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SOSIA E IL SUO SOSIA:

PENSARE IL «DOPPIO» A ROMA

A ].P. Vernant

La guerra contro i Teleboi è finita. Lo schiavo


Sosia, imbarcatosi alla volta di Tebe da un assai poco
verisimile portus Persicus, è appena sbarcato in un
portus Thebanus che, per la verità, è ancora più
incredibile del precedente. Ma queste sono le inven-
zioni geografiche (buffe e poco accurate) di un grande
commediografo. Adesso Sosia si è incamminato verso
la casa di Anfitrione, il generale di cui è schiavo, per
~wertire la padrona Alcmena che 1'esercito è tornato.
E notte, ha una lanterna in mano, e da bravo servo da
commedia si lamenta (in metri lirici) del proprio
padrone e della vita che lo costringe a fare. Poi, con la
scusa di prepararsi mentalmente il resoconto destinato
alla padrona, recita il più bel pezzo di epos arcaico che
la letteratura romana sia stata in grado di traman-
darci I: la descrizione della battaglia vinta dall' impera-
tor Anfitrione. Ce ne sarebbe già a sufficienza per
tnettere insieme la prima scena di una commedia
plautina. Ma la notte non accenna a tramontare e, di
fronte a casa, c'è uno strano uomo. Non placet, com-
tnenta Sosia.

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Accade così che una espressione tanto banale abbia dall'identico aspetto - ma il gioco dell'intreccio pre-
;1 compito di introdurre un incontro di grande impor- suppone necessariamente che queste due persone, per
tanza non solo nella trama di questa commedia, ma un bel po' di tempo, non si incontrino mai fra loro:
neHa vicenda stessa della nostra cultura. Sosia con la solo così è possibile agli altri di scambiarli, e a loro di
lanterna in mano è infatti per noi il primo personaggio essere scambiati, con le conseguenze che tutti sanno.
della storia letteraria occidentale a cui sia toccata la Inutile aggiungere che, quando i due simillimi fini-
poco invidiabile sorte di incontrare il suo «doppio» 2: ranno per incontrarsi, ogni equivoco sarà risolto, e la
ii suo «sosia», come ancora si dice in italiano, qual- commedia non potrà che finire 3.
cuno che pretende di essere lui e che, di fatto, ha il suo Nell'Amphitruo accade esattamente il contrario. Il
identico aspetto. dramma comincia, non finisce, con un incontro fra
due simillimi. E non ci sono equivoci di nessun tipo,
anzi, uno dei due personaggi rilascia immediatamente
Il nome) la figura e una lanterna all'altro una brusca, indiscutibile dichiarazione: tu
non sei tu, ma io lo sono - e per essere più efficace, lo
Ma è davvero così unico, l'incontro fatto da Sosia? prende anche a pugni. Ciò che Sosia subisce non sono
Perché immediatamente si pensa al tema (anch'esso dunque le buffe conseguenze cui tipicamente va
molto plautino) dei «gemelli», agli imbrogli innumere- incontro chi è scambiato per qualcun altro 4: egli
voli che si creano, nei Menaechmi o altrove, allorché perde direttamente, violentemente la propria identità
due fratelli di aspetto indistinguibile si scambiano personale. In quella notte che non finisce mai, di
ruoli e funzioni su uno stesso palcoscenico. Non si fronte alla casa del suo padrone a Sosia viene strap-
tratta anche qui di sdoppiamento dell'identità, di pato se stesso: nome, aspetto, esistenza. Ubi ego
incontro con il proprio «doppio»? Naturalmente i due perii? .. An egomet me illic reliqul~ siforte oblitus sum?
temi in parte coincidono: ma le differenze sono più Sosia «è morto», «si è lasciato laggiù» e «se ne è
forti delle analogie. Nei Menaechmi il meccanismo dimenticato» 5. Nel mondo non c'è più posto per lui.
della trama si fonda infatti sulla rassomiglianza per- L'assurdo incontro con il proprio «doppio» (il più
fetta fra due fratelli che stupisce (o inganna) chi sta incredibile incontro che possa capitare) è modulato da
loro d'intorno, e dunque per un po' di tempo causa Plauto su molti toni: ma certo il «nome» e la «figura»
singolari avventure ai due gemelli ignari l'uno dell' al- costituiscono i due temi dominanti della vicenda. Se il
tro: al contrario, nel caso di Sosia e di Mercurio/Sosia «nome» è infatti il designatore convenzionale (ma
la rassomiglianza perfetta non procura «scambi» di come tale rigidissimo, e inalienabile) della persona,
nessun tipo, essa tende direttamente a sopprimere una l'aspetto esteriore costituisce il segno naturale dell'i-
delle due persone, a rimpiazzarla. Ancora, i tipici dentità' la riprova indiscutibile dell'essere se stessi e
equivoci di una commedia dei simillimi sono causati nessun altro. Sosia dovrà dunque essere colpito su
àal fatto che, in uno stesso luogo, ci sono due persone entrambi i fronti. Egli diventa così qualcuno che porta

lO Il
il nome di «Nessuno», poi qualcuno che ha un nome Ma la discussione tra i due è stata lunga. Sosia ce ne
simile al suo vero nome (volevo dire socius, non mette infatti di tempo per convincersi che Mercurio/
Sosùz!), infine qualcuno che deve cercarsi diretta- Sosia è talmente «uguale» a lui che ora è lui, il vero
mente un altro nome. Il nomen, contromarca dell'i- Sosia, lo schiavo di Anfitrione. Dobbiamo anzi imma-
dentità personale, paurosamente oscilla sotto i colpi ginare che durante questa lunga sequenza della com-
che il «doppio» assesta a colei che esso rappresenta. media una parte non trascurabile fosse giocata da un
La finzione linguistica tenta disperatamente di riem- oggetto continuamente presente in scena, anche se
pire il vuoto con artifici più o meno paradossali, come con molta discrezione: la lanterna. Quella lanterna che
adattare alla funzione univoca del nome proprio addi- Sosia regge quando entra, e che sicuramente continua
rittura un pronome indefinito negativo (nemo), ovvero ad avere in mano nel seguito della scena. Quella
rispondere alle insidie della rassomiglianza fisica con lanterna che Molière trasformerà in una sorta di mani-
le astuzie della rassomiglianza fonica (socius, non chino, a cui Sosia possa indirizzare il famoso reso-
Sosia). Ma alla fine anche il linguaggio deve arren- conto della battaglia come se si trattasse di Alcmena 8.
dersi: il patto biunivoco fra il nome /Sosia/ e la In realtà, è piuttosto probabile che nel corso del-
persona che esso prima rappresentava (10 schiavo di l'accanito dibattito fra Sosia e Mercurio/Sosia quella
Anfitrione, quello con la lanterna in mano), è dichia- lanterna fosse accostata più volte al viso dell'usurpa-
rato sciolto. tore: per controllare, con crescente incredulità, se
Ma se per negare a qualcuno il suo «nome» basta davvero costui era così indistinguibile nei lineamenti
una dichiarazione (specie se accompagnata da due dal «vero» Sosia - e in effetti lo era. Credo anzi che sia
solidissimi pugni), con la «figura», la/orma o imago, è proprio questo il significato «scenico» dell' averla
diverso: non basta dichiarare di possederla, bisogna messa in mano a Sosia 9. Quando il William Wilson di
averla indosso davvero. E Mercurio, innegabilmente, Poe decide di vedere realmente come stanno le cose
ha assunto su di sé tutto 1'aspetto di Sosia. Di volta in con quel «William Wilson» che da un po' di tempo
volta egli si presenta come qualcuno che è «terribil- (stesso giorno di arrivo in collegio, stesso nome, stesse
mente simile» a Sosia, poi talmente simile a lui che maniere... ) sta turbando la sua vita di studente, la
neppure Sosia si sente «tanto simile a se stesso»: anche prima cosa che fa è proprio quella di afferrare una
nella forma del corpo, nella statura, negli abiti, tutto. «lampada». E reggendola forte entra nella stanza del
Infine, eccolo diventare qualcuno che ormai «possiede compagno, solleva le cortine del letto, illumina il viso
tutta la imago» che prima era di Sosia. La rassomi- dell' altro e «guardai» dice: «ma un senso di spossa-
glianza stringe inesorabilmente il suo cerchio, fino a tezza, un gelo dei sensi mi afferrò... Erano questi,
trasformarsi in furto di immagine: e le risorse linguisti- questi i lineamenti di William Wilson?». Gli stessi suoi
che di Plauto (con fantasia mista a fatica) cercano di lineamenti. Identici. Il racconto è giunto al suo
descrivere come meglio possono un evento tanto ecce- momento cruciale, quello in cui si scopre 1'esistenza
zionale 7. del «doppio»: e una lampada sembra proprio necessa-

