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La drammaturgia da Diderot a Beckett - Allegri

La nascita del dramma moderno


La battaglia per la riforma del teatro si apre con la critica alla pratica artificiosa e sclerotizzata dei
mestieranti. Intento, il movimento riformatore della seconda metà del Settecento, quello di Diderot e di
Lessing, Goldoni e Beaumarchais, preoccupati di togliere il teatro dal territorio dell’intrattenimento per
guidarlo nel territorio della cultura, apre una stagione tra le più prescrittive e codificate dell’intera storia del
teatro.
Ci sono civiltà, dice Lotman, in cui i modelli di trasmissione della cultura sono forniti dalle grammatiche,
regole che codificano a priori la produzione estetica, e ci sono invece civiltà dominate dalla produzione di
testi, intesi come prodotti di un fare che si tramanda operativamente, senza una teorizzazione prescrittiva
che li fondi: esempio di questo secondo punto è il teatro barocco e del primo Settecento, questo perché la
produzione di testi determina quelle consuetudini e regole non scritte che vanno a costituire l’artigianato
dei mestieranti. Mentre quella illuminata che si affaccia dalle pagine di Diderot è una cultura
grammaticalizzata.
Dunque, contro i testi dei mestieranti e dei professionisti si impongono le grammatiche degli intellettuali e
quindi dei dilettanti, di chi sta istituzionalmente fuori dal teatro: per questi la riforma è prima di tutto
rivendicazione al teatro di una dignità culturale ormai perduta e insieme codificazione delle regole
necessarie per riconquistarla. Inoltre, proprio perché è affare di letterati, la riforma implica una
rivendicazione di superiorità del testo rispetto alle attività spettacolari, unico modo per recuperare la
centralità antropologica che il teatro possedeva nelle epoche antiche. Ora il soggetto sociale dominante dei
testi non è più l’aristocrazia ma la nuova borghesia delle professioni, la quale si muove all’interno di un
nuovo genere, quello del dramma, di cui Diderot è il teorizzatore. In realtà anche la riforma goldoniana può
essere inserita nel medesimo movimento ideologico. A riguardo, Goldoni insisterà sulla novità del tono
drammaturgico e del linguaggio, non solo sulla diversità di contenuti e valori. Caratteristica del dramma è la
ricerca a freddo di un tono mediano, naturale non perché copia della natura ma in quanto media dei
linguaggi e dei comportamenti riscontrabili nella quotidianità. Cifra caratteristica di questo dramma è
quella del tableau, ossia nuova misura della scansione drammaturgica grazie al quale è possibile vedere la
realtà da rappresentare. Questi tableaux sono da preferirsi ai colpi di scena: ciò significa abbandonare
quelle pratiche specificatamente drammaturgiche, che hanno come oggetto l’azione, per affidarsi a una
composizione prevalentemente visiva della situazione. Il quadro è quindi la nuova grammatica della
situazione teatrale. All’interno di questa situazione il protagonista non è più l’uomo in sé, bensì l’uomo
sociale: il dramma dovrebbe portare in scena non individui singoli (anche se portatori di valori universali)
bensì rappresentanti delle tipologie sociali, come le professioni, oppure dei ruoli del privato. Abborrire il
colpo di scena e rinchiudere l’azione in un quadro ha anche una precisa valenza ideologica: vuol dire
bandire l’imprevisto sconvolgente e trovare rifugio tra quattro mura, come quelle della casa borghese; è
l’interno la nuova parla d’ordine. È interno il modo di trattare il personaggio, perché l’accento si pone alla
sua interiorità, ed è interno lo spazio scenico privilegiato, spesso rappresentato dalla famiglia tipica
borghese e cittadina. Il privato diventa anche il luogo in cui l’uomo può liberarsi dalla costrizione dei ruoli
sociali per recuperare una condizione che è quasi naturale, dove è possibile mettere a nudo i propri
sentimenti (chiave del futuro mèlodrame). Il dramma nasce proprio con l’intendo di affermare una sorta di
universalità di sentimenti e di passioni, proprio perché è un genere mediano che rivendica a sé l’intera
gamma sentimentale dei generi tradizionali, almeno per ciò che questi sentimenti hanno di umano. I
personaggi sono sì borghesi, ma esprimono sentimenti e passioni universali, perché solo in quanto tali
possono toccare lo spettatore; e il personaggio agisce secondo impulsi interni, perché prima di una
qualsiasi azione egli è titolare di un suo carattere ed è il carattere che ne giustifica i comportamenti:
l’interno giustifica l’esterno (il movimento è ora dall’interno verso l’esterno). Bisogna quindi partire dal
carattere del personaggio, stabilito il quale l’azione verrà di conseguenza. Il contrasto principale è dunque
quello tra il carattere del personaggio e la situazione in cui esso è posto, poiché il conflitto esige scontro di
è esteriorità, dunque di comportamenti, e solo l’uomo in situazione può produrre questi comportamenti.
La stessa funzione di quadro, di campo d’azione, il dramma moderno le assegna allo spazio scenico, il
salotto, ce da qui in poi costituirà il luogo privilegiato delle azioni drammatiche, è uno spazio solo
apparentemente semplice ma che in realtà è portatore di valenze diverse: esso rappresenta una porzione di
mondo, in quanto porzione della casa, ma insieme anche un modello astratto del mondo, un universo
chiuso che metaforizza l mono e le due dinamiche d’azione. L’universo chiuso del sistema salotto-
palcoscenico diviene tanto assoluto che Diderot, parlando sia ai drammaturghi sia agli attori, arriva a
teorizzare la quarta parete, uno dei cardini naturalistici. Questa dimensione spaziale non verrà meno
neppure quando Diderot, nel “Paradosso sull’attore”, sembrerà rinnegare questo passaggio dal salotto al
palcoscenico e parlerà della scena come di un mondo diverso, che ha bisogno di meccanismi di
amplificazione in cui tutto, dalla recitazione allo spazio ai sentimenti, deve essere riprodotto diversamente.

L’alternativa romantica
Componente alternativa al dramma è quella dettata dal Romanticismo. Nella sua purezza, la grande
stagione del Romanticismo teatrale costituirà più un mito che un modello per le altre drammaturgie
europee, esporterà tensioni morali e teorie estetiche più che tipologie drammaturgiche. Ciò che è per noi
più interessante è la battaglia contro il dramma borghese, perché lì sta la svolta del teatro moderno, in
quella partita decisiva che si gioca tra dramma borghese e tragedia romantica, che ha per posta la
definizione della idea di teatro che dovrà diventare peculiare e distintiva della cultura borghese nella fase
del suo dominio storico. Al dramma stesso come genere, intermedio tra tragedia e commedia, i romantici
tedeschi contrappongono la tragedia pura, alla prosa del dramma l’eroismo anti-sociale, alla compostezza
k0erompere della passione, all’intreccio a più personaggi l’individualismo del protagonista assoluto, al
personaggio come espressione di un ruolo sociale un personaggio nudo nella sua umanità, al riflusso verso
l’interno la predilezione per gli spazi aperti, alla quotidianità l’eccezionalità, alla tensione verso il reale la
tensione verso l’assoluto, all’integrazione nella scrittura drammatica anche della gestualità la potenza della
sola parola poetica. Il ruolo del teatro non più quello di costituirsi a specchio della società; il destino del
poeta tragico è quello di indagare, sotto la pelle della quotidianità volgare, la verità più profonda e intima
che quella pelle nasconde. La critica al realismo diderotiano non potrebbe essere più radicale: il puro
rispecchiamento della natura è volgare e non automaticamente drammatico, per cui al drammaturgo
spetta il compito di riscattare questa volgarità e questa prosaicità non artistica. Il fulcro della nuova
concezione drammatica è il ruolo nuovo affidato al personaggio. Se una delle principali acquisizioni del
dramma borghese era stato il definitivo accreditamento dell’intreccio e della situazione nella funzione di
motore drammaturgico, il Romanticismo nascente accentua sino all’eccesso provocatorio la centralità del
personaggio; è un personaggio-eroe, che nulla deve alle convenzioni del suo tempo e non è un prodotto
della società e dunque è chiamato a rappresentare niente altro che sé e la propria individualità. E’ un
personaggio non di rado in contrasto violento con le norme sociali, impegnato in una battagli per
l’affermazione di sé e per i propri valori assunti come guida assoluta del proprio comportamento.
E’ evidente che questa priorità assegnata alla definizione psicologica e morale dell’eroe comporta per il
poeta il sacrificio dell’equilibrio drammaturgico e dell’intreccio come tessuto, come pluralità di voci che si
integrano. Ma ciò che è evidente è il cambio del rapporto tra personaggio e situazione: il dramma borghese
poneva la situazione drammaturgica e la condizione sociale dei personaggi come fondamento e insieme,
come orizzonte del comportamento: il personaggio in gabbia maturava una coscienza e quindi un
comportamento che erano determinati dalle situazioni. Nulla di ciò nell’universo romantico, nel quale
l’eroe è nudo e assoluto, non determinato da condizione sociale e da gabbie di situazioni convenzionali. Per
i romantici è sempre presente lo scontro tra io e mondo, tra spiritualità pura di cui l’io è portatore e
l’universo concreto delle cose, delle regole e delle convenienze.
Il dramma romantico è come un grande quadro che raffigura non solo le persone e gli atteggiamenti ma
anche ciò che li circonda, dagli oggetti al paesaggio, alla luce. Per questo il dramma romantico, pur dandosi
una struttura, non vuole più di tanto violentare con la forma il flusso della vita, ed accetta che questo
flusso, questa forza, rompa e violenti a sua forza la forma, con cambiamenti di ritmo, digressioni,
cambiamenti di tono, disomogeneità di struttura, incoerenze narrative o psicologiche. Non esiste azione se
non filtrata dalle passioni e dalla volontà, non c’è più il destino a guidare le azioni degli eroi, non c’è più
nemmeno la situazione, la condizione sociale a determinare la conoscenza. Ora, l’azione è la volontà
eseguita, per cui l’individuo drammatico coglie esso stesso il frutto dei propri atti; ecco il grande eroe
romantico, l’uomo solo e nudo, slegato dai vincoli sociali, cui il mondo fornisce solo il contesto ma non il
pretesto per la propria azione, che gli viene invece solo da dentro, soprattutto a quella religione mondana
del cuore che è l’amore.
Filtrato da questi valori dell’individuo, spesso in antagonismo coi valori sociali, il tono del dramma
romantico non può che essere prevalentemente lirico, musicale. Per questo sarà aborrita la prosa in favore
della purezza lirica della poesia, ma soprattutto la forma dell’opera drammatica dovrà tendere ad una
compiutezza assoluta che la allontani dalla condizione di semilavorato verso cui l’aveva indirizzata Diderot.
Il Romanticismo tedesco rifiuta come un compromesso degradante per la poesia l’inglobare nell’opera la
prefigurazione dell’azione scenica, quasi fosse un non credere alla forza creatrice della poesia, un
abdicazione del poeta a favore dell’attore.

