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G. Pescatore, Le forme del melodramma dall'opera al film, in: Il melodramma al cinema.

Il film-
opera croce e delizia, CATANIA, Giuseppe Maimone Editore, 2009, pp. 27 - 31 (Universitates.
Saggi) [capitolo di libro]

Il melodramma tra voce e corpo

Uno degli aspetti che più colpiscono lo spettatore poco avvezzo alle convenzioni del teatro
d’opera è la discrepanza tra il corpo e il ruolo degli interpreti. Mimì muore consumata dalla tisi, ma
la stazza del soprano sembra indicare tutt’altro genere di problemi: questo è un luogo comune ormai
abusato, che però si fonda esattamente sullo iato tra la presenza scenica dei cantanti e la loro
caratterizzazione narrativa. Ovviamente non si tratta qui di generalizzare o di negare che all’opera
esista una drammaturgia dell’attore e del corpo. Si vuole invece notare come quest’ultimo sia tutto
sommato in secondo piano rispetto al rilievo della voce. Difatti Mimì muore cantando, ed è nella
voce e nel canto che, per poco che ci si lasci prendere dalla fascinazione dello spettacolo, si
percepiranno chiari i segni della sofferenza, della passione e della morte. La musica e la voce
sembrano relegare in secondo piano le incongruenze del corpo, la coerenza drammatica è salva, lo
spettatore potrà commuoversi per le sventure dell’eroina.
Si tratta di un procedimento ben noto, nella sua generalità, sia al linguista, sia all’antropologo:
alcuni elementi significanti, in un contesto dato, vengono narcotizzati, resi ineffettivi ai fini della
costruzione del senso. L’opera, quindi, di per sé, non inventa niente di nuovo: cancella l’ingombro
dei corpi attraverso procedure analoghe a quelle in atto negli enunciati linguistici, ma anche nelle
pratiche cerimoniali, negli oggetti simbolici, ecc. Più interessante è che attraverso il canto, e dunque
la voce, vengano veicolati significati che sono in genere collegati alla sfera somatica. Il corpo è il
luogo in cui si manifestano come segni sia gli stati corporali in quanto tali (i sintomi di una
malattia), sia gli stati d’animo (le passioni, che non a caso una lunga tradizione collega alla
fisiognomica). La voce cantante, all’opera, deve farsi carico anche di questi aspetti della
significazione, lasciar trasparire quei segni: essa deve avere una valenza somatica. Fremiti, palpiti,
tremori, tutto l’armamentario delle passioni del corpo deve trovare dunque un corrispettivo vocale e
musicale. In che modo questo accada non è argomento di cui occuparsi in questa sede, e soprattutto
esula completamente dal nostro campo di competenze. Basterà, per il momento, ritenere l’idea, da
spettatori qualunque del teatro lirico, che la voce è corpo.
In che modo l’opera approda al cinema? Una risposta immediata potrebbe essere: per la via del
melodramma, genere cinematografico che fra tutti è il più vicino alla lirica, non fosse altro che per
ragioni etimologiche. È una risposta solo parziale, sia perché esistono molti adattamenti in cui il
testo lirico di partenza ha ben poco a che spartire con il melodramma (l’opera buffa, solo per fare un
esempio), sia perché numerosi trattamenti cinematografici della materia operistica non possono
essere riferiti al sistema dei generi (è il caso dei film in cui prevale l’attenzione alla messa in scena
teatrale: più opere filmate che film opera). Tuttavia, l’indicazione del melodramma come spazio
relazionale tra film e opera ha delle ragioni forti: intanto, è indubbio che la tradizione dell’opera
melodrammatica abbia avuto un’influenza rilevante sul nascente melodramma cinematografico;
inoltre, il film operistico italiano, che almeno quantitativamente rappresenta il filone più indicativo
dell’incrocio tra cinema e teatro lirico, ha adottato quasi sistematicamente la via del melodramma.
Nel melodramma cinematografico però il rapporto tra voce e corpo si capovolge rispetto a quanto
abbiamo visto nella tradizione lirica: succede che il corpo è voce, ossia è un corpo "parlante".
Questa affermazione ovviamente non va da sé, e dunque merita di essere argomentata. Se è vero,
come sostiene Chion (1), che il cinema attua un dualismo, mai completamente composto tra corpo e
voce, e che quest’ultima è alla disperata ricerca di un corpo, di un suo luogo simbolico, è pur vero
che il corpo, per suo conto, cerca una voce, un luogo di parola. Il melodramma è - anche - uno
strumento attraverso il quale si dà voce al corpo, lo si lascia parlare. Oltre che meccanismo
narrativo, il melodramma è dunque anche meccanismo di produzione di segni - segni del corpo,
innanzi tutto. È possibile addurre almeno tre motivazioni a questa tesi:
1) Il melodramma cinematografico nasce muto. Il cinema deve dunque inventare, o riprendere
dalla tradizione (vedi punto 2) un repertorio di segni somatici capaci si esprimere la materia
passionale su cui si fonda il melodramma. È in questa linea che ritroviamo la caratterizzazione
isterica delle dive del muto italiano, e più in generale la tipologia fisiognomica del divismo muto.
D’altra parte non è un caso che negli anni Venti, all'apice delle capacità espressive del film muto, si
sviluppi una concezione "animista" del cinema: le singole parti della persona umana e gli oggetti ci
appaiono sullo schermo con una loro individualità in quanto, come corpi, sono l’espressione, il
segno di un’anima, vale a dire di un sentimento; è la teoria del sentimento-cosa di Jean Epstein.
Questa idea rientra nell’ambito più vasto di una concezione scritturale del cinema, concezione che
si sviluppa in quegli anni con modi e in contesti diversi: il cinema è scrittura in quanto è luogo di