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ria per compiere il rito IO. William Wilson, abbando- Val la pena di guardare con attenzione quell' igitur
nando a precipizio quella stanza, spense la sua. Forse che fa da conclusione alla sequenza, e quel dubito che
anche Sosia, sconfitto e privato di se stesso, avrà fatto gli viene subito dietro. «E dunque, perché ho dei
altrettanto. dubbi?» 12. Igitur è una congiunzione assai filosofica,
collocandola alla fine di un lungo catalogo Sosia trae
per suo tramite la necessaria conclusione di tutto ciò
Il «sosia» e tidentità di Sosia che è venuto dicendo: «dunque, perché dubito?».
Dopo di che, si sente autorizzato a sentirsi sicuro di se
Comunque, prima di abbandonare il campo Sosia stesso, e ad avviarsi verso la casa di Anfitrione (1'altro,
ha cercato di reagire: ha tentato di affermare il pos- ovviamente, glielo impedirà). Questo movimento del-
sesso, e la certezza, della sua identità contro le pretese l'argomentazione plautina è molto singolare per noi
dell'usurpatore. Già subito la forma, in cui l'argomen- perché pare proprio un' anticipazione comica del
tazione difensiva di Sosia si svolge, risulta interessante celebre «cogito» cartesiano: su quell' igitur (come
(vv. 403 ss.) 11: sull' ergo del filosofo) è ugualmente fondata una
affermazione di «esistenza» da parte di qualcuno che
- seppure per motivi assai più insoliti di quelli che
quid, malum, non sum ego servus Amphitruonis Sosia?
nonne hac noctu nostra navis <huc> ex portu Persico spinsero Cartesio al dubbio metodico - si è trovato
venit, quae me advexit? nonne me huc erus misit meus? costretto a dubitare di qualsiasi cosa 13. Nessuna
nonne ego nunc sto ante aedes nostras? non mi est meraviglia allora se la commedia del generale vincitore
[lanterna in manu? e del suo servo dovrà trasformarsi, nel medioevo, in
non loquor? non vigilo? nonne hic homo modo me quella dello studente che torna da Atene (cioè Parigi)
pugnis contudit? dopo aver svolto i suoi studi di filosofia: una comme-
fecit herele, nam etiam <mi> misero nunc malae dolent. dia in cui anche il servo di Anfitrione (Geta, non più
quid igitur ego dubito, aut cur non intro eo in nostram Sosia) si è trasformato in un «logico» H. La storia di
[domum? Anfitrione aveva un contenuto fortemente filosofico, e
questo cambio dei «ruoli» era già in qualche modo
Cosa, accidenti, non sono io Sosia, lo schiavo di Anfitrione? implicito nella struttura del racconto. Mettere in
Non è forse giunta questa notte la nostra nave dal porto discussione l'identità è cosa che riguarda i filosofi:
Persiano, la nave che mi ha portato? Non mi ha mandato
prima o poi, dovevano essere attratti direttamente
qua il mio padrone? Non mi trovo ora davanti a casa
nostra? Non ho una lanterna in mano? Non sto parlando?
nell'intreccio.
Non sono sveglio? Non mi ha preso a pugni quest'uomo, Ma su cosa, poi, si fonda questa rassicurante conclu-
poco fa? Ma sì, per Ercole: le mascelle, mi fanno ancora sione di Sosia? Quali sono i tratti cui lo schiavo decide
male, povero me! E dunque, perché ho dei dubbi? Perché di fare appello per scacciare il dubbio di non essere
non vado dentro, in casa nostra? più se stesso? Si tratta di eventi ed esperienze passate

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ma non lontane (la nave, l'attracco, l'ordine dato dal effetti, anche Sosia fa ricorso allo specchio al-
padrone), la consapevolezza della propria «presenza» lorché decide di accettare il fatto che quell'uomo in-
(qui, di fronte alla casa), della continuità del suo agire contrato davanti a casa «è terribilmente simile» a lui
(reggere la lanterna), del suo sentirsi parlare - non in (vv. 441 ss.) 15:
sogno, ma davvero. Infine delle botte che ha ricevuto,
e del dolore che ancora sente: anche l'auto-ironia del certe edepol, quom illum contemplo et formam co-
verbero, lo schiavo-piglia-botte della palliata, entra [gnosco meam,
dunque a far parte del dossier relativo alla «esistenza» quem ad modum ego sum - saepe in speculum inspexi -
di Sosia. Ma a parte il gioco da commedia, questa [nimis similest mei.
lunga lista di presupposizioni potrebbe costituire per itidem habet petasum ac vestitum: tam consimilest atgue
noi un interessante catalogo di ciò che, per un uomo [ego.
sura, pes, statura, tonsus, oculi, nasum ve11abra,
romano a cavallo fra il terzo e il secondo secolo avanti
malae, mentum, barba collus: totus.
Cristo, formava il nocciolo, il contenuto della propria
identità e della propria «presenza». Il momento di
crisi fa affiorare la percezione del sé, mobilita i suoi
Certo, per Polluce, quando lo guardo e riconosco il mio
tratti pertinenti: e costringe Plauto ad elencare detta- aspetto, come sono fatto io - spesso mi sono guardato allo
gliatamente quel che occorre richiamare, in un caso specchio - certo mi assomiglia moltissimo. Ha uguale il
del genere, per far funzionare un rassicurante igitur e cappello e il vestito: mi assomiglia come mi assomiglio io.
confermare l'identità di una persona. Gamba, piede, statura, capelli, occhi, naso, labbra, guance,
mento, barba, collo: tutto.
Francamente, però, non ci pare di notare niente di
diverso da ciò che in una situazione analoga ci aspette- Lo specchio era allora, come è ora, strettamente
remmo da chiunque altro. Il ricorso ad esperienze legato alla categoria dell'identità personale 16. Non
passate ma vicine, 1'appello alla percezione immediata sorprende vederlo richiamato qui da un personaggio
dell'identità, alla continuità dell' agire, e così via, sem- che ha bisogno di controllare la propria immagine
brano appartenere a un bagaglio di reazioni abba- esteriore. Naturalmente non va neppure dimenticato
stanza comuni: rimandano ad un codice che, da que- che nella cultura antica lo specchio ha poteri molto
sto punto di vista, si presenta trans-culturale. forti. Si insiste sul fatto che questo strumento ha la
Allo stesso modo, da colui che si trova improvvisa- capacità di conservare (per via di sympatheia) qual-
mente di fronte alla propria immagine «speculare» ci cosa della natura di chi vi si riflette 17, e persino quella
aspettiamo almeno un accenno alla presenza, o ai di svelare, in effigie, la «vera» natura della persona
poteri, dello specchio: quell'oggetto/simbolo che, nel- riflessa 18. Altre volte, poi, lo specchio ha dichiarata-
la nostra cultura e nella nostra tradizione letteraria, mente la capacità di catturare la figura di colui che vi
stabilmente accompagna l'avvento del «doppio». E in si guarda, tanto che essa può essere portata in giro e

