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Riassunto storia del teatro e dello spettacolo

Storia del teatro e dello spettacolo (Università degli Studi di Perugia)

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STORIA DEL TEATRO E DELLO SPETTACOLO


Roberto Alonge, Franco Perrelli
1. Il teatro classico greco-romano

Incerta l'origine del teatro greco. Per Aristotele la tragedia nascerebbe con in canti in onore di Dio-
nisio. Nasce, quindi, in connessione con la religione. Certamente ad Atene (535-533 a.C.) gli spetta-
coli teatrali sono inseriti nelle feste in onore di Dionisio, ma della sua figura nelle tragedie che ci
sono rimaste non c'è praticamente nulla. Probabilmente ci fu un allargamento tematico di personag-
gi eroici (Teseo, Ippolito, Ercole ecc.) nel teatro del V sec. a.C.
La parola “tragedia” dovrebbe significare “canto del capro”, in riferimento a uomini-capro, a cui era
affidata la celebrazione corale del dio Dionisio. Originariamente ci sarebbe proprio il Coro, da cui
poi si stacca il “corifeo”, il capo del coro, che comincia a dialogare con il Coro, diventando perso-
naggio autonomo. Questo spiega l'ampio spazio che hanno i cori nelle 32 tragedie rimaste, soprat-
tutto in Eschilo (525-456 a.C.). L'origine religiosa non toglie che l'evento teatrale sia uno spettaco-
lo. Il teatro si ha quando uno guarda e uno viene guardato. L'evento teatrale si realizza dentro un
spazio specifico, un edificio, spesso sul pendio di una collina, con le gradinate a semicerchio intor-
no al Coro. Il Coro è a livello terra, in uno spazio chiamato “orchestra” 1. Infatti il Coro danza e can-
ta, l'attore recita. Dietro l'orchestra c'è la skené, un povero edificio dove gli attori si vestono. Funge
anche da scenografia minima: di un palazzo reale o di un tempio. Si ipotizza che sia Coro che attori
agivano nell'orchestra fino alla skené. Nel V secolo, attori e Coro agiscono insieme a livello-terra,
non su una pedana.
Il Coro (formato prima da dodici e poi da quindici persone, i “coreuti”) è un vero e proprio perso-
naggio. Inizialmente c'è un solo attore. Eschilo avrebbe introdotto il secondo, Sofocle (circa 496-
406 a.C.) il terzo. Attori sempre maschi.
Gli attori portavano una maschera, che ha un legame religioso (la si indossa per diventare altro da
sé, dio, mostro, animale). Aveva anche una funzione pratica, facilitando l'identificazione dell'attore
con il personaggio, considerando che gli spettatori erano sui 15.000. Consentiva agli attori di fare
anche più parti, fino ad una decina. Non sappiamo come fossero, ma certamente non come in epoca
ellenistica2 e romana, dove erano molto caricate per indicare i vari stati d'animo.
In greco l'attore è chiamato hypocrités, “colui che risponde” (al Coro). Nelle lingue neo-latine di-
venta “ipocrita”, colui che mente, che assume le sembianze di un altro.
I primi autori erano anche attori. Sofocle dovette rinunciare presto alla carriera attorica per la scarsa
forza della sua voce. Erano anche registi. Per questo non c'erano didascalie.
I costumi erano stilizzati e non lontani dai costumi contemporanei. C'erano i coturni (calzature dalla
suola alta), l'ónkos (parrucca) e le ingombranti tuniche, che non rendevano agile il movimento del-
l'attore, tanto da pensare che la forza emotiva della recitazione fosse appoggiata alla potenza della
parola.
Erano presenti anche effetti scenici. Giorgio Polluce, nel II sec. d.C., parla di theologhéion, “luogo
da dove parla un dio”, ma questo termine non è attestato per il V sec. a.C. Era facile però che un at -
tore salisse sul tetto della skené, con l'ausilio di una scala. Nei momenti decisivi le divinità compa-
iono dall'alto, con la mechané, una gru che sollevava gli attori. Nella Medea di Euripide (circa 480-
406 a.C.), la protagonista fugge su un carro volante. Euripide usava spesso la mechané, tanto che
Aristofane conia il termine deus ex machina, che indica appunto l'intervento risolutore di un dio un
una trama molto difficile da sbrogliare. Non è del V sec. l'ekkúklema, una macchina munita di ruote
che portava dall'esterno all'interno (o viceversa) un'azione, spesso dei cadaveri. Era più probabile
una rimozione della facciata della struttura, facilmente smontabile.
Le Grandi Dionisie erano organizzate dallo Stato ateniese, che pagava sia attori che autori. Il Coro
era pagato da ricchi cittadini privati. Il biglietto era rimborsato dallo Stato. Quindi lo Stato si assu -
meva il peso di un'iniziativa culturale (in perdita), perché riconosceva la funzione civile del teatro,
1 Da orchéomai, danzare.
2 Epoca calcolata dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e la nascita dell'Impero Romano (31 a.C.).

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per cementare la comunità. A teatro si reca la comunità in tutta la sua pienezza (cittadini, servi, don-
ne), dove vengono riflessi i miti del proprio patrimonio culturale e mitologico.
Gli spettacoli teatrali si inserivano in una struttura agonale (agonistica) tra tre autori, che rappresen-
tavano, in un giorno, tre tragedie e un dramma satiresco (una forma burlesca, per alleggerire lo
spettacolo). Ci è giunta solo una trilogia tragica, l'Orestea di Eschilo, che presenta una concatena-
zione organica nelle tre tragedie (Agamennone, uccisione di Agamennone da parte della moglie Cli-
tennestra; Coefore, dove il figlio di Agamennone, Oreste, uccide la madre e il suo amante, Egisto;
Eumenidi, dove Oreste viene assolto). Più spesso erano tre distinte e diverse tragedie. Non sappia-
mo niente della durata. Erano previsti premi al miglior autore, attore e coro.
L'Orestea è un monumento dell'ideologia della civiltà greca. Siamo in una società maschilista e pa-
triarcale, dove le donne sono relegate in uno spazio della casa, chiamato gineceo. Gli uomini hanno
moglie, concubine e cortigiane. Questa asimmetria si nota nell'antefatto, dove Agamennone sacrifi-
ca la figlia Ifigenia, o nel duro scontro delle Coefore, dove Oreste uccide la madre, accusandola di
oziosità di fronte al lavoro del padre. Ciò rispecchia la società coeva, dove si valorizzava il lavoro
dell'uomo di fronte alla presunta oziosità della donna. L'uomo mantiene la donna, quindi ha più di-
ritto di libertà sessuale. Oreste è portatore convinto dei valori del mondo tradizionale. Nelle Eume-
nidi si scatenano contro Oreste le Erinni, divinità infernali che non concepiscono l'assassinio dei
consanguinei. Oreste però viene aiutato da Apollo e Atena. Apollo non equipara la morte di Aga-
mennone, eroe e uomo nobile, con quella di Clitennestra, che l'ha ucciso con l'inganno, mentre lui
cercava ristoro dalle fatiche proprio nelle sue braccia. Apollo usa anche il paragone delle Amazzoni,
che scesero a combattere con gli uomini sullo stesso loro piano, non come Clitennestra che ha usato
il raggiro.
Dopo, Apollo rincara la dose, nei versi dove, parlando alle Erinni, dice che la donna è il semplice
luogo dove il seme del maschio si sviluppa. Anzi, la forza genitrice maschile non ha neanche biso-
gno della donna. Prova ne è Atena, nata direttamente dal cervello di Zeus, senza l'aiuto della donna.
Il principio di superiorità del marito nei confronti della moglie non è messo in discussione da nessu-
no, tantomeno da Eschilo. Ma il gioco è truccato sin dall'inizio. Il Tribunale istituito da Atena è
composto da giudici che lei ha scelto, ed è quindi sicura di un esito in favore di Oreste, anche in
caso di parità, perché è così che vuole lei. Il pareggio serve per accontentare le Erinni, che da lì in
poi diventeranno le Eumenidi, divinità protettrici della città.
Clitennestra è un modello di donna scandaloso per la mentalità greca: mentre Agamennone è fuori,
si fa un amante, Egisto. Ha spedito Oreste lontano da casa e tiene Elettra in casa come una schiava.
Uccide lei stessa il marito, con l'aiuto del soggiogato Egisto. Un personaggio così merita una puni-
zione esemplare: le viene uccisa la figlia Ifigenia, viene sgozzata dal figlio che poi viene assolto.
Però Eschilo non scrive un'opera politicamente corretta, come il pubblico voleva. Crea la figura di
Clitennestra mostrandone le sofferenze e le sue sfaccettature, facendola diventare il primo grande
personaggio femminile del teatro d'Occidente.
Nella sua Poetica, Aristotele constatava che la maggior parte delle tragedie si svolgevano in un luo-
go fisso, senza cambiamenti di scena, in 24 ore o 12 ore. Però non sempre è così. L'Agamennone di
Eschilo inizia nel cuore della notte con l'annuncio della caduta di Troia. Nel corso della tragedia en -
tra Agamennone, forzando energicamente i tempi. Nelle Eumenidi si passa dal tempio di Apollo a
Delfi al tempio di Pallade ad Atene, fino al tribunale ateniese dell'Areopago.
La tragedia divisa in cinque atti non risale ad Aristotele, sembra anzi imporsi in epoca ellenistica. In
ambito romano, Orazio (65-8 a.C.) in Ars poetica prescrive che il dramma (fabula) non deve essere
né più breve né più lungo di cinque atti.
Nei contenuti, tutt'e tre i tragici attingono dal patrimonio di eroine ed eroi. Solo il mondo greco, pri-
vo della fede in una giustizia divina (a differenza della civiltà ebraico-cristiana), poteva inventare la
tragedia, che ha come tema centrale il dolore e la sofferenza, e un destino imperscrutabile (fato). La
libertà individuale evidenzia la grandezza dell'eroe, ma contrasta con il destino e soccombe ad esso.
In Euripide si trova un clima più moderno rispetto agli antichi valori. Infatti è il meno amato dei tra-
gici dai suoi contemporanei. Egli si concentra più sulla psicologia dell'essere umano, sulle motiva-
zioni del suo agire. Fedra (in Ippolito coronato) tenta di reprimere la pulsione che ha per il figliastro

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Ippolito, e si uccide. Medea (nella tragedia omonima) viene abbandonata da Giasone, e uccide i figli
avuti con lui. Euripide sperimenta anche la formula del lieto fine, che è una mutazione genetica del-
la tragedia. Esempio ne è Ifigenia in Aulide (postuma), dove Agamennone è presentato come inade-
guato al ruolo di condottiero. Si è offerto capo della spedizione per Troia non per motivi politici, ma
per meschini motivi personali. Al momento della partenza, in assenza di venti, si dispera. E quindi
si offre di immolare alla dea Artemide la figlia Ifigenia, che la manda a chiamare da Argo con la
scusa di un suo matrimonio con Achille. Questo nell'antefatto. La tragedia si apre col pentimento di
Agamennone che scrive una lettera per impedire l'arrivo di Ifigenia in Aulide. Menelao intercetta la
lettera e la strappa di mano dal servo. Viene meno quindi l'atmosfera sublime della tragedia. Aga-
mennone oscilla tra desiderio e paura, ha l'incoerenza dell'uomo normale, non del comandante.
Quello che fa, lo fa anche male, senza intelligenza. Architetta le nozze di Achille senza neanche av-
vertire Achille. Infatti quando Clitennestra ed Ifigenia arrivano scoprono, insieme ad Achille, l'in-
ganno. Il clima è quello della commedia, del farsesco.
Anche Achille è lontano dal profilo alto dell'eroe. Difende Ifigenia ma in realtà difende solo se stes-
so, dell'offesa di Agamennone che ha usato il suo nome senza consultarlo. Ma anche Achille è insi-
curo, dimostrandolo nel dialogo con Clitennestra. Gli uomini fanno carriera sulla pelle delle donne.
Agamennone vuole confermarsi capo uccidendo Ifigenia, Achille vuole diventare dio impedendone
la morte. Ma nessuno è veramente interessato a lei, che è il pretesto per un altro fine. Euripide era
misogino, e lo si avverte quando fa rassegnare Ifigenia alla sua sorte, totalmente plagiata dall'ideo-
logia maschilista, dicendo che la vita di un uomo vale quella di infinite donne.
Aristotele individua il modello di tragedia perfetta nell'Edipo re di Sofocle. Dal punto di vista socio-
logico i protagonisti sono tutti re, principi, condottieri, nettamente superiori al livello del popolo.
Aristotele dice che la tragedie mette in scena uomini “superiori” e la commedia “inferiori”. Per Ari-
stotele la tragedia porta alla catarsi della pietà e del terrore. Ma non una catarsi intesa come purifi-
cazione dalle passioni, con le sue connotazioni morali e religiose, come si è sempre creduto. Ma
alla catarsi delle sole due sensazioni da lui proposte, una come motore della crisi e l'altra come
evento risolutore. La tragedia induce pietà e terrore dinanzi alle sventure del personaggio, in cui ci
immedesimiamo. Nello stesso tempo, però, riconosciamo il protagonista appartenere a un'altra raz-
za di uomini, che si può concedere degli eccessi. Infatti tutti gli intrecci delle tragedie trattano vi-
cende estreme, come per esempio nella già citata Orestea. In Edipo re di Sofocle il protagonista uc-
cide il padre e sposa la madre. Nella Medea di Euripide una madre uccide i proprio figli per vendet-
ta. Anche in Ippolito la madre Fedra si invaghisce del proprio figlio. Altri incesti erano presenti nel-
le tragedie di Euripide, tanto che Aristofane, nella commedia Le rane, rinfaccia ad Euripide il suo
gusto morboso per amori incestuosi.
Forse la civiltà ateniese era attratta da queste storie di terrore, di violenze e di eccessi. Non è tanto
un'invenzione greca, ma prodotta dalla cultura specificatamente ateniese. Tra pubblico e protagoni-
sti delle tragedie c'è distanza, ma è distanza giusta per il transfert, psicologicamente inteso. I perso-
naggi sono la proiezione dei desideri che la società democratica può solo sognare di praticare.
I critici vedono in Aristotele un difensore del testo teatrale in contrasto con la messinscena. Come se
per Aristotele contasse il testo teatrale e non lo spettacolo teatrale. La Poetica fu scritta tra il 334 e
il 330 a.C., anni in cui lo statista Licurgo fece preparare un'edizione canonica dei tragici, per argina-
re le libere interpretazioni degli attori. Originariamente le tragedie erano pensate per essere recitate
una volta sola. Aristotele usa il termine ópsis (vista), in senso più lato, spettacolo. Aristotele poteva
anche pensare che lo spirituale fosse superiore al materiale, che la scrittura drammaturgica fosse più
pregnante della scrittura scenica3, ma sapeva anche che l'uomo è fatto di carne, che il piacere causa-
to dai sensi (vista e udito) ha un effetto coinvolgente nel pubblico. Riconosce la fascinazione del
teatro nella sua completezza. Infatti dice che è stato Sofocle ad introdurre la scenografia4. È il poeta
stesso che si fa uomo di scena. Aristotele enumera le sei parti costitutive della tragedia: ópsis, favo-
la, caratteri, elocuzione, pensiero e musica. Il primo è ópsis perché raggruppa gli altri cinque nella
rappresentazione scenica. Parla di ópsis kósmos (“ordine della rappresentazione scenica”), da cui

3 Modo di esprimersi della scena, attraverso le molteplici espressività di attori, scenografia, musica, canto, danza ecc.
4 Da skenografia. In francese si dice décor. In Italia nel Cinquecento si usa apparato.

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kósmos vale ordine. Lo spettacolo è una macchina ordinata.


La commedia si afferma nella seconda metà del quinto secolo, in ritardo rispetto alla tragedia. In
onore di Dionisio ci sono le feste minori delle Lenee, collocabili verso la fine di gennaio. Le origini
vanno ricercate nelle cerimonie di fertilità. La commedia deriva “da coloro che guidano le proces-
sioni falliche”. Il mondo arcaico doveva garantire la sopravvivenza con cerimonie che favorissero
l'accoppiamento e la moltiplicazione. La comunità crede di influire sul ciclo naturale con rituali che
esaltano il fallo, accompagnati da scherni e risa. Commedie deriverebbe da kómos, corteo festivo.
Si distingue in commedia “antica” quella di Aristofane (circa 450-385 a.C.) da quella di “mezzo” e
dalla commedia “nuova”, del tardo V sec., rappresentata da Menandro (circa 342/341-293/292
a.C.). In Aristofane le trame sono molto vaghe, quasi inesistenti, scurrili e che colpiscono temi d'at-
tualità (politica, sociale, culturale ecc.). Gli attori impersonano figure buffonesche, non dei perso-
naggi. Di Menandro è rimasta solo Dýskolos (Il misantropo), dove il modello è la dimensione do-
mestica, urbana, con una storia d'amore contrastata dai genitori. Alla fine scatta il meccanismo del-
l'agnizione5: padri che ritrovano figli rapiti, fanciulle di origine povera che si scoprono di ottima fa-
miglia ecc.
Il teatro latino ripeteva i modi e contenuti del teatro greco, ma non ne aveva la stessa valenza socia-
le. Infatti era considerato spettacolo di un'élite raffinata. La tragedia, collegata alla matrice religiosa,
era praticamente assente a Roma. Ebbe più successo la commedia, con Plauto (circa 255-284 a.C.)
e Terenzio (circa 190/185-159 a.C.). Plauto ha vivacità farsesca e duttilità satirica notevole. In Te-
renzio c'è più raffinatezza psicologica dei personaggi. Seneca (circa 5 a.C.-65 d.C.) fu autore di tra-
gedie letterarie, fatte più per essere lette che rappresentate. I temi sono gli stessi della tragedia gre-
ca, ma condite di elementi macabri e mostruosi, riflettenti le fasi più drammatiche dell'Impero. Que-
sta cupezza interesserà gli autori elisabettiani, soprattutto Shakespeare. In Seneca si trova anche un
approccio originale della tradizione classica. Nella sua Fedra (che riprende l'intreccio di Ippolito
coronato), Teseo ha una dimensione sinistra e di assassino. Seneca disegna una rete perturbante di
due coppie: il padre e il figlio (Teseo e Ippolito) e le due sorelle (Fedra e Arianna).
Il teatro classico fonda nel complesso un modello di drammaturgia decisivo nella storia dello spetta-
colo occidentale, fissando alcuni tratti caratteristici: il privilegio del racconto, la semplicità della
trama, il numero limitato dei personaggi, stili (commedia e tragedia).

Vitruvio: edifici greci e romani

Il trattato latino De Architectura (27-23 a.C.) di Vitruvio è un importante riferimento per il concetto
di teatro. Confronta il teatro greco con quello romano. In quello romano il coro perde la sua funzio-
ne. In Grecia l'orchestra che ospita il coro è ampia e il palcoscenico più piccolo. A Roma l'orchestra
è diventata una platea dove siedono i senatori, e il palcoscenico deve essere all'altezza di questo
pubblico privilegiato. Dietro il palco una monumentale scenafronte, in prospettiva e con una porta
regale, due porte minori e due ingressi laterali. Il teatro romano poteva essere isolato dagli elementi
atmosferici, e il pubblico accedeva alla struttura con scale e ballatoi che collegavano i diversi piani,
come negli stadi. Il primo teatro in pietra fu quello di Pompeo nel 55 a.C. Altri teatri erano in legno.

Attori e spettacoli antichi: miseria e nobiltà

Nell'antica Grecia l'attore godeva di molti privilegi ed era ben compensato, in una sorta dell'odierno
divismo. Dal IV sec. a.C. i poeti tragici cercavano di accaparrarsi gli attori più famosi, tanto da far
intervenire Licurgo a tutela dei testi contro le interpolazioni degli attori. C'era anche un'attività di
più umili compagnie, che contribuì ad una più bassa considerazione dell'attore, fino a diventare, in
epoca romana, una condizione di schiavo e di istrione. La complessità dello spettacolo antico non è
solo tragedia o commedia. Va dato risalto ai popolarissimi spettacoli circensi, ci cui il Colosseo (80
d.C.) ne è un emblema. Grande rilievo ebbero le forme di spettacolo mimico.

5 Nella commedia il riconoscimento delle origini alte del personaggio.

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Il teatro occidentale: fra Apollo e Dionisio

Friedrich Nietzsche ritiene che la tragedia greca sia una manifestazione che tiene in equilibrio il
principio apollineo, dove la bellezza è lo scopo, e il principio dionisiaco, dove predomina la musica
come elemento di caos ed estasi. Per questo la tragedia nasce dal coro dionisiaco e si placa nella di-
mensione apollinea del sogno. Il fulcro della tragedia è l'annullamento dell'individuo, non come ne-
gazione della volontà di vivere, ma come affermazione della potenza gioiosa di vivere. L'uomo dio-
nisiaco coglie l'essenza e l'azione dell'essere nella loro assurdità, ma nell'arte ha la possibilità di li-
berare la propria volontà.

La danza nel mondo antico

La danza è una delle attività più antiche dell'uomo. Nel tempo si configura come movimento spon-
taneo generato dalla musica, propiziatorio, evento sacro per entrare in contatto col divino. I miti an-
tichi attribuiscono l'origine del mondo agli dèi che danzano. Per i greci era legata alle altre arti e al
teatro. Per Platone aveva un valore educativo per il cittadino ideale. Dell'epoca romana si ha poche
notizie. L'arte della danza, soprattutto orientale, era apprezzata dall'aristocrazia, come divertimento
sociale. In età imperiale prevale la pantomima, facendo emergere il lato gestuale. Al ritmo musicale
si conformava il movimento del danzatore. Si ha un indebolimento della teatralità a vantaggio della
spettacolarità. Dal IV secolo entrano in scena le donne, accentuando il fattore erotico e aumentando
il discredito sociale dei danzatori.

2. La scena medievale

Il teatro medievale non va inteso come il teatro di oggi. Se paragonato al teatro contemporaneo, ri-
schia di diventare evanescente e inconsistente.
Cambiando prospettiva di visione, il teatro medievale risulta molto vivace, ricco e originale, in tutta
Europa, tra il IX e XIV secolo. È un'espressione ludica-simbolica delle istanze della società. La per-
formance teatrale era un rituale dove la comunità si riconosceva, più che un atto estetico a cui assi-
stere. Con l'affermazione del cristianesimo il teatro medievale si caratterizza come teatro religioso.
Non il termine religioso che intendiamo oggi (spirituale), ma come visione complessiva della vita
umana e dell'intero corpo sociale, in chiave salvifica, grazie all'evento dell'incarnazione di Dio in
Gesù Cristo. Egli ha reso visibile l'invisibile (Dio), pertanto la rappresentazione teatrale deve rievo-
care gli eventi fondativi di Gesù, per tramandarne il ricordo. Quindi si parla di ri-presentare, pre-
sentare di nuovo, senza finzione, dove gli spettatori sono anche attori e protagonisti, in un processo
dove è impossibile scindere l'arte dalla vita.
L'opposizione della Chiesa, con Tertulliano e Agostino, è riconducibile alle fasi iniziali del cristia-
nesimo (tra II e IV secolo), in un periodo di transizione culturale. La Chiesa attaccava il teatro come
modello socio-culturale pagano, identificato con lo spettacolo romano: si vuole eliminare l'idea di
teatro come imitazione del falso, mostrandolo come se fosse vero, fino a sostituirlo del tutto. Una
volta distrutto questo modello, promosse una teoria cristiana della rappresentazione, che maturerà
dal VIII secolo. Nello spettacolo romano la passività dello spettatore diventa idolatria (falso al posto
del vero), mentre le passioni (lascivia, odio, lussuria) corrompono i sensi, promuovendo comporta-
menti immorali. Lettura che trovava credibilità nelle rappresentazioni di fine impero, dove i toni
erano ancor più esasperati (scene di violenza e sesso).
I ritmi del teatro medievale erano quelli del calendario religioso, in particolare in coincidenza delle
feste maggiori dell'anno (Natale, Pasqua ecc.) e il loro periodo di preparazione.
Le evidenze spettacolari erano legate alla liturgia. Nel secolo X, nei monasteri, nacquero i drammi
liturgici. Il più celebre è Quem quaeritis (“Chi cercate”), che tratta delle tre donne che vanno al se-
polcro di Gesù. In termini teatrali ci interessa la sua rappresentazione nel Regularis Concordia: la
chiesa diventava il luogo santo, l'altare diventava il sepolcro, un monaco l'angelo e altri tre le donne,

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usando pochi oggetti di riconoscimento (palma per l'angelo, sopravvesti per le donne) e qualche ac-
cenno recitativo (le donne devono andare “passo passo”, come per cercare qualcosa).
Questo schema ebbe fortuna ed ebbe delle varianti: l'arrivo dei discepoli Pietro e Giovanni o anche
l'arrivo di Maria Maddalena, che riconosce Cristo dalla voce (Noli me tangere). Altri drammi litur-
gici (chiamati ordo o officium, ossia rituale) si trovano a Natale: l'Ordo Prophetarum (il corteo dei
profeti che annunciano la nascita di Cristo); l'Officium Pastoris (nascita); l'Ordo Stellae (la venuta
dei Magi); l'Ordo Rachelis (la strage degli innocenti).
Nel tempo le rappresentazioni si ampliarono e dilatarono, aumentando gli spazi scenici (sedes o
mansiones). Nel Peregrinus, per esempio, nella versione di Rouen (XIII sec.), si teatralizza l'intera
chiesa: la processione al centro della navata, due pellegrini e Cristo entrano di lato. Un apparato
scenico elevato simula la città di Emmaus. Poi si apre un'altra scena, dal pulpito, dove appare un
chierico nelle vesti di Maria.
Suggestiva l'evoluzione dei drammi natalizi, soprattutto quelli connessi alla figura di Erode, in con-
trapposizione al candore del Presepe: nell'Ordinario di Padova (XIII sec.), la sua follia omicida (fu-
ror) era sottolineata nell'abito (“con vilissime bende ed infule”) che nelle azioni. Per gli episodi bi-
blici meno dettagliati dettero luogo a versioni inventate, spesso sfociando nella comicità e nella bla-
sfemia, tanto che la badessa di Landsberg si lamentò di questa deriva, dove si mescolavano militari
e preti, fino a non distinguerli più.
Per quanto la Chiesa cercasse di cristianizzare la società, sostituendo i culti pagani con i propri riti,
non era riuscita ad estirparli del tutto, soprattutto negli ambienti rurali. Lo stesso calendario cristia-
no combaciava con le festività pagane (Natale-solstizio d'inverno, Pasqua-equinozio di primavera
ecc.). Queste reminiscenze riaffioravano nei personaggi come Erode, fino a portarlo al comico, al
grottesco, come strumenti comunicativi della cultura popolare, antitetica ai valori alti della cultura
cristiana. Espressioni di un sentimento collettivo di trasgressione e carnalità erano le feste dei folli e
il carnevale.
Le feste dei folli derivano dai rituali invernali di passaggio, legati alle celebrazioni del Capodanno
(le Calende romane): da un lato emergevano le ansie e angosce della fine, con trionfo del caos, sov-
versione delle regole, il ritorno dei morti, dall'altro lato c'erano i buoni auspici per il futuro, con tra-
sgressione e sessualità (danze, balli, risa, banchetti). In epoca medievale si aveva, invece, il ciclo fe-
stivo di dodici notti dopo il Natale, incentrate sulla purezza e l'innocenza dell'infanzia, che legitti-
mava comportamenti affini alla follia e alla trasgressione.
Dimostrazione ne sono le feste dei santi Innocenti (28 dicembre) e della circoncisione di Gesù (Ca-
podanno), dove i giovani chierici dei monasteri davano sfogo alla loro esuberanza giovanile, tanto
che le alte gerarchie tentarono di proibirle. Veniva eletto un vescovo bambino o vescovo pazzo, che
aveva tutte le prerogative di un vero vescovo. Si parodiava la liturgia, travestendosi, con banchetti e
scherzi goliardici. Si esaltavano figure umili, come l'asino.
Il rito dell'offerta dei doni si teatralizza con la figura dei Magi che, essendo stranieri, facilitavano la
connessione col mistero evocativo dell'altro mondo, tipico dei rituali pagani. In Inghilterra e nord
Europa ebbero fortuna i mummings (da mum/mom, “silenzio”). Erano azioni mute, mimate e danza-
te, di figure mascherate da personaggi stranieri, celebrate in occasione di visite di personalità impor-
tanti, a cui seguiva l'offerta dei doni. Nel 1377 il sindaco di Londra si recò, col seguito, dal Re e Re-
gina vestiti da papi e cardinali.
Anche il Carnevale è una tipica festa di inversione dell'ordine stabilito. Un'esplosione di eccessi
(cibo, sessualità, trasgressione e violenza) che la Chiesa non riuscì ad eliminare. Era la festa più ce-
lebrata di tutto l'anno. Tra i linguaggi teatrali più utilizzati spiccano il mascheramento e la farsa.
Il mascheramento, strutturato in forma di corte o competizione, è la forma più tipica di inversione,
visto che chi si maschera si trasforma in un altro da sé, fino ad identificarsi nell'altro sesso e in ani-
mali. Queste ultime erano tradizionali nei carnevali agrari, connessi alla fertilità della terra. Il carne-
vale urbano era più collegato all'inversione delle gerarchie sociali e sessuali.
Le farse si affermano perlopiù in Francia e Germania. Erano brevi azioni teatrali incentrate sulla ca-
ricatura di personaggi della vita cittadina, come il medico, il prete, l'avvocato, lo sciocco (come in
Maistre Pierre Pathelin). Ad allestire queste messe in scena erano gruppo di giovani laici o studenti

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delle università.
La teatralità popolare subì un acceleramento nel XII secolo, con l'affermazione, nelle città, della
classe borghese e mercantile. In ambito religioso, per rompere i legami col sistema elitario ecclesia-
stico, nacquero gli ordini mendicanti (francescani e domenicani), per coinvolgere le classi popolari.
Questi soggetti erano consapevoli della loro identità e autonomia, facendo nascere le corporazioni e
le confraternite.
Aumentò, quindi, il numero dei destinatari degli eventi festivi. Gli spettacoli divennero sempre più
laici e organizzati e ideati dalle confraternite e corporazioni. Sul piano religioso, il rinnovamento si
ebbe con l'ingresso dei laici nella gestione delle liturgie, con spostamento dallo spazio della chiesa a
quello della città, dal latino al volgare, dalla Resurrezione alla Passione, con riferimento all'umanità
e alla sofferenza di Cristo, ad elementi più espliciti e diretti, come la pietà, sentimento di unità tra i
laici. In Italia centrale (Perugia, Gubbio, Assisi, Orvieto, L'Aquila) il movimento dei Flagellanti
propose un modello spettacolare basato sul valore della penitenza pubblica e perdono come stru-
mento di pacificazione collettiva. Nelle processioni i “disciplini” si umiliavano e flagellavano dav-
vero, a sangue, e si recitavano le laudi drammatiche sulla Passione e sulla Pietà. Con le confraterni-
te laiche si passò ad una più realistica rappresentazione del Venerdì santo: non più una croce sull'al-
tare coperta con un lenzuolo, ma una vera e propria schiodatura di Gesù, col pianto della Madre e
delle donne.
Si moltiplicarono le rappresentazioni dedicate alla Madonna e ai Santi, mediatori della grazia divina
nei confronti della miseria umana, nonché protettori di arti e mestieri. Numerose le azioni teatrali
legate ai Miracoli (come il Miracolo di Teofilo di Rutebeuf, la Farsa del cieco e dello zoppo di An-
dré de la Vigne o il Miracolo di San Nicola di Jean Bodel). Colpisce di queste rappresentazioni la
presenza di un autore e di una marcata componente testuale, realistica e romanzesca, che oscilla tra
sacro e profano, tra registri patetici alti e registri comici volgari. Aspetti che troviamo nelle opere
della monaca Rosvita di Gandersheim. Nei suoi sei drammi in latino, cerca di sostituire il comico
coi valori edificanti della fede, ma contaminandoci il registro erotico amoroso fino ad arrivare a si-
tuazioni ardite (come in Callimachus, dove il protagonista cede alla necrofilia).
Tutto questo portò alla maturazione, tra il XV e XVI secolo, della grande spettacolarità tardomedie-
vale. Esempio ne sono i cicli dei Misteri e delle Passioni, dove veniva raccontata, a episodi, tutta la
vita di Gesù. C'è un incremento produttivo di testi in volgare, elaborati da singoli autori, come Eu-
stache Marcadè, Arnoul Gréban e Jean Michel. Questi allestimenti venivano diluiti nel tempo e
scanditi in più giornate. L'impresa coinvolgeva tutte le istituzioni cittadine, e nacque la figura del
proto-regista, inteso come coordinatore di eventi, come Jean Boucher.
La scena si svolgeva sempre nelle mansiones, ma, essendosi dilatati i tempi, il loro numero si molti-
plicò. L'aspetto scenografico era più curato per colpire emotivamente lo spettatore. Spettacolare era
la rappresentazione dell'Inferno, solitamente in forma di bocca spalancata di mostro, con fumo e
fiamme e odore di carne bruciata, da dove uscivano i diavoli. Si utilizzavano macchine sofisticate,
come quelle per aprire le fauci nella Passion di Metz (1437) o come la maschera che era in grado di
sputare fiamme dalla bocca, nel Quaderno di segreti di un regista provenzale nel Medioevo (XV-X-
VI sec.). Lo spazio scenico prevedeva la presenza simultanea di tutti i luoghi deputati, su carri o
palchi, disposti in base alla conformazione della piazza, in modo che il pubblico potesse vederli. Ol-
tre alle Passioni si imponevano nello stesso periodo anche le rappresentazioni del Corpus Domini,
la cui celebrazione era sotto forma di processione connotata in senso teatrale, con carri allegorici
(pageants) dove si allestivano quadri viventi e azioni teatrali.
Da ricordare la fortuna delle Moralità, drammatizzazioni di vizi e virtù, come Everyman (L'uomo
qualunque con le Buone Azioni, Conoscenza ecc, tutte impersonificate) e il Castello della Perseve-
ranza (con Umanità, Confessione e Penitenza, Peccati e Virtù).
Oltre alla dimensione partecipativa della comunità agli spettacoli, c'era anche un altro modello, una
sorta di professionismo teatrale medievale, con protagonisti i giullari. Difficile dipanare la loro
identità tra mito e le interpretazioni delle fonti. Venivano chiamati in modo generico (mimi, hystrio-
nes, scurrae, ioculatores in latino, saltimbanchi, cerretani, buffoni, joglars, jolly in volgare) o preci-
sare diverse abilità (praestigiator, funambolus, saltator e menestrelli, suonatori a fiato o a corda). La

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loro identità diventa più sicura quando riuscirono ad avere un ruolo riconosciuto nella società. Pri-
ma erano associati a mendicanti, imbonitori e truffatori. Agli occhi delle istituzioni e della Chiesa
erano ancora malvisti. Su di loro pesava la condanna dell'infamia che rendeva il mestiere d'attore
sconveniente e socialmente pericoloso. Infatti i tre aggettivi con cui venivano definiti i giullari era-
no vagus, vanus e turpis, ovvero girovago, privo di dimora; vano, un mestiere improduttivo; turpe,
la sua azione mimica grottesca sovvertiva il concetto di equilibrio divino, corrompendo gli animi.
Numerosi furono i giullari più colti che cercavano di emanciparsi da questo pregiudizio. Nella Sup-
plicatio rivolta al re di Castiglia Alfonso X (fine XIII sec.), il trovatore 6 Guiraut Riquier chiede che
la sua arte di comporre liriche sia distinta da quella dei giullari di piazza, che eseguivano i versi di
altri. Siamo agli albori della suddivisione tra autore e interprete. Molti trovatori si servivano di giul-
lari per valorizzare i loro componimenti. Alcuni giullari si specializzarono negli strumenti a corda,
più nobili che di quelli a fiato e tamburi. Altri si fecero declamatori delle saghe epico-cavalleresche
(come le Chansons de Geste e il Roman de Tristan).
Altri erano collocati stabilmente a corte di potenti, come i menestrelli, che però venivano trattati
come il resto della servitù; o i buffoni, con gli abiti colorati, presenti a corte come intrattenimento
associato a follia e deformità.
Il bisogno di sicurezza portò i giullari a creare proto-compagnie o confraternite religiose, come la
Confrérie des Ardents o la Passion des Jongleurs. All'interno della Chiesa ci furono voci in contro-
tendenza, come quella di Ugo da San Vittore o di San Tommaso, che considerò degno di riconosci-
mento il mestiere d'attore, solo se agiva in modo onesto e equilibrato.
L'ambiente di corte sviluppa una propria ritualità spettacolare, come le cerimonie per nascite, matri-
moni o funerali, o le visite e commemorazioni di battaglie. In queste occasioni veniva messa in
moto una complessa macchina spettacolare. Basti pensare all'imponenza dei cortei per le strade cit-
tadine, o alle rappresentazioni allegoriche su carri scenografati. O anche la teatralizzazione dei ban-
chetti, dove le stesse portate avevano valore simbolico, accompagnate da effetti scenografici, alter-
nate a danze, balli e mascherate.
Il modello più noto di spettacolo sono i tornei, nati come pratica di addestramento militare, ora in-
vece meno violenti, a causa dell'avversione della Chiesa e della cultura cortese 7, fino a diventare
spettacolo ludici teatrali. La disputa tra i cavalieri non erano duelli ma giochi di abilità (giostra,
quintana), finalizzato alla conquista della dama.

La linea e il cerchio nella scena medievale

Le Sacre Rappresentazioni del Tre-Cinquecento francese erano imponenti e ricche. A livello sceno-
grafico si aveva una lunga linea praticabile, il catafalco, che mette in fila frontale molteplici luoghi
deputati. Era rilevante la rappresentazione mimica e prevalente era, contrariamente a quanto si sup-
pone, la concezione di uno spazio rappresentativo circolare. Tra la formula della “fila gigantesca”
dei luoghi in una sacra rappresentazione (lunga fino a 100 metri) e quella del “cerchio” (accer-
chiante, con la recitazione centrale), sarebbe quest'ultima ad affermarsi. La soluzione circolare si ri-
scontra in altre nazioni, sicuramente in Inghilterra.

Direzione e organizzazione di un Mistero medievale

La rappresentazione di un Mistero o di una Passione era complessa, dapprincipio appannaggio degli


ecclesiastici, poi della borghesia più colta. In pochi casi ci è stata trasmessa un'immagine di questi
registi ante litteram, che sembra fossero presenti nel corso delle rappresentazioni. Per questi spetta-
coli si realizzavano ampi “anfiteatri” di terra battuta.

