (cfr
quando qualcuno cade e ci scappa da ridere)5.
Sembra paradossale che Seneca, così severo nel condannare la spettacolarizzazione
della violenza, abbia scritto delle tragedie in cui l’elemento del furore e della violenza viene
particolarmente esibito. Indubbiamente anche Seneca era figlio del suo tempo e del suo
ambiente. Bisogna poi tener conto che la tragedia, al tempo di Seneca, non viene più
rappresentata a teatro ma diventa intrattenimento privato, nelle case patrizie, per una
cerchia ristretta di intellettuali, e viene declamata. Le tragedie vengono declamate dagli
stessi patrizi e non da attori professionisti.

L’actor e l’istrione
Chi declama i versi in questo contesto elitario viene detto actor. Il suo compito è quello di
leggere il testo in modo persuasivo. Non usa il corpo: una recitazione professionistica
richiederebbe anche l’aspetto performativo. Invece l’actor si limita a usare la gestualità
delle mani per enfatizzare la parola. Non a caso, questo tipo di spettacoli era frequentato
dagli oratori, dai professionisti del fòro, da coloro cioè che usavano la voce, la parola e la
gestualità per convincere gli altri.
Al tempo stesso, in epoca imperiale, nasce la figura dell’attore professionista, che viene
chiamato istrione (histrio). Questi ha delle competenze acquisite con lo studio che gli
permettono di fornire delle prestazioni che altri non possono offrire. E per queste

5Per approfondire questi aspetti, letture interessanti sono Il riso di Henri Bergson e L’opera di Rabelais e la
cultura popolare di Michail Bachtin.


prestazioni si fa pagare, si mantiene facendo divertire gli altri con le sue capacità
performative. Acrobazie, mimo, musica, canto, racconto di storie, vendita di unguenti
miracolosi rientrano tra le sue competenze. L’istrione è itinerante e si esibisce dove
capita, dove c’è un pubblico. Consideriamo che spostarsi all’epoca era pericoloso, tanto
più che l’istrione si muoveva da solo, non c’era ancora l’idea di “compagnia” (che nasce
con la Commedia dell’arte). Per questo l’offerta di un repertorio ampio e diversificato gli
consentiva di rimanere più a lungo su una stessa piazza, facendo cose diverse. L’istrione
non si vuole specializzare. Cerca di volta in volta di capire quale tipo di spettacolo può
piacere in un certo ambiente e ad un certo pubblico. Un altro concetto fondamentale è
quello di improvvisazione, che richiede una grande preparazione (non vuol dire
“inventare qualcosa sul momento”).
L’istrione romano più famoso, Roscio, lo conosciamo attraverso Catullo e Cicerone, ed era
un vero e proprio divo del II secolo a.C. Ma nella cultura romana emerge già
quell’atteggiamento ambivalente di ammirazione e ripulsa verso gli istrioni, idolatrati per le
loro performance ma emarginati dal punto di vista sociale: essendo girovaghi, non erano
riconosciuti come parte di una comunità, erano considerati anche un po’ inquietanti,
personaggi borderline.
Attrazione e ripulsa accompagnano la figura dei professionisti dello spettacolo. A
peggiorare la situazione, in epoca tardo-antica arriva la polemica cristiana contro gli
spettacoli6. I motivi di questa ostilità erano vari. Alle considerazioni di tipo morale sul
contenuto volgare e violento degli spettacoli, condivise anche da filosofi come Seneca,
si aggiungono argomenti che riguardano la natura stessa dello spettacolo: da una parte
il legame del teatro con le divinità pagane (Dioniso, Venere), per cui il teatro viene
equiparato all’idolatria, e dall’altra la natura essenzialmente visiva degli spettacoli di
ambiente latino, a cui mancava la mediazione del logos, per cui attraverso gli occhi
(incertos oculos) l’anima veniva più facilmente corrotta e inquinata dal vizio7. A questo
aspetto si ricollega una delle accuse che tornerà costantemente nella polemica anti-
teatrale anche nei secoli successivi: l’esposizione del proprio corpo per ricavarne un
guadagno viene equiparata alla prostituzione8.

La spettacolarità medievale
La figura dell’istrione rimane pressoché inalterata nel passaggio dall’età antica al
Medioevo mentre il contesto dello spettacolo si sfascia, per rigenerarsi in forme nuove. Il
graduale disfacimento dell’impero romano porta alla scomparsa della concezione dei
monumenti come segno dell’immanenza del potere centrale di Roma.
Con la caduta dell’impero romano d’occidente (476 d.C.) i teatri rimangono monumenti
vuoti e inutilizzati oppure destinati ad altro uso. Sopravvive la spettacolarità non
istituzionale, che in epoca imperiale era sommersa, “offuscata” da quella istituzionale,
l’unica ad essere storicizzata e tramandata. Tuttavia, sebbene le fonti ne parlino di rado,
esistevano riti ancestrali e una spettacolarità popolare molto presente (Apuleio nell’Asino
d’oro parla delle sfilate dei carri di carnevale, carrus navalis). È questa spettacolarità