L’estetica del mélodrame e la vulgata del romanticismo


Nato in Francia a cavallo tra fine Settecento e inizi Ottocento, il mélodrame è figlio del dramma di Diderot e
del Romanticismo, per via delle sue tematiche e della sua sensibilità.
Il mélodrame è un genere strutturalmente abbastanza particolare; prima della Rivoluzione solo i teatri
patentati potevano rappresentare i testi del repertorio classico e le novità, mentre gli altri potevano
rappresentare solamente spettacoli senza dignità letteraria. Quando con la Rivoluzione questo privilegio
cadde, la riconquista della parola provocò un’esplosione di forme meticciate tra cui i mèlodrames: i teatri
designati a rappresentare i mélo furono tre: la Gaité, l’Ambigu-Comique e la Porte Saint-Martin.
Per quel che riguarda la struttura drammatica, essa non vede iù protagonista un testo letterario pensato a
priori, ma è una forma spettacolare che chiede aiuto alla drammaturgia per completarsi e per classificarsi,
ma che appunto mantiene la spettacolarità originaria, fatta di pantomima, balletto e musica. E
imprescindibili nella rappresentazione sono i tableaux, in specie a fine atto, quando servono a riassumere in
un’immagine composta situazione e stati d’animo dei personaggi. Tutti questi elementi, ogni elemento
spettacolare, si sommano senza integrarsi. Inoltre, proprio perché i personaggi base del mélo sono sempre
gli stessi e la vicenda drammatica senza variazioni, esso può concedersi una struttura ad assemblaggio in cui
l’opera è il prodotto di un montaggio che esplora per lievi mutamenti dei singoli pezzi le infinite varietà
dello schema di base. Il mélo è al centro di una costellazione di significati tutti sostanzialmente negativi,
implicando valori di esagerazione, di contrapposizione manichea tra bene e male senza sfumature, di
esasperazione dei contrasti, di caricamento artificiale delle emozioni e di esibizione sfacciata delle passioni,
di mancanza di misura e di abuso del patetico. E il patetico, appunto, è forse la cifra più importante: ciò che
più conta è lo scarto tra esso e il sublime, quindi tra la rappresentazione di una sofferenza eroica e la
rappresentazione di una sofferenza passiva e inconsapevole. Questa sofferenza passiva e muta è il punto di
convergenza del pathos: il vero eroismo è la sopportazione, non la lotta; e alla fine la vittima vince, ma
vince senza combattere, e con essa vince il pubblico che si è identificato nelle sue sventure, innescando un
meccanismo consolatorio che è la vera forza del mélodrame. Che la macchina del mélo sia una macchina
consolatoria è confermato dalla struttura dell’intreccio drammaturgico. Una situazione felice viene violata
dall’intrusione di un altro, di uno che viene da fuori e porta minacce e tradimenti. Alla fine della peripezia
l’eroina è salva, torna nel proprio spazio iniziale con uno status rafforzato, e quindi l’ordina infranto si
ricompone a un livello più alto: si tratta ovviamente di una struttura circolare, che non risolve lo scontro in
una catastrofe totale o con una vittoria schiacciante, ma ristabilisce l’ordine iniziale, come in una fiaba. E
come nella fiaba ciò che è importante è la funzione e non il personaggio: situazione di stasi iniziale, rottura
dell’equilibrio, peripezia dell’eroe, intervento dei personaggi positivi che aiutano e negativi che ostacolano,
vittoria dell’eroe, punizione degli agenti del male e ristabilimento dell’equilibrio infrante ad un livello che
ingloba l’eroe in posizione forte. Il mélo è il regno del tutto esplicito, della completa e perfino impudica
esteriorizzazione delle forze in campo, siano esse le forze sociali di cui sono portatori i vari personaggi
oppure le forze psicologiche, le passioni, che muovono le azioni degli individui. Queste grandi passioni
risultano evidenti in quanto il mélo esteriorizza l’interno e rende un fatto sociale l’intimità psicologica
dell’individuo.
Il mélo non rappresenta inoltre l’universo borghese ma sostituisce una gigantesca operazione di
orientamento delle masse subalterne uscite dalla Rivoluzione senza più i tradizionali punti di riferimento:
esso sembra offrire al pubblico un universo di nuovi valori, che però non sono altro che i becchi valori pre-
rivoluzioni, proiettati ora in un ambiente contadino, da sempre sede di stabilità conservatrici e certo meno
permeabile di quello cittadino ai frementi rivoluzionati.
Con la nascita dei drammi romantici il mélo si inabissa, lascia la scena a de Vigny e a Hugo, per poi
ricomparire nella seconda età degli anni Quaranta, mutando parzialmente forma e mostrando una validità
che lo farà sopravvivere, come forma drammaturgica popolare ma di grande diffusione, fino al nostro
secolo. Il dramma romantico si innesta direttamente sulla tradizione del mélo, segnando con esso una
rottura solo per alcuni elementi (uso del verso, volontà di letteratura degli autori, il recupero consapevole
di alcune suggestioni del Romanticismo europeo) che non bilanciano i dati di continuità.
Analizziamo l’opera più importante del Romanticismo, l’Ernani di Vicotr Hugo, il quale impose il dramma
romantico sulle scene parigine e scatenò la battaglia tra tradizionalisti e romantici. “Ci sono tre innamorati,
un bandito, sul cui capo pende una condanna a morte, un duca e un re. Tutti spasimano dietro la stessa
donna. Si va all’assalto e chi vince? Il bandito”. Il bandito è Ernani e appartiene in realtà a una nobile casata
a cui erano stati tolti titoli; vince il cuore di Donna Sol ma perde la vita, trascinando nella morte anche la
sua amata per obbedire a un impegno con il duca, che così si endica dell’amore dei due giovani. Il re, don
Carlos, si comporta sempre da villain a alla fine diviene magnanimo e clemente, riconsegnando titoli
nobiliari a Donna Sol ed Ernani. Rispetto allo schema classico del mélo manca il niais, il personaggi sciocco e
buffo, e il quarto personaggio è diventato il duca, entità ibrida. Esso assumerà anche il ruolo i cattivo,
utilizzando per due volte il “tra sé” tipico del traditore del mlo per comunicarci il suo dolore e i suoi
propositi di vendetta: da quel momento in poi tutto continua secondo i canoni tradizionali. Ma la grande
differenza è al finale, dove si ha il richiamo alla struttura catastrofica tipica della tragedia; e se ci troviamo
avanti a una tragedia, allora è essenziale individuare la colpa, la hybris di cui si sono macchiati i personaggi:
essa è quella consueta della tragedia, la rivolta individuale contro il potere, coniugata però con le istanze
strutturali tipiche della commedia, ossia il tentativo dei giovani di imporre i propri valori contro quelli dei
più anziani. L’impianto tragico regge, mentre la rivolta giovanile è perdente, diversamente da quello che
accade nella commedia. In questo c’è influenza del mélo, in quanto p il vecchio mondo che vince: le
peripezie non sono servite a nulla. La differenza sostanziale con il mélo invece è la centralità dell’eroe
maschio, padrone di sé e delle proprie azioni, che lotta nobilmente e nobilmente perde: Donna Sol è solo
un accessorio del protagonista, non più la fanciulla indifesa e innocente del mélodrame.
Non tanto in Ernani quanto in opere successive come Ruy Blas, dopo aver fatto concreta esperienza della
messinscena, le didascalie di Hugo appaiono dettagliatissime, molto moderne nell’intenzione di non
delegare ad altri quella porzione i senso che si costituisce nella messa in scena. Questa ipertrofia della
didascalia segnala non solo l’attenzione agli aspetti della messa in scena ma anche la necessità per l’autore
di pre-scriverla. E’ in questo momento che si pone teoricamente e praticamente il problema della messa in
scena moderna e si innesca quella rincorsa dell’autore a tentare di rinchiudere la messa in scena dentro il
testo, per mezzo delle didascalie, che sono appunto note di regia chiamate a far corpo con il testo.
Per le medesime ragioni, i romantici francesi (sempre sulla scia del mélo), elaborano una consapevole
teoria del pubblico, misurando su di esso i rimbalzi sociologici delle teorie estetiche: Hugo, nella prefazione
a Ruy Blas, riprendere da Benjamin Constant (Reflexions sur la tragédie – 1829) l’elenco degli elementi di
base di ogni drammaturgia (caratteri, passioni, azione), ma ciò che soprattutto gli preme è legarli ad
altrettante tipologie di pubblico (rispettivamente pensatori, donne e massa). Risulta evidente quindi che il
fulcro delle strutture drammaturgiche di Hugo sono le passioni.
Nella famosa prefazione al Cromwell del 1827 Hugo aveva posto proprio il contrasto tra le passioni interne
all’uomo e non il contrasto tra le azioni e nemmeno tra le passioni di diversi uomini, a fondamento della
drammaturgia. I personaggi quindi non sono delle unità ma degli spazi teatrali che mettono in campo
l’opposizione di forze opposte: è per questo che Hugo, e i romantici in generale, usano la commistione di
genere, predicano la compresenza di bello e brutto, alto e basso, sublime e grottesco, questo perché i poeti
sono delegati ad attingere a quella verità più profonda e più autentica della stessa verità di fatto che sta
sotto alla superficie delle cose. Questa consapevolezza di avere, comunque, una missione da compiere, non
solo estetica ma anche sociale e morale, porta tanti drammi romantici al tono predicatorio che è loro
peculiare: ciò che diviene predicatorio e socialmente utile è qui l’intero impianto della piéce, non solo una
morale posta alla fine del dramma.