Il medioevo dei tanti spettacoli

6 In ambito provenzale, il compositore di testi e melodie di poesia lirica occitana.


7 Nasce nelle corti di Provenza (XI-XII sec.). La donna è vista come superiore, e l'uomo è al suo servizio, avvicinan-
dosi a lei con il linguaggio della cortesia.

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Il Medioevo non è solo spettacolo religioso. Anche la manifestazioni giullaresche e mimiche profa-
ne ebbero raffinate espressioni, come La Jeu de Robin et Marion di Adam de la Halle. Il Medioevo
è un'epoca ampia di vasta portata, per questo ha presentato parecchi e indipendenti filoni spettacola-
ri. Si pensi, ad esempio, alle Momarìe veneziane, forme di rappresentazione di contesa cavallere-
sco-aristocratica. Anche gli stessi matrimoni principeschi o le entrate dei re nelle città modellavano
e sfruttavano la scenografia urbana.

La danza nel Medioevo fra giulleria e cortesia

Nel Medioevo si danzava in occasione delle feste, legate alla ciclicità della terra e delle attività
umane. Erano feste propiziatorie e celebravano il rito della fertilità. La Chiesa era avversa alla dan-
za, non tanto per la sua carica erotica, ma anche perché veniva praticata spesso dentro l'edificio sa-
cro, anche dai membri del clero. Infatti, originariamente, la preghiera aveva una dimensione corei-
ca-musicale-canora. Successivamente la Chiesa usò la danza come mezzo di edificazione morale e
di propagazione della fede. Le Kalendae Januarii, osteggiate dalla Chiesa, erano una serie di festeg-
giamenti tra Natale e Capodanno, dove partecipava anche il basso clero. Protagonista era anche ul
giullare, che era attore, ballerino e intrattenitore. Si guadagnava da vivere nelle feste, con esibizioni
mimico-gestuali diverse da quelle cui erano abituati i contadini. Frequente era la canzone a ballo
come danza sociale, dove la struttura coreografica era basata sul cerchio, dove i danzatori si teneva-
no per mano, con strofe e ritornelli. Dal XIV secolo sorgono in Europa le corti signorili. Nasce un
nuovo tipo di danza di coppia, dove il tema è il corteggiamento amoroso e cavalleresco. Danzare se-
condo regole che impediscono movimenti incontrollati distingue il nobile dal contadino, che si
muove in modo scomposto.

3. Il primo Cinquecento: il Rinascimento

Nel Quattrocento, in Italia, si riscopre la cultura classica con gli umanisti. Viene rimesso in circola-
zione il patrimonio culturale greco e latino. Nelle accademie si studiano e si mettono in scena le tra-
gedie e le commedie, anche in lingua originale. L'Accademia di Pomponio Leto si occupa dei testi
di Terenzio, Plauto e Seneca. Anche le corti vengono coinvolte in questo processo (gli Este, i Gon-
zaga, i papi) e assoldano architetti, artisti, scultori ecc., per abbellire le città.
È ora che nasce il teatro moderno. La prima corte a muoversi è quella di Ferrara, nel 1486, che alle -
stisce un volgarizzamento dei Menaechmi di Plauto. Ogni volta che c'è una festa (carnevale, ceri-
monie), vengono allestite feste dove entrano anche gli spettacoli teatrali, sia in cortile che in una
stanza interna. Il teatro è dentro la festa, facente parte di una totalità festiva con banchetti, danze,
tornei ecc. Il pubblico è quello degli invitati. Il teatro rinascimentale si rivolge ad un'élite, a diffe-
renza di quello medievale. Il committente coincide con il fruitore. Si ha una specie di privatizzazio-
ne del teatro. Adesso il potere politico si è spostato nelle città, grazie alla borghesia. Il teatro rap-
presenta uno status symbol. Al di fuori delle corti, il popolo continua ad assistere alle solite Sacre
Rappresentazioni.
La scenografia rinascimentale è diversa da quella medievale, che presentava tutti i luoghi dell'azio-
ne. Adesso si unifica il luogo dello spettacolo in un quadro solo, costituito da uno spicchio di città
dipinto dietro gli attori. Si tratta di una città generica. Come dice Machiavelli ne la Mandragola
(“adesso è Firenze, altre volte sarà Pisa o Roma”). È una città ideale, con palazzi sontuosi simulati
in marmo, fatti di legno e stucco. È la città del principe, seduto in prima fila, che così guarda se
stesso guardando la città dipinta. È un riflesso dell'ordine della città in cui lui regna. Si adotta la
prospettiva, ignota nel medioevo. Per lo studioso Mario Baratto, “la commedia è l'effimero, la sce-
nografia è il durevole, lo stabile, il perpetuo”, ovvero non è che conta ciò che gli attori recitano, ma
l'esaltazione del vivere urbano, col principe reggitore politico. Importante, per comprendere, è la re-
lazione di Bernardino Prosperi, cancelliere della corte ducale di Ferrara, mandata a Isabella d'Este

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nel marzo 1508, dove parla di una rappresentazione ma ancor più dello sfondo nuovo, dipinto da un
maestro, e oggetto di commenti tra gli invitati. Si evince ancora che il teatro nasce dentro la festa,
un segmento di un contesto più ampio. Non è fatto da professionisti, ma da dilettanti, che lo fanno
per piacere o per piacere al proprio principe. Nel documento si trova anche il nome di Ariosto, che è
autore del testo. Ma non lo menziona in qualità di autore, ma solo “suo familiare” (del cardinale Ip-
polito d'Este).
Nel quadro del Rinascimento il teatro è comunque marginale, anche per le grandi commedie, come
quelle dell'Ariosto, del Machiavelli o de la Calandria, l'unico testo del diplomatico Bernardo Dovi-
zi detto il Bibbiena (1470-1520). L'autore della scena è Pellegrino da Udine, che non è di professio-
ne uno scenografo, ma un pittore addetto alla corte ducale. In sintesi c'è lo spettacolo ma non ci
sono ancora le professioni dello spettacolo. Gli attori sono tutti cortigiani, che lo fanno per diletto.
Nei documenti si parla di commedie del Cardinale, non perché scritte da lui, ma perché gli autori
sono familiari del Cardinale. Se il familiare è proprietà del Principe, anche il suo frutto intellettuale
lo è.
Nei documenti dell'epoca non ci si fermava a spiegare la trama della commedia, bensì gli apparati,
come nella lettera di Baldassare Castiglione, dove relaziona, nel febbraio 1513, la prima della Ca-
landria: nulla dice della commedia, molto dice dell'apparato e degli intermezzi tra i cinque atti della
commedia. Gli intermezzi servivano a distrarre gli spettatori dalle operazioni dei servi di scena, poi
finirono per diventare l'oggetto principale dello sguardo dello spettatore.
L'elemento dominante è l'eccezionalità della visione, che stupisce anche colui che ha visto realizza-
re l'apparato (il Castiglione stesso). Questa istanza visionaria non è l'unica nel teatro occidentale. Il
teatro elisabettiano e spagnolo del Cinquecento e Seicento non puntano sulla spettacolarità ma mira-
no a coinvolgere maggiormente lo spettatore. La Commedia dell'Arte esalta la centralità del corpo
umano. Però è da qui che si impone la visione frontale che separa nettamente spettatori da attori,
con una gerarchia tra chi guarda e chi è guardato (il cosiddetto teatro all'italiana).
I principi rinascimentali non costruivano edifici teatrali. Sono della fine del Cinquecento due teatri
ancora oggi esistenti: il Teatro Olimpico di Vicenza (1580-1585) di Andrea Palladio e il Teatro di
Sabbioneta (1588) di Vincenzo Scamozzi. Gli umanisti promuovono il valore fondante e comunita-
rio del teatro, chiedendo la costruzione di edifici che accogliessero la comunità. Ma per i principi il
teatro aveva un valore elitario, respingendo l'edificio teatrale.
Ancora nel documento di Prosperi si legge dell'encomio al fondale, all'apparato, che non deve esse-
re distrutto. Le feste principesche erano all'insegna dello spreco e dell'esibizione del lusso. Questa
scenografia non andava preservata per risparmiare, ma per la sua bellezza. Ancora, non conta la
commedia, ma la scenografia. Una buona idea di scena prospettica è quella di Sebastiano Serlio
(1475-1554), in un suo trattato. A essere dipinta è solo la porzione che chiude la prospettiva delle
case, sul fondo appunto. Le case ai lati, sono dipinte su quinte disposte in profondità, con elementi
in rilievo in stucco e legno. Non è quindi veramente bidimensionale, ma leggermente tridimensio-
nale. Gli attori sono costretti a recitare sul proscenio perché, se indietreggiassero, risulterebbero alti
quanto i palazzi sul fondo.

La scena di città, Vitruvio e il teatro ritrovato

Le pitture restituiscono un'immagine ideale delle città, con una dimensione civile e non più univer-
sale come il cosmo delle Sacre Rappresentazioni, che si sviluppavano tra gli opposti dell'Inferno e
del Paradiso. Venne pubblicata la prima edizione del trattato di Vitruvio, chiedendo che si costruisse
a Roma un edificio teatrale, dalle strutture classiche, dove venisse insegnata l'arte antica della trage-
dia. Solo nel 1585 fu inaugurato il Teatro Olimpico di Vicenza, progettato da Palladio e terminato
da Vincenzo Scamozzi, con una scena prospettica della città, che raffigurava Tebe.

Scena pittorica e scena architettonica

Nel 1576 si erige il Teatro di Shoredicht a Londra. Il Rinascimento italiano fissò l'idea monumenta-

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le di edificio, che si individuerà con il Piccolo Olimpico di Sabbioneta (1588) di Scamozzi. Ci sono
la struttura scenica italiana, realistica, legata alla rappresentazione illusoria pittorica della città, e
quella, più simbolista, del teatro inglese elisabettiano e dello spagnolo rinascimentale.

La danza rinascimentale

Nel Quattrocento l'aristocrazia pratica la musica e la danza, che sono fondanti nella formazione dei
prìncipi e degli aristocratici. L'evento spettacolare coincide con l'evento festivo, che però non è più
legato ai cicli stagionali, ma agli avvenimenti principeschi come matrimoni o nascite. Se la danza
non era praticata nell'ambito privato, bensì in una festa, doveva essere usata come comunicazione di
potere, sfociano in vere e proprie rappresentazioni, con tanto di tribune e panche. I balli di queste
repertorio sono pantomime con tema il corteggiamento.

4. La drammaturgia del primo Cinquecento

Nella scena cortigiana si ritrova la drammaturgia classica. Si hanno commedie in latino e italiano, e
prodotti autonomi, frutto di imitazione. Ariosto si pone come inventore della commedia rinascimen-
tale, con Cassaria (1508) e Suppositi (1509). Che non limita a tener presente il modello classico
plautino-terenziano, ma anche quello del Boccaccio del Decameron, basato su intrecci più piccanti,
con trame erotiche al centro delle novelle. La commedia italiana del Cinquecento si pone tra tradi-
zione latina e boccacciana, come per esempio Calandria del Bibbiena, con un marito sciocco e cor-
nificato, che rimanda al Calandrino del Boccaccio già nel titolo, e nella trama ai Menaechmi di
Plauto, dove viene modificato il sesso dei due gemelli (due maschi in Plauto, maschi e femmina nel
Bibbiena), rendendo le azioni più allusive ed equivoche. Il moralismo romano prevedeva amori solo
tra scapoli, escludendo l'adulterio, che invece è la norma nell'universo boccacciano.
Lo stile cortigiano non è necessariamente alto, anzi, domina il gusto della varietà e del contrasto. A
fianco delle rappresentazioni troviamo la spettacolarità dei mimi, buffoni e giocolieri, che spesso in-
ventano maschere teatrali e nuovi personaggi. Famoso è Niccolò Campani detto lo Strascino
(1478-1523), autore-attore di tre testi tra il 1511 e il 1520, uno dei quali intitolato appunto Strasci-
no. Campani è la figura più nota del panorama senese, fatta di piccoli intellettuali che amano scrive-
re e recitare testi teatrali (commedie rusticane, cittadine e pastorali). Le commedie pastorali sono un
nuovo genere, il terzo genere, accanto alla commedia e alla tragedia classica, che avrà nell'Aminta
(1573) di Torquato Tasso (1544-1595) il suo capolavoro.
La novità più significativa dell'ambiente senese è la commedia rusticana o commedia alla villane-
sca. Dal Medioevo al Cinquecento c'è una polemica contro i contadini (villani, abitanti della
“villa”), che nasce dal contrasto città-campagna, da cui deriva un variegata produzione letteraria,
chiamata, appunto, “satira antivillanesca”. Nell'area senese del primo Cinquecento ci si specializza
nella definizione teatrale del villano, presentato come grossolano e bestiale.
Il Campani impone nella scena questo personaggio con successo. Apprezzato alla corte del papa, il
Campani è richiesto da altre corti, come quella di Mantova. Dalle lettere si capisce che la qualità
mimico-caricaturale del Campani era alta. Nello Strascino operava con una troupe ristretta, facendo
lui i quattro contadini che contrastano il proprietario e il giudice, imponendo con le minacce il pun-
to di vista villanesco. Questo si evince da una lettera di un funzionario estense, Beltrando Costabili,
dove dice che assistette allo spettacolo dello Strascino che recitò “da se solo”, cosa insolita e degna
di lode. In realtà c'era uno scarto notevole tra la qualità della scrittura e l'entusiasmo dei contempo-
ranei. A colpire era soprattutto l'abilità attorica, con doti di imitatore, mimo, musicante.
Fuori dalle corti centro-settentrionali, il teatro si diffonde con ritardo. A Venezia, dove non c'erano
corti ma un sistema oligarchico, il teatro era visto come una trasgressione. A fare da traino erano le
Compagnie della Calza (dal pantalone attillato dei gentiluomini del tempo). Diverse associazioni,
dai nomi scherzosi (Ortolani, Zardinieri, Immortali ecc.), organizzavano eventi ludici in occasioni
di carnevali o feste. A recitare, da dilettanti, spesso sono gli stessi patrizi, come nelle corti, dalle

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quali prendono spunto. Al loro fianco troviamo giocolieri e buffoni, o professionisti del teatro come
l'attore lucchese Francesco Nobili, detto Cherea. Grazie a lui il pubblico veneziano conosce le vol-
garizzazioni di Plauto e Terenzio. L'ambiente veneziano si apre lentamente alla spettacolarità primo-
cinquecentesca: alle pastorali e alle villanesche. Si consuma teatro su invito nelle case patrizie, ma
anche a pagamento in sale pubbliche aperte ad un pubblico più variegato. Il cronista Marin Sanudo
nei Diarii scrive e loda una commedia alta (probabilmente la Mandragola di Machiavelli) mescola-
ta a spettacoli di buffoni, al quale assistettero molte persone.
In questo ambiente di varietà di stili, si impose il padovano Angelo Beolco, detto Ruzante (1496-
1542), amico del patrizio Alvise Cornaro, che aveva una piccola corte nel padovano, antagonista di
quelle veneziane. Beolco scrive in pavano (padovano antico) e recita i suoi testi a Venezia. Il Sanu-
do scrive di una decina di spettacoli tra 1520 e 1526. È probabile che furono i circoli della Compa-
gnia della Calza a introdurre Beolco nell'ambiente veneziano. Della sua vita si sa ancora ben poco.
Le sue prime opere furono la Pastoral (1517-1518) e la Betìa (1524 circa), scritte in versi, mentre la
restante produzione sarà in prosa. Qui non propone una figura contadina di immediata simpatia.
Cosa che fa invece nei due dialoghi Parlamento de Ruzante che iera vegnú de campo e Bilora e la
commedia Moschetta (1529-1530). Tra 1528 e 1529 ci fu una carestia e il Beolco acquistò terreni
dai contadini affamati. Nelle opere caddero gli spunti di simpatia filocontadina. La fame non è più
l'ingordigia buffonesca della Pastoral, ma è tragica. Il contadino diventa personaggio autonomo. Il
“dialogo”, è la nuova struttura teatrale fatta su misura per lui. I due dialoghi si svolgono nella città
di Venezia, introducendo così l'elemento cittadino, mettendo allo scoperto le contraddizioni del qua-
dro sociale, il rapporto di sfruttamento della campagna nei confronti della città, ribaltando però la
realtà: il villano padovano, in contrasto con Padova, patteggiava per Venezia. Beolco invece muta
quel sentimento in antiveneziano.
Il Parlamento consiste nella “parlata” del villano Ruzante reduce dal campo militare. Va in guerra
per arricchirsi e sfuggire alla fame, ma torna più povero e pidocchioso di prima. Dietro la sua figu-
ra, c'è quella della sua donna, Gnua, che è andata in città e vive con un “bravo” del suburbio cittadi-
no. La tensione dell'opera sta nel tentativo di Ruzante di riavere la donna e il suo rifiuto di tornare
alla miseria con lui. Il “bravo” che bastona Ruzante e se ne va con lei, ribadisce il destino di sconfit-
ta del villano. Stessa impostazione in Bilora, dove l'omonimo contadino torna in città a riprendersi
la moglie, Dina, portata via da un vecchio mercante veneziano, Andronico. Anche Dina rifiuta di
tornare col villano. Anche qui la tensione si ha nello scontro tra i due uomini. Nulla cambia se il vil-
lano uccide a pugnalate il rivale: il risultato è sempre il destino di eterno sconfitto. Lo uccide non
per concetto possessivo della donna o per senso d'onore, ma uccide sotto l'effetto del vino, in modo
involontario. Il villano beolchiano è in continuo stato di eccitazione: il suo “parlamento” è carico di
invettive violente contro tutto e tutti, salvo poi ridimensionarsi all'atto decisivo, come in Parlamen-
to. Il finale di Bilora è l'eccezione che conferma la regola, dove anche lui stesso è stupito del fatto
di sangue veramente realizzato.
Nella Moschetta c'è un superamento dell'adesione al mondo contadino. Qui il contadino è, sebben
da poco, inurbato a Padova, ma comunque relegato ai margini della società. Non c'è il momento
dello scontro col rivale. Gli espedienti per sopravvivere perdono carica polemica, per avvicinarsi ai
giochi della commedia tradizionale, dove chi si crede furbo è in realtà il più sciocco. Ci sono gli
equivoci e travestimenti delle commedie del Cinquecento: Ruzante si traveste da scolaro e parla una
lingua finta per non farsi riconoscere. La Moschetta segna il passaggio alla fase finale beolchiana,
più classicheggiante. La Piovana (1532) e la Vaccaria (1533) sono rifacimenti di due commedie di
Plauto. Il villano si trasforma nella figura tradizionale del servo astuto. Ha sempre origine contadina
(dialetto pavano), ma viene meno ogni contrapposizione col padrone e il contrasto città-campagna.
Se prima era la fame il tema, adesso le burle sono meglio del pane per combatterla.
Nell'Anconitana (1534-1535 circa), ultima opera, Beolco non imita più i classici, ma si mette in
gara con Ariosto e il Bibbiena. Qui il Ruzante è servo del borghese veneziano Sier Tomao, ed è il
servo astuto centro del motore della vicenda. In Ruzante si riconosce il futuro Arlecchino e in Sier
Tomao il futuro Pantalone. Il villano ha perso la sua vitalità umana e sociale irrigidendosi nella ma -
schera del personaggio della Commedia dell'Arte.

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Anche a Siena si solidifica una tradizione che utilizza la figura del personaggio contadino, in chiave
antivillanesca. Nel 1531 nasce la Congrega dei Rozzi, un'associazione di attori-autori dilettanti che
incentra il proprio lavoro nell'orizzonte rusticano. Nella vita dell'associazione c'erano i momenti lu-
dico-gastronomici (giocare a palla, pranzi societari ecc.) ma anche istanze culturali (leggere il Pe-
trarca o Boccaccio, comporre rime o prose). Stendere commedie è una parte, la più importante, di
una complessiva attenzione alla creatività, come si capisce dal decimo dei Capitoli che regolano la
vita della Congrega, dove dice “che chi si vuol congregare, deve avere virtù: comporre, cantare, re-
citare, schermire” intendendo che nessuna di queste è però la professione della Congrega. C'è una
forte connotazione dilettantesca nella Congrega, che tende a non accettare gentiluomini, esaltando
così lo status di artigiani.
La scena dei primi trent'anni del Cinquecento senese, con Campani in testa (periodo Pre-Rozzi) ha
una pluralità di scelte teatrali (farse villerecce, pastorali, cittadine e commedie regali), mentre coi
Rozzi si punta esclusivamente sul personaggio del villano. Le loro pastorali vengono man mano
cambiate fino a farle diventare preambolo della commedia villanesca. Coi Rozzi, il villano acquista
centralità scenica. Ciò non significa, almeno in prima battuta, uno sguardo di simpatia verso il mon-
do contadino. Il punto di partenza è sempre la tradizionale satira antivillanesca. La situazione eco-
nomica di Siena è peculiare. La debolezza economica della città impedisce un inurbamento. In que-
sta situazione, i Rozzi, artigiani e quindi anche loro ai margini, non possono che collocare il loro
punto di vista che nell'alveo della satira antivillanesca, evitando totalmente di mettere in scena una
figura della loro categoria sociale. Il villano, nei Rozzi, si fa portavoce delle insofferenze dell'arti-
gianato urbano verso la classe dirigente, responsabile, infine, dell'intervento spagnolo del 1555 che
sancirà la fine dell'indipendenza della repubblica senese.
Il più importante dei Rozzi è Salvestro, detto il Fumoso, di professione cartaio. Tra 1544 e 1552
scrive sei testi, quattro villanesche e due pastorali, con al centro la figura del contadino, in modo sì
satirico, ma anche con un realistico rispecchiamento dei rapporti tra contadini e cittadini.
Anche a Firenze il teatro si diffonde tardi. A Firenze non è possibile parlare di una corte come a Fer-
rara o Mantova. I Medici sono cacciati periodicamente da Firenze e periodicamente ritornano. La
repubblica si alterna ai Medici, dove non regna mai un principe, almeno fino all'ascesa di Cosimo I
(1537). Senza scena cortigiana non si dà invenzione del teatro. La spettacolarità fiorentina del pri-
mo trentennio è innestata nelle consuetudini societarie e conviviali, in cui la figura dell'araldo è l'uf-
ficiale della Repubblica, garante delle cerimonie urbane, attore-autore di un teatro informe, dove è
prevalente l'oralità.
Giorgio Vasari (1511-1574) parla di due delle cosiddette “compagnie di piacere”, quella del Paiuo-
lo e quella della Cazzuola. Quest'ultima nasce da una burla prandiale 8: in un cena a base di ricotta,
fu usata una cazzuola lasciata da un muratore per cacciare della calcina in bocca a un commensale
(Feo), che si aspettava ricotta. Questo sodalizi riuniscono artigiani e artisti, ricchi popolani come
Bernardino di Giordano e Iacopo Fornaciaio, nelle cui case si rappresenta commedie di Niccolò
Machiavelli (1469-1527), esponenti politici fiorentini e rinomati intrattenitori, come l'araldo Do-
menico Barlacchi. Queste compagnie furono fondamentali nel promuovere il teatro a Firenze, in
assenza di una corte medicea.
A Firenze è la scena cittadina ad imporsi, sotto la spinta del capolavoro Mandragola, dove c'è uno
spessore di vita cittadina e borghese che emerge vistosamente. Basta leggere la prima scena del pri-
mo atto, dove il protagonista Callimaco Guadagni racconta al servo (e quindi agli spettatori) l'ante-
fatto della vicenda. Callimaco vive a Parigi da dieci anni, quando Carlo VIII scende in Italia, e dice
che preferisce vivere a Parigi, che è più sicuro che a Firenze. Se il personaggio di Nicia è il prototi-
po più gretto del municipalismo fiorentino, Callimaco non è da meno. A causa della guerra va a Pa-
rigi vendendo tutto, tranne la casa avita9, dove sono le radici. Ha portato i suoi capitali a Parigi,
dove però frequenta un ambiente di soli fiorentini. Sesso e soldi s'intrecciano. Vive felicemente a
Parigi dal 1494 al 1504, mentre in Italia c'è la guerra, dividendo il tempo tra “studii, piaceri e fac-
cende”.

8 Che si riferisce al pranzo.


9 Ereditata dagli avi.

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La successiva commedia, Clizia (1525), è ambientata nel 1506. Machiavelli porta avanti un discorso
sull'hic et nunc (qui e ora), intervenendo sulla contemporaneità. Le due commedie sono modelli di-
versi per raccontare la repubblica fiorentina del Soderini, tra pubbliche virtù e vizi privati, ma in
forma diversa. Nella Mandragola si racconta del faticoso processo di fondazione di una casata e
della successione dei capitali, dove follia e beffa occultano il conseguimento di un obiettivo serio,
un ordine che garantisca la discendenza. La Clizia riprende dove la Mandragola finisce, ovvero ini-
zia in un ordinato vivere civile di un clan familiare. Qui follia e beffa invece rischiano di mettere in
crisi quest'ordine. Il protagonista è un mercante borghese. La follia di un amore senile può mettere a
repentaglio il sistema, ma solo per un attimo.
La scena cittadina che Machiavelli disegna comincia ad attirare attenzione tra gli altri autori. Ludo-
vico Ariosto (1474-1533), inizialmente con modelli classici, amati dalle corti (Cassaria, 1508 e
Suppositi, 1509), nel 1528 sa che la Mandragola è rappresentata in tutta Italia. A Ferrara viene rap-
presentato il Beolco, aiutato proprio dall'Ariosto, che respira la nuova aria di rinnovamento. Nella
Lena (1528) c'è ancora un intreccio plautino, la trama dove il servo aiuta il giovane padrone, ma c'è
anche un duro spaccato della vita cittadina, relativo alla miseria sociale di due emarginati della Fer-
rara del tempo: un marito inconcludente, Pacifico, che spinge la consorte a prostituirsi, e sua mo-
glie, Lena, che per pagare l'affitto si offre come amante del vecchio padrone, Fazio. Il vecchio bor-
ghese ha una vera passione per la più giovane Lena, ma non per questo viene meno ai propri valori
dell'economia. Lena, cosciente dello sfruttamento sessuale, vuole fuggire e diventare una vera pro-
stituta nei quartieri malfamati. Le viene meno il sostegno del marito, schieratosi dalla parte del pa-
drone, per mantenere lo status quo. Nella penultima scena c'è un duro scambio tra Lena e Pacifico,
dove si scolpisce un quadro di laidume: la moglie che si prostituisce per mantenere un marito pol-
trone, che le propone i clienti, che la istiga alla sodomia. Oltre a questo è anche servile verso i po -
tenti, come con Fazio, da lui giudicato “uomo da ben”. Il finale sembra innocuo (Fazio manda a
nozze la figlia Licinia con Flavio, figlio di un gentiluomo), ma la realtà di Ferrara riprende il so-
pravvento sulla vicenda di stampo classico. Alle feste di nozze, Fazio invita anche Lena e Pacifico,
così che lei possa riavere la propria collocazione istituzionale. Ma i posti a tavola sono cinque (Fa-
zio, Lena, Pacifico, Licinia e Flavio), con una coppia legittima e una coppia adultera, con un marito
cornuto e contento. Un tocco di amarezza spezza l'allegria della commedia rinascimentale, ricolle-
gandosi così al Machiavelli.
È però l'anonima La Veniexiana il frutto più maturo del realismo rinascimentale. Già dal titolo si
sottolinea la centralità della dimensione urbana. Ci sono due protagoniste, la vedova Angela e la
giovane sposa Valeria, che si contendono l'amore del forestiero milanese Iulio. Lo studioso Giorgio
Padoan presume che prese spunto da un fatto di cronaca, databile tra 1535 e 1537, riscoperta solo
nel Novecento. Sempre Padoan pensa che la rappresentazione, se ci fu, doveva essere prevista in
una sala di un palazzo veneziano, con solo pubblico maschile, così come lo erano anche gli interpre-
ti. La Veniexiana non ha nulla a che fare col panorama classico del teatro cinquecentesco. Non ci
sono servi astuti, figure tipiche come l'avaro ecc. E non c'è la struttura coerente e chiusa della com-
media classica. È, anzi, un'anticommedia. Nel primo atto, che funziona da prologo, si presentano i
personaggi. Poi la commedia si spezza in due sezioni senza collegamenti interni: secondo e terzo
atto per l'amore di Angela per Iulio, quarto e quinto per l'amore di Valeria per Iulio. La commedia
sembra quindi spezzata in due commedie minori, collegate solo dalla fisicità di Iulio. Ma non c'è un
passaggio. Iulio non lascia Angela per Valeria, ma semplicemente trascorre dall'una all'altra. La
commedia non ha fine: domani Iulio può continuare a vedere sia Angela che Valeria, e così via. È la
grandiosa novità della Veniexiana, che anticipa di tre secoli il naturalismo, fornendo uno spaccato di
vita reale, come la vita di tutti giorni, senza fine.
Altra peculiarità è il rifiuto della canoniche unità di tempo e luogo. La vicenda si svolge nel lasso di
quattro giorni, dagli interni della case delle due donne agli esterni cittadini. Grazie a questa libertà
spazio-temporale, si ha uno spessore psicologico dei personaggi che manca nelle altre commedie
cinquecentesche. Per Iulio e i personaggi minori il tempo è neutro, indifferente. Per le due donne in-
vece è percepito con struggimento, con angoscia: è il tempo che scandisce la durata del loro piacere.
Anche la sensazione dello spazio è diverso. C'è lo spazio aperto (le vie cittadine) e lo spazio chiuso

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(le case delle donne). Le due donne non si mostrano mai fuori casa. Al contrario, lo spazio aperto, è
percorso da servi e da Iulio. Lo spazio aperto è luogo di dissipazione, di esseri inferiori che si ven-
dono (come Iulio in mano alle due donne). Lo spazio chiuso è privilegio, dove si consuma la cele-
brazione amorosa. L'eros è il privilegio di una classe signorile senza paure economiche, libere di
impiegare il tempo nell'erotismo.
Il rapporto delle due donne è però frustrante. Iulio è sì un servo, ma non è docile. In realtà domina
le due donne. Secondo gli studiosi l'erotismo è l'emblema del fallimento della classe dirigente vene-
ziana dell'epoca, colpita dalle guerre di primo Cinquecento, dalla pressione economica dei turchi e
dalla scoperta della via delle Indie. L'erotismo è un'evasione individuale. In questo senso potremmo
vedere nello scacco alle due donne lo scacco all'intera società veneziana di quegli anni, facendo del-
la Veniexiana, insieme al Beolco, uno dei più significativi esempi di realismo del secolo.

5. Il secondo Cinquecento e la Commedia dell'Arte

Il Cinquecento è un secolo breve. Nel 1547 sono già tutti morti i più grandi autori rinascimentali
(Bembo, Ariosto, Machiavelli, Beolco ecc.). Se prendiamo le loro opere, vediamo che sono com-
presse nei primi trenta anni. Ma è del 25 febbraio 1545 un documento che attesta la nascita della
Commedia dell'Arte, che è un'altra storia rispetto al teatro di primo Cinquecento.
La codificazione aristotelica comincia nel 1548 con Francesco Robortello fino al 1570 con Lodo-
vico Castelvetro. Prima di loro, i commediografi erano riusciti da soli ad assestare i propri lavori. Il
punto di partenza era l'Ars poetica di Orazio che scandisce in cinque atti il testo teatrale. Spontanea-
mente era stato accolto il principio di unità di tempo e luogo, e la prosa rispetto ai versi (solo Ario-
sto fece il contrario). Altrettanto spontaneamente era prevalsa la scelta del verso per la tragedia, che
garantiva un accento più aulico. La tragedia, nelle corti, è però scarsamente frequentata. Ne vengo-
no scritte tante, ma poco rappresentate. La classe dirigente rinascimentale è laica ed edonista, e vuo-
le divertirsi, non domandarsi sul significato profondo della vita. Nel Cinquecento in Italia mancano
le condizioni storico-sociali per produrre capolavori della tragedia.
L'ebreo mantovano Leone de' Sommi (1525 circa-1592 circa) è autore del trattato Quattro dialoghi
in materia di rappresentazioni sceniche (fine anni '60-inizi anni '70). È uno dei pochi uomini di tea-
tro, tra tanti letterati, grazie all'esperienza di organizzatore di eventi. Il suo trattato consiste, appun-
to, nell'attenzione alla dimensione dello spettacolo. Il punto di vista privilegiato è quello dello spet-
tatore, non del lettore. Dichiara che un testo può essere bello su carta ma non sul palco, e viceversa.
Richiede agli attori di essere “ubidienti” al “corago” (l'autore), e di accettare lunghe “prove”. È una
linea che rinforza il professionismo teatrale, all'opposto del dilettantismo di corte.
Il 25 febbraio 1545 otto uomini si presentano da un notaio di Padova. Vogliono costituire una socie-
tà, per “recitar commedie di loco in loco” al fine di “guadagnar denaro”. Divideranno gli utili in
parti uguali, aiutandosi in caso di infortuni o malattie. C'è uno spirito borghese in questo documen-
to, che inventa una nuova professione. Infatti arte è intesta come artigianato, mestiere. Il teatro può
diventare una professione, farselo pagare, anziché offrirlo, andare di “loco in loco”, perché una città
è troppo piccola per una compagnia. I comici dell'Arte (comici inteso come attori, non solo di com-
medie) man mano delineano altri tratti della loro specificità di lavorare, fino ad arrivare ad una doz -
zina di elementi. Ci sono i “ruoli fissi”: un attore fa sempre il solito personaggio (Pantalone, Capita-
no, l'Innamorato ecc.), per una resa migliore. Ogni attore ha monologhi, spezzoni, ecc. che manda a
memoria (generici), che si adattano a diverse commedie. Poi ci sono i “canovacci”, che sostituisco-
no il testo, sulla base dei quali gli attori improvvisano le battute. In senso teatrale, canovaccio, indi-
ca un riassunto dell'intreccio a grandi linee. Non era una novità. Nel primo Cinquecento non c'era
un testo unitario: ogni attore aveva il testo solo della sua parte, la cosiddetta parte levata o parte
scannata. Ciò per economia, per non copiare il testo. Il testo era diviso, dato agli attori, e poi ricom-
posto nello spettacolo.
Efficace è la novità delle maschere, di cui quattro fisse: Pantalone, mercante veneziano, ridicolo per

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le sue velleità sessuali vista la sua senilità malconcia; Graziano, il dottore bolognese, che parla mez-
zo latino mezzo bolognese; i due servi che parlano bergamasco, Arlecchino, sciocco, e Brighella,
astuto, uno nato a Bergamo bassa, l'altro a Bergamo alta. Sono tratte dal folklore carnevalesco, ma
sono implicite nelle commedie di primo Cinquecento, con una serie di tipi (il vecchio mercante, il
servo astuto, ecc). Le maschere attraggono un pubblico meno colto e popolare. Il pluralismo lingui-
stico, coi dialetti che contrastano l'italiano della coppia di innamorati, serve per rendere lo spettaco-
lo più attraente. Caratteristica decisiva della Commedia dell'Arte è la gestualità della recitazione,
con la valorizzazione del corpo, con tanto di salti e capriole. La vera trovata vincente della Comme-
dia dell'Arte si ha intorno al 1570: la donna-attrice, che ne determina il trionfo. La Chiesa (coi Ge-
suiti in prima fila) si battono contro i comici dell'Arte per questo motivo, perché la donna alletta di
più che altri oggetti di scena. Lo spettacolo del corpo femminile alimenta l'industria dello spettaco-
lo.
Gli ecclesiastici, però, non se la prendono su ciò che avviene sul palcoscenico, ma con quello acca-
de prima e dopo lo spettacolo. Effettivamente i canovacci non sono diversi la delle commedie mes-
se in scena nelle corti. La differenza la fa la professione del teatro. I prelati scrivono che una donna
attrice fa una bella vita (alberghi, ristoranti, regali ecc.), a differenza della donna normale, che si
suda il vitto. Gli uomini di Chiesa mal sopportano una micro-società dentro la società, con regole
proprie, non in linea con la morale comune, trasgressive. Per loro le attrici sono tutte prostitute e gli
uomini gaglioffi e balordi. Vengono ghettizzati dalla Chiesa, che si rifiuta di seppellirli in terra be-
nedetta. Ma il ghetto rafforza la convinzione di come concepire l'esistenza. Ci si avvicina al teatro
per la vita al di fuori del teatro, meno repressiva e chiusa. Diderot, nel Settecento, dirà che si avvi-
cinò al teatro per stare vicino alle attrici, belle e disponibili.
La Commedia dell'Arte dura due secoli, fino a metà Settecento. Intorno al 1740, gli attori non sono
neanche più in grado di scriversi i canovacci da soli. Goldoni si avvicina proprio al teatro come
compositore di canovacci, il cosiddetto poeta di compagnia. Si tratta anche di una realtà complessa,
a più livelli: i ciarlatani di piazza, le compagnie più consistenti, i comici illustri, che operano nei
grandi palazzi alto-borghesi.
Il picco si ha tra fine Cinquecento e primo Seicento, quando operano tre comici illustri: i coniugi
Isabella (1562-1604) e Francesco Andreini (circa 1548-1624) e Flaminio Scala (1552-1624).
Francesco Andreini pubblica nel 1607 Bravure del Capitano Spavento, una raccolta di generici uti-
lizzati nella figura del Capitano, ruolo fisso suo in scena. Lo Scala, che in scena fa l'Innamorato,
pubblica nel 1611 Il teatro delle favole rappresentative, una raccolta di cinquanta canovacci: un atto
di orgoglio dare dignità libresca ad un così basso strumento di lavoro. Sono canovacci ai quali
chiunque attore può attingere. C'è anche la volontà di fare opera di scrittura. Il sottotitolo, infatti, è
overo la ricreatione comica, boscareccia e tragica: divisa in cinquanta giornate, riferimento al De-
cameron, in dieci giornate. Ogni canovaccio, da un lato, presenta la lista di oggetti che serviranno
agli interpreti. Dall'altro lato, ogni canovaccio è introdotto da un Argomento, senza rapporti col ca-
novaccio, una micro-novella, di ingenuo gusto boccacciano.
Il ritratto è un canovaccio prezioso, metateatrale10, che offre una visione dal di dentro, coincidente
però con lo sguardo degli ecclesiastici. L'ambientazione è quella di una troupe di comici che, arri-
vando in città, affittano uno stanzone dove si esibiscono a pagamento. Non ai livelli bassi dei ciarla-
tani da piazza. Il canovaccio non presenta il momento della messinscena, ma quello del fuori scena,
della vita quotidiana dei comici. Vittoria, l'attrice protagonista, è presentata nel secondo atto, insie-
me al “comico” Piombino, nello splendore del proprio abbigliamento. Si capisce che Vittoria è attri-
ce e prima donna della compagnia, ma è anche una demi-mondaine che attira regali non per le quali-
tà attoriche, ma per le sue abilità amatorie. Significativo un dialogo tra Vittoria e Piombino, dove si
esorta la donna ad essere una fredda e professionale mondana senza cedimenti passionali, pronta a
monetizzare il suo fascino, perché non potevano contare, in vecchiaia, ad alcuna pensione. Il cano-
vaccio dice ciò che gli ecclesiastici accusano: che l'arrivo in città delle compagnie creano scompi-
glio. I due vecchi (Pantalone e Graziano) corteggiano Vittoria, incuranti che le loro mogli li tradi-
scono con i giovinotti. Il canovaccio non mostra la messinscena ma apre uno scorcio sul dopo spet-

10 Teatro che riflette sul teatro.

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tacolo. È inserito un “furbo con lanterna”, che fingendo di aver perso soldi a carte, invoglia Arlec-
chino e Pedrolino al gioco, per poi spennarli. Su questa tonalità cupa, notturna, è inserito il dato so-
noro di un “gran romore d'arme nella stanza delle commedie”: lo spettacolo è finito in rissa, come
appunto denunciato dagli uomini di Chiesa nei loro pamphlets.11 Vittoria è vittima del suo fascino,
ed è rapita da alcuni gentiluomini, come una prostituta da poco, con la quale è permesso tutto, anche
il rapimento a scopo di violenza carnale.

