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Storia e teoria della recitazione Fabrizio Fiaschini

Lezione 1
Corso dedicato all’arte dell’attore
STORIA: ricognizione storica sull’evoluzione dell’attore occidentale. Noi trattiamo la sfera
performativa europea ma esiste anche un’altra storia, per certi aspetti completamente diversa:
in Oriente. Affonda le radici in tempi lontanissimi. La visione dell’attore è completamente
diversa da quella che conosciamo, anche se con elementi comuni. Fin da subito ci sono alcuni
elementi intrecciati ma in realtà si tratta di due emisferi. Non è una storia di tipo cronologico,
ma storia di come si evolve la struttura performativa dell’attore e il suo ruolo nelle arti e nel
sistema sociale. Non si può prescindere dalle condizioni sociali, politiche, antropologiche, per
l’affermazione dell’attore. È una storia che per ogni epoca cerca di identificare il ruolo
dell’attore, la sua fisionomia, le sue tecniche, nel contesto che lo accoglieva di volta in volta.
TEORIA: storia non solo empirica, di tecniche contraddistinte dall’evoluzione delle
metodologie, ma è anche storia culturale. Non esiste solo la tecnica dell’attore ma anche la
cultura dell’attore. Di solito si pensa in termini di esecutore, artigiano della scena. Pensiamo
che la sua fisionomia sia legata alla capacità di apprendere e sviluppare tecniche sulle quali si
basa la sua specializzazione, in realtà non è così. L’attore è anche un autore. (Esempio della
Commedia dell’Arte alle soglie della modernità). Non è solo trasmissione di tecniche, è più
ampio, più diversificato, dimensione autoriale. È più storia di attori-autori che di esecutori, è
più sceno-centrica che testo centrica. Se lo spettacolo fosse la messa in scena di testi, allora
sarebbe tutto subordinato al testo ma non è così. È sceno-centrico: il testo non è subordinato
alla scena ma si sviluppa in contemporanea. Con la dimensione sceno-centrica del teatro,
spostiamo il baricentro dal testo all’attore, che ha un’autorialità compositiva: perimetro non
più solo tecnico ma cultura scenica. Questa visione profonda lo rende autore al pari degli altri
nel sistema delle arti (filosofi, scultori, pittori). Per questo esistono anche teorie, non solo
storia.
Le tecniche non sono un bagaglio accessorio, funzionale alla messa in scena, ma la tecnica è
parte dell’autorialità: la tecnica crea qualcosa, è un’abilità che si alimenta di una prospettiva
culturale e autoriale che la rende autonoma, non più semplicemente funzionale al discorso. È
parte della cultura dell’attore e quando si parla di trasmissione di tecniche si parla di
pedagogia (termine del Novecento ma si può rendere retroattivo). Se attribuisco una
dimensione pedagogica, allora conferisco alle tecniche un valore culturale. La pedagogia è la
formazione di una persona e nel corso dei secoli elabora e trasmette tecniche non accessorie,
ma esprime la cultura attraverso un modello pedagogico, volto alla formazione della persona
(Stanislavskij usa tecniche ma si tratta di pedagogia). Di fatto la storia dell’attore è sempre
stata segnata dal tentativo di negare questa cultura e pedagogia dell’attore, negare il suo
protagonismo. A differenza delle altre arti, la storia dell’attore è contraddistinta dalla
necessità di giustificare la sua dimensione autoriale, creativa. Le qualità gli sono sempre state
negate come allo spettacolo è sempre stato negato l’accesso al parnaso delle arti. C’è sempre
stato lo stigma dell’attore come autore, delle tecniche come parte del sistema culturale.
All’attore è sempre stato negato l’accesso alla cultura. Capiamo allora perché si afferma il
primato del testo. Per questo motivo nella commedia dell’arte ha faticato ad emanciparsi dal
suo ruolo. Questa difficoltà è legata anche all’aspetto determinante che caratterizza l’attore: è
il primato del corpo. Il corpo è soggetto capace di portare un valore o un insieme di valori
pari a quelli della scrittura. L’autorialità dell’attore mette in primo piano, accanto alla parola,
il corpo. La scrittura scenica, infatti, è legata non solo all’oralità ma anche il corpo ha una
funzione determinante. Il corpo ha una sua autonomia, è uno strumento creativo al pari della
parola. (Corpo individuale e collettivo). Per questo sono necessarie le teorie della recitazione.
RECITAZIONE: termine che usiamo per chiarezza d’uso, non esaurisce l’autorialità
dell’attore, anzi rischia di limitarla. Indica una subordinazione, recito qualcosa di già detto.