segni dotati di corpo (o di corpi segnici). Di qui la cinegrafia e il paragone con le scritture
pittografiche o ideogrammatiche. Non che questo comporti necessariamente un approdo al
melodramma(2), però spiega l’attenzione, assai diffusa, che gli hanno dedicato le avanguardie.
Il corpo parlante non scompare affatto con l’avvento del sonoro: se da un lato è portato alle sue
estreme conseguenze dall’horror (che sotto certi aspetti può essere considerato un melodramma
"degenere"), dall’altro, negli anni d’oro del genere melodrammatico, viene sovradeterminato dallo
spazio. Perde la sua identità assoluta per farsi termine relazionale: significa - produce segni - in
quanto è in rapporto con altri corpi e con la virtualità della scena. La "voce del corpo" perde il suo
luogo di emissione, il corpo individuale, e sembra invece farsi ubiquitaria, provenire da un non-
corpo che è l’intero spazio scenico; si approssima dunque ad essere una voce acusmatica. Il
passaggio dall’estetica formalista degli anni Venti ad un’estetica della mise en scène comporta
anche una differente concezione del corpo: un corpo centripeto nel primo caso, frammentato in
dettagli significanti, centrifugo nel secondo, espanso fino a far coincidere lo spazio somatico e lo
spazio della scena. Due scelte divergenti di cui però si riconoscerà la matrice produttiva comune nel
tentativo di dare voce al corpo.
2) Il melodramma cinematografico ha una genealogia. Il mélodrame è una forma di spettacolo
teatrale, in voga in Francia tra ‘700 e ‘800, in cui la recitazione degli attori, non cantata, è
accompagnata dalla musica (in tempi più recenti è stato anche denominato melologo, avendo il
termine melodramma assunto un significato assai più ampio). L’evoluzione del mélodrame, che
comincia alla prima metà del ‘600 ed arriva fino al ‘900, è assai articolata, ricca di mutazioni, e non
è certo il caso di ripercorrerla qui nel dettaglio. È interessante notare che esso trae origine da forme
di teatro ambulante in cui, a causa di normative che privilegiavano il teatro ufficiale, era impedito
l’uso della parola; si faceva dunque largo uso della pantomima e di cartelli che riportavano le
battute del dialogo. Sebbene il mélodrame propriamente detto, che ha il suo momento di massimo
splendore nella prima metà dell’800, avesse già riacquistato l’uso della parola, non si può fare a
meno di collegarlo al nascente spettacolo cinematografico, a maggior ragione se si pensa che
scrittori come Pierre Decourcelle passano dalle piéces melodrammatiche ai ciné-romans.
La tesi che non solo il melodramma cinematografico, ma il cinema nel suo complesso derivi dal
mélodrame è stata sostenuta e ampiamente argomentata da Jacques Goimard(3). Come tutte le
attribuzioni di paternità non manca di una certa dose di arbitrio. Senza entrare nel merito della
questione, sarà comunque possibile ritenere alcune indicazioni importanti sul rapporto tra le due
forme di spettacolo. Entrambe partecipano a pieno titolo della modernità: a differenza delle forme
classiche, come la tragedia, esse non sono governate da un canone, ma da un’estetica commerciale;
sono dunque forme composite, soggette a rapide mutazioni nel tempo e da cui è difficile derivare un
modello tipologico stabile. Il mélodrame è una delle prime manifestazioni di quella
spettacolarizzazione del paesaggio urbano che è tra i segni più evidenti della modernità e nel cui
alveo si situa anche la nascita del cinema. Infine, il testo è subordinato alla messa in scena e alla
realizzazione spettacolare: il mélodrame inaugura una tradizione in cui la materia patetica ha
bisogno di essere "incarnata", dotata di corpo scenico; una tradizione da cui il melodramma
cinematografico saprà trarre partito.
3) Il melodramma è muto per vocazione. La necessità di "dare corpo" alla materia del
melodramma, materia che non può esprimersi appieno attraverso le parole, è stata ampiamente
analizzata da Peter Brooks(4), secondo cui essa dà luogo ad una vera e propria "estetica del
mutismo": la presenza numerosa di personaggi muti nei testi dei mélodrames sarebbe tutt’altro che
occasionale. Essa sarebbe invece funzionale non solo alle esigenze drammaturgiche del testo, ma
anche, e più profondamente, alla necessità propria del melodramma di esprimere l’ineffabile, ciò
che non può essere detto attraverso la parola e che può dunque trapelare solo come segno somatico,
nel gesto e nel corpo. Sotto la superficie delle cose e degli avvenimenti rappresentati, si agita un
mondo segreto, nascosto, un mondo di pulsioni e passioni organizzate secondo uno schema
manicheo, che non può arrivare alla superficie se non come sintomo, come indicazione segnaletica.
Si tratta di una concezione veridittiva, in cui la vera essenza delle cose e dei sentimenti è
esattamente ciò che non appare, in quanto non è attingibile dalla parola. Il melodramma è assai più
pulsionale che psicologico; è vicino alla psicanalisi così come il segno del corpo è parente stretto
del sintomo isterico. Un tale criterio interpretativo può essere applicato anche al melodramma
cinematografico ed aiuta a chiarire le ragioni che stanno al fondo del "corpo parlante" inteso come
luogo di espressione dell’indicibile. Del resto Brooks preferisce riferirsi all’immaginazione
melodrammatica - intesa come una delle forme fondamentali dell’immaginario moderno - piuttosto
che al genere melodramma, indicando cosi che gli elementi della costruzione melodrammatica sono
rinvenibili fuori dal contesto del mélodrame propriamente detto. Non stupisce certo che il cinema
sia il principale erede della sensibilità melodrammatica(5), se si riconosce che esso occupa - o ha
occupato - un ruolo centrale tra le forme della modernità.