Come si allestisce la commedia

Per Leone de' Sommi era più importante avere dei “boni recitanti che bella commedia”. Gli attori
devono piegarsi a un principio di illusione, con buona pronuncia e senza esibirsi mai freddamente,
offrendo, anzi, spontaneità. L'impianto scenico, anche se di legno, deve dare idea di essere solido.

Scene fisse, intermezzi e scene mutevoli

Gli attori non dovevano voltare le spalle agli spettatori. Anzi, la scenografia spettacolare del tempo,
li costringeva ad accostarsi più vicino possibile al pubblico, per non far saltare l'illusione prospetti-
ca. Presto si impose l'esigenza di una scenografia mutevole, passando la resa delle ambientazioni
dai pittori agli ingegneri. Sono gli “intermezzi” delle commedia a spingere per una scenografia più
trasformabile. Gli intermezzi servivano per ristorare la mente degli spettatori durante le commedie,
rischiando però di disturbarli. Nella seconda metà del Cinquecento si impongono i portentosi inter-
mezzi fiorentini di Bernardo Buontalenti (1536-1608).

Le famiglie delle maschere

La Commedia dell'Arte non era solo legata alla rappresentazione dei canovacci con le maschere. Ma
questa è l'idea che è stata tramandata. La Commedia aveva una funzione commerciale, e cristalliz-
zava gli intrecci dei canovacci e dei tipi rappresentati. Questi tipi avevano nomi e abiti costanti, de-
rivanti dai Carnevali delle città, che diventarono routine, funzionale allo spettacolo seriale. Le fami-
glie delle maschere erano gli Innamorati, giovani e non vecchi, che dovevano parlare in italiano.
Poi seguono i Vecchi, ridicoli perché si innamorano, sono avari e viziosi, come il veneziano Pantalo-
ne e il dottore bolognese, detto Graziano. La rivalità erotica dei vecchi nei confronti dei giovani era
tema ricorrente nei canovacci. Poi c'è la famiglie dei Capitani, soldati fanfaroni, che si esprimevano
in vari dialetti ma anche in spagnolo. Infine gli Zanni, servi e fulcro dinamico e comico dell'intrigo.
Se ne distinguono di due tipi: uno astuto, che usa qualsiasi dialetto, solitamente napoletano o berga-
masco. L'altro goffo e sciocco, che usano varie lingue.

L'industria dello spettacolo: il melodramma

Nel 1545 si costituisce a Padova la prima compagnia di attori professionisti. Nel 1637 si inaugura a
Venezia la prima stagione pubblica di melodrammi. Non più elargizione benevola dei benestanti,
ma rappresentazioni pubbliche dove c'era un pubblico pagante. Il melodramma si imporrà come ge-
nere emblematico nella vita teatrale italiana. Si cercava nel melodramma un trattenimento appagan-
te e divertente, conquistando progressivamente più larghe fasce di pubblico. Melodramma e Com-
media dell'Arte vengono considerate le eredità più cospicue dell'Italia al patrimonio culturale mon-
diale.

6. La scena elisabettiana tra Cinquecento e Seicento

Tra Quattrocento e Cinquecento in Italia c'è una rottura: il popolo, nelle piazze, assiste a spettacoli

11 Breve scritto di carattere polemico o satirico.

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religiosi, mentre nelle corti si hanno spettacoli laici, costruiti sulla teatralità classica. Questa rottura
non si determina in tutta Europa. Solo la Francia subisce l'influsso del classicismo italiano. In In-
ghilterra, Spagna e Germania prosegue la tradizione del teatro medievale, comunque con una men-
talità moderna, aprendosi ai nuovi contenuti laici. Shakespeare tratta di conflitti di potere, vicende
d'amore e di eventi storici ignorando le unità di tempo e di luogo. Continua a utilizzare la libertà
spazio-temporale del teatro medievale. La contaminazione tra tragico e comico, tipico del medioe-
vo, si ritrova in Shakespeare. In Amleto, Otello e Macbeth, per esempio, non mancano scene comi-
che-buffonesche. Nell'Amleto ci sono due clowns che svolgono la funzione di becchini, che ridono
tra loro e con Amleto mentre scavano la fossa per Ofelia, suicidatasi. Nell'Otello c'è un scambio di
pesanti allusioni sessuali tra Iago e Desdemona. In Macbeth c'è lo sproloquio dell'ubriaco Portiere
del castello, che descrive le conseguenze dell'ubriachezza con toni osceni (urina, desiderio sessuale
e impotenza dovuta dal troppo bere).
Ciò non vuol dire che in Inghilterra non ci fossero intellettuali che conoscevano il classicismo italia-
no, ma avevano poca rilevanza. Lì il teatro ha una dimensione di massa, popolare. Shakespeare co-
nosce il latino, ma segue i gusti del pubblico adattandoci le suggestioni della cultura classica. Piace
il tragico Seneca, ma perché l'orrido e il macabro delle sue tragedie piacciono agli spettatori popola-
ri. Ed è comunque adattato: il sangue in Seneca è raccontato, nel teatro inglese esibito.
Londra era una metropoli viva, con 200.000 abitanti, di cui il 10-15% andava a teatro: un mercato di
20-30.000 persone. Il teatro aveva un ruolo simile alla televisione di oggi. Lo scrivere per il teatro
era una produzione commerciale, commissionata ed elaborata in tempo veloci (spesso fatta a più
mani), e di cui l'autore si disinteressa una volta che ci ha guadagnato. Shakespeare stampa i suoi
poemetti poetici (Venere e Adone, Lo stupro di Lucrezia), ma abbandona i copioni teatrali al loro de-
stino. Ci sono giunti a noi in via fortunosa, spesso con aggiunte, interpolazioni 12. Inoltre il mercato
librario era concorrenziale agli spettacoli: un testo pubblicato poteva essere messo in scena da altre
compagnie, rivali rispetto a quella per la quale l'autore lavorava. Comunque Londra era in anticipo
sul resto d'Europa nel definire l'industria dello spettacolo. Il teatro non è riservato ad un'élite, come
in Italia. Ci sono spettatori paganti che acquistano la merce teatro. È un pubblico interclassista: dai
popolani che pagano un penny per stare in piedi davanti al palco, agli aristocratici che, pagando di
più, siedono comodamente nei palchetti. Di contro c'è una forte avversione dei Puritani 13 nei con-
fronti del teatro, più che della Chiesa cattolica. All'epoca dominano nella City, e infatti i teatri veni-
vano costruiti sulla riva meridionale del Tamigi, area di bordelli e arene per il combattimento di ani-
mali. Simile all'arena è il teatro inglese, vagamente circolare, a cielo aperto. Il palcoscenico si pro-
tende verso la platea, cosicché gli spettatori circondano gli attori. Sul palco una botola, che simbo-
leggia l'inferno. Due colonne sostengono una tettoia, creando un vano. In alto una balconata dove
possono sedere i musici, o per scene tipo Giulietta che parla a Romeo. È un teatro spoglio, senza
luci, visto che le recite sono diurne. Si parla di scenografia verbale, visto che sono gli attori a evo-
care l'ambientazione (notte, alba, foresta ecc.). Le compagnie teatrali sono snelle, con una mezza
dozzina di attori, capaci di recitare più parti (in Shakespeare si arriva fino a trenta personaggi). I
ruoli femminili sono recitati da giovani, come in Italia, spiegando così che il teatro elisabettiano sia
a protagonista maschile, con le parti sacrificate destinate alle donne. Mancano le donne attrici, per
la pressione moralizzatrice dei Puritani. Le tournées dei comici dell'Arte italiani in Spagna e Fran-
cia vogliono anche promuovere il professionismo teatrale femminile, ma difficilmente arrivano in
Inghilterra, per ragioni geografiche e per l'opposizione della chiesa Anglicana alla Cattolica. Le at-
trici inglesi torneranno col nuovo re, Carlo II, amante del teatro. Il teatro, infatti, è legato al gusto
della corte, dell'aristocrazia. Anche Elisabetta si compiace di andare a teatro. Gli attori perseguitati
dalla legge, sono costretti a cercarsi la protezione di qualche nobile. Shakespeare lavora nella com-
pagnia dei Lord Chamberlain's Men, che poi diventa quella dei King's Men, servitori del re.
Il teatro è lo specchio delle contraddizioni di un paese in trasformazione, che è ormai una potenza
mercantile e marinara mondiale. Ha una società dinamica, caotica, fatta di uomini liberi e spregiudi-

12 Operazione in cui si inserisce un testo ad un testo precedente, senza segnalarlo, alterandone quindi il significato.
13 Fetta di protestanti molto rigoristi, che volevano “purificare” l'Inghilterra da ogni elemento cattolico. Una volta al
potere decapiteranno il re e chiuderanno i teatri tra 1642 e 1660.

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cati, sia sul piano esistenziale, che religioso e culturale. Le biografie degli scrittori di teatro sono
spesso brevi e drammatiche. Christopher Marlowe (1564-1593) è un intellettuale laico, omoses-
suale, blasfemo, che muore trentenne in una rissa. A trentasei anni muore Thomas Kyd (1558-
1594), arrestato per le sue idee trasgressive e sospettato di ateismo. La tragedia spagnola (1592) è
un bell'esempio di senechismo, prototipo della tragedia della vendetta che avrà successo, insieme a
tanti elementi tipici (follia simulata, il malvagio subdolo, fantasmi ecc.). Marlowe ha successo con
Tamerlano il grande (1587-1588), che vale come esempio per un Inghilterra lanciata alla conquista
dei mari. Nel Doctor Faustus (1593) attinge da un best seller tedesco (da cui poi anche il Faust di
Goethe). Con L'ebreo di Malta (1589 circa) mostra le tensioni anti-ebraiche della società europea. È
una drammaturgia legata alla contemporaneità, lontana dalle tematiche astratte e letterarie del Rina-
scimento italiano. Solo Ben Jonson (1572-1637) è attento ai precetti classici, ma nel suo Volpone
(1606) emerge la durezza e il cinismo della società del tempo.
In questo quadro giganteggia William Shakespeare (1564-1616), della cui vita si sa poco. Fu spo-
sato, con figli, ma anche bisessuale. Non è un autore isolato, ma è il punto più alto di un ricco pano-
rama di scrittori. Il suo lavoro, come quello degli altri, è artigianale, spesso adattando testi già scrit-
ti da altri, come forse l'Amleto, ripreso da un Amleto di Kyd. Attinge a fonti moderne come le Chro-
nicles di Raphael Holinshed per scrivere le sue histories sui sovrani inglesi. Si affida alla traduzione
delle Vite parallele di Plutarco per costruire Giulio Cesare o Coriolano.
È un attore, manager di compagnia, ma non un grande interprete (sceglie per lui ruoli secondari). Il
suo ruolo era quello di fornire copioni, in versi e prosa. Il suo blank verse è un verso sciolto, simile
al parlato inglese. Lunga è la serie di capolavori: Riccardo III (1591-1594), Sogno di una notte di
mezza estate (1594-1597), Romeo e Giulietta (1594-1597), Mercante di Venezia (1596-1597), Giu-
lio Cesare (1599), Amleto (1600-1601), Otello, Re Lear e Macbeth (tra 1602 e 1606), Antonio e
Cleopatra (1606-1607) e La tempesta (1611).
L'Amleto è ricavato da una storia popolare scandinava. Il re di Danimarca è morto, la moglie convo-
la a seconde nozze col cognato. Lo spettro del re appare al figlio Amleto, dicendogli che è stato av -
velenato dal fratello, Claudio. Amleto indugia e solo alla fine e per caso, in una strage, compie la
vendetta, morendo anche lui stesso. L'interpretazione più celebre, quelle romantica, vede che Amle-
to sia l'eroe del dubbio, riflessivo, che non passa all'azione. In realtà non è così. Non è come Oreste
nell'Orestea di Eschilo, ma non perché Oreste è un eroe barbarico, istintivo, e Amleto un eroe mo-
derno, riflessivo. Oreste agisce di fronte a un fatto ineluttabile. Amleto prende tempo perché è alle
prese con un sospetto di omicidio, peraltro instillatogli da uno spettro, cercando quindi di capire se
si tratti di uno spettro dannato (a damned ghost). Tra l'altro, in alcuni passaggi, Amleto è risoluto,
uccidendo con uno stratagemma due individui che il re gli ha messo alle costole. E nel terzo atto uc-
cide Polonio, nascosto ad origliare un dialogo tra lui e sua madre. La scena si svolge in una stanza
degli appartamenti della Regina, uno studiolo o stanzino. Quindi Amleto immagina che solo il re
può nascondersi dietro l'arazzo, e infatti quando affonda la spada e domanda “È il re?”, spera pro-
prio che sia lui. Amleto colpisce sperando che sia il re. Nello stesso terzo atto estrae la spada per uc-
cidere Claudio, che sta pregando, ma lo grazia proprio per evitare che la sua anima si salvi. Nel
quarto atto Amleto è mandato in Inghilterra, formalmente per l'imbarazzo di aver ucciso Polonio, in
realtà per un piano di Claudio per ucciderlo. Claudio ritornerà in scena nel quinto atto, nel finale.
Quindi non può essere che Amleto temporeggi per indole o metodo. Sbagliata è anche l'interpreta-
zione di Freud, che vede nell'esitazione di Amleto di uccidere lo zio, un senso di colpa, un comples-
so edipico: Amleto si identifica nello zio, che ha realizzato i suoi desideri inconsci. Ucciderlo sareb-
be come uccidere se stesso. Freud cerca conferme della sua teoria nell'esempio sbagliato. Meglio at-
tenersi alla lettera del testo, dove emerge senza dubbio il dolore di Amleto per le seconde nozze del-
la madre, a due mesi dalla morte del marito. All'incoronazione Amleto è vestito in nero, in lutto, per
rimarcare il suo dissenso. Claudio lo interpreta come una protesta per un'usurpazione (del trono in
questo caso), rassicurandolo su questo, dicendogli che è lui l'erede al “nostro” trono. Non è da
escludere che in Amleto ci sia anche questa motivazione, che però viene fugata quando interviene lo
Spettro, che congeda il figlio con un verso ad effetto: “Addio, addio, addio! Ricordati di me”, del
quale Amleto se ne fa motto. L'incontro con lo Spettro è per Amleto un'epifania, un incontro con la

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dimensione dell'oltre, che ha la voce del padre. D'ora in poi è risucchiato nel cono d'ombra del pa-
dre e del suo commandment, sostantivo tipico delle Sacre Scritture. L'incontro con lo Spettro apre
un abisso tra Amleto e l'universo femminile. Cinque versi sono dedicati a imprecare contro lo zio
assassino e uno solo alla madre, che però è il primo. Amleto individua la madre Gertrude come una
quasi complice. È improbabile che Amleto fosse innamorato di Ofelia, figlia di un funzionario e
quindi indegna di un principe. La visione misogina che nasce dalla visione dello Spettro si allarga
su tutte le donne, Ofelia compresa, vittima infatti di forti allusioni sessuali da parte di Amleto,
omesse dagli attori italiani dell'Ottocento. A un certo punto Ofelia svela una dubbia moralità, con
battute salaci, anche se questo avviene nel momento della follia (come a dire che nella follia emerge
la dimensione autentica del personaggio).
Nella struttura profonda di Amleto c'è un triangolo malsano. Ma non è la freudiana pulsione del fi-
glio per la madre e contro il padre, è, casomai, quella del figlio con il padre contro la madre, ribadi-
mento del mito fondatore della civiltà patriarcale occidentale. Si veda la scena quarta del terzo atto,
dove Amleto rinfaccia alla madre di legarsi a Claudio. Accenna minimamente al fatto che Claudio
ha ucciso suo padre. Non c'è bisogno di insistere su questo tasto, perché la madre lo sa già, ed è
quindi complice, come si evince dalla risposta che Amleto dà alla madre dopo aver ucciso Polonio
(“...un atto malvagio quanto uccidere un re e sposarsi con suo fratello”). Con la sua unione con
Claudio, Gertrude diventa immagine universale del negativo, o come un femminile come oggetto
occasionale di aggressione sessuale, come si vede nel terzo atto, quando Amleto fa oscene avances
a Ofelia, rivelando una percezione di disgusto quasi fisico per il sesso femminile. Subito dopo accu-
sa al plurale (“i vostri mariti”) Ofelia, includendo così anche la madre, ribaltando su Ofelia le accu-
se destinate alla madre.
Shakespeare porta a un grado di grande raffinatezza il play within the play14. Alla corte danese arri-
vano degli attori girovaghi, e Amleto chiede loro di rappresentare la vicenda del Duca Gonzago, av-
velenato dal nipote Luciano che diventa re e sposa la vedova. Uno specchio della realtà danese. La
finzione raddoppia la verità. Amleto lo dice esplicitamente in un monologo, che assistendo a uno
spettacolo, dei colpevoli si sono sentiti colpiti da rivelare i loro misfatti. Claudio è convinto che per
Amleto il teatro sia uno svago, capace di distrarlo dall'ostilità nei suoi confronti, e accetta l'invito ad
assistere allo spettacolo. Il teatro si trasforma, da diversivo, nell'incarnazione dell'altra scena, met-
tendo alla prova Claudio che infatti fugge, svelando ad Amleto che è lui il colpevole.
Con Macbeth Shakespeare inventa il suo primo grande personaggio femminile. Macbeth uccide
Duncan, re della Scozia, e ne usurpa la corona, ma in realtà il motivo dell'omicidio è la moglie,
Lady Macbeth. È un'opera da sempre considerata tragedia del potere, ma, a ben vedere, siamo di
fronte a una vicenda che dice l'assurdità dell'esistenza, la ferita del tempo e della morte. Riflettiamo
sul personaggio antagonista di Macbeth, Macduff, che infine ucciderà Macbeth. La critica insiste
sulla contrapposizione tra polo negativo (Macbeth) e positivo (Macduff). Ma vediamo da vicino il
“buon Macduff”, con gli occhi della moglie, in un colloquio con Ross. Ella dice che “non ci ama”,
“che gli manca il tocco della natura” e “che anche lo scricciolo 15 combatte contro il gufo per difen-
dere la famiglia”. Il sostantivo natura in Macbeth è importante, perché è la storia di una violenza
contro l'ordine della natura (Duncan, “buono”, ucciso dal suo ospite, che è anche suo “cugino”).
Macbeth sarà ucciso solo quando la natura si rivolterà contro lui, secondo la profezia: quando il bo-
sco si metterà in marcia e quando a Macbeth si opporrà un mostro innaturale. Quindi, se Macbeth è
l'Anti Natura, curioso che Macduff sia anche lui estraneo alle leggi della natura. Perché Macduff
fugge abbandonando la famiglia, conoscendo la ferocia di Macbeth? Perchè un comportamento così
folle? Se lo chiede la moglie, ma anche il figlio di Duncan, Malcom, in esilio in Inghilterra, dove
Macduff è andato per schierarsi al suo fianco. Ma Malcom pensa che Macduff faccia un doppio gio-
co. Non può aver tradito Macbeth e lasciato la famiglia alle vendette del tiranno. Alle domande di
Malcom sul motivo della fuga, Macduff non risponde, Shakespeare non gli fa dare risposta. In II.4
Macduff, parlando con Ross, fa capire che sta maturando una dissociazione politica da Macbeth.
Poi esce di scena, fino a IV.2, nel dialogo tra Ross e Lady Macduff. Una zona d'ombra con agli

14 Dramma nel dramma, sinonimo di metateatro.


15 Passero di piccole dimensioni.

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estremi la figura ambigua del cortigiano Ross, pronto inizialmente a schierarsi con Macbeth. Però
rischia la vita per far visita a Lady Macduff. Da notare il commiato di Ross con Lady Macduff
(“Prendo congedo immediatamente”) diverso da Macduff, che se ne andò e senza congedo. Anche
Ross ha più dignità di Macduff. Ross, nella tavola dei personaggi, è presentato come barone della
Scozia, pari di Macduff, ed è imparentato con Lady Macduff. Dopo Ross arriva un Messaggero, che
mette in guardia Lady Macduff dall'arrivo dei sicari, anche lui rischiando la vita per avvertirla, in un
crescendo di tensione. Tutti fanno qualcosa per soccorrere Lady Macduff. Tutti, tranne Macduff.
Il pàthos della scena lo si deve allo scambio di battute tra Lady Macduff e il maggiore dei suoi figli
che, ferito a morte dai sicari di Macbeth, implora la madre a scappare. Shakespeare costruisce una
scena umana che è il doppio della scena animale evocata da Lady Macduff, quella dello scricciolo.
Animali e umani, tutti mostrano di avere the natural touch. Tutti, tranne Macduff.
Difficile non vedere Macduff fuori dall'orizzonte dei comportamenti naturali. La sua indole anti-
naturale rimane un mistero, se riflettiamo su chi è esattamene Macduff: un “non nato da donna” (no
woman born). Gli studiosi pensano con la sensibilità moderna: un bambino nato con parto cesareo è
uguale agli altri. Per la legge romana era vietato seppellire una donna incinta se prima non le veniva
prelevato il feto, con incisione dell'addome e dell'utero. Fino all'Ottocento la medicina non garanti-
va la sopravvivenza in caso di taglio cesareo, che era quindi un'esperienza di morte, non di vita. L'e-
spressione no woman born è forte, significa che è nato da un cadavere, da una donna morta. Si os-
servi la profezia delle Streghe, che dice che “nessun nato da donna potrà uccidere Macbeth”. Mac-
duff è il bambino insanguinato della profezia, e sin dalla sua nascita svela un destino impastato con
la morte, non con la vita.
Affiora anche un sentimento antifemminile: la nascita si afferma sul cadavere della donna. Una vio-
lenza maschile che si abbatte sul femminile. Per Macduff la distruzione del governo del tiranno e la
nascita di una comunità liberata si realizza unicamente sulla carneficina di Lady Macduff. Ovvero,
Macduff è l'unico che può liberare il mondo dal mostro Macbeth, perché egli stesso è più mostro di
lui. Macbeth si interroga sui mali del mondo, e la risposta è che non c'è limite al male, che il male è
schiacciato solo da altro male.
L'era elisabettiana si chiude con John Ford (1586-1640 circa), che riassume bene la dimensione
trasgressiva della fantasia dell'epoca. Il suo capolavoro è Peccato che fosse una sgualdrina (1633).
È un quadro implacabile (come da tradizione elisabettiana) di una società cinica e crudele, ambien-
tata nell'Italia del Cinquecento, in cui si trova un amore tra fratello e sorella. Non era una novità
nella drammaturgia del tempo, ma qui è un'esplosione fresca, di due adolescenti candidi che scopro-
no l'amore insieme, essendo vergini entrambi. Nell'avvio del plot, c'è Annabella nella parte alta del
palcoscenico, che osserva un uomo che cammina per strada, all'apparenza triste. È il fratello Gio-
vanni, che Annabella non ha riconosciuto perché non vuol riconoscere l'amore per il fratello. Scen-
de in strada per condividere la tristezza. È un avvio delicato, di una storia d'amore come Romeo e
Giulietta, se non fosse che sono fratelli. Giovanni confessa il suo amore, ma offre alla sorella il suo
pugnale, per ucciderlo. Amore e Morte, come sarà nella civiltà romantica. Annabella, inizialmente
timida, cede di schianto, e confessa il proprio amore per lui. Il fatto che lei rimanga incinta allude
alla loro inesperienza. Non è un incesto perverso, ma un amore dovuto alla timidezza e alla paura
del mondo esterno. Il dettaglio della madre morta non è irrilevante: delinea il quadro di due orfani
che vivono in una casa borghese con un padre assente. Due ragazzi che si amano sulla base del mito
dell'Androgine, dell'essere nato unitario e poi diviso dalla divinità in due.
Il secondo atto registra la capacità di iniziativa femminile, la fermezza con cui Annabella tiene le re-
dini della storia. Nel terzo atto c'è la svolta. Annabella è incinta e si pente con il Frate, che le propo-
ne di sposare Soranzo, che da tempo le chiede la mano. Nel quarto atto Soranzo apprende che il fi-
glio non è suo. Di fronte alle offese del marito, Annabella non svela il nome del padre. Nel quinto
atto Annabella è alla finestra, che aspetta di essere uccisa da Soranzo, ma vuole salvare il fratello,
sia fisicamente che spiritualmente, dalla dannazione eterna. Soranzo organizza una festa per uccide-
re Giovanni per mano dei sicari. Ma Giovanni uccide a pugnalate la sorella. Poi, in stile elisabettia-
no, entra nella sala del banchetto col cuore infilzato nel pugnale, e qui cominciano i vari ammazza-
menti: Soranzo e Giovanni e il padre Florio, che muore di crepacuore. Se Annabella, nella storia, ha

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una maturazione psicologica che la porta a pentirsi, Giovanni è l'eroe trasgressivo e maledetto, ri-
belli agli uomini e a Dio.

Gli spettacoli di Londra

In Inghilterra, la condizione professionale dell'attore, viene definita nel 1572 col Retainer's Act. A
Londra c'erano due aree destinate allo svago: a nord, Finsbury Field, zona di passeggio e sport; a
sud, Bankside, un posto malfamato. Inizialmente i teatri pubblici furono costruiti a nord, per poi al-
largarsi anche alla zona sud. La struttura dei teatri pubblici era ancora influenzata dal modello di
teatro circolare medievale. La rappresentazione teatrale era spesso accompagnata da musica, danze
e feste. C'erano anche altri divertimenti nella Londra elisabettiana, come i combattimenti degli ani-
mali. I teatri erano luoghi animati, dove si vendeva frutta, vino, birra e, talora, prostitute.

Come recitavano gli attori di Shakespeare?

Importante è come Amleto dà ordine di recitazione agli attori: recitare senza vociare come pubblici
banditori, con scioltezza. Ma non troppo blandi. Il fine dell'arte drammatica è “reggere lo specchio
alla natura”. La retorica dell'epoca era permeata di questi principi. L'arte teatrale insegnava “a ben
parlare”. Una nuova forma di realismo, ma non troppo affidabile, visto che i ruoli femminili resta-
vano affidati a giovani maschi.

L'anima e il corpo del teatro

Nella sala dei banchetti a Whitehall (Banqueting House) si svolgevano i prestigiosi spettacoli di
corte. Lo scenografo Inigo Jones (1573-1652), dopo aver visitato l'Italia e influenzato da Buonta-
lenti, introdusse lo stile teatrale italiano con la sua prospettica. Portò al massimo splendore il genere
dei masques, celebrazioni allegoriche della monarchia, dove era anche permessa la presenza di don-
ne in scena. Lo stesso Shakespeare allestisce una masque ne La Tempesta. Nacque il duello tra “ani-
ma” (soul) dello spettacolo, ovvero caratteri poetici, difeso da Jonson, e la fascinazione delle “parti
fisiche” (body), lo spettacolo scenotecnico, difeso da Jones. A mettere fine alla diatriba furono i Pu-
ritani, che dal 1642 al 1660 chiusero tutti i teatri, relegando gli spettacoli nei salotti o per strada e
taverne.

7. La scena spagnola tra Cinquecento e Seicento

Tra 1570 e 1580 i teatri spagnoli che fiorirono non erano diversi dagli inglesi. Nacquero entrambi
da una matrice comune che è la scena medievale. Le due potenze ebbero un processo inverso: la
Spagna decadde rapidamente. La cacciata di ebrei e mori causò un grave contraccolpo all'economia
spagnoli (mori per l'agricoltura ed ebrei per finanza e artigianato). Al contrario l'Inghilterra si svi-
luppa e si apre sempre di più al commercio, aumentando il suo peso politico. La Francia è ripiegata
su se stessa, presa dalle guerre religiose tra cattolici e ugonotti. La Spagna, invasa dagli arabi per
molti secoli, ha portato a termine il processo della Riconquista. La religione è un elemento di identi-
tà della popolazione, che sente il bisogno di rimarcare le differenze con il diverso. Mori ed ebrei che
non si convertono vengono espulsi dalla Spagna. Nelle guerre di religione tra cattolici e protestanti
vede la Spagna in prima fila in difesa dell'ortodossia cattolica. Lo spagnolo Sant'Ignazio di Loyola
fonda la Compagnia di Gesù (alludendo, già dal nome, alle compagnie di ventura dei mercenari),
sottolineando lo spirito guerriero della Chiesa contro gli eretici.
Ovviamente tutto ciò si riflette sulla storia del teatro. Tutti i personaggi più significativi sono coin-
volti nella religione. Tirso de Molina è il nome d'arte del frate Gabriel Téllez. Calderón de la Barca
abbraccia la carriera ecclesiastica a cinquant'anni, così come Lope. L'autore della Celestina, Fernan-

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do de Rojas, è un ebreo convertito. Lope, Tirso e Calderón compongono alternativamente testi di


teatro profano e testi di carattere religioso. Anche in Spagna si ha un processo di laicizzazione della
drammaturgia, ma anche una vitalità, sconosciuta in Europa, nel teatro di carattere sacro, con com-
medie che attingono a personaggi della Bibbia, ai santi, e con gli autos sacramentales, che esaltano
l'eucarestia. Si ritrovano personalizzazioni allegoriche come la Morte, il Mondo, la Bellezza ecc., di
tradizione medievale.
Ciò non evita che il potere religioso guardi con diffidenza il mondo teatrale, ma non può farci nien -
te, in quanto c'è voracità di spettacolo teatrale, con una forte presenza popolare. Si calcola che siano
stati scritti 10.000 testi (contro i 1.500 in Inghilterra), perché non c'è solo la realtà della capitale, ma
ci sono anche altri centri vivaci (Barcellona, Siviglia, Toledo ecc.).
Nella scena spagnola c'è il corral, una sorta di cortile costituito dalle pareti di case contigue, con il
palcoscenico impiantato ad un'estremità. Sul terreno, in piedi, i posti popolari. Lungo i muri, gradi-
nate per i più benestanti. In fondo la cazuela, per il pubblico femminile, diviso dal resto. Ai balconi
e alle finestre della case adiacenti, dame e spettatori di rango più alto. Il Corral di Almagro, nella
Mancia, costruito nel XVI secolo, è l'unico arrivato ad oggi. Importante anche il Corral di Madrid
(1583). Dal 1574, la presenza dei comici dell'Arte italiani, accelera il processo di professionismo
teatrale, facendo accettare le donne attrici (al contrario dell'Inghilterra), ma non influiscono sulla
drammaturgia spagnola, ancora legata alla tradizione medievale.
La comedia nueva, inventata da Carpio Lope de Vega (1562-1635), ripropone i moduli della tradi-
zione medievale: piena libertà spazio-temporale; mescolanza di generi, con la nascita della tragi-
commedia; presenza sistematica del gracioso, un buffone, spesso con valenza di alter ego del prota-
gonista. Oltre alla continuità ci sono delle innovazioni. Si moltiplicano le commedie di genere av-
venturoso, le cosiddette capa y espada, con tematiche come vendetta e onore, care alla mentalità
guerriera della società spagnola. I cinque atti della tradizione classica lasciano posto a tre atti. Lope
nel 1609 pubblica un poemetto in versi, Nuova arte di far commedie in questi tempi, dove parla
apertamente di andare incontro ai gusti e ai limiti del pubblico, soprattutto quello popolare, sacrifi-
cando i diritti di Aristotele e della tradizione classica, con il rischio, come dice ironicamente, si es-
sere chiamato ignorante in Francia e in Italia.
Il Seicento è il Siglo de Oro del teatro in Spagna, che contrasta con il declino socio-politico del pae-
se. Secondo l'ispanista Carmelo Samonà, nella produzione spagnola non si ritrova la profondità del
teatro inglese o francese. Ma è un pregiudizio di tipo laicista, per il quale la modernità è rifiuto de-
gli orizzonti religiosi. Tuttavia, nella produzione teatrale, si respira l'aria della Controriforma, con
uno zelo e conservatorismo eccessivo da parte degli autori, che porta a immobilità ideologica.
Riprova ne è l'opera più famosa di Lope, Fuente Ovejuna (1612-1614), villaggio contadino abban-
donato alle angherie di un signorotto feudale, il Commendatore 16 Gómez, che si diverte a violentare
le donne del suo territorio, spingendo il popolo alla rivolta fino ad ucciderlo. L'inchiesta giudiziaria
non fa scoprire il colpevole: gli abitanti, torturati, dichiarano che il responsabile è Fuente Ovejuna,
il villaggio tutto, in una responsabilità collettiva e solidale di fronte alle mostruosità del potere. È
una grande innovazione, un'apertura dello spirito democratico e un ribaltamento della visione anti-
contadina, consueta in Europa a partire dal Medioevo. Qui i contadini sono portatori di moralità e
dignità. In questa chiave fu letta l'opera, per esempio, nella Russia della Rivoluzione. In realtà Lope
incastona la storia all'interno di un preciso conflitto politico-dinastico. Il Commendatore si è schie-
rato contro i sovrani Ferdinando e Isabella. Il perdono finale dei sovrani nei confronti del villaggio
ribelle, è giustificato dal fatto che il rappresentante di quel villaggio si era macchiato a sua volta di
tradimento verso la monarchia. L'opera diventa così un elogio al potere monarchico in lotta contro
la tradizione feudale, appoggiato non solo dai borghesi, ma anche dai contadini. Il perdono di Fuen-
te Ovejuna fa parte di una strategia che mira a espandere il centralismo amministrativo. Il governo
diretto dal re è preferibile ai soprusi dei signorotti locali.
Il conservatorismo religioso non dev'essere un pregiudizio sul valore artistico nel Siglo de Oro. È
proprio la peculiare sensibilità religiosa della civiltà spagnola che permette ad alcuni capolavori di
raggiungere vette di acuta riflessione sulla condizione umana. Il limite è, casomai, la quantità di

16 Titolo cavalleresco, cui era collegato il godimento di possessi terrieri.

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opere: Calderón circa 200 testi, Lope 400, Tirso de Molina 70 commedie.
Autore di un'opera è Fernando de Rojas (circa 1465-1541), a cui si deve un testo stampato anoni-
mo, nel 1449, Commedia di Calisto e Melibea, ristampato l'anno seguente con l'aggiunta di un acro-
stico17, da cui si ricava il nome del presunto autore, definito “baccelliere” (studente) a Salamanca,
poi avvocato, converso, ovvero ebreo convertito. L'anonimato dovrebbe, infatti, tutelare l'autore
converso, malvisto. Ebbe un successo incredibile, venendo tradotto in italiano già nel 1506, e poi in
tedesco, francese, inglese ecc. Non era un testo pensato per la rappresentazione. La prima edizione
era di sedici atti, in prosa: nelle riedizioni successive si arriva fino a ventuno. L'autore conosce Pe-
trarca e Boccaccio, ma non si preoccupa delle unità aristoteliche. È una sorta di testo teatrale da
leggere, con legami col mondo medievale, a cominciare dalla storia d'amore. Calisto è un giovane
aristocratico dai valori dell'amore cortese, che si innamora di Melibea, scalando le mura del palazzo
della dama per far segretamente l'amore con lei, come in tante novelle di stile cortese. La novità è la
mescolanza del livello alto con il livello basso della ruffiana Celestina, che per denaro favorisce l'a-
more del giovane. Accanto allo spaccato di amori nobiliari si apre, stridendo, il quadro dei margina-
li, di ruffiane, prostitute e servi, pronti a tutto per il denaro. Due servi di Calisto pretendono soldi da
Celestina che rifiuta, e quindi viene uccisa. I due vengono poi a loro volta giustiziati. La trama ca-
valleresca e cortese si intreccia con tinte di violento realismo.
Medievale e moralistica è la costruzione narrativa. I personaggi negativi come Celestina e i due ser -
vi muoiono. Muore anche Calisto, precipitando dalla scala mentre entra in casa dell'amata. Melibea
si suicida, gettandosi dalla torre del palazzo. Il lungo sottotitolo dell'opera garantisce che l'opera
“contiene ammonimenti per i giovani, mostrando loro gli inganni dei servi”, proseguendo poi, all'i-
nizio, per “ammonire gli innamorati, che sostituiscono dio con la propria amata”. Ogni atto è intro-
dotto da un Argomento, e quello del IX atto, dove muore Callisto, è chiaro: “questa è la fine che si
meritano quelli come lui”. Effettivamente una morte come quella di Calisto non può non essere in-
tesa come una punizione. Soprattutto nella prima stesura dell'opera, dove Calisto muore subito dopo
la prima notte d'amore: una punizione tempestiva.
Oltre alla Celestina, che non è un'opera teatrale, il Cinquecento spagnolo è molto gracile artistica-
mente, fino all'arrivo di Lope. Sulla scia di Lope si pone Tirso de Molina (1579-1648), al quale è
attribuito L'ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra (El burlador de Sevilla y convidado de
piedra, 1630). Quest'attribuzione oggi è discussa, ma è comunque il testo fondatore del mito di Don
Giovanni. Già il titolo è importante: c'è il burlador, colui che vive di inganni e burle, che invita a
cena la statua dell'uomo che ha ucciso; dall'altro lato c'è la statua, il convitato di pietra, che a fine
cena stringe la mano a lui, uccidendolo e dannandolo per l'eternità. C'è il protagonista delle male
imprese e il giustiziere. L'impianto moralistico è evidente. L'autore dipinge un personaggio negativo
a tutto tondo: un gentiluomo che usa il suo nome (nipote dell'ambasciatore) per commettere crimini
odiosi, tollerati dal potere politico. Lo stesso Don Juan fornisce al servo (quindi agli spettatori) un
suo poco affascinante ritratto. Il servo gli chiede se intende sedurre, godersi (gozar) una ragazza, e
Don Juan gli risponde che il suo piacere è da sempre ingannare (burlar) le donne. Non è tanto il pia-
cere dell'eros, ma del gusto cerebrale a cogliere il fiore della verginità illibata delle ragazze, per di-
sonorarle, come dice esplicitamente in un passo: “il maggior piacere che io possa avere è ingannare
(burlar) una donna e lasciarla senza onore (sin honor)”. È pervertimento morale e trasgressione so-
ciale, visto che per la civiltà spagnola dell'epoca l'onore è un valore fondamentale.
Inoltre, Don Juan, è forte con i deboli, ma debole con i forti. L'autore alterna sapientemente quattro
avventure di Don Juan: la duchessa Isabella, la pescatrice Tisbea, Donna Anna, figlia del nobile Don
Gonzalo (il convitato di pietra) e la contadinella Aminta. Per Don Juan è facile sedurre le popolane,
giocando sul fascino nobiliare e facendolo alla luce del giorno. Se la popolana crede di più alla fa-
vola del matrimonio, più scaltra e meno suggestionabile è l'aristocratica. Don Juan non riesce a su-
scitare amore in loro, e ricorre ad un avvilente inganno: si traveste da fidanzato delle due donne,
loro sì amati da loro. Quindi il buio della notte è necessario per rubare la purezza delle donne. Non
c'è molto fascino in questo eroe, non tanto seduttore ma uno squallido ladro d'amore.
Neanche di fronte alla morte non è un eroe. Per lui è una cosa lontana, che al momento non lo ri-