Tra Teatro invisibile e Teatro teatrale


Intorno alla metà del Settecento, Goldoni e Diderot possono rappresentare i campioni di due diverse
tipologie di drammaturghi: il primo esalta mondo e teatro, il secondo mondo e letteratura. Da un lato
quindi lo scrittore letterato, a tavolino, che scrive un testo a priori e lo consegna i quanto opera alla
letteratura prima che al teatro e non riconosce la necessità della scena; dall’atro lo scrittore-teatrante, che
scrive in diretto contatto con la scena ed è pronto a scendere a compromessi con essa, consegnando un
testo disponibile ad integrarsi con gli elementi dello spettacolo. C’è, in questo periodo e secondo le linee di
questa opposizione, una categoria di teatro invisibile, fatto da gradi letterati ma pochissimo o mai
rappresentato, che di diritto non apparterrebbe neppure alla storia del teatro se non stato riscoperto nel
Novecento. L’opposizione tra teatro invisibile e teatro visibile può in definitiva tradursi anche in
opposizione tra una tipologia semantica e una sintattica, che è la categoria di più diretta pertinenza
drammaturgica. Da un lato, quindi, starebbe la drammaturgia che ricerca prioritariamente un senso che la
travalichi, che si fa i sostanza interprete della concezione del teatro come luogo di elaborazione e di
esposizione di valori; dall’altro, una drammaturgia che costruisce meccanismi, strutture sintatticamente
coerenti che diventano autosignificanti nel delegare il proprio senso primario al gioco ei meccanismi che le
costituiscono. Il dramma semantico è attento soprattutto agli elementi della fabula, alla rappresentazione,
alle situazioni, ai personaggi e agli eventi presentati; mentre il dramma sintattico è attento soprattutto
all’intreccio e l’accento è alla struttura del raccontare e al raccontare stesso piuttosto che al cosa
raccontare. Il teatro invisibile appartiene evidentemente alla prima categoria, mentre il teatro visibile alla
seconda.

Il Naturalismo a teatro e la drammaturgia di fine secolo


Il teorico del Naturalismo è Emile Zola; egli spesso si scaglia contro le convenzioni del teatro, contro le
astuzie dei mestieranti, contro il puro gioco di meccanismo della piéce bien faite, contro la subordinazione
della drammaturgia ai gusti di uno spettatore educato al puro divertimento. Con Zola, le grammatiche degli
intellettuali dilettanti di teatro e custodi della letteratura intraprendono un’azione polemica contro i testi
dei professionisti dello spettacolo.
In generale, il Naturalismo parte dal presupposto teorico che è necessario assottigliare il più possibile il
diaframma tra rappresentazione della realtà e realtà, elaborando tutti gli strumenti linguistici in grado di
rimuovere prima di tutto ogni artificialità. Anche a teatro il Naturalismo trasporta la propria poetica della
tranche de vie, della vita che irrompe nella scena. Anzi, l’operazione può prestarsi a risultati più clamorosi
in quanto si tratta di rappresentare un uomo per mezzo di un uomo.
E’ in questo contesto naturalista che inizia a formarsi quella figura che si connoterà poi come il regista
moderno, il quale ora rivendica l’autonomia della messinscena, pretendendo per essa una patente di
artisticità che la riscatti dalla condizione ancillare in cui l’aveva rilegata quella concezione letterariocentrica
del teatro degli anni passati. Il Naturalismo ora, proprio per la sua pretesa di restare incollato alla realtà,
tendeva a sbilanciare notevolmente il teatro verso la scena rispetto che alla letteratura: il regista però non
ha mai istituito il drammaturgo a proprio antagonista. Il vero nemico degli operatori della scena naturalista
è lo stesso dei drammaturghi, ossia il teatro di convenzione, l’insieme di quelle leggi non scritte che
impongono l teatro uno statuto diverso dalle altre arti. In questo momento le convenzioni che si trovano ad
affrontare sono il compromesso tra la letteratura e spettacolo della piéce bien faite, quella drammaturgia
del meccanismo sintattico che si preoccupa solo di costruire situazioni aggrovigliate per procurarsi il
divertimento di scioglierle.
Quando Zola pubblicò “Le naturalisme au théatre” nel 1881, aspettava ancora l’uomo nuovo in grado i
imporre appunto il Naturalismo a teatro; siamo negli stessi anni in cui l’Europa viene investita da un’ondata
di testi che si rifanno alla poetica naturalista, sia dentro sia fuori la Francia, con Ibsen, Strindberg o ancora
Cechov (anche se è impossibile parlare per tutti di Naturalismo in senso stretto). E’ la struttura
drammaturgica a far apparire unitari i testi di autori diversi; perché quello che continuiamo a chiamare
“naturalista” è il modello di dramma che è rimasto nella cultura corrente come il paradigma della
drammaturgia moderna. In ogni caso, questo nuovo dramma, nella sua ansia di oggettività, nel suo rifiuto
della onniscienza del creatore, non ha bisogno di trarre la morale né di ricondurre la vicenda ad una
univocità di giudizio. Questo significa l’eliminazione non solo di prologhi ed epiloghi ma anche di resoconti
di antefatto, di enunciazioni esplicite di tesi ideologiche o sociali, di tirate e comunque di ogni tatto di
teatralità intesa come ricerca dell’effetto e del diretto rapporto col pubblico. Il dramma naturalista si
costruisce solo sui micro-conflitti che i rapporti interpersonali della società borghese fanno trapelare tra le
maglie di un comportamento sempre civile, dunque si nutre poco di grandi azioni e di ideali e molto di
parole. Questa meccanica strutturale implica la non necessità della figura del raisonneur, perché ciascun
personaggio rappresenta solo se steso e nessuno può farsi personaggio epico, porta-parola dell’autore. Non
c’è più nessuno in grado di giudicare, nessuno è sopra gli altri.
La struttura autosufficiente ed assoluta del dramma porta con sé poi la tendenza a una definitiva chiusura
dello spazio scenico. E’ col teatro naturalista che si porta a compimento l’evoluzione della scena come
spazio mimetico, sovrapponibile allo spazio rappresentato; è quindi la cultura naturalista che teorizza
consapevolmente la praticabilità della linea della ribalta come quarta parete trasparente, attraverso la
quale l’azione si lascia guardare come se i protagonisti non ne fossero consapevoli. E’ questa la grande
lezione di Antoine, che raccomandava di pensare la scena, gli arrendi e i movimenti degli attori come se
dovessero trovare collocazione in una stanza vera, con 4 pareti. Ma è di Jean Jullien la prima teorizzazione
di questa nozione “l’attore […] deve recitare come fosse a casa sua”. Lo spazio chiuso dei drammi naturalisti
è tuttavia diverso da quello della piéce bien faite del dramma sintattico: in quel caso il luogo era un puro
contenitore; nel dramma naturalista invece lo spazio è fondamentale e assolutamente non neutro, perché
deputato a fornire molte delle connotazioni sociali, storiche, geografiche e psicologiche della piéce. A
questo dramma è necessario uno spazio che sia anch’esso una tranche, un frammento insolito dal
continuum spaziale della quotidianità. La stanza deve essere prima una metonimia che una metafora, ossia
una parte – della casa e del mondo – che sta per il tutto, e solo secondariamente un’immagine del mondo,
un modello dell’universo sociale. E’ questo sguardo scientifico e quasi meccanico che viene alla
drammaturgia naturalista a indicare il tono caratteristico della piéce, che è quello di indagine e di denuncia
sociale. In questo contesto si muove anche un nuovo personaggio; nella modernità esso non ha più un
destino, non i scrive più la propria esistenza in un orizzonte teologico, non lotta contro forze super-umane.
Quello del drama naturalista è un universo totalmente de-sacralizzato, sena un progetto divino e senza un
Fato che incombe, in cui l’uomo è padrone di sé e dei suoi comportamenti e ciò che sconta sono solo due
colpe, o meglio solo i suoi errori. In questo scarto tra colpa ed errore, o comunque atto che comporta
conseguenze, sta tutta la differenza della drammaturgia naturalista, come sottolinea Strindberg – La
signorina Julie – “Il naturalista ha scacciato Dio dall’universo e, con ciò, ha eliminato la colpa; se non che le
conseguenze di un’azione, ossia la pena, la prigione o soltanto la paura di essa, il naturalista non potrà
cancellarle, per il semplice motivo che esse permangono; sia che egli le assolva oppure no”. E’ quindi la
conseguenza sociale delle proprie azioni l’unica condanna che rimane al personaggio del teatro
contemporaneo. Il personaggio moderno è visto come un prodotto delle circostanze, un collage di impulsi e
di influenze sociali, è molto più il risultato delle proprie azioni che non la loro causa. Stiamo parlando quindi
di un personaggio contraddittorio, fratto ma come costruito con residui, senza comunque la grandezza
delle scissioni psicologiche dei personaggi tragici, e infatti raramente eroico o positivo: a lui sono vietate
non solo le grandi passioni ma anche gli sconvolgenti conflitti tra eccezionalità e norma, tra individualità e
struttura sociale, tra grande sentimento e regola di morigerata continenza.
La situazione che il dramma di fine Ottocento descrive è ormai quella di una rete di rapporti e di condizioni
che disegnano la definitiva presa di potere dei valori borghesi, ma di quei valori ormai stabilizzati nello
Stato solido di cui parlava Zola. La famiglia in primis, come centro dell’universo sociale, come fulcro di ogni
possibile relazione e dunque come sede principali di conflitti. Per questo sono assolutamente primari i
problemi che nascono all’interno della famiglia borghese (Ibsen, Cechov, Strindberg). Ma accanto a quello
della centralità della famiglia, l’altro tema fondante della drammaturgia naturalista è il problema del ruolo
sociale. Gran arte della vita scenica di questi personaggi si consuma in quella sorta di imperativo sociale
quasi senza discussioni che è la battaglia per la carriera nella professione e per la conquista di una posizione
che consenta una adeguata esponibilità sociale. Spesso il conflitto tra conseguimento del ruolo sociale e
prezzi personali da pagare, primo tra tutti la rinuncia all’amore, e più in generale tra la maschera
comportamentale da esporre in società e un universo di sentimenti censurato è centrale. Ma dietro a tutto
questo, la maggior parte delle volte, c’è il denaro come molla, come desiderio, come pietra di paragone
insomma come valore principale.