“L’attore recita” è ambiguo. Ha un’accezione problematica, estesa e non pacifica, troppe
volte associata alla restituzione di parole. Spesso lo associamo a recitare a memoria dei testi.
Parola non esaustiva.
Il primo nodo cruciale, uno dei temi chiave della cultura dell’attore, che ha segnato la storia
dell’attore in senso negativo, è quello della Possessione.
Fin dalle origini la figura dell’attore, il suo statuto sociale e culturale è profondamente
segnato da questo elemento che implica poi un’autonomia delle tecniche e della cultura.
L’attore non agisce con padronanza di tecniche, autonomia recitativa e autoriale, perché di
fatto è posseduto da altro. È un esecutore allo stato puro che si perde totalmente. L’attore
recita non perché dà vita a una testualità scenica, non è padrone di una consapevolezza
tecnica perché ha studiato e imparato, ma è posseduto da una forza esterna che ne travolge
l’identità e lo fa essere altro da sé, esce di senno. Questo è un elemento che attraverserà come
un filo rosso tutta la storia della recitazione. Ha a che fare con un aspetto rituale (trance,
aspetto più religioso, medievale). Si ripercuoterà nel Novecento. Stanislavskij non tratta il
tema della possessione ma si pone comunque la questione della psicotecnica. È un tema
chiave: segna uno spartiacque dall’inizio nella riconoscibilità dell’attore. Emerge con
chiarezza nella culla del teatro antico, nella Grecia classica. È un tema caro a Platone. Pone
uno stigma sulla teatralità così netto che durerà lungo tutta la storia del teatro dell’occidente.
Neppure Aristotele riesce a mitigare. L’attore non ha la sua autonomia, le sue tecniche, non
recita con padronanza di sé ma è posseduto da Dio. Per Platone l’attore è punto di contatto tra
divino e umano e rappresenta un elemento perturbante di razionalità, di logos che non
permette un evolversi positivo della socialità. L’attore è fuori dal sistema culturale.
Di quale attore sta parlando? Nella sua parabola negativa non si riferisce tanto agli attori
tragici o comici ma ai rapsodi, i cantori, l’ossatura della performatività greca che affondava le
radici nel culto dell’oralità, saghe epiche (Omero). Dimensione che segnerà poi l’intera
dimensione dell’attorialità con culti orfici, misterici che pervadono la società greca. Le
donne, nella coreutica rituale (Baccanti), lavorano sul meccanismo rituale e sulla possessione,
trance. Su questo Platone è drastico. Lo Ione è uno dei dialoghi che affronta in maniera
diretta questo tema. È stato scritto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo. Ione è un rapsodo
specializzato nella recitazione dei testi omerici. Socrate contraddice per tutto il dialogo le
informazioni di Ione riguardo alla sua arte, alla sua autorialità recitativa, come depositario di
memoria orale, che riscrive sulla scena performando ogni volta. Socrate pone la sua
performance in una dimensione totalmente legata alla trance e alla possessione.
Lettura.
1. Platone è chiarissimo. C’è il continuo esercizio di Socrate di negare a Ione una arte,
una tecnica personale, autonoma. Non si tratta di un’autorialità che Ione ha maturato
ma semplicemente è posseduto, la sua autorità non può rendersi autonoma da quella
del dio. Concetto della calamita. Ione non è l’esecutore primo ma è un anello della
catena. Gli anelli non si riescono a scindere perché una calamita li unisce. Ione sa
recitare solo quello non a caso, perché la sua catena magnetica è attratta solo da
Omero, così ha voluto il dio.
2. Il collegamento che Platone fa ai riti e alla danza evidenzia come il magnetismo e
come la possessione non abbiano a che fare con il logos ma con il corpo. Dio si
impossessa della persona e impedisce la sua autonomia, innanzitutto di logos. Il poeta
è come un danzatore dei rituali, anche se recita Omero, perché non ha autonomia, è
posseduto. Danzatore e attore sono identici. La differenza non era così netta e Platone
li accomuna in maniera totalizzante. Viene privato del senno perché il possessore
agisce sul corpo, inibisce la mente a una sua autonomia, l’attore è non più in sé.