6Testo di riferimento anche per gli scrittori ecclesiastici dei secoli successivi sarà il De Spectaculis di
Tertulliano (160-220 ca.).
7Celebre il passo delle “Confessioni” (VI,8) in cui Agostino racconta di Alipio, che trascinato dagli amici a
uno spettacolo di gladiatori, teneva gli occhi chiusi per non vedere il sangue ma quando li aprì, a causa di
un boato della folla, rimase tanto soggiogato da ciò che vide da diventare un appassionato di questo
genere di spettacoli “e erati e funesti”.
8 Un altro motivo di sospetto era l’uso stravolto del corpo e l’assunzione di un’altra personalità, talvolta con
l’uso di un linguaggio incomprensibile, che assimilava l’istrione all’indemoniato.
ff
popolare che rimane e prosegue mentre quella istituzionale decade. Va considerata
superata la storiografia che parla di una “scomparsa” e “ricomparsa” di questi spettacoli
con la Commedia dell’arte. In realtà ci sono sempre stati.
I contemporanei non sapevano come chiamare gli istrioni perché facevano un po’ di tutto.
Facevano cose che gli altri non sapevano o non potevano fare. Noi chiameremo queste
figure “istrioni” o “performer”. È da evitare il termine “giullare”, che rimanda al solo aspetto
della giocoleria (“giullare” viene dal latino “jocularis”, giocoliere, ndr). Al contrario, la non
specializzazione, il saper fare un po’ di tutto, è una caratteristica principale degli istrioni,
insieme al fatto di offrire queste prestazioni a pagamento. La nascita di vari piccoli centri,
intorno all’abbazia, al castello, ecc… stimola l’itineranza, altra caratteristica fondamentale
dell’istrione.
Nel Medioevo non ci sono fonti di alto livello sull’attività degli istrioni, e se ci sono, sono
ostili. Sugli istrioni pesava la condanna della Chiesa, che aveva ereditato dall’epoca
patristica la polemica contro gli spettacoli, che riecheggia nei canoni dei concili regionali e
nelle polemiche degli scrittori ecclesiastici, spesso con riferimenti assai specifici.
Si nota tuttavia, nella pratica, un’ambivalenza da parte del potere ecclesiastico nei
confronti degli istrioni, chiamati talvolta ad esibirsi in contesti e luoghi religiosi come
strumento di comunicazione col popolo. La comunicatività dell’istrione, infatti, come le
decorazioni pittoriche e plastiche delle chiese, poteva diventare una Biblia pauperum, un
ausilio per illustrare visivamente i misteri della fede al popolo analfabeta. In alcuni casi gli
istrioni si esibivano in chiesa, soprattutto come musici.
D’altra parte, gli stessi ecclesiastici che uscivano nelle piazze per predicare, potevano
usare alcune tecniche proprie degli istrioni per attirare l’attenzione della gente. Nel XIII
secolo nascono gli Ordini mendicanti, con l’intento di avvicinare il Vangelo al popolo.
Francesco d’Assisi, fondatore dei Frati minori, pratica l’itineranza, punta sulla predicazione
in lingua volgare, anche mediante il canto (cfr il Cantico delle Creature). I misteri della fede
sono spiegati e anche rappresentati: ricordiamo che San Francesco è considerato
l’inventore del presepe (allestì il primo presepe vivente a Greccio nel 1223). A sua volta, il
Santo d’Assisi usava la performatività, era un vero e proprio istrione.
Dato che l’istrione non ha uno spazio teatrale dove esibirsi, tutto il territorio può diventare
luogo teatrale, basta avere la capacità di coinvolgere gente, di attirare spettatori. Quindi,
luogo teatrale si definisce uno spazio con uno specifico utilizzo (piazza del mercato,
sagrato della chiesa…) che temporaneamente diventa luogo della rappresentazione. Ma
l’istrione poteva essere invitato anche al castello dai nobili. In questo caso era la sala del
banchetto diventare luogo teatrale. Chi organizzava un banchetto metteva in mostra la
propria ricchezza, i pasti duravano ore, per cui gli ospiti dovevano essere intrattenuti e per
questo si invitavano gli istrioni.
A partire dal XIII secolo, quando il potere si consolida e si struttura all’interno delle corti,
l’istrione entra a far parte stabilmente del personale di servizio. Con la sicurezza dello
stipendio e del posto fisso, l’istrione acquisisce una posizione sociale e tendono a
specializzarsi come musico o poeta di corte. Queste nuove figure definiscono il proprio
status in contrasto con quello dei giullari, saltimbanchi, cantori di versi altrui, ciarlatani e
altri tipi di istrioni che continuano ad esibirsi sulle piazze in contesti popolari.
In tutta Europa quindi si moltiplicano i luoghi teatrali: gli spettacoli si fanno nei giardini,
nelle sale dei banchetti o delle udienze, all’ombra delle chiese… Gli studiosi (come Luigi
Allegri) parlano di spettacolarità diffusa, che prosegue fin oltre la metà del Cinquecento.
Questa diffusività, come abbiamo visto, riguarda non solo gli spazi usati per lo spettacolo
ma anche la commistione tra sacro e profano. È una visione superata quella che separa
nettamente spettacolarità religiosa e laica nel Medioevo.
Le rappresentazioni sacre
Una fonte iconografica cinquecentesca, la Passion de Valenciennes (1547), ci mostra
come funzionava la messa in scena delle rappresentazioni sacre (cfr MAZZONI, p 151). I
nuclei tematici derivavano dalla letteratura religiosa: soprattutto la Passione di Cristo o gli
atti dei martiri. Si svolgevano in piazza ed erano quasi tutte in lingua volgare. Il fulcro era
la performatività: rappresentare visivamente certe scene. Questo accento sulla visione è
un’eredità che viene della spettacolarità romana.
La fonte iconografica di Valenciennes mostra sulla scena diversi luoghi deputati (o
mansiones) dove dovevano avvenire specifiche scene. Gli estremi sono l’inferno, col
fuoco, gli esseri infernali, e il paradiso con le luci, gli angeli, ecc… Tra questi due estremi,
ci sono altri luoghi attraverso i quali si muovevano gli attori. Anche gli spettatori dovevano
muoversi per seguire l’azione. La disposizione dei luoghi in questa fonte iconografica è
lineare. Non sappiamo però se i luoghi deputati fossero disposti in linea retta o più
probabilmente in cerchio, in modo che il pubblico potesse vedere meglio tutti i punti.
All’interno di queste rappresentazioni sacre, gli istrioni facevano il loro lavoro, non
propriamente devoto. Vediamo l’immagine di una rappresentazione del martirio di S.
Apollonia, tratta dal Libro d’Ore di Estienne Chevalier (cfr MAZZONI, p 149). Al centro c’è
la scena del martirio, e lì accanto un tizio con un mantello blu, bacchetta e libro che dirige.
Sullo sfondo si vedono anche dei musicisti con strumenti a fiato. L’uomo col mantello blu
probabilmente ha il compito di dare i tempi della musica, dell’azione e funge anche da
suggeritore, dato che in queste rappresentazioni sacre erano coinvolti figuranti non
professionisti. C’è però anche l’istrione, sulla sinistra, che fa vedere il fondoschiena. Torna
il tema della dissacrazione della morte e della sofferenza (cfr il carnevale), il tentativo di
esorcizzare gli aspetti tragici della vita. Sacro e profano sono mischiati.
Un’altra fonte iconografica, del 1440, dal manoscritto di una morality play9 intitolata Il
castello della Perseveranza (The Castle of Perseverance), rappresenta uno spazio
teatrale circolare. Lo spazio è delimitato da un fossato. Al centro c’è il castello della
Perseveranza. Intorno, ci sono altri luoghi deputati, delle edicole disposte sui punti
cardinali, indicanti Dio, Belial, il Mondo, la Carne, la Cupidigia. Il pubblico si muoveva
all’interno del cerchio, senza però intralciare la scena.

Gli “ingegni” di Filippo Brunelleschi


Filippo Brunelleschi (1377-1446) era architetto - figura che includeva anche le
competenze dell’ingegnere -, scultore e orafo, artista mediceo quando i Medici non erano
ancora i granduchi della città. Firenze era una repubblica dominata da un’oligarchia di
famiglie. I Medici non erano nobili, erano commercianti divenuti banchieri ed erano
divenuti i più ricchi di tutti. Cosimo il Vecchio e, dopo di lui, Lorenzo il Magnifico, intuirono
le potenzialità dello spettacolo come veicolo di consenso e potere. Per non suscitare
invidie e malumori da parte delle altre famiglie, comprendono che il modo migliore era
finanziare feste popolari preesistenti come la Cavalcata dei Magi, resa celebre da
Benozzo Gozzoli nell’affresco della cappella di palazzo Medici in via Larga (oggi Medici
Riccardi).
Nel 1439 il Brunelleschi venne chiamato da Cosimo il Vecchio ad allestire una
rappresentazione sacra dell’Annunciazione, in occasione della festa del 25 marzo
(Capodanno fiorentino), nella chiesa di San Felice in Piazza, che era gestita dalla
Compagnia dell’Orciuolo. San Felice è una chiesa piccola, che si sviluppa in altezza.
Brunelleschi, sommo architetto, sfruttò le caratteristiche dell’edificio senza snaturarle,
secondo il principio, enunciato poi dal suo allievo Sebastiano Serlio, per cui l’architetto
deve “servire lo spazio” e non stravolgerlo.

9 Così si chiamavano le rappresentazioni sacre in Inghilterra. Un’altra tipologia erano i Pageants, che si
svolgevano su carri, luoghi teatrali itineranti.
Brunelleschi inventa una meravigliosa struttura a forma di cupola e per realizzarla usa le
macchine e maestranze che stava utilizzando per la cupola di S. Maria del Fiore. La scena
è divisa in tre livelli. Nel livello basso è presente l’edicola che rappresenta la casa della
Vergine Maria, impersonata da un figurante. Il livello più alto rappresenta il paradiso,
circolare, con al centro la figura immobile di Dio, circondato da cerchi di bambini che fanno
gli angioletti. Da sotto il palcoscenico alto si diparte una cupola mobile che discende, a
significare il cielo che scende verso la terra. Dalla cupola, mediante un argano, viene
calata una mandorla che trasporta il figurante che interpreta l’Arcangelo Gabriele (cfr
MAZZONI, p. 146-148).
Gli argani e le altre macchine sono nascosti alla vista del pubblico da un pannello
raffigurante il cielo. Il meccanismo a scorrimento verticale, usato per far discendere la
mandorla, diventerà comune nella scenografia teatrale, ad esempio per rappresentare il
sorgere e tramontare del sole.
L’Arcangelo raggiunge Maria, fa l’annuncio e poi torna in cielo. L’elemento visivo è
preponderante. I rumori delle macchine erano probabilmente coperti dalla musica. Tutto
doveva svolgersi in perfetta sincronia, sotto una direzione sapiente.
L’immagine del cielo e della terra che Brunelleschi propone nell’allestimento di S. Felice in
Piazza si rifà alla Divina Commedia di Dante (il cielo circolare, i cerchi concentrici…). Si
tratta di un immaginario che viene ripreso infinite volte dagli artisti, anche in opere
pittoriche (cfr la Chiesa militante del Bonaiuti, il Giudizio universale del Beato Angelico o il
suo Cristo Giudice a Orvieto, la Natività mistica di Botticelli…).
Gli stessi “ingegni” del Brunelleschi hanno avuto un influsso sull’iconografia coeva: si veda
l’illustrazione tratta dal libro di Feo Belcari (1410-1484), in cui si vedono chiaramente il
cielo a cupola e la mandorla che ne discende (cfr MAZZONI, p. 144).
Nel 1533 la macchina dell’Annunciazione smise di essere utilizzata nella chiesa di S.
Felice in Piazza quando questa passò dai monaci camaldolesi alle monache domenicane.
La macchina del Brunelleschi fu rimossa da S. Felice e conservata in un magazzino nei
pressi del chiostro della chiesa del Carmine, dove Giorgio Vasari (1511-1574) la prelevò,
insieme ad altri ingegni teatrali, per restaurarla e utilizzarla nella festa dell’Annunciazione
del 1566 nella chiesa di S. Spirito. In questa occasione Vasari scrisse una descrizione
dello spettacolo così come immaginava che fosse stato, un secolo prima, quello del
Brunelleschi.
La memoria degli apparati teatrali del Brunelleschi è stata rievocata in una famosa
esposizione del 1975 dal titolo “Il luogo teatrale a Firenze”, curata da Ludovico Zorzi.
Allora furono esposti dei modellini che riproducono le scenografie ideate dal Brunelleschi,
modellini oggi conservati nelle scuderie del Buontalenti a Pratolino.
Il 1439 è anche l’anno in cui viene trasferito a Firenze il Concilio di Basilea, che ancor
prima era stato spostato a Ferrara. Cosimo il Vecchio aveva fatto di tutto perché questo
importante evento si tenesse nella sua città. A questo Concilio partecipavano anche i
greci, dato che esso mirava a riunificare la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse,
ricomponendo lo scisma del 1054. Il dibattito dogmatico si concentrava sulla questione del
“Filioque”. La presenza di intellettuali greci a Firenze fu uno stimolo anche per la riscoperta
umanistica dei classici greci.
Ai padri conciliari Cosimo il Vecchio offrì un’altra sontuosa rappresentazione
dell’Annunciazione, stavolta nella chiesa di San Marco (cfr MAZZONI, p. 142)10, che
era la chiesa di famiglia dei Medici. Qui venne allestita la rappresentazione sacra, con uno
sviluppo orizzontale. Brunelleschi realizza due edicole su lati opposti della chiesa. Una, più

