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Il primo “autore” del cinema fu Georges Méliès, che provenendo dagli spettacoli di
magia di Houdini puntò sull’aspetto illusorio e del fantastico, per opporsi al “realismo” dei
Lumière. Tra i film di Méliès figurano Cenerentola (1899) e La sparizione di una signora
(1896): in quest’ultimo film per la prima volta un aspetto tecnico si trasforma in trucco
(oggi chiamato effetto speciale), perché la cinepresa viene fermata, l’attrice viene fatta
uscire di scena e riprendendo a girare si ottiene una sparizione. Inizialmente i film
duravano pochi minuti perché erano presentati alle fiere, ma Méliès realizza Viaggio nella
luna (1902) con una durata di 15’, suscitando successo in tutto il mondo mescolando
fantascienza, ironia ed elementi da favola.
Il racconto cinematografico è:
• “chiuso”, perché per quanto sia lungo, ha sempre un inizio e una fine (anche nei casi di
finale aperto)
• irrealizzante, perché anche quando sembra vero si svolge in tempi e luoghi diversi dalla
realtà
• Compositiva, la più comune, si riferisce a oggetti introdotti nel campo visivo o ad atti
dei personaggi che hanno importanza ai fini della narrazione
Nel tipo di inquadratura “dettaglio”, un oggetto viene ripreso a tutto campo per
sottolinearne l’importanza nella fabula (es. la chiave della cantina in Notorius di
Hitchcock).
Il narratore - perché vi sia un racconto occorre un narratore, che nel cinema è un’entità
astratta. Solitamente essa ha più informazioni rispetto ai personaggi. Esistono 3 forme di
rapporto tra spettatori e narratore in relazione alla conoscenza dei fatti:
Nel caso dei film questa tripartizione è diversa perché si può narrare anche attraverso le
immagini. Perciò si preferisce il termine “ocularizzazione”:
• interna, quando l’entità narrante (la cinepresa) si identifica con l’occhio del
personaggio.
Lo spazio del racconto - i film si ambientano sia in spazi interni che esterni. I primi si
realizzavano nei teatri di posa, e negli anni dello Studio System anche gli esterni venivano
girati qui. C’erano però generi in cui la presenza di paesaggi reali era preponderante,
come il Western americano.
La caratteristica fondamentale dello spazio nel cinema è quella di creare uno spazio
illusorio: infatti grazie al montaggio il pubblico vede svolgersi azioni nello stesso spazio,
che sono invece state girate in luoghi diversi.
Il tempo del racconto - il tempo del film è sempre il presente, anche quando l’azione è
ambientata nel passato. Per la narrazione letteraria si possono distinguere tre categorie:
ordine, durata e frequenza.
2. La durata è la categoria in cui più si esprime la sfasatura tra tempo della “storia” e
tempo del “discorso”: quest’ultimo infatti è fisso, uguale per tutti, e corrisponde alla
durata del film, mentre il tempo della “storia” è variabile (ore, giorni, anni). Il rapporto
tra i due tempi riguarda anche singoli episodi della narrazione, perciò si possono
distinguere diversi tipi di sequenze, contraddistinte da usi diversi del tempo:
• Pausa - il tempo del racconto è di una certa entità, mentre quello della storia è pari a
zero. Spesso riguarda le descrizioni di ambienti.
• Estensione - anche qui il tempo del racconto è superiore a quello della storia, che però
ha una certa entità seppur ridotta. Esempio è lo “slow motion” di uno sparo, una caduta
o una danza.
• Scena - i tempi del racconto e della storia coincidono, come in una scena di dialogo.
• Sommario - vi appartengono tutte le sequenze (serie di scene). Qui il tempo della storia
è superiore a quello del racconto: si narrano i fatti omettendo particolari non
significativi, progredendo di molto tempo.
• Ellissi - il narratore può scegliere di non raccontare qualcosa di essenziale per la fabula.
A una durata del tempo della storia non corrisponde alcuna durata del tempo del
racconto. Un esempio è presentato in 2001 - Odissea nello spazio di Kubrick, che con
un’idea di montaggio rappresenta il passare di millenni: una scimmia fa volare in aria un
osso che si trasforma agli occhi dello spettatore in un’astronave. Anche un movimento
di macchina può significare un’ellissi: ad esempio in Novecento di Bertolucci si nota un
movimento di macchina verso il cielo su un campo, dopodiché la macchina ridiscende
sullo stesso campo, ma 8 anni più tardi. A volte l’ellissi viene accostata all’uso di un
“fuori campo”, tecnica attraverso cui allo spettatore non viene fatto vedere qualcosa
che è fuori dall’inquadratura, ma che può essere fondamentale ai fini della fabula (es.
sequenza iniziale del Mostro di Düsseldorf di Fritz Lang in cui la piccola Elsie viene
uccisa).
3. La frequenza indica il rapporto tra il numero di volte in cui un fatto compare nel
racconto e quello in cui è accaduto nella storia. Solitamente al cinema si vede un
racconto singolativo, in cui il fatto appare tante volte quante accade nella storia;
raramente il racconto è ripetitivo, ad esempio quando più personaggi danno la loro
versione di uno stesso evento. Raro nel cinema è anche il racconto iterativo, in cui si
vede una sola volta ciò che succede più volte (atti ripetuti presentati con qualche
variante nelle brevi scene per far capire lo scorrere del tempo).
Negli anni del cinema classico (tra la fine della prima guerra mondiale e la metà degli anni
Sessanta, quando tramontò l’era dello Studio System) il cinema ha avuto un ruolo
dominante nella società di massa.
Se negli anni ‘30 la commedia italiana si era adeguata ai modelli americani, nei due
decenni del dopoguerra essa subì diverse trasformazioni che la resero unica: la
“commedia all’italiana” riuscì a raccontare i mutamenti della società di quel tempo in
maniera magistrale. Alla fine degli anni ‘40 e nei primi anni ‘50 in Italia fu la commedia a
raccogliere le istanze del Neorealismo, seppur svuotandole dei contenuti sociali più duri
per rendere i film piacevoli al pubblico. Si parlò quindi di “Neorealismo rosa” per film
come Pane, amore e fantasia (1953) di L. Comencini, in cui l’Italia vera delle campagne
era ben riconoscibile. Per il genere cominciò un periodo di fortuna, a cui contribuì la
comparsa di un divismo comico, con attori “specializzati” come Alberto Sordi, Ugo
Tognazzi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, ma anche attrici come Gina Lollobrigida e
Sophia Loren.
Negli anni ‘60 la commedia italiana tornò a contenere anche elementi drammatici, come
ne I soliti ignoti (1958) di M. Monicelli, in cui gli sceneggiatori decisero di far morire un
personaggio in un film interamente comico. Il recupero della commedia drammatica fu più
evidente in La grande guerra (1959) sempre di Monicelli, che vi inserì il tema storico della
guerra. I protagonisti (un soldato romano e uno milanese) sono comici coi loro trucchi
utilizzati per aggirare gli inconvenienti della vita di trincea, ma finiscono tragicamente
fucilati dagli Austriaci perché si rifiutano di tradire la patria. Il boom economico segnò per
l’Italia un’epoca di ulteriori trasformazioni, e venne interessata anche la commedia della
riflessione su questi cambiamenti. Essa allo stesso tempo parlava anche della società del
tempo, come ne Il sorpasso (1962) di Dino Risi, in cui il viaggio di un romano sbruffone
con un giovane timido diventa il ritratto efficace di un periodo di vitalità, illusioni e false
certezze (il “sorpasso” finale porta ad un incidente in cui perde la vita il più inerme dei due
protagonisti). Marcello Mastroianni e Sophia Loren furono protagonisti di diverse
commedie di successo, spesso dirette da De Sica, come Matrimonio all’italiana (1964).
Tuttavia dopo gli eventi del ‘68 e negli anni del terrorismo italiano la commedia declinò,
pur restando il genere italiano di maggior successo commerciale.
il “musical racconto di fate”, cioè la fiaba. Si riferisce a film in cui si racconta un incontro
d’amore, perciò è più vicino alla commedia, come i cartoni di Walt Disney.