La poetica del Simbolismo e la crisi della rappresentazione


Anche l’ascesa simbolista si apre con una polemica contro le convenzioni: questa volta a parlare è Stéphane
Mallarmé e si tratta di una battaglia contro il professionismo della scena da parte di un letterato che
rivendica il proprio dilettantismo, da un lato proclamando la propria incompetenza su ciò che non sia
l’assoluto, e dall’altro dichiarando disinteresse per l’uso attuale del teatro. Ma non è più il valore della
realtà o della verità a teatro a fornire il grimaldello ideologico per l’attacco alle convenzioni, è semai il mito
opposto, che individua la scena come luogo di poesia e del sogno – la scena Simbolista quindi.
L’opposizione al Naturalismo è palese e totale è il rifiuto della piéce ben faite; non si tratta di sostituire una
pratica teatrale da un’altra, bensì di contestare alla radice l’idea di teatro che la storia moderna ci ha
consegnato, con le sue convenzioni sceniche, il professionismo dei suoi interpreti, la materialità dello
spettacolo. Solo dichiarando la propria estraneità a tutto questo il teatro potrà tornare ad essere ciò che
dovrebbe essere, un pretesto al sogno. La rivendicazione di estraneità e di dilettantismo è tanto più
radicale in quanto i protagonisti e i teorizzatori del teatro simbolista non sono drammaturghi ma poeti, o
magari artisti figurativi che sperimentano quel processo di colonizzazione del teatro da parte delle altri
contigue che sarà uno dei segni distintivi delle Avanguardie storiche.
La critica simbolista si rivolge non tanto alla letteratura drammatica del Naturalismo quanto alla condizione
degradata, perché povera di poesia e di mistero, cui la poetica naturalista ha costretto la scena. Il
movimento si connota come ampiamente anti-spettacolare e non ha dubbi sul fatto il signore del teatro
debba essere il poeta. Rifiuto del teatro-spettacolo a favore del teatro-scrittura, ma anche tensione verso la
scena come luogo privilegiato di un assoluto possibile. La stessa scrittura poetica dei simbolisti è del resto
sempre uno spazio teatrale, luogo della visione e insieme scena di auto-rappresentazione, dell’Io che dà
spettacolo di sé.
Se il teatro saprà essere quella maestosa apertura sul mistero che Mallarmé indica bene; altrimenti meglio
rinchiudersi in quella sublimazione del teatro che è la scena interiore, scevra da compromessi e da
mediocrità. Sta soprattutto qui, in questa rottura di continuità, il vero portato di contemporaneità del
Simbolismo. Questa radicalità nuova è infatti il primo segno del continuo rilancio massimalista che
caratterizzerà la cultura della crisi tra i due secoli: o tutto o niente, o purezza assoluta o rinuncia. Esempio
perfetto di questa posizione è la dichiarazione di poetica di Konstantin Trepliov, nel primo atto de Il
Gabbiano di Cechov, sfogo estetico-esistenziale che è urlo di rivolta contro le convenzioni del teatro
borghese e la poetica naturalista e insieme regolamento dei conti nei confronti della madre. “Io disprezzo il
teatro […]; quando con mille varianti mi si porta in tavola sempre la stesa cosa, la stessa cosa, io scappo,
scappo! […] ci vogliono nuove forme. Se non si trovano, allora niente, meglio niente”. D’altra parte Cechov
rifiutava il naturalismo alla Zola e il realismo, e le sue atmosfere dai toni tenui, il caricamento simbolico di
atti, oggetti, rumori che acquistano un significato che trascende la loro dimensione di rispecchiamento della
realtà quotidiana, il raggelarsi o l’impigliarsi di un’azione drammatica che tende a volte alla stasi, lo
slittamento del senso del piano dell’aione a quello del ricordo, del sogno o del desiderio.
Al contempo, modello del Simbolismo è il teatro di Ibsen. Dell’autore ai simbolisti piaceva quel senso che si
nasconde dietro e tra i fatti, quel significato nascosto dietro l’apparente oggettività di testi che sono
disseminati di indizi di questa realtà altra quasi fossero polizieschi.
Ma è chiaro che quando il Simbolismo imposta la propria battaglia culturale a favore delle nuove forme
anche a teatro, intorno al 1890 a Parigi, le suggestioni ibseniane sono sincronizzate con altri punti di
riferimento, più radicali nel rifiuto della poetica della riproduzione della realtà quotidiana. Dei molteplici
modelli possibili parliamo ora della figura che tratta delle suggestioni della teatralità possibile, ossia
Wagner. Egli è pur sempre il difensore di una necessità di realismo a teatro ma è anche il teorizzatore di
una sensibilità nuova, affidata alla irrealtà della leggenda, del mito, del mondo onirico, colui che teorizza il
teatro come opera d’arte totale, inducendo quei fenomeni di sconfinamento, di sovrapposizione, di
fecondazioni reciproche tra le arti che saranno uno dei punti cardine della contemporaneità. A dispetto
della volontà totalizzante teorizzata con la Gesamkustswerk, del teatro come sintesi di arti, Wagner è anche
l’iniziatore della poetica contemporanea del dissolvimento dell’unità organica dell’opera che porterà
all’estetica del frammento. Non poco del mondo wagneriano è quindi vicino alle nuove istanze dei
simbolisti, ma non poco è loro lontano, soprattutto perché Wagner è troppo corposamente teatrale, troppo
compromesso con le convenzioni dello spettacolo per una poetica che privilegia sopra ogni cosa la scena
interiore disincarnata da ogni materialità spettacolare. E infatti ai simbolisti non interesserà tanto il Wagner
teatrante quanto il Wagner musicista. Ciò che importa saranno le valenze drammaturgiche della musica,
che serviranno ad un movimento sintetico e musicale come il Simbolismo, con un’inversione che a quel
punto sembrerà legittima, per rivendicare la potenzialità musicale della parola drammaturgica; perché,
come non poteva non essere per Wagner, è la parola il punto di partenza e il centro della poetica
simbolista. Si tratta di una parola che non designa e non riconosce il reale, che non nomina le cose per poi
riconoscerle, che non è dialogo che fa progredire l’azione e che non appartiene al personaggio ma al poeta.
Perché è la stessa nozione di personaggio che viene sgretolata, contestando da quella dimensione di
autonomia e di separatezza dal proprio autore che designa il personaggio drammatico fin dalla
teorizzazione aristotelica. Non è più l’uomo al centro dell’universo teatrale, l’uomo concreto, ma l’idea,
semmai l’idea dell’uomo, in rapporto non con la situazione contingente socialmente qualificata ma con
l’assoluto, col mister, col sogno, col mito. E la parola non esprime più ad esprimere emozioni ma ad evocare
il mistero, a dire l’ineffabile, a parlare, attraverso il bello visibile, del bello invisibile. Il poeta non ha bisogno
di un personaggio credibilmente delineato per esprimersi perché la parola poetica non sopporta
intermediari.
E allora, coerentemente, se la scena non è più i luogo in cui si scontrano uomini reali, ma il buco magnifico
in cui la scrittura poetica dà spettacolo di sé, un sospetto estremo coinvolgerà anche la figura dell’attore,
uomo contingente che con la sua materialità e psicologia immiserisce e rende particolare e determinato ciò
che il poeta ha inteso come indeterminato e assoluto. Lugné-Poe, attore e regista che fu interprete del
Simbolismo teatrale, sognava messe in scena con maschere, pupazzi, ombre e oggetti, in una istanza di
disincarnazione del teatro cui tenterà di accostarsi anche con la sua tipica recitazione salmodiante e
assolutamente non realistica. È con il Simbolismo che riaffiora quel mito della marionetta che sarà uno dei
filoni teorici fondamentali del primo Novecento. Caratteristica del Simbolismo inoltre è una drammaturgia
del non-evento, un buco di azione riempito solo dalla parola, ma da una parola che non fa progredire
l’azione e anzi la frena. E anche in questo caso è nel Simbolismo la radice primaria della contemporaneità a
teatro, in questa distruzione dell’intreccio, in questa indifferenza ai meccanismi della vicenda e quindi alla
rinuncia al racconto. Solo la scena è in grado di esprimere quella volontà di sintesi che è fine irrinunciabile
del Simbolismo, a produrre quelle sinestesie iscritte nella poetica del movimento.
Il teatro delle avanguardie storiche
Il Novecento a teatro non inizia quando nasce il secolo ma circa tre anni prima, nel 1896, con “Ubu re” di
Alfred Jerry: con questa rappresentazione giungevano al termine le sperimentazioni simboliste e iniziava la
stagione delle Avanguardie storiche. La messa in scena fu totalmente anti-naturalista, affidata a una
scenografia dipinta e allusiva e a una recitazione con maschere e costumi non realistici che doveva
richiamare il teatro dei burattini. Ma il grottesco che costituisce la cifra stilistica più evidente sia del testo
sia della rappresentazione non fa parte della poetica simbolista; forse l’aspetto che più piacque al
movimento fu la sua carica metateatrale e metalinguistica, la disarticolazione che attraverso il grottesco e
l’eccessivo produce nella nozione stessa di personaggio e nella struttura drammatica di cui si fa parodia. Un
ruolo primario lo riveste quel sentimento della crisi che è presente in molti contesti del vivere civile e
culturale al giro di secolo. Crisi ideologica della borghesia, crisi sociale e crisi di valore quindi, ma anche crisi
di statuti artistici e delle varie arti.
Il teatro poi ha motivazioni sociologiche specifiche per questo ripiegamento, perché sul finire
dell’Ottocento compare un messo i comunicazione come il cinema, che si pone in immediata concorrenza
