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Fonti
Sulla storia dello spettacolo antico non abbiamo fonti specifiche. Bisogna ricorrere a fonti
indirette.
Per il teatro greco, la pittura vascolare (la decorazione dei vasi) è quella che ci dà
maggiori informazioni. Dato che i vasi erano di uso comune, il fatto di trovarvi
rappresentate figure di attori e scene di arti performative, conferma che il teatro era
considerato importante nella vita di tutti i giorni.
Un celebre esempio è il vaso di Prónomos (esposto al Museo Archeologico di Napoli),
che rappresenta attori, danzatori e musici dopo uno spettacolo (cfr MAZZONI, p. 94-95)1.
Si vedono maschere portate in mano (solo una è indossata da un coreuta, in veste di
satiro, che sta danzando) e strumenti musicali come l’aulós (strumento a fiato ad ancia,
spesso raffigurato come doppio aulós) e la cetra. Una scritta indica come si chiamava
l’auleta: Prónomos, da cui viene il nome del vaso.
Abbiamo poi le fonti monumentali: gli edifici teatrali. Anche la scultura greca può essere
una fonte interessante. Ad esempio, i bassorilievi e le statue del Museo Nazionale di Atene
in gran parte raffigurano azioni performative, a conferma dell’importanza rivestita dallo
spettacolo nella cultura greca antica.
I testi teatrali antichi purtroppo non sono una fonte sulla spettacolarità, infatti nulla dicono
della materialità dello spettacolo. Solo a partire dal Quattro-Cinquecento, infatti, troviamo
testi teatrali con didascalie che danno indicazioni di scena.
Tra le fonti letterarie di particolare interesse è la “Poetica” di Aristotele (vedi sotto).
Il teatro e la polis
La società greca era basata sul concetto di democrazia (con le dovute eccezioni, cfr
Sparta). Il cuore di questa idea politica era la polis. Ogni polis era una città-stato, aveva un
suo governo che agiva (almeno idealmente) tendendo a rappresentare tutti i cittadini.
L’agorà era il centro politico della polis, dove tutti i cittadini potevano discutere
liberamente. Alla base della democrazia c’era l’istruzione, che doveva essere accessibile
a tutti e incrementata con tutti i mezzi possibili. Uno di questi era il teatro.
Il teatro è la base della divulgazione dell’istruzione. Con lo strumento potente della visione,
i cittadini erano educati ai principi della società civile. Quindi il teatro greco non era mero
intrattenimento, ma un momento collettivo di educazione civile.
Le rappresentazioni teatrali erano fatte in concomitanza con momenti forti dell’anno, in
particolare in marzo-aprile, quando si svolgevano le Grandi Dionisie, feste dedicate a
Dioniso, dio del teatro. In questa occasione, i cittadini dovevano spostarsi dalla città,
compiendo una sorta di processione, verso la campagna dove erano collocati i teatri.
Questi erano distanti dalla città, completamente inseriti nel contesto naturale. Il motivo è
che l’abbandono delle occupazioni quotidiane e il viaggio collettivo immergendosi nella
natura era un momento di preparazione a un’esperienza speciale. Niente doveva ricordare
gli impegni della quotidianità.
1 Da qui in avanti, per le fonti iconogra che, si fa riferimento al volume di Stefano Mazzoni, Atlante
iconogra co, Titivillus 2003.
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Le rappresentazioni teatrali avevano carattere competitivo. Gli autori in gara presentavano
una tetralogia, composta da tre tragedie e un dramma satiresco. C’erano anche concorsi
di commedia. Le rappresentazioni andavano avanti per giornate intere.
La scena (skené) era essenziale, inizialmente assente (venne introdotta come spogliatoio
per gli attori e solo in seguito fu decorata e usata come elemento scenico, ndr). La
scenografia era costituita dal panorama naturale.
L’attore declamava un testo poetico di altissimo livello, rimanendo fermo su una pedana di
dimensioni ridotte. Non potevano esserci molti attori in scena. Eschilo fu il primo a portare
gli attori da uno a due, Sofocle introdusse il terzo attore e la decorazione della scena (cfr
Poetica, 4). Gli attori - specialmente se erano più di uno - non avevano molto spazio
d’azione e dovevano limitarsi a usare la voce.
Molto più ampia era l’orkhéstra, lo spazio - dapprima trapezioidale e poi circolare - in cui
agiva il coro. Il nome “orchestra” ha a che fare con la danza (orkhéomai: danzo). Ai lati
dell’orchestra c’erano corridoi (párodoi) di entrata e uscita usati dal coro. Il coro era un
personaggio collettivo (composto da 12-24 persone) che aveva un compito non solo
performativo (danzava) ma declamava anche versi, come un unico personaggio.
Gli attori, come già detto, non avevano molta libertà di movimento. Specialmente i tragici
calzavano coturni, sandali con delle zeppe che ne aumentavano la statura ma ne
limitavano di molto i movimenti.
Attori e coreuti indossavano delle maschere. Sulla funzione della maschera si è molto
discusso. Non serviva ad aumentare il volume della voce, semmai a modificarne il suono.
L’acustica era assicurata dalla struttura del teatro. Esemplare, da questo punto di vista, è il
teatro di Epidauro, teatro in muratura del IV secolo a.C., dove la voce dell’attore si sente
perfettamente in vetta alla cavea come dalla prima fila (cfr MAZZONI, p. 90).
Molto più probabilmente la funzione principale della maschera era di far scomparire
l’identità dell’attore, nascondendone il volto. Gli attori erano dilettanti, cittadini che avevano
un ruolo pubblico, erano conosciuti nella quotidianità e quindi dovevano rendersi
irriconoscibili. Inoltre, le maschere potevano essere usate dallo stesso attore per
interpretare più personaggi.
Si trattava di un teatro di parola, intellettuale. Gli attori, dovendo restare fermi in scena,
dovevano avere una grande capacità nell’uso della voce, una grande musicalità nel
recitare versi. Erano accompagnati da strumenti musicali a fiato (tipicamente l’aulós) e a
corda (la cetra).
Gli spettatori sedevano nel kóilon, o théatron (in latino cavea), cioè su gradinate
trapezioidali o semicircolari (a seconda della forma dell’orchestra). Anticamente costruite
in legno, sfruttando il declivio di una collina, poi - dal IV secolo a.C. - in pietra.
Lo spettatore interagiva dal punto di vista emozionale, entrando in consonanza con le
emozioni trasmesse dagli attori e dagli altri spettatori intorno a lui. Si trattava di un forte
momento comunitario, una grande esperienza catartica collettiva (cfr il concetto di catarsi
secondo Aristotele).
La Poetica di Aristotele
Una tragedia efficace produce la catarsi (purificazione interiore). Non è un effetto
automatico. Secondo Aristotele, questa efficacia dipende in primo luogo dal lavoro del
poeta: “l’efficacia della tragedia infatti si conserva anche senza la rappresentazione e
senza gli attori” (Poetica 6). Insomma, la tragedia funziona anche se viene letta in
solitudine.