Molti musical furono inoltre versioni musicali di commedie di successo, come Alta Società
(1956) di C. Walters.
L’importanza della colonna sonora nel musical e il problema della messa in scena delle
canzoni determinò soluzioni interessanti nella resa spazio-temporale: ad esempio la
stessa canzone può essere cantata in tempi e luoghi diversi da vari personaggi, unificati
dal montaggio sonoro, come in Amami stanotte (1932) di Mamoulian; oppure la canzone
può essere cantata dagli stessi personaggi in tempi e luoghi diversi, come avviene in Un
giorno a New York (1949) di G. Kelly e S. Donen, dove i marinai cantano il loro entusiasmo
per lo sbarco nella città, e le immagini li presentano in vari luoghi tipici newyorkesi.
Avventuroso: genere vasto, che comprende il “western”, il film storico, il film sulle
esplorazioni. Viene narrato un viaggio in terre o tempi lontani, irto di pericoli. Gli ambienti
sono spesso esotici, c’è il tema dell’eroismo e molteplici scene d’azione (spesso duelli).
L’avventuroso epico verte su personaggi chiamati a un grande destino, responsabili delle
sorti di un intero popolo. Il racconto popolare presuppone l’identificazione coi personaggi
buoni, anche se agiscono nell’illegalità, perché superiori ai loro nemici. Un esempio è La
leggenda di Robin Hood (1938) di M. Curtiz: oltre a rubare ai ricchi per dare ai poveri,
Robin diventa il difensore dei diritti del re legittimo.
Western: genere tipico del cinema americano, nasce come rappresentazione mitica di un
evento storico, ossia la conquista dei territori dell’Ovest. Simboleggia il rapporto
dell’uomo con una natura e una civiltà selvagge. Il western si vide già alle origini del
cinema, con La grande rapina al treno (1903) di E. S. Porter: le immagini dell’assalto al
treno da parte dei banditi erano qualcosa che al tempo poteva ancora succedere nei
territori del West, ma nel film lo si faceva con 14 inquadrature di campi medi e lunghi,
avviando il cinema verso le sue caratteristiche più originali. In seguito i grandi spazi e la
concretezza fotografica del cinema divennero gli elementi essenziali del western, facendo
la fortuna del genere, anche grazie ad una codificazione molto rigida sia dei personaggi
(lo sceriffo, il bandito, il cowboy) sia a livello di immagini (modi di vestire, armi, arredi).
Massimo autore del western classico è John Ford, il cui film più famoso è Ombre rosse
(1939), che narra il viaggio di una diligenza con 9 persone in un territorio pericoloso per i
pellerossa guerrieri. Gli elementi che prevalgono sempre nei suoi film sono il senso del
dovere e del sacrificio.
Molta fortuna ebbero anche i western italiani di Sergio Leone, come Per un pugno di
dollari (1964), segnati da un atteggiamento cinico.
Nel western anni ‘50 e ‘60 la figura dell’eroe si ridimensiona: spesso il protagonista
rinnega il passato avventuroso, desiderando solo vivere in pace.
Il selvaggio West viene rappresentato dal cinema come una “terra promessa” dove i
pionieri (bianchi) hanno la missione di portare la civiltà, superando l’opposizione dei
pellerossa. In seguito agli sconvolgimenti degli anni ‘60 la prospettiva viene mutata, con
un maggiore rispetto della verità storica. Le opere tarde degli anni ‘70 rappresentano la
fine del genere in quanto tale, sebbene compaiano singole opere successive come Balla
coi lupi (1990) di Kevin Kostner, che afferma la necessità di adottare un atteggiamento
antirazzista verso gli indiani.
Film di guerra: sotto il profilo strutturale e tematico, il genere ha forti affinità con
l’avventuroso, ma come il western è contraddistinto da forti intenti finalistici (celebrare il
sacrificio o condannare la guerra). Anche qui i personaggi sono per lo più maschili; la
struttura narrativa è solitamente a percorso. L’aspetto spettacolare del genere è costituito
dalla guerra stessa, con bombardamenti, esplosioni, scene di massa.
Il genere è costante nel tempo, ma lo si trova maggiormente presente negli anni vicini alle
guerre mondiali. Durante la Grande Guerra registi come Griffith e De Mille realizzarono
opere di propaganda, mentre un più ambiguo intervento venne da Charlie Chaplin con
Charlot soldato (1918), che fece dell’amara ironia sulla vita di trincea.
Dal 1941, quando anche gli Stati Uniti entrarono nel conflitto, anche Hollywood diede
grande spazio al genere di guerra: in particolare molti registi versati nel western e
avventuroso realizzarono anche i migliori bellici, come Howard Hawks e John Ford.
Come genere spettacolare, il film di guerra continuò per tutti gli anni ‘50 sia a Hollywood
che in Italia; allo stesso tempo continuarono anche i film di condanna, come Orizzonti di
gloria (1957) di Stanley Kubrick, che poi tornerà sul tema anni dopo con Full Metal
Jacket (1987). È da segnalare anche il discorso contro la guerra di Francis Ford Coppola
in Apocalypse Now (1979), che racconta il viaggio su un fiume di un giovane militare
americano in Vietnam, in cui la guerra appare come un’apocalisse assurda. Discorso
ambiguo rimane quello di Salvate il soldato Ryan (1998) di Steven Spielberg, dove il
sacrificio di molti uomini permette almeno di salvarne uno, che divenuto anziano si chiede
se si è meritato un simile sacrificio. La sottile linea rossa (1998) di Terence Malick contiene
invece una poetica riflessione sulla guerra e sulle ragioni che inducono gli uomini
all’autodistruzione.
Poliziesco e noir: il tema primario del film poliziesco è l’impossibilità di successo del
criminale (almeno nel cinema classico). Risolvendo il caso, il detective fa tornare la
situazione di serenità esistente prima che fosse compiuto l’atto del criminale. Esistono
diversi tipi di film poliziesco:
• Il film “nero”, in cui il crimine viene introdotto durante la narrazione e può ripetersi
prima che venga trovato il criminale (es. L’altro uomo e La finestra sul cortile sempre di
Hitchcock).
Spesso il poliziesco è basato sulla “motivazione simulata”, cioè una serie di indizi falsi,
introdotti apposta per sviare le supposizioni dello spettatore, come ne Il sospetto (1941) di
Hitchcock, che illumina un bicchiere di latte facendo credere sia avvelenato.
In Italia il genere non è mai stato molto fiorente; qualche eccezione è rappresentata dai
film tratti dai romanzi di Sciascia, ambientati in Sicilia e centrati su delitti di mafia.
Fanno parte di questo genere anche i film che trattano di rapine, come Rapina a mano
armata (1956) di Kubrick, in cui la narrazione è frazionata a seconda dei punti di vista dei
vari personaggi, con spostamenti cronologici inusuali nel cinema classico.
Negli anni ‘60 prevale la visione retrò sul gangsterismo degli anni ‘30, come in Bonnie and
Clyde (1967) di Arthur Penn, storia di una coppia di amanti gangster nell’America
provinciale.
Fantastico: genere molto vasto, che comprende le fiabe e i miti, e i racconti “horror”. È
presente fin dalle origini del cinema con le sperimentazioni di Méliès. Il fantastico è
spesso contaminato con altri generi, dando vita a melodrammi fantastici, commedie
fantastiche o polizieschi fantastici. Perché un racconto sia considerato fantastico non ci
deve essere spiegazione naturale dei fatti narrati.
Ci sono poi film in cui i fenomeni descritti sono naturali, ma hanno rapporti o dimensioni
diversi da quelli conosciuti, come in Godzilla (1954) di I. Honda, o Jurassic Park (1993) di
Spielberg.
Quando si parla di maghi, streghe, magie si ricorre alle fiabe, spesso con cartoni animati
(egemonia di Walt Disney in questo ambito). In molti casi le fiabe filmiche diventano
musicals, facendo largo uso di canzoni, come ne Il mago di Oz (1939) di Victor Fleming.
Verso il 1920 sorse in Francia, attorno a Louis Delluc, un movimento che considerava il
cinema sotto il profilo estetico: definito “impressionismo” (≠ da quello pittorico), coinvolse
soprattutto le Avanguardie. Negli stessi anni il cinema italiano era molto fiorente,
soprattuto grazie a una serie di film storici sull’antica Roma come Quo Vadis? (1912) di E.
