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1 Se in me, o giudici, c’è qualcosa di ingegno, che sento quanto sia esiguo, o se una qualche pratica del dire,

in cui non nego di essermi discretamente riversato, o se una qualche conoscenza di questa cosa derivata
dallo studio e dalla disciplina delle arti ottime, da cui io confesso di non essermi scostato in nessun tempo
della mia vita, di tutte queste cose anche questo Aulo Licinio deve in primis esigerne il frutto da me quasi
con suo diritto. Infatti fin dove la mia mente può guardare molto lontano lo spazio del tempo passato e
ricordare l’ultima memoria della fanciullezza, da lì via via riconsiderando vedo che costui è stato per me un
principe sia per scegliere sia per intraprendere la ragione di questi studi. Che se questa voce, conformata
dalle esortazioni e dai precetti di questo, fu qualche volta di salvezza per qualcuno, dobbiamo certamente
portare, per quanto è sito in noi, sia aiuto che salvezza a questo stesso, da cui abbiamo appreso quello con
cui possiamo soccorrere gli altri e aiutare gli altri.

2 E affinché nessuno si meravigli, per caso, che sia detto questo da noi, poiché ci sia in costui una qualche
altra facoltà d’ingegno, nè questa logica del dire o disciplina, neppure noi fummo mai dediti profondamente
a quest’unico studio. Tutte le arti infatti, che sono pertinenti all’umanità, hanno un qualche vincolo
comune, e sono tra loro contenute da quasi una qualche parentela.

3 Ma affinché a nessuno di voi sembri essere strano che io, in una questione legittima e in un pubblico
giudizio – essendo svolta la cosa presso il pretore del popolo romano, uomo esemplare, e presso giudici
assai severi, tra tanta folla e concorso di uomini - usi questo genere del dire, che si discosti non solo dalla
consuetudine dei giudizi ma anche dal sermone forense; vi chiedo affinchè in questa causa mi diate questa
venia, adatta a questo reo, non molesta (al modo che spero) a voi, affinchè io, parlando per un sommo
poeta e per un uomo eruditissimo, in questa adunanza di uomini letteratissimi, tra questa vostra umanità,
presiedendo infine il giudizio questo pretore, permettete che parli un po’ più liberamente degli studi di
umanità e di lettere e che, per un persona di tal genere, che per l’ozio e lo studio minimamente è stata
trattata in processi e pericoli, usi un qualche genere del dire quasi nuovo e inusitato.

4 Che se sentirò che questo mi viene da voi attribuito e concesso, farò certamente in modo che voi
reputiate che questo Aulo Licinio non solo non debba essere segregato dal numero dei cittadini, essendo un
cittadino, invero anche se non lo fosse, che avrebbe dovuto esservi accolto. Come infatti dapprima Archia
uscì dalla fanciullezza, e da quelle arti, con cui l’età infantile è solita essere formata all’umanità, si portò allo
studio dello scrivere, dapprima ad Antiochia - è infatti nato lì da nobile luogo - città un tempo popolosa e
celebre, piena di uomini coltissimi e di studi nobilissimi, gli toccò di superare celermente tutti per gloria di
ingegno. Poi i suoi arrivi nelle altre parti dell’Asia e della Grecia intera erano così celebrati che l’attesa
dell’uomo superasse la fama dell’ingegno, l’arrivo e l’ammirazione quella della sua attesa.

5 Era allora l’Italia piena di arti e discipline greche, e questi studi erano allora coltivati sia nel Lazio con più
intensità di ora nelle stesse città sia non venivano trascurati qui a Roma per la tranquillità della repubblica.
E così gli abitanti di Taranto, di Reggio e di Napoli gli donarono la cittadinanza ed altri premi; e tutti coloro
che potevano giudicare qualcosa circa l’ingegno, lo considerarono degno di conoscenza e ospitalità. Per
questa tanta celebrità della fama essendo ormai noto agli assenti, venne a Roma sotto il console Mario e
Catulo. Trovò dapprima quei consoli, di cui uno potesse adibire grandissime cose per scrivere, l’altro sia
imprese sia anche studio e orecchie. Subito i Luculli, essendo Archia anche allora vestito della pretesta, lo
accolsero in casa loro. Così questo, che la casa, che per prima favorì l’adolescenza di costui, fosse anche la
più vicina alla sua vecchiaia, era non solo dell’ingegno e della cultura, invero anche della natura e della
virtù.