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ammirata da altri l'i. Tutto ciò renderebbe ancora più Egli dice infatti a Mercurio/Sosia (w. 399 s.):
stretti i legami fra l'evocazione della superficie riflet-
tente e la presenza attiva di un «doppio» della per- certe edepol tu me alienabis numquam quin noster siem;
nec nobis praeter me alius quisquamst servus Sosia.
sona: e se a Sosia fosse venuto in mente di parlare
dello «specchio» proprio perché è un oggetto capace E tu, certo, per Polluce, non riuscirai mai a farmi cambiare
non solo di n/lettere e garantire la figura, ma anche di proprietà, così che io non appartenga più a questa casa!
rubarla? In ogni caso, però, bisognerà anche dire che i [così che io non sia più «nostro»] Da noi non c'è nessun
magici poteri dello «specchio» fanno parte non solo altro schiavo Sosia oltre a me.
dell'orizzonte culturale antico ma anche di quello
letterario moderno. Sono noti infatti tutti quei perso- Il verbo alienare ha qui il significato tecnico di
naggi della letteratura romantica centrata sul tema del «trasferire la proprietà a qualcun altro»: Sosia perce-
«doppio», che «persero» la propria ombra 20 o, pisce che 1'altro intende «spossessarlo», «alienarlo» da
appunto, la propria immagine riflessa 21. Strumento di se stesso. Per descrivere il distacco di sé da se stesso,
conferma per l'identità, o nemico insidioso della sua l'essere dis-possessato di sé (se così si può dire), Sosia
unicità, lo «specchio» si configura - ancora una volta dice: «non mi impedirai in alcun modo di essere
- come elemento di un codice trans-culturale. I secoli nostro». Owiamente, quando il linguaggio pretende
non sembrano averne molto mutato, o ridotto, gli di descrivere la perdita dell' identità c'è da aspettarsi
enigmatici poteri. che le linee normali del discorso si deformino: e
Qualcosa di più specifico comincia invece ad affio- questa sorte capita prima di tutto ai pronomi perso-
rare allorché il testo plautino ci costringe esplicita- nali, al sistema «io»/«tu». Se chi parla non può più
mente a riflettere sul fatto che Sosia non è un piccolo dire ego di se stesso, ma solo del suo interlocutore,
impiegato della Russia zarista, come il Goljadkin de Il cosa resta da fare alla rete pronominale se non andare
sosia di Dostoevskij, e neppure un giovane uscito dal immediatamente in corto circuito? Come quando, più
college come William Wilson: ma è uno schiavo avanti, Sosia dirà del suo «sosia» (v. 601):
romano. In altre parole, sembra proprio che il ruolo
sociale del personaggio abbia la capacità di marcare, e neque lac lactis magis est simile quam ille ego similest
piuttosto decisamente, i percorsi intellettuali tramite [mei.
cui Sosia «pensa» la propria perdita di identità. A
questo punto, i modelli di riferimento cessano di es- «Non esiste un latte così simile al latte quanto
sere generici, trans-culturali: e la cultura specifica del quelfio è simile a me». In qualsiasi altro contesto, un
personaggio comincia a rivelare la propria diversità. discorso del genere - con un ego qualificato di ille e
Cominciamo dal modo in cui Sosia si esprime: il addirittura detto similis mei - suonerebbe insensato.
linguaggio è buon testimone dei modelli culturali Ma dato che si deve parlare dell'identità, della sua
all'interno dei quali Sosia contestualizza il proprio sé. perdita owero della sua scissione, un simile sconvolgi-

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mento nei rapporti che regolano l'uso dei pronomi «dis-possesso», la categoria specifica del «tuo», e non
personali risulta comprensibile: quasi normale. Co.n quella allargata del «nostro», verrà utilizzata per lui
tutto ciò sembrerebbe più ragionevole che SOSIa (v. 845):
dovesse t~mere di non essere più meus, non noster: il
che sarebbe già un sufficiente gioco di pronomi e Amphitruo es profecto, cave sis ne tu te usu perduis.
aggettivi personali. . . .
Non possiamo certo escludere che SOSIa USI qUI Di certo sei Anfitrione, ma per favore, stai attento a non
noster come un semplice equivalente di meus, senza rinunciare alla proprietà di te stesso.
particolari contenuti 22. Ma il contesto sembra in realtà
orientarci verso un' altra direzione. Subito al verso Il padrone gode del «possesso (usus) su se stesso», e
successivo, infatti, lo schiavo dice: «oltre a me non c'è per mantenere la propria identità deve far sì che il te
presso di noi (nobis) alcun altro schiavo. di nome resti in possesso del tu: non c'è bisogno di allargare
Sosia». Sosia ha in mente un nos che cornsponde al l'appartenenza ad un gruppo. Sosia invece, per restare
gruppo familiare cui appartiene: esso è del resto fisi- se stesso, ha bisogno di non essere alienatus dal
camente rappresentato dalla casa che ha di fronte, e in gruppo dei «nostri».
cui vorrebbe entrare. Questo nos di gruppo a cui Sosia
fa appello ci dà una buona chiave per interpretare il Quanto importante sia la categoria di «schiavo» per
suo «dis-possessamento da noi», e non «da me». comprendere il modo specifico in cui Sosia pensa e
Come abbiamo detto, occorre tener conto del fatto descrive la propria perdita di identità, si vede bene
che Sosia è uno schiavo, non un uomo libero, ed ha un anche dalle parole finali di questa scena. Allorché
modo di pensare la sua perdita di identità che è Sosia, vinto dagli argomenti dell'altro, decide di
conforme, e peculiare, a questa condizione. L'identità abbandonare a Mercurio/Sosia il pieno possesso del
dello schiavo Sosia corrisponde al gruppo di persone palcoscenico (vv. 460 ss.):
(la familia di Anfitrione) a cui anch' egli appartiene,
accomunato agli altri dal fatto di trovarsi sottomesso ibo ad portum atque haec uti sunt facta ero dicam meo:
al potere di uno stesso padrone. Ecco perché Sosia, nisi etiam is quoque me ignorabit. Quod ille faxit
nel ribattere a Mercurio/Sosia, esprime se stesso attra- [Iuppiter,
verso un noster e non un meus: se tu dici che io non ut ego hodie raso capite calvus capiam pilleum.
sono Sosia tu pretendi di «dis-possessare me» non «da
me» ma «da noi», dal gruppo in cui io mi identifico e Non mi resta che andare al porto e riferire al mio padrone
che fa capo al mio padrone. Sosia, lo schiavo, ha una come sono andate le cose: a meno che anche lui non mi
identità fortemente marcata dal gruppo. Quando, più riconosca più! Che Giove mi faccia davvero questa grazia,
avanti anche Anfitrione dichiarerà di non sapere più così che oggi possa radermi la testa e calvo mettermi il
chi è ~eramente, e rischierà un analogo momento di berretto dei liberti!

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Il fatto che questa battuta sia collocata in una Pensare il «doppio» a Roma
posizione così di spicco come l'uscita di scena, accre-
sce naturalmente la sua rilevanza: che però sarebbe Sosia, lo schiavo, concepisce dunque la propria
comunque alta. Se il mio padrone non mi riconosce identità, e la perdita cui essa va soggetta, in un modo
d~ce Sosia, è una grande fortuna: perché allora vorrà conforme al suo «ruolo» sociale e culturale. In questo
dIre che mi taglierò i capelli, prenderò il berretto da sta una prima, sostanziale differenza fra il modo in cui
liberto e sarò finalmente un uomo libero 23. Si tratta di Plauto sviluppa il tema del «doppio» e quello in cui gli
una metafora scherzosa sul «cambio di identità»: scrittori moderni tratteranno i loro vari doubles o
Sosia crea un Witz su questo tema sfruttando una Doppelganger. Ma ne esistono altre, di queste diffe-
possibile analogia fra «non essere più se stessi» e «non renze? In altre parole, è giunto il momento di centrare
essere più schiavo». Solo che, se Sosia può sfruttare la nostra attenzione sulla possibilità - invero assai
qu~sta a?alogia, bisognerà concluderne che per uno concreta - che per Sosia (cioè a dire per Plauto, il suo
s.chIavO Il pass~ggio dalla condizione servile a quella pubblico, la cultura che essi condividono) l'esperienza
lIbera era sentIto come un vero e proprio cambio di dello «sdoppiamento» possa anche essere inquadrata
identità, diventare una persona diversa che non si da categorie antropologiche diverse da quelle a cui, in
identifica più con la precedente. Questo non ci fa analoghi contesti, fa ricorso la cultura moderna.
meraviglia. Sosia stesso sottolinea esplicitamente Nel testo di Plauto c'è una sezione preziosa, da
l' aspetto ~eril?onial~, da «rito di passaggio», che que- questo punto di vista: ed è ancora costituita dal finale
sto cambIo dI stato Imponeva: il taglio dei capelli 24 e della scena, al momento in cui l'incredibile incontro
l'assunzione del pilleus, il berretto da liberto 25. Men- fra i due «sosia» si è ormai concluso e lo schiavo si
tre si sa che, dopo l'affrancamento (manumissio) , la awia ad uscire di scena. Perché a questo punto Sosia
persona mutava non solo l'abbigliamento abituale sente non più la necessità di dzfendere, come prima ha
(assu~endo la toga del cittadino), ma addirittura il cercato di fare, la propria identità (ormai l'ha perduta
propno nome 26. Questa sospirata mutazione da servus definitivamente), quanto di descrivere in qualche
a. liker costituisce dunque per Sosia un quadro di modo come tutto ciò sia potuto accadere. Ed è nel far
nfenmento buono per pensare - nei termini plautini questo, nel modo in cui egli cerca di «spiegare» (o di
del motto di spirito - il suo «non essere più se stesso». capire) che cosa gli è successo, che Sosia ci risulta
La condizione del «non essere riconosciuto» all'in- decisamente diverso: quando infatti diventa necessario
terno del gruppo familiare trova uno sbocco inatteso ricorrere a modelli di riferimento capaci di collocare
ne~ ~odell? romano della manumissio. Goljadkin o l'eccezionalità del fatto in un contesto comprensibile
~I1ham WI~son non si sarebbero potuti certo rifugiare (in qualche modo) a se stesso e agli altri, Sosia sembra
In un pensIero. del genere. Questa è una categoria uscire dall'orizzonte intellettuale che lo accomuna a
romana, da schIavo romano, dell'identità e della sua noi per pensare la sua esperienza in un modo che
trasformazione. somiglia assai poco a quello condiviso dalla cultura