Le declinazioni del film opera

Se si trovano sufficientemente convincenti le ragioni qui proposte a dimostrazione che nel


melodramma il corpo è un corpo espressivo, parlante assai più della stessa voce, la quale è d’altra
parte, e per più motivi, sempre a rischio di mutismo, si dovrà convenire che il cinema, alle soglie
del sonoro(6) - e il cinema italiano in particolare, che nel film opera avrebbe prediletto la linea
melodrammatica - si trova di fronte ad una aporia, o quantomeno ad una difficoltà: portare l’opera,
in cui la voce è corpo, sullo schermo cinematografico attraverso il melodramma, in cui il corpo è
voce. Una difficoltà che è stata affrontata in più modi: si è già detto dell’opera filmata, in cui il
cinema fa da supporto allo spettacolo teatrale, facendone proprie le convenzioni. In questo caso
piuttosto che provare a comporre la contraddizione, si sceglie di privilegiare uno dei corni del
dilemma e si mette il cinema al servizio dello spettacolo lirico, in una trasposizione, più o meno
meccanica dello spazio teatrale, che troverà poi ampio riscontro in ambito televisivo.
La scelta opposta e complementare è quella del sincronismo(7): agganciare saldamente la voce e
il corpo, sia scegliendo interpreti lirici dotati di un corpo cinematografico, sia attraverso il
doppiaggio, alla ricerca di un accordo, di una consonanza tra l'espressività somatica e quella vocale.
Nel caso del doppiaggio, pratica in cui un artista lirico, spesso una cantante di fama, presta la voce
al corpo cinematografico di un'attrice o di un attore, la voce, “avvitata" artificialmente al corpo, si
integra nella sfera del somatico, nel tentativo di realizzare un tutto-corpo che è anche un tutto-voce.
Tentativo perennemente a rischio, perché è difficile cancellare la sutura su cui si fonda, col risultato
di dare vita, alle volte, a creature fantastiche al limite del parodico: come non ricordare la
sensazione di vaga inquietudine provocata dalla voce di Renata Tebaldi innestata sul corpo
palpitante di Sophia Loren, per l’occasione dipinto di nero nella parte di Aida,(Clemente Fracassi,
l953)?
Ma la strada del sincronismo, nell’ambito del film opera, ha dato luogo anche a modelli più
sofisticati di interazione tra voce e corpo: l’opera parallela e il film biografico operistico. Nella
prima si istituisce un rapporto mimetico tra la vita privata dei protagonisti e la rappresentazione
lirica, che di quella è il doppio e il modello. In altre parole, nel film la rappresentazione lirica è
parte integrante della narrazione, e tuttavia essa finisce anche per essere una mise en abyme, ossia
un raddoppiamento simbolico di quella stessa narrazione e degli accadimenti privati dei protagonisti
fuori dalla scena teatrale. Si attua così una sorta di bipartizione drammatica, fondata sulla categoria
spettacolo/vita, che da luogo a due spazi narrativi e scenici connessi: lo spazio della vita, che è
anche quello del corpo melodrammatico, e quello dello spettacolo, che è invece il luogo della voce.
Nell’opera parallela, la rappresentazione teatrale corrisponde esattamente al mondo segreto,
passionale, che si agita sotto la superficie della storia privata dei protagonisti. Essa è una sorta di
scena primaria trasposta in forma di spettacolo. D’altra parte, l’universo sotterraneo di passioni che
muove la storia privata, è esprimibile soltanto attraverso un sistema di segni che ad esso rimanda e
che trova la sua forma compiuta proprio nel canto. Si tratta dunque di un doppio movimento che si
chiude su se stesso: dall’opera, come universo segreto e motivante, alla vita, e dalla vita al canto, e
dunque all’opera, come espressione dell’ineffabile.
Ampiamente praticata nel cinema italiano e non solo, l'opera parallela per la sua stessa struttura
ben si presta a connettere le vicende private dei protagonisti con il grande affresco della Storia, in
questo senso ereditando quella vocazione “politica” che era del melodramma verdiano. L'opera
parallela, con la sua commistione di reale e teatrale, era la forma più adatta attraverso cui il film
opera poteva avvicinarsi al neorealismo e dunque non è un caso che uno dei suoi esiti più
interessanti si leghi a quel periodo.. Nel 1946, Gallone, che aveva subito l'epurazione, sia pure solo