10 Prima della scoperta del documento in cui un letterato greco riferisce che tale rappresentazione si tenne
in San Marco, si credeva che questa si fosse svolta nella chiesa della SS. Annunziata. Questo errore era
ancora presente nella prima edizione del libro Il teatro nella Firenze Medicea di Sara Mamone, poi corretto.
La scoperta del documento in questione si deve a un’allieva della Mamone, Paola Ventrone.
rialzata, che rappresenta il Paradiso, sopra l’ingresso della chiesa, l’altra, che rappresenta
la camera della Madonna sul tramezzo del presbiterio. Le due edicole sono collegate da
funi, sulle quali l’Arcangelo, mediante una carrucola, attraversa in volo la navata passando
sopra la testa degli spettatori. Su una delle funi scende anche la colomba dello Spirito
Santo, accompagnata da fuochi d’artificio. Anche qui la rappresentazione è
eminentemente visiva. L’uso di sipari accentuava l’illusionismo teatrale, nascondendo e
scoprendo a tempo opportuno i luoghi deputati.
Brunelleschi allestì anche una rappresentazione dell’Ascensione nella chiesa del Carmine.

L’uso della prospettiva


Chi codifica in maniera scientifica la prospettiva è Leon Battista Alberti nel trattato De
Pictura (1435). Alberti riconosce però al Brunelleschi il primato della riscoperta e la
riproposizione su basi scientifiche della prospettiva. È stata ritrovata una tavola in cui il
Brunelleschi illustra come funziona la prospettiva tenendo conto della posizione
dell’osservatore. La resa tridimensionale della profondità scaturisce da un punto di vista
ben preciso, il punto di vista da cui dipende il punto di fuga verso cui convergono tutte le
linee. L’uomo così diventa il punto di partenza della prospettiva, in sintonia con la visione
della centralità dell’uomo tipica dell’Umanesimo: cfr l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci.
Gli antichi avevano usato diversi espedienti per rappresentare la tridimensionalità. Poi, nel
Medioevo si era perso interesse per la raffigurazione realistica dei corpi, per influsso
dell’icona bizantina: le figure dei santi erano statiche, incorporee, su uno sfondo dorato,
dovevano introdurre l’osservatore in una dimensione trascendente.
I pittori del Trecento, ad es. Giotto e Ambrogio Lorenzetti, cominciano a raffigurare la
prospettiva limitandosi alle architetture, agli spazi che fanno da sfondo. Le figure umane
non hanno ancora volume e i lineamenti sono stilizzati.
Il tentativo di mettere in prospettiva anche le figure umane, applicando la regola del punto
di vista si ha con Masaccio (cfr la Trinità di S. Maria Novella). La raffigurazione
tridimensionale dei corpi nello spazio viene in seguito perfezionata: cfr Piero della
Francesca, il Ghirlandaio, Raffaello… L’apoteosi della raffigurazione della corporeità si ha
con Michelangelo (molto influirono sugli artisti del Rinascimento gli studi anatomici sul
corpo umano, anche mediante la dissezione di cadaveri).
La tecnica della prospettiva basata sul punto di vista dell’osservatore, elaborata dal
Brunelleschi, diventa essenziale nelle scenografie teatrali di corte. Qui il punto di vista è
gerarchico. È il punto di vista del principe che idealmente crea la scena. Lo spettacolo è
un’emanazione del suo sguardo. La scena è organizzata in modo che la visuale sia
perfetta dal luogo dove si trova il principe. Gli altri spettatori sono collocati in posizioni
decentrate, vedono sempre peggio man mano che ci si allontana dal punto di vista
privilegiato.
Il teatro si lega sempre più al potere e gli architetti di corte sono al servizio della
manifestazione del potere da parte della famiglia regnante11.

I tre tipi di scenografia


Nell’ottavo capitolo del V libro del De Architectura, Vitruvio parlava di tre tipi di scene
teatrali, a seconda del genere di spettacolo. La scena tragica, caratterizzata da edifici
nobili, colonne, elementi monumentali; la scena comica, che rappresenta invece edifici
ordinari, logge, finestre…; e la scena satirica (o boschereccia) che riproduce elementi
naturali, grotte, alberi… (cfr MAZZONI, p. 197 e 199).

11Michelangelo morì a Roma, mentre lavorava alla corte papale, ma i Medici vollero che i funerali fossero
celebrati a Firenze, perché era un artista “loro”. Rendendo onore al grande artista si celebravano i fasti della
famiglia che l’aveva protetto.
La stessa tripartizione viene ripresa da Sebastiano Serlio (1475-1554) nel suo Secondo
libro di architettura (1545). Serlio traspone Vitruvio in modo moderno, attualizzando il
trattato sull’architettura alle esigenze del suo tempo. Il suo è un manuale per architetti, più
pratico che teorico. In effetti, il Cinquecento è il secolo della “manualizzazione”, c’è un
passaggio alla praticità rispetto alle teorizzazioni quattrocentesche. Serlio parte proprio
dalle basi: nel primo libro fornisce nozioni elementari di geometria, parte dal punto e dalla
linea. Il secondo libro analizza lo spazio prospettico e, in questo contesto, tratta anche
della scenografia: il fondale, l’importanza del pavimento disegnato in prospettiva, le quinte
utilizzate per dare profondità laterale, poste in diagonale per rendere più realistica la
tridimensionalità.
Nei tre tipi di scene, inoltre, introduce elementi praticabili (un terrazzino nella scena
comica, una capanna nella scena boschereccia…), per aumentare il senso di
stupefazione. Gli attori non entrano solo dai lati ma anche dall’interno degli elementi stessi
della scenografia.
Il recupero del De Architectura di Vitruvio (I secolo a.C.) ad opera di Sebastiano Serlio,
porta alla graduale riscoperta dell’edificio teatrale, prima come sala adibita
esclusivamente agli spettacoli, poi come edificio a se stante.
Momenti di spettacolo popolare erano gli ingressi in città di personaggi illustri, la già citata
Cavalcata dei Magi per l’Epifania, i cortei matrimoniali, funebri, ecc… Ma oltre al consenso
del popolo serviva quello delle élite. Per questo, nel Cinquecento, vengono allestite delle
sale all’interno dei palazzi medicei (a palazzo Vecchio, agli Uffizi…) per rappresentarvi
spettacoli teatrali. Così lo spettacolo si privatizza, diventa elitario: è il principe che lo offre
agli ospiti illustri. Non tutti possono entrare a palazzo per assistere a queste
rappresentazioni. Tuttavia, in questo periodo si sperimenta molto: è proprio all’interno delle
corti che, per due secoli, la tecnica e la scenografia si perfezionano.