6 A quei tempi era giocondo a quel Metello Numidico e a suo figlio Pio; era ascoltato da Marco Emilio;
viveva con Quinto Catulo, padre e figlio; era stimato da Lucio Crasso; invero tenendo i Luculli, Druso, gli
Ottavi, Catone e l’intera casata degli Ortensi legata per la consuetudine, era oggetto di grandissimi onori,
perché l’onoravano non solo quelli che si sforzavano di ascoltare e apprendere qualcosa ma anche se alcuni
per caso lo simulavano. Intanto, con un intervallo abbastanza lungo, essendo partito verso la Sicilia con
Lucullo ed allontanandosi con lo stesso Lucullo da quella provincia, giunse ad Eraclea; che essendo una città
con giustissimo diritto e patto, volle essere registrato in quella città e l’ottenne dagli abitanti di Eraclea,
essendone lui stesso ritenuto degno di per sé, sia per l’autorità sia per la grazia di Lucullo.

7 La cittadinanza fu data in base alla legge di Silvano e di Carbone: “Se alcuni fossero stati registrati in città
federate, se avessero avuto domicilio in Italia allora quando veniva portata la legge e se entro sessanta
giorni si fossero registrati davanti al pretore”. Avendo costui già da molti anni domicilio a Roma, si registrò
davanti al pretore Quinto Metello, suo familiarissimo.

8 Se di niente altro discutiamo se non della cittadinanza e della legge, non dico nulla di più: la causa è stata
pronunciata. Cosa infatti fra queste si può confutare, o Grattio? Negherai che allora sia stato registrato ad
Eraclea? C’è un uomo di grandissima autorità, coscienza e credibilità, Marco Lucullo, che dice non di
presumerlo ma di saperlo, non di averlo sentito ma di averlo visto, non di avervi assistito ma di aver agito.
Ci sono i legati di Eraclea, uomini nobilissimi; vennero per questo giudizio con mandati e una pubblica
testimonianza; che dicono che costui fu registrato come (cittadino di) Eraclea. Tu desideri da questi i registri
pubblici di Eraclea, che noi tutti sappiamo essere scomparsi, bruciato l’archivio nella guerra italica. E’
ridicolo non dire nulla verso ciò che abbiamo e chiedere ciò che non possiamo avere; tacere sul ricordo
degli uomini, domandare la memoria dei documenti e, avendo la lealtà di un uomo autorevolissimo, il
giuramento e l’assicurazione di un municipio integerrimo, ripudiare cose che in nessun modo possono
essere alterate, e desiderare i registri, che tu stesso affermi essere soliti essere corrotti.

9 Non ebbe forse domicilio a Roma egli, che tanti anni prima della cittadinanza data collocò a Roma la sede
di tutte le cose e delle sue fortune? Ma non si è registrato. Invero anzi si è iscritto in quei registri che soli
garantiscono l’autorità di pubblici registri da quelle iscrizioni e dal collegio dei pretori. Infatti – essendo
detto che i registri di Appio erano stati conservati in modo più negligente; la leggerezza di Gabinio, quanto a
lungo fu incolume, dopo la condanna, la calamità avevano tolto ogni credibilità dei registri- Metello, l’uomo
più onesto e scrupoloso di tutti, fu di tanta diligenza che si venuto dal pretore Lucio Lentulo e dai giudici e
che abbia detto di essersi mosso per la cancellatura di un nome. In questi registri quindi non vedete alcuna
cancellatura nel nome di Aulo Licinio.

10 Quando le cose stanno così, che cosa c’è poichè dubitiate della sua cittadinanza, soprattutto essendo
stato registrato anche in altre città? Infatti quando in Grecia gli uomini conferivano la cittadinanza
gratuitamente a molti mediocri e dotati o di nessuna o di una qualche umile arte, credo che reggini o locresi
o napoletani o tarantini, non abbiano voluto (concedere) a costui, fornito di grandissima gloria di ingegno,
quello che erano soliti elargire agli artisti scenici! E che? Quando gli altri non solo dopo la cittadinanza data,
ma anche dopo la legge Papia si inserirono in qualche modo nei registri dei loro municipi, costui, che non
usa neppure quelli in cui è stato registrato, perché sempre volle essere un cittadino di Eraclea, sarà
rigettato?