Guazzoni e Cabiria (1914) di G. Pastrone, kolossal che ispirò la produzione americana di
Griffith, ad esempio per Nascita di una nazione (1915), epopea sulle vicende di due
famiglie divise dalla guerra civile americana.
Con lo scoppio della 1° Guerra Mondiale le cinematografie europee videro una riduzione
dei mercati, cosa che favorì l’egemonia industriale del cinema americano. Hollywood
divenne la capitale della produzione cinematografica, affermandosi anche grazie allo
Studio System che univa produzione, distribuzione ed esercizio (Metro-Goldwyn-Mayer,
Paramount, Warner Bros e dagli anni ‘30 anche 20th Century Fox, Columbia, Universal) e
ai personaggi divistici a esso collegati. Dal punto di vista artistico però le cinematografie
europee progredirono: in Francia come evoluzione della scuola di Delluc si sviluppò un
movimento d’avanguardia ispirato a dadaisti e surrealisti, il cui principale regista era lo
spagnolo Luis Buñuel (Un chien andalou, 1929). Sorsero anche nuovi registi come René
Clair, che dopo gli esordi avanguardistici passò a un cinema più attento ai gusti del
pubblico. Sempre in Francia c’era anche una scuola realista che dal punto di vista
figurativo si rifaceva all’impressionismo pittorico, il cui rappresentante fu Jean Renoir,
figlio del pittore.
Se per la produzione italiana gli anni ‘20 furono epoca di crisi, in Germania invece sorse
un cinema espressionista ricco di aspetti fantastici, onirici, di deformazione della realtà. Il
Gabinetto del dottor Caligari (1920) di R. Wiene rappresenta una delle massime
espressioni di questo cinema.
Ormai padrona dei mercati, Hollywood riuscì a esprimere negli anni ‘20 una serie di registi
di alto profilo artistico, come Charlie Chaplin (La febbre dell’oro,1925) e Buster Keaton
(Come vinsi la guerra, 1926). Sul piano più spettacolare si affermarono John Ford e King
Vidor.
In questi anni si affermò anche il cinema sovietico: c’erano autori con uno stile
costruttivista, come S. M. Ejzenstejn che potenziava il montaggio dei film, oppure chi
seguiva un realismo socialista più simile a quello della narrazione ottocentesca, come V.
Pudovkin. Ejzenstejn raggiunse il successo con La corazzata Potëmkin (1925), ma era
considerato un autore troppo intellettuale e di difficile comprensione per il pubblico.
Con questa introduzione inoltre nacquero nuovi generi come il musical e la commedia
sofisticata. Nello stesso periodo acquisiva importanza anche Walt Disney.
Nell’Italia fascista, il cinema tornò a fiorire a inizio anni ‘30, grazie a due registi in
particolare: Alessandro Blasetti, che si distinse in opere epiche e storico-fantastiche
come 1860 sull’impresa dei Mille, e Mario Camerini, che emerse come maestro di
commedie vicine al modello americano (Il signor Max), ma volte a esaltare la semplicità e i
sentimenti autentici della gioventù piccolo-borghese.
L’entrata in guerra determinò da una parte il potenziamento degli aspetti formali del film
(frequente ricorso a soggetti letterari e immagini pittoriche) per non affrontare la realtà del
momento; dall’altra parte il sorgere di una tendenza pre-neorealista, che avrebbe poi
trionfato nel dopoguerra. Ossessione (1943) di Luchino Visconti (che era stato assistente
di Renoir), girato in un’Italia vera, divenne il film-manifesto della rivista “Cinema” cui
collaboravano critici che negli anni successivi sarebbero diventati cineasti.
In America il 1939 segnò l’apice della produzione hollywoodiana del periodo, con enormi
successi come Via col vento di V. Fleming e Ombre rosse, col quale John Ford tornava al
genere western, o anche Il mago di Oz sempre di Fleming, che diede avvio alla fiorente
produzione di musicals alla MGM di Arthur Freed.
In un primo momento a schierarsi contro Hitler furono solo alcuni registi, come Chaplin
con Il grande dittatore (1940); ma con l’entrata in guerra degli Stati Uniti la produzione di
Hollywood si impegnò a sostenere gli sforzi bellici degli Alleati con film di forte carattere
propagandistico anche in melodrammi come Casablanca (1942). Nel 1941 esordì uno dei
massimi registi americani, Orson Welles, con Quarto potere.
La produzione dal 1945 al 1970 - il secondo dopoguerra si aprì nel segno del cinema
italiano. La cultura neorealista trovò la sua espressione migliore in una serie di capolavori
che seppero descrivere a pieno l’Italia uscita dalle tragiche esperienze della guerra, e in
particolare la miseria delle classi più deboli. Roberto Rossellini è considerato il fondatore
del Neorealismo perché con la trilogia Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania
anno zero (1947) riuscì a raccontare in termini già storici fenomeni appena verificatisi,
grazie a un nuovo stile che conferiva grande verosimiglianza alla finzione cinematografica.
Vittorio De Sica e Cesare Zavattini (sceneggiatore) affrontarono il tema dell’infanzia in
chiave sociale con Sciuscià (1946), riferendosi a come gli americani chiamavano i piccoli
lustrascarpe di strada, firmando poi il capolavoro Ladri di biciclette (1948), in cui la ricerca
di una bicicletta rubata da parte di un disoccupato e del figlio diventa un intenso discorso
sulla povertà nel dopoguerra. Nello stesso anno Luchino Visconti firmava La terra trema,
tratto dal romanzo “I Malavoglia” di Verga: il film non incontrò però il favore del pubblico
perché era di difficile comprensione, siccome fu girato in dialetto siciliano. I successi di
Giuseppe De Santis come Riso amaro (1950) univano impegno sociale, melodramma e
rappresentazione del mondo contadino.
Con l’inizio degli anni ‘50 il fenomeno neorealista pian piano si esaurì; nel contempo
comparvero nuovi registi che trasformarono poi il cinema italiano, come Federico Fellini,
con la favola poetica e mistica de La strada (1954), o Michelangelo Antonioni, che
ricorreva a un soggetto poliziesco per dare, in Cronaca di un amore (1950), un’immagine
nuova dell’Italia borghese avviata verso la ricostruzione, utilizzando uno stile
antitradizionale basato sul pianosequenza e sui tempi “morti”.
Nel cinema americano i maestri già affermati come John Ford, H. Hawks e W. Wyler,
ottennero nel dopoguerra grandi successi, sia nei western (per i primi due), sia ispirandosi
ai problemi del momento, come ne I migliori anni della nostra vita (1946) di Wyler.
Hitchcock, pur senza uscire dal suo genere, affinò il suo stile in capolavori come Notorius
(1946) e La finestra sul cortile (1954). Emerse come autore Billy Wilder, che firmò diverse
commedie come Quando la moglie va in vacanza (1955) e A qualcuno piace caldo (1959).
Per quanto concerne il musical, la MGM oltre a produrre le opere di Minnelli, nelle quali si
assisteva a un trionfo di colori, costumi e scenografie, puntò sulla coppia di registi S.
Donen e Gene Kelly (Cantando sotto la pioggia). Dal teatro, fondatore dell’Actor’s Studio,
proveniva Elia Kazan, che ottenne successo con Un tram chiamato desiderio (1951).
Messo sotto accusa per il passato comunista dal Comitato per le attività antiamericane,
Kazan denunciò numerosi colleghi, atto di cui resta traccia in termini allegorici nei suoi
film successivi come Fronte del porto (1954).
In Europa, a parte il caso italiano, otteneva buoni risultati la cinematografia inglese, grazie
a Powell e Pressburger con Scarpette rosse (1948), e Laurence Olivier con le tragedie
shakespeariane.
In Francia invece, accanto alle nuove prove di rigore formale e spiritualismo offerte da
Bresson, emergevano nuovi registi come René Clement, Jacques Becker e si affermava
la comicità fredda e misurata di Jacques Tati, abile nel criticare molti aspetti della vita di
quel periodo.