Il cortile di palazzo Medici


Dopo l’assassinio del duca Alessandro de’ Medici, nel 1537, le famiglie più importanti di
Firenze chiedono a Cosimo, figlio di Giovanni dalle Bande Nere e Maria Salviati, di
ristabilire l’ordine e di proseguire il governo oligarchico repubblicano. Cosimo, con un
colpo di stato, prende il potere assoluto e diviene il granduca Cosimo I.
Il Granducato di Toscana si trova ora a competere con principati e monarchie più potenti, a
livello italiano ed europeo. Cosimo I ha bisogno di legittimarsi e per questo realizza un
matrimonio vantaggioso. Sposa la ricchissima Eleonora di Toledo, figlia del viceré di
Napoli. Instaura così un’alleanza per via matrimoniale con la Spagna.
Per legittimarsi agli occhi delle corti estere, i Medici si sono “inventati” la meritocrazia: pur
non essendo nobile per sangue, sei degno di essere equiparato ai nobili per le tue gesta.
Così adottano il mito di Ercole, semidio che viene accolto nell’Olimpo grazie alle fatiche
che ha saputo superare. L’idea è che se sei un uomo di valore, puoi diventare una divinità,
come Ercole. Dietro questa idea c’è la dottrina del greco Evemero (IV-III secolo a.C.) per
cui all'origine degli dei ci sarebbero personalità eccezionali giunte ad attribuirsi natura e
adorazione divina (evemerismo). C’è poi una possibile lettura cristiana, che si basa sui
meriti di Cristo come uomo che hanno portato la sua umanità ad essere assunta nella
sfera divina.
Cosimo I porta a compimento le idee di Cosimo il Vecchio riguardo al buon cittadino, che
distinguendosi può assurgere al governo della città, e di Lorenzo il Magnifico riguardo alla
creazione del mito mediceo. Gli eventi della famiglia - nascite, matrimoni, funerali -
diventano occasione per offrire uno spettacolo che ne manifesta la gloria.
Il matrimonio tra Cosimo I ed Eleonora di Toledo (1539) viene celebrato con cicli festivi
molto lunghi ed eventi fastosi, ma il fulcro di tutto è lo spettacolo a corte, con cui il potere
si esterna: lo spettacolo del Principe. La prima residenza di Cosimo I, palazzo Medici in via
Larga, è dotato di un cortile esterno che viene adibito a sala teatrale, e viene trasformato
in uno spazio chiuso. Cosimo affida all’architetto Bastiano da Sangallo questo
allestimento (cfr MAZZONI, p. 193). Il soffitto viene ricreato con strisce di tela tese, sul
modello dei velaria di cui parla Vitruvio. Le pareti esterne vengono coperte da teli dipinti,
con elementi architettonici interni: colonne, porte… per ricreare uno spazio “interno”.
Su un lato del cortile è costruito il palco, dove si rappresenta la commedia Il Commodo di
Antonio Landi, che si rifà alle commedie latine di Plauto e Terenzio. Non c’è un retropalco,
gli attori salgono in scena grazie a una scaletta che dà sulla platea. Infatti gli attori non
sono professionisti, ma sono gli stessi nobili che si alternano sul palco. Gli unici
professionisti sono i musici.
Dire che gli attori sono dilettanti non ha un senso spregiativo. “Dilettante” significa che
compie la sua attività per diletto, per piacere. I nobili sono dilettanti ma sono preparati. A
volte sono anche più capaci e istruiti dei professionisti dello spettacolo.
Il palco è ingombro di elementi, che ricreano una scenografia cittadina, quotidiana, quella
tipica della commedia. Non viene rappresentata Firenze, ma Pisa, riconoscibile dai
monumenti, a significare che il potere di Cosimo I si estende anche ai territori limitrofi.
Sulla scena ci sono alcuni elementi praticabili, come indicato da Serlio.
Notiamo poi la presenza degli ingegni, come quello del “sole passante”, un espediente che
segnala l’unità aristotelica di tempo. La palla del sole nasconde una cisterna che alimenta
le sue fiamme.
Non c’è ancora un sipario, la scena è sempre visibile. Il sipario sarà acquisito in seguito,
per potenziare l’effetto di stupefazione (quando la scena appare all’improvviso).
Ai lati del palco sono costruiti dei gradoni semi-circolari (a imitare la cavea) dove siedono
le dame. Lo spazio tra la scena e i gradoni, detto platea, è occupato dagli uomini, che
siedono su panche. Al centro della platea c’è il palco rialzato del principe, che costituisce il
punto di vista privilegiato.

Palazzo Vecchio: il Salone dei Cinquecento


Nel 1540 Cosimo I si trasferisce a Palazzo Vecchio, tradizionale sede del governo della
città e simbolo del potere. Ne affida la ristrutturazione a Giorgio Vasari.
Nel 1565, il matrimonio tra il figlio primogenito di Cosimo, Francesco de’ Medici, e
Giovanna d’Austria, principessa imperiale offrì l’occasione per allestire un fastoso
spettacolo nel Salone dei Cinquecento, la sala più grande di Palazzo Vecchio.
Dell’apparato per l’ingresso trionfale di Giovanna d’Austria in città si occupò il funzionario
granducale Vincenzo Borghini. Il Vasari allestì il Salone dei Cinquecento, aumentandone la
capienza e realizzando la platea. Il palco centrale divenne la postazione del granduca,
attorno al quale erano posizionati gli spettatori, con un criterio di tipo politico (cfr
MAZZONI, p. 202). Anche qui c’è una trasfigurazione dello spazio: il salone viene
trasformato in un giardino, come a palazzo Medici il cortile era divenuto una sala. La
scena è nascosta da un sipario. C’è anche un retropalco, con i locali dove gli attori si
possono sistemare. C’è quindi una netta divisione tra luogo dell’attore e luogo dello
spettatore. La scena è mobile: le macchinerie consentono un cambio a vista delle scene
(teatro illusionistico).
Viene rappresentata La Cofanaria di Francesco d’Ambra. Negli intervalli tra gli atti della
commedia vengono messi in scena degli intermezzi, in cui entrano in azione dei musicisti.
Gli “Intermedi”, che servivano a intrattenere il pubblico durante le pause, si chiamano
così perché erano collocati in mezzo, tra un atto e l’altro. Già nel ’500 si avevano degli
intermedi musicali, in cui i nobili ballavano.
L’intermedio diventa una tipologia spettacolare a se stante, di carattere ibrido: unisce
musica, canto, recitazione e danza. Negli intermedi, dei personaggi in vesti e
ambientazioni mitologiche, narrano storie che non hanno niente a che fare con la
commedia rappresentata. L’ambientazione mitologica è utile per poter sperimentare,
anche a livello scenotecnico. Le macchine dei cantieri urbani, riprendendo l’idea del
Brunelleschi, si trasferiscono nel teatro. Grande importanza è attribuito all’aspetto visivo,
ma anche quello musicale: gli intermedi sono affidati ai più grandi compositori dell’epoca.
Si sviluppa anche così il gusto per il recitar cantando, che porterà alla nascita del
melodramma.
La fama di questi spettacoli, a cui pochi privilegiati potevano assistere, veniva conservata
attraverso testi scritti accuratamente conservati: i libretti a stampa fatti fare dal Granduca
stesso, i bozzetti, documenti dei cantieri…

Il teatro degli Uffizi


Nel 1560 Cosimo I, aveva voluto concentrare in un unico palazzo tutti gli uffici
governativi, per averli sotto il proprio diretto controllo. Per questo aveva affidato ancora a
Giorgio Vasari il compito di costruire il palazzo degli Uffizi (che prende il nome appunto
dagli uffici del governo mediceo) nei pressi di Palazzo Vecchio, residenza del granduca. Il
quartiere lungo l’Arno, dove sorgono gli Uffizi, era detto Dogana, per la presenza della
dogana del porto fluviale. Era anche detto quartiere di Baldracca, essendo luogo di
prostituzione, che Cosimo intendeva “bonificare”. Fu il figlio Francesco I a portare a
compimento l’edificazione degli Uffizi, nel 1574, affidando i lavori
Nel 1574, fu Francesco I, ad affidare la conclusione dei lavori a Bernardo Buontalenti,
geniale allievo del Vasari. All’interno del palazzo degli Uffizi, Francesco I fece allestire un
teatro, che inaugurò nel 1586. Non si trattava ancora di un edificio costruito ex novo,
tuttavia era un ambiente che veniva destinato esclusivamente agli spettacoli teatrali.
Lo spazio rettangolare adibito a teatro corrisponde all’attuale Gabinetto dei disegni e delle
stampe della Galleria degli Uffizi e comprendeva, in altezza, anche il piano superiore. Per
dimensioni di area corrispondeva al Salone dei Cinquecento di palazzo Vecchio. Di questo
primo teatro rimane oggi soltanto il vestibolo.
L’occasione dinastica per uno spettacolo in grande stile arrivò tre anni dopo. Francesco I,
dopo la morte della moglie Giovanna d’Austria, che non aveva mai amato, sposò la
nobildonna veneziana Bianca Cappello, che da tempo era sua amante. Questa nuova
unione non era vista di buon occhio dalla famiglia. Non a caso Francesco e Bianca
morirono entrambi a distanza di un giorno - probabilmente avvelenati - nella villa medicea
di Poggio a Caiano nel 1587.
Fu chiamato a succedere a Francesco il fratello minore Ferdinando che, in quanto
secondogenito, come si usava allora, aveva fatto carriera ecclesiastica ed era stato creato
cardinale. Ferdinando si spoglia della porpora cardinalizia e diventa granduca. Sposa una
principessa francese, Cristina di Lorena, e chiude così il cerchio delle alleanze dinastiche
con le principali monarchie europee: Spagna, Sacro Romano Impero e Francia.
Le nozze tra Ferdinando e Cristina di Lorena diventano occasione per festeggiamenti
sontuosi, che hanno come fulcro uno spettacolo offerto il 2 maggio 1589 al teatro degli
Uffizi (cfr MAZZONI, p. 206-210), che segna l’inizio del teatro moderno. Viene messa in
scena la commedia “La Pellegrina” di Girolamo Bargagli, accademico senese, che
aveva lavorato alla sua stesura per due anni. La commedia in 5 atti venne rappresentata
però solo una volta12, perché oscurata dagli “Intermedi” allestiti da Bernardo
Buontalenti. Le macchinerie teatrali da lui create fecero grande scalpore, tanto da
diventare modello per la spettacolarità futura. Nei giorni successivi si decise di mettere da
parte la commedia e replicare solo gli Intermezzi… I bozzetti originali del Buontalenti sono
esposti agli Uffizi nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. Si tratta di scene a tema