11 Tu richiedi naturalmente le nostre liste. E’ infatti oscuro che costui sotto gli ultimi censori è stato con il
famosissimo comandante Lucio Lucullo presso l’esercito; sotto i precedenti fu in Asia con lo stesso
questore; sotto i primi, Giulio e Crasso, non è stata censita nessuna parte della popolazione. Ma -poiché un
censimento non attesta il diritto di cittadinanza, e indica soltanto che chi sia stato censito già allora si è
comportato da cittadino- in quei tempi nei quali tu accusi di non essersi trovato, neppure a giudizio dello
stesso, nel diritto dei cittadini romani, sia fece spesso testamento con le nostre leggi, sia entrò in eredità di
cittadini romani, sia fu riportato dal proconsole Lucio Lucullo presso l’erario nei benemeriti.

12 Cerca argomenti, se puoi (trovarne) qualcuno; giammai infatti sarà vinto né dal giudizio suo né da quello
degli amici. Ci chiederai, Grazzio, perché siamo dilettati con tanta opera da quest’uomo. Perché ci fornisce
dove sia l’animo si ristori da questo strepito del foro sia le orecchie riposino, sfinite dal frastuono. Forse tu
ritieni o che possa bastare a noi quello che ogni giorno diciamo in tanta varietà di cose se non coltiviamo il
nostro animo con la dottrina; o che l’animo possa sopportare una tanta tensione se non lo ristoriamo con la
stessa dottrina? Io invero confesso di essere dedito a questi studi; si vergognino gli altri se qualcuno si è
sepolto nelle lettere così da non poter da esse né ottenere nulla per la comune utilità né portarlo
nell’aspetto e alla luce; di cosa poi dovrei vergognarmi io che da tanti anni, o giudici, vivo così che il mio
riposo non mi abbia mai distolto dal tempo o dall’utilità di nessuno, o il piacere mi abbia richiamato o infine
il sonno mi ritarda?

13 Perciò alla fine chi mi riprenda, o chi a buon diritto potrebbe adirarsi con me se io, per coltivare questi
studi, avrò assunto per me tanto quanto di tempo è concesso ad altri piaceri e allo stesso riposo dell’animo
e del corpo, quanto gli altri attribuiscono ai convivi festivi, quanto infine al gioco, quanto alla palla? E perciò
di più mi deve essere concesso questo perché da questi studi cresce anche questa orazione e facoltà; che
quanto è in me, non è mai venuta meno nei pericoli degli amici. Che se sembra a qualcuno più lieve, certo
senza dubbio sento quelle cose che sono somme, da che fonte io le assorba.

14 Se infatti dall’adolescenza non mi fossi persuaso con gli insegnamenti di molti e molte letture che nella
vita non c’è nulla da cercare con grande opera se non la lode e l’onestà, e poi nel conseguirla poco sono da
considerare tutte le sofferenze del corpo, tutti i pericoli della morte e dell’esilio, giammai mi sarei esposto
per la vostra salvezza in tante e tali lotte e in questi quotidiani impeti di uomini scellerati. Ma pieni ne sono
tutti i libri, piene le voci dei sapienti, piena di esempi l’antichità, che giacerebbero tutte nelle tenebre se
non le aiutasse la luce delle lettere. Quante molte immagini espresse di uomini fortissimi, non solo per
ammirarle, ma anche per imitarle, ci lasciarono gli scrittori sia greci sia latini? Che io, proponendoli sempre
a me nell’amministrare la repubblica, conformavo l’animo e la mente mia con lo stesso pensiero di quegli
uomini eccellenti.

15 Qualcuno chiederà: “E che? Quegli stessi sommi uomini, le cui virtù sono state tramandate dalle lettere,
furono istruiti in codesta dottrina, che tu esalti con le lodi?” E’ difficile affermare questo di tutti, ma tuttavia
c’è certamente ciò che ti risponda. Io confesso che ci furono molti uomini di animo e virtù eccellente anche
senza cultura per una disposizione quasi divina della natura stessa che si sono mostrati di per sé equilibrati
e austeri; aggiungo anche quello, che più spesso per la gloria e la virtù è servita una natura senza cultura
che una cultura senza natura. E questo stesso io intendo, quando ad una natura straordinaria e illustre si sia
aggiunto qualche logica e una conformazione della dottrina, allora è solito risultarne quel non so che di
splendido e singolare.