Nel 1950 il trionfo di Rashomon di Akira Kurosawa alla mostra di Venezia fece scoprire
agli occidentali l’esistenza di importanti cinematografie prima emarginate dai mercati. In
India Satyajit Ray realizzò la Trilogia di Apu, in cui seppe offrire un’immagine lirica e
dolorosa del suo paese grazie soprattutto alla conoscenza del cinema neorealista.
In URSS l’evoluzione della cinematografia era stata ostacolata dal cinema di regime:
Ejzenstejn fuggì negli Stati Uniti e in Messico, tornando poi in patria riconquistando il
favore dei dirigenti con l’epopea medievale Aleksandr Nevskij. I film di genere e di
propaganda continuarono a prevalere fino all’epoca del “disgelo” kruscioviano.
Intanto emergeva in Svezia la figura di Ingmar Bergman, che faceva del problema del
soprannaturale e della ricerca di Dio il tema primario dei suoi film (es. il protagonista de Il
settimo sigillo è un cavaliere cristiano di ritorno dalla Crociata impegnato a giocare a
scacchi con la Morte).
Con gli anni ‘60 il cinema si trasformò a livello internazionale, specie dal punto di vista
linguistico, facendo nascere il “nuovo cinema”. In primo luogo vi fu la Nouvelle Vague
francese, che esplose nel 1959 al festival di Cannes con I quattrocento colpi di F. Truffaut
e Hiroshima mon amour di A. Resnais. I giovani cineasti della Nouvelle Vague venivano
quasi tutti dalla rivista “Cahiers du Cinéma”, in cui avevano elaborato la “politica degli
autori”, opponendosi al più tradizionale cinema francese in nome del principio secondo
cui ogni regista che fosse “autore”, cioè avesse uno stile riconoscibile (e il metodo era
basato più sulla forma che sui contenuti), era da ritenersi un valido regista. In questi anni
ci fu anche il debutto da regista di Jean-Luc Godard, con Fino all’ultimo respiro (1960):
egli fu il cineasta più radicale tra quelli della Nouvelle Vague, sia nello scardinare le regole
tradizionali del linguaggio, sia nello svolgere una critica sociale vicina all’ideologia
marxista, arrivando a una produzione militante, distribuita in modo clandestino o rifiutata
dai produttori. In seguito Godard fece ritorno a un tipo di cinema che si serviva delle star
amate dal pubblico, pur non rinunciando ai discorsi politici marxisti interni.
I fenomeni più significativi degli anni ‘70 furono il Nuovo Cinema Tedesco e la rinascita
del cinema americano. Il primo prese avvio dal “Manifesto di Oberhausen” del 1962, in
cui alcuni giovani registi presero posizione contro l’immobilismo della cinematografia
tedesca, auspicando una produzione libera da vincoli commerciali. Uno dei primi film
realizzati fu La ragazza senza storia (1966) di A. Kluge. Emersero autori come W. Herzog,
onirico e interessato a figure di emarginati o folli; R. W. Fassbinder, che scelse invece
tematiche di rottura, sia morale che politica. Negli anni ‘80 la stagione del Nuovo Cinema
Tedesco si esaurì. Quanto al Nuovo Cinema Americano, gli autori che emersero negli
anni ‘70 sono quelli tuttora in auge: R. Altman, dopo il grande successo di MASH (1970),
che riproponeva in termini giocosi e cinici il film di guerra, si dedicò a una rivisitazione dei
generi; Francis Ford Coppola con Il padrino diede una straordinaria immagine della
società americana, attraverso il gioco della violenza e del potere, girando poi Apocalypse
Now (1979) per svolgere un discorso sulla guerra del Vietnam e la guerra in generale;
Martin Scorsese offrì una convincente rappresentazione della violenza e delle ossessioni
religiose caratteristiche della Little Italy con Mean Streets (1973) e Taxi Driver (1976); la
tradizione del grande spettacolo trovò un erede in Steven Spielberg, che seppe
conciliare uso degli effetti speciali, ricche scenografie e capacità narrative in successi
come Lo squalo (1975), I predatori dell’arca perduta (1981, unendo avventura, esotismo e
recupero del fumetto dando inizio alla serie su Indiana Jones), quest’ultimo ispirato
dall’amico George Lucas regista di Guerre Stellari (1977); i film di Woody Allen come Io e
Annie (1977) e Manhattan (1979) fondono temi come la cultura “europea” di New York, le
radici ebraiche e la psicanalisi in chiave comica.
La produzione fino al 2001 - negli anni ‘80 e ‘90 il cinema vide un’emorragia di spettatori
che si verificò, soprattutto nel mondo occidentale, a causa del diffondersi delle televisioni
private, videocassette, computer, sebbene ogni tanto qualche grossa produzione fece
ancora successo (come Titanic, 1997 di J. Cameron). Ciò non era sintomo di crisi
qualitativa, anzi permise una maggiore circolazione internazionale dei prodotti. Se il
cinema americano fu commercialmente sempre dominante, non lo era sempre dal punto
di vista culturale: infatti i fenomeni più interessanti degli anni ‘90 sono venuti dall’Asia. Per
quanto riguarda l’Est europeo, le profonde trasformazioni che avrebbero portato alla fine
del comunismo cominciarono ad avvertirsi in Polonia, dove con L’uomo di marmo A.
Wajda realizzò nel 1977 un film denuncia verso lo stalinismo, mentre il maggior regista
sovietico, A. Tarkovskij, dopo l’allegoria poetica di Stalker (1979), lasciava l’URSS per
proseguire in Occidente il suo discorso. Chiudevano intanto le loro carriere David Lean,
reduce dai kolossal come Lawrence d’Arabia (1962), e John Huston con un adattamento
da Joyce: The Dead - Gente di Dublino (1987), intenso e malinconico discorso in cui un
pranzo post-natalizio di inizio ‘900 diventa la metafora della complessità dell’esistenza.
Sempre partendo da un romanzo, in particolare di Schnitzler, si congedò dal cinema
anche S. Kubrick con Eyes Wide Shut (1999).
Importanti novità vennero dal cinema inglese, che nel corso degli anni ‘80 attraversò una
fase di grande ripresa (fenomeno chiamato “British Renaissance”), che coincise col lancio
a livello internazionale di molti giovani registi come P. Greenaway con I misteri del
giardino di Compton House, pittore e quindi particolarmente attento all’immagine e al
colore.
Per quanto riguarda il cinema italiano, negli anni ‘80 e ‘90 esso conobbe un periodo
infelice, essendosi rinchiuso in una serie di storie minimali che tentavano invano di
contrastare il dominio della cultura televisiva. Tuttavia erano ancora attivi diversi autori
come Sergio Leone, che negli anni ‘60 aveva rinnovato il western, giungendo a realizzare
un capolavoro con la sua ultima opera C’era una volta in America (1984), malinconica e
violenta rievocazione di mezzo secolo di malavita a New York. Nella seconda metà degli
anni ‘80 Fellini prese posizione contro la cultura televisiva con Ginger e Fred, per poi
chiudere la sua carriera augurando al mondo un salutare silenzio (La voce della luna,
1990). Bertolucci invece si allontanò dalla realtà italiana e riscosse un successo
internazionale vincendo l’Oscar con le raffinatezze della Cina d’inizio ‘900 de L’ultimo
imperatore (1987). Tra i nuovi autori italiani di quel periodo vi furono Nanni Moretti, il cui
discorso spesso autobiografico e politico si affinò sempre più (da Ecce bombo, 1978 a La
messa è finita, 1985), Giuseppe Tornatore, specie con Nuovo Cinema Paradiso (1988),
elegia sulla fine del cinema in sala, seguita dopo dieci anni da La leggenda del pianista
sull’oceano (1998). Altri autori europei emersi furono il danese Lars von Trier con Le onde
del destino (1996), Pedro Almodovar, che unisce comicità e tragedia come nel
melodramma estremo Tutto su mia madre (1999), con uno stile riconoscibile dai colori
molto vivaci.