con il teatro proprio sui piani che per secoli erano stati suoi. Per questo il teatro del Novecento,
analogamente a quanto aveva fatto la pittura qualche decennio prima, pressata dalla fotografia, comincia a
cambiare il proprio oggetto, a spostare il proprio interesse dalla realtà al linguaggio, facendosi
prevalentemente metalinguistico.
Il questi anni entrano in crisi tutti o quasi i presupposti teorici del teatro precedente: il teatro come
comunicazione, e dunque potenzialmente di educazione civile e morale; il teatro come luogo i cui una
società rappresenta sé a se stessa, fondendosi insieme uno specchio in cui confermare la propria esistenza
e un modello di comportamento; il teatro come luogo in cui raccontare storie e dunque come luogo
centrale della vita civile di una comunità perché sede di un rito collettivo di purificazione esistenziale, di
transfert psicologico o di catarsi tragica. Dunque il Novecento non avrà una ma molteplici idee di teatro
diverso, e proprio per questa ragione non produrrà un modello di spazio teatrale: non esiste infatti l’edificio
teatrale contemporaneo come esistono quello greco, romano, elisabettiano… né esiste una tipologia
comune di sazio scenico, come esiste quella rinascimentale o quella naturalista. Il vuoto di identità lasciato
dal teatro produce una terra di nessuno che diviene un territorio di conquista. In questa colossale
operazione di smarginamento dei confini, il teatro perde spesso di specificità e separatezza anche nei
confronti della vita, perché nel tempo delle Avanguardie, teatro a vita tendono a sovrapporti o scambiarsi i
ruoli. Molto frequentemente il Futurismo, il Dadaismo, il Surrealismo teatralizzano la vita attraverso rituali
e comportamenti che ne individuano la specificità e insieme deteatralizzano il teatro.
Inevitabilmente, il teatro perde in centralità antropologica e in importanza sociale ciò che acquista in
densità linguistica e in capacità di provocazione. Il teatro diviene elitario, si disinteressa del contatto col
grande pubblico e aristocraticamente restringe il campo dei propri possibili destinatari.
La questione era quella di sempre, quando una forma d’avanguardia arriva a sconvolgere i sistemi di attese
del pubblico, ossia se e in che modo tener conto di queste attese, che per la loro stessa natura sono
inevitabilmente conservatrici. Il grande avversario di tutte le Avanguardie, tra cui del Futurismo e di
Marinetti, è quel teatro naturalista, a partire dal pilastro fondamentale della scrittura teatrale e della scena
come mimesi del mondo reale. L’opera teatrale è un universo a parte rispetto all’esistenza per cui la
contestazione del Naturalismo deve coinvolger tutti gli aspetti derivati, di psicologismo intimista, di
verosimiglianza dello spazio e dei costumi, di gestualità quotidiana e di recitazione come espressione di
passioni e sentimenti: l’azione delle Avanguardie tende a smontare pezzo per pezzo questi meccanismi
teatrali. Da qui tutte le operazioni di smarginamento dello spazio chiuso del palcoscenico all’italiana, con
operazioni che ne contestino la dimensione di spazio assoluto; lo spazio delle Avanguardie può essere allora
nudo contenitore per operazioni che lo ignorano come spazio significante, oppure può essere il luogo di
sperimentazioni che neghino la plasticità della scena tridimensionale, induttrice di verosimiglianza per farsi
puro sfondo pittorico (come avevano intuito i simbolisti); oppure ancora può votarsi ad una dimensione
astratta che disegni geometricamente lo spazio per negare la vocazione realistica.
In diretta polemica con la teoresi e pratica naturalista è poi anche la contestazione del nesso stretto tra
attore e personaggio, che è in ondo il vero centro del Naturalismo a teatro, Nelle teorie e nelle realizzazioni
primo-novecentesche, è sempre costante il rifiuto della recitazione psicologica, interiorizzata, verosimile, in
cui l’interprete scompare dietro il personaggio. Cambia dunque il modo di intendere la recitazione: è in
questo contesto che si afferma il mito della marionetta, che percorre tutte le avanguardie storiche, nelle
due forme di marionetta-angelo, da preferirsi all’uomo perché meno appesantita da coscienza e psicologia,
e di marionetta-macchina, ideale perché permette una funzionalità spettacolare che i limiti dell’essere
umano non consentono. Per quel che concerne il punto di vista prettamente drammaturgico, le
Avanguardie hanno da un lato prodotto poco e dall’altro teorizzato con minor lucidità proprio perché uno
dei pilastri fondanti della nuova teatralità è la polemica anti-letteraria. Difatti, il Novecento europeo si apre
con una rivendicazione di autonomia della scena rispetto alla pagina scritta, dunque con una battaglia per
la de-letterarizzazione del teatro a favore di una concezione che fa dell’evento spettacolare e non del testo
la vera sede dell’attività estetica del teatro. Ciò che entra in crisi con questo vasto movimento di pensiero è
soprattutto il nesso teatro-rappresentazione, con l’ideologia che è in esso celata della rappresentazione
come fenomeno logicamente e cronologicamente secondario secondo la primarietà del testo, vero
deposito di senso e garante dell’operazione teatrale. Nella nozione di rappresentazione c’p un senso di
secondarietà che la storia teatrale ha mantenuto inalterato per secoli e che il movimento delle Avanguardie
ha messo in discussione. Il primo Novecento induce una de-sacralizzazione del testo scritto, che comporta
il rifiuto dell’opera drammaturgica come entità unitaria e assoluta; lo slittamento teorico è quindi dalla
nozione di opera a quella di operazione, che nega la assolutezza a priori di ogni elemento, testo compreso,
per rendersi totalmente leggibile nel procedimento che costituisce lo spettacolo. Il criterio guida è quello
del montaggi, che unisce le singole componenti senza la pretesa di fonderle in un’opera unitaria che
censura le giunture e dunque il lavoro estetico che l’ha costruita.
L’operazione prima delle Avanguardie storiche è quindi una sorte di azzeramento della drammaturgia che
porta da un lato alla pratica delle serate, prima forma della teatralità futurista, in cui non c’è elaborazione
drammaturgica perché non c’è alcuna mediazione tra il presentarsi dei futuristi – che non sono attori – sul
palco e il loro colloquio diretto con il pubblico. Dall’altro lato però Marinetti era già da anni un autore
teatrale, a a partire dal 1915 anche il Futurismo come movimento teorizza e pratica una propria
drammaturgia in senso stretto, specie con il teatro sintetico, dove ugualmente la strada è quella della
riduzione drammaturgica. Ridotto così allo scheletro, il dramma da un lato è obbligato a sopprimere tutto
ciò che costituiva il senso della drammaturgia naturalista o melodrammatica, dalle motivazioni psicologiche
delle azioni al rovello interiore die personaggi, e dall’altro libera potenzialità inedite, facendo
cortocircuitare azioni e parole, provocando scintille nuove e inimmaginabili proprio perché toglie la
protezione della tecnica drammaturgica consueta. Ancora una volta, nella pratica e più nella teorizzazione
del teatro sintetico, il bersaglio evidente sono le convenzioni e la tecnica drammaturgica: nessuna delle
Avanguardie si sottrarrà a questo schema, e anzi in alcuni casi l’ansia di distruzione si spingerà fino a punti
estremi, come nel movimento dadaista.
Dada nasce a Zurigo nel 1916 per opera principalmente di Tristan Tzara, ma si diffonde in Europa e in
America. Il debutto è immediatamente teatrale, col Cabaret Voltaire di Zurigo e dimostra subito il proprio
debito nei confronti del Futurismo con la pratica delle serate, anche se forse c’è qui una maggior sapienza
spettacolare, che porta all’utilizzazione di maschere africaneggianti, di costumi astratti che de-umanizzano
le figure, di coreografie elaborate e modi di porti che richiamano il movimento espressionista, ma
l’impianto è ancora quello della comunicazione, senza mediazioni drammaturgiche, di prodotto estetici e
teorici. L’intento generale di Dada era l’azzeramento dell’Arte come entità quasi metafisica e del prodotto
artistico come feticcio: in questa concezione di arte come produzione di senso e non come capitalizzazione
di senso e oggetti, il Dadaismo non poteva non incontrare la teatralità, nella sua dimensione di evento
effimero, produzione senza prodotto, attività estetica senza oggetto residuo. Per questo il movimento non
ha quasi mai lasciato tesi, limitandosi a dare spazio alla produzione di qualche seguace scrittore.
Non è così invece la drammaturgia surrealista; il Surrealismo è un movimento più articolato, attento anche
alla costruzione di monumenti della propria arte, e dunque una drammaturgia in senso stretto avrebbe
potuto esistere sono il seno al Surrealismo. Ma in realtà la drammaturgia surrealista fu un’occasione
mancata, forse anche perché Breton si dimostrò sempre ostile al teatro. Il movimento teatrale surrealista
però possiede alcune caratteristiche che lo inquadrano all’interno delle avanguardie teatrali: esso si
caratterizza per un’atmosfera onirica e incongruente, fatta di salti logici ed elementi di grottesco, di giochi
di parole e di gag assurde, di accostamenti bizzarri e di comicità anche grossolana.
La drammaturgia d’avanguardia dei primi decenni del secolo non è tuttavia totalmente dentro l’orizzonte
dei movimenti; c’è un universo più vasto, appunto genericamente di avanguardia, che contesta le pratiche
naturaliste e propone una drammaturgia rivoluzionaria pur senza riconoscersi se non tangenzialmente nelle
scuole istituite.