3. È un’arma a doppio taglio: sembra visto come ritualizzazione, come sacerdoti, in
realtà è negativo, riguarda anche lo spettatore. Il problema, infatti, è che questo tipo di
teatro corrompe la società: attraverso la possessione corporea inibisce il logos, la
ragione, la comprensione della verità. Socrate (Platone) stigmatizza l’attore, non è
un’opportunità ma un problema. Si innesca una malia psicagogica. Incantamento
attrae a sua volta lo spettatore con calamita, lo rende posseduto. Ma l’attore è già
l’ultima ruota del carro. Non è dio ma l’ultimo degli anelli di una progressiva perdita
di rapporto con la realtà di cui Omero è un elemento. Non si è in grado di dominare la
realtà perché sei dominato a tua volta. Ione ci prova a dire che c’è una tecnica del
rapsodo che sa come orientare le coscienze. Socrate: “dici non per arte nè per
conoscenza, ma per possessione”.
Nella Grecia classica, quello che invece viene salvato è il testo. Aristotele riesce a
difendere la tragedia in virtù della dimensione testo centrica, cioè nell’assegnare al testo
una funzione politica, pedagogica. Il testo è l’unica dimensione autorevole e valida del
teatro, anche se necessariamente deve essere praksis, azione. La tragedia nel testo
garantisce autonomia del logos e quindi la dimensione catartica.
Aristotele, La poetica
È un testo incompiuto. Nelle intenzioni dice di voler parlare di tutti i generi (anche della
commedia), ma non l’ha poi scritta (o forse quella parte è stata persa e ritrovata, si pensi a
“Il nome della rosa”). La critica attribuisce a questo testo quasi una funzione di appunti.
Ci sono delle contraddizioni. Non è un testo più di tanto ponderato ma è il testo in base al
quale viene ripensato il teatro nella modernità. È preso come Bibbia, forzato, ma anche
travisato. Conosciamo le “Unità aristoteliche”, ma Aristotele non ne parla in maniera così
netta. Non è così normativo ma sa di dover affrontare una questione spinosa del teatro,
dell’attore. Il tema della possessione e della ritualità faceva sì che lo spettacolo fosse
fortemente a rischio. Aristotele tenta una mediazione: bisogna togliere forza alla
dimensione attoriale, spettacolare, e dare più forza al logos, rendere il teatro testo
centrico.
Stralcio.
Pone le basi per gli elementi chiave: la mimesi ha a che fare con l’azione. Differenzia il
teatro dalla narrazione, caratterizzata dalla diegesi. Il teatro, quindi non potrà mai essere
subordinato alla narrazione; in quanto azione è mimetico, non diegetico. Una parte è
opsis, ciò che si vede. Ma poi subito sostiene che non ci sia solo quest’ordine di cose,
esiste quello del testo, la composizione, che ha uno strumento privilegiato, ossia il
linguaggio, che salva il teatro dalla degenerazione spettacolare. Il teatro è imitazione di
un’azione, quindi ha a che fare con la dimensione corporea, tuttavia, quello che conta di
più è il racconto, la composizione di fatti, perché così si dimostra qualcosa o si esprime
un giudizio. È un elemento che Aristotele associa alla teatralità. Ha più importanza il
racconto che l’attore. La tragedia è composta da sei parti:
1. Racconto
2. Caratteri
3. Linguaggio
4. Pensiero
5. Vista
6. Musica
In linea pratica la vista domina. Lo spettacolo è rapporto tra l’azione e lo sguardo, ma a
essere più importante è il racconto, la composizione di fatti, non dimensione corporea ma
spiegazione di modi di vita, racconti è il vero fine della tragedia.
Il come  vista
Il con cui (mezzi) musica (melepolia), linguaggio (lexis)
Il che cosa  pensiero (dianoia), carattere (ethos), racconto (mythos)  fine della tragedia
La parte fondamentale non sta quindi nell’esecuzione. I caratteri sono al servizio dei fatti, i
fatti al servizio del racconto. La poetica mette quindi in evidenza la grande questione
problematica fin dalla Grecia: quella dell’attore, che anche nella tragedia ha una forza
psicologica che lo fa diventare una calamita pericolosa per la società.
Per Platone la memoria non è data da una tecnica. Si tratta di un archivio che il rapsodo ha e
che, in quanto egli è posseduto, è attivato. Gli si attiva una memoria non sua, ma che il dio gli
innesta in una dimensione dell’oralità che è rituale. Gli si nega che sia una memoria critica,
soggettiva. Per Platone è una memoria involontaria, che l’attore ha in quanto posseduto.
L’elemento cruciale fin dall’inizio è l’idea che l’attore non abbia una sua autonomia
esecutiva autoriale ma che agisca per possessione e quindi impossessi, prenda possesso di
altri, perché la possessione è contagiosa come una calamita e può distorcere dalla verità. Non
è la cosa più importante: quello che fa parte del testo è indipendente dai meccanismi di
possessione ai quali l’attore si presta. Ecco perché l’occidente eredita una distinzione forte tra
attore e autore: perché dall’inizio c’è uno stigma sulla sua abilità, stigma che passa attraverso
la ritualità.