Tuttavia è dall’Asia che giunsero le personalità più nuove, ad eccezione del Giappone, in
cui rimase attivo solo Kurosawa, che concluse la sua carriera con Ran (1985), capolavoro
tragico tratto da “Re Lear” di Shakespeare. È la Cina ad essersi imposta con varie
personalità di registi, tra cui Zhang Ymou, regista di Lanterne Rosse (1991), un discorso
sul potere svolto attraverso la storia di una concubina, girato con straordinarie simmetrie
formali.
Capitolo 4 - I personaggi
Personaggio e attore - l’importanza dei personaggi, collegati da vari rapporti, veniva
riconosciuta dai formalisti russi verso la fine degli anni ‘20 come elemento necessario alla
progressione della “fabula”. Il personaggio del film di finzione ha molte caratteristiche
comuni con quello del romanzo, che raramente si vede mangiare o dormire (tranne nel
caso in cui l’azione assuma un significato allegorico); in compenso egli è preso da
rapporti umani, soprattutto dagli amori. Il personaggio, oltre ad essere definito in
sceneggiatura, è anche un’immagine: perciò, mentre lo scrittore può decidere che aspetto
presentarne, il regista deve presentarlo tutto. L’autore del film deve infatti scegliere
l’individuo-attore che presti i suoi tratti fisici al personaggio, per poi decidere come
vestirlo (lavoro del costumista), come illuminarlo nelle scene (lavoro del direttore della
fotografia) e come farlo muovere o parlare. Ecco perché nel cinema è così importante
l’entrata in scena di un personaggio, cioè il momento in cui lo spettatore lo incontra.
Il fenomeno del divismo - il legame tra personaggio e attore, dovuto alla necessaria
trasformazione in immagine, è all’origine del fenomeno del divismo. Il termine accosta il
personaggio filmico alla divinità: i “divi”, personaggi di successo la cui immagine ha
grande diffusione, vengono chiamati così come se vivessero oltre l’esistenza terrena
grazie ai loro film. Per far trasformare in divo un attore però non ci sono condizioni
assolute, bensì fattori imprevedibili di natura sociologica, oltre al ricorso a pubblicità e
media. Inoltre il successo ottenuto da un attore con un personaggio condizionerà la sua
attività futura, perché il pubblico tende a voler ritrovare quel personaggio, che lo
spettatore identifica con l’individuo-attore, anche se può essere molto distante dalla sua
vera personalità. D’altra parte tutta l’industria del cinema si è basata su questo fenomeno,
chiamato “Star System”; specie ai tempi dello Studio System, quando gli attori erano
legati a una particolare Casa, leggendo il loro nome sopra il titolo del film il pubblico
sapeva già che genere di personaggio sarebbe apparso.
Ogni epoca della storia del cinema ha i propri personaggi divistici e soluzioni diverse per
le loro entrate in scena. Ad esempio l’ultima grande star del cinema, Marilyn Monroe, in
Quando la moglie va in vacanza (1955) di B. Wilder è presentata in modo diverso dalla
Garbo: il protagonista maschile, rimasto solo a lavorare a New York, sente suonare alla
porta, e a questo punto il pubblico viene messo sull’avviso dal motivo musicale, infatti
aprendo la porta appare Marilyn con in mano dei sacchetti di patatine. In questo caso il
genere cui appartiene il film (la commedia) e il periodo in cui venne realizzato (il 2°
dopoguerra) determinano una trasformazione rispetto alle “magiche” entrate della Garbo;
allo stesso tempo però la musica e le immagini colorate inducono il pubblico a
identificarsi con il protagonista, agli occhi del quale la ragazza appare come un sogno
proibito.
L’entrata in scena ritardata non è però sempre dovuta al fenomeno del divismo: in
Ossessione (1943) di Visconti, quando il camion si ferma davanti allo spaccio, il
protagonista maschile entra in scena, ma a una certa distanza e col cappello calato sugli
occhi. Nella cucina dello spaccio vediamo la protagonista femminile seduta sul tavolo,
che sollevando lo sguardo ci presenta se stessa, e ci prepara anche all’incontro con lo
sguardo dell’uomo, che infatti appare in primo piano, con movimento di macchina in
avanti. Tale soluzione serve a raccontare l’impatto che la visione del volto dell’uomo ha
sulla donna, e perciò l’inizio della loro storia amorosa.
Grazie alle possibilità del mezzo filmico, il regista dispone di molti modi per differire
l’incontro tra spettatore e attore, anche quando la star si trova già in scena. Ad esempio
nella seconda sequenza di Notorius al centro dell’inquadratura c’è un uomo seduto di
schiena e in ombra: quando resta da solo con la protagonista, lo spettatore può
finalmente vederlo chiaramente, perché la macchina scivola fino a inquadrarlo in primo
piano. In altri casi invece il personaggio entra in scena all’improvviso, ad esempio in Luci
della città viene calato il tendone che copre un monumento e sotto spunta il vagabondo
protagonista (Chaplin). A volte può essere il motivo musicale associato a certe immagini a
connotare la presenza di un personaggio: in Lolita, quando il professore scorge la
protagonista in costume, si sente una canzone ripetuta più volte poi nel film, sia per
ribadire l’età adolescenziale della ragazza, sia per rievocarne l’impatto sul professore che
se ne è innamorato. Oppure la presentazione è affidata ad un personaggio, diventando
perciò molto soggettiva: in Un americano a Parigi l’entrata in scena di Lise si traduce in
una serie di immagini contrastanti che visualizzano la descrizione che Henry sta facendo
della ragazza ad un amico. Sullo schermo si susseguono tante immagini di Lise, danzanti
e colorate, che non permettono volutamente allo spettatore di farsi un’idea sulla ragazza:
infatti, essendo un musical, l’espediente permette di mostrarne innanzitutto le doti da
ballerina.
Capitolo 5 - L’immagine
I teorici dell’immagine filmica - l’immagine è l’elemento primario del fatto filmico.
Anche le immagini hanno una loro tradizione storica, fatto che ha costituito un dibattito fin
tra i primi teorici di cinema. Già nel 1911 il critico Canudo definì il cinema la “settima
arte”, ma espresse anche la preoccupazione idealistica che il cinema fosse la copia del
vero anziché l’interpretazione (come la pittura). Nel manifesto futurista del cinema del
1916 si rifiutava ogni realismo fotografico, e si voleva un cinema “essenzialmente visivo”,
in grado di compiere la rivoluzione già compiuta dalla pittura, staccandosi dall’imitazione
della realtà; ma l’immagine cinematografica andava orientandosi nella direzione opposta a
quella preconizzata dai futuristi.
L’autonomia del nuovo mezzo, libero dal rischio di copiare la pittura, è sostenuta dagli
autori della “prima avanguardia” francese (Delluc, Gance, Epstein), i quali evitano di
realizzare “quadri viventi” nei loro film.
Ejzenstejn inoltre pensava che il colore fosse sempre culturale e mai assoluto, cioè esso
non esprime mai simbolicamente qualcosa di per sé, ma solo all’interno di una
determinata cultura, e può quindi acquisire un significato diverso in un’altra. Lo stesso
ricorso al bianco e nero nel cinema dell’epoca poteva assumere valenze contrarie: in
Aleksandr Nevskij (1938), il regista ricorre al bianco dei mantelli dei cavalieri teutonici per
simboleggiare crudeltà e morte, mentre il nero connota l’eroismo dei guerrieri russi.
In tempi più recenti i teorici hanno preso in esame il legame tra l’immagine filmica e il
problema del fuori-campo: la differenza principale tra pittura e cinema consisterebbe nel
fatto che nella prima la cornice è centripeta, mentre lo schermo è centrifugo (benché
erede della prospettiva unicentrica rinascimentale, l’immagine cinematografica unisce
all’importanza della base una maggiore importanza dei lati, che ne determinano il
carattere centrifugo).