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moderna. La sua perdita di identità ci appare adesso laggiù, e me ne sono dimenticato? Perché, di certo, costui
immersa in un orizzonte culturale radicalmente possiede tutto il mio aspetto, quello che prima era mio. Mi
diverso da quello che può fare da sfondo a Il sosia di accade da vivo quello che nessuno mi farà mai da morto!
Dostoevskij o a William Wilson di Poe. Da questo
momento in poi, diventa necessario resistere alla ten- Un commento puntuale alla successione di questi
tazione dei «paralleli» ottocenteschi o moderni 27. Il versi ci aiuterà a comprendere i due modelli fonda-
«doppio» teorizzato da Otto Rank - fragile creatura mentali - la «magia di trasformazione» e il «doppio
viennese, in bilico fra il narcisismo e la morte - non aristocratico» - secondo cui la cultura di PIauta e dei
serve a capire le angosce dello schiavo plautino. Le suoi personaggi era in grado di pensare l'incontro con
tavole calcate da Sosia e dal suo «sosia» si svelano il sosia.
bruscamente per quello che sono: tavole di un palco-
scenico romano - altri passi vi risuonano, diversi dai
passi «sdoppiati» del «Doppelganger» di Heine (<<tu, 1. La magia di trasformazione
o Doppelganger, pallido compagno... ») 28. Certo, Franz
Schubert musicò questo «duplice andare» in modo «Dove ho incontrato la mia fine?» è la prima
che è difficile dimenticare 29: ma d'ora in poi dovremo domanda che Sosia rivolge a se stesso: più letteral-
farlo. mente, «dove sono morto?». L'espressione perii, come
Dunque alla fine del suo incredibile incontro Sosia pure l'invocazione agli dei che la precede, ricopre
- in forma di auto-interrogazioni, supposizioni, mot- forse troppe situazioni psicologiche negative (specie
ti di spirito - elenca un insieme di modelli culturali nella commedia plautina dove compare centinaia di
che di volta in volta presentano analogie o rapporti volte) perché possa essere considerata una espressione
con il tema del «doppio» e della perdita dell'identità molto specifica. Certo però che quell' ubi aggiunge alla
(vv. 455 ss.) 30: locuzione usuale una precisazione non trascurabile:
evidentemente Sosia sente la perdita di se stesso e
abeo potius. Di immortales, obsecro vostram fidem, della sua identità come un «essere morto da qualche
ubi ego perii? ubi immutatus sum? ubi ego formam parte». In effetti, chi è stato sostituito da un altro se
[perdidi?
stesso è come se fosse morto. C'è stato un momento,
an egomet me illic re1iqui, si forte oblitus fui?
nam hicquidem omnem imaginem meam, quae antehac un luogo, in cui Sosia «è morto» e non se ne è accorto.
[fuerat, possidet. Anche il Goljadkin di Dostoevskij è ossessionato dal
vivo fit quod numquam quisquam mortuo faciet mihi. «doppio» che gli è piovuto in ufficio, l' «altro» Goljad-
kin. E Anton Antonovich gli racconta di quando la
Me ne vado, piuttosto. (a parte) O dèi immortali, vi prego, sua zia materna vide il proprio «doppio» prima di
dove ho incontrato la mia fine? Dove mi sono trasformato? morire 31. Il doppio richiama la morte, ed è anzi
Dove ho perso la mia identità? O forse mi sono lasciato probabile che questa associazione rispecchi una cre-

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denza popolare 32. Il quadro interpretativo generale propria natura: ubi formam perdidi?, continua infatti.
entro cui collocare il nesso che in questo modo si L'essere immutatus ha causato la perdita della sua
stabilisce fra il «doppio» da un lato e la «morte» forma, ed è verisimilmente in relazione col fatto che
dall' altro, può già essere fornito dalle credenze rela- 1'altro, come dice Sosia, ha in sé omnem imaginem
tive all'esistenza di psychàl~ imagines) simulacra e così meam. Che in un caso del genere il processo dell' im-
via che riproducono fedelmente le fattezze del mutare coinvolga la magia risulta già chiaro, sostan-
defunt? in for~a di «ombra» o di vana parvenza: gli zialmente, dal contesto: del resto la «metamorfosi»
esempI sono SIn troppo notill. Dato che il fantasma (espressa in latino proprio da verbi come muto, com-
del defunto presenta tradizionalmente fattezze identi- muto e immuto) 35 è una delle forme in cui la magia
che a quelle della persona, si può immaginare che antica si esercita con maggiore impegno. In ogni caso,
l'incontro con qualcuno che ha la medesima appa- la pertinenza magica di questo nostro immutatus
renza esteriore del soggetto possa suggerire il pensiero appare confermata da un passo che abbiamo già avuto
della «morte» del soggetto: se costui ha la mia identica modo di vedere. Parlano Anfitrione e Sosia, ma sta-
~'mago, forse che si tratta del mio fantasma, e dunque volta è lui, il grande generale, che teme di aver
lO sono morto? perduto se stesso (vv. 844 ss.):
La seconda auto-domanda è ancora più interes-
sante: «dove sono stato trasformato?». La traduzione Am. Delenitus sum profecto ita, ut me qui sim nesciam.
rende generico un verbo molto specifico e molto So. Amphitruo es profecto, cave sis ne tu te usu perduis.
plautino 34: immutari. Questa espressione indica «1'es- ita nunc homines immutantur, postquam peregre adve-
sere trasformato» con l'ausilio di poteri magici, ma [nimus.
contiene in più una allusione alla «perdita di pos- ANFITRIONE Sono a tal punto fuori di senno, che non so
sesso» che ne fa una locuzione priva di equivalenti più chi sono.
diretti, e bisognosa di parafrasi. SOSIA Di certo sei Anfitrione, ma per favore, stai attento a
Il senso basico di immutare in Plauto è natural- non rinunciare alla proprietà di te stesso: tanto facilmente
mente quello di «mutare», «cambiare». Come quando ora gli uomini si mutano, da quando siamo tornati dall'e-
lo stesso Giove dell'Amphitruo dice agli spettatori stero!
(v. 866):
Anfitrione non sa più «chi è», e questo sentimento
Amphitruo fio et vestitum immuto meum. deriva da fatto che si sente delenitus: una parola
abbastanza rara, che indica la condizione in cui versa
Divento Anfitrione e cambio d'abito. colui che ha perso il senno perché appunto «stregato»
(vedi la nota di commento al V. 844). A questo punto
Solo ~he nel caso di Sosia la immutatio non riguarda Sosia - invitando il padrone a non «perdere il pos-
un vestIto ma la propria apparenza esteriore e la sesso di se stesso» - rileva che, dal momento del loro