12 “La Pellegrina” è stata riproposta soltanto nell’anno 2000, al teatro della Pergola. Gli Intermezzi del
Buontalenti sono stati riproposti in chiave moderna nel 2019 al Giardino di Boboli. Si è trattato di una messa
in scena molto discutibile. Si salvavano soltanto l’ambientazione magni ca e la restituzione musicale diretta
da Federico Maria Sardelli.
fi
mitologico, indipendenti dalla commedia “La Pellegrina”, che si concludono con l’apoteosi
del granduca.
Buontalenti sfrutta i tre livelli del palcoscenico. Nella parte alta, sulle nuvole, si trovano le
divinità. Musici e cantori suonano e cantano su nuvole semoventi. Gli ingegni sono
praticabili. Nella parte mediana appare il cavallo alato. Dal basso compare l’inferno. Il tutto
grazie a macchinerie, i cui rumori erano coperti dalla musica.
Il quinto ed ultimo intermedio si conclude con una lunga danza, che per la prima volta è
una danza rappresentativa. Gli dei scendono dal cielo e rendono omaggio al granduca,
emanazione della divinità e donatore di prosperità sulla terra.
La scelta di rappresentare solo gli Intermedi, con musica, canti e danze, senza le parti
recitate, prelude alla nascita del melodramma, che debutterà proprio a Firenze nel 1600.
Gli elementi ci sono tutti: manca solo una drammaturgia unitaria.
Su YouTube è disponibile una bella restituzione degli Intermedi della “Pellegrina” eseguiti
dal Taverner Consort, con una ricreazione - in parte grazie al digitale - degli apparati
scenici del Buontalenti.
Sempre il Buontalenti, nel 1589, ha un altro exploit ingegneristico: la “sbarra”, cioè il
torneo che si tenne a Palazzo Pitti. Vi presero parte gli stessi membri della corte, che
potevano esibire così le loro abilità guerresche. Poi, il cortile di palazzo Pitti venne allagato
per mettere in scena una naumachia (battaglia navale) tra cavalieri cristiani e corsari
barbareschi. Sullo sfondo c’era la cittadella cristiana assediata (cfr MAZZONI, p. 226).
Alcuni barchini erano stati scenografati come se fossero navi da guerra. Gli attori erano
marinai delle navi dei Cavalieri di Santo Stefano. Ricordiamo che l’anno seguente, nel
1590, venne inaugurato il porto mediceo a Livorno. Si trattava quindi di uno spettacolo
politico: rimandava alla politica marinara del Granducato, effimera ma molto importante.

Excursus su Bologna
Nonostante fosse un importante snodo fluviale e viario, sede della prima università
europea, Bologna è stranamente priva di documentazione riguardo agli spettacoli nel
Quattro-Cinquecento. Eppure Bologna è stata una delle prime signorie: già a metà del
Trecento era governata dai Pèpoli, a cui nel Quattrocento subentrarono i Bentivoglio.
Nel 1445 fu assassinato Annibale I Bentivoglio, il cui figlio aveva appena due anni e non
poteva succedergli subito. Si seppe però che Annibale aveva un cugino, Sante
Bentivoglio, che era figlio illegittimo ed era stato allevato a Firenze. Questo erede segreto
è raffigurato in un dipinto di Vasari ai piedi di Cosimo il Vecchio, intento ad ascoltarlo. A
Cosimo faceva comodo avere un suo uomo al governo di Bologna e Sante accettò di
trasferirsi nella città felsinea. Stando a Firenze, Sante Bentivoglio aveva assimilato la
strategia medicea degli spettacoli come legittimazione del potere e la applica anche a
Bologna. Ma perché non ne è rimasta traccia?
Dopo la conquista di Bologna da parte del “papa guerriero” Giulio II, nel 1506, la famiglia
Bentivoglio venne condannata alla damnatio memoriae e tutti gli archivi e testimonianze
della sua attività vennero distrutti. In seguito fu demolito anche il palazzo di famiglia.
A Bologna venne instaurata una forma di governo misto che vedeva la compresenza di un
legato pontificio e di alcune famiglie senatorie. Si moltiplicano così le committenze
artistiche. I mecenati bolognesi però non hanno ricevuto molta attenzione, a livello di studi
accademici, per l’assenza di una corte.
I centri di committenza dell’epoca erano le corti ma anche il mercato (spettacoli a
pagamento) e le accademie. I nobili bolognesi, non avendo una corte, si riunirono in
Accademie. Queste non erano entità minori. Si tenga presente che il primo teatro stabile
dell’epoca moderna, il Teatro Olimpico di Vicenza, fu realizzato nel 1580 da Andrea
Palladio proprio su commissione di un’accademia: l’Accademia Olimpica.
Le accademie si ispiravano all’Accademia di Atene fondata da Platone e si configuravano
come luoghi di libera discussione. Inizialmente erano segrete: la regola era che niente
doveva trapelare all’esterno di quello di cui si discuteva al loro interno. Per questo, non
abbiamo archivi delle accademie fino alla metà del Cinquecento.
A Bologna però si ritrovavano, nel periodo di Quaresima, gli artisti della Commedia
dell’Arte, e da qui partivano per le loro tournée. Artisti arrivarono a Bologna anche a
seguito dei sovrani, in occasione dell’incontro di papa Leone X con Francesco I nel 1513 e
poi ancora in occasione dell’incoronazione di Carlo V nel 1530. In questi anni lavorarono a
Bologna i grandi scenografi Baldassarre Peruzzi, Sebastiano Serlio (che era bolognese)
e il Vignola. Ricordiamo poi l’attività degli scenografi Bibiena, che da Bologna diffusero
la loro arte in tutta Europa.
Quindi, nonostante la scarsità di fonti, Bologna fu un centro teatrale molto vivace.

I primi edifici teatrali


A partire dagli anni ’80 del Cinquecento in Italia nascono le prime sale teatrali permanenti.
A Firenze i Medici fanno allestire il teatro della Dogana o di Baldracca, sul retro degli
Uffizi (cfr MAZZONI, p. 212). Il teatro venne costruito all’interno di un semplice stanzone.
Dal 1576 vi si esibiscono i comici dell’arte. Era un teatro pubblico, dotato di palco e
sottopalchi. Nel salone c’erano i posti a sedere. C’erano poi, in alto, dei palchetti oscurati
con delle grate, da cui la nobiltà medicea poteva assistere agli spettacoli senza essere
vista. Anche se si trattava di un teatro pubblico era di emanazione granducale. L’idea è
che la presenza del granduca si doveva percepire: si sapeva che c’era, anche se non
poteva essere visto (cfr MAZZONI, p. 214).

Nel 1580, Andrea Palladio inizia a costruire il teatro Olimpico di Vicenza, che viene
inaugurato nel 1585 (cfr MAZZONI, p. 175-184). Le scenografie vengono allestite da
Vincenzo Scamozzi. il Palladio si era già avvicinato al teatro antico illustrando un’edizione
commentata del De Architectura di Vitruvio. L’Accademia Olimpica di Vicenza lo chiamò a
realizzare un vero e proprio edificio teatrale imitando i teatri antichi. Palladio realizza
quindi una cavea e un frons scenae sul modello dei teatri romani. Sul colonnato che
sovrasta la cavea pone delle statue che ritraggono gli accademici olimpici. In questo teatro
si rappresentò un unico spettacolo, l’Edipo tiranno, una tragedia ispirata a Sofocle. Scelta
inusuale, resa possibile dal fatto che era un teatro pubblico e non di corte (dove la tragedie
erano bandite, dato che si concludevano solitamente con la morte del sovrano). Gli
intermedi furono realizzati da Angelo Ingegneri, che viene considerato il primo “regista
teatrale” della storia: è l’autore del manuale La pratica di mettere in scena le favole teatrali.
Andrea Gabrieli scrive le musiche per gli intermedi. Subito dopo l’inaugurazione il teatro
fu dismesso e per questo si è conservato fino a noi nella sua forma originale, comprese le
scene fisse di Scamozzi.