Pur ammettendo che esiste nella recitazione una ritualità possessiva, è però vero che la
possessione non ha tecnica? Non ha recitazione? È semplicemente un’uscita di senno? Esiste
la tecnica della possessione? L’attore recita o non recita? Ha una sua autonomia creativa?
Quella di Platone non è una teoria basata sulla superstizione, descrive quello che vede ovvero
i performers che andavano in trance. Il fatto che fosse così impedisce la tecnica? Esiste una
partitura compositiva?
Tarantismo pizzica De Martino è un antropologo che l’ha documentata nell’entroterra
salentino. Le donne in trance sono medicate dalla musica (pizzica)
Lezione 2 07/03/2022
Con la possessione l’attore è mosso da un meccanismo di trance, è svuotato della sua
identità. È ricettacolo di qualcosa di altro che ha a che fare, la maggior parte delle volte,
con una dimensione religiosa. È un aspetto ricorrente nella storia del teatro l’uscita da se
stesso che conduce a una dimensione altra da sé. Su questo si basano, nel Novecento, le
esperienze di Artaud e il lavoro di Grotowski sulla trance. Il rapporto teatro-rito chiama in
causa delle tecniche che hanno a che fare con la trance. L’attore è in una sfera di uscita da
sé, si svuota per essere riempito da qualcos’altro nella recitazione. (Si parla infatti di “via
negativa”). È uno svuotamento per diventare un veicolo. Storicamente questo segna il passo
della recitazione. Se ci riconduciamo alle origini della recitazione incrociamo subito la
questione della possessione. Legittimazione sociale, pubblica. Da Platone la recitazione è
collocata in un universo rituale che aveva a che fare con le pratiche dionisiache. Azioni di
canto, danza e recitazione. L’esito è rappresentato dal rapsodo protagonista del dialogo.
L’attore è posseduto dal dio. Ione recita Omero posseduto dall’autore a sua volta ispirato da
dio. È l’ultima calamita che riceve energia, parola, gesto e azione dalla divinità. Il problema
per Platone è di ordine artistico e sociale: il magnetismo che esercita l’attore in quanto
posseduto coinvolge lo spettatore che entra in una dimensione di possessione. Il rapsodo è
attore-autore dentro a una dimensione orale. Il rapsodo di fatto agisce e tramanda il sapere
attoriale. La cultura orale convive con una memoria testuale. Tema della formularità omerica:
un insieme di tecniche compositive strettamente legate all’oralità. Il verso omerico aveva
formule che facilitavano l’invenzione e la memorizzazione. Gli epiteti costituivano il
bagaglio di segmenti testuali. In ambito medievale anche i cantori hanno questa formularità.
Nella dimensione della performance attore e autore coincidevano. L’attore era posseduto
dalla parola, dal gesto, non è un reale esecutore; essendo posseduto non è lui il creatore
della tecnica. Danza e musica. La pratica rituale, recitativa, performativa, ha a che fare con
elemento della musica, della danza, che non mette in primo piano la testualità. La parola è
mediata da un supporto corporeo innervato di danza, musica e canto. L’attivazione corporea
è sempre musicale, danzata. La parola si plasma da questa sintesi, è figlia di una pratica
corporea, non viene prima. La musica risveglia il meccanismo di possessione. Parola e
corpo, testo e azione sono inscindibili, connaturati. La matrice corporea è determinante dello
stato dell’azione, non il testo. In questo senso l’attore non è mai interprete, non ha mai testo a
cui riferirsi ma gli si cala dentro con musica, canto, danza. La prima presa di distanza è con
Aristotele che cerca di salvaguardare l’autonomia del teatro, svincolandola dalla trance,
sfera religiosa, attribuendo ruolo determinante al testo. Quando Aristotele teorizza la
tragedia la teorizza attribuendo al testo una centralità, autonomia creatrice: il che cosa si
imita. La mimesis sposta già il baricentro dalla possessione all’autonomia creativa (nella
mimesis c’è un distanziamento). La fabula, il racconto è autonomo: ha primato compositivo
nella tragedia, è preservato dall’incantamento e dalla possessione. Vuole privilegiare il
rapporto tra pensiero, carattere e racconto ma non può prescindere dal fatto che l’azione è
collegata a canto, musica e parola. Vuole salvaguardare il testo, rendere autonoma la
tragedia ma capisce che il testo di per sé non basta, è strettamente connesso alla dimensione
esecutiva, innervata sul rapporto tra vista, canto, musica, parola.