17 Componimento poetico in cui le iniziali dei versi compongono un nome o una frase.

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guarda. Una battuta ritorna spesso nella commedia: Tan largo me lo fiáis (Com'è lontana la scaden-
za), ogni qualvolta che qualcuno gli ricorda la morte e la possibile pena dell'inferno. Ma quando la
morte arriva, il nostro eroe si dimostra fragile come un piccolo uomo. Confessa che una delle sue
gloriose imprese amatorie è stata in realtà un fallimento: Donna Anna si accorse che era un imposto-
re e non gli concesse la verginità. È così che confessa quando stringe la mano della statua-Don Gon-
zalo, il quale gli trasmette il fuoco fatale.
Come Celestina, Don Juan non è un eroe del male. Al momento della morte rinnega il suo passato e
chiede l'aiuto religioso, pretende la confessione e l'assoluzione.
Il punto più alto del teatro spagnolo del Seicento si ha con Pedro Calderón de La Barca (1600-
1681), con il suo capolavoro La vita è sogno (1635). La struttura è quella della commedia cappa e
spada, intrecciata con l'ossessione dell'onore. Clotaldo, in passato, ha sedotto e abbandonato un don-
na, a cui ha lasciato la sua spada. La figlia di quell'amore, Rosaura, va in giro per il mondo vestita
da uomo e con la spada, per vendicare il suo onore, in quanto anche lei sedotta e abbandonata (da
Astolfo). Si ritrova il gracioso, nella figura di Clarino, uomo qualunque, al servizio di Rosaura. Nel-
la battaglia finale, Clarino inneggia a entrambi i capi, per salvarsi. Si nasconde tra le rocce, ma ver-
rà ucciso da una pallottola vagante.
Si ritrova l'apologia della monarchia. Basilio, Re di Polonia, ha fatto incarcerare il figlio Sigismon-
do dalla nascita, a causa di nefasti auspici sulla sua malvagità. Vuole lasciare il trono ad Astolfo, ma
un'insurrezione popolare sconfigge il re e dà il trono al legittimo erede. Sigismondo ha tutte le qua-
lità del principe: perdona il padre ed Astolfo, a cui dà anche in sposa Rosaura, di cui lui è innamora-
to. Sa controllare i propri istinti, anche quelli onesti. Rosaura è stata disonorata da Astolfo, che per
rimediare alla verginità violata, la sposa. Sigismondo sposerà Stella, cugina non amata di Astolfo,
per interesse politico. Si fa avanti il soldato che ha causato la rivolta, chiedendo una ricompensa. Si-
gismondo si rivela ingrato e spregiudicato nei suoi confronti, a ribadire il principio dinastico e rifiu-
tando l'investitura popolare: regna perché figlio di Basilio. È questo il senso del perdono al padre:
legittimando il padre si legittima il figlio.
Abbiamo anche una dolente sensibilità religiosa, una percezione della labilità dell'esistenza. L'uomo
è un esqueleto vivo (scheletro vivente), come dicono Sigismondo e Stella. Rosaura e Clotaldo usano
vivo cadáver (cadavere vivente). Anche Basilio riflette sulla condizione umana, sulla vita come so-
gno. Della nascita del figlio Sigismondo dice: “Il sepolcro vivo / di un ventre, perché il nascere / e il
morire sono simili”. Qualche traduzione è stata alleggerita, sbagliando, perché toglie la durezza ori-
ginale e il profondo tormento di Basilio. Gli sembra di aver letto nelle stelle il destino sanguinario
del figlio, e così l'ha fatto crescere incatenato in prigione, con solo l'educazione di Clotaldo. Basilio
non è cinico. Decide di dare un'opportunità al figlio. All'inizio del secondo atto Sigismondo è nella
reggia. È stato narcotizzato e portato a corte. Esplodono però le sue pulsioni maligne: uccide un ser-
vo e tenta di violentare Rosaura. Viene di nuovo narcotizzato e portato nella torre. Il sonnifero non
serve solo al trasporto. È una misura prudenziale per il figlio, perché non soffra: ritornare in cella
dopo esser stato sul trono è da “disperarsi”. Grazie al sedativo Sigismondo può pensare di aver so-
gnato di esser stato re per un giorno.
La pedagogia paterna dà i suoi frutti. Sigismondo prende atto dell'ambiguità dell'esistenza: cos'è so-
gno o realtà? La prigione o la reggia? Come continuare a vivere se ci si risveglia in cella dopo aver
governato da re? Queste considerazioni cambiano Sigismondo, che inibisce gli impulsi irrazionali,
anche quando un'insurrezione gli restituisce la libertà. Ad una domanda di Clotaldo risponde che lui
vuole “operare bene (obrar bien), perché non si perde a operare bene, anche se si sogna”. Calderón
va oltre la propaganda dell'ideale dell'ottimo principe cristiano. Affronta un interrogativo della me-
tafisica. La scelta di operare bene nasce da una spietata pedagogia del terrore del padre, dalla paura
di vedersi ricacciato in carcere. Con una sofferenza senza giustificazione, Sigismondo scopre il vol-
to crudele del mondo. “Dare la vita”, dice Sigismondo, “è una cosa nobile. Ma darla per ritoglierla è
cosa infame”, come fece il padre. Ma è anche una riflessione più ampia sulla vita umana, che è data
per essere tolta dalla morte, da cui nessuno può sfuggire. Per ben quattro volte Sigismondo insiste
sul tema che la nascita è un delitto, dunque che l'esistenza è un male, un castigo, nel suo caso dop-
pio castigo.

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Dalle barbe posticce alle nuvole volanti

Nel prologo delle sue commedie, Miguel de Cervantes (1547-1616), sintetizza la storia del teatro
spagnolo, sottolineando l'incidenza di un attore, Lope de Rueda, che si distinse nella pastorali. Il
materiale del capocomico era composto da poca roba: qualche barba finta, bastoni, giubbe, parruc-
che. Erano commedie con semplici dialoghi, con intermezzi comici e tipi fissi (negra, ruffiano,
sciocco ecc). Il palcoscenico era semplicissimo, una coperta tesa ai lati tra due corde. Naharro di
Toledo, caratterista nel ruolo di ruffiano, diede stabilità alla professione. Tolse i travestimenti e in-
serì quinte ed effetti sonori.

Don Giovanni, archetipo del teatro occidentale

Archetipi del teatro occidentale sono Edipo, Faust, Amleto e Don Giovanni. Individuare l'origine di
queste figure è difficile. Il Don Giovanni attribuito a Tirso è una teoria superata. Studi attribuiscono
l'opera a Andrés de Claramonte. Fu portato a Napoli nel 1625, rimanendo in scena per molto. Fu
proiettato in età romantica da Molière e Mozart, fino a Baudelaire. Nella rappresentazione del litua-
no Milosz addirittura guarisce uno storpio.

La solennità degli autos sacramentales

Rappresentati nelle vie delle città spagnole, per un mese, durante in Corpus Domini. C'era una pro-
cessione alla quale le donne non partecipavano. Il re assisteva e le strade erano protette dal sole con
stuoie e ornate di fiori e arazzi. Il re, ministri e cortigiani reggevano una candela di cera bianca, no-
nostante il sole le sciogliesse.

8. La scena francese del Seicento

In Francia la cultura classicista del Rinascimento ebbe un notevole influsso. Se in Inghilterra e Spa-
gna si conservano legami con la tradizione teatrale medievale (libertà spazio-temporale, mescolanza
di stili, ecc.), la Francia si adatta all'influenza italiana. Dall'Italia c'è un flusso ininterrotto (da fine
Cinquecento) di comici dell'Arte, che dal 1653 si stabilizzano a Parigi, recitando in italiano in una
sala vicino al Louvre, il Petit-Bourbon, diventando così seconda patria della Commedia dell'Arte.
Nel 1658 arriva a Parigi Molière, dividendo lo spazio del Petit-Bourbon con gli italiani. Alcune far-
se di Molière sono di gusto dei comici dell'Arte, come Sganarello o il Cornuto immaginario (1660),
L'amore medico (1665), Il medico per forza (1666).
Particolarmente sentita la cultura classicista tra gli intellettuali. Jean Racine legge Euripide nel testo
originale, facendo osservazioni sulle sue tragedie. Richelieu fonda nel 1635 l'Académie Française,
intrisa di cultura classica, primo esempio di intervento statale nella gestione della cultura. Il secondo
sarà la creazione della Comédie-Française nel 1680, primo esempio di teatro stabile in tutta Euro-
pa. Pierre Corneille (1606-1684) trionfa con Le Cid, che non rispetta le unità di tempo e di luogo
aristoteliche. Proprio l'Académie Française apre il dibattito sul Cid, segno che il quadro culturale
sta cambiando. Bastano i nomi dei tre grandi del secolo (Corneille, Molière e Racine) a far definire
il Seicento francese Le Grand Siècle. Il teatro nel corso del secolo è il luogo dei conflitti sociali, del
contrapporsi delle classi sociali: la borghesia, che tenta di accedere al potere politico, e l'aristocra-
zia, che sogna di riconquistare il potere feudale ed è capace di frenare il governo del re. Ed è l'ari -
stocrazia ad usare il teatro tragico come arma ideologica, per definire la propria superiorità di clas-
se. Da questo punto di vista il Cid è un esempio superbo.
Rappresentato nel 1637, il Cid è una vicenda ispirata alle cronache spagnole medievali di lotta con-
tro i Mori, che valorizzano un condottiero liberatore, Cid (dall'arabo Sid o Sidi, Signore). Corneille

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ambienta la storia a Siviglia, alla corte di Don Fernando, primo re di Castiglia. Don Diego (padre di
Rodrigo) e Don Gomes (padre di Chimène) sono due uomini d'arme del re, ma il primo è vecchio e
il secondo nella piena maturità fisica. Il re nomina precettore del figlio Don Diego. Don Gomes non
la prende bene ed insulta Don Diego, schiaffeggiandolo. Don Gomes ha un'alta considerazione di
sé, pensa che lo Stato stia in piedi grazie a lui e che anche il re può sbagliare nelle scelte. Siamo di
fronte ad un dibattito che appassiona i francesi: assolutismo monarchico contro l'anarchia feudale,
che causano anche la Guerra della Fronda.
Al centro ci sono i valori cavallereschi-militari, in tutta la loro miopia. Don Gomes è compiaciuto
della sua fisicità, deridendo la senilità del rivale, che inutilmente cerca di fargli capire che il tempo
passerà anche per lui. Lo schiaffo è un'umiliazione all'interno del codice cavalleresco. Porterebbe al
duello, ma quando Don Diego mette mano alla spada, Don Gomes con un colpi gliela fa cadere. È
un disonore. Don Diego esorta Don Gomes ad ucciderlo, che tanto non riuscirebbe a superare la
vergogna dell'umiliazione, “il primo che abbia fatto arrossir la mia stirpe”, gli dice. È orgoglioso di
avere sangue nobile. Tutto il Cid è imperniato del senso della razza, della superiorità di una casta,
con l'esigenza di lavare nel sangue il disonore e l'obbligo della vendetta affidata ai familiari. Se Don
Diego non può battersi a duello perché vecchio, sarà il figlio Rodrigo a farlo per lui.
Qui c'è il colpo di teatro (coup de théâtre). Rodrigo dovrà battersi contro il padre di Chimène. I due
giovani si amano e le due famiglie approvavano il loro matrimonio, ma adesso l'Onore combatte
contro l'Amore (tema caro alle opere Corneille), fino ad uno scontro spettacolare e melodrammati-
co, motivo per cui ebbe grande successo in Francia. Rodrigo e Chimène sono anch'essi imbevuti dei
valori aristocratici dei padri, e non esitano a far prevalere l'Onore sull'Amore. Don Diego ordina al
figlio “muori o uccidi”. Il figlio lo vendica, e davanti al dolore di Chimène non rinnega l'omicidio.
E Chimène, a sua volta, non chiede giustizia.
C'è nei vecchi una fissazione ossessiva che manca ai giovani. Nei due padri vive lo stesso ideale vi-
riloide e misogino: la donna è debole e oggetto facilmente intercambiabile. Rodigo soffre per aver
ucciso il padre della sua amata, ma Don Diego lo rimprovera: “...le donne sono tante! L'amore è un
piacere, l'onore un dovere”. Invece la lingua dei giovani ha più sfumature aprendosi alle contraddi-
zioni del cuore. È qui che Corneille costruisce passaggi di puro gusto melodrammatico, come nei
dialoghi tra i due innamorati, con una tentazione musicale, come se la tragedia fosse sempre sul
punto di diventare opera lirica. Cid viene pubblicato nel 1637 con il sottotitolo tragicommedia, ge-
nere nuovo che ebbe successo proprio in quel decennio. Agli accenti più cupi della tragedia classica
si mescolano tonalità più distese, che preparano alla lontana il lieto fine, che è previsto e inscritto
nel genere tragicommedia. Nella versione del Cid del 1648, il sottotitolo sarà tragedia. Abbiamo già
visto che l'opera non appare congruente con le regole di Aristotele. I prìncipi aristotelici si impon -
gono in Francia dopo il 1640. Non c'è da stupirci se la vicenda si articola in due giorni e si passa da
scene d'interno a esterno. Nel corso della querelle18 Corneille si adatta al punto di vista dei dotti. La
tattica di Corneille è questa: da un lato puntare sul consenso del pubblico, dall'altro cercare la legit-
timazione dei dotti.
Nel Cid, con l'Amore che combatte contro l'Onore, Corneille ha trovato una chiave efficace. Questo
tema è rintracciabile nelle sua tragedie più importanti: Orazio (1640), Cinna o la clemenza di Augu-
sto (1642), Poliuto martire (1643). È del 1635-1636 una commedia curiosa, L'illusione teatrale, an-
cora oggi rappresentata per il suo valore metateatrale.
Diverso è il teatro tragico di Jean Racine (1639-1699). Il moralista De la Bruyère disse che Cor-
neille dipinge gli uomini “come dovrebbero essere”, mentre Racine “come essi sono”. I personaggi
della tradizione classica, sotto la penna di Racine (con educazione giansenista 19), svelano le proprie
pulsioni incoffesabili. Nell'Andromaca (1667), Oreste va da Pirro (figlio di Achille) come portavoce
dell'intera Grecia, preoccupata che Pirro non abbia ucciso il figlio di Ettore, Astianatte, della cui
madre Andromaca Pirro è innamorato. Ma in realtà Oreste ha altre mire. Pirro, nonostante ami An-
dromaca, sta per sposare Ermione, figlia di Elena e Menelao, della quale è anche innamorato, non
corrisposto, Oreste, che progetta di rapirla. C'è un'esplicita contrapposizione tra pubblico e privato,

18 Controversia, disputa, specialmente su problemi culturali.


19 Giansenismo: corrente religiosa che vede l'uomo inevitabilmente incline al male.

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tra politico e personale. Quasi tutti i personaggi di Racine sono divorati dalla passione amorosa, di-
ventando nevrotici e sempre violenti, pronti al ricatto e ad essere amati per forza. Pirro garantisce ad
Andromaca che non ucciderà il figlio se in cambio lei lo amerà, dicendo chiaramente che “il figlio
risponderà del disprezzo della madre. La Grecia me lo chiede e io non metto in gioco la mia gloria
per degli ingrati”. Euripide non ha paura di riprodurre i comportamenti reali degli uomini della so-
cietà greca: un comandante vittorioso si porta a letto le schiave. Per il tragico greco Andromaca è la
concubina di Pirro. Per Racine (a causa della buona creanza della società cortigiana dell'epoca) non
sono possibili azioni volgari: Andromaca è stata sorteggiata come schiava e Pirro non usa su di lei
violenza. Ma se non può mostrare la violenza fisica, Racine ci mostra la violenza psicologica (di cui
è maestro), alla scelta di Andromaca della vita del figlio o il rifiuto del matrimonio con Pirro.
La modernità e il successo di Racine sta nella sua capacità di scavare nella psicologia dei personag-
gi, di rendere inquietanti gli inconsci dei suoi eroi ed eroine. Infatti Pirro è ossessionato da fare i
conti con la figura paterna (il defunto Achille), facendo l'opposto del padre glorioso. Achille ha uc-
ciso Ettore e Pirro vuole sposarne la vedova Andromaca. Achille ha organizzato il matrimonio di
Pirro con Ermione, ma lui non ne ha interesse.
Racine è un raffinato cultore classicista. Legge direttamente in greco le tragedie, particolarmente di
Euripide, di cui ne dà una chiave interpretativa: il dramma dei figli degli eroi, che devono confron-
tarsi con modelli insuperabili, sentendosi così inadeguati e fragili psicologicamente. Ermione, quan-
do viene respinta da Pirro, vuole vendicarsi con l'aiuto di Oreste, che però non è all'altezza della si-
tuazione, come si evince dalle sue parole, dove paragona Ermione a Elena e lui ad Agamennone,
come un bambino che gioca a fare il grande. L'Oreste di Racine è immaturo e comico nella resi-
stenza al desiderio di vendetta di Ermione. Anche Ermione gioca a fare Elena, ma è più decisa e ir-
ritata dall'inettitudine di Oreste. È uno scacco per i tre figli degli eroi (Pirro, Ermione e Oreste),
sconfitti mentre trionfa la straniera Andromaca, che si presenta austera e chiusa nei suoi pensieri
per Ettore e Astianatte.
L'Andromaca ebbe un grande successo, anche più di Fedra (1677), considerata il suo capolavoro.
Fedra ama incestuosamente Ippolito, figli di primo letto del marito Teseo. Un mito già trattato da
Euripide e Seneca, ma Racine ci aggiunge la dimensione del peccato, il senso di una predestinazio-
ne che spinge ineluttabilmente Fedra al male. Fornisce uno scavo psicologico accanito, mettendo a
nudo la protagonista divisa “tra due forze opposte e pari: la passione e il senso morale” (F. De Sanc-
tis). Nell'intreccio Racine modifica la tradizione greco-latina. Ippolito non è più misogino ed ama
Aricia, aumentando così le pulsioni di Fedra, che non le aveva in Seneca e Euripide.
Anche qui c'è la conflittualità padre/figlio come in Andromaca. Ippolito apre la tragedia dialogando
col suo precettore, Teramene. Gli dice che vuole andare alla ricerca del padre Teseo, sparito da
mesi. Teramene gli fa notare che il padre, se non si è fatto sentire, è perché vuole essere lasciato in
pace, alludendo al suo essere un famoso donnaiolo. Ippolito lo riprende per questo, imponendogli
rispetto per il padre, per i suoi errori giovanili. È grazie a Teramene che scopriamo che Ippolito è
innamorato di Aricia. Racine innova rispetto a Euripide e Seneca, che disegnano un Ippolito misogi-
no e cultore della dèa della caccia e della castità, Diana. Un modo per smarcarsi dal fascino inimita-
bile del padre. L'Aricia di Racine è di sangue nobile, con diritti sul trono di Atene. I suoi sei fratelli
sono stati sterminati da Teseo, che ha posto il veto di matrimonio ad Aricia, per evitare che nasca un
futuro vendicatore. Ippolito si apre all'amore (rompendo con la tradizione di castità euripideo-sene-
cana) proprio con la donna interdetta dal padre. Ancora un modo di contrapporsi all'identità forte
del padre. Ippolito si innamora di Aricia dopo che il padre se ne è andato, “da sei mesi”. Cresce cer -
cando di opporsi al padre, ma ci riesce quando lui è lontano, forse morto. Nel terzo atto Teseo dice
che è stato imprigionato per sei mesi. Se Ippolito rifiuta l'ipotesi di Teramene (fuga erotica), è per -
ché il suo inconscio desidera l'annientamento di Teseo. Inizialmente Ippolito vuole partire per cerca-
re Teseo, ma non sa dove. In realtà vuol sì partire, ma con altri progetti in testa.
L'amore di Ippolito è tutto cerebrale, metafora dell'emancipazione dalla sottomissione genitoriale.
Nel secondo atto si sparge la voce che Teseo è morto. Ippolito chiede di parlare ad Aricia. La sua
confidente, Ismene, dice che è “il primo effetto della morte di Teseo”. La critica considera Aricia
come l'equivalente femminile di Ippolito, anche lei casta ma pronta ad accogliere il suo amore. Dal-

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la sua confessione alla confidente si capisce però che il suo non è amore, ma compiacimento di pie -
gare chi non si è mai piegato, e provare piacere per questo. Aricia è innamorata del suo potere su un
uomo, della sua capacità di trasformarne la personalità. Il linguaggio è quello galante di fine Seicen-
to, ma con metafore sadico-militari (dolore, incatenare, prigioniero). Ippolito si illude di amare, in
realtà combatte contro il padre. Per Aricia la relazione con Ippolito è solo una mossa politica, così
chiara che se ne accorge subito anche la confidente.
Ippolito, davanti ad Aricia, non ha un pensiero commosso per il padre, che ormai crede morto. Anzi,
le dice che revoca la legge crudele che il padre le aveva imposto. Il potere è potere di revoca, il gu-
sto di contrapporsi al vecchio tiranno.
Per ultimo c'è Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière (1622-1673), ma solo per comodità espositi-
va, visto che è più vecchio di Racine di venti anni. È una figura nuova, di attore-scrittore, legato alla
convenzione della commedia, derivante dalla Commedia dell'Arte, diffusasi nel Seicento in Europa,
ma radicata a Parigi. Non attore fra altri attori, come Shakespeare, ma leader della sua compagnia
teatrale. Ha inventato una serie di capolavori per i quali il titolo di commedia è troppo riduttivo, an-
che se non si può parlare di tragedia: Tartufo (1664), Don Giovanni (1665) e Il misantropo (1666).
Sono pièces20 che preparano il cosiddetto dramma borghese, che nascerà nel Settecento e si imporrà
fino a fine Ottocento. Scrive in versi e i suoi personaggi cominciano a respirare lo status sociologi-
co della condizione borghese, senza però il suo habitat. Non c'è il salotto borghese come cornice
scenica (ossessiva e claustrofobica). Le vicende si svolgono in interni ed esterni, e gli interni non
sono molto precisati.
Tartufo è collocato in casa di un ricco mercante, Orgone, che si infatua di Tartufo, un imbroglione
che si finge anima pia. Orgone se lo mette in casa e vuole addirittura farlo sposare alla primogenita.
La moglie di Orgone, Elmira, vuol smascherare Tartufo agli occhi del marito, facendogli vedere
quello che è: un ipocrita e vizioso che vuole portarsi a letto anche la moglie del suo protettore. La
moglie chiede al marito di nascondersi sotto il tavolo mentre sarà a colloquio con Tartufo. Qualche
commentatore ha immaginato la scena con Orgone sotto il tavolo che mostra al pubblico la sua col-
lera crescente. Avrebbe reso la sequenza più farsesca, per attenuare la scena tabù tra Tartufo ed El-
mira, diventando una gag che toglie violenza alla scena incriminata, rovesciandola su un piano buf-
fonesco, innocuo.
Il senso profondo del Tartufo non è solo lo scontro ideologico, che portò re Luigi XIV a vietarne la
messinscena, tra l'idea libertina e le ipocrisie delle frange cattoliche conservatrici, quasi fondamen-
taliste.
Molière illumina anche una scena tabù, quella della seduzione di una donna sposata, per di più in
casa sua e sotto gli occhi del marito. Non ci si scandalizza di un padre che vuol dare in sposa la fi-
glia a un uomo da lei detestato, ma ci si scandalizza per la corruzione di Tartufo ai danni di Elmira.
Molière instaura al centro del suo testo una scena interdetta, inventando un legame organico fra la
scena proibita e un angolo di ascolto segreto, l'origliamento. La scena è così devastante che Molière
non riesce a dirla, e dunque la raddoppia. Si ha nel terzo e quarto atto, e in entrambi i casi ricorre ad
un terzo personaggio che origlia (prima Damide, figlio di Orgone, e poi Orgone sotto il tavolo).
In questo testo non c'è solo violenza psicologica (seduzione di una donna sposata nella sua stessa
casa), ma anche una carica di violenza fisica. Nel terzo atto, le didascalie originali avvertono che
Tartufo “stringe le punte delle dita” a Elmira e “le mette le mani sul ginocchio” giustificandosi con
un “Tasto il vostro abito; la stoffa è morbida”. Ancor più nel quarto atto, nella scena spiata da Orgo-
ne, dove esplode la violenza e il desiderio di Tartufo. La donna ha preso l'iniziativa e Tartufo preten-
de da lei la prova della sua disponibilità, probabilmente un bacio. Sono le didascalie a scandire i
passaggi più difficili: “Tossisce per avvertire suo marito”; “dopo aver tossito di nuovo”. Poi Tartufo
dice “Voi tossite molto, Signora”. Per tre volte ritorna il tossire, come segnale al marito ogni volta
che Tartufo cerca di baciarla. C'è una forza e una violenza in Tartufo che è messa in rilievo dal suo
modo di esprimersi: “Accontentate il mio desiderio” e “Tutto concorre alla mia felicità”. Non si na-
sconde neanche dietro il linguaggio galante, tipico del Seicento francese. Il desiderio e il piacere è
solo suo. Ne esige il pagamento come se fosse una tassa. Il linguaggio di Elmira mostra la consape-

20 Termine francese che vale “testo teatrale”.

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volezza della violenza che ella sta per subire: “con violenza vuole ciò che desidera!”. E dopo il ter-
zo e ultimo colpo di tosse si riferisce indirettamente al marito: “Peggio per chi mi forza a questa
violenza; la colpa non deve ricadere su di me”.
Qui affiora il segreto di Tartufo. Orgone, una volta calatosi nella parte del voyeur della propria mo-
glie, ha difficoltà a uscirne fuori. Non bastano tre colpi di tosse e un pugno sul tavolo per farlo usci -
re. Orgone è sordo ai segnali di Elmira per la ragione che non c'è più sordo di chi non vuol sentire.
Orgone ama Tartufo più di sua moglie. Lo dice lui stesso, quando torna da un viaggio in campagna
durato due giorni, dove chiede notizie di Tartufo e non della moglie che proprio in quei due giorni è
stata malata. Orgone ama Tartufo anche più della figlia, che è occasione per una malignità della ser-
va, dove invita a sposarselo. Se tutto questo è vero, Orgone può accettare di vedere sedotta la mo-
glie dal suo amato Tartufo. Il triangolo è il cuore occulto di Tartufo. Orgone non esce dal tavolo
neanche al grido disperato di Elmira. Orgone è affascinato da quella situazione triangolare. Che è
quanto comprende alla fine Elmira, la quale rinuncia a chiedere aiuto al marito e allontana Tartufo,
chiedendogli se davvero non c'è nessuno in casa. Nel punto più drammatico del tête-à-tête, Elmira
si salva con “Aprite la porta e guardate se mio marito non è in quel corridoio”. Prima aveva fatto
chiudere la porta a chiave, ma anche se chiusa sarebbe stato pericoloso, per suo marito.
È questo movimento che salva Elmira, nonostante Orgone. Come Tartufo esce di scena, Orgone sal-
ta fuori da sotto il tavolo. L'assenza di Tartufo spezza il piacere masochista di gustare la scena da
sotto il tavolo. L'assenza di Tartufo costringe Orgone a rimettersi in piedi, metaforicamente e lette-
ralmente, liberandolo dalla possessione malsana. Al che Elmira lo riprende, invitandolo a rimettersi
sotto il tavolo, per essere sicuro della gravità della situazione e delle intenzioni di Tartufo. A qual-
che studioso è sembrato che Orgone ami Tartufo più di sua moglie, ma che non possa tollerare che
Tartufo ami sua moglie più di lui. In sintesi sarebbe un'omosessualità fantasmata, che non passa al-
l'atto. Ma l'omosessualità è una figura di coppia. La vera trasgressione è il triangolo. L'inconfessa-
bile perversione di Orgone è amare insieme, in due, una donna. Vedere l'altro che possiede la pro-
pria donna.
Molière ha un'eccezionale capacità di scandagliare le zone misteriose dell'animo umano. Da questo
punto di vista, le sue commedie non hanno nulla di meno delle tragedie di Racine. Entrambi si posi-
zionano su due binari opposti (commedia e tragedia), ma portano avanti uno scavo nell'io, un'inda-
gine dei mostri dell'inconscio, che prepara alla lontana gli esiti più alti del dramma borghese di fine
Ottocento.
Sempre di Molière è Don Giovanni o il convito di pietra (Dom Juan ou le festine de pierre, 1665),
che segue, dopo trentacinque anni, il testo spagnolo, ma in modo diverso. Quando, all'appuntamento
fatale, alcune apparizione tentano il protagonista a pentirsi, lui rifiuta, per il semplice fatto che non
crede in Dio. Una delle scene più inquietanti, è quando un mendicante chiede l'elemosina a Don
Giovanni, il quale gli pone un ricatto: avrà dei soldi solo se bestemmierà. Non stupisce, quindi, che
il personaggio muoia senza invocare assoluzioni, ma solo raccontando la sua morte. Per il timorato
autore spagnolo era impensabile un Don Juan ateo. Era la Spagna della Controriforma. Molière è un
attore più libertino, e vive in una società più aperta. Il suo Don Giovanni è un eroe, che dà il titolo
alla pièce. Non c'è un generico Burlador, ma Dom Juan. Il sottotitolo non è una congiunzione (e il
convito di pietra) bensì una disgiuntiva (o il convito di pietra). Il Don Giovanni di Molière è un
eroe del male, che si ribella a Dio in nome dei valori terreni, della civiltà laica. Uno spirito libertino.
I libertini, nel Seicento, erano coloro che non credevano in Dio, emancipati. Ma gli avversasi politi-
ci e religiosi li accusano di empietà e di immoralità sessuale. Infatti il libertino è disinibito sul piano
sessuale. A differenza del Don Giovanni spagnolo, quello di Molière trova piacere nell'avere più
rapporti con le donne, di godersele, non quello di ingannarle e disonorarle.

I razionalisti francesi e gli stregoni italiani

A Parigi, i Confrères de la Passion avevano il diritto, dal 1402, di perpetuare le sacre rappresenta-
zioni, fino al 1548, quando furono interdetti. Ripiegarono su un repertorio più popolare, fino quan-
do cedettero il campo, nel 1598, ai commedianti organizzati in compagnie. Le scenografie mostra-

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vano sinteticamente i luoghi deputati medievali e altri casamenti, ovvero una scenografia multipla.
Nei teatri pubblici la messinscena era modesta, più essenziale ed economica. D'altro canto, nell'am-
biente aristocratico, si avevano forme esuberanti e lussuose di rappresentazioni principesche. Si for-
malizzarono espressioni di spettacolo che avevano radici italiane, come gli “intermezzi” o i ricchi
cortei cittadini, dove si combinavano musica e danza, fino a sviluppare il ballet masquarade, che
lambisce l'estetica dell'opera. Questi spettacoli sono supportati da un'elaborata scenotecnica. In
Francia lavorano molti scenografi italiani, che realizzano pièces à machines, con argani.

La Comédie-Française, primo teatro stabile d'Europa

Alla morte di Molière, i suoi attori fondano il 21 ottobre 1680, un embrione del primo teatro stabile
europeo, che potenzia a livello internazionale l'influsso del classicismo francese, ma che, a livello
locale, crea un contrasto con gli spettacoli alternativi, fino ad arrivare all'espulsione da Parigi dei
comici dell'Arte nel 1697 (che torneranno nel 1716).