In effetti, Aristotele nella Poetica non si occupa della spettacolarità, la sua è una riflessione
sulla poesia narrativa, che egli suddivide in poesia rappresentativa (tragedia, commedia)
e poesia epica o della storia (cfr i poemi omerici). La parte che qui più ci interessa è
quella relativa alla poesia rappresentativa, di cui Aristotele tratta nei capitoli 1-19.
L’intenzione di Aristotele non era quella di imporre delle regole. La sua è una riflessione
libera. Saranno gli umanisti del ’400 a dare a questo testo un valore prescrittivo,
estraendone delle regole fisse di scrittura teatrale. NB: Le famose tre “unità aristoteliche”
(d’azione, di tempo e di luogo) non si trovano come tali nella Poetica, sono un’invenzione
degli umanisti.
Gli umanisti del ’400 portarono avanti un recupero degli autori antichi, traducendo le opere
greche in latino o in volgare. Inizialmente queste opere vengono riproposte nella loro
letteralità, poi vengono riadattate. La Poetica di Aristotele è un caso particolare perché fin
dagli inizi viene rielaborata.
Nell’Umanesimo si iniziano a scrivere trattati che danno una struttura scientifica alle varie
discipline. Per i trattati sulla scienza teatrale si utilizza la Poetica di Aristotele e ad essa si
ispirano delle regole che in origine non c’erano.
Aristotele, nella Poetica, introduce due concetti fondamentali: quello di mimesi e quello di
catarsi.
La mimesi, ovvero l’imitazione, è la capacità di riprodurre fedelmente qualcosa. Secondo
Aristotele, la poesia deve imitare la realtà. Questo perché il suo scopo è quello di educare,
di dare un insegnamento e le conoscenze, fin dalla prima infanzia, si acquisiscono per
imitazione (Poetica, 4).
Aristotele nota che la poesia epica ha un arco temporale amplissimo, che la rende non
rappresentabile… Invece la poesia rappresentativa, per necessità, deve avere un arco
temporale ridotto. Scrive: “Mentre la tragedia cerca di restare nell’ambito di una sola
giornata, o di superarlo di poco, l’epica diversa perché indeterminata nel tempo”
(Poetica, 5).
Un’altra caratteristica della poesia rappresentativa è quella di imitare persone in azione
(dram: azione). In base alla qualità delle persone imitate, si distinguono la tragedia
(persone serie) e la commedia (persone dappoco). Aristotele ritiene la tragedia superiore
alla commedia. Dato che non ci si può immedesimare in una persona peggiore di noi, la
commedia non porta alla catarsi. Il riso è una cosa stolta. Di conseguenza In un celebre
passo della Poetica annuncia “della commedia parlerò in seguito” (Poetica, 6), ma poi non
ne parla… Questa parte è forse andata perduta? Più probabilmente non è mai stata
scritta, proprio perché Aristotele le attribuiva scarso valore.
La tragedia, secondo la definizione di Aristotele, è “imitazione di un’azione seria e
compiuta, avente una sua grandezza, in un linguaggio condito di ornamenti, di persone
che agiscono e non tramite una narrazione, che attraverso la pietà e la paura produce la
purificazione di questi sentimenti” (Poetica, 6).
Al centro della tragedia c’è un evento traumatico che porta a uno svolgimento e a una fine
tragica. Attraverso la pietà e la paura ispirati da questi eventi avviene la catarsi, la
purificazione interiore.
Secondo Aristotele la paura e la pietà non possono essere suscitate da un personaggio
troppo perfetto che cade in disgrazia (questo ripugna al senso morale), né da un
personaggio malvagio che passa dalla sfortuna alla fortuna o viceversa (cose che non
suscitano né paura né pietà), ma si deve rappresentare un personaggio intermedio, simile
allo spettatore, che cade nella sfortuna non per vizio o malvagità, ma per qualche “errore”
(Poetica, 13). Questo suscita paura e pietà.
La paura e la pietà, scrive Aristotele, possono essere suscitate anche per effetto dello
spettacolo (cioè delle cose mostrate in scena) ma una tragedia efficace produce questi
sentimenti semplicemente grazie alla trama, al “sistema degli eventi” (dice Aristotele,
“questo è preferibile”, Poetica, 14).
Gli strumenti che il poeta usa per rendere efficace la trama sono il colpo di scena, che
rovescia i fatti nel loro contrario (peripezia) e il riconoscimento (agnizione). Vi sarebbe
poi il fatto orrendo mostrato in scena (Poetica, 12), ma su quest’ultimo Aristotele non si
sofferma. Nel teatro greco, infatti, si evitava di mostrare i fatti di sangue sulla scena:
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questi venivano raccontati e commentati dal coro (o da un messaggero). Oltre a
raccontare il fatto, il coro si muoveva nell’orchestra in modo da catturare emotivamente lo
spettatore. L’enfasi è posta più sull’angoscia interiore che sull’orrore. In questo modo lo
spettatore si immedesima maggiormente nel personaggio (vederlo compiere azioni terribili
potrebbe produrre l’effetto contrario), prova pietà per lui e giunge alla catarsi.
La Medea di Euripide
È una tragedia di straordinaria attualità. Euripide (485 a.C. - 406 a.C) sceglie il
personaggio di Medea attingendo alla mitologia tradizionale ma lo tratta in modo del tutto
originale. Nel mito non c’è la decisione della madre di uccidere i figli: questi venivano
uccisi dai Corinti, o in un’altra versione venivano uccisi dalla stessa Medea ma
accidentalmente. Euripide inventa l’uccisione volontaria dei figli, appesantendo così
una vicenda già di per sé truce. Questa riscrittura risultò tanto efficace da imporsi nella
successiva tradizione del mito.
La tragedia Medea fu rappresentata in occasione delle feste dionisiache del 431 a.C.
Euripide non vinse la gara, ottenne il terzo premio, eppure la sua Medea ebbe un grande
impatto sul pubblico per la sua novità.
Euripide pone al centro della tragedia un unico personaggio principale: Medea. Ci sono
vari interlocutori ma nessuno di pari importanza. Il personaggio che fa da contraltare alla
protagonista è solo il Coro, che rappresenta le donne di Corinto ma anche l’alter ego di
Medea, la sua coscienza. Gli uomini che passano sulla scena (Giasone, Creonte, il
pedagogo, il nunzio…) sono insignificanti.
All’inizio in scena c’è la nutrice, personaggio ricorrente anche nel teatro moderno, che
conosce Medea fin da piccola e l’ha accompagnata fino in Grecia. La scena si svolge 10
anni dopo l’arrivo di Medea a Corinto.