L’inquadratura è sempre il risultato di una duplice scelta da parte del regista e dei suoi
collaboratori:
• da un lato c’è l’aspetto “profilmico”, con cui ci si riferisce a tutto ciò che sta davanti
alla macchina da presa e viene fotografato
Il profilmico: ambiente e figure - lo spazio rappresentato nei film può essere naturale,
cioè semplicemente scelto e fotografato, oppure ricostruito da uno scenografo. Nel
cinema di finzione delle origini (≠ da quello realistico dei Lumière) il problema delle
scenografie veniva risolto tramite il ricorso a fondali dipinti, come nel teatro. Fu il cinema
storico italiano dell’epoca del muto a compiere una rivoluzione in questo, utilizzando
scenografie tridimensionali sfarzose ed elaborate. In Cabiria, G. Pastrone usò molte
scenografie, il cui carattere tridimensionale veniva sottolineato dai movimenti di
macchina. Sia lo stile di queste scenografie, sia il potenziamento visivo ottenuto, furono
ripresi da Griffith per l’episodio babilonese di Intolerance, in cui è contenuta la più grande
scenografia utilizzata nel cinema (il grande tempio).
In certi generi, come il kolossal, il film storico o il musical, scenografie e costumi sono più
importanti che in altri.
Anche nel cinema orientale recente si trova un uso simbolico della scenografia, ad
esempio in Lanterne rosse (1991) di Zhang Ymou, dove lo spazio è simbolicamente e
simmetricamente organizzato, soprattutto in modo da chiudere la figura della
protagonista: si può vedere un’inquadratura ricorrente dei tetti che chiudono i cortili, ma
anche le mura, le porte, le finestre, persino le lanterne del titolo hanno funzione di
chiusura.
La luce e il colore - la prima distinzione da fare tra le luci è quella tra illuminazione
intradiegetica (una luce che entra nella narrazione e di cui è indicata la fonte) e
illuminazione extradiegetica (luci nascoste allo spettatore, che determinano le
atmosfere fotografiche e coloristiche). Dal punto di vista della luce, si può trovare
un’equivalenza tra pittura e cinema: in quest’ultimo la luce perde la funzione simbolica
che ha nella pittura, ma ne mantiene quella “drammatica”, che si connette
all’organizzazione dello spazio, e soprattutto conserva la funzione narrativa atmosferica.
Fabrice R. D’Allonnes pone una distinzione tra la luce del cinema classico, significante e
drammatizzata, e la luce del cinema moderno, documentaria e non drammatizzata, per
cui richiama gli esempi di Rossellini e della Nouvelle Vague. Ciò non significa che nel
cinema moderno non vengano utilizzate luci artificiali, ma si punta ad un effetto realistico,
senza per esempio le esasperazioni di ombre e luci proprie della fotografia espressionista.
Un tempo l’impiego di luci artificiali era necessario anche per il problema delle pellicole
poco sensibili.
• Key light, luce primaria di solito frontale, che determina luci e ombre principali
• Fill light, laterale e di riempimento, cioè attenua o elimina le ombre create dalla key light
• Back light, posta dietro alle figure riprese e rialzata, in modo da staccarle dagli sfondi
- La qualità, che si riferisce all’intensità di illuminazione (se è forte crea ombre definite,
se è debole crea ombre diffuse).
- La direzione: esistono luci frontali (eliminano le ombre), luci laterali (tendono a scolpire
le figure con tante ombre), luci posteriori (trasformano le figure in silhouettes), luci dal
basso (nei primi piani alterano i lineamenti, perciò vengono usate spesso negli horror),
luci dall’alto (usate raramente da sole).
- La fonte, cioè le già citate sopra (key light, fill light, back light), che si combinano
insieme, soprattutto nel cinema classico.
- Il colore, il cui ricorso avvenne fin dalle origini, per realizzare una riproduzione più
fedele alla realtà. Inizialmente si arrivò anche a dipingere le pellicole fotogramma per
fotogramma, mediante sottili pennelli; ma il sistema che più si diffuse durante l’epoca
del muto consisteva nel dare alla pellicola un colore uniforme per ciascuna sequenza o
inquadratura. Il vero e proprio cinema a colori si diffuse dalla 2° metà degli anni ‘30: il
primo lungometraggio fotografico in Technicolor fu Becky Sharp (1935) di Mamoulian,
anche se (così come il sonoro), anche il colore fu inizialmente rifiutato. Tuttavia si
utilizzò fin da subito il colore per quella poetica antirealistica di certi generi come il
musical: ad esempio ne Il mago di Oz (1939), la giovane Dorothy apre la porta di casa,
fino a quel momento fotografata insieme a lei in bianco e nero, e si spalanca al nostro
sguardo il fantastico mondo a colori di Oz.
In Europa invece in quegli anni non si voleva incorrere nel rischio della piatta
riproduzione della realtà. Chi più teorizzò l’utilizzo del colore filmico fu Ejzenstejn, che
non rifiutava il colore a priori, ma respingeva il variopinto (era contrario alle scelte
coloristiche di Walt Disney). La sua posizione venne ripresa anni dopo da M. Antonioni
in film come Deserto rosso (1964), in cui il colore è quello dei sentimenti, al punto che il
regista arrivò ad alterare i colori delle scenografie preesistenti.
In sintesi, l’industria cinematografica dapprima relegò il colore ai generi più irrealistici
(l’avventuroso, il musical e il fantastico), per poi invece abbandonare la fotografia in
bianco e nero, grazie anche alle maggiori possibilità tecniche della pellicola.
Sempre molto pittorici sono anche i film di Luchino Visconti, ad esempio in Senso (1954)
è narrato l’800 italiano attraverso il linguaggio pittorico di Fattori per le scene di guerra,
quello di Hayez per la descrizione del mondo aristocratico veneto, e quello di Signorini
per gli ambienti borghesi.
Vi sono comunque casi in cui l’utilizzo di chiavi pittoriche per l’immagine filmica è
motivato sotto il profilo culturale, ma non sotto quello cronologico: ad esempio si trovano
sia il contemporaneo Espressionismo, sia il Romanticismo nel Faust (1926) di Murnau.
Il rappresentante più tipico di questi registi che, a differenza di Visconti, ricorrono alla
chiave pittorica per ragioni esclusivamente culturali è Pier Paolo Pasolini, che in film come
Accattone si serve della chiave figurativa ‘400esca per esprimere la sacralità del suo
mondo sottoproletario di borgata. Egli fu più inventivo nella figurazione di Edipo re, in cui
il mondo greco è composto da elementi della cultura africana fusi con quelli giapponesi. Il
regista infatti pensava che le società preindustriali fossero sostanzialmente tutte
omogenee, anche quelle lontane nel tempo e nello spazio.
Il rapporto con la pittura si è intensificato soprattutto col cinema degli anni ‘80: in
Inghilterra P. Greenaway ne fu il caso più significativo; in Francia l’attenzione all’immagine
era propria di Rohmer e Rivette, oltre all’ultimo Bresson; anche il cinema americano
appare qui più attento che mai all’aspetto pittorico, ad esempio nei film di Coppola,
Scorsese e Woody Allen. Inoltre il cinema americano si è spesso riferito, in funzione
documentaristica, alla storia della fotografia: ad esempio Griffith si ispirò a fotografie che
avevano documentato la guerra civile americana, e John Ford si riferì a quelle della FSA
per ricostruire un ambiente di campagna dopo la grande depressione del ‘29.
Tipi di inquadrature - nel cinema delle origini l’inquadratura era fissa e l’immagine
corrispondeva a quella centrale, come nel teatro. Tramite la variazione dei piani, che
dipende dalla distanza della macchina da presa rispetto a quanto fotografato, è possibile
ottenere diversi tipi di inquadratura:
• Il campo lungo è quello in cui viene inquadrato un ampio spazio. Se la ripresa avviene
in interni e tutto l’ambiente risulta visibile, si parla di campo totale. Quando la ripresa è
molto ampia, ad esempio se fatta da un aereo, si parla di campo lunghissimo
(frequente nei western).
- La figura intera
- Il dettaglio, che presenta a tutto schermo una parte del corpo o un oggetto.
Le inquadrature in primo piano vengono memorizzate più facilmente dal pubblico: per
questo Deleuze lo chiama “immagine affezione”, distinguendo un volto riflessivo (proprio
di Griffith) da uno intensivo (es. Ejzenstejn).