26 27
ritorno, si verificano un po' troppe «metamorfosi di mente si presuppone che possa esserci qualche vicinus
uomini». Si noti: la menzione dell'essere immutatus è dotato di poteri magici, qualche stregone capace di
esplicitamente accompagnata qui da quella del «pos- compiere metamorfosi su chi gli sta d'intorno. Si noti
sesso», un possesso che rischia di essere perduto. che anche qui colui che subisce il processo dell'immu-
La pertinenza magica del verbo immutare, e il suo tari va soggetto contestualmente alla perdita del «pos-
legame con la «perdita di possesso», emerge ancora sesso» su se stesso. Sceledro teme ne nos <nosmet>
più chiaramente da un altro passo di Plauto, nel Miles perdiderimus. E Palestrione spiega che, se sono stati
gloriosus 36. Si tratta della testimonianza più interes- immutati, adesso «appartengono a qualcun altro»
sante che Plauto ci fornisce sulla immutatio e il suo (alieni) e non più «a loro stessi» (nostri). Siamo
significato antropologico. Filocomasio finge di non dunque certi che l'immutare qualcuno prevede, nell'o-
conoscere né Sceledro né Palestrione, che invece rizzonte linguistico-culturale di Plauto, il cambia-
conosce perfettamente (vv. 425 ss.): mento del suo aspetto esteriore e la «presa di pos-
sesso» su di lui.
Ph. Quis tu homo es aut meeum quid est negoti? È ugualmente certo, peraltro, che i tratti della
Se. Me rogas, hem, qui sim? Ph. Quin ego hoc rogem «metamorfosi» magica legata alla «perdita di pos-
[quod neseiam? sesso» dovevano caratterizzare il significato del ter-
Pa. Quis ego sum igitur, si hune ignoras? Ph. Mihi mine immutatus anche fuori di Plauto: e rimandare
[odiosus, quisquis es, alla sfera generale del vocabolario e delle credenze di
et tu et hie. Se. Non nos novisti? Ph. Neutrum Se. Metuo magia. Anche una interessante testimonianza non
[maxume. plautina di immutare, infatti, ci presenta la stessa
Pa. Quid metuis? Se. Enim ne nos <nosmet> perdide- stretta interdipendenza fra «metamorfosi» e «perdita»
[rimus uspiam:
Nam nee te neque me novisse ait haee. Pa. Perseetari hie
di possesso: salvo che qui l'immutatio riguarda non la
[volo, trasformazione magica di persone ma quella di oggetti.
Seeledre, nos nostri an alieni simus, ne dum quispiam La testimonianza in questione ci proviene da una
nos vieinorum imprudentis aliquis immutaverit tabella defixionis, ossia una di quelle singolari tavo-
Se. Certe equidem noster sum. Pa. et poI ego 37. lette che portavano iscritte maledizioni, formule magi-
che, preghiere ecc. rivolte contro nemici o persone
Vedendo che Filocomasio non riconosce né lui né comunque odiate. Inutile dire che già la provenienza
Palestrione, Sceledro teme che entrambi abbiano del testo ci conferma ulteriormente, se ce n'era biso-
«perduto da qualche parte il possesso di lo'ro stessi». gno, che l'espressione immutare pertiene strettamente
Palestrione rincara la dose e si chiede se per caso alla sfera del mondo magico 38:
qualcuno dei vicini non li abbia immutati, non li abbia
«trasformati a loro insaputa»: di modo che essi non Dea Ataecina Turibrig(ensis), per tuam maiestatem te rogo
sono più riconoscibili dalle persone note. Evidente- oro obsecro uti vindices guot mihi furti factum est

28 29
quisquis mihi imudavit involavit minusve fecit eas [res] qiss sformazione - in potere di qualcun altro. Potremmo
tunicas VI [. .. pae]nula lintea II in[dus]ium... quasi dire che Sosia «si sente» come un Lucio che è
diventato asino dopo essersi spalmato con il miste-
Qualcuno si rivolge per aiuto ad Ataecina in quanto rioso unguento offertogli da Fotide 42. O più esatta-
soggetto a furti e danneggiamenti di vestiario (<<sei mente, come uno dei compagni di Ulisse mutati in
tuniche, due mantelli di lino, una veste da donna ... »): animali da Circe, e soggiogati dai terribili poteri della
dato che si parla esplicitamente di furti, possiamo maga.
essere certi del fatto che il contesto è ancora una volta Il parallelo con il modo in cui nell'Odissea si
centrato sulla «perdita del possesso». Ciò che la per- descrive la magia di Circe risulta infatti particolar-
sona chiede è di essere aiutata a recuperare non solo mente utile, anche dal punto di vista linguistico, per
quanto quisquis le ha «rubato» (invo!avit) e «fatto comprendere il duplice processo (<<trasformazione
sparire» (minus... fecit) , ma specificamente quanto magica» e «perdita di possesso» del soggetto su se
quisquis gli ha «mutato» (imudavit). Dunque si sup- medesimo) evocato da Sosia tramite il riferimento alla
pone che la sparizione dei vestiti possa essere dovuta immutatio. Circe ha infatti il potere di «sottomettere
non soltanto a furti diciamo normali ma anche a per incantamento» i propri ospiti (l'espressione usata
«trasformazione» magica degli oggetti con conse- in Omero sottolinea esplicitamente la sottomissione
guente loro sparizione 39: qualcuno aveva il potere di delle vittime, assieme all'atto di stregarle) 43: sommini-
«togliere il possesso» di questi vestiti al legittimo strando loro filtri potenti e trasformandoli in animali.
proprietario «trasformandoli» (e rendendoli così irri- Concordemente a ciò, i compagni di Ulisse (mutati in
conoscibili). Il tipo di furto evocato nella tabella porci) appaiono del tutto in potere della maga,
potrebbe anzi ricordare la nota «sottrazione magica «dimentichi della patria» e «rinchiusi nei porcili» 44.
delle messi» da un campo ad un altro (/ruges excan- Naturalmente, nel contesto dell'Odissea, la «dimenti-
tare) alienam segetem pellicere), già ricordata addirit- canza della patria» indica la perdita del tratto che più
tura nelle dodici tavole 40. fortemente caratterizza l'identità dei personaggi tra-
Rivediamo dunque il nostro Sosia immutatus. Egli si sformati: i compagni di Ulisse «non sono più loro»
sente soggetto a una «metamorfosi» ed ha contestual- anche dal punto di vista della consapevolezza perso-
mente «perduto la sua forma». Il modello cui si fa nale e degli impulsi che normalmente caratterizzavano
ricorso è quello della magia di trasformazione, con il loro agire. Sempre allo stesso modo, Hermes spie-
speciale riferimento alla «perdita di possesso» su se gherà ad Ulisse che Circe possiede il tremendo potere
medesimo da parte di colui che è stato trasformato. di tramare contro di lui malefici inganni, «rendendolo
Alla sua mente, come a quella di Palestrione, si affac- vile e impotente» 45. Di nuovo, la metamorfosi magica
cia la possibilità di vivere in un mondo magico, dove si appare accompagnata dalla contestuale debolezza e
fanno esperienze soprannaturali di metamorfosi 41 e sottomissione della vittima. La perdita di forza dell'e-
dove è possibile finire - conseguentemente alla tra- roe è anzi immaginata nel momento in cui, invitato nel

30 31
talamo dall'astuta Circe, egli si trova «nudo» (apogym- In Amphitruonis vertit sese imaginem
nothénta) e dunque maggiormente esposto ai magici omnesque eum esse censent servi qui vident:
poteri di trasformazione della maga 4(,. ita versipellem se facit, quando lubet.
Torn~n?o a Sosia, ecco dunque il modo in cui egli
cerca dI «mterpretare» la perdita della propria figura Si ~ t~asformato nell'immagine di Anfitrione, e tutti gli
schIavI che lo vedono, credono che sia lui: tanto è bravo a
e della propria identità: egli vede che l'altro Mercu-
mutar pelle quando gli piace.
ri~/Sosia, p.ossie?e in tutto e per tutto la i~2ago che
~~lma .e,ra m lu~, e si vede contestualmente negata
lldentlta che prIma era certo di possedere. Per tro- Colui che «cambia aspetto» è dunque un «volta-
vare una possibile spiegazione di questo assurdo pelle», uno stregone che ha la magica capacità di
evento pensa allora di essere stato trasformato lui in mutare la propria apparenza esteriore: come il lupo
qualcun altro, diverso da quello che era prima. È mannaro 48 o le streghe tessale 49. Nella descrizione di
come se Sosia sottolineasse quello che per noi è solo Mercurio, il sommo Giove va stranamente rassomi-
un as~etto .d~ll'incontro con i~ «doppio»: la perdita gliando a personaggi come la terribile maga Panfile di
della ldentlta del soggetto, Il fatto che egli non Apuleio, capace di mutare il proprio aspetto in quello
appare più riconoscibile come se stesso - per cui, si di qualsiasi altro essere 50. Questa espressione ci offre
sente trasformato in un'altra persona, diversa da dunque l'altra faccia del problema: alla mutazione
quella che era prima. passiva della propria identità fa riscontro la mutazio-
Il testo di Plauto ci mette comunque in grado di ne attiva, nella forma della appropriazione di una iden-
ricostruire anche la parte per ora «mancante» del tità diversa o altrui. Chi è capace di prendere per sé
modello: non solo i termini di magia in cui veniva una identità nuova è un «cambia-pelle»: chi, invece,
percepita la perdita della propria identità e della pro- subisce questa trasformazione a sua insaputa è un «tra-
pria persona (Sosia che vede se stesso «mutato» in sformato». Immutatus da un lato e versipellis dal-
qualcun altro), ma anche, inversamente, i termini di l'altro fanno parte di uno stesso paradigma. Da questo
magia in cui veniva inquadrata tappropriazione delti- punto di vista, si presenta anzi molto rilevante il fatto
dentità altrui 47. In altre parole, il caso di Mercurio che che questi due modi complementari di inquadrare lo
si impadronisce dell'identità di Sosia (ovvero di Giove «sdoppiamento» compaiono insieme e nello stesso
che assume su di sé quella di Anfitrione). Per l'immu- testo.
tatus Sosia esiste infatti un reciproco, o meglio un Non abbiamo ancora esaurito le auto-domande che
complementare: si tratta di quell'essere pauroso che, lo schiavo plautino si pone. Ubi immutatus sum? ha
anche lui, è specificamente evocato nell'A mphitruo, il appena detto. Poi seguita: «dove ho perso la mia
versipellis. Così infatti Mercurio descrive, nel prologo, forma?». Il contenuto di questa interrogazione risulta
il comportamento di suo padre che ha assunto piuttosto chiaro, la perdita della forma è una conse-
l'aspetto di Anfitrione (vv. 121 ss.): guenza della immutatio che ha subito. E ancora: «o