Nella famosa impresa per ottenere il vello d’oro, Giasone si è avvalso dell’aiuto di Medea,
che è arrivata a far uccidere il fratello per amore di Giasone. Come ricompensa, Giasone
la sposa. Così Medea taglia i ponti con la patria e la famiglia per seguire il marito. Ora
però Giasone ha deciso di lasciare Medea per sposare la figlia2 di Creonte re di Corinto.
Creonte decreta l’esilio di Medea e dei suoi due figli, e Giasone non fa nulla per impedirlo,
anzi. La nutrice ci informa della disperazione di Medea per il tradimento subito.
Nel testo viene detto che Medea è una sóphe, sapiente, istruita. Inoltre è straniera, viene
dalla Colchide (l’attuale Georgia), quindi è un occhio esterno che può valutare e
denunciare obiettivamente i disagi della donna in Grecia. Euripide utilizza il mito per
proporre una riflessione sulla situazione della donna nella società greca. Emblematico è il
monologo in cui Medea parla della dote (“Siamo costrette a comprarci un marito”) e
dell’impossibilità di ripudiarlo. L’uomo è più libero, può sempre uscire di casa, mentre la
donna è costretta a rimanere tra le mura domestiche. Se è vero che tocca agli uomini
andare in guerra, questa è preferibile ai dolori del parto, dice Medea. Tutto questo con
espressioni di grande forza e modernità.
Medea è una donna difficile, problematica: viene definita “leonessa”, “sguardo di toro”,
“furente”… Il furore (thymos) è il tratto che caratterizza Medea, che si impone anche sulla
sua indole materna. Euripide fa di Medea un eroe (cfr Achille), che ha subito un torto e
come tale ha diritto alla sua vendetta. Il furor non è rabbia, non è un’emozione
momentanea. Medea sa fin dall’inizio che deve vendicarsi e dialoga col suo furore. Infine
arriva ad uccidere i figli perché, al pari di un eroe, non può sopportare di essere derisa dai
suoi nemici per la sventura che le è capitata. Teme anche di essere condannata a morte
per l’uccisione di Creúsa, e non vuol lasciare i figli a subire la ritorsione e il disprezzo. Ma
l’intento principale nel sopprimere i figli è quello di far soffrire Giasone fino alla morte.
3 Gli an teatri si di erenziavano dai teatri perché avevano forma ovale, la cavea era a tutto tondo e al centro
c’era una vasta area coperta di sabbia (arena) dove si svolgevano i giochi. Alcuni an teatri potevano essere
allagati per realizzare battaglie navali (cfr piazza Navona, che originariamente era un an teatro utilizzato per
questo tipo di spettacoli).
4 «Pane e giochi circensi» è un’espressione divenuta proverbiale, contenuta nella Satira X di Giovenale.
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La “VII lettera a Lucilio” di Seneca
Filosofo stoico, Seneca ha un’etica molto elevata e un alto senso della giustizia. Tutore del
futuro imperatore Nerone, quando questi salì al trono si allontanò da lui dopo alcuni anni e
si ritirò a vita privata. Forse implicato in una congiura contro Nerone, Seneca cadde vittima
della repressione dell’imperatore e scelse il suicidio.
Durante il suo ritiro dalla scena politica (62-65 d.C.), Seneca scrisse la sua opera più
celebre: le Lettere morali a Lucilio, un’opera epistolare in cui propone alla meditazione
dell’amico vari temi di natura etica.
Nella Settima lettera mette in guardia Lucilio dall’influsso della folla, che ha un potere di
persuasione, secondo lui, sempre negativo. La massa porta all’omologazione e
all’adattamento verso il basso. Seneca porta l’esempio degli spettacoli circensi, in cui si
impara sempre qualche vizio. “Quando rientro in casa non ho gli stessi costumi di quando
sono uscito”, scrive Seneca. Questo perché mi lascio condizionare dalla massa e finisco
per tradire me stessi, nascondendo la mia personalità per uniformarmi alla massa.
Nei giochi sanguinosi del teatro, si rivelano gli impulsi peggiori dell’umanit , la crudelt e la
violenza incontrollata. Quando c’è da decidere la vita o la morte di un gladiatore, la
folla inneggia e condiziona la decisione. Preso a sé il singolo probabilmente non
oserebbe decretare la morte di un essere umano, ma nella folla la coscienza è
addormentata, il singolo si lascia trascinare e fa quello che non avrebbe mai pensato di
poter arrivare a fare.
Quella di Seneca è una testimonianza importante perché parla degli spettacoli di massa a
lui contemporanei. Gli spettacoli erano usati per persuadere il popolo della potenza
dell’imperatore e della sua generosità nell’offrire giochi circensi (che erano gratuiti, non si
pagava un biglietto). È lo spettacolo del potere, un’idea che sarà ripresa in epoca
moderna.
Ma perché la sofferenza e la morte vengono spettacolarizzate? Servono a esorcizzare la
paura della nostra morte (cfr i passanti che rallentano per vedere le conseguenze di un
incidente). Anche le esecuzioni capitali sono state spesso concepite come spettacoli.
Assistere all’uccisione di un altro serve a scongiurare che questo possa capitare a noi (cfr
quando qualcuno cade e ci scappa da ridere)5.
Sembra paradossale che Seneca, così severo nel condannare la spettacolarizzazione
della violenza, abbia scritto delle tragedie in cui l’elemento del furore e della violenza viene
particolarmente esibito. Indubbiamente anche Seneca era figlio del suo tempo e del suo
ambiente. Bisogna poi tener conto che la tragedia, al tempo di Seneca, non viene più
rappresentata a teatro ma diventa intrattenimento privato, nelle case patrizie, per una
cerchia ristretta di intellettuali, e viene declamata. Le tragedie vengono declamate dagli
stessi patrizi e non da attori professionisti.
L’actor e l’istrione
Chi declama i versi in questo contesto elitario viene detto actor. Il suo compito è quello di
leggere il testo in modo persuasivo. Non usa il corpo: una recitazione professionistica
richiederebbe anche l’aspetto performativo. Invece l’actor si limita a usare la gestualità
delle mani per enfatizzare la parola. Non a caso, questo tipo di spettacoli era frequentato
dagli oratori, dai professionisti del fòro, da coloro cioè che usavano la voce, la parola e la
gestualità per convincere gli altri.
Al tempo stesso, in epoca imperiale, nasce la figura dell’attore professionista, che viene
chiamato istrione (histrio). Questi ha delle competenze acquisite con lo studio che gli
permettono di fornire delle prestazioni che altri non possono offrire. E per queste
5Per approfondire questi aspetti, letture interessanti sono Il riso di Henri Bergson e L’opera di Rabelais e la
cultura popolare di Michail Bachtin.