Anche il primissimo piano non ha sempre lo stesso significato: ad esempio nelle Notti di
Cabiria (1957) di Fellini la protagonista credeva di aver trovato un brav’uomo, ma si
sbaglia perché le ruba i soldi; alla fine della sequenza di scene, c’è un lungo primo piano
sulla ragazza che sorride, accettando la vita, mentre piange. In questo caso il regista non
solo lascia spazio a uno dei clichés recitativi dell’attrice, ma lo potenzia grazie alla scelta
e alla durata dell’inquadratura.
Angolazione - anche quello della scelta dell’angolazione, cioè del punto di vista dal quale
riprendere, è un problema che il cineasta condivide col fotografo e col pittore tradizionale.
Infatti, a seconda della collocazione della cinepresa, cambia l’impressione che lo
spettatore avrà dell’inquadratura.
Se il cinema delle origini appare privo di angolazioni, limitandosi a una ripresa centrale, in
realtà si può trovare l’angolazione in uno dei primi film dei Lumière: ne L’arrivo di un treno
alla stazione (1895) l’angolazione scelta dall’operatore fa sì che i vagoni entrino nel quadro
in alto a destra e ne escano in basso a sinistra, dando l’illusione di invadere lo spazio
sottostante, in quanto il movimento è la causa prima dell’impressione di realtà nel cinema.
La ripresa dal basso è utile quando si vuole mitizzare un personaggio (sia in positivo che
in negativo), mentre le angolazioni dall’alto connotano debolezza e inferiorità. Altra cosa è
la ripresa in verticale dall’alto, chiamata “plongée” dai francesi, che serve soprattutto per
evidenziare certi movimenti coreografici (tipici dei musical).
Quando il movimento è più complesso e viene effettuato con macchine come la gru e il
dolly, con salita o discesa della cinepresa, si parla di travelling. Nel dolly la cinepresa è
fissata su un braccio mobile sistemato sulla piattaforma di un veicolo a ruote. Dagli anni
‘70 si è fatto ricorso anche alla steadicam, un’intelaiatura che indossa l’operatore, dotata
di ammortizzatori, su cui viene fissata un’apposita macchina da presa: in questo modo
anche se l’operatore si muove, nelle riprese non compare il sobbalzo (presente invece
nella ripresa con macchina a mano, utilizzata per ottenere effetti di “cinema-verità”).
Dal punto di vista espressivo, gli usi della carrellata sono molteplici: uno di questi è il
movimento narrativo, il cui fine consiste nel facilitare il narratore in alcune fasi del
racconto (è quello impiegato solitamente per presentare un personaggio, il quale appare
confuso in mezzo alla folla inquadrata in campo lungo, prima che la cinepresa lo vada a
isolare). Ne La vedova allegra di E. Lubitsch la stessa soluzione tecnica serve non a
presentare i personaggi, ma a costruire un numero musicale senza soluzioni di continuità
nel sonoro: la prima canzone comincia in camera di Danilo, e poi la cinepresa inquadra
dall’esterno l’albergo in cui si trovano i protagonisti, fino al momento in cui viene
inquadrata la camera di Sonia, che sta cantando la stessa canzone.
Diversa finalità narrativa, ossia dare allo spettatore un’informazione rispetto alla chiusura
in ellissi della scena precedente, ha il movimento di gru utilizzato da Hitchcock in Notorius
nella sequenza della festa, quando la cinepresa parte da un totale del salone ripreso
dall’alto e poi scende fino al dettaglio della chiave nella mano della protagonista.
La funzione più ovvia della carrellata è quella descrittiva, che il cineasta usa quando vuole
che lo spettatore colga tutti gli aspetti di un ambiente in cui il personaggio sta entrando: vi
ricorre di frequente Visconti, ad esempio nell’incipit de Il gattopardo, col lento movimento
che dall’esterno del giardino passa alla terrazza e da qui all’interno del salone in cui la
famiglia del principe si trova.
In molti casi la carrellata viene usata per connotare un’emozione: un esempio è nel
cinema di Fellini, specie nel suo primo periodo, in cui troviamo il ricorso alla carrellata
all’indietro per descrivere la nostalgia provata da un personaggio nel lasciare qualcosa di
caro.
La funzione simbolica della carrellata si può trovare ne L’altro uomo di Hitchcock, che si
apre con rotaie che prima corrono parallele e poi si intrecciano, rappresentando il destino
dei protagonisti, due sconosciuti che si incontrano per caso sul treno e in seguito
vengono legati da una vicenda delittuosa.
Capitolo 6 - Il montaggio
Teorie sul montaggio - una volta terminate le riprese del film avviene la fase del
montaggio. Se ne possono distinguere una “macrostruttura” e una “microstruttura”: la
prima consiste nella strutturazione delle sequenze nel complesso dell’opera, perciò è già
in parte determinata dalla sceneggiatura; la seconda riguarda invece l’analitica
costruzione delle scene, con i “raccordi” e gli “attacchi” (quella alla quale lavorano i
montatori e spesso i registi).
Tipi di montaggio - nei film delle origini non c’è montaggio: si tratta di riprese in
continuità di un solo piano, in cui la variazione dell’inquadratura è data dal movimento
delle persone o delle cose in campo. I primi accenni di montaggio apparvero all’inizio del
‘900 nei film della scuola inglese; tuttavia la sua evoluzione è merito di Griffith, che costruì
le sequenze con una serie di inquadrature scelte per motivi di necessità drammatica.
Nel periodo del cinema classico (1917-1960 circa) si affermò a Hollywood il découpage
classico, una pratica di montaggio caratterizzata da una struttura lineare e cronologica
che tendeva a far identificare lo spettatore con la realtà rappresentata (soluzione che poi
si è imposta universalmente). Viene definito anche “montaggio invisibile” perché il
soggetto narrante non fa avvertire la propria presenza. Inoltre è caratterizzato dal principio
di continuità, finalizzato a favorire l’impressione di realtà nello spettatore e la sua
identificazione coi sentimenti dei personaggi. A questo scopo si ricorre ai raccordi, che
possono essere vari:
• Raccordo sull’asse, quando una figura viene avvicinata o allontanata rispetto a come la
si vedeva nell’inquadratura precedente (ma rimane sempre sullo stesso asse)
• Raccordo sonoro, quando una battuta di dialogo, una musica o un rumore serve a
legare 2 inquadrature.
Troviamo un esempio dell’uso dei raccordi nel découpage classico nella sequenza di
Colazione da Tiffany (1961) di B. Edwards, che si apre con lo scrittore Paul che sta
scrivendo a macchina (e noi vediamo le parole del racconto che sta iniziando grazie al
raccordo di sguardo); a un certo punto sente cantare una canzone, perciò si dirige alla
finestra (raccordo di movimento); è Holly che canta seduta sul davanzale (qui abbiamo un
raccordo sull’asse in avanti che la mostra meglio).
Altro aspetto essenziale del découpage classico è quello dello spazio a 180°: prendendo
come esempio una scena di dialogo tra 2 persone costruita sul campo-controcampo,
cioè inquadrando alternativamente i personaggi, possiamo notare che esiste una linea
immaginaria tra loro, che determina lo spazio entro il quale va posizionata la cinepresa. La
linea non può essere scavalcata (altrimenti avverrebbe lo scavalcamento di campo, che
avviene solo raramente per ragioni espressive), perciò le variazioni di inquadratura sono
comprese nel semicerchio dei 180°. Questa regola inoltre permette di avere continuità
negli sfondi dell’inquadratura di entrambi i personaggi.
Esiste poi il montaggio connotativo, teorizzato da Ejzenstejn, che si oppone alle regole
del découpage classico. Esso trae origine dallo studio dell’”effetto Kuleshov”,
esperimento di un regista sovietico che prese alcuni primi piani omogenei e insignificanti
di un attore, e li montò accanto a immagini di un piatto di minestra, di una donna morta e
di una bambina che gioca. Il pubblico vedendo le immagini accostate si entusiasmò per la
bravura dell’attore nell’esprimere sentimenti diversi. Nel montaggio connotativo il legame
tra le inquadrature è tale che il regista può inserire immagini che non centrano con
l’azione, ad esempio in Sciopero (1924) inserisce scene girate in un mattatoio per
assimilare l’immagine a quella dell’uccisione degli operai. Nella sequenza dell’eccidio
sulla scalinata di Odessa de La corazzata Potemkin, il rapporto tra le inquadrature crea un
ritmo, che non è dato solo dal “conflitto” tra le inquadrature, ma anche all’interno di esse,
con conflitti di linee, piani, volumi e spazi.