32 33
1
!
forse mi sono lasciato laggiù, e me ne sono dimenti- allo stesso modo di çoloro che hanno gustato il fiore
cato?». Posta, com'è, dopo una affermazione così del loto 52. Anche in Omero la «trasformazione» sem-
insolita per noi come quella della immutatio, questa bra dunque implicare «oblio», dimenticanza della vita
ulteriore possibilità di spiegazione offerta alla perdita precedente, così come nel caso della immutatio e della
di identità rischia di passare inosservata, forse di perdita dellaforma evocata dal Sosia plautino. E certo,
essere considerata «ovvia». Ma è molto probabile che anche l'analogia con le anime dei morti che, bevuta
non lo sia. l'acqua del Lete, «dimenticano» il proprio passato 53 si
Innanzi tutto bisogna stabilire a che cosa corri- presenterebbe in questa luce molto suggestiva: perché
sponde l'illic in cui Sosia pensa di «essersi lasciato». anche in questo caso una «mutazione» totale - di
L'ordine del discorso fa pensare che questo avverbio stato, regno e identità personale - comporta la
vada posto in relazione con l'uhi che precede, ossia «dimenticanza» della condizione precedente.
con il luogo (imprecisato) in cui è stato immutatus e ha Ma torniamo conclusivamente a Sosia: la cui «tra-
perso la sua forma. Sosia evoca una ben strana condi- sformazione» va ben oltre la condizione (pur penosa)
zione: quella di chi «lascia se stesso» da qualche parte cui sono sottoposti i compagni di Ulisse stregati da
e «si dimentica» di tutto ciò. Da questo punto di vista, Circe. Egli si immagina infatti non solo immutatus,
si può anche confrontare il passo del Miles gloriosus non solo dimentico di sé, ma dimentico del suo vero sé
che abbiamo visto: la preoccupazione di Scaledro in un luogo imprecisato. Dalle sue parole dobbiamo
quando dice di temere «che noi non abbiamo perduto dedurre che il mondo magico prevedeva la possibilità
il possesso di noi stessi da qualche parte». Anche qui il di «lasciare se stessi», in pieno «oblio», nelle mani di
contesto verte, come sappiamo, sulla immutatio: e il chi - trasformandola - si è impadronito della persona.
«perdere il possesso di se stessi da qualche parte» Nel momento in cui a qualcuno è negata la propria
somiglia molto al «lasciarsi» in un luogo imprecisato identità, il pensiero corre alla possibilità che la per-
con l'aggiunta della relativa «dimenticanza». Il possi- sona «vera» sia depositata da qualche altra parte e in
bile luogo della metamorfosi è visto, in entrambi i casi, giro ci sia una sorta di controfigura a cui nessuno è
come un luogo imprecisabile, e di cui addirittura si è disposto a credere. Sosia pensa che sia possibile essere
persa la memoria. in un certo luogo in modo vicario, mentre la persona
Il motivo dell'«oblio» connesso a quello della «vera» è collocata altrove 54. La vertigine che si spa-
«metamorfosi» ci permette di riprendere il parallelo lanca di fronte alla fiducia nella identità personale è
con l'episodio omerico di Circe: esso ci conferma, probabilmente molto diversa da quella che per analo-
infatti, che il tratto della «dimenticanza» faceva stret- ghi motivi di «sdoppiamento» può cogliere l'uomo
tamente parte del panorama antico in cui si collocava moderno: ma è ugualmente spaventosa. Esiste la pos-
la magia di trasformazione. I compagni di Ulisse, sibilità di «perdersi», di «dimenticare» se stessi da
mutati in porci da Circe, sono per l'appunto caratte- qualche parte e di andare in giro per il mondo sotto
rizzati dal fatto di essere «dimentichi della patria» 51: altra forma: nasce il dubbio che la nostra vita sia solo

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un surrogato di ciò che, altrove, sta accadendo alla tanto da poter fornire comunemente materiale oni-
nostra persona «vera» - perduta, schiava di un evento rico. La cosa non fa meraviglia, naturalmente, in un
magico di cui il soggetto non serba memoria. mondo in cui la presenza dell'elemento magico era
tanto forte. Ma non si può dire che qualcosa del gene-
re accada nella esperienza onirica moderna, almeno
2. Morte della metamorfosi e «doppio» moderno stando alle osservazioni di G. Devereux: il quale,
fondandosi sulla propria esperienza di psicoanalista,
Il quadro antropologico usato da Sosia per inter- ha sostenuto che questo tipo di sogno compare solo
pretare le sue sventure - la metamorfosi magica - si nei soggetti psicotici, e anche in questo caso molto
presenta dunque come un modello assolutamente raramente 57. La «metamorfosi» sembra dunque essere
speczfico, strettamente caratteristico della cultura cui uscita dall'orizzonte onirico moderno, non fornisce
Sosia appartiene. Un modello che, al contrario, più materiale ai sognatori contemporanei. Ciò mostra
appare fondamentalmente estraneo alla moderna che, se la possibilità della trasformazione in qualche
percezione dello «sdoppiamento». Tutto ciò risulta cosa d'altro si affacciava concretamente alla perce-
chiaro dal testo di Plauto. In ogni caso, sino a che zione culturale antica, tutto ciò è finito per noi. E
punto la nostra cultura sia ormai lontana dalla meta- conferma che Sosia, per giustificare in qualche modo
morfosi, e dunque quanto «differentemente» da noi l'esistenza del suo «sosia», ricorreva a una categoria
Sosia pensi la sua perdita di identità, può essere psicologica tanto legata alla sua cultura di riferimento
confermato da un parallelo che val certo la pena di quanto estranea alla nostra. .
ricordare. Ma a parte questa testimonianza per così dlr~ tra~
Negli Onirocritici di Artemidoro di Daldi (il noto sversale, risulta comunque chiaro che la magIa dI
interprete di sogni del II secolo d.C.), un lungo capi- trasformazione non costituisce minimamente un tratto
tolo espone dettagliatamente la tipologia dei «sogni di rilevante nelle varie storie di «doppi» che la letteratura
metamorfosi», al fine di stabilirne i differenti signifi- posteriore ci offre. Se proprio si vuo~e pr?porre u?
cati simbolici 55; e in generale, sogni in cui il corpo parallelo moderno per il modo in cUI ?OSIa p~nsa Il
umano appare deformato, mutato, cambiato in forme suo «doppio» (secondo il modello dI «magIa per
animalesche ecc. sono citati assai frequentemente in trasformazione» che abbiamo ricostruito sopra), bISO-
quest'opera 56. Evidentemente il «sogno di metamor- gnerà ricorrere non tanto ai classici raddoppiame~ti
fosi» faceva parte della esperienza onirica antica, la speculari dei già citati William Wilson o Il !osza,
«metamorfosi» non agiva soltanto come schema di quanto alle «trasformazioni» cui va soggetto Il dr.
creazione mitica o letteraria (le Metamorfosi di Ovi- Jekyll. In altre parole, il modo in cui Plauto pre~er:ta
dio, i poeti confluiti nei riassunti di Antonino Libe- l'incontro col «sosia», corrisponde non ad una tIpICa
rale, il romanzo di Apuleio ecc.) ma costituiva un storia di double o Doppelganger ma ad un racconto
modello culturale attivo, vissuto dalla gente comune: moderno che, per noi, si colloca in una posizione