formalmente, intraprese la realizzazione di un film di ispirazione antifascista probabilmente per
favorire la propria riabilitazione. Si trattava, di una Tosca in opera parallela, Davanti a lui tremava
tutta Roma, storia di una coppia di cantanti impegnati nella messa in scena del dramma pucciniano
per l'esercito tedesco e contemporaneamente collaboratori della resistenza. Scoperti dai nazisti si
trovano a rivivere la finzione scenica sia pure con un finale diverso, lieto, sullo sfondo della
liberazione di Roma. Tito Gobbi viene affiancato nel film da Anna Magnani che solo l'anno prima
era stata protagonista di Roma città aperta, e il film può essere considerato per molti versi una
risposta in chiave operistica al capolavoro di Rossellini, oltre che una riprova quanto mai evidente
di una certa contiguità e complementarità, nel secondo dopoguerra, tra film opera e neorealismo.
Il film biografico operistico a sua volta presenta numerosi punti di contatto con l’opera parallela:
anche in questo caso si assiste al raddoppiamento dello spazio drammatico, fondato sulla categoria
pubblico/privato o arte/vita. Difatti in questo sottogenere la vita di un artista è ripercorsa attraverso
le sue opere, e tuttavia queste ultime vengono integrate e quasi “interpretate” alla luce della vita
privata del protagonista. La relazione diventa però oppositiva: mentre nell’opera parallela lo
spettacolo lirico, con i suoi contrasti insanabili, è il modello ultimo a cui tendono i fatti della vita
privata, nella biografia la contrapposizione manichea è in atto tra la sfera sociale e artistica - lo
spettacolo - e quella individuale - i sentimenti. Il genio deve necessariamente pagare a caro prezzo
la propria arte e dunque a ogni successo artistico corrisponderà una corrisponderà una crisi, una
rinuncia o una sconfitta nell'ambito della vita privata. Si ritrovano così pienamente operative le
strutture dell’immaginazione melodrammatica: materia patetica segnata da contrapposizioni
assolute, schematismo manicheo, necessità di attingere a forme di espressione non verbali. Con la
differenza che la necessità di "sincronizzare" corpo e voce comporta qui una duplicazione di quelle
strutture in due spazi, spazio artistico e spazio privato, che sono legati da un rapporto di
presupposizione reciproca, in una sorta di cortocircuito. Nel film biografico operistico si assiste a
una sorta di melodramma ermeneutico: è nella vita privata che si ritroverà quella scena primaria
capace di illuminare il segreto dell’opera, ma è solo l’opera - in realtà la romanza, perché di questo
si tratta — che può dare forma espressiva piena alla verità della vita. I termini mutano leggermente,
ma rimane la struttura doppia e circolare.
Un esempio dei più convincenti nell'ambito del film biografico operistico è certamente
rappresentato dalla doppia biografia di Bellini: nelle due versioni di Casta diva, entrambe di
Gallone, si ritroverà, al centro dell’organizzazione testuale, lo stesso campo problematico che
abbiamo fin qui delineato. Non solo, i due film - in particolare il secondo - si spingono più avanti:
oltre a fornire, attraverso il ricorso alla biografia, una soluzione all’opposizione corpo/voce,
sfruttano proprio questa opposizione come figurazione del dualismo melodrammatico. Casta diva è
insomma, oltre che la storia di un amore infelice di Vincenzo Bellini, anche la storia di un
sincronismo mancato, di un tentativo fallito di dare corpo a una voce e voce a un corpo.
Esamineremo più avanti in questo stesso volume le soluzioni peculiari adottate da Gallone nelle
sue biografie belliniane. Qui in conclusione vorremmo ribadire che il dualismo corpo/voce
comporta nel film opera una articolazione originale delle strutture melodrammatiche, necessaria a
superare una difficoltà che deriva proprio dall’interazione di due pratiche spettacolari che divergono
sostanzialmente nel modo in cui danno forma all'immaginazione melodrammatica. Dunque,
l'adattamento operistico al cinema è operazione tutt'altro che triviale e comporta invece la capacità
di realizzare soluzioni originali e creative anche nell'ambito del cinema popolare, con risultati che
spesso dal punto di vista figurativo e narrativo niente hanno da invidiare ai più celebrati
melodrammi hollywoodiani e che rivestono un ruolo di rilievo nella produzione cinematografica
italiana.