Cosa aiuta Aristotele in questo processo di emancipazione? L’evoluzione della tragedia
stessa. Tra la fine del VI e l’inizio del V secolo il testo acquista sempre più importanza e con
Eschilo e Sofocle iniziano a differenziarsi anche i personaggi, gli interpreti. Torna ad esserci
il rapsodo e pone la presenza anche di altri protagonisti: segna una distanza tra l’autorialità e
l’interpretazione. Emerge chiaramente la dimensione testuale autonoma: l’autore tende anche
a non essere in scena e affidare l’”allestimento”, ciò che ha a che fare con l’opsis all’attore e
agli allestitori. Nelle grandi dionisie è la sfera pubblica che si prende carico delle tragedie.
Facilita ancora di più il distanziamento dalla sfera religiosa e dalla possessione. Emerge
l’autonomia dell’esecuzione degli interpreti, in virtù dell’autonomia del testo l’attore è
sempre più esecutore e come tale non è più posseduto ma deve avere una tecnica recitativa,
non più figlia di meccanismo di possessione, ma una vera e propria consapevolezza
recitativa.
Centrale per leggere la storia della recitazione è l’aspetto rituale: il Novecento è imbevuto di
riferimenti alla possessione. L’attore come posseduto unisce a doppio filo rito e teatro. Per
capire come funziona il discorso della trance, si pone il problema di quanta consapevolezza ci
sia.
Prendiamo l’esempio del Tarantismo (altri esempi sarebbero le danze balinesi, tutto il teatro
orientale). È un fenomeno italico (anche se non solo). Abbiamo il frutto di ricerca
straordinaria degli anni ’50; sono state filmate le ultime tarantate da De Martino.
Ora questo fenomeno è ridotto a una danza: la taranta, praticata soprattutto in Puglia, con
centinaia di migliaia di spettatori, a Malpignano. (“La notte della Taranta”). I passi sono
molto ritmici e la musica è ritmata e a matrice rituale, con tamburello e violino. Cent’anni fa
era soprattutto altro. Deriva da tarantola, Lycosa, ragno diffuso soprattutto nel meridione, di
grosse dimensioni, totalmente innocuo, mentre la “vedova nera”è invece tossico. Il rito ha a
che fare con la figura simbolica del ragno e del morso. Non è un fenomeno esclusivamente
pugliese: la “tarantella” è la parte campana. È stato documentato in modo certo dal Seicento,
studiato dai medici (Baglivi 1696, Serao 1742, De Raho 1908) che sono giunti alla
conclusione che è innocuo. Le radici sono forse greco-romane, della Magna Grecia, ci sono
stati poi esempi nel medioevo. Questo fenomeno è sempre stato legato al rapporto tra danza,
musica e canto, molto simile a rituali coreutici (Platone). C’è anche un’influenza islamica, di
episodi di possessione rituale (woodoo, makumbe che hanno elementi comuni). Trasversalità,
fenomeno transculturale. Da noi è una matrice che affonda in eredità mediterranea. È un culto
che si è tramandato fino a un secolo fa. È documentato. Ernesto De Martino affronta la
questione tra il 52 e il 59: due spedizioni in Puglia. Attestato e legato alla festa di S.Paolo a
Galatina. Documentando gli episodi di trance questi sono i risultati:
Il tarantismo non è riconducibile a morso reale, a episodio chimico di intossicazione ma
rituale a forte matrice simbolica, culturale. È un fenomeno individuale e collettivo che prende
le forme del tarantismo al femminile. Questo fenomeno ha a che fare con episodi di
frustrazione, stress, ansia, depressione, angoscia psichica delle persone tarantate. Questione
psichica. Disagio psichico di ordine sociale e personale.
È come se queste donne fossero rappresentative della cultura marginale pugliese del
dopoguerra, ma anche di età moderna, borbonica. Comunità povera, oppressa. De Martino
ragiona poi con parametri marxisti, ma questi episodi intervengono in culture fortemente
povere, agricole, per questo la questione del ragno.
Le due cose si intersecano. Rispetto al malessere c’è un rito di esorcismo, una lotta contro il
male e il suo superamento, un rito di guarigione. Le tarantate, morse simbolicamente da un
ragno, cadono in trance e vengono salvate da un’azione rituale di danza, musica, canto che fa
sì che le tarantate guariscano e possano ottenere la pace. Come agisce una posseduta? Una
performer in trance? Qual è il ruolo dell’arte dentro a questo stato di trance?