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abbastanza eccentrica rispetto alla letteratura centrata lità divisa) SI Instaura così quella guerra spietata,
sul «doppio». Quando la scienza moderna si arro- ; I
all'ultimo sangue, che notoriamente caratterizza gran
gherà il potere di «mutare» le persone, owero crederà parte della produzione letteraria moderna sviluppatasi
di averne raggiunto la terrificante capacità, potrà acca- attorno al tema del «doppio» 60.
dere «razionalmente» ciò che Sosia attribuiva esclusi- Ma nella nostra cultura difficilmente la ragione
vamente ai poteri della magia: è di nuovo possibile accetta di rassegnarsi. La provocazione causata dall'e-
diventare altri, il dr. ]ekyll cede il passo a mr. Hyde. E sistenza letteraria del «doppio» era troppo violenta,
da scienziato che era, il medico si fa pauroso versi- bisognava pure che qualcuno la raccogliesse e ridu-
pellis. cesse a norma (senza bisogno di ucciderla) anche
Nel classico incontro romantico col sosia non c'è, si questa enigmatica creatura. Ciò che Sosia percepiva
diceva, traccia di «magia di trasformazione», e questo come «magia» si trasforma così in «malattia» - malat-
contribuisce certo a creare l'atmosfera specifica da cui tia della psiche, patologica proiezione di un fantasma.
questi racconti sono awolti. Solo che la magia, anche La psicoanalisi (<<dissezione dell' anima», come ancora
se fa paura, costituisce pur sempre una forma di Thomas Mann la chiamava) 61, abilmente trasferirà
spiegazione per tutto ciò che sembra non averne nell' interno 62 ciò che per la cultura antica era essen-
alcuna. In altre parole, è possibile che la sua assenza zialmente trasformazione di quel che sta fuori. «Ana-
dal quadro di riferimento del «sosia» moderno renda tomizzato» dalle abili mani dell' analista, l'inconscio
il fenomeno dello «sdoppiamento» della persona qual- rivelerà finalmente la «verità» sui segreti dell' immuta-
cosa di ancora più ambiguo ed angoscioso. Privata del tio e del versipellis.
punto di fuga che la magia in qualche modo offriva
alla cultura di Sosia, la ragione moderna resta definiti-
vamente prigioniera dell'enigma, e il «sosia» può cri-
stallizzare tutta la sua paurosa assurdità. In una men- 3. Imagines maiorum e «doppio» aristocratico
talità che accettava tranquillamente l'esistenza della
magia William Wilson sarebbe stato un immutatus: e Torniamo a seguire Sosia, per l'ultima volta, nel suo
l'altro (il suo «doppio») un pericoloso versipellis. Ma cammino mentale attraverso il «doppio». Finite le sue
adesso? Per liberarsi dal pensiero del «doppio» non auto-domande, lo schiavo si lascia andare a un altro
resta che svelare - invero un po' goffamente - la sua motto di spirito: «mi accade da vivo quello che nes-
artificiosa natura di trucco, di inganno: come talora suno mi farà mai da morto». Incontriamo nuova-
possono fare i personaggi di Hoffmann 58. Oppure mente, ed evocato in modo molto chiaro, il legame fra
cancellare questo scandalo della natura uccidendo il «doppio» e la «morte»: ma una descrizione più
direttamente il sosia, come in effetti accade nel rac- precisa del pensiero di Sosia (owero del filo che
conto di Poe, in Hoffmann e altrove 59. Fra i due sorregge il suo Witz) è in grado di mostrare che questa
pretendenti all'identità (le due «metà» della persona- volta il contesto di riferimento si presenta, dal punto

38 39
di vista antropologico, assai più specifico e marcato di Normalmente le imagines venivano conservate nell'a-
quanto non si presentasse sopra. trio in appositi armadi ma, il giorno del funerale di un
Il senso della battuta sembra infatti chiaro: un membro della famiglia, venivano tirate fuori dai loro
esplicito riferimento all'uso delle imagines maiorum ripostigli e indossate da persone che rassomigliavano,
nel funerale gentilizio romano. Costui, dice Sosia, ha nella taglia e nella persona, al defunto di cui porta-
in sé tutta la mia imago (omnem imaginem meam... vano l'imago. In più, questi figuranti avevano indosso
possidet) - dunque mi accade da vivo quello che da abiti confacenti al rango tenuto in vita dal defunto che
morto non avrò mai, ossia dispongo della mia imago impersonavano, ed erano accompagnati dai segni della
fuori di me. Sosia, che è uno schiavo, non avrà certo sua distinzione 67. Quelle immagini erano dunque
diritto alla processione di imagines il giorno del suo «agite», svolgevano una funzione performativa che
funerale: e invece questo gli accade adesso, che è consisteva nel suscitare nuovamente la presenza degli
ancora vivo 63! antenati defunti. Polibio, che descriveva il funerale
Per Sosia, chi incontra un' altra persona la quale ha gentilizio romano con una certa emozione, commen-
assunto su di sé la sua imago esteriore, è dunque tava: «come non sentirsi commossi vedendo le imma-
paragonabile a colui che dispone in vita della propria gini di uomini celebri per la loro virtù tutte raccolte, e
imago funebre: le immagini degli antenati, portate in per così dire vive e animate?» 68. Le imagines costitui-
processione al funerale gentilizio, costituiscono un vano realmente il «doppio» dei defunti, non si trattava
altro modello antropologico buono per pensare il di semplici figure somiglianti ma di veri e propri
«sosia». Questa battuta dello schiavo plautino è molto sostituti dei defunti. Quel giorno gli antenati erano
preziosa per chi voglia entrare dawero dentro il signi- veramente lì, erano tornati per accompagnare alla
ficato antropologico delle imagines maiorum: un sepoltura quel membro della famiglia che si aggiun-
modello culturale di straordinaria rilevanza nella cul- geva, ultimo, alla lignée dei trapassati.
tura romana 64. Tale battuta implica infatti che l'imago Diodoro Siculo, parlando dei funerali di Lucio
funebre potesse essere concepita a Roma non come Emilio Paolo, aggiungeva a questo proposito una
una semplice effigie del morto ma come un suo notizia che potrebbe risultare di grande interesse: «fra
«doppio» a tutti gli effetti. Vediamo, se possibile, di i Romani, coloro che eccellono per nobiltà o per fama
verificare questo specifico significato a partire dalle dei loro antenati... per tutta la vita sono accompagnati
fonti che possediamo. Oltre tutto, sarà un buon modo da attori (mimetai) , che ne studiano attentamente il
per vedere questi testi da un punto di vista diverso da portamento e le peculiarità dell'aspetto» 69. Questa
quello che di solito si sceglie 65. notizia di Diodoro sembra essere confermata da una
Ciò che apprendiamo dalle descrizioni antiche delle fonte (e da un evento) certo posteriori alla Roma di
imagines funebri è che esse riproducevano in cera i Lucio Emilio Paolo, ma che merita comunque di
volti dei defunti, e che tali riproduzioni erano conside- essere ricordata. Narra infatti Svetonio che, ai funerali
rate «estremamente rassomiglianti» 66 alla persona. di Vespasiano, «un archimimo rappresentava la per-