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prestazioni si fa pagare, si mantiene facendo divertire gli altri con le sue capacità
performative. Acrobazie, mimo, musica, canto, racconto di storie, vendita di unguenti
miracolosi rientrano tra le sue competenze. L’istrione è itinerante e si esibisce dove
capita, dove c’è un pubblico. Consideriamo che spostarsi all’epoca era pericoloso, tanto
più che l’istrione si muoveva da solo, non c’era ancora l’idea di “compagnia” (che nasce
con la Commedia dell’arte). Per questo l’offerta di un repertorio ampio e diversificato gli
consentiva di rimanere più a lungo su una stessa piazza, facendo cose diverse. L’istrione
non si vuole specializzare. Cerca di volta in volta di capire quale tipo di spettacolo può
piacere in un certo ambiente e ad un certo pubblico. Un altro concetto fondamentale è
quello di improvvisazione, che richiede una grande preparazione (non vuol dire
“inventare qualcosa sul momento”).
L’istrione romano più famoso, Roscio, lo conosciamo attraverso Catullo e Cicerone, ed era
un vero e proprio divo del II secolo a.C. Ma nella cultura romana emerge già
quell’atteggiamento ambivalente di ammirazione e ripulsa verso gli istrioni, idolatrati per le
loro performance ma emarginati dal punto di vista sociale: essendo girovaghi, non erano
riconosciuti come parte di una comunità, erano considerati anche un po’ inquietanti,
personaggi borderline.
Attrazione e ripulsa accompagnano la figura dei professionisti dello spettacolo. A
peggiorare la situazione, in epoca tardo-antica arriva la polemica cristiana contro gli
spettacoli6. I motivi di questa ostilità erano vari. Alle considerazioni di tipo morale sul
contenuto volgare e violento degli spettacoli, condivise anche da filosofi come Seneca,
si aggiungono argomenti che riguardano la natura stessa dello spettacolo: da una parte
il legame del teatro con le divinità pagane (Dioniso, Venere), per cui il teatro viene
equiparato all’idolatria, e dall’altra la natura essenzialmente visiva degli spettacoli di
ambiente latino, a cui mancava la mediazione del logos, per cui attraverso gli occhi
(incertos oculos) l’anima veniva più facilmente corrotta e inquinata dal vizio7. A questo
aspetto si ricollega una delle accuse che tornerà costantemente nella polemica anti-
teatrale anche nei secoli successivi: l’esposizione del proprio corpo per ricavarne un
guadagno viene equiparata alla prostituzione8.
La spettacolarità medievale
La figura dell’istrione rimane pressoché inalterata nel passaggio dall’età antica al
Medioevo mentre il contesto dello spettacolo si sfascia, per rigenerarsi in forme nuove. Il
graduale disfacimento dell’impero romano porta alla scomparsa della concezione dei
monumenti come segno dell’immanenza del potere centrale di Roma.
Con la caduta dell’impero romano d’occidente (476 d.C.) i teatri rimangono monumenti
vuoti e inutilizzati oppure destinati ad altro uso. Sopravvive la spettacolarità non
istituzionale, che in epoca imperiale era sommersa, “offuscata” da quella istituzionale,
l’unica ad essere storicizzata e tramandata. Tuttavia, sebbene le fonti ne parlino di rado,
esistevano riti ancestrali e una spettacolarità popolare molto presente (Apuleio nell’Asino
d’oro parla delle sfilate dei carri di carnevale, carrus navalis). È questa spettacolarità
6Testo di riferimento anche per gli scrittori ecclesiastici dei secoli successivi sarà il De Spectaculis di
Tertulliano (160-220 ca.).
7Celebre il passo delle “Confessioni” (VI,8) in cui Agostino racconta di Alipio, che trascinato dagli amici a
uno spettacolo di gladiatori, teneva gli occhi chiusi per non vedere il sangue ma quando li aprì, a causa di
un boato della folla, rimase tanto soggiogato da ciò che vide da diventare un appassionato di questo
genere di spettacoli “e erati e funesti”.
8 Un altro motivo di sospetto era l’uso stravolto del corpo e l’assunzione di un’altra personalità, talvolta con
l’uso di un linguaggio incomprensibile, che assimilava l’istrione all’indemoniato.
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popolare che rimane e prosegue mentre quella istituzionale decade. Va considerata
superata la storiografia che parla di una “scomparsa” e “ricomparsa” di questi spettacoli
con la Commedia dell’arte. In realtà ci sono sempre stati.
I contemporanei non sapevano come chiamare gli istrioni perché facevano un po’ di tutto.
Facevano cose che gli altri non sapevano o non potevano fare. Noi chiameremo queste
figure “istrioni” o “performer”. È da evitare il termine “giullare”, che rimanda al solo aspetto
della giocoleria (“giullare” viene dal latino “jocularis”, giocoliere, ndr). Al contrario, la non
specializzazione, il saper fare un po’ di tutto, è una caratteristica principale degli istrioni,
insieme al fatto di offrire queste prestazioni a pagamento. La nascita di vari piccoli centri,
intorno all’abbazia, al castello, ecc… stimola l’itineranza, altra caratteristica fondamentale
dell’istrione.
Nel Medioevo non ci sono fonti di alto livello sull’attività degli istrioni, e se ci sono, sono
ostili. Sugli istrioni pesava la condanna della Chiesa, che aveva ereditato dall’epoca
patristica la polemica contro gli spettacoli, che riecheggia nei canoni dei concili regionali e
nelle polemiche degli scrittori ecclesiastici, spesso con riferimenti assai specifici.
Si nota tuttavia, nella pratica, un’ambivalenza da parte del potere ecclesiastico nei
confronti degli istrioni, chiamati talvolta ad esibirsi in contesti e luoghi religiosi come
strumento di comunicazione col popolo. La comunicatività dell’istrione, infatti, come le
decorazioni pittoriche e plastiche delle chiese, poteva diventare una Biblia pauperum, un
ausilio per illustrare visivamente i misteri della fede al popolo analfabeta. In alcuni casi gli
istrioni si esibivano in chiesa, soprattutto come musici.
D’altra parte, gli stessi ecclesiastici che uscivano nelle piazze per predicare, potevano
usare alcune tecniche proprie degli istrioni per attirare l’attenzione della gente. Nel XIII
secolo nascono gli Ordini mendicanti, con l’intento di avvicinare il Vangelo al popolo.
Francesco d’Assisi, fondatore dei Frati minori, pratica l’itineranza, punta sulla predicazione
in lingua volgare, anche mediante il canto (cfr il Cantico delle Creature). I misteri della fede
sono spiegati e anche rappresentati: ricordiamo che San Francesco è considerato
l’inventore del presepe (allestì il primo presepe vivente a Greccio nel 1223). A sua volta, il
Santo d’Assisi usava la performatività, era un vero e proprio istrione.
Dato che l’istrione non ha uno spazio teatrale dove esibirsi, tutto il territorio può diventare
luogo teatrale, basta avere la capacità di coinvolgere gente, di attirare spettatori. Quindi,
luogo teatrale si definisce uno spazio con uno specifico utilizzo (piazza del mercato,
sagrato della chiesa…) che temporaneamente diventa luogo della rappresentazione. Ma
l’istrione poteva essere invitato anche al castello dai nobili. In questo caso era la sala del
banchetto diventare luogo teatrale. Chi organizzava un banchetto metteva in mostra la
propria ricchezza, i pasti duravano ore, per cui gli ospiti dovevano essere intrattenuti e per
questo si invitavano gli istrioni.