Due fenomeni:
1. Un rituale privato, domestico. La tarantata è a casa e l’esorcismo avviene lì
2. Rituale pubblico: le tarantate si radunano nella cappella di San Paolo a Galatina.
La matrice è pagana ma è una pratica che viene cristianizzata, sempre con fatica. San Paolo è
morso da un serpente e guarisce poi miracolosamente, allora diventa protettore dei tarantati.
Vedi video: Ernesto De Martino: la Taranta - YouTube Carpinella è studioso di musica
popolare
Maria di Nardò, raccoglitrice di tabacco
 La prima fase vede un’azione a terra, quando la tarantata esce dalla camera. Qui la
musica chiama la tarantata. I suonatori entrano nel vestibolo della casa, una donna
sorveglia la tarantata nella camera da letto. La fase a terra è incorporativa. La tarantata
è in trance, posseduta dal ragno. Lei è il ragno non perché lo imita ma perché
incorpora l’energia del ragno. Si muove solo seguendo il ritmo. È l’inizio della lotta
tra lei e il ragno ma è ancora totalmente posseduta. Siamo di fronte agli spasimi della
possessione, ma in qualche modo è dominata anche dal ritmo, con mani e piedi. La
musica sta facendo uscire la tarantata dallo stato di possessione.
 La seconda è la fase in piedi. Quando si alza inizia la vera e propria danza. Fa i passi
della taranta ancora in stato di trance, poi cade.
Il drappo colorato rappresenta il ragno che lei poi calpesta. La musica e il canto stimolano il
corpo. Il corpo reagisce al veleno e lei poi lo espelle con il movimento che questa volta
padroneggia, fa passi avanti e indietro perché sono passi di lotta. Prima c’è uno stato di
regressione in cui lei incorpora il ragno, poi sempre di più la musica e l’azione fisica
diventano ritmo. La lotta è così estenuante che la tarantata cade in catalessi.
 Si alza, va davanti all’immagine del Santo per chiedere la liberazione dal male.
Sempre in trance chiede una grazia a S.Paolo, ascolta cosa ha da dire e non è
d’accordo: allora strappa l’immagine e ricomincia. Il performer entra in contatto con
l’altro da sé, incorpora anche la voce dell’altro da sé. Chiede la grazia e San Paolo le
dice che deve pagare una messa. Lei rifiuta: elemento trasgressivo: strappa
l’immagine e torna nel loop della danza.
È in trance, quindi non totalmente padrona di se stessa ma fino a che punto è dominata?
Quanto invece la trance è simulata? È come attirata dalla musica, c’è un magnetismo. Tutto è
dato da uno stato psichico che è individuale ma anche collettivo. (Maria di Nardò è figlia di
una categoria oppressa). La musica risveglia la donna dallo stato depressivo, ma la risveglia
in uno stato di trance. La donna depressa, in quanto tarantata è meno sola. Ha un ruolo nella
vita comunitaria come tarantata. Ideale di riscatto.
C’è sempre un ritorno nel periodo estivo, è trance indotta. C’è sempre una tecnica, una
consapevolezza, un controllo della trance. È presente l’elemento recitativo puro.
Lezione 3
Per Maria di Nardò si tratta della liberazione di uno stato di depressione individuale. La
tarantata diventa però espressione di una comunità con il suo male, è al servizio della
collettività. È paragonata alla dimensione cristica: la loro sofferenza è paragonata a quella
espiatoria, salvifica di Cristo. Esisteva anche l’elemento collettivo del rituale. Cappella di San
Paolo, a Galatina, si popolava di tarantate che venivano da tutto il territorio e arrivavano per
la guarigione. Quando il rituale si sposta dalla dimensione personale, domestica, a quella
comunitaria, per il fatto che si svolge in un luogo pubblico, si perde l’aspetto più spettacolare,
legato alla danza. Anche se qualcuno cerca di farlo con il canto a cappella e con il battito di
mani. La componente più autonoma e trasgressiva si libera. Le tarantate sfogano la
catatonicità ognuna in modo diverso. In parte si risvegliano. Il ritmo non è più regolato dalla
musica ma per ciascuna tarantata è autonomo. La donna procede a gattoni in piazza, poi corre
in cerchi, via via sempre più concentrici. (Si trova anche nel sufismo, nei monaci rotanti).
Elemento comune in altre culture sciamaniche è l’arrampicamento. Qui una si arrampica
sull’altare. L’arrampicarsi ha a che fare con una dimensione primigenia, uno stato primitivo.