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sona dell'imperatore e imitava, secondo il costume, i rebbe anche la migrazione di cognomina dall'uno
fatti e i detti di lui vivo» i(l. Il biografo dice esplicita- all'altro - in un certo senso, a segnalare l'intercambia-
mente che si trattava di un mos (<<secondo il bilità fra queste persone, il fatto di essere uno l'alter
costume»): dunque, la presenza del mimo ai funerali ego dell' altro.
dell'imperatore non rappresentava una scelta occasio- Singolare destino di una rassomiglianza i2. Colui che
naIe ma 1'applicazione di una regola tradizionale. E «rassomiglia» ad un nobile romano, ed in più possiede
certo questo archimimus svetoniano rassomiglia terri- le arti mimiche capaci di accrescere e valorizzare
bilmente al mimetés che, secondo Diodoro, sarebbe questa naturale contiguità, viene attratto nell'orbita
stato affiancato agli aristocratici proprio perché, dopo dell' altro per diventare qualcosa di simile alla sua
la loro morte, potesse avvenire ciò che si verificò nel «controfigura». In ogni caso - anche indipendente-
caso di Vespasiano. Ma forse una traccia ulteriore mente dalle testimonianze pliniane sulle «rassomi-
della presenza attiva di questi mimetai affiancati a glianze» fra attori e aristocratici - la notizia di Dio-
nobili romani si può cogliere in alcune singolari noti- doro sui mimetai sembra mostrare che per un nobile
zie tramandateci da Plinio il vecchio. romano la rappresentazione funebre, l'imitazione tra-
Nella sezione dedicata ai poteri, e alle stranezze, mite la imago, cominciava a prendere forma addirit-
della «rassomiglianza» Plinio cita infatti ben cinque tura già in vita. Accompagnato da un mimetés che
casi di nobili romani la cui rassomiglianza con un cerca di impadronirsi delle peculiarità del suo aspetto
attore o con un mimo era tale che da esso derivarono - in modo che esse possano essere fedelmente ripro-
direttamente il loro cognome il: uno Scipione fu detto dotte dopo la sua morte - ancor più ineluttabilmente
così Salvitto, un Lentulo fu detto Spinther, un Metello il nobile romano doveva immaginare la morte, la sua
fu detto Pamphilus, un Curione fu detto Burbuleius, morte personale, nella forma di un «doppio» i3. Il
Messalla Censorio fu detto Menogenes. E tutto questo, legame si fa biunivoco: «doppio» significa «morte»,
perché esisteva un attore o un mimo che rassomigliava vedere il proprio «doppio» - nella forma di un attore
terribilmente a ciascuno di loro. In più, ci viene detto che fedelmente segue colui che sta studiando, o in
che l'oratore Lucio Planco passò il suo cognomen quella di un' imago perfettamente rassomigliante e
all' attore Rubrio, sempre per via della straordinaria quasi «viva» - costituisce un immediato richiamo alla
similitudo che lo legava a lui. Colpisce l'insistenza di morte gentilizia. «Sdoppiato» dopo la morte per
Plinio nel sottolineare la rassomiglianza di personaggi mezzo di un'immagine «estremamente rassomi-
romani proprio con histriones o mimi. Si può infatti gliante» e destinata ad essere agìta, e sdoppiato forse
formulare l'ipotesi che queste singolari similitudines addirittura già in vita nella forma di un mimetés che lo
venissero registrate con tanta cura proprio perché affianca, l'aristocratico romano si distingueva dai cit-
questi attori o mimi erano in realtà i mimetai messi tadini comuni anche per questo singolare motivo: egli
accanto a quei personaggi per studiare il loro porta- aveva esperienza diretta e personale del «doppio»,
mento e le loro peculiarità di espressione. Ciò spieghe- conosceva il suo contenuto di onore e di prestigio ma,

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insieme, doveva ineluttabilmente percepire il rintocco des Amphitryonstoffes vor Plautus, in «Rheinisches Museum» 125, 1982,
pp. 275 ss.; R. Raccanelli, Prima di Plauto: il racconto di Anfitrione e le sue
di morte che la sua presenza suscitava. varianti, Tesi di laurea, Venezia 1986-87).
Sosia non aveva dunque torto: lo sdoppiamento J M. Bettini, Verso una antropologia dell'intreccio, Urbino 1991.
4 Esemplari, da questo punto di vista, le avventure in scena dei due
dell'identità può essere rappresentato nella forma di
fratelli Menecmi nell'omonima commedia (cfr. ancora M. Bettini, Verso
imago /unebris o comunque di morte gentilizia. La un'antropologia dell'intreccio, cit., pp. 37 ss.).
morte appare strettamente legata all'orizzonte del 5 Il resto della commedia avrà altri, frequenti richiami a questo tema
dell'«essere altrove».
«doppio». Sosia, lo schiavo, scherzava su quell'og- 6 Prima come autoironica anticipazione del personaggio ignaro (v. 332),
getto solenne che non gli sarebbe mai appartenuto, poi come segno di estrema sottomissione (v. 382). Oltre al noto episodio di
l'imago, ma conosceva bene il contenuto della catego- Odisseo e Polifemo, si ricordi la storia dell'uomo che si faceva chiamare
«Self»: S. Thompson, Motiflndex ofFolk Literature, Bloomington 1967, K
ria culturale e psicologica a cui essa rimandava. C'è 602.1.
qualcosa di molto profondo nel Witz con cui, come 7 Cfr. la ripetizione variata di nimis similest me! (v. 442) in tam

con un'alzata di spalle, questo schiavo da commedia si consimilest atque ego (v. 443), ad accentuare la straordinarietà della
«rassomiglianza». Pare anzi probabile che quel tam consimilest atque ego
libera di un fantasma che in fin dei conti mai lo non sia un banale equivalente di consimilis me! (così per es. interpretava
avrebbe riguardato - se solo la fantasia di Plauto non ].1. Ussing, T. Macci Plauti Comoediae, I, Hauniae 1875, p. 277), ma una
gli avesse procurato quello spiacevole incontro di espressione brachilogica per tam consimilis est (mel) atque ego (sum
consimilis mez): «mi rassomiglia tanto quanto io rassomiglio a me stesso»
fronte alla casa del suo padrone. L'elaborazione linguistica della rassomiglianza termina al v. 446 con una
espressione ugualmente tesa, mhil hoc similist similius «non c'è nulla di più
simile di questa rassomiglianza».
8 Lo stesso farà il Sosias di H. von Kleist nel suo Amphitryon. Per i
MAURIZIO BETTINI rapporti fra Plauto, Molière e Kleist cfr. H. Mantinband-Ch. E. Passage,
Amphitryon, Chapel Hill1974, pp. 109 ss. Sulla fortuna dell'Amphitruo in
generale cfr. O. Lindberger, The Transformations of Amphitryon, Stoc-
kolm 1956; H.R. Jauss, Poetlk und Problematik der Identitat und Rolle in
der Geschichte des Amphitryon, in O. Marquard-K. Stierle (ed.), Identitat,
Miinchen 1979, p. 213 ss.; F. Bertini, Anfitrione e il suo doppio: da Plauto a
Guilherme Figueiredo, in AA.VV., La semiotica e il doppio teatrale, Napoli
l Solo un accesso di carità di patria avrà potuto spingere R. Jouanny a
1981, pp. 307 ss.
definire questa descrizione plautina di battaglia un «monologue fasti-
9 Oltre all'ovvia segnalazione, rivolta agli spettatori, che la scena si
dieux», che Molière avrebbe finalmente ridotto in «style de théàtre» (nel
commento all'Amphitryon di Molière, Paris, Garnier, 1962, II, p. 888). svolge di notte (così Th. Cutt-].E. Nyenhuis, Plautus: Amphitruo, Detroit
2 Salvo considerare incontri con il «sosia» casi come il celebre «fanta- 1970, p. 145).
10 E.A. Poe, William Wilson. Cfr. Th. Ziolkowsky, Disenchanted Im-
sma animato» (émpnoun éidolon) che Era avrebbe sostituito ad Elena nel
viaggio a Troia con Paride: ma qui «incontro» non c'è. Meglio forse il ages, Princeton 1977, pp. 175 sS.; Ch. E. Passage, Dostoevsky the Adapter,
racconto di Eracle che scambia colpi di pietra con una statua che lo Chapel Hill 1954, pp. 13 ss. (specie per i rapporti fra Il Sosia di
rappresenta (Apollodoro, Biblioteca, 6, 3; Esichio s.v. pléxanta ktii pleghe- Dostoevskij e la letteratura romantica sul «doppio»).
énta; 9, Il, 4; Eustazio, Commento all'Iliade, Il,749 p. 882,38. Cfr. C. 11 Su questi versi cfr. H.E. Barnes, The Case of Sosia Versus Sosia, in

Brillante, Metamorfmi di un'immagine, in Il sogno in Grecia, a cura di G. «Classical Journal» 53, 1957-1958, pp. 19 ss.
Guidorizzi, Bari 1988, p. 23). Quanto ai precedenti greci del racconto di 12 Penso che dubito abbia qui più il valore forte dell' <~essere in dubbio»

Anfitrione, purtroppo ci resta un po' troppo poco per poter giudicare del che non quello un po' banale di «esitare». Cfr. Thesaurus linguae latinae V-
modo in cui l'incontro di Anfitrione con Zeus/Anfitrione vi era sviluppato I, 2082, 55 ss. (Accio, 191 Ribb. 3 ; Pacuvio, 50 Ribb. 3 ecc.).
(sui precedenti greci della commedia plautina cfr. E. Stark, Die Geschichte 13 Vale la pena ricordare che dal v. 447 dell'Anfitrione (sed quom cogito,

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