Nel 1590 nasce il primo edificio teatrale in un centro periferico, il teatro all’Antica di
Sabbioneta, voluto dal duca Vespasiano Gonzaga per la sua nuova “città imperiale”,
Sabbioneta appunto, in provincia di Mantova (cfr MAZZONI, p. 185-192). Vincenzo
Scamozzi riprende l’idea del Palladio di mantenere la cavea ma elimina il frons scenae.
Sul colonnato, Vespasiano Gonzaga fa mettere le statue degli imperatori, ai quali
idealmente si rifaceva. Anche questo teatro, dopo la sua inaugurazione, rimane inutilizzato
e per questo è arrivato a noi nella sua forma originale.

Lo spettacolo nel Seicento


Il Seicento è il secolo teatrale per eccellenza. Nell’epoca barocca c’è un’estrema
spettacolarizzazione di tutto, perché la vita stessa viene percepita come spettacolo: “Tutto
il mondo è un palcoscenico, e gli uomini e le donne sono soltanto attori; hanno le loro
uscite e le loro entrate in scena; e ciascuno, per il tempo che gli è stato assegnato, recita
molte parti” (W. Shakespeare, As You Like It). Nel gran teatro del mondo, la vita è
un’illusione effimera e l’artificio serve a nascondere la consapevolezza della morte.
Mentre in Francia, Spagna e Inghilterra, emergono i grandi drammaturghi, in Italia il testo
viene messo in secondo piano. I generi principali di spettacolo nella penisola italiana sono
la Commedia dell’Arte e il Melodramma.
Fino a metà del Seicento, le corti principesche italiane, ormai politicamente irrilevanti,
rimangono comunque centri propulsivi dello spettacolo perché continuano ad auto-
celebrarsi ed esibiscono fasti e ricchezze. La politica del consenso si consolidava facendo
partecipare il popolo, in spazi pubblici all’aperto, a riti ed eventi che rafforzavano il senso
di identità e di appartenenza (cfr i recenti funerali della Regina Elisabetta II in Inghilterra).
Ma ci sono alcune manifestazioni che sono riservate a un pubblico selezionato. Agli eventi
clou come matrimoni, funerali, visite di Stato, ecc… sono presenti sovrani, dignitari
forestieri, ambasciatori… A loro vengono offerti spettacoli esclusivi.
Nel 1600 si ripropose alla corte dei Medici l’occasione per fare sfoggio di magnificenza: il
matrimonio di Maria de’ Medici col re di Francia, Enrico IV. I festeggiamenti dovevano
essere all’altezza di un matrimonio regale. È in questo contesto che nasce il melodramma.
A Palazzo Pitti, il 6 ottobre 1600, viene rappresentata l’Euridice con libretto di
Ottavio Rinuccini e musiche di Jacopo Peri. Tre giorni dopo fu la volta di un altro
melodramma (andato perduto), Il rapimento di Cefalo, con musiche di Caccini, al teatro
degli Uffizi.
Si tratta di opere sperimentali per l’epoca, nate dal successo degli intermedi, che vennero
unificati in un’unica trama. Per il resto, il melodramma manteneva le caratteristiche degli
intermedi: destinazione cortigiana, ambientazione mitologica con l’aggiunta di un lieto fine,
uso di macchine sceniche e cambiamenti scenografici, compresenza di musica, canto,
danza.
La commistione di generi è molto amata nel barocco, per cui proliferano spettacoli misti,
che uniscono diverse tipologie di performance: il già citato melodramma ma anche il
dramma a cavallo o l’opera-balletto. La finalità è sempre quella di stupire: “È del poeta il
fin la maraviglia” (G.B. Marino).
Nel 1608 si ha un duplice matrimonio: Vincenzo Gonzaga sposa Margherita di Savoia e
Cosimo II de’ Medici sposa Maria Maddalena d’Austria. Gli sposi erano cugini e questo
incentiva l’emulazione. Le due corti fanno a gara nell’organizzare i festeggiamenti più
splendidi: i cui pezzi forti sono il balletto equestre, il melodramma e la naumachia (il
combattimento navale, rispettivamente sul Mincio e sull’Arno). C’è competizione ma anche
collaborazione tra le corti di Mantova e Firenze, che si prestano a vicenda degli artisti.
L’evento clou del matrimonio di Cosimo II è il dramma pastorale Il giudizio di Paride, scritto
da Michelagelo Buonarroti il Giovane (nipote del grande Michelangelo). Furono aggiunti
degli intermedi che avevano come tema i quattro elementi, l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra
(schema già adottato da Buontalenti), che dava la possibilità di presentare ambientazioni
diverse: la fucina di Vulcano, la nave di Amerigo Vespucci, ecc…, con grande sfoggio
scenotecnico.
La battaglia navale e la “sbarra” vennero fusi nell’argonautica, ispirata al mito di Giasone
e la conquista del vello d’oro. Il combattimento si svolgeva su una zattera tra Ponte
Vecchio e Ponte alla Carraia. Imbarcazioni meravigliose erano state realizzate da Giulio
Parigi e alcuni aiutanti. Giasone era impersonato dallo stesso granduca Cosimo II, appena
diciottenne, che ovviamente vinceva il torneo (truccato). Anche i cittadini potevano
assistere a questi spettacoli.
Se per la naumachia Firenze aveva ancora il primato, per il melodramma il primato passò
a Mantova dove si trovava il più grande compositore dell’epoca, Claudio Monteverdi, che
per l’occasione musicò l’Idropica di Battista Guarini e l’Orfeo di Rinuccini.
A Firenze resta il primato anche degli spettacoli di danza e di equitazione, compreso il
balletto a cavallo (ancora oggi praticato a Vienna, con il balletto dei cavalli lipizzani). Ci
viene mostrata un’incisione di Jacques Callot riguardante il balletto La liberazione di
Tirreno (MAZZONI, p. 211). Nella danza intervenivano anche i nobili e le donne. I nobili
non potevano recitare ma potevano mettersi in mostra danzando.
Cosimo II era un amante dello spettacolo e anche un ottimo ballerino, ma purtroppo era
cagionevole di salute. Morì a soli 30 anni. Questo influì sul declino di Firenze come centro
teatrale. L’eredità medicea venne raccolta da altre corti, ma sempre nel segno di casa
Medici.
Quando a Parma nel 1618, Giovan Battista Aleotti allestisce il teatro Farnese all’interno
del palazzo della Pilotta (cfr MAZZONI, p. 235-241), il duca di Parma e Piacenza Ranuccio
I avrebbe voluto inaugurarlo in occasione della visita di Cosimo II. Ma questa visita fu
annullata e Cosimo morì di lì a poco, nel 1621. Così l’inaugurazione venne rimandata fino
al 1628, quando Odoardo Farnese sposò la figlia di Cosimo, Margherita de’ Medici. Il
teatro realizzato dall’Aleotti unisce l’elemento classicheggiante della cavea a forma di U o
di campana al boccascena (nasce così il teatro all’italiana). In occasione delle nozze di
Odoardo e Margherita, vi si rappresenta Mercurio e Marte, con musiche di Monteverdi. È
un’opera-torneo: a un certo punto l’orchestra viene allagata e si inscena una battaglia
navale.
Nel 1632, i Barberini fanno edificare a Roma il teatro della Quattro Fontane, realizzato
da Gian Lorenzo Bernini.
Un’équipe di artisti romani porterà una vera e propria rivoluzione a Venezia, decidendo di
proporre a un pubblico promiscuo uno spettacolo di opera in musica a pagamento. Fino
ad allora i teatri pubblici avevano messo in scena solo commedie (cfr il teatro della
Dogana a Firenze) ma il melodramma era rimasto uno spettacolo di corte, riservato ai
nobili, su invito. La prima opera in musica per un pubblico pagante venne realizzata nel
1637 al teatro Michiel a San Cassiano di Venezia. Questo segnò il passaggio dall’idea di
opera in musica come evento unico a quella di spettacolo con repliche, in modo da
ammortizzare gli elevati costi di produzione. Così viene proposto un cartellone e si genera
un repertorio. Si provvede anche a differenziare il prezzo del biglietto in base agli spazi (i
posti migliori costano di più) e vengono realizzati i palchi per i nobili (che non vogliono
mischiarsi con la borghesia mercantile). La scenotecnica viene ottimizzata e nascono
professionisti specializzati e pagati come macchinisti, carpentieri, ecc… C’è attualmente
un progetto per ridare vita al teatro San Cassiano di Venezia, ma da tempo non ha avuto
sviluppi significativi.
Esistono però due esempi straordinari di teatri di corte settecenteschi con l’apparato
scenotecnico funzionante: il teatro di Drottningholm a Stoccolma (Svezia) e il teatro di
Cesky Krumlov in Repubblica Ceca. In questi teatri vengono ancora offerte delle
rappresentazioni in stile barocco.
Anche a Firenze, dalla seconda metà del ’600, c’erano due teatri pubblici che davano
opera in musica a pagamento: il teatro della Pergola e il teatro del Cocomero (oggi
Niccolini). Ma non hanno conservato la struttura originaria e oggi sono molto diversi da
com’erano all’epoca.
A causa della malattia di Cosimo II, l’allestimento degli spettacoli fu sempre più delegato
alle accademie. Dapprima in scena c’erano dilettanti, poi si cominciarono ad invitare
professionisti e a far pagare loro l’affitto del teatro. L’Accademia degli Immobili gestiva la
Pergola, quella degli Infocati il teatro del Cocomero. Così le accademie divennero enti
produttivi che agivano sotto la protezione del granduca. Guadagnavano con gli affitti ma
soprattutto con il gioco d’azzardo. Firenze divenne alla fine del Seicento una delle piazze
più fiorenti per il teatro pubblico.