A partire dal XIII secolo, quando il potere si consolida e si struttura all’interno delle corti,
l’istrione entra a far parte stabilmente del personale di servizio. Con la sicurezza dello
stipendio e del posto fisso, l’istrione acquisisce una posizione sociale e tendono a
specializzarsi come musico o poeta di corte. Queste nuove figure definiscono il proprio
status in contrasto con quello dei giullari, saltimbanchi, cantori di versi altrui, ciarlatani e
altri tipi di istrioni che continuano ad esibirsi sulle piazze in contesti popolari.
In tutta Europa quindi si moltiplicano i luoghi teatrali: gli spettacoli si fanno nei giardini,
nelle sale dei banchetti o delle udienze, all’ombra delle chiese… Gli studiosi (come Luigi
Allegri) parlano di spettacolarità diffusa, che prosegue fin oltre la metà del Cinquecento.
Questa diffusività, come abbiamo visto, riguarda non solo gli spazi usati per lo spettacolo
ma anche la commistione tra sacro e profano. È una visione superata quella che separa
nettamente spettacolarità religiosa e laica nel Medioevo.
Le rappresentazioni sacre
Una fonte iconografica cinquecentesca, la Passion de Valenciennes (1547), ci mostra
come funzionava la messa in scena delle rappresentazioni sacre (cfr MAZZONI, p 151). I
nuclei tematici derivavano dalla letteratura religiosa: soprattutto la Passione di Cristo o gli
atti dei martiri. Si svolgevano in piazza ed erano quasi tutte in lingua volgare. Il fulcro era
la performatività: rappresentare visivamente certe scene. Questo accento sulla visione è
un’eredità che viene della spettacolarità romana.
La fonte iconografica di Valenciennes mostra sulla scena diversi luoghi deputati (o
mansiones) dove dovevano avvenire specifiche scene. Gli estremi sono l’inferno, col
fuoco, gli esseri infernali, e il paradiso con le luci, gli angeli, ecc… Tra questi due estremi,
ci sono altri luoghi attraverso i quali si muovevano gli attori. Anche gli spettatori dovevano
muoversi per seguire l’azione. La disposizione dei luoghi in questa fonte iconografica è
lineare. Non sappiamo però se i luoghi deputati fossero disposti in linea retta o più
probabilmente in cerchio, in modo che il pubblico potesse vedere meglio tutti i punti.
All’interno di queste rappresentazioni sacre, gli istrioni facevano il loro lavoro, non
propriamente devoto. Vediamo l’immagine di una rappresentazione del martirio di S.
Apollonia, tratta dal Libro d’Ore di Estienne Chevalier (cfr MAZZONI, p 149). Al centro c’è
la scena del martirio, e lì accanto un tizio con un mantello blu, bacchetta e libro che dirige.
Sullo sfondo si vedono anche dei musicisti con strumenti a fiato. L’uomo col mantello blu
probabilmente ha il compito di dare i tempi della musica, dell’azione e funge anche da
suggeritore, dato che in queste rappresentazioni sacre erano coinvolti figuranti non
professionisti. C’è però anche l’istrione, sulla sinistra, che fa vedere il fondoschiena. Torna
il tema della dissacrazione della morte e della sofferenza (cfr il carnevale), il tentativo di
esorcizzare gli aspetti tragici della vita. Sacro e profano sono mischiati.
Un’altra fonte iconografica, del 1440, dal manoscritto di una morality play9 intitolata Il
castello della Perseveranza (The Castle of Perseverance), rappresenta uno spazio
teatrale circolare. Lo spazio è delimitato da un fossato. Al centro c’è il castello della
Perseveranza. Intorno, ci sono altri luoghi deputati, delle edicole disposte sui punti
cardinali, indicanti Dio, Belial, il Mondo, la Carne, la Cupidigia. Il pubblico si muoveva
all’interno del cerchio, senza però intralciare la scena.
9 Così si chiamavano le rappresentazioni sacre in Inghilterra. Un’altra tipologia erano i Pageants, che si
svolgevano su carri, luoghi teatrali itineranti.
Brunelleschi inventa una meravigliosa struttura a forma di cupola e per realizzarla usa le
macchine e maestranze che stava utilizzando per la cupola di S. Maria del Fiore. La scena
è divisa in tre livelli. Nel livello basso è presente l’edicola che rappresenta la casa della
Vergine Maria, impersonata da un figurante. Il livello più alto rappresenta il paradiso,
circolare, con al centro la figura immobile di Dio, circondato da cerchi di bambini che fanno
gli angioletti. Da sotto il palcoscenico alto si diparte una cupola mobile che discende, a
significare il cielo che scende verso la terra. Dalla cupola, mediante un argano, viene
calata una mandorla che trasporta il figurante che interpreta l’Arcangelo Gabriele (cfr
MAZZONI, p. 146-148).
Gli argani e le altre macchine sono nascosti alla vista del pubblico da un pannello
raffigurante il cielo. Il meccanismo a scorrimento verticale, usato per far discendere la
mandorla, diventerà comune nella scenografia teatrale, ad esempio per rappresentare il
sorgere e tramontare del sole.
L’Arcangelo raggiunge Maria, fa l’annuncio e poi torna in cielo. L’elemento visivo è
preponderante. I rumori delle macchine erano probabilmente coperti dalla musica. Tutto
doveva svolgersi in perfetta sincronia, sotto una direzione sapiente.
L’immagine del cielo e della terra che Brunelleschi propone nell’allestimento di S. Felice in
Piazza si rifà alla Divina Commedia di Dante (il cielo circolare, i cerchi concentrici…). Si
tratta di un immaginario che viene ripreso infinite volte dagli artisti, anche in opere
pittoriche (cfr la Chiesa militante del Bonaiuti, il Giudizio universale del Beato Angelico o il
suo Cristo Giudice a Orvieto, la Natività mistica di Botticelli…).
Gli stessi “ingegni” del Brunelleschi hanno avuto un influsso sull’iconografia coeva: si veda
l’illustrazione tratta dal libro di Feo Belcari (1410-1484), in cui si vedono chiaramente il
cielo a cupola e la mandorla che ne discende (cfr MAZZONI, p. 144).
Nel 1533 la macchina dell’Annunciazione smise di essere utilizzata nella chiesa di S.
Felice in Piazza quando questa passò dai monaci camaldolesi alle monache domenicane.
