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L’alternativa romantica
Componente alternativa al dramma è quella dettata dal Romanticismo. Nella sua purezza, la grande
stagione del Romanticismo teatrale costituirà più un mito che un modello per le altre drammaturgie
europee, esporterà tensioni morali e teorie estetiche più che tipologie drammaturgiche. Ciò che è per noi
più interessante è la battaglia contro il dramma borghese, perché lì sta la svolta del teatro moderno, in
quella partita decisiva che si gioca tra dramma borghese e tragedia romantica, che ha per posta la
definizione della idea di teatro che dovrà diventare peculiare e distintiva della cultura borghese nella fase
del suo dominio storico. Al dramma stesso come genere, intermedio tra tragedia e commedia, i romantici
tedeschi contrappongono la tragedia pura, alla prosa del dramma l’eroismo anti-sociale, alla compostezza
k0erompere della passione, all’intreccio a più personaggi l’individualismo del protagonista assoluto, al
personaggio come espressione di un ruolo sociale un personaggio nudo nella sua umanità, al riflusso verso
l’interno la predilezione per gli spazi aperti, alla quotidianità l’eccezionalità, alla tensione verso il reale la
tensione verso l’assoluto, all’integrazione nella scrittura drammatica anche della gestualità la potenza della
sola parola poetica. Il ruolo del teatro non più quello di costituirsi a specchio della società; il destino del
poeta tragico è quello di indagare, sotto la pelle della quotidianità volgare, la verità più profonda e intima
che quella pelle nasconde. La critica al realismo diderotiano non potrebbe essere più radicale: il puro
rispecchiamento della natura è volgare e non automaticamente drammatico, per cui al drammaturgo
spetta il compito di riscattare questa volgarità e questa prosaicità non artistica. Il fulcro della nuova
concezione drammatica è il ruolo nuovo affidato al personaggio. Se una delle principali acquisizioni del
dramma borghese era stato il definitivo accreditamento dell’intreccio e della situazione nella funzione di
motore drammaturgico, il Romanticismo nascente accentua sino all’eccesso provocatorio la centralità del
personaggio; è un personaggio-eroe, che nulla deve alle convenzioni del suo tempo e non è un prodotto
della società e dunque è chiamato a rappresentare niente altro che sé e la propria individualità. E’ un
personaggio non di rado in contrasto violento con le norme sociali, impegnato in una battagli per
l’affermazione di sé e per i propri valori assunti come guida assoluta del proprio comportamento.
E’ evidente che questa priorità assegnata alla definizione psicologica e morale dell’eroe comporta per il
poeta il sacrificio dell’equilibrio drammaturgico e dell’intreccio come tessuto, come pluralità di voci che si
integrano. Ma ciò che è evidente è il cambio del rapporto tra personaggio e situazione: il dramma borghese
poneva la situazione drammaturgica e la condizione sociale dei personaggi come fondamento e insieme,
come orizzonte del comportamento: il personaggio in gabbia maturava una coscienza e quindi un
comportamento che erano determinati dalle situazioni. Nulla di ciò nell’universo romantico, nel quale
l’eroe è nudo e assoluto, non determinato da condizione sociale e da gabbie di situazioni convenzionali. Per
i romantici è sempre presente lo scontro tra io e mondo, tra spiritualità pura di cui l’io è portatore e
l’universo concreto delle cose, delle regole e delle convenienze.
Il dramma romantico è come un grande quadro che raffigura non solo le persone e gli atteggiamenti ma
anche ciò che li circonda, dagli oggetti al paesaggio, alla luce. Per questo il dramma romantico, pur dandosi
una struttura, non vuole più di tanto violentare con la forma il flusso della vita, ed accetta che questo
flusso, questa forza, rompa e violenti a sua forza la forma, con cambiamenti di ritmo, digressioni,
cambiamenti di tono, disomogeneità di struttura, incoerenze narrative o psicologiche. Non esiste azione se
non filtrata dalle passioni e dalla volontà, non c’è più il destino a guidare le azioni degli eroi, non c’è più
nemmeno la situazione, la condizione sociale a determinare la conoscenza. Ora, l’azione è la volontà
eseguita, per cui l’individuo drammatico coglie esso stesso il frutto dei propri atti; ecco il grande eroe
romantico, l’uomo solo e nudo, slegato dai vincoli sociali, cui il mondo fornisce solo il contesto ma non il
pretesto per la propria azione, che gli viene invece solo da dentro, soprattutto a quella religione mondana
del cuore che è l’amore.
Filtrato da questi valori dell’individuo, spesso in antagonismo coi valori sociali, il tono del dramma
romantico non può che essere prevalentemente lirico, musicale. Per questo sarà aborrita la prosa in favore
della purezza lirica della poesia, ma soprattutto la forma dell’opera drammatica dovrà tendere ad una
compiutezza assoluta che la allontani dalla condizione di semilavorato verso cui l’aveva indirizzata Diderot.
Il Romanticismo tedesco rifiuta come un compromesso degradante per la poesia l’inglobare nell’opera la
prefigurazione dell’azione scenica, quasi fosse un non credere alla forza creatrice della poesia, un
abdicazione del poeta a favore dell’attore.