16 Da questo numero c’è questo, che hanno visto i nostri padri, l’Africano, uomo eccezionale; in questo
(numero) Caio Lelio, Lucio Furio, uomini molto equilibrati e moderati; da questo l’uomo più deciso e istruito
per quei tempi, quel Marco Catone il Vecchio; e certamente essi, se non fossero stati per nulla aiutati dalle
lettere a conoscere e praticare la virtù, non si sarebbero mai portati al loro studio. Che se non si mostrasse
tanto frutto da questi e se da questi studi si cercasse il solo diletto, tuttavia voi giudichereste, come penso,
questa distrazione dell’animo molto umana e liberalissima. Tutte le altre infatti non sono né di tutti i tempi,
né di ogni età né luoghi. Questi studi alimentano l’adolescenza, rallegrano la vecchiaia, ornano le cose
favorevoli, offrono rifugio e conforto nelle avversità, dilettano in casa, non impediscono fuori, passano la
notte con noi, viaggiano, vengono in campagna.

17 Che se noi stessi non potessimo né toccare né gustare con la nostra sensibilità queste cose, tuttavia
dovremmo ammirarle, anche quando le vedessimo in altri. Chi di noi fu di animo tanto rozzo e duro da non
commuoversi di recente per la morte di Roscio? Che essendo morto vecchio, tuttavia per l’arte eccellente e
l’antichità sembrava che non sarebbe dovuto affatto morire. Egli dunque si era procurato l’affetto da parte
di noi tutti soltanto con le movenze del corpo: e noi trascureremo le incredibili commozioni dell’animo e la
prontezza di ingegno?

18 Ogni volta che io ho visto questo Archia, o giudici, -userò infatti la vostra benevolenza poiché attendete
me tanto diligentemente in questo nuovo genere del dire- ogni volta che io ho visto costui, non avendo
scritto alcuna lettera, pronunciare al momento un gran numero di ottimi versi su quelle stesse cose che si
trattassero allora! Ogni volta che, invitato a dire la stessa cosa, cambiate parole e concetti! E ho visto essere
così apprezzate le cose che invero avesse scritto con diligenza e riflessione che pervenisse alla lode degli
antichi scrittori. Io non amerò costui? Non lo ammirerei? Non reputerei di doverlo difendere in ogni modo?
E così dagli uomini sommi ed eruditissimi abbiamo appreso che gli studi delle altre cose risultano sia dalla
cultura che dagli insegnamenti e dall’arte; il poeta vale per natura stessa ed è mosso dalle forze della mente
ed è gonfiato da qualche spirito quasi divino. Per questa cosa con suo diritto quel nostro Ennio chiama
‘santi’ i poeti, poiché sembrino esserci stati raccomandati quasi da un qualche dono e regalo degli dei.

19 Sia dunque santo presso di voi, o giudici, uomini molto colti, questo nome di poeta, che nessuna
barbarie mai violò. Sassi e deserti rispondono alla voce, spesso bestie immani sono ammansite dal canto e
si bloccano; noi, istruiti da cose ottime, non siamo commossi dalla voce dei poeti? Gli abitanti di Colofone
dicono che Omero è un loro concittadino, quelli di Chio lo rivendicano proprio, quelli di Salamina lo
pretendono, quelli di Smirne invero confermano che è proprio, e così dedicarono anche un suo tempio in
città. Moltissimi altri inoltre lottano e se lo contendono tra di loro. Quelli dunque anche dopo la morte
rivendicano un forestiero, perché fu un poeta; e noi ripudieremo questo vivo, che è nostro sia per scelta
che per le leggi? Soprattutto quando Archia abbia portato un tempo tutta l’attività e tutto l’ingegno a
celebrare la gloria e la lode del popolo romano? Infatti, giovinetto, trattò la guerra cimbrica e fu caro a
quello stesso Caio Mario, che sembrava più duro a questi studi.

20 E infatti nessuno è tanto estraneo dalle Muse che non patisca facilmente che sia affidato ai versi un
elogio eterno delle sue imprese. Raccontano che quel Temistocle, l’uomo più importante ad Atene, essendo
chiesto a lui quale canto o la voce di chi ascoltasse con più piacere, disse: ‘Di colui dal quale il suo valore
fosse celebrato al meglio’. E così quel Mario apprezzò ugualmente in modo eccezionale Lucio Plozio, dal cui
ingegno credeva potesse essere celebrato quello che aveva compiuto.