9. Settecento: la nascita del dramma borghese

Il teatro moderno si identifica, tra Cinquecento e Seicento, negli antichi generi “tragedia” e “com-
media”. Nel Settecento si definisce un nuovo genere, il “dramma borghese”. Nell'Encyclopédie la
voce “dramma” non dice niente di particolare. Include in essa i generi della tragedia e della comme-
dia, senza menzionare il fatto che possa divenire il genere che rappresenta la borghesia come classe
sociale in ascesa. Non c'è possibilità di legare la struttura tragica al protagonismo borghese (“Non è
da artisti mettere in scena il tragico borghese o soggetti non eroici”). C'è la richiesta di una dramma-
turgia libera dai condizionamenti delle convenzioni letterarie e sceniche: gli a parte, gli equivoci
basati su travestimenti e somiglianze poco credibili. C'è volontà di dare ospitalità alla società effet-
tuale, ovvero la nuova realtà sociale che comincia ad essere egemonizzata dal ceto borghese. C'è
una domanda forte di realismo, di coincidenza tra la vita e la scrittura, elemento forte della cultura
borghese.
La pietra miliare di questo lungo periodo (da metà Settecento fino alla fine dell'Ottocento) è il pri-
mo testo teatrale di Denis Diderot (1713-1784), Il figlio naturale (1757), importante non per ciò
che è o per la storia, bensì per i materiali che lo accompagnano. Diderot ne è consapevole, visto che
il frontespizio definisce l'opera “commedia in cinque atti e in prosa con la vera storia dell'opera”. Il
testo è corredato da tre dialoghi che riguardano il testo stesso, e una premessa dove Diderot raccon-
ta di essere andato a riposarsi in campagna, dove conobbe il signor Dorval, che gli raccontò le prove
della vita che dovette superare. Diderot commenta: “[...] un'opera drammatica dove le prove della
vita sono l'argomento, farebbe impressione su coloro che hanno sensibilità, virtù e qualche idea del-
la debolezza umana”. Diderot fissa due punti basilari del nuovo discorso borghese: il valore pedago-
gico del teatro e la sua capacità di fare “impressione”, ma anche la qualità dei contenuti drammatur-
gici, che non vengono più attinti dal repertorio classicista, ma dalla dimensione calda della vita vis-
suta.
Il pensiero di Diderot si sovrappone a quello di Lysimond, padre di Dorval, il quale dice “quanto sia
importante la possibilità di ripetere nel tempo, in salotto, le cose che si dicono adesso, tramandando-
le di padre in figlio, cosicché si possa sopravvivere al tempo e si possa parlare coi nipoti. È più im-
portante di un ritratto di famiglia”.
I mercanti fiorentini del Trecento e Quattrocento affidavano ai “libri di famiglia” i ricordi e le me -
morie da tramandare ai discendenti. Questi libri rimanevano nella ristretta cerchia familiare. Il padre
di Dorval affida al teatro, un teatro privato e familiare, la funzione di cementare negli eredi il suo ri-
cordo.
Il teatro di famiglia è una finzione-metafora del teatro tout court. Lysimond non vuol recitare, ma
fare. Egli muore prima di poter mettere in scena la sua vita. Il primo spettacolo è realizzato da inter-

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preti che hanno davvero vissuto ciò che interpretano, ma c'è un estraneo che interpreta Lysimond,
che mostra la trasformazione del teatro per pochi (familiari) al teatro per tutti. Infatti Dorval esau-
disce il desiderio del padre, ma subito lo tradisce, permettendo all'estraneo Diderot di assistere na-
scosto, facendolo metafora del pubblico teatrale, nascosto dal buio agli attori, accecati dalle luci
della ribalta, tendendo a non vedere il pubblico seduto.
Il “dramma” è il genere nuovo inventato dalla borghesia europea di metà Settecento, che però fa va-
lere prima di tutto il proprio spazio, la propria casa. Il palcoscenico coincide col salotto della casa
borghese. Nella seconda commedia di Diderot, Il padre di famiglia (1758), si ha “un salotto adorno
di arazzi, specchi, quadri ecc.”. Siamo nel cuore della vita quotidiana di una casa borghese.
Diderot è stato accusato di aver tratto il suo Figlio naturale da Il vero amico (1750) di Carlo Gol-
doni (1707-1793). Ma in Goldoni non c'è mai il sapore di vita vissuta borghese. Gli spazi delle sue
commedie sono formalmente vuoti. Ne La Locandiera (1753) la storia si svolge appunto in una lo-
canda, luogo anonimo, quasi pubblico. Con Diderot e Goldoni si ha un ripiegamento dall'esterno al-
l'interno, che afferma la separazione tra pubblico e privato, ma in Goldoni l'ambiente conserva sem-
pre qualcosa di aperto. Gl'innamorati (1759) sono collocati in “una stanza comune”. Il primo atto
della Casa nova (1760) è in una “camera d'udienza”. Spesso le indicazioni si limitano a indicare una
qualche vaga “camera in casa di”. Solo nei Rusteghi (1760) c'è uno scambio tra i protagonisti dove
si confessano che l'eros va coltivato dentro le mura domestiche, rimandando per un attimo ad una
scena di quotidianità borghese riparata. Ma è solo un momento. La commedia non descrive uno
spaccato di interno borghese. Le stanze di Goldoni sono generiche, prive di didascalie significative.
Al massimo coglie l'insicurezza dell'interno borghese, messo sotto pressione dalle forze esterne. Im-
portanti sono le porte, che dovrebbero proteggere l'intimità, che invece si rivelano oggetto di viola-
zione esterna. Nella Locandiera c'è una didascalia meno generica del solito: “camera con tre porte”.
È qui che costruisce il balletto tra Mirandolina, che si chiude per sfuggire al Cavaliere di Ripafratta,
che tenta di possederla. Chiede l'aiuto del servo Fabrizio e arrivano anche il Conte e il Marchese a
mediare, che però si schierano dalla parte del Cavaliere. Alla fine Mirandolina si rifugia dietro l'isti-
tuto matrimoniale, sposando Fabrizio.
Il dramma borghese non è solo lo spazio del salotto borghese, ma anche i contenuti nuovi. Ne Il fi-
glio naturale – dove due coppie di fratelli intrecciano gli amori – Diderot crea un intreccio di storia
d'amore e di una storia di soldi, saldandole entrambe a un'istanza tipicamente borghese. I personag-
gi parlano continuamente di denaro e fortune (tradotto dal francese con “sostanza” e “patrimonio”),
diventando segno linguistico di un'ossessione sociale. Dorval parla brutalmente di soldi davanti alla
sua innamorata. E il giovane Clairville, abbandonando i pregiudizi tardo-aristocratici, decide di but-
tarsi sul commercio per riprendersi finanziariamente e riconquistare la sua amata. Il dramma, va ri-
cordato, è la trascrizione scenica di una storia vera. La borghesia si sente così egemone da osare di
raccontare se stessa. È una svolta epocale nel teatro.
Nel 1761 Goldoni compone La trilogia della villeggiatura, dove mescola genialmente dissipazione
finanziaria e amorosa. Giacinta, fidanzata di Leonardo, si innamora di Guglielmo, e il suo disordine
morale è l'altra faccia del disordine economico della sua famiglia e di quella di Leonardo. Leonardo,
indebitato, la vuole sposare solo per la dote. Il padre di Giacinta, all'ultimo, scopre che non ha quel-
la dote. Alla fine Giacinta è costretta a sposarlo senza amarlo, perché il padre non è in grado di dar-
gli la dote promessa.
Giacinta è un grande personaggio, non solo perché il più moderno e passionale, ma anche per il suo
spessore sociologico. È figlia di un mercante, ma è anche la figlia non degenere di un padre dege-
nere. Il padre ha sperperato tutto in villeggiature e vizi, e arriva a sacrificare la figlia rifilandola sen-
za dote allo spiantato Leonardo. Dal linguaggio si capisce che Giacinta aderisce ai valori del mer-
cante. Infatti, parlando con la serva, dice che non può respingere Leonardo, perché ha ormai dato la
sua parola, e la parola non si può rinnegare, tanto meno quella scritta. Il contratto matrimoniale è
materializzazione dell'ordine borghese. La scrittura matrimoniale coincide con la scrittura contabile:
sancisce l'impegno di Giacinta con Leonardo ma sancisce anche l'impegno economico di suo padre.
Si definisce tra Diderot e Goldoni una linea destinata a delineare il dramma borghese, che si realiz-
zerà pienamente a fine Ottocento con Ibsen. Ma sarà un processo tortuoso, che deve vincere molte

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resistenze. Un'ala conservatrice della borghesia (come i Puritani di Cromwell) teme il teatro, consi-
derandolo solo un piacere cortigiano nelle mani del potere aristocratico.
Nel 1758, Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) scrive una lettera contro Jean-Baptiste d'Alem-
bert (1717-1783), colpevole di aver proposto alla voce “Ginevra” dell'Enciclopedia di togliere il
veto al teatro – che dura nella città dal 1617 – e di dotarsi del piacere di una compagnia teatrale.
Rousseau si collega a Cromwell nell'ostracismo antiteatrale della borghesia. Il teatro è un affare di
una parte minore della borghesia. A Parigi, con 600mila abitanti, ci sono a stento tre teatri e Gine-
vra, con 24mila abitanti, non ce la farebbe a mantenerne uno. Londra, popolata come Parigi, ha tre
teatri che soddisfano la domanda. Il teatro è una forma di commercio che difficilmente sopravvive
con le leggi del commercio. Ci vogliono sovvenzioni reali o biglietti proibitivi. La borghesia inte-
ressata al teatro è comunque attiva. Si compiacevano di rimanere a parlare con gli attori e autori, in -
sieme ai nobili, dopo le rappresentazioni. Il problema era di piegare il teatro da giocattolo di corte a
strumento strategico della classe borghese. Infatti d'Alembert chiede di liberare gli attori da una
condizione di “pensionati” (pagati dal potere) e dall'essere oggetto di riprovazione da parte della
Chiesa e parte della borghesia, sottolineando il valore pedagogico del teatro.
Su questa linea, una decina di anni più tardi, si muove la Drammaturgia d'Amburgo del tedesco
Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), che insieme a cittadini influenti e commercianti dà vita al
primo teatro stabile tedesco, una sorta di Teatro Nazionale, con una compagnia fissa. Non a caso na-
sce ad Amburgo, città mercantile e all'avanguardia nella società tedesca.
Nasce anche la critica teatrale come professione nuova, grazie alla diffusione della carta stampata.
Importanti furono Richard Steele e Joseph Addison, padri fondatori del giornalismo inglese, nel
giornale “The Spectator”. Sono intellettuali della classe borghese. Il giornale si rivolge alla new
class, trattando temi come commercio, mode culturali, relazione tra i sessi e teatro. Ci sono recen -
sioni degli spettacoli, ma è tutta la vita borghese ad essere trattata come una scena teatrale. Nel Set-
tecento aumenta progressivamente la presenza dei citizens (artigiani, borghesi) a teatro, mentre la
nuova dinastia reale è poco interessata al teatro.
Addison ridicolizza la costumistica degli attori tragici inglesi (pennacchi in testa agli attori, lunghi e
scomodi strascichi per le attrici ecc). David Garrick (1717-1779), il più grande attore e riformatore
della recitazione in stile naturale, non c'è ancora, ma Addison dà il via al cambiamento verso una re-
citazione più verosomigliante e naturale. Lo stesso Lessing critica i gusti degli spettatori, troppo at-
tirati dalla sguaiataggine farsesca degli attori.

L'Europa danzante

L'Italia rinascimentale apre alle corti europee la strada della danza, ma è nella Francia del Seicento
che diventa un'arte, fino a diventare spettacolo a pagamento. I balletti inseriti nelle opere liriche
crearono un dibattito tra chi apprezzava questi intermezzi, e chi non li gradiva perché minacciavano
la riuscita dell'opera nella sua interezza. Tra 1773 e 1775, grazie a Jean-Georges Noverre (1727-
1810), la danza diventa un linguaggio autonomo, non più subordinato all'opera.

Riforme settecentesche della scenografia

La prospettiva rinascimentale era stata monofocale, con coincidenza della seduta del signore col
punto di fuga della scenografia. In epoca barocca si aggiunge la prospettiva all'infinito, per dare a
tutti gli spettatori un eguale sguardo. Ferdinando Bibbiena teorizza la prospettiva per angolo, con
al centro del quadro un elemento a spigolo, con diagonali ai suoi lati.

La riforma della commedia del libertino Goldoni

A metà Settecento la Commedia dell'Arte è in crisi. Gli attori ricorrono al poeta di compagnia,
come appunto Goldoni. Inizia a scrivere canovacci per le compagnie. Progressivamente riforma la
commedia, prima con prodotti misti, con parti scritte e con parti di canovacci, poi arriva a parti to-

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talmente scritte. Nell'Ottocento e nel Novecento quasi tutti gli attori hanno rinunciato a improvvisa-
re, ma comunque nessuno impara la parte a memoria, recitando grazie al suggeritore, compiacendo-
si di cambiare le battute qua e là. Goldoni è il primo intellettuale a vivere col lavoro di commedio -
grafo. Doveva fare l'avvocato, ma è stato attirato dalla vita libertina delle attrici, come Diderot.

Il paradosso sull'attore di Diderot

Di teorie dell'arte attorica ne sono state proposte molteplici. Semplificando, possiamo identificarne
due diffuse: una, di area romantica, che accredita l'attore “caldo”, partecipe ai sentimenti del proprio
personaggio; l'altra pensa all'attore che recita in una condizione di distacco. A questa scuola appar-
tiene Diderot, come si capisce dal suo Paradosso sull'attore, dove dice che un buon attore dev'esse-
re freddo e tranquillo, che non sia il cuore ma la testa ad agire.

10. L'intermezzo classici-romantici

La strada che porterà al dramma borghese è lunga e accidentata. A metà del Settecento commedia e
tragedia sono per essere soppiantati dalla nuova forma del dramma (o dramma borghese). Pier-
re-Augustin Caron de Beaumarchais (1732-1799) si muove dentro il genere comico, con Il bar-
biere di Siviglia (1775), musicato nel 1816 da Gioacchino Rossini. Ma è con Il matrimonio di Fi-
garo (1781) che affianca ai toni farseschi timbri drammatici, che aprono alla satira contro il dispoti-
smo della nobiltà e della magistratura.
La tragedia è ormai condannata, legata all'ideologia aristocratica messa in crisi dall'Illuminismo e
dalla Rivoluzione Francese. Ma ancora molti letterati continuano a coltivare la tragedia, soprattutto
quella classicista, con le sue regole aristoteliche. Esempio è François-Marie Arouet detto Voltaire
(1694-1778), fedele alla forma canonica della tragedia, ma colpito dalla genialità di Shakespeare,
così lontano dalla tradizione classicista.
In questo senso, l'autore italiano più significativo, è Vittorio Alfieri (1749-1803). Se per Aristotele
il genere primo era la tragedia, tra gli intellettuali c'era una gara per diventare sommo tragico. So-
prattutto in Italia, dove non c'era tradizione classicista rilevante. Infatti la battaglia di Alfieri per di-
ventare tragediografo è notevole. In tutte le sue tragedie – ad eccezione di Saul (1782) – si attiene
alle unità aristoteliche, togliendo i confidenti che circondano i protagonisti (tipici del teatro del Sei-
cento e Settecento).
Ad inizio Ottocento, il Romanticismo smantella il concetto di tradizione occidentale, su cui è co-
struito il patrimonio culturale. Dal Romanticismo in poi ciò che conta è l'Io, che rifiuta ogni legame.
Il valore, il merito e la qualità stanno nella novità. Nella cultura classica è il contrario. Le qualità
devono collocarsi entro una linea di continuità, come anello di una catena lunghissima. L'originalità
va bene, ma dev'essere solo una variazione sul tema. Racine non inventa Fedra, la rilegge per sfida-
re l'Ippolito di Euripide e la Fedra di Socrate.
Stessa cosa per l'opera tragica di Alfieri. La sua Mirra (1786) riprende le Fedra di Racine, appro-
priandosi anche di alcune battute. Può sembrare un plagio, ma in realtà è una serena accettazione di
far parte della catena della tradizione. Alfieri si sente un grande tragico perché si sente inserito nel-
la catena dei grandi tragici che l'hanno preceduto. Ma ciò non impedisce la sfida. La Mirra è una
variante più temeraria del mito di Fedra: non più l'amore semi-incestuoso della matrigna per il fi-
gliastro, ma l'amore pienamente incestuoso della principessa Mirra per il padre Ciniro, re di Cipro,
attinto dalla Metamorfosi di Ovidio. Nessuno, nella produzione teatrale, ha mai riproposto la storia
di Mirra, ritenuta scabrosa. Alfieri alza la posta in gioco, rendendola ancor più trasgressiva (amore
figlia-padre più grave di matrigna-figliastro). La scommessa è prendere un argomento moralmente
pericoloso creando un testo moralmente accettabile. Il teatro è diverso dalla poesia. Il teatro ha un
pubblico, la poesia un solo interlocutore. Non è la stessa cosa leggere, nell'intimità, dell'amore di
una figlia per il padre o vederlo in scena. La sfida di Alfieri risulta vincente con qualche accorgi-
mento. Toglie la pulsione incestuosa di Ovidio, facendo morire Mirra senza neppur aver baciato il

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padre. Si presenta come una vergine dell'incesto, perché nei cinque atti non confessa mai la sua pas-
sione tremenda. Per cinque atti Mirra parla, piange e si dispera, senza spiegare il perché della sua
sofferenza, inspiegabile visto che è alla vigilia delle nozze con un principe scelto da lei. Solo nell'ul-
tima scena dell'ultimo atto Mirra quasi si confessa col padre, ma gli strappa subito il coltello di
mano per suicidarsi, punendosi per quell'amore. Questo gioco di rimandi e allusioni può essere col-
to da uno spettatore raffinato, che conosca bene Ovidio e Racine. È questo il senso della tradizione,
il sentirsi collocato all'interno di un asse ereditario privilegiato, ma anche compiacersi a confrontar-
si con esso. Nella Mirra ci sono passaggi involontariamente comici, come se sotto la forma tragica
di Alfieri premesse una forma comica. Infatti, con la crisi della tragedia e della commedia e la nuo-
va forma del dramma, si perdono le certezze della separazione degli stili, con commedie con accen-
ti tragici e viceversa.
Questo avviene sin dall'inizio in Alfieri. In Antigone (1776-1777) ha la tradizione illustre di Sofocle:
i figli di Edipo (Polinice ed Eteocle) si sono uccisi in battaglia, il primo attaccando la città di Tebe
che era difesa dal secondo. Creonte, cognato di Edipo, governa la città, e dichiara il cadavere di Po-
linice non venga sepolto. La sorella Antigone disobbedisce all'ordine e Creonte la condanna a mor-
te, nonostante il figlio Emone la ami. Alfieri segue fedelmente la traccia ma innesta dei timbri per
farne una cosa nuova. Creonte è un usurpatore, che vuol uccidere Antigone, che è l'unica erede del
re Edipo e quindi sua concorrente, solo per ragioni private. Il Creonte alfierano è un Machiavelli in
miniatura, un simpatico tirannello domestico, un patetico e molto umano fondatore di imperi: lavora
per la prole, per il figlio Emone. Quando scopre che il figlio ama Antigone, comicamente mette da
parte i suoi intenti criminali, perdonando Antigone fino a imparentarsi con lei, a farla regina, come
moglie di suo figlio. Perché uccidere Antigone se sposando il figlio rafforza ugualmente il trono?
Alfieri riprende il modello classico di Sofocle ma immagina un'alternativa (matrimonio invece della
condanna) che mina la base dell'intreccio classico. Basterebbe che Antigone accettasse la proposta
di Emone, per far sì che da tragedia si trasformi in commedia a lieto fine.
La tragedia classica non è solo insidiata dalla vita sociale sempre più borghese. Se la Francia è la
patria del dramma borghese, tedesco è il movimento culturale del Romanticismo, che ha nello
Sturm und Drang (“Tempesta e assalto”, intorno al 1770) la prima espressione di visibilità. Friedri-
ch Schiller (1759-1805) e Wolfgang Goethe (1749-1832) contrappongono al dramma diderotiano
il modello di Shakespeare, libero dalle leggi aristoteliche, mischiando tragico e comico e dando sfo-
go alla passione. Alla piattezza della prosa oppongono i versi e la poesia; al controllo delle passioni
l'esplosione delle passioni; ad una struttura di personaggi corale la supremazia del protagonista as-
soluto; allo spazio del salotto borghese lo spazio aperto.
Sulla stessa linea anche Alessandro Manzoni (1785-1873). Nella Prefazione a Il Conte di Carma-
gnola (1820) indica le conseguenze negative delle unità aristoteliche: una di ordine estetico e una di
ordine morale. Per Manzoni, il teatro è stato contestato dai moralisti del Seicento (come Rousseau)
perché immorale, ma immorali sono le regole di tempo e luogo. Un diverso teatro, libero dalle rego-
le delle unità, può essere decisamente morale. Nella Lettre à Monsieur Chauvet (1823) sottolinea la
predominanza del tema passionale-amoroso nelle tragedie francesi, in quanto l'amore è l'unico senti-
mento che è rappresentabile nelle canoniche dodici o ventiquattro ore. Tutti gli altri sentimenti uma-
ni che richiedono più tempo per svilupparsi, vengono esclusi dalla rappresentazione teatrale. Per
Manzoni la verità è la sorgente della poesia. Sia Carmagnola che l'Adelchi sono tragedie storiche,
ma sono entrambe discorsi sul presente, sull'Italia divisa e il suo sforzo per l'unità.
Il romanticismo francese arriva tardi, con la battaglia di Hernani che è del 1830. Alla prima rappre-
sentazione della tragedia di Victor Hugo (1802-1885), Hernani, si scatenò tra spettatori classicisti e
romantici una piccola guerriglia. Il Romanticismo esporta tensioni morali e estetiche più che tipolo-
gie drammaturgiche. Le tragedie manzoniane e di Hugo non risultano vincenti. In Francia dura solo
una quindicina di anni. Le tragedie manzoniane non sono mai eventi teatrali in Italia. Vince il dram-
ma diderotiano, perché la borghesia ha bisogno del teatro per rappresentare i suoi valori. Comun-
que, anche la drammaturgia romantica è borghese, non nelle ambientazioni ma nei valori e nella ri-
cerca di modernità. Tende a distruggere la rigidità classicista, contribuendo a delineare una strategia
che va nella direzione del realismo e della contemporaneità.

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Alla fine anche il Romanticismo francese si piega a questa prospettiva, come dimostra il successo di
Chatterton (1835) del poeta romantico Alfred de Vigny (1797-1863), che si opera anche come met-
teur en scène21. La vicenda è ambientata a Londra, nel 1770. Chatterton è un giovane poeta povero,
che vive in affitto dal borghese John Bell, della cui moglie, Kitty, Chatterton è innamorato. Ma è un
amore romantico, impossibile per la moralità della donna, anche se contraccambia. Infine il giovane
si avvelena e lei muore di crepacuore. È un affresco sul dissidio tra il poeta e la società capitalistica,
ma anche un primo testo sulla condizione borghese e sulle sue contraddizioni della vita familiare di
coppia.
Sull'intrecciare sentimenti e barriere sociali procede Alexandre Dumas (1824-1895), figlio omoni-
mo di Dumas padre. Nel 1852 rappresenta un suo romanzo con La signora delle Camelie. Una pro-
stituta di lusso, Marguerite Gautier, che frequenta ambienti altoborghesi, entra in contatto con un
giovane di buona famiglia, Armand Duval, che rischia di rovinarsi per lei. Il padre convince la don-
na a rompere la relazione, venendo per questo umiliata pubblicamente da Armand. Alla fine Mar-
guerite muore di tisi, ma il padre porta Armand sul letto di morte, il quale le promette che sposerà
una donna buona e onesta. Evidenti sono le venature romantiche e melodrammatiche (amore impos-
sibile, il buon giovane e la prostituta) e il quadro sociale e di costume dell'epoca (la mondanità, il
conservatorismo del padre). Lo spettacolo ebbe un successo enorme e Verdi la tradusse in musica
nel suo melodramma La traviata (1853). Sarà il cavallo di battaglia delle grandi attrici, come Eleo-
nora Duse.
Il trionfo dell'opera di Dumas dimostra che il cuore della borghesia batte verso temi della vita quoti-
diana, come l'adulterio, la famiglia, la questione femminile. A Parigi, negli anni '30 e '40, il genere
dominante è il vaudeville, un prodotto industriale di serie, fatto a più mani, con una drammaturgia
gracile, dove parti dialogate si alternano a canzonette. Col tempo scompaiono le parti cantate, ma
resta comunque un teatro leggero, con situazioni piccanti, a base di sesso, a lieto fine. Sarà il punto
di partenza per i più popolari autori francesi dell'Ottocento (Scribe, Labiche, Sardou, Feydeau).
Sembra che Scribe, alla battaglia di Hernani, si mise a ridere, in quanto la cosa non lo toccava, lui
che faceva teatro solo per far divertire la gente, il cosiddetto teatro gastronomico, come lo definì
polemicamente Brecht, cioè per digerire la cena. Comunque sia, sono i dominatori della scena pari-
gina, quindi d'Europa, dagli anni '20 (Scribe) fino a cavallo dei due secoli (Feydeau). Sono autori
che trionfano con quella che si chiama la pièce bien faite (“l'opera ben fatta”), che intreccia, in un
ritmo sempre teso, intrighi complicati e storie di adulteri.
Caso a parte il tedesco Georg Büchner (1813-1837), perseguitato politico morto giovane, con una
ridotta drammaturgia, successivamente riconosciuta di alto valore, soprattutto Woyzeck, composto
tra 1836 e 1837 e rimasto incompiuto, pubblicato solo nel 1879, in epoca naturalista. Fu un testo
profetico, in quanto anticipa le più aspre cadenze del Naturalismo, dove le pulsioni istintuali si me-
scolano con le violenze di classe. Woyzeck è un soldato semplice, umiliato e tradito dalla moglie.
Alla fine, semifolle, uccide la donna. Le scene che si susseguono senza divisione in atti anticipano il
teatro Espressionista di Brecht. Büchner, autore di epoca romantica che anticipa il Naturalismo,
conferma la teoria che il Romanticismo è solo un intermezzo tra la linea di sviluppo, tortuosa, che
va dal dramma diderotiano di metà Settecento fino alla drammaturgia ibseniana di fine Ottocento.

Voltaire e la messinscena

Curioso come Voltaire, fedele alla forma canonica della tragedia classicistica, sia aperto alla riforma
della messinscena. Nella sua Semiramide cambia spesso la scenografia. Il primo allestimento preve-
deva una scena simultanea, con un mausoleo, un tempio con una tomba, una terrazza, una palazzo.
Negli allestimenti successivi aggiunge elementi tridimensionali.

Dal belcanto a Mozart (Le nozze di Figaro e Don Giovanni)

In Italia l'opera è caratterizzata dalla tradizione secolare del belcanto, dove ciò che conta è la qualità

21 Dal francese, colui che mette in scena, corrisponde al nostro regista.

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della voce, e poco o nulla la scena o l'intreccio. Le rappresentazioni sono una sfilata di arie e recita-
tivi. Il secolo vede poi l'esplosione dell'opera buffa, che inserisce duetti, terzetti e concertati. Anche
Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) guarda in questa direzione. Le nozze di Figaro sono un
esempio di quello che dobbiamo chiamare commedia in musica, anziché opera buffa. Il Figaro di
Mozart, che vive nella aristocratica e conservatrice Vienna, è comunque meno sovversivo di quello
di Beaumarchais. L'anno dopo crea il suo Don Giovanni.

Il balletto classico-romantico

Quando si parla di danza classica, ci si riferisce alla danse d'école del XVIII e XIX secolo, ancora
oggi insegnata nelle accademie, dove il corpo viene inteso come opera d'arte. La figura femminile è
presentata fragile ed aerea, in equilibrio precario (con le scarpette da punta), contrapposta ad una
mascolinità di supporto. Viene comunque comunicata sottomissione e remissività. Il balletto moder-
no nasce con La fille mal gardée (1789) del coreografo Jean Dauberval (1742-1806).

Teatri del movimento e della vita

Adolphe Thalasso, nel 1909, definisce “il teatro della vita dal movimento” quel genere di dramma, a
partire da Eugène Scribe (1791-1861), chiamato la pièce bien faite. Scribe sostituisce la “comme-
dia di carattere” con quella “d'intreccio”, applicando i procedimenti del melodramma. Lo seguiran-
no Emile Augier con “l'intreccio arbitrario; Alexandre Dumas figlio, che trasforma il palco in
“cattedra” e “tribuna”; Victorien Sardou, maestro del “colpo di scena” e della “scène à faire”. Con
Sardou si impone anche una cura del dettaglio della messinscena. L'inversione si ha con il movi-
mento naturalista, che fa sorgere un “teatro del movimento dalla vita”, con il lavoro di André Antoi-
ne al Théâtre Libre, nel 1887.

11. Fine Ottocento tra Marx e Freud: la grande drammaturgia europea e la piccola dram -
maturgia italiana

A fine Ottocento la linea puritana-rousseauiana è stata superata. Ma si pone un altro dibattito nella
scena borghese: quello che contrappone il divertimento all'istruzione, lo svago alla riflessione intel-
lettuale. Si ha una battaglia ingaggiata da una parte minoritaria della borghesia, che vuole investire
il teatro in una funzione che prima era appannaggio del romanzo, ovvero cogliere e comunicare i
cambiamenti in corso. Un teatro come occasione di autocritica, sulla direttrice che da Ibsen porta a
Pirandello. Autori che infatti trovarono difficoltà a imporsi al pubblico e alla critica.
Grazie all'infittirsi della popolazione nelle grandi città, e alla nascita dell'industria dello spettacolo,
si moltiplica il numero dei teatri. Parigi, in questo periodo, è la capitale europea. Il periodo di pro-
sperità apre le porte dei teatri ad un numero inusitato di spettatori. Nel 1867 si contano una ventina
di teatri dedicati alla prosa. Il pubblico è diverso da quello di inizio secolo. Adesso è più eterogeneo
e meno acculturato, costituito dai nouveaux riches (“nuovi ricchi”) e commercianti, avidi di denaro,
divertimento e sesso. Infatti la drammaturgia francese è dominata dalle tematiche del sesso e del de-
naro, del guadagno e dell'adulterio. L'interazione tra edonismo borghese e inventiva teatrale porta
all'affermazione della forma di teatro (considerato minore dal punto di vista intellettuale) del café-
chantant o café-concert (abbreviato in caf'-conc'), ovvero un locale dove si ascolta musica e canto.
La loro crescita è esponenziale: nel 1890 sono centocinquanta. Inizialmente sono poco attrezzati,
con una pedana per il cantante. Col tempo si creano piccoli palcoscenici all'italiana, con palchi e
fosse per l'orchestra. Si aggiungono comici, acrobati, giocolieri ecc. Uno spettacolo composito, de-
stinato a diventare, appunto, il varietà. Sono luoghi dove si beve, si fuma, si mangia e il dato artisti-
co è degradato a semplice accompagnamento della consumazione, è ridimensionato alla capacità
minima di concentrazione di una platea sempre più vasta, fino agli strati umili.

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Non solo il teatro minore, ma anche quello maggiore, è governato dalla logica del visuale, del pia-
cere dell'occhio. Domina la sala all'italiana, ricca di orpelli e velluti. Lo spettacolo non è sul palco,
ma nella platea. Gli spettatori sono attori che si offrono alla vista degli altri spettatori. Anche la sce -
na obbedisce ai medesimi meccanismi, con un décor esagerato che offusca il testo e gli attori. Nel-
l'opera e nel balletto, la chimica mette a disposizione degli scenografi nuovi effetti speciali (incendi,
inondazioni ecc). Anche il teatro di prosa subisce la stessa sorte. Sebbene vengano sempre usate tele
dipinte, si ha il perfezionamento della prospettiva e del trompe-l'œil. Anche l'attore si adatta alla
strategia del teatro visione. Le attrici non sono personaggi, ma indossatrici di abiti lussuosi, esibiti
in primo piano.
La produzione dei vari Ibsen, Strindberg, Čechov e Pirandello, è un piccolo settore della realtà spet-
tacolare effettiva dell'epoca, ma di massima importanza.
Henrik Ibsen (1828-1906) è il principale esponente di un teatro che riflette sulla condizione bor-
ghese. È l'inventore del cosiddetto teatro del salotto borghese. Se con Diderot le didascalie iniziano
a infittirsi, con Ibsen diventano significative, descrivendo i personaggi prima ancora che entrino in
scena. Se i personaggi di Shakespeare o Molière possono parlare e muoversi ovunque, in uno spazio
pubblico, i protagonisti di Ibsen possono stare solo nelle loro case, insostituibili e non intercambia-
bili.
Una casa di bambola (1879) si apre su una didascalia che dice “Un salotto accogliente e pieno di
gusto, ma arredato senza lusso”. Si capisce che casa Helmer è abitata da gente che se ne intende,
che ha classe, ma che al momento non può spendere come vorrebbe. Si aspetta il posto da direttore
di banca del marito. Nel frattempo si arreda il salotto con una “piccola biblioteca con libri rilegati
splendidamente”. L'artefice del calore del salotto è la moglie Nora. In fine di primo atto Torvald
esclama, compiaciuto: “Ah, come è caldo ed accogliente qui”. Stessa frase pronunciata dall'amico
di famiglia, il dottor Rank, malato terminale, nel terzo atto, essendo innamorato sia di Nora che del
focolare che lei accudisce.
Con quest'opera Ibsen inventa genialmente il personaggio del terzo escluso, funzionale alla felicità
della coppia. Torvald è cinicamente cosciente del ruolo strumentale del terzo escluso. Dice che “le
sue sofferenze forniscono uno sfondo nuvoloso alla nostra felicità soleggiata”. Si eccita se la sua
proprietà privata è desiderata dall'amico di famiglia. Anche perché ha un suo tornaconto. Rank è in -
nocuo, e serve a Torvald per tappare i buchi che lui lascia aperti per seguire il suo lavoro. È lui che
fa la conversazione con Nora, che la ascolta.
Il salotto borghese di Ibsen si dilata, si articola in una molteplicità di tappeti e tende, di portiere22,
per definire meglio una casa calda, intima e discreta dell'agiato borghese. Ma, paradossalmente,
questo sollecita travalicamenti di spazi, di origliamenti. Ciò che va tenuto celato, può essere spiato.
Nella famiglia borghese ottocentesca ci sono mediamente tre-quattro domestici. Nora si lamenta che
non può invitare l'amica perché c'è poco spazio, ma in casa sua vivono una cameriera e una bambi-
naia. Senza dubbio questi estranei aiutano, ma sono anche una minaccia all'intimità. In Ibsen però
sono i padroni a origliare i padroni. Nel teatro di Ibsen si origlia moltissimo. In tutto il teatro bor-
ghese dell'Ottocento c'è grande uso dell'origliamento (anche in Italia, con Giacometti, Praga e Torel-
li). Ma è Ibsen il poeta delle porte socchiuse. Il tema non è sempre esplicitato, come in Un nemico
del popolo (1882) o in Rosmersholm (Casa Rosmer, 1886). A volte è genialmente alluso, come in
Spettri (1881), dove Osvald è la povera vittima delle colpe paterne, ma è possibile rovesciare la
chiave interpretativa dal momento in cui Osvald sembra origliare un discorso della madre con un
amico, facendoci cogliere un'immagine sinistra di lui.
Se il prodotto è gradevole e di facile lettura, può consentire alla classe borghese di rispecchiarsi a
teatro. Con Ibsen si ha un rovesciamento. Il teatro diventa lo specchio critico della società, un luogo
dove si parla seriamente delle grandi questioni della famiglia, del lavoro e della carriera. Ibsen to-
glie la dose tradizionale di sentimentalità e amore, introducendo la discussione, della svolta che si
ha nel dramma quando i personaggi si “siedono e parlano”, per riflettere e analizzare i problemi.
Nasce la tecnica analitica dei drammi ibseniani (e del teatro moderno). Freud fa stendere i suoi pa-
zienti sul lettino. Ibsen li fa sedere in poltrona. Quando uno sta comodo, è più portato a tirare fuori i

22 Tende pesanti che nell'Ottocento stavano davanti alle porte, a protezione dal freddo e per estetica.

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suoi problemi.
Ibsen evoca sulla scena i mostri dell'inconscio: i personaggi hanno scheletri negli armadi e il dram-
ma ibseniano li apre e li mette allo scoperto. La Rebekka di Rosmersholm si insinua in casa di un
pastore luterano come dama di compagnia della moglie, per poi spingerla al suicidio con l'intento di
prenderne il posto. In Hedda Gabler (1890) la protagonista, Hedda, ha un legame torbido col defun-
to padre, tanto da farsi chiamare col suo nome, anche se sposata con un uomo che disprezza. Il sui -
cidio finale svela una psicologia turbata e inconfessate spinte incestuose. Il protagonista de Il co-
struttore Solness (1892) non riesce a controllare pulsioni inconsce. Ha distrutto la felicità della mo-
glie per affermarsi socialmente e non riesce a sfuggire alla tentazione di baciare una ragazzina di
dodici anni, al limite della pedofilia.
Per Massimo Castri, Ibsen è il gemello di Freud. La drammaturgia ibseniana e la psicoanalisi di
Freud sondano l'inesplorato animo umano, le ossessioni dell'uomo e l'urto frontale tra maschile e
femminile, la paura dell'uomo che ha della donna.
I primi lavori di August Strindberg (1849-1912) sono incentrati sul tema dello scontro dei sessi.
Ne Il padre (1887), due coniugi litigano su come educare la figlia. La moglie vuole prendere il so-
pravvento, e arriva a far credere al coniuge che lui non sia il padre naturale, fino a portarlo alla fol-
lia. Ne La signorina Julie (1888) la lotta dei sessi si intreccia con quella di classe. Nella notte di San
Giovanni (24 giugno, occasione rituale di scatenamenti orgiastici) si confrontano la contessina Julie
e il suo servitore Jean. Fuori scena impazza la danza popolare, ma Julie, che da poco ha lasciato il
fidanzato, è eccitata dal clima di trasgressione. Invita a ballare Jean, nonostante la presenza della
cuoca Kristin, sua fidanzata. Strindberg ci dice che Julie ha le mestruazioni, sottolineando la carica
passionale della donna, che non si ferma davanti a nulla, fino a portarsi a letto Jean. All'alba, dopo
una notte di passioni, i due vogliono fuggire. Lui vorrebbe realizzare la tanto sognata scalata socia-
le: vorrebbe aprire un albergo di classe coi soldi che Julie deve rubare al padre. Ma la distanza so-
ciale è troppa. Jean continua a darle del lei, nonostante le proteste di Julie. Solo quando si insultano
Jean riesce a darle del tu. Di straordinaria potenza espressiva è il finale. I due si accingono a partire
per l'Europa, e lei vorrebbe portare il suo amato uccellino nella gabbietta. Jean, insensibile ai senti-
mentalismi di Julie e infastidito dalla ingombrante presenza, decapita l'uccellino sul ceppo della cu-
cina, dando il via ad un violento scontro dialogico tra i due. Strindberg non esita a dichiarare che il
linguaggio dell'eros è anche il linguaggio della violenza, non solo della tenerezza. Julie dichiara
apertamente il desiderio di evirazione di Jean, come risarcimento di un rapporto che lei ha percepito
come violenza (psicologica, del servo che ribalta il rapporto gerarchico). Il motivo del sangue per-
corre da cima a fondo il testo: il sangue mestruale, il sangue dell'uccellino, il sangue della decapita-
zione di San Giovanni (ricordata da Kristin). Infine il sangue suggerito dal rasoio regalato da Jean a
Julie per tagliarsi la gola, unica soluzione alla impossibile fuga d'amore dei due.
Un po' diversa è la drammaturgia di Anton Čechov (1860-1904). Il salotto borghese della tradizio-
ne, con quell'aria vagamente asettica, appare sottoposto a tensioni inaspettate. Nel salotto del quarto
atto del Gabbiano (1895) c'è un divano alla turca che funge da letto. La camera del protagonista di
Zio Vanja (1897) ha in primo piano un letto. A volte siamo in una sala da pranzo, come nel terzo
atto del Gabbiano, con Trigorin che fa colazione. La materialità dei bisogni fisiologici invade lo
spazio che prima era adibito alle attitudini più spirituali e nobili dei borghesi. In Čechov il salotto
perde anche la sua funzione privata. La camera dello Zio Vanja è anche il suo ufficio, dove soggior-
na il medico Astrov e dove c'è un viavai continuo di contadini, come se fosse un luogo pubblico. Il
salotto da interno si fa esterno, perché Čechov è fortemente attratto dalla dimensione dell'aperto,
fuori dalla barriera claustrofobica di tanto teatro ottocentesco. Basta anche una rapida occhiata alle
didascalie. Nel primo atto del Gabbiano siamo in un parco; nel secondo atto in uno spazio per il
croquet23. In un giardino è il primo atto dello Zio Vanja e l'ultimo atto delle Tre sorelle (1901), men-
tre il secondo atto de Il giardino dei ciliegi (1903) è in campagna. È uno spazio dilatato, così come
dilatati sono i personaggi. Čechov ha sempre bisogno di una dozzina di figure, a differenza di Ibsen
e Strindberg. In Ibsen possono esserci anche tante figure, ma c'è sempre un protagonista circondato
da altri personaggi. In Čechov c'è un gruppo di persone prive di un centro, rendendo difficile trovare

23 Sport inglese che richiede un prato rasato.

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il protagonista. Siamo passato dal primo piano di Ibsen e Strindberg al campo lungo, cinematografi-
camente parlando. In uno spazio più vasto si muovono più persone, dividendosi in gruppi, facendo
cambiare anche la struttura del dialogo. Non più scambi di battute, ma un dialogo corale.
Anche Čechov indaga sui mostri dell'inconscio. Tre sorelle si apre con una battuta della più grande
(che è anche una sorta di capofamiglia, visto che sono orfane) nella quale fa notare a Irína che il suo
onomastico cade nel giorno in cui è morto loro padre, il generale Prosòrov, il quale è morto lo stesso
giorno di Napoleone. Qui Čechov dichiara la sua natura simbolista24. Queste coincidenze non sono
fortuite. Sono modi per sottolineare la centralità dominante del padre-generale, che intreccia le for-
ze della morte con quelle della vita. C'è lo stesso culto del padre di Hedda Gabler di Ibsen, dove
però della madre non si dice niente. Qui si dice che è morta da undici anni, facendo risaltare che le
tre giovani sorelle sono cresciute sotto l'ala del padre. Tutt'e tre non hanno una vita sentimentale
soddisfacente. Sono sotto il dominio del complesso edipico, e nessuno potrebbe rivaleggiare col de-
funto padre. Olga non si è sposata. Irína non vuole sposare il tenente Tùsenbach, definito addirittura
brutto. Màscia è infelicemente sposata ad uno squallido professore di ginnasio, e s'innamora del te-
nente colonnello Vierscínin solo perché è un militare. Lei stessa confessa di non avere occhi che per
i militari.
Vierscínin non si rivela affascinante. Per quattro atti dice banalità retoriche sul futuro della grande
Russia. Ma nel frattempo si svela per quel che è, una parassita e ozioso come tutta la casta militare.
Un medico militare arriva a confessare di aver ucciso una paziente perché non si ricordava nulla
della scienza medica studiata in gioventù. Čechov disegna un quadro sociale di terrificante ineffi-
cienza, a pochi anni dalla Rivoluzione del 1917.
Lo stesso vale per le donne. Olga insegna al ginnasio, ma si lamenta sempre per il troppo lavoro e il
mal di testa. A Irína non va bene nessun lavoro. A ben vedere, le tre figlie, sognano il tempo felice
della loro vita col padre, senza preoccupazioni. Màscia, all'inizio del primo atto, si lamenta dello
squallore della festa per l'onomastico. Fa per andare via ma decide di rimanere quando entra Vierscí-
nin, vedendo in lui un doppio del padre. Come il padre è finito in provincia per uno scatto di carrie-
ra. Non sappiamo perché si amino a vicenda. Vierscínin non ha né arte né parte, ma, come tutti i mi-
litari, sanno corteggiare secondo le norme dell'amor cortese. I loro amori sono solo all'interno della
casta militare. Cebutýkin, il medico militare, è stato l'amante di loro madre, e forse anche il padre di
Irína.
Per loro la passione d'amore è sempre adulterina e trasgressiva. Nel quarto atto Màscia chiede a
Cebutýkin se Vierscínin è all'altezza e se sua madre lo amava. Dopo una pausa, dice “non ricordo”.
Non vuole offendere l'onore della madre, da buon cavalier cortese. Ma si comporta così solo nella
cerchia militare. Infatti non esita a svergognare la “borghesuccia” Natàscia per il suo adulterio con
Protopòpov. Cosa che non fa con Màscia, che fa parte della casta. Čechov discolpa Natascia, perché
Protopòpov è il primo amore che avrebbe dovuto sposare.
Rispetto alla grande drammaturgia europea, quella italiana è una piccola drammaturgia, con autori
capaci di scrivere uno o due testi, senza fondare una linea di sviluppo. Di Achille Torelli (1841-
1922) si ha I mariti (1867); di Marco Praga (1862-1929) La moglie ideale (1890); di Giuseppe
Giacosa (1847-1906) Tristi amori (1887) e Come le foglie (1900). Si è sempre detto che Giacosa è
un epigono di Ibsen, ma non è vero.
Tristi amori è del 1887, tre anni prima che Antoine faccia conoscere all'Europa, con Spettri, Ibsen.
In Giacosa ci sono gli stessi temi di Ibsen: questione della famiglia, rapporto uomo-donna, ascesa
sociale. L'avvocato self-made man Scarli vive in uno studio-abitazione, non scindendo privato dal
pubblico, tipico del capitalismo. La casa non è ricca come nella tradizione teatrale ottocentesca,
bensì un modesto tinello, con stufa di terracotta e i panni ad asciugare. Anche la serva, tornando da
fare la spesa, ha il valore dell'economia, rifiutando di comprare i carciofi perché troppo cari. Il gar-
zone di bottega, l'avvocato Fabrizio, conte decaduto, gira così per la casa-studio, diventando amante
della moglie. Una brava moglie borghese che, come quasi tutte le mogli borghesi, diventa adultera

24 Simbolismo: movimento culturale che tende a cogliere una dimensione altra della realtà (sogno, inconscio, spirito,
etc.). Opposto al coevo Naturalismo, che ha un approccio scientifico, fotografico, attento alla dimensione sociale dei
rapporti umani.