La macchina del Brunelleschi fu rimossa da S. Felice e conservata in un magazzino nei
pressi del chiostro della chiesa del Carmine, dove Giorgio Vasari (1511-1574) la prelevò,
insieme ad altri ingegni teatrali, per restaurarla e utilizzarla nella festa dell’Annunciazione
del 1566 nella chiesa di S. Spirito. In questa occasione Vasari scrisse una descrizione
dello spettacolo così come immaginava che fosse stato, un secolo prima, quello del
Brunelleschi.
La memoria degli apparati teatrali del Brunelleschi è stata rievocata in una famosa
esposizione del 1975 dal titolo “Il luogo teatrale a Firenze”, curata da Ludovico Zorzi.
Allora furono esposti dei modellini che riproducono le scenografie ideate dal Brunelleschi,
modellini oggi conservati nelle scuderie del Buontalenti a Pratolino.
Il 1439 è anche l’anno in cui viene trasferito a Firenze il Concilio di Basilea, che ancor
prima era stato spostato a Ferrara. Cosimo il Vecchio aveva fatto di tutto perché questo
importante evento si tenesse nella sua città. A questo Concilio partecipavano anche i
greci, dato che esso mirava a riunificare la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse,
ricomponendo lo scisma del 1054. Il dibattito dogmatico si concentrava sulla questione del
“Filioque”. La presenza di intellettuali greci a Firenze fu uno stimolo anche per la riscoperta
umanistica dei classici greci.
Ai padri conciliari Cosimo il Vecchio offrì un’altra sontuosa rappresentazione
dell’Annunciazione, stavolta nella chiesa di San Marco (cfr MAZZONI, p. 142)10, che
era la chiesa di famiglia dei Medici. Qui venne allestita la rappresentazione sacra, con uno
sviluppo orizzontale. Brunelleschi realizza due edicole su lati opposti della chiesa. Una, più
10 Prima della scoperta del documento in cui un letterato greco riferisce che tale rappresentazione si tenne
in San Marco, si credeva che questa si fosse svolta nella chiesa della SS. Annunziata. Questo errore era
ancora presente nella prima edizione del libro Il teatro nella Firenze Medicea di Sara Mamone, poi corretto.
La scoperta del documento in questione si deve a un’allieva della Mamone, Paola Ventrone.
rialzata, che rappresenta il Paradiso, sopra l’ingresso della chiesa, l’altra, che rappresenta
la camera della Madonna sul tramezzo del presbiterio. Le due edicole sono collegate da
funi, sulle quali l’Arcangelo, mediante una carrucola, attraversa in volo la navata passando
sopra la testa degli spettatori. Su una delle funi scende anche la colomba dello Spirito
Santo, accompagnata da fuochi d’artificio. Anche qui la rappresentazione è
eminentemente visiva. L’uso di sipari accentuava l’illusionismo teatrale, nascondendo e
scoprendo a tempo opportuno i luoghi deputati.
Brunelleschi allestì anche una rappresentazione dell’Ascensione nella chiesa del Carmine.
11Michelangelo morì a Roma, mentre lavorava alla corte papale, ma i Medici vollero che i funerali fossero
celebrati a Firenze, perché era un artista “loro”. Rendendo onore al grande artista si celebravano i fasti della
famiglia che l’aveva protetto.
La stessa tripartizione viene ripresa da Sebastiano Serlio (1475-1554) nel suo Secondo
libro di architettura (1545). Serlio traspone Vitruvio in modo moderno, attualizzando il
trattato sull’architettura alle esigenze del suo tempo. Il suo è un manuale per architetti, più
pratico che teorico. In effetti, il Cinquecento è il secolo della “manualizzazione”, c’è un
passaggio alla praticità rispetto alle teorizzazioni quattrocentesche. Serlio parte proprio
dalle basi: nel primo libro fornisce nozioni elementari di geometria, parte dal punto e dalla
linea. Il secondo libro analizza lo spazio prospettico e, in questo contesto, tratta anche
della scenografia: il fondale, l’importanza del pavimento disegnato in prospettiva, le quinte
utilizzate per dare profondità laterale, poste in diagonale per rendere più realistica la
tridimensionalità.
Nei tre tipi di scene, inoltre, introduce elementi praticabili (un terrazzino nella scena
comica, una capanna nella scena boschereccia…), per aumentare il senso di
stupefazione. Gli attori non entrano solo dai lati ma anche dall’interno degli elementi stessi
della scenografia.
Il recupero del De Architectura di Vitruvio (I secolo a.C.) ad opera di Sebastiano Serlio,
porta alla graduale riscoperta dell’edificio teatrale, prima come sala adibita
esclusivamente agli spettacoli, poi come edificio a se stante.
Momenti di spettacolo popolare erano gli ingressi in città di personaggi illustri, la già citata
Cavalcata dei Magi per l’Epifania, i cortei matrimoniali, funebri, ecc… Ma oltre al consenso
del popolo serviva quello delle élite. Per questo, nel Cinquecento, vengono allestite delle
sale all’interno dei palazzi medicei (a palazzo Vecchio, agli Uffizi…) per rappresentarvi
spettacoli teatrali. Così lo spettacolo si privatizza, diventa elitario: è il principe che lo offre
agli ospiti illustri. Non tutti possono entrare a palazzo per assistere a queste
rappresentazioni. Tuttavia, in questo periodo si sperimenta molto: è proprio all’interno delle
corti che, per due secoli, la tecnica e la scenografia si perfezionano.
12 “La Pellegrina” è stata riproposta soltanto nell’anno 2000, al teatro della Pergola. Gli Intermezzi del
Buontalenti sono stati riproposti in chiave moderna nel 2019 al Giardino di Boboli. Si è trattato di una messa
in scena molto discutibile. Si salvavano soltanto l’ambientazione magni ca e la restituzione musicale diretta
da Federico Maria Sardelli.
fi
mitologico, indipendenti dalla commedia “La Pellegrina”, che si concludono con l’apoteosi
del granduca.
Buontalenti sfrutta i tre livelli del palcoscenico. Nella parte alta, sulle nuvole, si trovano le
divinità. Musici e cantori suonano e cantano su nuvole semoventi. Gli ingegni sono
praticabili. Nella parte mediana appare il cavallo alato. Dal basso compare l’inferno. Il tutto
grazie a macchinerie, i cui rumori erano coperti dalla musica.
Il quinto ed ultimo intermedio si conclude con una lunga danza, che per la prima volta è
una danza rappresentativa. Gli dei scendono dal cielo e rendono omaggio al granduca,
emanazione della divinità e donatore di prosperità sulla terra.
La scelta di rappresentare solo gli Intermedi, con musica, canti e danze, senza le parti
recitate, prelude alla nascita del melodramma, che debutterà proprio a Firenze nel 1600.
Gli elementi ci sono tutti: manca solo una drammaturgia unitaria.
Su YouTube è disponibile una bella restituzione degli Intermedi della “Pellegrina” eseguiti
dal Taverner Consort, con una ricreazione - in parte grazie al digitale - degli apparati
scenici del Buontalenti.