I Medici e la corte d’Inghilterra


Oltre alla politica matrimoniale, un modo efficace di interagire tra le corti italiane ed
europee era quello dello scambio di artisti. I loro padroni se li prestavano e gli artisti
viaggiavano da una corte all’altra, diventando così uno strumento diplomatico e talvolta
agendo in qualità di ambasciatori e funzionari. Celebre è l’esempio di Atto Melani, uno dei
più importanti castrati dell’epoca, che fu anche un importante politico presso la corte di
Francia. Così le corti diventano fucine di artisti, vengono fondate accademie per formare
pittori, musicisti, apparatori di spettacoli.
Un caso particolare è quello della relazione tra i Medici e la corte degli Stuart.
L’Inghilterra, dopo lo scisma anglicano, era rimasta isolata a livello internazionale.
Elisabetta I aveva paura a far entrare artisti stranieri, specialmente provenienti dai Paesi
cattolici, che potevano essere spie o sicari. Per questo la spettacolarità in Inghilterra era
rimasta arretrata.
La situazione cambia quando a Elisabetta I, morta senza figli, succede nel 1603 Giacomo
VI Stuart, re di Scozia e d’Irlanda. Giacomo VI viene incoronato a Londra e diventa
Giacomo I, riunendo i tre regni di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Sua moglie, Anna di
Danimarca, era protestante (sembra che si sia convertita al cattolicesimo in punto di
morte, ndr). Giacomo I cercò di mitigare i contrasti religiosi e, nonostante il fallito attentato
contro di lui e contro il parlamento (la famosa congiura delle polveri, 1605), non fece
rappresaglie contro i cattolici e mantenne un atteggiamento di tolleranza.
Il clima di pacificazione instaurato dai nuovi sovrani favorì la rinascita culturale del Regno
Unito. Giacomo, Anna e il loro figlio primogenito Enrico organizzano le loro corti
stabilendo contatti internazionali, specialmente con la corte dei Medici.
Giacomo I era un intellettuale, scrisse vari saggi, tra cui il Basílikon Dóron (Dono del Re,
1599), dedicato al figlio: un trattato su come essere un sovrano giusto e illuminato. Scrive
le sue missive in latino e si firma Jacobus Rex.
La regina Anna amava particolarmente lo spettacolo. Fu lei a prendere sotto la sua
protezione Shakespeare e ad introdurre la sua compagnia, i King’s Men, a corte. Re
Giacomo si stufava facilmente degli spettacoli e se ne andava prima della fine. Anna
invece, come anche Enrico, era molto appassionata di teatro e gestiva di persona l’attività
spettacolare di corte. Caso più unico che raro di regina impresaria, Anna decideva quali
testi rappresentare, entrava in contatto con gli attori, interveniva sulla drammaturgia (il
drammaturgo di corte era Ben Jonson), decideva i costumi e partecipava lei stessa agli
spettacoli. Nei momenti danzati del masque entravano in scena anche i nobili e la stessa
regina. La recita era appannaggio dei professionisti, la voce dei sovrani non si doveva
sentire, ma il potere poteva esporsi, mettersi in mostra attraverso la danza. Un bozzetto
dell’architetto di corte Inigo Jones la raffigura nelle vesti di principessa del Niger. Vediamo
altri bozzetti, i cui personaggi accennano passi di danza: tra questi la raffigurazione di un
torch-bearer, un portatore di torcia. Si trattava di figuranti dotati di fiaccole accese che si
muovevano per illuminare determinate parti della scena.
Anna si occupò dei Queen’s Masques dal 1604 al 1611. Lo spettacolo di Natale era
l’evento di corte più importante dell’anno, quello della “dodicesima notte”. Per i costumi del
suo primo masque, Anna utilizzò quelli del guardaroba dismesso di Elisabetta I. Però i
masque restarono ancora impermeabili alle innovazioni scenografiche e alle macchinerie
all’italiana.
L’incoronazione di suo figlio Enrico come principe del Galles, nel 1610, diventò l’occasione
per reclutare artisti da tutta Europa al fine di creare una corte rinascimentale sullo stile
delle grandi corti europee. Enrico scrisse al granduca di Toscana Cosimo II chiedendo in
prestito uno dei fratelli Francini, i migliori ingegneri della corte medicea, perché rendessero
i suoi palazzi di St. James, Wookstock e Richmond (con i relativi giardini) simili a quelli di
Pratolino, Pitti, ecc… I Francini però erano già impegnati in Francia, alla corte di Maria de’
Medici, per cui Cosimo gli inviò Costantino de’ Servi, un architetto che per quattro anni
prestò servizio in Inghilterra.
De’ Servi è impegnato nei cantieri delle tre residenze principesche, quando Enrico, nel
1611, gli affida l’allestimento di un grandioso masque, Love Restored di Ben Jonson, con
solo due mesi d’anticipo. De’ Servi scrive a Firenze richiedendo i bozzetti del Buontalenti
per non deludere le attese dei committenti e ottimizzare i tempi. Chiede però che i bozzetti
gli vengano spediti segretamente, per evitare furti e, ovviamente, anche l’accusa di
“scopiazzare”.
Così anche la spettacolarità inglese fu “contaminata” dalla tradizione fiorentina.
Sfortunatamente Enrico morì a soli 18 anni, di febbre tifoide, ma la via era ormai aperta.
De’ Servi continuò ad allestire masques fino al dicembre 1613, influenzando anche la
produzione spettacolare inglese successiva.