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perché il marito non l'ascolta ed è impegnato nel lavoro. C'è anche il fascino dell'aristocratico e la
formazione romantico-sognante della donna che aiutano a far presa.
C'è una sotterranea lotta di classe che filtra dal testo. L'avvocato ha caro l'aristocratico ragazzo, lo
protegge, ci gioca a carte. Forse c'è anche un torbido triangolo fantasmato. Ma c'è anche l'inconfes-
sato segreto di avere come subalterno un antico nemico di classe. Ma anche in Fabrizio c'è una
guerra inconscia contro i borghesi. Il padre arriva a falsificare la firma di Scarli in delle cambiali e il
figlio gli ruba la moglie.
In Come le foglie siamo nel cuore della borghesia delle professioni del Nord Italia, ma senza le cer-
tezze del self-made man. Giovanni Rosani lavora in Borsa, fallisce, la moglie e il figlio si smarri-
scono, non accettando il nuovo squallido tenore di vita. Giovanni è onesto, ma ha dei lati ambigui.
Giacosa fa emergere le contraddizioni del personaggio. Giovanni non impara dagli errori e li ripete.
La famiglia spende più di quanto incassa e Giovanni si inventa un secondo lavoro clandestino. Dà
tutto in fatica e denaro, perché non vuole dare nulla in attenzione psicologica e affettiva. Dà tutto il
tempo al lavoro perché non ha tempo da dare alla famiglia. È più colpevole della moglie e del fi-
glio. Loro pagano per delle colpe loro. Giovanni, come padre, è responsabile del fallimento della fi-
glia, che cerca di suicidarsi per non avere un punto di riferimento paterno.
Con Come le foglie Giacosa costruisce il prototipo del dramma corale, con molto protagonisti, lun-
ghi silenzi, sussurri e pianti improvvisi.

Il Naturalismo, un'avanguardia neoclassica

Martin Esslin, nel 1968, considera il Naturalismo la prima avanguardia moderna. Nel teatro ha con-
tribuito a forgiare quelle opere aperte ibseniane, dove è la coscienza dello spettatore a decidere; a
sperimentare con i caratteri dalla psicologia composita di Strindberg, Čechov e Pirandello. Il Natu-
ralismo riporta in teatro l'essenzialità delle unità pseudo-aristoteliche, con semplificazione dell'azio-
ne. Solo così si può realizzare sulla scena “un'analisi”, contrapposta alla sinfonia-melodrammatica
dell'azione e del divertimento, tipica del Romanticismo. Il ruolo sovrano è l'analisi psicologica e fi-
siologica dei personaggi.

Alla ricerca della “formula nuova”

Come creare una drammaturgia che rispecchi in concreto la verità della vita? Per Strindberg il pri-
mo tentativo lo fa Zola con Thérèse Raquin (1873), portando in scena un uxoricidio presentato con
un'impassibile forza analitica. Anche I corvi (1882) di Henry Becque (1837-1899) mostrava, per
Strindberg, “un pezzo di natura”, ma in maniera impersonale. Da qui l'interesse per il repertorio spe-
rimentale di André Antoine, che era costituito di atti unici o addirittura quarti d'ora, opere di una
scena, perfettamente coincidenti con le unità aristoteliche. Per Strindberg psicologia, sintesi e sem-
plicità sono essenziali. “Le “scene” e i “quart d'heure” sono il genere teatrale dell'uomo d'oggi”,
meglio ancora se sullo sfondo si ha una sceglia spoglia, o quasi.

12. Il teatro del Grande Attore tra Ottocento e primo Novecento

L'Ottocento è un secolo in cui si intrecciano tre fili conduttori: la drammaturgia (appena esaminata),
gli attori (al suo culmine, ma con radici dalla Commedia dell'Arte) e la nuova figura del regista.
Le compagnie italiane sono basate in ruoli: il primo attore, la prima attrice, il brillante, il caratteri-
sta, l'attor giovane, l'attrice giovane, la seconda donna, il promiscuo, il generico. Il ruolo non va
confuso con la parte. Semmai il ruolo comprende la parte.
Primo attore e prima attrice sono in cima alla gerarchia. Hanno diritto di scelta sulle parti, compati-
bilmente dalle proprie possibilità artistiche. In pratica sono i protagonisti. Il primo attore può sce-
gliere diverse parti (Amleto, Macbeth, Tartufo, ecc). Per tradizione dev'essere fisicamente un bel-
l'uomo, imponente e con voce potente. Tommaso Salvini incarna il prototipo del primo attore ideale.
Alla prima attrice è richiesta una figura maestosa, giunonica, con voce non deficiente. Così era Ade-

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laide Ristori, poi seguita da Eleonora Duse, che impone la variante del fisico gracile e una bellezza
irregolare.
Il brillante introduce una nota più leggera nei testi seri, e diventa determinante nei testi comici,
spesso diventando primo attore. Nel primo Novecento la sua figura si trasforma nel raisonneur, iro-
nico e sottile portavoce dell'autore. Esempio è il Laudisi in Così è (se vi pare) di Pirandello.
Il caratterista è legato alla drammaturgia molièrana e goldoniana. È paffuto e obeso, sottolinea gli
elementi caricaturali del personaggio che incarna (esempio il Marchese di Forlipopoli nella Locan-
diera di Goldoni). Altre varianti del caratterista sono personaggi di mezza età o vecchi, definiti pa-
dre nobile o madre nobile. Infine c'è il tiranno, a cui è richiesta prestanza fisica e voce tonante.
L'attor giovane o l'attrice giovane hanno parti importanti, ma di personaggi giovanili: esempio sono
gli innamorati del cinque-seicento.
La seconda donna è la rivale della prima donna. Solitamente una vedova maliarda, una maritata ga-
lante o un'amante. Fisicamente ha le stesse caratteristiche della prima donna.
Il promiscuo è un ruolo che passa da personaggi patetici a comici. Ruolo minore ma di grande im-
portanza nelle compagnie dialettali: un grande promiscuo è Eduardo De Filippo.
Infine i generici, usati in parti appena abbozzate. L'attore può fungere in parti di diversa natura.
I ruoli non sono fissi. L'attor giovane e l'attrice giovane sono destinati a diventare primo attore e pri-
ma attrice. Il primo attore, invecchiando, può diventare caratterista, ma può essere anche primo atto-
re da vecchio: Ermete Zacconi e Ernesto Rossi, a sessant'anni, saranno uno Osvald in Spettri e l'al-
tro Romeo. La prima attrice è destinata al ruolo della madre nobile. Il promiscuo può arrivare a ca-
ratterista.
Ma a cosa serve tutto ciò? Difficile dirlo. In primis, l'attore è orientato verso uno specifico ruolo
dove ha corrispondenza con le sue caratteristiche fisiche. Ciò gli permette di perfezionarsi col mini-
mo sforzo, senza rischiare niente in caso di rinnovamento del repertorio. Il ruolo quindi come per-
sonaggio dell'attore.
Tra fine Settecento e primo Ottocento c'è una transizione tra teatro erede della Commedia dell'Arte
alla drammaturgia illuministica e preromantica, creando un vasto arco di modelli testuali. Comun-
que, al centro dei nuovi intrecci, ci sono sempre giovani innamorati, eroi, padri, ecc. Il sistema dei
ruoli ne istituzionalizza l'esistenza. È una mediazione tra la produzione risalente alla Commedia
dell'Arte e la nuova situazione storico culturale tra Settecento e Ottocento.
La compagnia ottocentesca è di proprietà del capocomico, che spesso coincide col primo attore o at-
trice. È la cosiddetta compagnia capocomicale, dove il capocomico è impresario: firma contratti,
paga le spese. I contratti durano un anno rinnovabili per tre. La compagnia ottocentesca è instabile
perché nomade, ma stabile perché affiatata.
Con capocomico non si può parlare di regia, ma è innegabile che ci sia una supervisione. Non solo
sceglie il repertorio e tratta con gli autori, ma distribuisce le parti e dirige le prove. Non c'erano lun -
ghe prove. Solitamente si imparavano le parti in una settimana. Contando su un pubblico ristretto
(anche nelle grandi città), la compagnia non faceva repliche, costringendola ad avere una produzio-
ne amplissima. In una stagione poteva allestire trenta testi differenti. Nasce qui la figura del sugge-
ritore. Lo stesso Salvini disse che non poteva, in questo modo, approfondire psicologicamente i per-
sonaggi che andava ad interpretare.
Ogni attore non aveva l'intero copione, ma la propria parte ritagliata dal contesto, altresì detta parte
levata o scannata. Conosceva appena il quadro generale, e a malapena le battute degli altri attori. Il
capocomico interveniva con disinvoltura sul testo: tagliando, aggiungendo, spostando.
Al capocomico spetta la cura della scenografia, che è molto essenziale, fatta di tela o carta dipinta.
Ciò era funzionale al nomadismo delle compagnie, ma col tempo si spiegazzavano. Nei primi del
Novecento si comincia ad usare la stoffa, più adatta alle strutture metalliche o di cemento. Più tardi
si passa al legno compensato. Ogni compagnia aveva scenografie generiche (salotti, giardini, bo-
schi, ecc). Raramente si commissionavano scene nuove.
Per arredare il palcoscenico la compagnia ricorreva al fondo dei magazzini dei teatri dove recitava-
no, pagando un affitto, o affidandosi a ditte specializzate. Spesso erano mobili approssimativi e sen-
za unicità di stile. A disporre gli arredi era il direttore di scena, solitamente un attore fallito. Accanto

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c'era il trovarobe, che si portava dietro infinite cianfrusaglie di scena, quasi sempre di cartapesta,
per pesare meno.
Per i costumi era semplice. Ogni attore aveva il suo a proprie spese, conseguenza del personaggio
dell'attore. Eccezione per i costumi di carattere o stranieri, forniti dalla compagnia. Ovviamente i
costumi erano stilisticamente disomogenei. Inoltre, viste le disponibilità economiche, ricorrevano a
costumi di ripiego. L'effetto finale, come dice Alamanno Morelli, attore dell'Ottocento, è deplorevo-
le.
Sommaria anche l'illuminazione, in pratica le luci in basso della ribalta e una fila di lampadine in
alto, detta la bilancia. Un'illuminazione che si limita a far vedere, e non con funzione rappresentati-
va (notte, sera, ecc) o simbolica (stati d'animo). Solo a fine Ottocento si diffondono lentamente i
proiettori elettrici, per creare giochi di luci. Lentamente si arriva ad arrivare ad usare la luce come
fattore di poesia scenica. L'attore è costretto a recitare nel proscenio, che è la parte più illuminata.
Questo ritardo porta ad esaltare il valore mimico dell'attore, costretto a recitare in primo piano. Se
indietreggia, svela l'effetto illusionistico prospettico della scenografia. L'arretratezza di tutto il con-
testo, nasce dalla concezione di un teatro dell'attore, dove quello che conta è la presenza demiurgica
dell'attore e basta.
L'anno teatrale durava dalla prima domenica di Quaresima fino all'ultimo giorno del carnevale suc-
cessivo. Spesso però si recitava anche nel periodo della Quaresima. Per questo ci furono pressioni
per cambiare il calendario. Per tutto l'Ottocento l'attore viaggia a proprie spese. Solo nel 1906 si ap -
prova un contratto unico dove le spese sono a carico del capocomico.
La razionalizzazione del lavoro eliminerà le cosiddette serate d'onore o serate di beneficio, dove un
artista organizzava una serata in suo onore, dove riceveva denaro e regali dagli spettatori
Infine, c'erano le compagnie primarie, che andavano nelle capitali e nelle più grandi città di provin-
cia; le secondarie, limitate alle città meno grandi e ai grossi paesi; e quelle di terz'ordine, composte
dai guitti, che arrivavano fino al più piccolo paesino. Fra i vari livelli non c'erano barriere, anzi, vi
era una notevole circolazione di notizie. Tutte queste compagnie sono itineranti. Solo i gruppi tea-
trali dialettali sono radicati in un territorio.
La performance del grande attore è fondata sulle risorse individuali dell'interprete. Stanislavskij
vede recitare Tommaso Salvini (1829-1915) nell'Otello in Russia. Ricorda che il costume era im-
probabile e il suo fisico poco militare, ma fu colpito dalla mimica, dalla gestualità. Requisiti fonda-
mentali visto che il pubblico straniero non conosceva l'italiano.
Adelaide Ristori (1822-1906) diventa famosa a Parigi con la Mirra di Alfieri, tratta da Ovidio, nel
1855. Alfieri trasforma la fanciulla, innamorata del padre, in figura di grande pudore, che sa repri-
mere i sentimenti. La Ristori, senza cambiare niente del testo, con movimenti e slanci passionali,
turba il pubblico parigino. Il critico Jules Janin, disprezzando Alfieri, rimane incantato dalla Ristori,
dicendo che pur recitando formalmente Alfieri, in realtà recita Ovidio.
Spesso il grande attore interviene sul testo a piacere. Ermete Zacconi (1857-1948) diventa famoso
a fine Ottocento per una sua interpretazione in Spettri, incentrata sul protagonismo di Osvald; dopo
vent'anni Eleonora Duse (1858-1924), valorizza invece la figura della madre di Osvald. Shakespea-
re è il cavallo di battaglia dei grandi attori, perché ha dei personaggi a tutto tondo (Lear, Amleto,
Otello, ecc). Le parti minori sono totalmente sforbiciate. Non ci sono personaggi femminili. Ma la
Ristori pretende che le si adatti il Macbeth, per presentarla come Lady Macbeth. Arrigo Boito rive-
de Antonio e Cleopatra facendo emergere la centralità della figura femminile.
Il repertorio del grande attore non ha solo Shakespeare. Anzi, è costituito da testi dozzinali, com-
merciali. Ciò che conta non è il copione, ma la poesia d'attore di Ristori e Salvini (o Duse e Zacco-
ni). È il grande attore che riscatta un testo mediocre. Il pubblico è su questa linea. Va a teatro per
vedere l'attore, non i capolavori culturali, prediligendo più il repertorio commerciale che quello col-
to.
Il teatro del Grande Attore non è solo italiano. Ci sono l'inglese Henry Irving (1838-1905), shake-
speariano, e la francese Sarah Bernhardt (1844-1923), famosa per la Signora delle camelie e altri
drammi su misura per lei scritti da Sardou.
Il grande attore, con i suoi manierismi e le sue eccentricità, è un vettore per la nascita dell'industria

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dello spettacolo. La Rivoluzione Francese ha rivalutato la figura dell'attore, prima reietto e perse-
guitato. Ora diventa cittadino, ribaltandone il destino di marginalità. Ora le folle si lasciano a mani-
festazioni fanatiche, tipiche del divismo.

Successi commerciali nell'epoca del grande attore

Spesso le scenografie erano migliori delle interpretazioni. Il teatro più seguito era quello dei grands
spectacles. Venne introdotta la luce a gas (1817) e poi la luce elettrica (1881). Quello che noi oggi
riteniamo “teatro classico”, come quello di Ibsen, alla fine dell'Ottocento era già in declino, con le
sue rappresentazioni che erano dei flop. Il più grande successo del XIX secolo fu Il giro del mondo
in ottanta giorni, tratto dal romanzo di Jules Verne, che debuttò nel 1874 e nel 1898 era alla 1500-
sima replica. Gli scenari erano una sala da fumo, viste panoramiche semoventi di Suez e dell'India,
pire, mongolfiere, treni; c'erano ottocento costumi, macchinisti, musicisti, comparse, attori ecc. Si
verificava lo scontro tra le ragioni dell'occhio e del verbo drammaturgico.

13. Il teatro dell'opera lirica tra Ottocento e primo Novecento

L'opera lirica italiana (o melodramma) nasce tre secoli prima. Ma è nell'Ottocento la sua epoca d'o-
ro, nei teatri lirici di tutto il mondo. Nel Settecento si impone in Europa come se fosse una merce,
con libretti in lingua italiana e con tutto il personale. Nell'Ottocento gli italiani si devono misurare
con la concorrenza estera, soprattutto francese e tedesca.
Nato come divertimento di corte di fine Cinquecento, ha mantenuto nel tempo la caratteristica di
luogo di divertimento della élite aristocratica. Anche la struttura teatrale ricorda la divisone in clas-
si: i palchi, frequentati da nobili e professionisti; la platea e il loggione per militari, borghesi, com-
mercianti, studenti. Non c'è posto per il popolo. Il centro di vita è il palco, dove si beve, si mangia,
si può persino fare l'amore. La musica e il canto sono solo sottofondo. L'attenzione degli spettatori
si ha solo nei passaggi canonici delle arie. A volte ci sono degli specchi, per poter giocare voltati
senza perder di vista lo spettacolo.
Nell'Ottocento però la tendenza si modifica. L'opera lirica si pone come scuola di sentimenti, come
laboratorio di modelli di comportamento, come l'amore infelice ostacolato dai poteri forti. In Italia,
il melodramma, riempie il vuoto lasciato dal teatro di prosa.
Gli autori significativi, come Alfieri e Goldoni, non hanno mai costituito un repertorio nazionale.
Nel calendario dei teatri, alla prosa toccano i giorni meno fruttuosi in termini di presenze. La gerar-
chia dei valori prevede in testa l'opera seria, seguita dall'opera semiseria e dall'opera buffa, consi-
derata comunque superiore alla prosa, la quale sta appena sopra allo spettacolo equestre, degli acro-
bati e delle scimmie ammaestrate.
Il melodramma ha nell'Ottocento una successione di scrittori eccellenti: Rossini, Bellini, Donizetti,
Verdi, Puccini. Poi il genere si blocca. Le opere liriche del Novecento sono un'altra storia. Il melo-
dramma continua a vivere nei repertori, grazie ai registi, che ne propongono delle attualizzazioni.
Gioacchino Rossini (1792-1868) è ponte tra passato e Ottocento, tra lui e l'opera buffa di Mozart,
visto che Il barbiere di Siviglia (1816) è ispirato a Beaumarchais come Le nozze di Figaro di Mo-
zart. La potenza musicale di Rossini astrae da condizionamenti sociali o psicologici. Si pensi al
crescendo, quando la musica comincia pianissimo e poi cresce con l'inserimento di nuovi strumenti.
Si pensi al brando di Figaro qua, Figaro là, dove la musica è funzionale alla definizione del perso-
naggio, soddisfatto della sua qualità professionale di barbiere. Nella maggioranza dei casi Rossini
usa il crescendo senza attinenza con la trama. Per esempio nel primo atto il Conte d'Almaviva orga-
nizza una serenata senza che la sua bella si presenti alla finestra. Congeda i musicanti con denaro e
loro, per ringraziare, fanno un enorme crescendo che irrita il Conte. La serenata non incide nella tra-
ma, ma è un pretesto per realizzare l'effetto musicale, chiamato appunto crescendo rossiniano. An-
cora, quando il rivale Don Basilio calunnia il Conte, fatto che non avrà riscontro nell'intreccio, si ha
un crescendo orchestrale, che esplode con un colpo di cannone, effettuato dalla grancassa, che entra

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in scena per la prima volta.


Rossini è l'erede della civiltà musicale italiana, che porta al trionfo il belcantismo, dove la musica è
al servizio del cantante. Col Barbiere di Siviglia Rossini guadagna quattrocento scudi, mentre il te-
nore il triplo. È però abile a inserire novità, come nell'opera buffa L'italiana in Algeri (1813). L'ope-
ra buffa italiana è venata di patetismo, col trionfo finale degli innamorati. Solo Mozart impose una
scossa. Altra cosa è la protervia dei due protagonisti rossiniani. Il pascià Mustafà dichiara subito che
vuole sbarazzarsi di sua moglie per poter sposare una donna italiana. Isabella, l'italiana in Algeri, ha
i tratti della dama spregiudicata settecentesca, cinica e consapevole che gli uomini sono tutti uguali.
Ciò che prevale, alla fine, è garantire la vocalità dei cantanti, senza preoccuparsi del realismo. I per-
sonaggi ripetono tre-quattro volte i passaggi, sprezzandosene della verosimiglianza, pur di esibire il
loro ventaglio vocale. Il concertato finale del primo atto è un montaggio di battute dove le parole si
riducono a meri fonemi (dindin, bumbum, crà crà, tac tà). Stendhal, estasiato, la definì “follia orga-
nizzata”.
Stendhal definì Rossini una sorta di Napoleone, per la sfolgorante carriera. Compone L'italiana in
Algeri e Il barbiere di Siviglia tra i 21 e i 24 anni. A trent'anni è osannato a Vienna. Poi in Francia,
dove morirà a Parigi, colmato di onori. Francesizza opere italiane e produce un kolossal, Guglielmo
Tell (1829), che inaugura il genere del grand-opèra.
Muore nel 1868, restando in silenzio creativo per quarant'anni, forse per depressione o per avversio-
ne verso la nuova civiltà romantica, lui che si è formato nell'Ancien Régime.
Il melodramma romantico nasce in una direzione che non è quella di Rossini, ma della coppia Belli-
ni-Donizetti. Il romanticismo italiano ha caratteri più attenuati di quello tedesco. Non c'è sensibilità
per l'interazione tra individuo e natura. La musica italiana dell'Ottocento ignora la musica della na-
tura. E manca anche il nesso stringente con miti e religione, che si trova in Wagner. Predomina l'a-
more e la passione sentimentale, senza il sostrato filosofico, per esempio, del Tristano e Isotta di
Wagner.
I Puritani di Vincenzo Bellini (1801-1835), in scena a Parigi nel 1835, ha sullo sfondo la lotta tra i
seguaci di Cromwell e la Corona inglese, ma l'impressione è di una vicenda senza tempo, con l'a -
more tra Arturo ed Elvira, contrastato da Riccardo, che segue lo schema classico: tenore e soprano
da un lato e il baritono antagonista dall'altro.
Bellini ha prodotto poco. Non solo perché morto giovane, ma perché determinato a definire una sua
poetica. Norma (1831), che il librettista Felice Romani trae da una tragedia francese, è un primo
modello di libretto romantico. Si svolge nella Gallia al tempo dei romani. Norma, sacerdotessa cel-
tica, ha una relazione col console Pollione, da cui nascono due figli. La foresta gallica discende dal -
la sensibilità romantica, ma romantica è anche la scelta della figura femminile destino di passione e
morte. Norma, lasciata da Pollione per un'altra, cerca vendetta, ma alla fine sacrifica se stessa, in un
finale che piacque anche a Wagner.
Altro modello capitale è Lucia di Lammermoor (1835) di Gaetano Donizetti (1797-1848). Un va-
ghissimo scontro tra famiglie scozzesi del Settecento fa da sfondo a una vicenda passionale: Lucia
ed Edgardo si amano, ostacolati dal di lei fratello Enrico, che la vuole sposata al suo alleato politico
Arturo. Edgardo sottolinea come l'amore ha il sopravvento sulle rivalità familiari, cosa che però
conduce alla morte: Lucia muore di dolore dopo aver pugnalato il marito sposato a forza ed Edgar-
do si suicida. Ancora una donna sacrificata e l'exemplum dell'eroe romantico in Edgardo.
Lucia di Lammermoor non è un unicum. In Lucrezia Borgia (1833) e Maria Stuarda (1834) ripropo-
ne la figura dell'amante infelice. Non mancano note involontariamente comiche.
Nella creatività di Donizetti c'è una vena ironica, che gli fa creare opere comiche che sono capola-
vori. Ne L'elisir d'amore (1832) il contadino ingenuo Nemorino ricorre ad un elisir, vendutogli da
un ciarlatano, per conquistare la fredda Adina. Donizetti introduce una novità: l'allegria non è data
dalla carica energetica della musica (come in Rossini), ma dal personaggio, che non è solo mac-
chietta. Nemorino ha anche una sua grazia commovente, che spiega la conversione finale di Adina.
Donizetti e Bellini sono un duo di reciproche influenze, disegnando mezzo Ottocento, raccoglien-
dolo da Rossini e consegnandolo a Verdi. In Giuseppe Verdi (1813-1901) non risuona la passione
d'amore, ma un timbro virile, che coincide con la passione politica, tipica del Risorgimento. Alcuni

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suoi cori sono percepiti come canti patriottici. In realtà Verdi era un liberale nazionalista, simpatiz-
zante di Mazzini, per poi avvicinarsi a Cavour, che gli chiese di entrate in Parlamento. Curioso che
il Va' pensiero del Nabucco (1842) sia diventato inno del partito separatista Lega Nord.
Verdi raggiunge maturità col grande trittico degli anni Cinquanta (Rigoletto, 1851; Il Trovatore,
1853; La traviata, 1853). Il melodramma amoroso si allarga agli affetti paterni e materni purificati
dal dolore. Nel Rigoletto il protagonista è un buffone di corte, la cui figlia è amata dal sovrano, ed è
il dolore a dare umanità al freddo profilo del buffone. Nel Trovatore crea un romanticismo notturno
raro nella cultura italiana. La notte esalta il personaggio della zingara Azucena, impazzita di dolore
per la morte del figlio Manrico, il trovatore, ma felice per aver vendicato sua madre, arsa viva dal
padre del Conte di Luna, rivale in amore di Manrico. Nella Traviata si ha una storia d'amore infeli-
ce, ma articolata psicologicamente e socialmente. Infatti qui Verdi riprende il dramma di Dumas fi-
glio La signora delle camelie, che miscela abilmente romanticismo e condizionamenti sociali.
Verdi si muove dentro una società meno laica di quella francese, quindi deve moralizzare e camuf-
fare. La traviata è la donna corrotta, immorale, visto che è una prostituta. È la traduzione di fille
perdue di Dumas. Ma rispetto all'originale Verdi non indietreggia. Verdi apre il sipario su un interno
borghese, conservando l'approccio sociologicamente aspro di Dumas: il borghese non ha soldi per
mantenere la cortigiana, la quale si mantiene prostituendosi con gli amanti aristocratici. Il padre di
Violetta è molto presente in Verdi, a differenza di Dumas. La musica di Verdi martella quando il pa-
dre impone alla figlia di rompere la relazione, dandole del tu, quando sia prima che dopo le dà del
voi. Questo in Dumas non è presente.
Per mettere a fuoco le pulsioni edonistiche della élite sociale, inventa un doppio coro, quello fem-
minile e quello maschile. Il realismo che Verdi introduce nel melodramma è un motivo del fiasco
della prima veneziana del 1853. Il pubblico borghese percepisce le allusioni e le critiche ai costumi
e alle ipocrisie dell'alta società. L'anno successivo è invece accolta con successo, quando Verdi
l'ambienta in pieno Settecento, lontana dalla realtà contemporanea.
Verdi rimane fedele allo spirito del melodramma italiano: conflitti chiari, semplici ed esemplari. È
questa energica rappresentazione del personaggio che consente a Verdi di raccogliere con l'opera li-
rica un pubblico vasto, popolare, colto e incolto. La sua trilogia viene definita romantica o popola-
re. È con Verdi che il melodramma diventa espressione nazional-popolare.
Verdi si dà anche alla sperimentazione, con Otello (1887) e Falstaff (1893), entrambi con il libretto
scritto da Arrigo Boito. C'è una ricchezza orchestrale notevole, con gli strumenti che agiscono da
personaggi. A qualcuno parve che con queste opere Verdi mostrasse di andare incontro a Wagner.
Giacomo Puccini (1858-1924) è l'ultimo interprete del melodramma italiano. Per i critici ha uno
spirito piccolo-borghese, con melodie facili per un pubblico vasto. Ha comunque dei meriti. Tallona
i suoi librettisti (Giuseppe Giacosa e Luigi Illica) per ottenere l'effetto migliore. È aperto nelle scel-
te, tra il quotidiana e un Oriente esotico.
La Bohème (1896) è un melodramma-manifesto del Verismo. È la storia di quattro bohémiens squat-
trinati che vivono nella Parigi del 1830. Non c'è trama, ma il pàthos e comico eroismo della vita
quotidiana: un cambiamento rispetto alla gloria del melodramma tradizionale. Non manca l'amore.
Madama Butterfly (1904) è ambientata in Giappone. È la tragica storia di una giapponese che si in-
namora di un tenente americano, che l'abbandona salvo poi tornare con la moglie americana per to-
glierle il figlio, condannandola ad harakiri. Incompiuta è Turandot, andata comunque in scena nel
1926 diretta da Arturo Toscanini. Ambientata in Cina, una regina uccide i suoi pretendenti per poi
innamorarsi di Calaf. Qui Puccini si apre a suggestione diverse, turbate.
La novità di Puccini è la morbosità con cui affronta il nodo tenerezza/erotismo, arrivando al sadi-
smo e masochismo, come nella Tosca (1900, da un dramma di Sardou), ambientato a Roma nel giu-
gno del 1800. Lotta politica che si intreccia con gli amori del pittore Mario Cavaradossi e della can-
tante Floria Tosca, che è desiderata dal capo della polizia papalina Scarpia. Moriranno tutti. Ad affa-
scinare Puccini è il legame tra violenza politica e violenza sessuale. Scarpia tortura Cavaradossi nel-
la stanza accanto al suo studio, dove c'è Tosca che aspetta di essere violentata. In Sardou, quando lei
vede il suo amante sanguinante, si lancia verso di lui, baciandolo. In Puccini, invece, si copre il vol-
to per un attimo e solo dopo, vergognandosi della sua debolezza, lo bacia. Puccini coglie una verità

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profonda, ovvero che ogni violenza fisica non è altro che violenza sessuale.
L'opera lirica francese, che ha subito l'influsso del melodramma italiano, nell'Ottocento si muove da
sola. Se il melodramma italiano ricerca le lacrime con la passione, quello francese esprime il buon
gusto, l'eleganza, l'intelligenza. Due generi sono tipicamente francesi: l'opéra-comique e il grand-o-
pèra.
L'opéra-comique, nata nel Settecento, è caratterizzata dall'alternanza di dialoghi in prosa e parti mu-
sicate e cantate. Il carattere è comico ed è sempre a lieto fine. Anche musicisti italiani si cimentano
in questo campo, come Donizetti con La figlia del reggimento (1840).
Il grand-opéra è più recente, tra 1828 e anni '70. Quasi sempre in cinque atti (minimo quattro), ha
un allestimento sfarzoso, una corografia imponente e scene di massa. La trama è romanzesche, sullo
sfondo di conflitti storici o religiosi. Un contributo a questo genere fu il Guglielmo Tell di Rossini,
in francese. Anche altri (Donizetti e Verdi) produssero opere di questo genere.
All'opéra-comique appartiene Carmen, capolavoro di Georges Bizet (1838-1875), che fece inva-
ghire Nietzsche. Ambientata a Siviglia, Carmen è un'operaia in un'industria di tabacco, e la sua cari-
ca erotica attrae i militari Zuniga e José e il torero Escamillo. José, per lei, diserta e diventa contrab-
bandiere, fino ad accoltellarla a morte quando lei lo lascia per il torero. Alla prima il pubblico rima-
se perplesso. Non aveva il lieto fine, nonostante avesse le caratteristiche dell'opéra-comique. Più
traumatizzante furono il realismo dell'intreccio (le sigaraie che fumano in scena, impensabile allora)
e la visione libertina dell'amore di Carmen, definita come una zingara. Memorabile l'habanera25 del
primo atto, dove l'amore è paragonato prima ad un “uccello ribelle” e poi ad uno zingaro che non
conosce legge. Significativa anche il duetto del primo atto, dove Carmen fantastica di ballare e bere
e di concedersi a chi vorrà farlo. Ovvio che un personaggio così abbia scandalizzato il pubblico. Il
turbamento è anche determinato dallo stravolgimento di alcuno valori della società borghese, che
ora è dominata da interessi bassi, carnali.
Verdi e Richard Wagner (1813-1883) dominano la scena Ottocentesca. Si collocano su posizioni
diverse. Per Verdi la musica è amplificazione delle emozioni, che si condensano nelle arie del can-
tante, dove la trama viene sospesa, come in un fermo immagine.
Wagner, invece, aspira a realizzare l'opera d'arte totale, dove musica, poesia, danza e pittura devo-
no fondersi in una continuità drammaturgica con un'orchestra che tutto racconta. Con Wagner si
potenzia il corpo orchestrale e arriva a realizzare un edificio teatrale a Bayreuth. In Wagner c'è un
ininterrotto tessuto musicale, senza pause, senza mai un suono limpido, tutto è amalgamato. Questa
ricchezza orchestrale riesce ad accostarsi alle forme primigenie della vita, alla poesia dell'acqua, del
fuoco, del mare, della foresta.
Wagner cerca i suoi soggetti nelle leggende della civiltà germanica o nordica. L'esito significativo è
la tetralogia L'anello del Nibelungo (L'oro del Reno, La Valchiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli
Dèi), che ha una lunga gestazione (1854-1876). Wagner, in gioventù, è animato da uno spirito rivo-
luzionario, combattendo anche a fianco di Bakunin, fino a fuggire in Svizzera. Poi vive le contrad-
dizioni della borghesia tedesca, che abbandona le idee libertarie per ripiegare in un'ideologia con-
servatrice e reazionaria. Inizialmente l'opera era impostata in chiave anti-capitalistica. Poi Wagner si
orienta verso una visione negativa, che canta l'inutilità dell'agire umano.
Wagner esprime l'esaltazione dell'autentico spirito germanico: eroe puro della vittoria e la redenzio-
ne attraverso l'amore per la donna. Il tema della donna che si sacrifica per redimere l'uomo è esalta-
to da Wagner: Senta in L'Olandese volante (1843), Elsa del Lohengrin (1850) e Kundry del Parsifal
(1882), ultima opera, dove si accentua il misticismo di Wagner, legato anche all'antigiudaismo.
Raggiunge l'apice con Tristano e Isotta (1865), in tre atti. Wagner si rifà ad una leggenda, probabil-
mente di origine celtica: Tristano conduce in sposa Isotta al re di Cornovaglia, Marke, che è anche
suo zio. I due però bevono per sbaglio una pozione e si innamorano. I due però si amano sin dall'ini-
zio, e la pozione è una scusa. I due amanti si fondono, per Wagner, non per la vita, ma per la morte.
Wagner insiste sul senso del dominio tirannico dell'amore, che piega le volontà. Nel primo atto del-
l'opera, Tristano uccide il fidanzato di Isotta, Morold, tagliandogli la testa e facendola arrivare a
Isotta. Tristano rimane ferito nel combattimento, ma viene guarito da Isotta, senza sapere chi fosse.

25 Danza cubana di origine spagnola.

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Poi vorrebbe ucciderlo, ma poi si guardano e a lei cade la spada di mano. C'è silenzio, non ci sono
parole. Ma qui si capisce la nascita della passione tra i due. La spiegazione si trova nel cuore di te-
nebra dell'ideologia germanica esaltatrice della forza dell'eroe vincitore: Morold è morto e il mio
onore insieme a lui. Dio è sempre coi vincitori. La donna diventa bottino di guerra del vincitore.
Nonostante Tristano sia brutale e violento, Isotta lo ama. Non sono, però, come Romeo e Giulietta.
Isotta non è sentimentale, ma condivide pienamente l'ideologia della forza e della violenza militare.
Quando infatti viene portata verso Marke da Tristano, lei non capisce perché lui faccia questo, in
quanto appartiene a lui, al vincitore. È sinistramente innamorata della potenza di colui che ha ucciso
il suo uomo.