NOTE

1 Cfr. M. CHION, La voix au cinéma, Editions de l’Etoile, Paris 1982, trad. it. Pratiche, Parma
1991, pp. 149-178.
2 L’estetica impressionista è anzi, con i dovuti distinguo, piuttosto lontana dal melodramma: per
gli autori della fotogenia il cinema attua un’operazione di svelamento, porta sulla superficie dello
schermo l’evidenza del vero. Ci si muove pur sempre nell’ambito della veridizione, ma, mentre nel
melodramma la distanza tra il segno e l’ineffabile cui si riferisce è lo spazio del segreto, peri teorici
francesi l’ineffabile è segno e cosa allo stesso tempo. Ogni distanza è abolita; il cinema rende
presente e percepibile immediatamente proprio ciò che nel melodramma è oggetto di segreto.
3 Cfr. J. GOIMARD, Le Mot et la chose, in "Les Cahiers de al Cinémathèque", 28, 1979 (trad. it.
in G. Spagnoletti, a cura di, Lo specchio della vita, Lindau, Torino 1999). Goimard fornisce anche
una ricostruzione dello sviluppo e delle caratteristiche peculiari del mélodrame, sempre nel1’ottica
del rapporto con il cinema.
4 P. Brooks, The Melodramatic Imagination, Yale University Press, New Haven-London 1976,
trad. it. Pratiche, Parma 1985, pp. 83-112. L’intero testo di Brooks costituisce un riferimento
fondamentale per gli argomenti che qui sono esposti.
5 Conclusione che del resto è autorizzata dallo stesso Brooks, il quale più volte indica nel cinema
la forma espressiva in cui più direttamente si perpetua la tradizione del melodramma.
6 Non prendiamo qui in considerazione la pur ingente produzione muta legata a vario titolo
a1l’universo operistico. Si tratta, nella maggior parte dei casi, o di esperimenti di sincronizzazione,
in cui prevale l’aspetto tecnologico-spettacolare, o di film che dall’opera riprendono soprattutto la
materia narrativa. Sebbene le relazioni tra cinema e opera assumano un rilievo non secondario
anche nel muto, per ovvie ragioni essa si situano fuori dall’ambito problematico relativo alla ·
coesistenza di voce e corpo.
7 Intendendo con sincronismo non tanto, o non solo, la sincronizzazione tra colonna visiva e
colonna sonora, quanto la produzione di strategie testuali capaci di correlare voce e corpo.

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