La tarantata dialoga con l’altare. Fa canto alla buona, senza una disciplina. Le tarantate sono
sempre accompagnate da qualcuno che cerca di governarle o mantenerle. La dimensione è
inquadrata in un tempo festivo (festa di San Paolo). Questo è come se desse un senso, un
significato profondo. È inserito in un sistema festivo noto e del tutto compatibile con
l’ortodossia (qui vediamo la festa con le luci, la banda). È un fenomeno trasversale perché si
trovano elementi simili nel mondo, come le balinesi.
Il problema archetipico del teatro è la possessione, l’incorporazione dell’energia che fa uscire
l’attore da se stesso per diventare altro. Ha una tecnica? Una partitura che lo rende funzionale
e quindi consapevole? C’è una differenza tra il rito domestico e il rito pubblico: quando è
evidente l’elemento teatrale la tarantata segue una partitura, è consapevole pur in una
dimensione di trance. Si muove in moduli recitativi che hanno una loro tecnica, autonomia,
consapevolezza. In ambito domestico sono infatti chiari un inizio, uno sviluppo e una fine.
Quando usciamo da una dimensione spettacolare la chiarezza si perde, si esce dal controllo,
meno consapevole e legato alla tecnica artistica che lo innerva. Anche nell’aspetto più
radicale di perdita di consapevolezza, esiste comunque sempre un controllo della situazione e
una tecnica esecutiva. C’è anche un apprendimento. Platone è il più drastico nel colpire
l’attore tout court, ma nel dialogo emerge comunque il fatto che i rapsodi sanno come
orientare il canto e la commozione, dosano le energie a seconda degli effetti che vogliono
esercitare: c’è quindi una tecnica. Cosa c’è di unico nell’attore posseduto? La potenza
energetica e la verità dell’azione quanto più l’attore lavora sulla perdita di sé e si affida a
essere posseduto da ciò che ha dentro di sé. Per Platone è euforia divina, in realtà è capacità
dell’attore di far emergere ciò che ha dentro. Maria di Nardò fa del suo corpo un canale per
far emergere un elemento stressante, l’angoscia. L’attore paradossalmente uscendo da se
stesso entra in quello che fa. Ha una soglia del controllo così bassa che si lascia trascinare
dalle emozioni. Il corpo vive senza che la mente faccia resistenza, ecco perché nel Novecento
la trance è così importante. Evidenzia la possibilità del teatro di essere verità. Riporta l’uomo
ad uno stato ancestrale, mitico. (Esempi di Artaud negli anni ’30 e di Grotowski e della
tecnica 2, Cislak, approfondisce la tecnica della trance, dell’auto-penetrazione, del teatro
dionisiaco che ritorna in maniera profonda da Nietzsche in poi.) Il meccanismo di trance è
una guida verso la verità dell’attore. Trascende l’esperienza mimetica: è incorporazione della
realtà. C’è una totale immedesimazione corporea con la realtà e con l’energia. Non c’è
distanziamento, non c’è finzione anche se c’è controllo.
Nella fase pubblica ci sono le urla. Le urla sono manifestazioni di movimento isterico di
trance, non governato. Maria di Nardò, nella trance domestica non urla, non perché abbia la
consapevolezza ma perché c’è quell’elemento di musica che ordina, disciplina la possessione.
Non c’è rispetto per il luogo sacro. È più potente quello che quello che è l’apparato esteriore.
Quelli di De Martino sono gli ultimi documenti che testimoniano il rituale del tarantismo.
Oggi non ci sono più i suonatori della Taranta. Dopo gli anni ’50, con il boom economico,
esplode del tutto il mondo contadino e si perdono le radici comunitarie. Alle origini
dell’attorialità c’è un problema che ha a che fare con idea di recitazione, quali sono gli
elementi che si emancipano da questa condizione? Veto platonico dura molto ma c’è una
dialettica tra il principio di incorporazione e quello di imitazione. L’azione si confronta con la
recitazione e la perdita di controllo con il mantenimento del controllo. Quello che sembra
senza tecnica in realtà una tecnica ce l’ha. Già in Grecia, sempre più quando l’attore si
identifica con l’interprete, non è più fuso con l’autorialità mistica, religiosa, qualcosa che ha
una configurazione chiara a matrice testuale. Aristotele per dare dignità al teatro, decide nella
Poetica di emanciparlo dallo stigma platonico.
1. Sottraendo la testualità dal dominio della vista e dandole il primato
2. Facendo dell’attore non l’esecutore posseduto dell’elemento performativo ma
esecutore di un aspetto, quello testuale del personaggio. Recitano come se fossero essi
medesimi i personaggi operanti. Questa è un’espressione magica fino a Stanislavskij.