Sempre il Buontalenti, nel 1589, ha un altro exploit ingegneristico: la “sbarra”, cioè il
torneo che si tenne a Palazzo Pitti. Vi presero parte gli stessi membri della corte, che
potevano esibire così le loro abilità guerresche. Poi, il cortile di palazzo Pitti venne allagato
per mettere in scena una naumachia (battaglia navale) tra cavalieri cristiani e corsari
barbareschi. Sullo sfondo c’era la cittadella cristiana assediata (cfr MAZZONI, p. 226).
Alcuni barchini erano stati scenografati come se fossero navi da guerra. Gli attori erano
marinai delle navi dei Cavalieri di Santo Stefano. Ricordiamo che l’anno seguente, nel
1590, venne inaugurato il porto mediceo a Livorno. Si trattava quindi di uno spettacolo
politico: rimandava alla politica marinara del Granducato, effimera ma molto importante.
Excursus su Bologna
Nonostante fosse un importante snodo fluviale e viario, sede della prima università
europea, Bologna è stranamente priva di documentazione riguardo agli spettacoli nel
Quattro-Cinquecento. Eppure Bologna è stata una delle prime signorie: già a metà del
Trecento era governata dai Pèpoli, a cui nel Quattrocento subentrarono i Bentivoglio.
Nel 1445 fu assassinato Annibale I Bentivoglio, il cui figlio aveva appena due anni e non
poteva succedergli subito. Si seppe però che Annibale aveva un cugino, Sante
Bentivoglio, che era figlio illegittimo ed era stato allevato a Firenze. Questo erede segreto
è raffigurato in un dipinto di Vasari ai piedi di Cosimo il Vecchio, intento ad ascoltarlo. A
Cosimo faceva comodo avere un suo uomo al governo di Bologna e Sante accettò di
trasferirsi nella città felsinea. Stando a Firenze, Sante Bentivoglio aveva assimilato la
strategia medicea degli spettacoli come legittimazione del potere e la applica anche a
Bologna. Ma perché non ne è rimasta traccia?
Dopo la conquista di Bologna da parte del “papa guerriero” Giulio II, nel 1506, la famiglia
Bentivoglio venne condannata alla damnatio memoriae e tutti gli archivi e testimonianze
della sua attività vennero distrutti. In seguito fu demolito anche il palazzo di famiglia.
A Bologna venne instaurata una forma di governo misto che vedeva la compresenza di un
legato pontificio e di alcune famiglie senatorie. Si moltiplicano così le committenze
artistiche. I mecenati bolognesi però non hanno ricevuto molta attenzione, a livello di studi
accademici, per l’assenza di una corte.
I centri di committenza dell’epoca erano le corti ma anche il mercato (spettacoli a
pagamento) e le accademie. I nobili bolognesi, non avendo una corte, si riunirono in
Accademie. Queste non erano entità minori. Si tenga presente che il primo teatro stabile
dell’epoca moderna, il Teatro Olimpico di Vicenza, fu realizzato nel 1580 da Andrea
Palladio proprio su commissione di un’accademia: l’Accademia Olimpica.
Le accademie si ispiravano all’Accademia di Atene fondata da Platone e si configuravano
come luoghi di libera discussione. Inizialmente erano segrete: la regola era che niente
doveva trapelare all’esterno di quello di cui si discuteva al loro interno. Per questo, non
abbiamo archivi delle accademie fino alla metà del Cinquecento.
A Bologna però si ritrovavano, nel periodo di Quaresima, gli artisti della Commedia
dell’Arte, e da qui partivano per le loro tournée. Artisti arrivarono a Bologna anche a
seguito dei sovrani, in occasione dell’incontro di papa Leone X con Francesco I nel 1513 e
poi ancora in occasione dell’incoronazione di Carlo V nel 1530. In questi anni lavorarono a
Bologna i grandi scenografi Baldassarre Peruzzi, Sebastiano Serlio (che era bolognese)
e il Vignola. Ricordiamo poi l’attività degli scenografi Bibiena, che da Bologna diffusero
la loro arte in tutta Europa.
Quindi, nonostante la scarsità di fonti, Bologna fu un centro teatrale molto vivace.
Nel 1580, Andrea Palladio inizia a costruire il teatro Olimpico di Vicenza, che viene
inaugurato nel 1585 (cfr MAZZONI, p. 175-184). Le scenografie vengono allestite da
Vincenzo Scamozzi. il Palladio si era già avvicinato al teatro antico illustrando un’edizione
commentata del De Architectura di Vitruvio. L’Accademia Olimpica di Vicenza lo chiamò a
realizzare un vero e proprio edificio teatrale imitando i teatri antichi. Palladio realizza
quindi una cavea e un frons scenae sul modello dei teatri romani. Sul colonnato che
sovrasta la cavea pone delle statue che ritraggono gli accademici olimpici. In questo teatro
si rappresentò un unico spettacolo, l’Edipo tiranno, una tragedia ispirata a Sofocle. Scelta
inusuale, resa possibile dal fatto che era un teatro pubblico e non di corte (dove la tragedie
erano bandite, dato che si concludevano solitamente con la morte del sovrano). Gli
intermedi furono realizzati da Angelo Ingegneri, che viene considerato il primo “regista
teatrale” della storia: è l’autore del manuale La pratica di mettere in scena le favole teatrali.
Andrea Gabrieli scrive le musiche per gli intermedi. Subito dopo l’inaugurazione il teatro
fu dismesso e per questo si è conservato fino a noi nella sua forma originale, comprese le
scene fisse di Scamozzi.
Nel 1590 nasce il primo edificio teatrale in un centro periferico, il teatro all’Antica di
Sabbioneta, voluto dal duca Vespasiano Gonzaga per la sua nuova “città imperiale”,
Sabbioneta appunto, in provincia di Mantova (cfr MAZZONI, p. 185-192). Vincenzo
Scamozzi riprende l’idea del Palladio di mantenere la cavea ma elimina il frons scenae.
Sul colonnato, Vespasiano Gonzaga fa mettere le statue degli imperatori, ai quali
idealmente si rifaceva. Anche questo teatro, dopo la sua inaugurazione, rimane inutilizzato
e per questo è arrivato a noi nella sua forma originale.
La Commedia dell’Arte
A metà del ’500 si comincia a parlare di Commedia dell’Arte. Cos’è successo rispetto agli
istrioni del Medioevo? Sono avvenuti dei cambiamenti sociali importanti: si è molto
sviluppata una classe intermedia tra la plebe e la nobiltà. È la classe produttiva, di coloro
che praticavano un’arte. Il termine “arte”, nell’accezione romanza, significa “mestiere”.
Quelli che esercitano lo stesso mestiere si organizzano in corporazioni, per avere maggiori
tutele e riconoscimento sociale. Le città, nel tardo medioevo, si erano organizzate
urbanisticamente proprio in base alle “arti”, che erano concentrate in determinati quartieri.