La Commedia dell’Arte
A metà del ’500 si comincia a parlare di Commedia dell’Arte. Cos’è successo rispetto agli
istrioni del Medioevo? Sono avvenuti dei cambiamenti sociali importanti: si è molto
sviluppata una classe intermedia tra la plebe e la nobiltà. È la classe produttiva, di coloro
che praticavano un’arte. Il termine “arte”, nell’accezione romanza, significa “mestiere”.
Quelli che esercitano lo stesso mestiere si organizzano in corporazioni, per avere maggiori
tutele e riconoscimento sociale. Le città, nel tardo medioevo, si erano organizzate
urbanisticamente proprio in base alle “arti”, che erano concentrate in determinati quartieri.
Così anche gli istrioni, che tradizionalmente erano solisti, in una società organizzata per
corporazioni, sentono la necessità di mettersi insieme, anche per la sicurezza negli
spostamenti.
A Padova, il 25 febbraio 1545, viene prodotto un documento importantissimo: un gruppo di
istrioni si recò da un notaio per sottoscrivere la nascita di una società di mestiere. Il
mestiere dello spettacolo viene così ufficialmente riconosciuto con atto notarile. I
contraenti si danno il nome di Comici dell’Arte. Il termine “comico” e “commedia” non va
inteso in opposizione a “tragedia”, ma in senso generico con riferimento alla “recitazione”.
Quindi l’espressione “commedia dell’arte” si può tradurre come “mestiere della
recitazione”.
Nell’atto notarile sono elencati i nomi dei componenti della compagnia e vengono stabilite
delle regole e una gerarchia. Benché i comici dell’arte si considerino tutti uguali, per motivi
di organizzazione stabiliscono fra loro un capocomico che coordini il gruppo. Ognuno
porta il suo contributo, anche economico, di costumi, ecc… L’elemento cruciale è che, fin
dalla loro nascita, queste compagnie prevedevano anche delle donne. Presenza femminile
che costituiva un aspetto di attrattiva per il pubblico: le donne mettevano molto anche della
loro sensualità in scena.
Intorno al capocomico, gli altri attori assumono ruoli precisi, che poi saranno codificati
come maschere. I tipi di personaggi canonici sono: la prima attrice, detta l’Innamorata, e il
suo corrispettivo maschile, l’Innamorato. Sono ruoli “alti”, personaggi ben vestiti, con
atteggiamenti eleganti, che devono saper usare la voce e avere una buona dizione. La
loro forma recitativa è prevalentemente vocale. A servizio dell’Innamorata c’è la Nutrice,
personaggio derivante dal teatro classico. C’è poi il ruolo del Vecchio, che ha
atteggiamenti goffi e burberi, personaggio ridicolo che parla in dialetto bolognese e prende
il nome di Pantalone, Balanzone, o genericamente il Dottore. I vecchi sono spesso
innamorati di giovani fanciulle, che li circuiscono per estorcere loro denaro.
Poi il personaggio del servo, che spesso aiuta i giovani innamorati a raggiungere il loro
scopo. I servi denominati Zanni sono gli elementi motori della rappresentazione. Lo Zanni
è l’elemento popolare, squattrinato, sempre affamato, che si mette al servizio di un
padrone per poter mangiare. Anche i servi sono a coppia: il primo e il secondo servo, uno
sciocco e uno furbo. Parlano un miscuglio di milanese, bergamasco, bresciano… Un altro
elemento caratteristico era quello sessuale: il Servo dava sempre fastidio alla Servetta,
che si dimostrava contenta delle sue avances. Era invece impensabile che il Servo
molestasse l’Innamorata. Questo però poteva farlo un’altra figura, il Capitano, ruolo
complesso che stava a metà strada fra l’Innamorato e il Servo. Il Capitano si presenta
come un nobile borioso e fanfarone, dal nome altisonante (capitan Fracassa, capitan
Tempesta, ecc…) che ostacola gli Innamorati. È spesso caratterizzato come spagnolo.
Negli spettacoli della Commedia dell’Arte c’era spazio anche per la musica e la danza. I
comici provenivano da una non-specializzazione, per cui il loro repertorio era sconfinato.
Recitavano commedie, tragedie e pastorali. Era un “teatro di favole rappresentative”.
Queste compagnie non erano fisse. Gli attori si sostituivano, anche se erano specializzati
in un ruolo, potevano essere chiamati a interpretarne altri. Viaggiando e spostandosi,
sapevano farsi capire anche da chi non comprendeva la lingua. Ricordiamo che nella
stessa Italia c’erano molti dialetti e la lingua unica esisteva solo a livello letterario. Saper
usare in maniera efficace il corpo (la cinesica o cinetica) era essenziale per farsi capire
da tutti. Questo fa sì che i comici dell’arte abbiano successo anche all’estero.
Per molto tempo i comici dell’arte sono stati considerati come attori che improvvisavano
senza testi di riferimento, che recitavano “a caso”. Niente di più falso! L’improvvisazione è
la capacità straordinaria di sapersi adattare alle esigenze del pubblico che si ha davanti.
Questa capacità è frutto di un’altissima competenza. In realtà i comici dell’arte avevano dei
copioni, dei canovacci, che però potevano adattare, aggiungendo o togliendo in base
alla situazione.
Le compagnie di comici dell’arte avevano un circuito nazionale che attraversava tutta la
penisola (cfr MAZZONI, p. 213). Firenze era una piazza importante, dove il teatro della
Dogana rimase attivo fino al 1653 quando fu soppiantato dai teatri pubblici delle
accademie. Come sappiamo, anche Bologna era una piazza importante,8 dove le
compagnie si ritrovavano durante la Quaresima e preparavano la circuitazione annuale.
Qui le compagnie si scambiavano anche gli attori, in base alle necessità per i diversi ruoli.
Il circuito si allargava poi verso la Francia, Vienna, la Germania… Il punto di passaggio era
Lione, dove si trovava una numerosa comunità di italiani che ospitava gli attori.
Fra le prime compagnie ad esibirsi in Francia c’è la Compagnia dei Gelosi, fondata da
Francesco Andreini, capocomico che interpretava il ruolo del Capitano, e la moglie
Isabella Andreini, nata Canali, che faceva l’Innamorata. Nei ritratti, questi attori
assumono pose da nobili, in mezzobusto (cfr MAZZONI, p. 215-217). C’è un tentativo di
nobilitare la professione, di riabilitare la categoria.
Uno degli strumenti per legittimare la propria attività è quello di avere una produzione
scritta, che crea una tradizione ed eleva. Così i comici cominciano a scrivere.
Un’altra strategia per legittimarsi è quella di cercare la protezione delle famiglie nobili. Di
solito erano i principi cadetti delle famiglie regnanti ad occuparsi di teatro. A Firenze ce n’è
uno eccellente: Giovanni de’ Medici, detto “don Giovanni”, figlio naturale di Cosimo I. Non
solo proteggeva i comici dell’arte (il capocomico era Flaminio Scala), ma li gestiva e li
finanziava (cfr il capitolo “Don Giovanni impresario”, in Siro Ferrone, Attori, mercanti,
corsari). I signori rilasciavano alla compagnia delle “lettere patenti” che permettevano di
passare indenni le dogane e agevolavano i viaggi. Da queste lettere dipendeva
l’incolumità degli attori. Come abbiamo detto, le compagnie di comici diventano anche
pedine diplomatiche.

Arlecchino e le altre maschere


Tristano Martinelli (1557-1630), attore di area mantovana, è considerato l’inventore della
maschera di Arlecchino. Protetto dal duca di Mantova, Vincenzo I Gonzaga, ottenne da lui
anche ruoli diplomatici. Negli anni 80 del Cinquecento, a Parigi, adattò la maschera dello
Zanni al gusto francese, adottando il nome Arlecchino dalle favole popolari francesi e
inventando il caratteristico vestito a toppe (che nascono dall’esigenza pratica di rattoppare
un vestito consunto). Peculiare è anche la mezza maschera nera, tratto inquietante, che
rimanda all’origine infernale del personaggio (è nera perché bruciacchiata)13. Arlecchino
appartiene alla tipologia del “servo sciocco”. Parla un dialetto mantovano infarcito di varie
altre lingue. Un linguaggio che nessuno capisce, per cui la sua comunicazione avviene
attraverso il corpo. La performatività scenica di Arlecchino si concentra tutta sul
movimento, sull’uso acrobatico del corpo.
Tristano Martinelli dedicò a Maria de’ Medici e ad Enrico IV di Francia un volume intitolato
Composition de rhétorique (1601), contenente alcune incisioni di Arlecchino e altri
personaggi della Commedia dell’Arte in diverse pose sceniche e con molte pagine
bianche. Un libro che non rispecchia alcuna forma, un’arlecchinata. Si tratta in ogni caso
del primo trattato scritto da un attore.
Un altra fonte importante è la raccolta di incisioni intitolata Balli di Sfessania (1622) di
Jacques Callot, che tramanda le immagini di attori in azione (cfr MAZZONI, p. 214).
Raffigura tutte le maschere della Commedia dell’Arte, ma si concentra in particolare sui
Servi, i personaggi più dinamici, raffigurati in pose contorsionistiche e derisorie (cfr la
messa in evidenza del fondoschiena).
Altra raccolta importante per l’iconografia della Commedia dell’Arte è la Raccolta
Fossard, commissionata da Luigi XIV. Qui viene raffigurato anche Pulcinella, un servo
creato in ambito partenopeo da Silvio Fiorillo, detto Scaramuccia, appartenente alla
generazione successiva a quella di Martinelli. Pulcinella ha le stesse caratteristiche
inferiche di Arlecchino: la mezza maschera nera è anche meno “ridente” di quella di
Arlecchino.
Tipici momenti esilaranti negli spettacoli della Commedia dell’Arte erano i lazzi, che
appartenevano al repertorio performativo fondamentale del Servo sciocco. Si trattava di
piccole azioni, mute o parlate, inserite liberamente in mezzo a una scena: ad esempio il
lazzo della mosca, o della lettera chiusa con la mollica di pane… Questi lazzi sono rimasti
nel repertorio di Arlecchino fino ai nostri giorni.
Il più grande e insuperato Arlecchino del Novecento è stato Ferruccio Soleri (Firenze,
1929). Vediamo da YouTube alcuni lazzi da Arlecchino servitore di due padroni per la regia
di Giorgio Strehler.

13Il personaggio di Arlecchino, nel medioevo, era un demone, capo di una masnada infernale.
Anche le altre maschere nere hanno un rapporto con la negromanzia, rimandano a un viaggio
negli inferi e quindi ad una funzione di tramite con l’altro mondo.

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