L’idea di teatro di Pirandello


C’è un fantasma che si aggira per l’Europa teatrale in questi anni ed è il personaggio, o meglio il rapporto
tra personaggio e attore. Quasi tutti i rinnovatori della scena individuano nel personaggio, inteso come
grumo di psicologica e interiorità, il pilastro portante dell’ideologia e della pratica naturalista, ma ancora di
più vedono nel rapporto tra le due identità il maggiore ostacolo ad una inseguita libertà e autonomia della
scena. La tendenziale sostituzione dell’attore con la marionetta è in realtà un tentativo di ammortizzare il
nesso personaggio-attore, perché l’agente che si trova in scena possa liberarsi dalla necessità di significare
quell’altro da sé che è il personaggio. Solo così potrà conquistare una libertà spettacolare che consenta alla
scena di rivendicare la propria autonomia dal testo, dal personaggio e da tutto ciò che venga prima e la
determini.
Ma esiste anche un atro filone, che prevede l’utilizzazione della marionetta come pezzo di ricambio non più
per il personaggio ma proprio per l’attore: filone di pensiero (teorizzato in ambito simbolista) invoca la
marionetta senza volontà e senza passioni proprio perché sia possibile lasciare senza mediazioni il rapporto
pur tra personaggio e spettatore. Questo modello è vicino al sentire di Pirandello, e difatti un qualche
annuncio della marionetta di avvertì nei suoi testi. Ma si tratta solo di un accenno, perché la strada
intrapresa da Pirandello non è una via di uscita in positivo ma quasi una resa all’esistente, che si traduce nel
vagheggiamento utopico di una situazione edenica e dunque impossibile, nella nostalgica rincorsa di un
mito, quello della trasparenza. Ciò è intuibile anche dalle parole pronunciate dal dottor Hinkfuss in “Questa
sera di recita a soggetto”: “L’unica sarebbe se l’opera potesse rappresentarsi da sé, non più con gli attori,
ma con i suoi stessi personaggi che, per prodigio assumessero corpo e voce”. Dunque l’opera dovrebbe
rappresentarsi da sola con i suoi personaggi, senza l’intervento degli attori: lo spettatore dovrebbe esser
emesso in grado di non vedere e percepire l’opacità della operazione di messa in scena ma di intravedere il
trasparenza il mondo immaginato dal drammaturgo. Questo mito della rappresentazione in trasparenza,
però, non è poi tanto distante dalle idee della pratica naturalista: certo, di essa Pirandello rifiuta i
presupposti drammaturgici, ma sembra ne accrediti i meccanismi di messa in scena.
Ciò che fonda il teatro contemporaneo in quanto tale è proprio la non trasparenza della messa in scena, la
consapevolezza che la scena non è un canale neutro attraverso cui il messaggio dell’autore arriva al
pubblico. Su questo conviene anche Pirandello, e lo indica chiaramente nei Sei personaggi, con
l’opposizione irriducibile tra Personaggi e Attori, con l’impossibilità per i secondo di apparire anche solo
simili ai primi. Anche in Pirandello dunque c’è la coscienza della definitiva caduta del mito e della
trasparenza dell’operazione scenica, di una trasparenza che faccia vedere al di là di sé, al di là della finzione,
la realtà; sia essa la realtà reale, come per il Naturalismo, o la realtà immaginata dal drammaturgo, come
per Pirandello. Ora però la perdita dell’illusione della trasparenza si connota negativamente, è venata dal
rimpianto per ciò che sarebbe bello che fosse ma non è, dal rimpianto insomma per una trasparenza
perduta. Quello che cambia nella traduzione scenica, ci dice Pirandello, non sono le apparenze ma la
sostanza, l’anima del personaggio: “Mutando il corpo, cioè il pensiero, si muta anche l’anima, cioè la
forma”. Si capisce dunque come sia letteralmente inimmaginabile un’opera di traduzione, perché la vita
non si può tradurre e se la si espianta per trapiantarla altro, essa muore.
In questa prospettiva occorrerebbe ripesare anche il più generico rapporto tra testo drammatico e messa in
scena, che non è totalmente sovrapponibile a quello tra personaggi e attori. È pur vero che per Pirandello
non è immaginabile un rapporto tra testo e messa in scena diverso da quello che presuppone una pienezza
istituzionale di senso del testo e poi una sua degradazione nell’attività pratica della realizzazione, per cui
solo il testo può essere considerato opera d’arte, ma è anche vero che non è il testo in quanto scrittura che
deve essere salvaguardato nella sua integralità ideale e superiore ma proprio il testo in quanto terreno di
coltura e di vita dei personaggi. Per Pirandello l’operazione artistica non sta nella scrittura: ciò che conta è
l’azione viva dei personaggi, che sono i veri autori; lui si limiterà a trascrivere, non a scrivere, le loro azioni;
la scrittura d’altro canto gli appare anch’essa come un’attività di mediazione e di traduzione in operatività
materiale dell’incontaminato mondo platonico dei personaggi.
Negli anni Pirandello rivedrà la radicalità della sue posizioni, ma nonostante questo darà sempre conferma
delle due idee anche quando si misurerà con la messa in scena, sperimentandone costrizioni e fascino.

Il primo Novecento fuori dalle avanguardie


La cultura teatrale novecentesca oltre a sconvolgere i parametri estetici, sociologici, ideologici ereditati
dalla tradizione, sperimenta in più la sistematica disgregazione degli elementi costitutivi della teatralità.
Anche la produzione drammaturgica presenta questa frammentazione; già si sono viste due tipologie,
quella delle Avanguardie e il mito pirandelliano del teatro come trasparenza, ma in quei decenni, sono
molte le linee drammaturgiche che hanno percorso i teatri. Ma soprattutto questi anni si
contraddistinguono per alcune esperienze anomale, perché difficilmente collocabili all’interno delle
poetiche che costituiscono scuole e movimenti; è il cado di D’Annunzio, o di Schnitzler, Pirandello o
Wedeking, autore di Risveglio di primavera e del dittico di Lulù – lo spirito della terra e il vaso di Pandora.
Lo scandalo di questi testi è formale ma soprattutto tematico, perché assume a materia drammatica
l’impulso e l’attività sessuale. “Risveglio di primavera” mette in scena i turbamenti e gli smarrimenti di un
gruppo di adolescenti alle prese con un amore modernamente non idealizzato, fatto di amplessi, aborti, di
disperazione e di morte. Qui il linguaggio drammaturgico è serrato e diretto, spietato nella sua lucida analisi
anche se costruito più con un accostamento paratattico di brevi sequenze che con la consequenzialità
tradizionale, alternando momento lirici dei protagonisti giovani a momenti grotteschi.
La novità sconvolgente dei temi si accentua nelle due opere su Lulù: un prologo in versi, detto da un
dominatore da circo con frusta, descrive Lulù come un’anima libera, debitrice per le sue azioni solo al suo
istinto. Si tratta di una donna amorale e padrona della propria sessualità, che si prostituisce con facilità e
suscita desideri sfrenati, attirando chiunque in un vortice di rovina e morte. E Lulù stessa troverà la morte
alla fine nell’incontro con Jack lo Squartatore.
Ancora una volta, il nemico principale di questo filone è il teatro naturalista e la sua idea per cui il teatro
debba servire per esplorare la quotidianità e per fornire alla coscienza borghese un modello per il proprio
comportamento sociale; il teatro, ora, deve essere altro, ossia recupero della totalità, esperienza di
assoluto, superamento di contingenze e della quotidianità. E come sempre il punto nevralgico è individuato
nel personaggio, in una concezione del personaggio come carattere e grumo di psicologia da sciogliere.
“A un’arte come quella naturalistica […], l’espressionismo contrappose un’arte tutta tesa verso l’assoluto,
l’essenziale, l’eterno, e prorompente dall’unica realtà dell’io soggettivo”. Il primato della soggettività,
l’ansia di assoluto calata nella predilezione per le forme liriche e nel rifiuto della banalità del dialogo
verosimile, l’esasperazione di azione e gesti che sfocia nel grottesco, l’azzeramento dell’azione o la de-
umanizzazione del corpo e del volto con movimenti burattineschi o la fissità iper-significante della
maschera, il rifiuto del personaggio come individualità particolare a favore di un personaggio antonomasia
caricato di responsabilità universali, un linguaggio concitato, rotto, bruscamente ellittico che si stende solo
nei momenti lirici o nei monologhi, una struttura drammaturgica a blocchi; una recitazione mai naturalistica
o sopra le righe in maniera grottesca o deformante o irrigidita in movenze marionettistiche, con toni di
voce spesso sgradevoli; una scenografia dai forti contrasti, violenta di colori o giocata sul contrasto luce-
ombra, a volte quasi da incubo; una luce molto contrastata, spesso con ombre lunghe che incombono
minacciosamente, oppure con tagli che alterano la percezione di visi persone e cose: queste sono le
caratteristiche peculiari del movimento espressionista.
La nozione di espressionismo nasce nel 1901 in ambito artistico ed è da un pittore, Oskar Kakaschka, che
vengono i primi testi teatrali ascrivibili a questa cultura. La stagione del teatro espressionista prosegue poi
fino agli anni Venti, caratterizzandosi in senso politico e sociale durante la guerra e diventando poi un vero
e proprio stile, un linguaggi riconosciuto ed anche esportato nel primo dopoguerra. Esemplificativi del
genere sono due testi, “Cittadini di Calais” DI Kaiser e “Hinkemann” di Toller. Nel primo si rappresenta la
volontà di pace di chi offre se stesso in sacrificio pur di fermare una guerra disastrosa; nel secondo testo
invece si disegna il momento difficile del dopoguerra, quello dei reduci sconfitti e delusi e di una società in
crisi. Qui il tema angoscioso, la vita ridotta a incubo, le tinte forti quasi melodrammatiche con cui sono
dipinti un mondo e una reta di relazioni, la partecipazione morale dell’autore che spinge a solidarizzare con
l’eroe sconfitto dalla morte, scene in cui incubi del mondo si presentano con contrasti di luci e ombre, tutto
indica questo testo come una sorta dell’espressionismo teatrale.
L’espressionismo è un movimento principalmente tedesco ma coinvolse anche autori di altri territori: primo
tra tutti Michel De Ghelderode; egli ha fatto della Morte il proprio personaggio principale, tra recupero
delle moralità allegoriche medievali e citazioni della pittura fiamminga. Ghelderode è drammaturgo
assoluto, preoccupato solo di dar forma al proprio universo poetico, senza problemi di verosimiglianza o di
coerenza stilistica, o senza nulla concedere alla fattibilità della missa in scena.