Così anche gli istrioni, che tradizionalmente erano solisti, in una società organizzata per
corporazioni, sentono la necessità di mettersi insieme, anche per la sicurezza negli
spostamenti.
A Padova, il 25 febbraio 1545, viene prodotto un documento importantissimo: un gruppo di
istrioni si recò da un notaio per sottoscrivere la nascita di una società di mestiere. Il
mestiere dello spettacolo viene così ufficialmente riconosciuto con atto notarile. I
contraenti si danno il nome di Comici dell’Arte. Il termine “comico” e “commedia” non va
inteso in opposizione a “tragedia”, ma in senso generico con riferimento alla “recitazione”.
Quindi l’espressione “commedia dell’arte” si può tradurre come “mestiere della
recitazione”.
Nell’atto notarile sono elencati i nomi dei componenti della compagnia e vengono stabilite
delle regole e una gerarchia. Benché i comici dell’arte si considerino tutti uguali, per motivi
di organizzazione stabiliscono fra loro un capocomico che coordini il gruppo. Ognuno
porta il suo contributo, anche economico, di costumi, ecc… L’elemento cruciale è che, fin
dalla loro nascita, queste compagnie prevedevano anche delle donne. Presenza femminile
che costituiva un aspetto di attrattiva per il pubblico: le donne mettevano molto anche della
loro sensualità in scena.
Intorno al capocomico, gli altri attori assumono ruoli precisi, che poi saranno codificati
come maschere. I tipi di personaggi canonici sono: la prima attrice, detta l’Innamorata, e il
suo corrispettivo maschile, l’Innamorato. Sono ruoli “alti”, personaggi ben vestiti, con
atteggiamenti eleganti, che devono saper usare la voce e avere una buona dizione. La
loro forma recitativa è prevalentemente vocale. A servizio dell’Innamorata c’è la Nutrice,
personaggio derivante dal teatro classico. C’è poi il ruolo del Vecchio, che ha
atteggiamenti goffi e burberi, personaggio ridicolo che parla in dialetto bolognese e prende
il nome di Pantalone, Balanzone, o genericamente il Dottore. I vecchi sono spesso
innamorati di giovani fanciulle, che li circuiscono per estorcere loro denaro.
Poi il personaggio del servo, che spesso aiuta i giovani innamorati a raggiungere il loro
scopo. I servi denominati Zanni sono gli elementi motori della rappresentazione. Lo Zanni
è l’elemento popolare, squattrinato, sempre affamato, che si mette al servizio di un
padrone per poter mangiare. Anche i servi sono a coppia: il primo e il secondo servo, uno
sciocco e uno furbo. Parlano un miscuglio di milanese, bergamasco, bresciano… Un altro
elemento caratteristico era quello sessuale: il Servo dava sempre fastidio alla Servetta,
che si dimostrava contenta delle sue avances. Era invece impensabile che il Servo
molestasse l’Innamorata. Questo però poteva farlo un’altra figura, il Capitano, ruolo
complesso che stava a metà strada fra l’Innamorato e il Servo. Il Capitano si presenta
come un nobile borioso e fanfarone, dal nome altisonante (capitan Fracassa, capitan
Tempesta, ecc…) che ostacola gli Innamorati. È spesso caratterizzato come spagnolo.
Negli spettacoli della Commedia dell’Arte c’era spazio anche per la musica e la danza. I
comici provenivano da una non-specializzazione, per cui il loro repertorio era sconfinato.
Recitavano commedie, tragedie e pastorali. Era un “teatro di favole rappresentative”.
Queste compagnie non erano fisse. Gli attori si sostituivano, anche se erano specializzati
in un ruolo, potevano essere chiamati a interpretarne altri. Viaggiando e spostandosi,
sapevano farsi capire anche da chi non comprendeva la lingua. Ricordiamo che nella
stessa Italia c’erano molti dialetti e la lingua unica esisteva solo a livello letterario. Saper
usare in maniera efficace il corpo (la cinesica o cinetica) era essenziale per farsi capire
da tutti. Questo fa sì che i comici dell’arte abbiano successo anche all’estero.
Per molto tempo i comici dell’arte sono stati considerati come attori che improvvisavano
senza testi di riferimento, che recitavano “a caso”. Niente di più falso! L’improvvisazione è
la capacità straordinaria di sapersi adattare alle esigenze del pubblico che si ha davanti.
Questa capacità è frutto di un’altissima competenza. In realtà i comici dell’arte avevano dei
copioni, dei canovacci, che però potevano adattare, aggiungendo o togliendo in base
alla situazione.
Le compagnie di comici dell’arte avevano un circuito nazionale che attraversava tutta la
penisola (cfr MAZZONI, p. 213). Firenze era una piazza importante, dove il teatro della
Dogana rimase attivo fino al 1653 quando fu soppiantato dai teatri pubblici delle
accademie. Come sappiamo, anche Bologna era una piazza importante,8 dove le
compagnie si ritrovavano durante la Quaresima e preparavano la circuitazione annuale.
Qui le compagnie si scambiavano anche gli attori, in base alle necessità per i diversi ruoli.
Il circuito si allargava poi verso la Francia, Vienna, la Germania… Il punto di passaggio era
Lione, dove si trovava una numerosa comunità di italiani che ospitava gli attori.
Fra le prime compagnie ad esibirsi in Francia c’è la Compagnia dei Gelosi, fondata da
Francesco Andreini, capocomico che interpretava il ruolo del Capitano, e la moglie
Isabella Andreini, nata Canali, che faceva l’Innamorata. Nei ritratti, questi attori
assumono pose da nobili, in mezzobusto (cfr MAZZONI, p. 215-217). C’è un tentativo di
nobilitare la professione, di riabilitare la categoria.
Uno degli strumenti per legittimare la propria attività è quello di avere una produzione
scritta, che crea una tradizione ed eleva. Così i comici cominciano a scrivere.
Un’altra strategia per legittimarsi è quella di cercare la protezione delle famiglie nobili. Di
solito erano i principi cadetti delle famiglie regnanti ad occuparsi di teatro. A Firenze ce n’è
uno eccellente: Giovanni de’ Medici, detto “don Giovanni”, figlio naturale di Cosimo I. Non
solo proteggeva i comici dell’arte (il capocomico era Flaminio Scala), ma li gestiva e li
finanziava (cfr il capitolo “Don Giovanni impresario”, in Siro Ferrone, Attori, mercanti,
corsari). I signori rilasciavano alla compagnia delle “lettere patenti” che permettevano di
passare indenni le dogane e agevolavano i viaggi. Da queste lettere dipendeva
l’incolumità degli attori. Come abbiamo detto, le compagnie di comici diventano anche
pedine diplomatiche.
13Il personaggio di Arlecchino, nel medioevo, era un demone, capo di una masnada infernale.
Anche le altre maschere nere hanno un rapporto con la negromanzia, rimandano a un viaggio
negli inferi e quindi ad una funzione di tramite con l’altro mondo.