21 Da costui invero è stata narrata l’intera guerra mitridatica, grande e difficile, svolatasi con alterne
vicende in terra e in mare; e quei libri non esaltano soltanto Lucio Lucullo, uomo assai coraggioso e famoso,
ma anche il nome del popolo romano. Il popolo romano infatti, sotto il comando di Lucullo, penetrò nel
Ponto, un tempo difeso dalle forze del re e dalla stessa natura e dalla regione; l’esercito del popolo
romano, sotto il medesimo comandante, sbaragliò schiere innumerevoli di Armeni con un contingente non
grandissimo; è lode del popolo romano che la fedelissima città di Cizico per la tattica dello stesso sia stata
sottratta e salvata da ogni assalto del re e dalla bocca e dalle fauci dell’intera guerra; sarà sempre riportata
e predicata come nostra quell’incredibile battaglia navale presso Tenedo quando, combattendo Lucio
Lucullo, la flotta dei nemici, uccisi i comandanti, venne soppressa; nostri sono i trofei, nostri i monumenti,
nostri i trionfi. E la fama del popolo romano è celebrata da coloro dal cui ingegno queste imprese sono
riportate.

22 Caro fu il nostro Ennio all’Africano Maggiore, e così si pensa che egli sia stato anche effigiato in marmo
nel sepolcro degli Scipioni. Ma certamente con quelle lodi viene esaltato non solo colui che è lodato, ma
anche il nome del popolo romano. Viene innalzato al cielo Catone, il bisavolo di costui; un grande onore si
aggiunge alle cose del popolo romano. Infine tutti quei Massimi, Marcelli, Fulvi non vengono esaltati senza
il comune elogio di tutti noi. I nostri antenati accolsero quindi nella cittadinanza quello, un uomo di Rudie,
che aveva fatto queste cose; e noi scacceremo dalla nostra città costui, cittadino di Eraclea, ambito da
molte città, domiciliato d’altra parte in questa per le leggi?

23 Se qualcuno infatti crede che da versi greci si ottenga un minore frutto di gloria che da quelli latini,
sbaglia di molto, soprattutto poiché quelle greche si leggono in quasi tutte le nazioni, quelle latine sono
limitate nei loro confini, senza dubbio esigui. Perciò se quelle imprese che abbiamo compiuto sono
delimitate dalle regioni della terra, dobbiamo desiderare che la gloria e la fama giungano là dove siano
giunte le armi delle nostre mani, perché quando queste cose sono onorifiche per gli stessi popoli di cui si
scrivono le cose, allora questo è senz’altro l’incitamento più grande dei pericoli e delle fatiche per quelli che
per la gloria lottano riguardo la vita.

24 Quanti molti scrittori delle sue cose si dice avesse con sé quel grande Alessandro! E tuttavia egli,
essendosi fermato al Sigeo davanti al tumulo di Achille: ‘O giovane fortunato -disse- che abbia trovato
Omero come cantore del tuo valore.’ E veramente. Se infatti non ci fosse stata quell’Iliade, la stessa tomba,
che aveva coperto il suo corpo, avrebbe cancellato anche il nome. E che? questo nostro Magno, che ha
eguagliato la fortuna col valore, non ha forse donato, nell’assemblea dei soldati, la cittadinanza a Teofane
di Mitilene, scrittore delle sue gesta; e quei nostri uomini forti, ma rozzi e soldati, spinti da qualche dolcezza
della gloria, quasi partecipi della stessa lode, non l’hanno forse approvata con grande clamore?

25 E così, io credo, se Archia non fosse cittadino romano per le leggi, non potè fare in modo di ottenere da
un qualche generale la cittadinanza! Quando Silla la concedeva a spagnoli e galli, avrebbe respinto, credo,
costui che la chiedeva! lui che noi abbiamo visto in assemblea, quando un cattivo poeta del volgo gli
presentò un’operetta, perché in lui avesse composto un epigramma, soltanto in versi alternati un po’
lunghi, comandare che gli venisse subito assegnato un premio tra quelle cose che allora vendeva, ma alla
condizione che non scrivesse nulla poi. Lui che abbia addotto lo zelo di un cattivo poeta degno tuttavia di
una qualche ricompensa, non avrebbe cercato l’ingegno di questo, l’eccellenza nello scrivere e
l’abbondanza?

26 E che? da Quinto Metello Pio, suo familiarissimo, che donò a molti la cittadinanza, non l’avrebbe
ottenuta né di per sé né attraverso i Luculli? soprattutto fino a ciò lui che desiderasse che si scrivesse delle
sue cose cosicchè desse le sue orecchie tuttavia anche a poeti nati a Cordova, che suonavano un che di
pingue ed esotico. Nè si deve infatti dissimulare questo (che non si può oscurare), ma si deve portare
davanti a noi. Tutti noi siamo attirati dall’amore della lode, e ciascun ottimo massimamente è condotto
dalla gloria. Quegli stessi filosofi, anche in quei libretti che scrivono sulla gloria da condannare, ci scrivono il
loro nome; vogliono che si parli di loro e vengano nominati in quello stesso in cui disprezzano la lode e la
fama.