Oltre a Ejzenstejn, il montaggio connotativo viene impiegato anche da Kubrick nel prologo
di 2001: Odissea nello spazio, in cui l’osso che ha suggerito a una scimmia l’idea di
violenza e di presa di potere sugli altri animali (per Kubrick la civiltà nasce sotto
oppressione e violenza) diventa, in un accostamento di inquadrature, con un’ellisse di
migliaia di anni, l’astronave del futuro.
Il montaggio costruisce un ritmo visivo, ma anche gli aspetti sonori del film hanno un
ruolo importante. Un esempio è la costruzione del montaggio a suspense in una
sequenza del film Marnie (1964) di Hitchcock, in cui la protagonista cleptomane si ferma
di nascosto in ufficio per compiere un furto: qui c’è un’inquadratura in campo totale con
l’inserimento dell’imprevisto (arriva la donna delle pulizie). La protagonista scorge la
donna, che non la vede, e si toglie le scarpe per uscire senza far rumore. Tuttavia le cade
una scarpa, ma non accade ciò che lo spettatore si aspetterebbe, perché nonostante il
rumore, la donna continua a lavorare. Solo alla fine si scopre che la donna è sorda.
Immagini e sonoro qui si intrecciano per creare, col montaggio, un forte effetto
spettacolare.
La profondità di campo dal punto di vista fotografico è un’immagine in cui tutti gli
elementi sono a fuoco, sia quelli in primo piano sia quelli sullo sfondo. Questa pratica
venne oscurata dal successo del montaggio, ma venne riportata in auge negli anni ‘40.
Quest’immagine, al pari del pianosequenza, lascia allo spettatore la libertà di visione. Un
esempio è dato da Quarto potere, nell’inquadratura in cui i genitori del piccolo Kane
decidono di affidarlo al banchiere Tatcher, che ne determinerà il futuro. Mentre il
banchiere parla coi genitori in casa, sullo sfondo si può vedere il bimbo giocare con una
slitta nella neve, perfettamente a fuoco (in posizione mediana sta il padre, mentre in primo
piano ci sono la madre e il banchiere). Qui lo spettatore è libero di scegliere cosa
guardare, come nella realtà: può soffermarsi sui personaggi che parlano, oppure prestare
attenzione al bambino.
Capitolo 7 - Il suono
Film muto e film sonoro - la sonorizzazione costituisce la fase finale nella lavorazione del
film, che comprende la messa a punto della colonna sonora con registrazione dei dialoghi
e delle musiche (quando il film non è in “presa diretta”, dove il sonoro è registrato durante
le riprese), e degli eventuali doppiaggio e missaggio, cioè l’unione di parole, musiche e
rumori. In realtà il film non fu mai del tutto muto: prima del ‘27 gli spettacoli
cinematografici erano accompagnati dal pianoforte, che non seguiva una precisa melodia,
ma si regolava a seconda del tono delle scene.
Già alle origini si trovò un modo efficace per accostare parole e immagini filmiche: nel
1895 Edison creò il kinetophone, basato su apparecchi per la visione singola
dell’immagine in movimento, che contenevano anche la trascrizione su rullo del relativo
sonoro. Rimase tuttavia il problema della sincronizzazione, fino al 1926, quando i fratelli
Warner utilizzarono il sistema Vitaphone, che utilizzava un riproduttore elettromagnetico
per sincronizzare immagini e suoni. Da qui, il 23 ottobre 1927 si ebbe il primo film
sonoro (Il cantante di jazz), il cui successo costrinse tutte le cinematografie ad adeguarsi
al sonoro.
Il suono può chiarire gli elementi di un’immagine, contraddirli o renderli ambigui; anche il
silenzio può avere funzione espressiva.
In una prima fase alcuni autori (come Chaplin e Ejzenstejn) rifiutarono il ricorso al sonoro,
col timore che si arrivasse a una specie di teatro filmato, a discapito delle innovazioni
linguistiche.
Suoni e musica possono essere diegetici, quando è esplicitata la fonte del suono e ne
sono coscienti anche i personaggi, oppure non diegetici, quando la fonte non è indicata
e i personaggi non ne sono coscienti. La musica extradiegetica, cioè l’accompagnamento
musicale che commenta una scena o situazione, ha spesso funzione emotiva: aiuta il
pubblico a commuoversi, a esaltarsi o a ridere in base al tono della scena. American
Graffiti (1973) di George Lucas è un esempio di come la musica non diegetica si possa
trasformare in diegetica: il film racconta le vicende di un gruppo di giovani degli anni ‘60,
proponendo una serie di canzoni famose dell’epoca che ascoltano anche i personaggi.
Altro caso è il fuori campo sonoro, di cui è esempio Angelo (1937) di E. Lubitsch, in cui il
marito scopre l’amore nato tra la moglie e un suo amico grazie ad un motivo musicale
fuori campo, che in passato egli ha sentito eseguire dalla donna e che il suo amico sta
suonando al pianoforte nel momento in cui lo chiama.
Parole - le forme del sonoro sono 3: parole, musica e rumori/effetti sonori. Il cinema è
verbocentrista, cioè le parole del dialogo hanno sempre la precedenza sul resto. Lo
studioso Michel Chion distingue 3 tipi di parola filmica: la parola-teatro, quella più
comune perché concerne i dialoghi; la parola-testo è quella extradiegetica del narratore,
mentre la parola-emanazione è quella volutamente incomprensibile per effetti comici (nei
film di Chaplin) o per dare un senso di mistero, come accade nella scena finale de La
dolce vita (1960) di Fellini: Marcello è sulla spiaggia con gli amici, dopo una notte di vizio
e degradazione, e vede un pesce morto mostruoso, simbolo della corruzione della società
che frequenta; Fellini vi inserisce un altro elemento simbolico espresso dal sonoro, cioè la
ragazza che lo chiama e gli dice qualcosa di incomprensibile, che ci fa capire come
Marcello non sia più in grado di seguire gli impulsi puri e autentici della propria
personalità.
Musiche - solitamente il lavoro del musicista incaricato di scrivere le musiche per il film
comincia quando le riprese sono finite e a volte è terminato anche il montaggio, in modo
da adeguare i suoi ritmi sonori a quelli visivi. A volte però la collaborazione tra regista e
compositore è così stretta da indurre il regista ad adeguare le proprie immagini a una
partitura preesistente: un esempio sono Ejzenstejn e Prokofiev per Alexandr Nevskij, in
sequenze come quella della battaglia sul lago gelato, che rappresenta il momento più alto
del film. Il diagramma della composizione scenica e quello del movimento che si crea col
montaggio corrispondono alle frasi musicali previste dal compositore.
Nella musica da film spesso si ricorre al “leitmotiv”, già teorizzato da Wagner, che
consiste in un tema ricorrente collegato a personaggi, a rapporti sentimentali o ad
ambienti.
Effetti sonori - sono tutti gli elementi della colonna sonora che non rientrano nelle parole
o nella musica. Essi mirano a ricostruire realisticamente i rumori tipici della quotidianità,
anche se spesso vi sono delle alterazioni intenzionali, finalizzate a ottenere determinati
effetti, come l’urlo di donna che si trasforma in un “grido” di violini, con effetto
terrorizzante, in Psycho di Hitchcock.
Missaggio - il montaggio sonoro è l’ultima operazione nella costruzione del film, che
consiste nell’unire parole, musica e rumori nella colonna sonora. Il volume e la durata di
ogni singolo suono qui vengono controllati.
Un esempio di ottimo missaggio è quello della sequenza della battaglia finale de I sette
samurai (1954) di Akira Kurosawa: l’assalto dei banditi al villaggio dei contadini si svolge
sotto la pioggia. L’autore rinuncia al supporto della musica, lasciando solo il rumore della
pioggia, del vento, degli zoccoli dei cavalli, delle grida di battaglia e dei colpi di fucile.