La drammaturgia tra le due guerre, fuori dalle rivoluzioni delle Avanguardie, elabora e pratica tutta una
serie di miti, di idee forti che scuotano il dramma dal torpore di una pratica senza sorprese e permettano
alla scrittura drammaturgica di uscire dalla claustrofobica atmosfera del teatro psicologico nel salotto
borghese. Ecco allora il mito del teatro di poesie, che già era del Simbolismo, alla ricerca di una purezza
dell’espressione e di una dimensione simbolica del teatro che sono il contrario della poetica della
rappresentazione della realtà; ecco il mito pirandelliano della trasparenza; ecco il mito della marionetta;
ecco il mito di ascendenza romantica, che parte dal riconoscimento della alterità del teatro rispetto alla
quotidianità, e dunque del dramma come unico o privilegiato luogo dell’autentico; infine il mito del
grottesco, della maschera, del doppio come recupero del rimosso della storia e del vissuto che è
tipicamente espressionista ma anche condiviso da altre esperienze di questi decenni.
Il primo mito, quello del teatro di poesia è il meno praticato in quanto si impone un’idea di teatro che si
impegna a fa presa sul reale. Il ricordo al linguaggio non quotidiano alla scrittura lirica o poetica, alla
dimensione simbolica va verso una direzione che mira al distacco dal mondo, a un recupero della
dimensione religiosa e del travaglio esistenziale e morale dell’individuo. L’interprete più importante di una
concezione del teatro come testimonianza religiosa e come scrittura poetica totale è Paul Claudel, autore di
testi arcaizzanti, imbevuti di un cattolicesimo ortodosso, quasi controriformistico, e quindi alieno alle
inquietudini della cultura cattolica contemporanea.
Molto più pratico è il mito della maschera; questo mito, insieme a quello della scrittura drammaturgica che
si allontana dalla referenzialità immediata del Naturalismo e si rende artificiale proprio per salvaguardare al
teatro la possibilità di avvicinarsi ad un mondo di autenticità, è forse il più praticato in questi decenni. La
drammaturgia ottocentesca ora non solo riacquista ma ipertrofizza il proprio ruolo drammaturgico,
acquistando una funzione epica e smascherando la illusoria pretesa di realtà del dramma. Ma la formula del
teatro epico, nella drammaturgia Novecentesca, compete soprattutto a chi ne ha fatto la propria bandiera
formale e ideologica, ossia a Bertold Brecht. Quella brechtiana è divenuta una delle poche idee di teatro in
qualche modo universali: con lui riprende centralità nel dibattito culturale novecentesco la teorizzazione
del testo drammaturgico come teorizzazione sul teatro; si offrono ora riflessioni sia per una teoria della
scena, sia per una teoria del testo. Ma è il termometro politico a segnare una maggiore o minore
accettazione dell’opera di Brecht, questo perché la dimensione ideologica e politica è in essa fondamentale.
Per Brecht, la società contemporanea non è semplicemente diversa da quelle precedenti, ma ha tanto
accelerato il ritmo delle proprie trasformazioni che è impensabile servirsi dei vecchi strumenti espressivi e
comunicativi. Nella teoria di Brecht il problema è circolare, perché se è vero che la società ha bisogno di
nuovi strumenti, è anche vero che invocando un nuovo teatro si invoca un nuovo ordinamento sociale, per
cui il teatro di questi decenni deve divertire ed entusiasmare le masse. Bisogna presentare opere d’arte che
mostrino la realtà in modo da rendere possibile la costruzione del socialismo. Dunque ora il teatro è uno
strumento di azione sociale. Esso è un teatro basato più sulla narrazione che sull’azione, al cui fondamento
c’è la ratio e non il sentimento, e fa dello spettatore un osservatore, impedendogli le suggestioni emotive e
fornendogli invece argomenti, per costringerlo a prender partito; per questo devono venire offerti diversi
punti di vista sullo stesso argomento e le finalità espressive devono adattarsi di conseguenza. Si impedisce,
con una recitazione straniata, il transfert emotivo; ciò può essere raggiunto anche con l’esposizione di
cartelli, con lo spezzettamento dell’azione, con il non occultamento delle fonti di luci, con una scenografia
spicciola che non punta alla verosimiglianza o con l’uso fondante della musica che interpreta il testo e non
lo esalta. Ma soprattutto con una struttura drammaturgica che trasporti la tensione riguardo l’esito ad una
tensione riguardo l’andamento, ossia che si inneschi il meccanismo consueto di vedere come va a finire per
innescare quello del perché va a finire i quel modo. Per questo Brecht assume a canone fondamentale della
propria struttura non lo svolgimento lineare ma il montaggio, con una costruzione a blocchi in cui ogni
scena si impagini con quella successiva, sfuggendo alla sintesi omogeneizzante della piéce bien faite. I
grandi drammi epici disegnano una drammaturgia a volte scarna e provocatoria, a volte enfatica e
predicatoria, sempre ideologicamente consapevole anche se non sempre vera. Ma la “verità concreta” più
importante che Brecht ci ha consegnato è la non universalità dei destini dell’uomo.”

Forma drammatica del teatro Forma epica del teatro


*Attiva *Narrativa
- involge lo spettatore in un’azione scenica consentendogli - fa dello spettatore un osservatore che viene posto difronte a
sentimenti qualcosa
- suggestioni - argomenti
- lo spettatore partecipa - lo spettatore studia, non partecipa
- l’uomo è noto e immutabile - l’uomo è oggetto di indagine, mutabile e modificatore
- tensione verso l’esito - tensione riguardo all’andamento
- corso lineare degli avvenimenti - montaggio
- uomo come dato fisso - uomo come processo
- il pensiero determina l’esistenza - esistenza sociale che determina il pensiero
- sentimento - ratio