27 Certamente Decimo Bruto, grandissimo uomo e generale, adornò gli ingressi dei suoi templi e
monumenti con i versi di Accio, suo intimo amico. Ormai invero quel Fulvio, che combatté contro gli Etoli
con Ennio compagno, non dubitò a consacrare alle Muse le spoglie di Marte. Perciò nella città in cui
generali, quasi armati, hanno onorato il nome dei poeti e i templi delle Muse, in questa dei giudici in toga
non devono rifuggire dall’onore delle Muse e dalla salvezza dei poeti.

28 E affinché facciate questo più volentieri, mi rivelerò ormai a voi, o giudici, e confesserò a voi riguardo il
mio qualche amore della gloria, troppo acre forse invero tuttavia onesto. Quelle cose infatti che nel nostro
consolato abbiamo compiuto insieme con voi per la salvezza di questo stato, per la vita dei cittadini e per
l’intera repubblica, costui lo toccò con i versi ed incominciò; uditi i quali, poiché la cosa mi è parsa grande e
bella, l’ho esortato a proseguire. Non desidera infatti la virtù nessuna ricompensa delle fatiche e dei pericoli
tranne questa della fama e della gloria; tolta certamente questa, o giudici, che c’è poiché ci esercitiamo in
tante fatiche in questo corso della vita tanto piccolo e tanto breve?

29 Certo se l’animo non presagisse nulla nell’avvenire e se limitasse tutti i suoi pensieri con i medesimi
confini da cui è circoscritto lo spazio della vita; né si logorerebbe con tante fatiche né si tormenterebbe con
tante preoccupazioni e veglie né combatterebbe tante volte per la vita stessa. Ora anche in ciascun ottimo è
insita una certa virtù che sprona l’animo notte e giorno con gli stimoli della gloria e l’ammonisce che il
ricordo del nostro nome non deve essere commisurato alla durata della vita, ma si deve eguagliare con
tutta la posterità.

30 O forse invero tutti noi, che ci troviamo in politica e in questi pericoli e fatiche della vita, sembriamo
essere di animo tanto piccolo che riteniamo, quando fino all’ultimo spazio non avremo tirato alcun respiro
tranquillo e riposato, che ogni cosa è sul punto di morire simultaneamente con noi? O forse molti
grandissimi uomini hanno con zelo lasciato statue e ritratti, riproduzioni non dell’animo ma del corpo; non
dobbiamo forse preferire di molto lasciare l’immagine delle nostre decisioni e virtù, riprodotta ed abbellita
dai sommi ingegni? Io invero pensavo, già allora nel compierle, di diffondere e divulgare tutto quello che
facevo in un ricordo eterno del mondo della terra. Invero, sia che questo, dopo la morte, è sul punto di
essere lontano dalla mia percezione sia -come hanno ritenuto uomini molto saggi- riguarderà una qualche
parte di me, ora almeno mi rallegro certamente con un certo pensiero e con la speranza.

31 Perciò, o giudici, mantenete (nella cittadinanza) un uomo di tale riservatezza, che vedete essere
apprezzato sia dalla dignità sia anche dalla antichità dei suoi amici; con tanto ingegno d’altra parte quanto
conviene sia stimato ciò che vediate essere stato cercato dall’ingegno di grandissimi uomini; un processo
invero di tal fatta che sia approvato dall’aiuto della legge, dall’autorità di un municipio, dalla testimonianza
di Lucullo, dai registri di Metello. Essendo le cose così, chiediamo a voi, o giudici, che, se ci deve essere una
qualche raccomandazione non solo umana, invero anche divina per tanti ingegni, accogliate nella vostra
fede colui che ha sempre onorato voi, i vostri generali, le imprese del popolo romano, che anche in questi
recenti pericoli interni, nostri e vostri, dichiara che darà una testimonianza eterna di fama ed è da quel
numero che presso tutti sono stati sempre considerati santi e così chiamati, affinchè sembri essere
confortato dalla vostra bontà piuttosto che offeso dal rigore.

32 E quello che, per la mia consuetudine, dissi brevemente e semplicemente riguardo la causa, confido, o
giudici, che sia approvato da tutti. Quello invece che ho detto di estraneo dall’abitudine mia e giudiziale, sia
sull’ingegno dell’uomo e in generale sulla attività dello stesso spero, o giudici, che quello sia stato accolto in
buona parte da voi; da colui che esercita il giudizio, lo so per certo.

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