14. Il teatro del regista tra Ottocento e primo Novecento

Il teatro del grande attore e teatro del regista convivono e occupano gli stessi anni, ovvero tra Otto-
cento e Novecento.
Impulso alla regia moderna si ha col duca di Sassonia Giorgio II (1826-1914), appassionato di tea-
tro che, insieme al regista Ludwig Chronegk (1837-1891), fonda la compagnia dei “Meininger”,
che arriva a fare tournées in Europa e America, fino al 1890. Per questa compagnia è fondamentale
il rispetto del testo, la cura dei costumi, prove rigorose e nuove tecniche di illuminazione. Era for -
mata da una settantina di attori, pagati dal duca, che seguivano il criterio della rotazione: gli attori di
valore non sempre recitavano da protagonisti, anzi facevano da comparse, creando così apprezzate
scene di massa. Il valore storico dei Meininger fu quello di introdurre la disciplina, fondata sul con-
trollo dell'attore.
André Antoine (1858-1943) nel 1888 è a Bruxelles per seguire i Meininger. Nel 1887 ha fondato il
Théâtre Libre, e Meininger lo rafforzano nel suo progetto. È un dilettante ma anche un grande inno-
vatore. Parte dalle considerazioni di Zola in qualità di critico teatrale, dove suggerisce di convertire
il teatro al naturalismo. Il primo obiettivo è riformare il décor. Col grande attore è sommario e ca-
suale. Ma con attori che sono tutti alla pari, non è più un dato secondario. Gli attori devono essere
collocati in uno spazio reale, credibile, non ridicolo. Con la pittura e la prospettiva, l'attore che in -
dietreggia risulta sproporzionato coi disegni. Con Antoine non si dipinge, si costruisce la scena.
L'attore non è più davanti alla scenografia, ma dentro. Il messaggio non è più solo la sua voce, ma
passa all'interno di un effetto complesso di composizione.
Gli interpreti di Antoine sono dilettanti, ma proprio grazie allo sfruttamento dei movimenti nello
spazio, al linguaggio del corpo, acquistano una notevole forza.
Dieci anni dopo, nel giugno 1897, Stanislavskij (1863-1938), nome d'arte di Konstantin Sergeevič
Alekseev, considerato il padre del teatro moderno, fonda con Nemirovič Dančenko (1858-1943) il
Teatro d'Arte di Mosca, dove confluirono il gruppo di dilettanti di Stanislavskij, e i migliori allievi
della scuola diretta da Dančenko. Si dichiara guerra ai vizi dell'attore come ritardi, pigrizia e la non
conoscenza della parte. Ciò che sembra una limitazione è in realtà un punto di forza per i dilettanti,
che hanno voglia di apprendere e migliorarsi. La battaglia del Teatro d'Arte di Mosca è contro il pà-
thos di marca tardo romantica, contro la teatralità come falsità scenica, contro i costumi sommari.
Viene introdotta la possibilità di recitare di spalle, o nella semi oscurità. Si creano ambientazioni
minuziose nei dettagli.
È un primo periodo del Teatro d'Arte dove i prodotti migliori sono testi storici (Giulio Cesare e Il
mercante di Venezia di Shakespeare, Lo Zar Fedoro di Aleksej Tolstoj), dove ha un riscontro note-
vole di pubblico, ma che viene etichettato come saldato alla matrice naturalistica. Per Stanislavskij
questa è una fase di crescita, di formazione. Il nucleo dell'evento è caratterizzato dalla scenografia,
dai costumi, dalle luci e dai suoni, quindi dalle invenzioni registiche. È la centralità registica che, at-
tirando le attenzioni del pubblico su di sé, difende gli interpreti più inesperti. Recitare di spalle o in
penombra ha lo stesso scopo.
Per Stanislavskij la funzione del regista non deve sovrapporsi a quella dell'attore, ma di secondarlo,
di aiutarlo ad esprimersi. L'essenziale è nelle mani degli attori, e non nei registi. La linea “storica di
costume” si pone sulla strada del “realismo esteriore”, perché il regista non può che intervenire dal-

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l'esterno. Il passaggio successivo si ha con l'incontro con Čechov. Sposando le sue teorie si spostò
verso un “realismo interiore”, di una ricerca di una verità più intima. Nella drammaturgia čechovia-
na, dove non succede mai nulla di decisivo e gli attori sono statici, occorre creare un'atmosfera, por-
gere le battute diversamente dallo stile melodrammatico dell'epoca. Nasce una recitazione fatta di
sfumature e silenzi. Non è possibile recitare il personaggio čechoviano dall'esterno, occorre ricrear-
ne la vita interiore, dal testo.
Il regista scopre la centralità dell'attore. La messinscena nasce in accordo con l'attore, considerando
le sue qualità.
Solitamente si contrappongono Stanislavskij a Mejerchol'd, suo allievo. Il primo fautore del teatro
della parola, il secondo cantore del teatro del gesto e del corpo. A Stanislavskij il teatro della psico-
logia, al Mejerchol'd il teatro delle azioni acrobatiche (la biomeccanica). Ciò è vero, ma solo in par-
te. In Stanislavksij c'è un risvolto novecentesco. Dal 1913 apre una serie di studi dove sperimenta le
sue riflessioni sull'arte attorica.
Definisce quello che si chiama “Sistema” (o “Metodo”). Com'è possibile che un attore, replicando
infinite volte la stessa parte, non scada in iterazione meccanica di stampo esteriori? Stanislavskij so-
stiene che lo spettatore debba essere coinvolto emotivamente, e questo può accadere solo se l'attore
è intimamente commosso, se si immedesima nel personaggio, vivendone i sentimenti e le ansie. Il
“metodo” è attingere al passato autobiografico dell'attore, dalle proprie emozioni vissute: Stanislav-
skij la chiama reviviscenza. L'attore non può recitare un personaggio che non ha dentro di sé, che
non sente.
Il “Sistema” non è sistematico, come invece è stato interpretato negli Stati Uniti, dove nacquero gli
Actors' Studio. Stanislavskij si è sempre battuto contro questa lettura, sottoponendola invece a rilet-
ture e correzioni.
Negli anni Trenta ribalta il “Sistema”, cominciando a parlare di “metodo delle azioni fisiche”. Il
percorso dal sentimento alla dimensione mimico-gestuale è arduo, problematico fissare i sentimenti.
Più facile è fissare le azioni fisiche. Cambia così la costruzione del personaggio. Alle prove gli atto-
ri non devono conoscere la parte, ma solo l'intreccio, e devono improvvisare azioni fisiche. Per mo-
strare Otello sposo novello, l'attore deve individuare gesti (per esempio baciare appassionatamente
Desdemona) senza pensare alle battute, inventandosele lui. Solo quando le azioni fisiche saranno
fissate, si sostituiranno le battute con quelle del testo. È la dimensione fisica che stimola quella spi-
rituale, non il contrario, come pensava una volta Stanislavskij.
Curioso come alle origini della regia moderna ci siano gruppi dilettantistici. Il grande attore oppone
resistenza all'avvento della regia, che infatti arriva in Italia solo con la seconda guerra mondiale.
Altro decisivo discorso è presentare il regista come servo d'Autore, interprete fedele del testo, di
contro all'interprete infedele che è da sempre l'attore. Il regista si difende dietro la solennità dell'Au-
tore per giustificare il suo comando sull'attore. L'attore è più importante del regista, ma meno im-
portante dell'autore. E il regista lavora per l'autore. Infatti Antoine, nelle locandine, non si firma
come regista ma come attore. L'idea stessa di regista fatica ad imporsi.
In pieno Novecento, invece, perviene al trionfo, tagliando e modificando il testo, più di quanto non
facessero gli attori nel passato. L'attore si sentirà progressivamente ridotto a un ingranaggio, repres-
so nella sua capacità creativa. Solo nel lungo periodo i registi forgeranno un attore più condiscen-
dente ai suoi desideri, soprattutto in Italia, dove la regia si afferma negli anni Quaranta-Cinquanta
del Novecento.
Sul breve periodo il regista ha un'urgenza più pressante, ovvero la necessità di nuove forme dram-
matiche, di copioni con una struttura più rispettosa dell'insieme, all'interazione di tutti i personaggi,
attenta all'approfondimento psicologico. Una pièce senza intrigo, a esposizione lenta e graduale, che
necessita di un pubblico più maturo.
Non è casuale che la regia (i Meininger, il Théâtre Libre) e la grande drammaturgia (Ibsen, Strind-
berg, Čechov) nascano negli ultimi anni del trentennio. Sono due facce della stessa medaglia. Gli
scrittori di fine Ottocento hanno bisogno di una particolare messinscena, e mimano il regista. Si am-
plia infatti il fenomeno delle didascalie, che prefigurano un'ipotesi di allestimento. Ibsen, Strindberg
e Čechov legano le proprie produzioni a compagnie teatrali o gruppi sperimentali di attori.

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Il dibattito sulla regia è ancora vivo. Per alcuni specialisti (soprattutto italiani) la regia è un fenome-
no novecentesco, con padri fondatori, che sono registi (Stanislavskij e Mejerchol'd) ma anche teori-
ci e scenografi come lo svizzero Adolphe Appia e l'inglese Edward Gordon Craig. Altri studiosi
(sempre italiani), colgono nello sviluppo della regia, non una rottura bensì continuità, retrodatando
il manifestarsi della regia già al francese Adolphe Montigny (1805-1880), direttore del Gymnase
Dramatique di Parigi, attivo dagli anni Cinquanta. Volendo, si può andare ancora indietro agli anni
Trenta, con Alexandre Dumas padre, Victor Hugo e Alfred de Vigny, che scrivono testi con un
meticolosità già in qualche modo pre-registica.
Possiamo considerare l'autore come primo regista, perché c'è una spinta naturale che guida l'autore
verso una funzione registica (intesa in senso elastico e generico), già da Goethe e Schiller, addirittua
da Voltaire e Beuamarchais, in pieno Settecento. Tutti sono attenti a curare le prove negli allesti-
menti dei propri testi.
È difficile parlare di nascita della regia, che vale come metafora. Non c'è una data. È più esatto par-
lare di banda di oscillazione, magari lunga, di cinquanta-settanta anni.
Ha anche una realtà economica. È vero che la pulsione registica ha un carattere culturale. Ma è an-
che vero che la regia si definisce come un mestiere, un nuovo mestiere dell'industria dello spettaco-
lo. Già dal 1828 a Parigi si pubblicano una sorta di libretti di istruzione (livrets de mise en scène) ad
uso dei teatri di provincia per ricostruire la messinscena degli spettacoli parigini. Nei libretti c'è tut-
to: la messinscena, gli attori, la loro posizione sul palco, i costumi. Manca solo il regista, che è colui
che mette in esecuzione i libretti. Un nuovo mestiere quindi, che si occupa di ricreare una copia fe-
dele della rappresentazione originaria. Non fa azione creativa ma duplicativa. La lunga storia della
regia porta alla trasformazione da mestiere ad arte. Non più un professionista ma un artista, che non
duplica, ma realizza qualcosa di unico.

La centralità di Parigi

Tra Settecento e Ottocento nasce a Parigi una forma spettacolare che avrà successo: il mélodrame,
un teatro “di parola” ma con musica di sottofondo. Importanti sono le scenografie tridimensionali, i
costumi ricchi, la gestualità dell'attore e persino l'acrobatica. Il suo autore principale è Guilbert de
Pixérécourt (1773-1844). Negli anni Trenta del XIX secolo, a Parigi, a costruire la messinscena
sono gli autori stessi del testo. A lui spetta la distribuzione, le prove, il copione, la scenografia, i co-
stumi. Durante le prove il copione viene rimaneggiato. A volte sono gli stessi attori a suggerire le
battute. Ma ad avere l'ultima parola sono gli autori. Il contrario di quello che avviene in Italia nello
stesso periodo, con i grandi attori. In Francia ciò accade perché la legge prevede il diritto d'autore,
non solo per la stampa delle pièces, ma anche della loro rappresentazione.

La colomba di Stanislavskij

Stanislavskij si ritrova a mediare tra emozionalisti, che cercano l'autenticità del personaggio attra-
verso l'istinto e l'intuizione, e gli antiemozionalisti, che si affidavano alla tecnica. Per Stanislavskij
era pericolosa sia l'ispirazione, perché occasionali, sia la tecnica, che poi non toccherà in fondo lo
spettatore. Stanislavskij elabora una tecnica che consente all'attore di calarsi nella parte affidatagli,
chiedendosi che cosa farebbe nelle medesime condizioni. Le battute del copione si ritrovano alla
fine di questo processo, non essendo propriamente il punto di partenza. Nella fase estrema di questa
teoria, Stanislavskij privilegia in assoluto le azioni fisiche, le uniche che una attore può fissare e ri-
cordare.

La rivoluzione scenografica: dall'illusione all'allusione

Richard Wagner (1813-1883) fece erigere un teatro derivato dalla tradizione italiana: il Festspie-
lhaus di Bayreuth. Lui non vuole creare semplici opere, ma opere d'arte totali, dove tutte le arti
debbono fondersi. L'orchestra dev'essere nascosta al pubblico. La sistemazione del pubblico deve

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dare una percezione di “visione di un sogno”, grazie anche all'oscuramento della sala, dando una
portata mitica e sovrumana alla scena. Riforme radicali alla scenografia furono attuate da Adolphe
Appia (1862-1928), sulla scia di Wagner. Crea una scenografia astratta e ritmica, dove è la musica
ad imporre la coreografia e i gesti del cantante-attore. La messinscena deve innervarsi nell'oepra
d'arte totale e lo stesso attore e integrato nella scena governata dalla musica. La luce deve avere un
uso poetico. L'attore deve essere danzatore. Edward Gordon Craig (1872-1966) era convinto che
il teatro dovesse essere una sintesi di azione, di parole, di linea, di colore e di ritmo.

15. Primo Novecento: le Avanguardie Storiche e la centralità di Pirandello

L'inizio del Novecento è caratterizzato dalla nascita di correnti sperimentali che manuali definisco-
no Avanguardie Storiche.
Il primo evento è il Manifesto del Futurismo (1909) di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944).
Movimento che vuole adeguare la realtà artistica alla modernità del sistema sociale (mito della
macchina, della velocità), con parole d'ordine chiassose e un forte nazionalismo guerrafondaio, che
porterà il Futurismo a confluire nel fascismo. Ci sono anche accenti anarcoidi e socialisti, che spie-
gano l'adesione dei futuristi alla Rivoluzione d'Ottobre del 1917. È del 1911 il Manifesto dei dram-
maturghi futuristi di Marinetti, che rivela i limiti della problematica teatrale. Marinetti non prende
in considerazione la figura ormai assimilata del regista, e parla di drammaturghi. Più interessante il
manifesto Il Teatro di Varietà (1913, sempre di Marinetti), dedicato a questa forma minore di teatro,
dove richiama una partecipazione più attiva anche del pubblico. La rottura palcoscenico-platea è un
filo rosso che attraversa le Avanguardie Storiche. Il Futurismo non lascia segno in campo teatrale,
ma contribuisce a definire lo spettacolo moderno, con spettacoli, le serate futuriste, dove il pubblico
viene coinvolto, spesso anche offeso dagli attori.
Contatto coi futuristi lo ebbe certamente Ettore Petrolini (1884-1936), artista solista di varietà, in-
ventore di lazzi e filastrocche che irridono le mode del tempo.
Tedesco, tra 1910 e 1924, è l'Espressionismo, che esalta la visione soggettiva dell'artista. La sceno-
grafia di una città offre profili sghembi di palazzi o lampioni. In teatro l'Espressionismo denuncia la
sofferta disumanità del mondo, reduce dalla Prima guerra mondiale.
Nelle serate dadaiste si tirano uova, ortaggi e monetine. Il Dadaismo è fondato a Zurigo nel 1916
da Tristan Tzara (1896-1963), diffondendosi presto a New York, Berlino, Colonia, Parigi. Zurigo
era rifugio di figure irregolari, che rifiutavano la guerra e una società fondata sul capitalismo. Tzara
dice che “l'arte non è una cosa seria”. Dada è una parola che non significa nulla.
Interessante il curioso testo teatrale dadaista Per favore (S'il vous plaît, 1920) di André Breton e
Philippe Soupault, i cui primi tre atti sono tre differenti situazioni con personaggi ogni volta diver-
si. Sono tre atti unici accostati in successione. In ogni atto il dialogo passa da razionale a incom-
prensibile, distruggendo la coerenza dei comportamenti dei personaggi. Il quarto atto, invece, è un
intervento di discussione del pubblico sullo spettacolo. In scena c'è un portone dove passano due
personaggi, che come aprono bocca vengono interrotti da uno spettatore-attore che si rivolge alla
platea con “Tutto qui?”. E da lì partono le incursioni del pubblico.
Gli attori che recitano gli spettatori sono collocati nello spazio reale del luogo teatrale. I finti spetta-
tori sono a fianco dei veri spettatori. Breton e Soupault riflettono, a livello di scrittura teatrale, la
spettacolazione delle serate dada, caratterizzate da uno incontro-scontro tra pubblico e artisti.
Tra '22 e '23 si esaurisce il movimento Dada, e nel '24 André Breton (1896-1966) firma il primo
manifesto surrealista. Il Surrealismo, sotto l'influsso della psicoanalisi di Freud, ripropone uno
sguardo che scandaglia le profondità dell'io (sogno, inconscio, follia, scrittura automatica ecc.).
Accento positivo lo hanno le Avanguardie in terra sovietica. Nel futurismo della Russia rivoluziona-
ria si registra un'attivazione degli spettatori. A migliaia sorgono circoli teatrali operai, contadini, di
soldati. Il teatro è ovunque, ogni luogo può diventare spazio scenico. Si lavora per infrangere la bar-
riera attore-spettatore, teorizzata anche dal poeta e drammaturgo Vladimir Majakovskij (1893-
1930). Nel terzo atto de Il bagno (1929) introduce il teatro nel teatro. Il burocrate Pobiedonosikov,

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oggetto di sarcasmo nei primi due atti, assiste alla rappresentazione dal pubblico e sale indignato sul
palcoscenico. Ma sale sul palcoscenico anche il regista, a polemizzare col burocrate.
Inizialmente surrealista è Antonin Artaud (1896-1948), grande visionario del teatro, autore di un
libro, Il teatro e il suo doppio (1938), con illuminanti intuizioni sulla natura del teatro, di un teatro
della crudeltà, che avrà ripercussioni sugli esponenti del Novecento.
Jacques Copeau (1879-1949) riporta il teatro a una sorta di “classicismo moderno”, ovvero a una
ascetica nudità, col palcoscenico spoglio.
Luigi Pirandello (1867-1936) si pone come il massimo drammaturgo del Novecento. È del 1921
Sei personaggi in cerca d'autore, che alla prima romana si trasforma in una serata futurista, con in-
sulti e lancio di oggetti. Distrugge la tradizione europea del teatro del salotto borghese. Il pubblico
entra in teatro e trova il teatro unicamente. Non c'è sipario. Un palcoscenico nudo dove degli attori
che fanno gli attori mettono in prova uno spettacolo. Poi arrivano sei tipi strani, che dicono di esse-
re personaggi, pretendendo che il Capocomico sia il loro autore. Il dramma lo hanno loro in sé, non
è scritto. Dovrà essere il Capocomico a scriverlo man mano che loro lo vivranno sul palcoscenico.
Tuttavia non c'è l'estremismo delle avanguardie. I sei personaggi entrano dalla “porticina del palco-
scenico” e non invadono mai la platea. Pirandello si limita a mimare una rivoluzione scenica.
Lo stesso avviene con Ciascuno a suo modo (1924), secondo pezzo della trilogia del teatro nel tea-
tro. Anche qui c'è bagarre ma tutto sul palcoscenico. I finti spettatori pirandelliani non si confondo-
no con in veri spettatori. La commedia è immaginata come ispirata da un fatto di cronaca. I prota-
gonisti del fatto di cronaca, in quanto spettatori, si riconoscono nella storia e salgono sul palcosceni-
co indignati. Alla fine i personaggi della realtà si comportano come i personaggi della finzione. In
Pirandello la vita irrompe nel teatro solo per riconoscere la superiorità del teatro: non è l'arte che
imita la vita, ma la vita che imita l'arte. Il teatro è una sorta di psicoanalisi.
Pirandello, stando dentro all'industria dello spettacolo, percepisce le rotture con le Avanguardie e
svolge un lavoro di adattamento, di mediazione rispetto alle spinte più estreme, tenendosi ancorato
al valore dell'arte.
Dal 1925 al 1928 dirige il Teatro d'Arte di Roma. Si impratichisce del mondo della scena, sotto l'in-
flusso dell'attrice Marta Abba (1900-1988), di cui è innamorato. Si apre alle avanguardie, superan-
do la frattura palcoscenico-platea. Nei Sei personaggi riscritti nel 1925, i personaggi entrano dalla
platea, e il Capocomico si muove tra palcoscenico e platea. E in Ciascuno a suo modo del 1933 lo
spettacolo inizia al botteghino, o addirittura per strada, con gli attori che si mescolano al pubblico.
Ultimo segmento della trilogia è Questa sera si recita a soggetto (1930), scritta a Berlino, tentando
fortuna come sceneggiatore cinematografico.
Pirandello riprende il filo della piccola drammaturgia di Giacosa, scrivendo drammi da salotto bor-
ghese. Dietro Pirandello c'è però la Sicilia dei ceti latifondisti e possidenti. Non c'è la borghesia del-
le professioni del Nord Italia. Cuce copioni su misura al maggiore attore del tempo, Ruggero Rug-
geri (1871-1953), dove è sempre ritratto un uomo solo, colto e fascinoso, a contrasto di un coro di
meschini, a contendere una donna che gli sfugge e lo inquieta. Recupera la struttura del triangolo
adulterino francese, con figure femminili estreme: la madre santa, archetipo siciliano, e la baldrac-
ca.
Dopo il '25 costruisce un teatro al femminile tutto incentrato su Marta Abba, che esprime un model-
lo che unisce l'erotismo alle virtù come fedeltà e generosità.
A livello più sotterraneo affiora un profilo torbido, un'inconscia pulsione incestuosa per la figlia
Lietta, che ha tre anni più di Marta Abba, che porta alla pazzia la moglie, rinchiusa poi in manico-
mio.
In Italia non c'è altro nel teatro. Ci prova Gabriele D'Annunzio (1863-1938), ma fallisce misera-
mente. Eccezione l'isolato La figlia di Iorio (1904) e Fedra (1909).

Quando comincia il teatro del Novecento?

Convenzionalmente si usa il 1896, quando August Strindberg, in crisi artistica, comincia a scrivere
il dramma Verso Damasco, che influenzerà l'Espressionismo. Sempre del 1896 è Ubu roi, opera

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“truculenta” di Alfred Jarry (1873-1907), recensito inizialmente malamente, ma pietra miliare del
teatro del Novecento, con l'irruzione dell'Assurdo e della dissacrazione sulle scene. L'Ottocento si
concluse con un soprassalto romantico, ovvero col Cyrano (1897) di Edmond Rostand (1868-
1918), osannato dai critici pur sapendo che è un caso isolato. Nell'Ubu di Jarry c'erano i germi del
Dadaismo e della crudeltà. Ecco perché consideriamo il 1896 come passaggio di elementi che sa-
ranno caratteristici per le avanguardie future.

Differenza e “crudeltà” nel Novecento

La storia dello spettacolo si trasforma nel Novecento: si riavvia sulla base di una differenza che po-
tremmo sintetizzare con spettacolo oltre lo spettacolo. Come dice Barba, lo spettacolo non si rivol-
ge meramente ad un pubblico, ma oltrepassa lo spettacolo come manifestazione effimera e fisica per
raggiungere una dimensione metafisica (politica, sociale, didattica ecc). Caso esemplare è il teatro
della crudeltà di Antonin Artaud, che non è un teatro di violenza fisica, ma di forza metafisica, con
immagini fisiche violente che frantumano e ipnotizzano la sensibilità dello spettatore. Nei suoi scrit-
ti ha parlato di soppressione della scena e della sala teatrale, per ristabilire una comunicazione diret-
ta tra spettatore e spettacolo, con lo spettatore accerchiato dall'azione, che si accende in tutti i punti
della sala. Se queste teorie anticipano i vari Grotowski, Barba e Living Theatre, la parte più duratu-
ra dell'opera è la critica al teatro occidentale, al concetto stesso di cultura, intesa come cosa a sé
stante dalla vita, come se la cultura non fosse un mezzo per comprendere ed esercitare la vita.

16. Anni Venti-Cinquanta: dal teatro politico al teatro dell'Assurdo

Nel Novecento vince il cinema come mezzo di comunicazione di massa, il teatro diventa di nicchia.
Ma, anche se ridimensionato, ha delle fiammate intense di protagonismo sociale. Nell'Unione So-
vietica post-rivoluzione viene usato come un'arma politica. Il cinema e televisione sono mezzi fred-
di, il teatro è un mezzo caldo: la presenza dell'attore davanti al pubblico ha una capacità di convinci-
mento alta. Nasce così il teatro agit-prop, non professionistico, con operai e militanti politici che in-
tervengono al di fuori dello spazio teatrale (piazze, cortili ecc.). Sempre in Russia nasce il teatro
per bambini, orientato politicamente, che man mano diventa teatro dei bambini, visto che anche
loro partecipano.
Molti intellettuali russi sono contemporaneamente artisti e militanti rivoluzionari, come il già citato
Maijakovskij, che però arriva a suicidarsi: impossibile avere uno sguardo critico libero alla nascita
dello stalinismo.
Più tragica è la sorte del suo allievo Vsevolod Emilevič Mejerchol'd (1874-1940). È lontano dal
gusto naturalistico-ottocentesco del maestro. Lui è dentro le Avanguardie Storiche, sperimentatore
registico, inventore della Biomeccanica, sorta di training che valorizza la corporeità dell'attore di
contro al vecchio teatro di parola. La sua adesione alla Rivoluzione era genuina. Era il fautore del-
l'Ottobre teatrale, equivalente artistico della Rivoluzione d'Ottobre. Finirà fucilato durante le pur-
ghe staliniane. Il Teatro d'Arte era un'istituzione privata. Lenin decide di finanziare con i soldi stata-
li dei Soviet il Teatro d'Arte. Deve però rimanere almeno neutrale, perché il nuovo pubblico prole-
tario deve essere acculturato. Così l'apolitico Stanislavskij può morire di vecchiaia, il troppo rivolu-
zionario Mejerchol'd no.
In un suo seminario del 1933, quando era già sotto l'occhio del regime, dichiara che “[...] bisogna
essere prudenti con la “rivivescenza”, che dobbiamo entrare nel personaggio senza dimenticare noi
stessi. Nei confronti di ogni personaggio dobbiamo assumere la veste di chi accusa o di chi
difende”. L'attore deve avere un atteggiamento ironico e scettico nei confronti degli avvenimenti cui
prende parte. Deve “denigrare” il personaggio, smascherarlo, per evitare che lo spettatore si identi-
fichi, soprattutto se si tratta di una “canaglia”, col personaggio negativo.
È da qui che parte il tedesco Bertolt Brecht (1898-1956). I venti della Rivoluzione Russa arrivano
anche in Europa, dove è forte lo scontro di classe. In Germania c'è la Lega di Spartaco di Karl Lieb-

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knceht e Rosa Luxemburg. Anche qui compare il teatro agit-prop e il teatro proletario per bambini.
È qui che nasce il teatro politico, altresì detto teatro epico. In tedesco il termine episch ha un carat-
tere tecnico. Deriva dalla Poetica di Aristotele: nel poema epico c'è un narratore che tira il filo del-
l'intreccio. In teatro i personaggi si presentano da soli, senza narratore. Il teatro epico presuppone
una sorta di io epico, che organizza lo spettacolo.
Al regista tedesco Erwin Piscator (1893-1966) si deve il primo tentativo di teatro politico, con Ad
onta di tutto! (1925), che è un montaggio di discorsi autentici, volantini, appelli ecc.
Brecht si oppone all'immedesimazione dell'attore nel personaggio, ma non contro Stanislavskij, del
quale non può conoscere ancora il “Sistema”. Se la prende con Aristotele. Secondo Brecht, se l'atto-
re si immedesima nel personaggio, anche lo spettatore si immedesima. L'attore deve conservare un
margine di distacco rispetto al proprio personaggio; solo così potrà straniare26 lo spettatore, render-
lo estraneo alla rappresentazione. Brecht usa la ragione contro il cuore e il sentimento. Lo spettatore
deve rimanere distanziato per una sua crescita intellettuale e sociale. Con la razionalità lo spettatore
può capire che la condizione umana è trasformabile, ma solo attraverso la lotta politica. La forma
drammatica del teatro (o anche teatro aristotelico) esaurisce l'attività dello spettatore, gli consente
delle emozioni, dei sentimeni. Quello epico ne stimola l'attività, lo costringe a decisioni, a una vi-
sione generale.
Mejerchol'd non ha influenzato Brecht. Sono state le stesse condizione sociali e politiche a scaturir-
ne la nascita. Lo stesso Brecht dice che il teatro epico non può nascere dappertutto, ma solo laddove
ci sono battaglie politiche.
Brecht approfondisce la sua tecnica dello straniamento durante l'arco della sua vita. Per straniare la
rappresentazione usa titoli o cartello anticipatori (se so già cosa vedrò, avrò uno sguardo più
critico); usa canzoni che spezzano il recitativo e commentano i personaggi e le loro vicende. Tutto
ciò che serve per ricordare allo spettatore che si trova a teatro, a impedirgli l'illusione scenica.
C'è un legame con l'analisi marxista del capitalismo. La critica di Marx è scientifica, basata sulla ra-
zionalità, non sull'emotività dello sfruttamento capitalistico. Non bisogna fare appello ai buoni sen-
timenti dei rivoluzionari, ma alla loro capacità critica.
La produzione giovanile di Brecht è espressionista, come in Tamburi nella notte (1919). Importanti
i drammi didattici (La linea di condotta, 1930; L'eccezione e la regola, 1930), composti per il pub-
blico operaio berlinese negli anni dello scontro col Nazismo. Poi ci saranno gli anni dell'esilio, con i
suoi capolavori: Madre Courage e i suoi figli (1939), Vita di Galileo (1938-39), L'anima buona del
Sezuan (1938-40).
Il teatro brechtiano raggiunge il suo apice intorno al '68. Poi, con la caduta del Muro di Berlino
(1989), risulta meno stimolante ed è scarsamente rappresentato oggi.
L'attore moderno deve però conoscere la tecnica dello straniamento, da integrare con l'immedesi-
mazione di Stanislavskij, per poter essere contemporaneamente dentro e fuori il personaggio.
Dagli anni Cinquanta nasce un movimento d'avanguardia opposto al brechtismo, il Teatro dell'As-
surdo, che richiama al dadaismo, con un accento cosmpolita: il romeno Eugène Ionesco (1912-
1994), trapiantato a Parigi scrive in francese; l'irlandese Samuel Beckett (1906-1989) scrive sia in
inglese che francese. Il Teatro dell'Assurdo esprime il disagio di un civiltà che ha vissuto drammi
prima inimmaginabili, come la Shoah o la bomba atomica. Sono artisti che si soffermano più su
grandi temi esistenziali, come la solitudine, la falsità dei rapporti sociali, la morte, l'insensatezza del
vivere (l'assurdo, appunto). Tutto ciò è accompagnato da un'ironica messa in discussione del lin-
guaggio e destrutturazione della forma teatrale.
È del 1950 l'anti-pièce, ovvero “anti-commedia”, La cantatrice calva di Ionesco, ambientata nel sa-
lotto borghese dei coniugi Smith, stereotipati rappresentanti dello spirito inglese, dove si rinforza la
parodia dei luoghi comuni della comunicazione sociale.
Beckett si rivela nel 1953 con Aspettando Godot, composto tra 1948 e 1949. In una strada di campa-
gna due vagabondi, Estragone e Vladimiro, aspettano un misterioso Godot, che però non arriva. Nei
due atti del testo non succede praticamente niente. Ciò che emerge in primo piano non è l'oggetto
dell'attesa, ma la condizione dell'attendere, l'inutilità dell'esistenza umana, come aspettazione senza

26 Brecht usa il sostantivo tedesco Verfremdung.

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scopo, lungo preludio alla morte. Nel primo atto l'attesa è interrotta da un losco figuro, Pozzo, che
tiene legato con una corda Lucky. Nel secondo atto, che si svolge il giorno dopo, Pozzo è diventato
cieco e Lucky muto. Vladimiro chiede con insistenza quando è accaduto, e soprattutto in così poco
tempo. Al che Pozzo risponde che il concetto di “quando” è insensato: un giorno si nasce, un giorno
si muore.
È la rivelazione del senso della vita, che è puro accidente, dove si può diventare ciechi e muti in un
giorno, come nascere o morire, appunto. Il significato di Aspettando Godot è nell'incrocio dei quat-
tro personaggi: due che aspettano la fine della vita, due che subiscono le metamorfosi della vita.
Nel Teatro dell'Assurdo l'atto unico è una concentrazione drammatica che coglie l'essenza di una
condizione esistenziale. In Beckett, la concentrazione temporale corrisponde a un processo di re-
stringimento spaziale: in Finale di partita (1956) Hamm è immobilizzato al centro della stanza e i
suoi genitori immersi in due bidoni della spazzatura. In Giorni felici (1961) la protagonista è inter-
rata fino alla vita, arrivando ad avere solo il viso fuori.
Il teatro di Beckett è un'implacabile metafora sull'esistenza umana: aspettare la fine della vita con li-
mitazione crescenti, fino alla perdita della parola, fino al silenzio. Attesa mutilazione silenzio è il
triangolo beckettiano.
In un trentennio ci sono due visioni così diverse del teatro e del mondo. Una che vuol usare il teatro
come arma per abbattere la società capitalistica, l'altra come dolorosa riflessione sull'assurdo della
condizione umana.

La Biomeccanica

Avviata da Mejerchol'd a partire dal 1913 (ma il termine è del '22), è un training che precede la reci-
tazione. Cuore dell'allenamento sono gli études, delle partiture fisiche, che si basano sul ritmo terna-
rio (un piede lungo e due brevi) del dattilo (daktil), scandendo le fasi di fermo, preparazione e azio-
ne. Riporta l'attore alla poetica corporeità, inducendolo a lavorare sul proprio corpo-macchina come
una meccanico. Si è cercato di definire la Biomeccanica con una formula: N (l'attore) = A1 (il cer-
vello da cui parte il compito) + A2 (il corpo). Una volta che sarà concentrato e coscientemente pa-
drone dei propri movimenti, l'attore potrà liberare le proprie emozioni.

17. Secondo Novecento italiano: l'avvento (tardivo) della regia e tardi epigoni del Grande
Attore

In Italia si comincia a parlare di regia solo a partire dal 1932, quando Silvio D'Amico conia il termi-
ne “regista”. Il motivo del ritardo è complesso. La regia si afferma, con molta fatica, lottando contro
l'insubordinazione degli attori. Ma l'Italia è il paese del Grande Attore, della Commedia dell'Arte,
cioè ha alle sue spalle una tradizione di protagonismo attorico. La caratteristica dell'attore italiano è
di tramandarsi di padre in figlio (i figli d'arte). Non c'è scuola di teatro. L'apprendistato è la bottega
teatrale del genitore. Non c'è attitudine a stare sotto padrone, ad accettare la disciplina. In Italia, per
farsi valere, il drammaturgo deve farsi egli stesso uomo di teatro, capocomico, come Pirandello.
Innovatore della scena italiana è Silvio D'Amico (1887-1955), giornalista teatrale. Con l'aiuto del
fascismo fonda nel 1935 l'Accademia Nazionale di Arte Drammatica. Aveva capito che l'Italia pote-
va mettersi al passo con l'Europa rinunciando al teatro del Grande Attore, promuovendo il teatro di
regia, dove gli attori sono disciplinati ed educati. Non più figli d'arte ma attori diplomati all'Accade-
mia.
Per D'Amico la regia è comunque un'attività al servizio dell'autore. Diffida di quelle che gli appaio-
no licenza registiche troppo disinvolte. Si dissocia infatti da una dei fondatori della regia italiana,
Luchino Visconti (1906-1976). Visconti elimina il suggeritore e impone lunghe prove a tavolino
(dieci-quindici giorni) e una durata complessiva delle prove allora scandalosa (fino a quaranta gior-
ni). Nel 1946 nasce la compagnia di Rita Morelli e Paolo Stoppa, diretta da Visconti, da dove esco-
no Rossella Falk, Romolo Valli e Marcello Mastroianni. Visconti esalta Vittorio Gassman nell'Ore-

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ste di Alfieri (1949).


Nel 1952 realizza La locandiera, che D'Amico critica, erroneamente, dicendo che il lavoro di Gol-
doni non può essere rappresentato in chiave di realismo. Ma un autore non è mai interpretato una
volta per sempre. L'opera d'arte ha una pluralità di significati, e la critica (quella intelligente) consi-
ste nel mettere a fuoco dimensioni prima occultate. Visconti prova ad ambientare il primo atto e par-
te del secondo in esterni, nel cortile della locanda. Le vicende private si fanno pubbliche, rinviano
alla città reale che si intravede oltre il muro del cortile. E quel cortile è squallido, disadorno. Tutto è
semplice: dalle sedie al vestito di Mirandolina. Nel terzo atto c'è un interno, ma che è ancor più mi-
naccioso. C'è un armadio aperto, da dove si intravede biancheria piegata. Due corde tagliano la sce-
na, reggendo biancheria di vario genere, ma con un impoetico mutandone da donna. Una cesta al
centro da dove escono panni da stirare ed una tavola da stiro. Tutto rigorosamente bianco. Siamo
nella stireria, collocata nella parte alta dell'edificio. Dalle finestre si vede la città, ma questa volta in
basso. La vicenda privata di Mirandolina e dei tre lestofanti aristocratici è raccontata in un rapporto
dialettico coerente con il sociale, con la comunità, con la storia. L'orgia di bianco rimanda al mes-
saggio di pulizia, ordine ed efficienza. La locandiera non è una cocotte. Nel primo atto è con la ce-
sta sotto braccio e nel terzo col ferro da stiro in mano. Il grembiule è la sua divisa: padrone del loca-
le, ma lavoratrice in prima persona, per dare l'esempio ai salariati.
D'Amico contesta la licenziosità di Visconti, ma non tiene conto che anche la stesura di Goldoni
non è esente da doppisensi e allusioni oscene.
Il filo conduttore della regia italiana nel secondo dopoguerra è il realismo, con Goldoni che ne di-
viene la bandiera, a cominciare da Giorgio Strehler (1921-1997), fondatore nel 1947 del Piccolo
Teatro di Milano. Nel 1947 comincia con uno spettacolo goldoniano, Arlecchino servitor di due pa-
droni, ma è un testo che esalta la corporeità e il funambolismo della Commedia dell'Arte. Con la
Trilogia della villeggiatura del 1954 (poi rifatta nel 1978) si allinea alla linea di lettura storicistica.
Non più personaggi graziosi settecenteschi, ma un ceto borghese al tramonto, squassato da una crisi
politica, morale e intellettuale.
Strehler è un artista complesso. Riscopre capolavori del naturalismo dialettale ottocentesco, come
El nost Milan di Carlo Bertolazzi (1870-1916) e divulga Brecht, con Vita di Galileo nel 1963.
La Trilogia è una storia d'amore infelice, perché Giacinta è promessa sposa a Leonardo, ma ama, ri-
cambiata, Guglielmo. Nelle Avventure... siamo in un boschetto, dove Giacinta si è appartata, inse-
guita da Guglielmo che vuol sapere se lei lo ama o no. Arriva Leonardo e, come scusa per troppa in-
timità, Giacinta gli dice che sta organizzando il matrimonio di Guglielmo con la sorella di Leonar -
do, Vittoria, mettendo fine ad ogni sviluppo del suo amore con Guglielmo. Strehler rispetta la scena
immaginata da Goldoni: spazio all'aperto, una tavolata. Prosciuga un po' il testo goldoniano, ma ne
conserva le linee portanti.
Nell'edizione del 1978, con attori francesi, rinforza ulteriormente la dimensione sentimentale dell'o-
riginale, con un linguaggio più melodrammatico, introducendo l'idea di “vero amore” che manca nel
razionalista Goldoni. Ma il copione è il punto di partenza. L'attore, insieme al regista, lo rielabora
con la gestica nel momento in cui va in scena, come per esempio quando Giacinta dice “il vero
amore sarebbe stato ben altra cosa”, accompagnando la battuta con la caduta di due tazzine da caffè,
che indicano la coppia che non può amarsi.
L'attrice francese ha sempre gli occhi umidi di pianto, ma conserva la sua grazia e la sua eleganza
settecentesca. Confessa a Guglielmo il suo amore, ma rimane rigida, senza slanci del corpo. Abbas-
sa gli occhi, per pudore. E Guglielmo è sulla stessa linea, mantenendosi a una distanza ragionevole.
La passione resta sotto il controllo della ragione, come impone la civiltà del Settecento.
Mario Missiroli (1934-2014) firma una Trilogia nel 1981. Innova la scenografia: nessuna ambien-
tazione realistica, solo un palcoscenico circolare, vuoto, inclinato verso gli spettatori, dove i servi
introducono qualche sedia. Nella scena del boschetto compare una cancellata sullo sfondo dove, al
di là, stanno Giacinta e Guglielmo, dunque al di fuori dello spazio domestico. Missiroli sopprime il
monologo di Giacinta, troppo sentimentale. Impone, invece, un segno stilistico molto netto: Gu-
glielmo prende per un braccio Giacinta e la spinge contro il cancello, con la faccia rivolta verso il
pubblico, per tutto il tempo che lei fa all'amato.