La drammaturgia del secondo dopoguerra tra impegno e assurdo


Con la drammaturgia del secondo dopoguerra, la stagione delle Avanguardie è definitivamente conclusa: il
Novecento acquista una identità in qualche modo unitaria e definibile. Naturalmente non si interrompe il
filone del teatro dii ricerca, che qualche volta riprende i percorsi delle Avanguardie storiche e qualche altra
percorre strade nuove che caratterizzeranno il teatro del secolo, ma è chiaro che quel movimento di
marginalizzazione del teatro sperimentale iniziato col Simbolismo vede in questo secondo dopoguerra una
vistosa accelerazione. A renderlo ancora più subalterno non è solo la macchina industriale e commerciale
del teatro, ma anche la tendenza della cultura alta, che spinge verso un ritorno all’ordine e al recupero
della centralità del testo drammaturgico. Si tratta di un mutamento di prospettiva, di una riassunzione del
potere da parte del drammaturgo: egli tenterà ora di comprendere e pre-scrivere la totalità dell’opera,
tentando di annullare, iscrivendole nel testo, le possibilità creative della messa in scena. Si pensi ad
esempio al proliferare della didascalia minuziosa, tendenzialmente totalizzante, ad esempio quella che
rende così ardue le operazioni registiche sui testi di Beckett. In questo contesto riemerge il meccanismo
classico: un drammaturgo scrive, a priori rispetto ad ogni ipotesi di messa in scena, un testo che ha le
caratteristiche dell’opera, con tutte le connotazioni di chiusura, di autosufficienza e di pienezza di senso
che questo comporta. Il drammaturgo torna ad essere autore in senso forte, responsabile primario
dell’artisticità, cui solo secondariamente si accosta l’operazione di messa in scena. La sede dell’attività
estetica è di nuovo il testo, e le altre attività e figure dello spettacolo vengono collocate in funzione
subalterna rispetto all’autorità dell’autore. Si ricostruisce così quel meccanismo “capitalista” della
produzione dello spettacolo teatrale, sulla base di una analogia di fondo, quella tra scritto e capitale,
entrambi a priori rispetto la produzione. E’ come, insomma, se si saltasse tutto il periodo delle Avanguardie
per ricollegarsi alla drammaturgia pre-novecentesca e alle sue piéces bien faite dell’universo teatrale
ottocentesco. Ritorna, in questo recupero, l’articolazione sintattica dell’intreccio, coi suoi nodi e snodi
drammaturgici. Senza più professioni di realismo, torna spesso anche una concezione del teatro come
attività che intrattiene un qualche rapporto con la realtà, per rappresentarla o per sezionarla o per
violentarla, scavalcando comunque la concezione delle Avanguardie. Ma torna soprattutto il personaggio
come fulcro dell’azione drammaturgica, con l’intreccio che diviene scontro di interessi e di strategie,
conflitto tra individui o situazioni e individui, proprio come nella classica teorizzazione del teatro borghese.
Il teatro torna così ad essere principalmente terreno di scontro per personaggi, e il palcoscenico torna un
luogo chiuso, in contenitore dentro cui far muore i personaggi stessi. Esempio perfetto è “A porte chiuse” di
Sartre – 1944; qui tre personaggi si confrontano in una stanza d’albergo arredata stile Secondo impero, si
sbranano denunciando le reciproche debolezze e viltà, tentano persino di uccidersi, salvo accorgersi che è
tutto inutile, perché sono già morti e quella stanza è un luogo dell’inferno. Se il salotto borghese del
dramma naturalista, luogo simbolico del mondo quotidiano, diviene inferno, allora l’inferno è qui, in questa
vita priva di solidarietà. E se le porte, come indica il titolo della piéce, sono chiuse, allora il mondo, specie il
mondo borghese di cui il salotto è cifra, è una trappola per sorci, asfissiante, senza ricambio d’aria e senza
vie d’uscita.
Il recupero del palcoscenico come luogo chiuso è essenziale anche nella drammaturgia americana del
dopoguerra; qui si intuisce come l’eroe borghese sia ormai stanco, sfiduciato, in preda a una profonda crisi
di calori e certezza. Su questa crisi giocano alla fine le loro operazioni drammaturgiche anche i due unici
autori italiani di livello europeo dopo D’Annunzio e Pirandello, ossia Eduardo De Filippo e Dario Fo. Il teatro
di De Filippo è multiforme e difficile da definire sinteticamente, perché passato attraverso molte e diverse
esperienze e filtri di tradizioni culturali anche disparate; egli stabilizza poi la sua drammaturgia struttura
apparentemente tradizionale nella scansione di atti e scene, di pause e accelerazioni, ma percorsa da
fremiti e cambiamenti di ritmo, paradossalmente vivificata dai famosi silenzi e dalla prodigiosa economia di
mezzi espressivi che era Eduardo attore. Per quanto riguarda Fo, invece, egli recupera in un certo senso il
tipologia del drammaturgo di servizio, cioè del drammaturgo che non scrive un’opera chiusa nella sua
autosufficienza ma un copione da verificare e modificare nella pratica scenica. Gli aspetti di denuncia
sociale e di satira politica divengono sempre più evidenti in questi anni ed un esempio pertinente è sempre
un lavoro di Dario Fo, “Mistero buffo”, del 1969: Fo si presenta da solo in scena, senza scenografie né
costumi, a raccontare con grande sapienza tecnica e con una stupefacente comunicativa testi molto
liberamente ispirati alla tradizione die giullari medievali, con un linguaggio denso di immagini e
provocazioni, atti di impasti linguistici e contaminazioni. L’opera costituisce uno degli esempi di
disarticolazione della struttura drammaturgica tradizionale; la crisi del dramma di tradizione borghese, che
non riesce più a dar conto del mondo perché la stessa società che dovrebbe rappresentare non offre più
appigli solidi e schemi di interpretazione, in questo dopoguerra segue altre strade. Da un lato vi è la
drammaturgia dei giovani arrabbiati e dall’altro quella dell’Assurdo: comune a tutti è la volontà
programmatica di novità, la manifestazione di un disagio esistenziale che si traduce spesso in ansia di
provocazione, sia tematica che formale.
Il primo segnale è quello di una denuncia al meccanismo teatrale, attraverso una ipertrofia della finzione
che metta in crisi il modello del dramma come mimesi della realtà. E’ il cado di Jean Genet, autore che per
alcune consonanze tematiche e per questa volontà di de-realizzare il dramma può essere inserito nel Teatro
dell’assurdo. Tende principalmente a mettere in crisi la nozione di analogia tra personaggio e persona reale,
e dunque mina la solidità della catena che lega insieme attore, personaggio e persona. (In “Le serve” due
sorelle a servizio di una padrona si divertono a impersonare a turno la signora, mentre l’altra interpreta la
sorella, per intraprendere una recita dove nessuno è mai se stesso). L’unica realtà è la finzione, perché solo
la finzione è in grado di smascherare la realtà; l’assoluta artificialità del gesto teatrale è il solo luogo
dell’autentico, in una realtà perennemente travestita di falsa coscienze di inautenticità. Genet ha sempre
reagito con fastidio ad ogni interpretazione delle sue pièces che tentasse di farne strumenti di satira sociale
o di denuncia politica: ciò che gli preme è solo la possibilità del teatro di denudare l’uomo, attraverso un
travestimento che non si mascheri da realtà, e di mostrarcelo nella sgradevolezza di una realtà senza veli di
ipocrisia. La critica sociale sarà, se mai, una conseguenza di questo denudamento.
Anche il teatro che è stato letto in chiave politica e sociale, quello della generazione dei “giovani arrabbiati”
inglesi, esprimeva più un malessere che un vero intento di protesta. Si consideri l’opera più nota di questa
stagione, “Ricorda con rabbia” di John Osborne, del 1956: In una mansarda si consuma stancamente il
matrimonio tra Jimmy e Alison; i tre atti scandiscono in 3 pomeriggi la crisi del matrimonio e l’angoscia
esistenziale di Jimmy, che si traduce in violenti moti di rivolta contro la società e l’ipocrisia dei suoi riti
Quando in questo mondo si affaccia Helena, amica di Alison, l’equilibrio si rompe perché essa subisce il
fascino di Jimmy e rimpiazza l’amica, che se ne va. Nell’ultimo atto si ha il ristabilimento della situazione
iniziale, con la riappropriazione del proprio ruolo da parte della moglie. Al di là della carica implicita p
esplicita di rivolta sociale, ciò che è notevole è il dispositivo drammaturgico allestito, con un universo chiuso
e quasi maniacale nella sua coazione a ripetere gli stessi meccanismi psicologici, una simmetria esibita delle
entrate e delle uscite ad occupare lo spazio, una chiusura al fuori.
Nel teatro dell’Assurdo il modello di spazio di cui è portatore il palcoscenico ottocentesco è non solo
accettato ma anche presupposto come punto di partenza imprescindibile per tutte le strategie di azione
che il drammaturgo costruisce. Si ha insomma l’impressione che la scena all’italiana sia non più un dato con
cui fare i conti ma un modello topologico perfettamente omologo a quello iscritto in questi tesi. Ma in
questo modo gli autori assumono i carico anche le valenze ideologiche e il modello di funzionamento
semantico e pragmatico della scena all’italiana; e dunque l’operazione che ne risulta va verso il recupero di
parametri estetici e di strutture della macchina teatrale che sono pre-novecenteschi.
Esemplifichiamo con Beckett: la tipologia delle due pièces che appartengono a il suo periodo classico è
molto poco flessibile; si tratta di uno spazio in cui non si entra e non si esce, dove all’interno non si
sopportano frammentazioni, non si ammette discontinuità che non sia quella meramente funzionale: esso
si pone come universo assoluto. La chiusura dello spazio è una chiusura verso l’esterno e introflessione
dello sazio stesso interno verso il proprio centro. Questo movimento centripeto dello spazio è parallelo alla
progressiva afasia del ondo drammaturgico di Beckett, che tende sempre più a ridurre i dati della
comunicazione, ad azzerare i segni del linguaggio teatrale. Beckett testimonia inoltre la perdita di senso
dell’universo contemporaneo, non occultandola con una positività volontaristica che alla fine rischierebbe
di sovrapporre il senso ricercato a quello non trovato. Se l’esistenza non ha più certezze, non ha più
centralità né finalità né valori che la trascendano, l’unica attività estetica possibile è quella che formalizza
questo dato, che utilizza cioè la mancanza di senso per costruire le basi della propria struttura
drammaturgica. Nel mondo di oggi (e ciò traspare dalle sue pièces, come Aspettando Godot), non è
pensabile una qualche forma di finalità che venga a dare senso all’esistenza spesa per attenderla; Beckett
non rappresenta la perdita di senso, la drammatizza, facendone non l’oggetto del proprio discorso ma il
soggetto, il protagonista. I protagonisti stessi di Aspettando Godot non si riconoscono tra loro, non
riconoscono neppure loro stessi, e il tutto si intervalla a dialoghi che sembrano ripetersi sempre, ma niente
è mai uguale, niente è ancorato a un senso sicuro. L’unica certezza è che da quel modo non si esce, per cui
la condanna a un’esistenza senza senso è ancora più atroce perché non si può non viverla. I personaggi di
Beckett sono inchiodati al tempo e allo spazio della rappresentazione, non possiedono altra realtà che
quella e dunque, pur mantenendo uno spessore psicologico che serve a definirli come individualità,
costituiscono uno scarto notevole dalla tipologia del personaggio del dramma borghese. I personaggi sono
quindi de-personalizzati, tant’è che in alcune opere essi non avranno neppure un nome e saranno indicati
con indicazioni non individualizzanti. Chi agisce sulla scena non è più un personaggio che imita una persona,
ma un attore che entra in un gioco quasi astratto di emozioni, gesti e parole: l’accento non è più sul
personaggio ma sull’attore, colui che agisce; il mito della marionetta chiude il cerchio insediandosi in
un’operazione inversa, di recupero della priorità del testo che relega la scena in funzione subalterna.

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