La drammaturgia tra le due guerre, fuori dalle rivoluzioni delle Avanguardie, elabora e pratica tutta una
serie di miti, di idee forti che scuotano il dramma dal torpore di una pratica senza sorprese e permettano
alla scrittura drammaturgica di uscire dalla claustrofobica atmosfera del teatro psicologico nel salotto
borghese. Ecco allora il mito del teatro di poesie, che già era del Simbolismo, alla ricerca di una purezza
dell’espressione e di una dimensione simbolica del teatro che sono il contrario della poetica della
rappresentazione della realtà; ecco il mito pirandelliano della trasparenza; ecco il mito della marionetta;
ecco il mito di ascendenza romantica, che parte dal riconoscimento della alterità del teatro rispetto alla
quotidianità, e dunque del dramma come unico o privilegiato luogo dell’autentico; infine il mito del
grottesco, della maschera, del doppio come recupero del rimosso della storia e del vissuto che è
tipicamente espressionista ma anche condiviso da altre esperienze di questi decenni.
Il primo mito, quello del teatro di poesia è il meno praticato in quanto si impone un’idea di teatro che si
impegna a fa presa sul reale. Il ricordo al linguaggio non quotidiano alla scrittura lirica o poetica, alla
dimensione simbolica va verso una direzione che mira al distacco dal mondo, a un recupero della
dimensione religiosa e del travaglio esistenziale e morale dell’individuo. L’interprete più importante di una
concezione del teatro come testimonianza religiosa e come scrittura poetica totale è Paul Claudel, autore di
testi arcaizzanti, imbevuti di un cattolicesimo ortodosso, quasi controriformistico, e quindi alieno alle
inquietudini della cultura cattolica contemporanea.
Molto più pratico è il mito della maschera; questo mito, insieme a quello della scrittura drammaturgica che
si allontana dalla referenzialità immediata del Naturalismo e si rende artificiale proprio per salvaguardare al
teatro la possibilità di avvicinarsi ad un mondo di autenticità, è forse il più praticato in questi decenni. La
drammaturgia ottocentesca ora non solo riacquista ma ipertrofizza il proprio ruolo drammaturgico,
acquistando una funzione epica e smascherando la illusoria pretesa di realtà del dramma. Ma la formula del
teatro epico, nella drammaturgia Novecentesca, compete soprattutto a chi ne ha fatto la propria bandiera
formale e ideologica, ossia a Bertold Brecht. Quella brechtiana è divenuta una delle poche idee di teatro in
qualche modo universali: con lui riprende centralità nel dibattito culturale novecentesco la teorizzazione
del testo drammaturgico come teorizzazione sul teatro; si offrono ora riflessioni sia per una teoria della
scena, sia per una teoria del testo. Ma è il termometro politico a segnare una maggiore o minore
accettazione dell’opera di Brecht, questo perché la dimensione ideologica e politica è in essa fondamentale.
Per Brecht, la società contemporanea non è semplicemente diversa da quelle precedenti, ma ha tanto
accelerato il ritmo delle proprie trasformazioni che è impensabile servirsi dei vecchi strumenti espressivi e
comunicativi. Nella teoria di Brecht il problema è circolare, perché se è vero che la società ha bisogno di
nuovi strumenti, è anche vero che invocando un nuovo teatro si invoca un nuovo ordinamento sociale, per
cui il teatro di questi decenni deve divertire ed entusiasmare le masse. Bisogna presentare opere d’arte che
mostrino la realtà in modo da rendere possibile la costruzione del socialismo. Dunque ora il teatro è uno
strumento di azione sociale. Esso è un teatro basato più sulla narrazione che sull’azione, al cui fondamento
c’è la ratio e non il sentimento, e fa dello spettatore un osservatore, impedendogli le suggestioni emotive e
fornendogli invece argomenti, per costringerlo a prender partito; per questo devono venire offerti diversi
punti di vista sullo stesso argomento e le finalità espressive devono adattarsi di conseguenza. Si impedisce,
con una recitazione straniata, il transfert emotivo; ciò può essere raggiunto anche con l’esposizione di
cartelli, con lo spezzettamento dell’azione, con il non occultamento delle fonti di luci, con una scenografia
spicciola che non punta alla verosimiglianza o con l’uso fondante della musica che interpreta il testo e non
lo esalta. Ma soprattutto con una struttura drammaturgica che trasporti la tensione riguardo l’esito ad una
tensione riguardo l’andamento, ossia che si inneschi il meccanismo consueto di vedere come va a finire per
innescare quello del perché va a finire i quel modo. Per questo Brecht assume a canone fondamentale della
propria struttura non lo svolgimento lineare ma il montaggio, con una costruzione a blocchi in cui ogni
scena si impagini con quella successiva, sfuggendo alla sintesi omogeneizzante della piéce bien faite. I
grandi drammi epici disegnano una drammaturgia a volte scarna e provocatoria, a volte enfatica e
predicatoria, sempre ideologicamente consapevole anche se non sempre vera. Ma la “verità concreta” più
importante che Brecht ci ha consegnato è la non universalità dei destini dell’uomo.”