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È una fotografia cruda, che suggerisce l'idea di un rapporto carnale ma bestiale. Quando duce per
due volte “vi amo”, lo fa urlando, come se fosse un orgasmo. E Leonardo arriva mentre loro sono in
quella posizione. Arriva su una melodia che contrasta la violenza dell'immagine. Musica sentimen-
tale nel momento che Leonardo scopre il tradimento. Giacinta si sottrae a Guglielmo e entra verso
Leonardo. Lui tenta di baciarla, ma lei si gira, perché non lo ama. Anche lui non la ama, ha solo il
senso del possesso sulla donna. Infatti la bacia sul collo, quasi coi denti, come un marchio per riven-
dicarne il possesso.
Massimo Castri (1943-2013) firma la sua Trilogia nel 1995-96, in tre distinte serate. Anche lui la-
vora sulla scenografia, ma con meno senso di astrazione rispetto a Missiroli. La scena del “boschet-
to” è ambientata dentro la casa di campagna, ma che diventa un po' espressionistica, con mura della
casa altissime, come se il cortile fosse una prigione. Nel cortile ci sono grandi lenzuola bianche ad
asciugare (omaggio a Visconti), dove vanno ad amoreggiare due ragazzetti, non previsti in scena da
Goldoni. A Castri servono per far capire che la scena tra Giacinta e Guglielmo è origliata da qualcu-
no. Anche Leonardo si trova a origliare la stessa scena, ma da dentro casa.
Castri applica a Goldoni le chiavi interpretative che usa per i suoi autori preferiti (Ibsen e Pirandel-
lo), dove la dimensione dell'origliamento è fondamentale.
Il duetto d'amore è emozionale, non c'è la grazie e la freddezza di Strehler ma neanche la brutalità di
Missiroli. Il Guglielmo di Castri mette Giacinita con le spalle al muro, ma lei si sottrae con dignità,
non vuole venire meno alla parola data, come in un contratto. Leonardo entra in scena determinato,
sorpreso ma non indispettito. In Strehler era inerte, ma perché era fedele a Goldoni. Missiroli e Ca-
stri fanno in modo che Leonardo si renda conto del tradimento. Il Leonardo di Castri sa dell'amore
tra i due, ma deve far finta di non sapere, perché è rovinato economicamente, e deve sposare quella
donna, anche se lei non lo ama.
In Castri la dimensione sociologica è un primum. Lavora sulla psicologia dei personaggi, sullo stra-
to profondo, nascosto nel testo, ciò che lui definisce il sottotesto. Luca Ronconi (1933-2015) è
meno coinvolto su questo piano. Percorre i camminamento di uno sperimentalismo sfrenato, relati-
vo alla dimensione spaziale-comunicativa. Come l'Orlando Furioso di Ariosto, adattato col poeta
Edoardo Sanguineti (1930-2010), nel 1969 a Spoleto, con azioni simultanee su molteplici palco-
scenici e spettatori liberi di muoversi di qua o di là. O a Gli ultimi giorni dell'umanità di Kraus, al-
lestito al Lingotto di Torino nel 1990, con treni e macchine belliche. Rispetta anche lui alla lettera il
testo, ma lo sua come stimolo per la sua mise en espace.
Nel 2007 realizza Il ventaglio, un'opera tarda di Goldoni, scritta in Francia e mai piaciuta ai goldo-
nisti ufficiali. Goldoni costruisce una strana storia: alla borghese Candida cade un ventaglio dal bal-
cone. Il suo amato Evaristo gliene compra uno nuovo e chiede alla contadinella Giannina di portar-
glielo. Ma Candida vede tutto da lontano e pensa ad una tresca tra i due. Di qui una serie di equivoci
ma con il consueto lieto fine: i due si sposano e Giannina sposa il suo amato calzolaio. I ricchi con i
ricchi, i poveri con i poveri. Ronconi però carica le scene in cui Evaristo e Giannina vengono a con-
tatto.
Ronconi ha colto la qualità del simbolo erotico del ventaglio. Goldoni si lascia scappare una battuta
laida, quando Giannina si pavoneggia col ventaglio di Candida. La bottegaia Susanna, che detesta
Giannina, dice che “ci si deve rinfrescare”, proprio sotto. Infatti l'attrice di Ronconi allarga le gam-
be e fa aria all'oscuro oggetto del desiderio. In Goldoni il ventaglio serve a sventagliare il sesso
femminile, a placare la bramosia. È un arnese connesso alla concupiscenza. Candida lo lascia cadere
perché non si sente concupita. Ha un corteggiatore troppo spirituale che si sottrae al contatto. A
Candida cade il ventaglio quando Evaristo dichiara di andare a caccia da solo, perché il Barone non
ne ha voglia. Il Barone è un suo rivale in amore, e così gli lascia spazio libero. Nel testo di Goldoni
si capisce, con le didascalie, che non solo Evaristo pianta in asso Candida, per andare a caccia. Ma
anche nel breve momento del commiato non si dedica alla donna, bensì agli strumenti di caccia.
Ronconi afferra il filo goldoniano e lo sviluppa. Nella scenografia il terrazzino su cui stanno Candi-
da e la zia Geltruda è sul lato sinistro, mentre Evaristo parla sul lato destro, dando le spalle alle due.
Evaristo, nella sua casa di campagna nel milanese, ha come fattore il fratello di Giannina, Morac-
chio. Si capisce che tra i due c'è amicizia sin dall'adolescenza, e che Evaristo ha un'inconscia attra-

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zione per Giannina, la quale è fortemente attratta dal calzolaio, ma non può non essere, al tempo
stesso, lusingata dalle attenzioni del padrone. L'attenzione di Evaristo si capisce in un dialogo ini-
ziale, prima ancora della caduta del ventaglio. In questa scena c'è un movimento di istintiva com-
passione del signore per Giannina, che è anche un movimento letterale, visto che le se avvicina, in
funzione protettiva (usando “povera” e “poverina”). Affiora anche un'attenzione all'esistenza di
Giannina, costantemente maltrattata dal fratello. Le battute del Barone e di Candida mostrano senza
dubbio che c'è qualcosa di ambiguo tra Evaristo e Giannina. Il Barone ne approfitta rivolgendosi in-
fatti a Candida, perché vuole usare la faccenda come leva per scalzare Evaristo dal suo cuore. Evari-
sto non è affidabile come marito. E anche Candida se ne rende conto.
Se il regista è colui che interpreta il testo, Ronconi e Castri sono gli esiti più alti della regia, a livello
mondiale. Il teatro di regia è la grande novità della scena italiana del secondo Novecento, insieme
alla fondazione dei teatri pubblici (detti anche teatri stabili).
In Italia e in Europa si riconosce il valore culturale dello spettacolo, e viene incoraggiato col denaro
pubblico. Sono gli stati totalitari (Italia, Germania e Russia) i primi a sovvenzionare la cultura, pro-
prio per la sua natura di mezzo di propaganda.
Le nazioni democratiche, invece, per la loro inclinazione liberistica, preferiscono che le Stato resti
neutrale di fronte all'iniziativa privata. Comunque, dopo la crisi del '29, la situazione cambia. Si ca-
pisce che un intervento statale può essere utile per limitare i danni periodici che il capitalismo cau-
sa. Dopo la Seconda guerra mondiale si fa avanti l'idea che la cultura vada promossa. Si afferma la
parola d'ordine del teatro come servizio pubblico.
In questo modo si aprono (soprattutto in Italia) le porte a sprechi insopportabili, per far fronte alle
clientele dei partiti politici. Ai pochi registi artisti si affiancano così registi modesti, sostenuti dalle
raccomandazioni dei politici.
Ne viene fuori una situazione non esaltante, con una ventata portata dal '68, con il fenomeno dell'a-
nimazione teatrale. Il '68 fa rifiorire il teatro per bambini, ma in senso più riformistico che rivolu-
zionario, per portarlo dentro le scuole. Nelle scuole del Centro-Nord si usa il linguaggio non verba-
le del teatro per sviluppare la creatività degli studenti.
Permangono, in maniera marginale, alcune espressioni della tradizione del grande attore, a comin-
ciare da Vittorio Gassman (1922-2000), troppo indocile per il teatro e risucchiato presto nel cine-
ma.
Alla tradizione appartiene il napoletano Eduardo De Filippo (1900-1984), figlio d'arte. Inizialmen-
te è più attore che autore, improvvisa e costruisce canovacci da consumarsi in famiglia. Come scrit-
tore amplia il ventaglio della scena italiana, aprendoci la vita materiale dei popolani e dei piccolo-
borghesi partenopei, collocati in impoetiche camere da letto o nella miseria dei bassi, le caratteristi-
che abitazioni napoletane, a pianterreno, che si affacciano sulla strada. Ma la sua mimica rimane più
indimenticabile della sua drammaturgia, troppo buonista e un po' caramellosa.
Attore/autore è anche Dario Fo (1926-2016), che negli anni Sessanta scrive commedie di mordente
satira politico-sociale, accettate dalla borghesia italiana, forse perché affascinata dalla compagna
Franca Rame (1929-2013). Fo diventa il cantore di una battaglia politica alla sinistra del partito
Comunista e del sindacato, troppo compromessi nel capitalismo. Anche qui la grandezza scenica
prevale sulla scrittura, spesso retorica. Dario Fo lavora teatralmente con tutto il corpo, ed è un mimo
straordinario, insuperabile, offrendo il meglio di se stesso da solista, come in Mistero buffo (1969),
exemplum di one-man show.
Carmelo Bene (1937-2002) è il massimo rappresentante della Neoavanguardia italiana degli anni
Sessanta e Settanta (indicata anche con teatro di ricerca o teatro di sperimentazione), ma con una
distinzione: il nuovo teatro di quegli anni punta sul linguaggio non verbale, valorizzando la dimen-
sione del corpo, del gesto, della scenografia (il teatro immagine). Bene, invece, ha una potenza di
voce straordinaria, portando avanti una sperimentazione sulla phoné, soprattutto dagli anni Ottanta,
quando usa impianti sofisticati di amplificazione. Rimane costante la sua attenzione per il testo poe-
tico. I suoi spettacoli shakespeariani, non sono presentati come di Shakespeare, ma da Shakespeare.
Bene rielabora i testi shakespeariani, portando alle estreme conseguenze la pratica del grande attore
alle prese coi copioni di Shakespeare.

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18. Sciamani e poeti della scena

Abbiamo parlato di industria dello spettacolo, di un processo di mercificazione che pone al centro
di tutto il teatro-prodotto. In opposizione a ciò si determina una reazione opposta, che tenta di ricu-
perare un rapporto reale, di fusione, tra attori e pubblico. Ciò che conta è l'incontro tra attori e spet-
tatori, lo sforzo di coinvolgere la platea, abbattendo la divisione tra pubblico e palcoscenico.
La prima espressione di ciò si ha nel 1959, a New York, con il primo happening. Significa “avveni-
mento” e indica uno spettacolo che rifiuta l'idea di palcoscenico e l'idea che tutti gli spettatori veda -
no la stessa cosa. In molti happenings ciò che vedono certi spettatori è qualitativamente e quantitati-
vamente diverso da quello che vedono altri. Non esiste un luogo deputato allo spettacolo, qualunqua
spazio è adatto. È importante in questa nuova formula la rinuncia all'elemento dialogico, a favore
del visuale, del gestuale, del sonoro, nonché il tentativo di coinvolgere il pubblico.
Lo spazio teatrale diventa una componente dello spettacolo, una sua articolazione. Ogni spettacolo
avrà il suo spazio, sempre diverso. Si fa teatro dappertutto (capannoni, garages, chiese sconsacrate,
per strada ecc).
Nel 1959, sempre a New York, ha successo il Living Theatre, fondato nel 1947 da Judith Molina
(1926-2015) e Julian Beck (1925-1985). Traducono in inglese Il teatro e il suo doppio di Artaud. E
artaudiano è lo spettacolo The Brig (1963) di Kenneth H. Brown (n. 1936), rappresentato in Euro-
pa con grande clamore. Il titolo indica la prigione per i marines indisciplinati, dove vige la legge
della violenza fisica e psicologica. Gli attori danno un'impressione di violenza così forte che devono
scambiarsi le parti ogni sera, per evitare che sempre gli stessi siano umiliati. L'effetto sul pubblico
fu traumatico.
Sulla scia del' 68 si tiene il Festival d'Avignone, dove debutta Paradise Now, l'evento scandalo del
Living. È un'operazione intellettualistica, dove si mescolano cultura ebraica, culti orientali, Zen,
yoga e psicoanalisi di Wilhelm Reich27. Il dato più clamoroso delle Avanguardie è la rottura tra pal-
coscenico e platea, con spettatori che recitano e agiscono.
Il risultato teatrale è meno importante del fatto che un gruppo di persone con gli stessi valori si sia
riunito come una famiglia per fare teatro, creando l'icona della tribù apolide.
Altro sciamano è Peter Brook (n. 1925), che però presenta un percorso professionale diverso. La-
vora sia nel teatro commerciale, sia nelle istituzioni culturali britanniche. Mette in scena Shakespea-
re in maniera geniale ed eclettica, senza una riflessione teorica sul teatro. Per Brook è, semmai, im-
portante Artaud. Nel 1970 è a Parigi, dove fonda il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale, allon-
tanandosi dalle istituzioni. Si lega a Grotowski e comincia a lavorare sullo scavo dell'attore. Decisi-
va la scelta di avere una troupe con elementi che parlano diverse lingue, superando così la barriera
della dizione perfetta. Brook è affascinato dalla ricerca di un pubblico nuovo. Col suo gruppo si esi-
bisce in Iran, in Africa e nei garages o piazze degli Stati Uniti. Nel 1974 si installa in un teatro ab-
bandonato in un quartiere popolare parigino. I classici teatrali lasciano spazio a progetti costruiti
sulla centralità attorica, come Mahabharata (1985), poema epico del pensiero indù.
Il più ascetico interprete di questo rinnovamento è il polacco Jerzy Grotowski (1933-1999), fonda-
torenel 1959 del Teatro Laboratorio. Parte da una riflessione di perdita di identità del teatro rispetto
al potere del cinema e della televisione poi. Ammette l'inferiorità tecnologica del teatro. Il teatro
deve ammettere i suoi limiti e deve evitare
le scenografie, effetti luminosi e sonori ecc.
Solo accettandosi come teatro povero può ritrovare la sua specificità rispetto al cinema. Il teatro è
ricco di qualcosa che il cinema non ha: la presenza viva. “Una volta eliminata la musica registrata,
si scopre che le voci degli attori generano una loro musica”. “Eliminando la scenografia, gli attori
usano solo gli oggetti a cui si sentono più vicini, e l'uso che ne fanno è più forte”. Il teatro può esi-
stere non solo senza apparato tecnologico, ma anche senza testo. La sua produzione implica quasi
sempre dei testi, solo Apokalypsis cum figuris (1969) non ha scittura. In Grotowski lo spettacolo è
costruito a partire dal rapporto con l'attore, e non a partire dal testo. Quello che conta è l'incontro tra

27 Psicoanalista austriaco che cerca di integrare marxismo e psicoanalisi

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regista e attore, e poi tra attore e spettatore.


Alle messinscene del Teatro Laboratorio assistono mai più di una cinquantina di spettatori. La pro-
spettiva antropologica dell'incontro mira alla concezione del teatro come esperienza di vita, che è
lavoro su di sé.
Capolavoro di Grotowski è Il principe costante (1965), adattamento di un testo di Calderón de la
Barca e riscritto dal poeta Juliusz Słowacki (1809-1849). La realizzazione grotowskiana elimina il
contrasto tra religione musulmana e cattolica. L'essenza dello spettacolo si concentra nell'affina-
mento della ricerca sul corpo dell'attore protagonista, Ryszard Cieslak (1937-1990), il più celebre
attore grotowskiano. Grotowski ha ripetuto più volte che per lui era stimolante il momento delle
prove, non dello spettacolo. Infatti lavora mesi e mesi da solo con Cieslak, che solo in un secondo
tempo comincia a lavorare coi compagni e a usare il copione.
L'influenza di Grotowski è sconvolgente, visto anche che la sua produzione dura un decennio, dal
1959 al 1969. Fino alla sua morte, nel 1999, non fa più regia. Si dedica a una lunga serie di esperi-
menti parateatrali, come lavoro su di sé, in un'accezione esoterica.
Allievo di Grotowski è l'italiano Eugenio Barba (n. 1936). Tra il 1962 e 1964 segue, grazie ad una
borsa di studio, l'attività di Grotowski in Polonia. Nel 1964 fonda l'Odin Teatret a Oslo, con attori
rifiutati dalle accademie di arte drammatica. Nel 1966 sposta la sede in Danimarca, a Holstebro. Per
De Marinis è “l'unico vero teatro di outsiders”. In Norvegia non hanno la dizione perfetta, in Dani-
marca hanno problemi di lingua. La risposta a questo handicap è il fare spettacoli non fondati sul
tessuto dialogico.
Nel 1972 debutta Min Fars Hus (La casa del padre), che consolida Barba a livello internazionale. Il
progetto prevedeva un lavoro sulla biografia di Fëdor Dostoevskij (1821-1888), ma l'allestimento
risultò il frutto dell'incontro tra la personalità dello scrittore e il gruppo dell'Odin. Gli attori creano
delle improvvisazioni, durante le lunghe prove, prendendo spunto dalla vita e dalle opere di Dostoe-
vskij. Lo stimolo può essere una sua illustrazione ma anche un'immagine opposta. Ne viene fuori
una ricca partitura che solo dopo il regista corregge e sottopone a montaggio.
Barba attivò la pratica dei baratti, ovvero interventi dell'Odin in zone marginali (Salento, Barbagia,
Perù ecc.), dove offriva spettacoli in cambio di narrazioni attinte dal patrimonio locale. In America
Latina queste azioni si caricano di valore politico, in opposizione alle dittature militari. Nel 1976
lancia il manifesto del Terzo Teatro (tra teatro di tradizione e teatro d'avanguardia), che ebbe ascolto
in gruppi giovanili politicizzati.
Il senso della creatività barbiana è nella sua carica passionale, selvaggia, che ha una vocazione liri-
ca, non drammaturgica. Gli spettacoli non comunicano con il logos, ma attraverso immagini e suo-
ni. È un teatro musicale e intensamente cromatico. Gli spettacoli di Grotowski possono essere ripre-
si in bianco e nero, quelli di Barba no, perdono tutto.
Su una linea diversa è il teatro del polacco Tadeusz Kantor (1915-1990), scenografo di professione
legato al Dadaismo. Il successo europeo arriva tra gli anni Settanta e Ottanta, con La classe morta
(1975) e Wielopole-Wielopole (1980). Qui però siamo più nella dimensione dello spettacolo, non
più dell'evento.
Il dato che più ha sorpreso è la presenza del regista sulla scena. Non con gusto para-attorico, ma
proprio nel ruolo esplicito del regista che controlla i propri interpreti, che li aiuta e li guida. È stato
accusato di narcisismo e di megalomania. Originariamente il regista lasciava visibilità agli attori, li
dirigeva, ma stando dietro le quinte. Kantor scopre le carte: li dirige, ma stando sul palcoscenico. È
regista-autore che attinge direttamente dalla sua biografia.
Questa pulsione autobiografica è meno visibile ne La classe morta ma è clamorosa in Wielopole-
Wielopole, che è il villaggio di Kantor è nato. “Qui ci sono io, non come regista, ma come Tadeusz
Kantor”, dice. L'album di famiglia non ha un accento caramelloso, ma un tono lucido, ironico, stra-
niato fino alla spietatezza. Il privato si allarga al sociale. Ci sono i reduci della Prima guerra mon-
diale ma anche i nuovi fantasmi del nazismo. E immagini religiose, come una croce meccanizzata.
Da notare che prima c'è la musica e dopo le parole, che non contano. La musica nasce dal silenzio,
non è mai immediata. Non musica come colonna sonora per le immagini, bensì le immagini come
prolungamento musicale. Un teatro della memoria che si pone come teatro della musica.

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Wielopole-Wielopole è giocato sull'alternanza di quattro motivi (percussione di bastoni e tabelle,


Salmo 110, la marcia militare Grigia Fanteria, la melodia natalizia di Chopin). Le tabelle hanno un
rumore morto e secco. Il salmo è ricco di metafore belliche e si lega bene con la marcia militare.
L'americano Robert “Bob” Wilson (n. 1941) lavora essenzialmente sulle dimensioni del tempo e
dello spazio, in quelle forme definite teatro immagine, che si staccano da una matrice antropologica.
Nei suoi spettacoli il tempo viene enormemente rallentato. Grazie all'accompagnamento di una mu-
sica a lenta modulazione (trance music), si ha un effetto ipnotico, che determina una dissociazione
tra ciò che si vede e ciò che si pensa.
Wilson recupera la contrapposizione palcoscenico-platea. La scena è plasmata da effetti di luce di
cui Wilson è maestro. Il suo teatro, pittorico, ha bisogno di uno sguardo frontale. Del tutto seconda-
rio il tessuto dialogico, nonostante abbia messo in scena di tutto, da Euripide a Shakespeare, ma
sempre con un profondo taglio e manipolazione dei testi.

19. Teatro del Novecento e teatro eurasiano

Molti grandi maestri del teatro (Stanislavskij, Mejerchol'd, Craig, Artaud, Brecht ecc.) sono rimasti
affascinati dai teatri asiatici.
I teatri asiatici, a livello d'immaginario estetico, hanno nutrito le avanguardie novecentesche, per la
loro arte contraria alla “restituzione della realtà”.
Sono caratterizzati da una fusione di danza, teatro e musica. Come il Kabuki giapponese (ka, canto,
bu, danza, ki, arte).
In India ci sono svariate forme di danza religiosa, riportabili a sacerdotesse del culto di Shiva.
Tra le danze le più note ci sono la Bharata Natyama e la Orissi. La prima è dell'India meridionale,
ed ha una tecnica dove “i piedi tengono il ritmo, le mani raccontano la storia, il volto esprime le im-
pressioni e reazioni della storia”, il testo è intonato da una cantante. La danza Orissi è della zona di
Orissa ed è risorta grazie a Sanjukta Panigrahi (1944-1997), collaboratrice di Eugenio Barba. È
un'esuberanza di gesti e passi virtuosistica, dove il corpo è diviso verticalmente in due metà uguali,
e il peso si distribuisce da una parte all'altra.
Il Kathakali è una forma del teatro classico indiano, della zona del Kerala. È fondato sul canto, la
recitazione, il mimo e la danza, con esecutori maschi, accompagnati da due cantanti e strumenti, su
un repertorio eroico e mitico. La rappresentazione avviene all'aperto e si protrae spesso fino a notte
avanzata. Al pubblico è consentito assistere al trucco e alla vestizione degli attori. I costumi sono
ricchi e simbolici, trasformando gli attori in figure dalle pose e dai passi innaturali. I movimenti dei
piedi, delle mani e le espressioni del volto sono codificati.
L'isola di Bali ha una straordinaria varietà di espressioni sceniche, che va dagli spettacoli di mario-
nette proiettate su schermo bianco, di argomento mitologico e storico, alle danze, che presentano in-
flussi indù e un sottofondo sciamanico e religioso. Queste danze, accompagnate da un'orchestra
(Gamelan) sono state suddivise da un comitato locale nel 1971 in tre categorie: a) sacre, da danzarsi
nel cortile del tempio; b) cerimoniali, da danzarsi nel cortile intermedio del tempio; c) d'intratteni-
mento, che possono essere portate fuori dal tempio.
Il teatro balinese resta un mito per la scena occidentale, soprattutto per Artaud. I teorici si servono
del teatro d'oriente come leva per abbattere le categorie della cultura teatrale a loro contemporanea.
Quella che noi chiamiamo Opera cinese, attiva dal XII secolo, basata su recitazione e canto, va al di
là del nostro concetto di melodramma, sia per le parti mimico-acrobatiche, sia per la specificazioni
dei personaggi in ruoli, costumi e trucchi prefissati. Le compagnie sono, per tradizione, formate da
soli uomini o sole donne.
L'Opera di Pechino prevede una recitazione mimica con canto e improvvisazione, accompagnata da
una piccola orchestra. I quattro tipi riconosciuti dalla tradizione sono: sheng (personaggio
maschile), dan (femminile), jing (faccia dipinta) e chou (buffone). La recitazione, su scene tradizio-
nali, è caratteristica per l'amplificazione e la contrazione dei gesti, oltre che per il virtuosismo acro-
batico.
Il celebre dan Mei Lan Fang (1894-1961) fu in tournée in Russia nel 1935, influenzandone parte

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del suo teatro. Chaplin ne parlò ad Ejzenštejn, Mejerchol'd lo apprezzò e lo straniamento brechtiano
gli deve non poco.
In Giappone troviamo il Noh, che si struttura nel XIV secolo. Gli attori maschi sono mascherati, con
coro di una decina di elementi, e parlano, danzano e cantano, accompagnati da flauto e percussioni.
Kan'ami Kiyotsugu (1333-1384) e Zeami Motokiyo (1363-1444), padre e figlio, contribuirono a
formalizzare il genere. Zeami ha scritto un quinto di tutto il repertorio, le cui trame sono eroiche,
con divinità, spiriti e figure leggendarie. Nel Noh si ha un quadrato con un ponte che collega con lo
spogliatoio, una finta pagoda, una veranda per il coro, sul fondo l'orchestra e un pino nodoso dipin-
to. Il pubblico sta di fronte e a sinistra.
I movimenti sono convenzionali. Lo shite (protagonista) è una visione del waki (deuteragonista28) e
il dramma si sviluppa dal'interrogazione di quest'ultimo e dalla narrazione del primo. A differenza
del teatro occidentale, dove “qualcosa accade”, nel teatro giapponese invece è centrale “l'arrivo di
qualcuno”. Negli intervalli del Noh viene recitato il Kyogen, a smorzarne la drammaticità.
Il Kabuki ha eventi sia drammatici che storici e amorosi, con innesti di cronaca. Nasce nel XVII se-
colo, creato da danzatrici, poi interdette. Conquistò un largo pubblico cittadino, borghese e più po-
polare del Noh. La rappresentazione contempla la danza e il mimo, su una scena caratterizzata dal
tipico ponte, che attraversa la sala fino alla ribalta.
Il Kabuki può avere dei trucchi come le botole, ha una piattaforma rotante e i cambi di scena e dei
costumi avvengono a vista. Gli attori incarnano tipi riconoscibili dal pubblico, possono arrivare a
una trentina e stanno tutti insieme sul palco, usando gesti e segni convenzionali e talora bloccando
l'azione su un quadro significativo. Con il Kabuki ha forti legami il teatro di grandi marionette, il
Bunraku, consolidato a Osaka.
Sono molte le differenze tra i vari teatri asiatici. Ma condividono un nocciolo tecnico. L'attore occi-
dentale non ha un rigido sistema a cui attenersi, mentre gli attori orientali hanno dei codici espressi -
vi ben precisi e tramandati, trasformandosi in tutori della tradizione.
Se questo sembra un limite, si può invece ricavare uno stimolo: la fine della distinzione tra attore e
danzatore. Un impulso a pensare il teatro in termini più ritmici ed energici in senso corporeo che
psicologici in senso intellettuale.
Secondo gli studi di antropologia teatrale di Nicola Savarese e Eugenio Barba, se il teatro asiatico ci
può apparire diverso, contrapporlo a quello occidentale non ha senso. Ci sono parallelismo tra teatro
occidentale e teatro asiatico, sin dal teatro greco e dai mimi romani in poi. Questo scambio si è in-
tensificato nel Novecento, quando il teatro occidentale ha attinto dalle tecniche spettacolari attoriali
asiatiche nel tentativo di rinnovarsi.

20. Il secolo lungo della danza

Nel teatro del secondo Novecento, abbiamo visto che molti registi-sciamani (Grotowski, Barba
ecc.) inseriscono l'addestramento, il training per l'attore, potenziandone la dimensione fisica, impo-
nendo la realtà del corpo attorico al centro della scena.
In questa valorizzazione del corpo il teatro è stato influenzato dalla danza. A partire dall'americana
Isadora Duncan (1877-1927), poco apprezzata negli Stati Uniti, ma fortunata fondatrice in Europa
della danza libera, libera dalle convenzioni del balletto accademico in tutù e punta di piedi. Per la
Duncan la danzatrice si libra nello spazio quasi nuda e scalza, in ascolto della propria spinta interio-
re.
Profetessa della modern dance è l'americana Martha Graham (1894-1991), che rivoluziona i siste-
mi tradizionali di danza e balletto. Rifiuta gli estetismi del balletto accademico e propone un movi-
mento carico di senso e di drammaticità.
È in America che, nel Novecento, si sviluppano quei fenomeni che si definiscono Danza moderna.
Questa è un'espressione generica, in antitesi al classico, ma che include generi molto affini, come la
danza jazz, l'hip-hop, la break-dance, ecc. L'origine è antica e si intreccia con la storia dei neri d'A-
merica, con le loro forme di espressione cantate e danzate, poi istituzionalizzate nella tradizione oc-

28 Il secondo personaggio principale

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cidentale. Quando queste tradizioni, ormai socialmente integrate, si incontrano con le forme teatrali
della modern dance, si formano stili e tecniche che diventano molto popolari, come il musical. Le
danze di strada odierna cercano di continuare questo spirito di protesta sociale e razziale, come ele-
mento di coesione “gruppale” nelle megalopoli post-moderne.
Con danza moderna ci riferiamo anche al movimento di danza d'espressione tedesca che precede la
Seconda guerra mondiale, attribuita a Rudolf von Laban (1879-1958), definito spesso neo-espres-
sionista.
Con balletto moderno ci si riferisce a un utilizzo libero della tecnica accademica, soprattutto al fran-
cese Maurice Béjart (1927-2007) e alla sua produzione, in bilico tra spettacolarità e impegno so-
ciale. In questa etichetta rientrano anche i contemporanei, come l'americano William Forsythe (n.
1949), che ha reinventato il balletto secondo una nuova estetica, ma sempre riconducibile al classi-
co.
Il segno più forte del secondo dopoguerra è senza dubbio il teatrodanza. Traduzione dal tedesco
Tanztheater, fatto conoscere in Italia da Pina Bausch (1940-2009), una rivelazione artistica tra le
più geniali degli anni Settanta e Ottanta.
Il Tanztheater è circoscrivibile a un'area culturale e geografica precisa. Il teatrodanza tedesco parte
dalla Ausdruckstanz (danza d'espressione), attiva negli anni Venti e Trenta, innestandoci il clima
culturale delle avanguardie americane degli anni Settanta.
Negli anni Ottanta il Tanztheater riscopre il linguaggio del corpo, il mito dell'arte totale, di teatro
come luogo dello spettacolo/accadimento, dove non esistono confini di genere. In Café Müller
(1978) i personaggi non sono ben definiti, la narrazione è labile. In un locale, forse un caffè in disu-
so, una donna (la Bausch stessa) si aggira sonnambula nello spazio ingombro di sedie e tavoli. Con
lei uomini e donne (suoi doppi) che intrecciano rapporti ora affettuosi, ora violenti. I danzatori sfila-
no davanti alla protagonista, materializzando i fantasmi del suo vissuto e delle sue sofferenze.
Negli Stati Uniti l'innovazione è rappresentata dalla post-modern dance, che ripensa il medium dan-
za, della figura del coreografo e del danzatore. Le performances si spingono in luoghi alternativi al
teatro: in strada, usa alberi e grattacieli come base d'appoggio, invade le gallerie d'arte. La danza
come liberazione del corpo dall'alienazione del consumismo e del capitalismo. Infatti, negli anni
Settanta, questi coreografi si concentrano su temi come femminismo, pacifismo e minoranze. Usano
il teatro per esprimere le loro idee. Si recita durante le marce di protesta, coinvolgendo direttamente
il pubblico.
Negli anni Novanta si introduce la nozione di danza d'autore. Molti autori rigettano i codici di clas-
sico e modern, proponendo una costruzione di segni che è il portato di una nuova estetica della dan-
za, spesso sintesi delle tendenze che l'hanno preceduta. Il teatrodanza è sempre danza d'autore, e
non il contrario.
Un posto particolare lo ricopre il teatrodanza “povero”, dove l'attore/danzatore esprime contenuti
del vissuto personale, e non estranei. Si usa l'improvvisazione e un duro lavoro di ciascun danzato-
re. È una forma di espressione pre-verbale, in cui anche la parola è vissuta come valore gestuale e
non sonoro. Esponenti sono l'italiana Raffaella Giordano (n. 1961), il gruppo inglese DV8, il belga
Alain Platel (n. 1956).
Oggi la danza vive un profondo disagio. Prima espressione elitaria, adesso si confronta con l'entu-
siasmo facile ed edonistico del mondo giovanile.
Teatro, danza, musica, arte visuale, cinema, televisione e nuovi media sono alcuni degli elementi
del nuovo paesaggio dello spettacolo contemporaneo, dove teatro e danza non si presentano più
come intrattenimento borghese, ma come possibilità aperta a tutti, soprattutto al di fuori dei luoghi
loro deputati (come gli Stabili, le sale da concerto o teatri d'opera).

21. Conclusioni sul Novecento: il secolo delle cinque rivoluzioni

La Prima rivoluzione si ha con la regia. Vero che i padri fondatori sono dell'Ottocento (Stanislav-
skij, Craig, Mejerchol'd ecc.), ma le loro visioni sono novecentesche. La relazione diventa regi-
sta-attore.

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Si ha la figura del regista demiurgo, ovvero un artista pressoché onnipotente che compone l'opera
utilizzando a suo piacimento tutti i mezzi espressivi e tutti i linguaggi della scena, con l'attore posto
sullo stesso piano dello spazio, delle luci ecc. (ne fanno parte Craig, Ronconi, Kantor, Wilson).
Con l'avvento della regia le prove cominciano ad allungarsi, superando la durata dei quattro-cinque
giorni che per secoli erano stata la regola.
Nel Novecento si fa strada l'idea che le prove siano un'esperienza non soltanto artistica, ma anche di
sperimentazione.
La Seconda rivoluzione è la centralità della figura dell'attore, con la nascita di scuole teatrali e degli
esercizi per attori (come la biomeccanica di Mejerchol'd). Anche prima gli attori si allenavano. Ma
adesso gli esercizi entrano in rapporto con il lavoro teatrale nel suo complesso.
Fino all'Ottocento la scuola di teatro era un momento preparatorio alla professione attorica. Nel No-
vecento diventa una dimensione costitutiva e permanente.
Prima gli esercizi attoriali avevano il fine di far acquisire agli attori abilità relative alle parti che do -
vevano fare (esercizi di scherma, di ballo ecc). Adesso si tende a forgiare la personalità e la creativi-
tà dell'attore, trasformandolo da interprete-esecutore a creatore, rigenerando la parte scritta, infon-
dendole nuova vita.
La Terza rivoluzione si ha con la riscoperta del corpo, la Körperkultur, con il corpo al centro dell'at-
tenzione della cultura occidentale.
È la danza la prima a recepire le nuove istanze delle Körperkultur.
Diventa arte autonoma anche il mimo, grazie a Étienne Decroux (1891-1991), con il mimo corpo-
reo.
Questa riscoperta del corpo nasce dall'esigenza di liberare l'attore dalla tirannia del testo, per potersi
esprimere oltre il testo.
La Quarta rivoluzione è il rifiuto verso la centralità del testo, percepito come una tirannia (polemi-
camente testocentrismo).
Si usa il termine di scenocentrismo per definire quel processo creativo che sposta il baricentro dal
testo scritto alla scena e ai suoi linguaggi.
La Quinta rivoluzione riguarda lo spazio scenico, il suo radicale ripensamento. Si rimette in discus-
sione la struttura tradizionale dell'edificio teatrale. Si realizzano nuovi edifici teatrali con un'orga-
nizzazione interna degli spazi diversa da quella all'italiana, come i cosiddetti teatri totali, dove la
scena può essere anche centrale o anulare. Si ristrutturano i vecchi edifici teatrali, per rendere la re-
lazione spettatore-spettacolo più ravvicinata e coinvolgente. Si ricercano spazi non teatrali, come
piazze, strade, parchi ecc.
Non si deve però generalizzare. Il teatro è sempre stato anche fuori dai luoghi convenzionali. La ri-
voluzione è l'aver valorizzato lo spazio teatrale come spazio di relazione e di esperienza.

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