Implica una dimensione imitativa e non incorporativa. È sottratto alla dimensione
pulsionale perché è personaggio, è stato scritto, ha a che fare con la drammaturgia.
L’autore non posseduto da dio fa come se fosse non dio ma il personaggio, allora ci
deve essere una tecnica e quindi un’autonomia che svincola dal legame con il discorso
della possessione.
La tecnica pone una serie di problemi: da dove viene? È una dote naturale o acquisita? È
problema dell’arte in assoluto. È innata? Chi ce l’ha data? Si rientra così nel discorso della
possessione. Il problema allora si ripropone, anche per chi pensava all’attore come non
posseduto. In che modo si esprime la tecnica? Quali sono gli elementi tecnici dell’attore? La
centralità è quella del corpo. Rapporto che ha il corpo con la mente. Se l’attore deve affidarsi
alla qualità del corpo, lasciarlo libero dal controllo della mente, allora domina la spontaneità,
ma la spontaneità è un problema perché senza tecnica ritorna il discorso della possessione. Il
ruolo delle passioni, il controllo dei sentimenti è problematico. È favorito dalla tecnica o
impedito dalla tecnica? La passione ha bisogno della tecnica o la tecnica ostacola la passione?
Deve essere imitativa o pulsionale? C’è quindi il problema dell’imitazione delle passioni
(Stanislavskij con la psicotecnica fa a meno della tecnica. Per essere arrabbiato devo
arrabbiarmi? Se provo questo sentimento una volta come faccio poi a provarlo uguale la volta
dopo? È un problema per Stanislavskij, tutte le teorie lavorano su questo). “Le notti attiche”
di Gellio. Polo ha assunto il ruolo di Elettra e va sulla tomba di Oreste, per renderlo autentico
mentre recita porta con sé le ossa del figlio. Questa cosa è possessione o recitazione? L’attore
Esopo, mentre interpreta Aiace che medita vendetta su Tieste, vede passare sulla scena uno
schiavo e per la furia lo uccide. La tecnica è sempre un’arma a doppio taglio, più la eviti più
ti si ritorce contro.
Lezione 4

Spostiamo il baricentro dalla sfera rituale a quella imitativa. Tecnica: il modello recitativo,
imitativo, interpretativo che fa dell’attore l’interprete di un ruolo chiama in causa la tecnica.
Una volta che ci inoltriamo in questo contesto si creano problemi, questioni non facilmente
risolvibili. Se parlo di talento, dote naturale, non risolvo la questione, mi sposto solo dalla
sfera rituale alla sfera laica. Si dice “l’uomo mediterraneo (es Napoletano), ha in sé le doti
della recitazione.” Sembra quasi che sia una dote di tipo etnico. Questo discorso ha segnato
la commedia dell’arte. Spirito italico, discorso della recitazione, per cui il giullare,
l’immaginario retorico, folclorico per cui l’attorialità è una dote che capita a qualcuno per
un senso spiccato di improvvisazione ecc...
Elemento di emozione, passione, sentimento. Se la dote recitativa è vivere un sentimento e
l’attore è più autentico quanto più esprime i sentimenti che prova, si tratta di un calderone
non tanto di tecnica quanto di personalità innata. Le passioni sono sprigionate in tutta la
loro potenza (vedi episodio Aiace). La questione della tecnica è continuamente sottoposta a
un problema. La tecnica in sé, come artificio del corpo, è problematica. Come si evolve il
concetto di recitazione? Il rapporto tra attore, interprete, recitazione e tecnica è un tema che
in età classica non trova una teorizzazione esplicita. L’attore, proprio perché così segnato
da uno stigma negativo, non riesce a emanciparsi del tutto e acquisire una sua autonomia.
Non ci sono teorizzazioni ma ci sono aspetti della recitazione che in età classica sono già
fortemente definiti:
Rapporto estetica ed etica della recitazione. Cosa distingue l’attore come interprete non
posseduto da furor artistico? La tecnica è il controllo, la capacità di controllare la recitazione.
Non viene fornito un metodo recitativo ma uno strumento di controllo che rende l’attore
consapevole di quello che fa. La questione del controllo attraverserà tutta la storia della
recitazione. Pone la tecnica al servizio del gesto, del sentimento. L’attore non è posseduto dal
sentimento, dal gesto ma lo domina: lo controlla e quindi lo regola. La tecnica è quella qualità
che permette non solo di governare il gesto, ma anche di dosarlo a seconda dei caratteri. Fin
dall’antichità il rapporto tra attore e recitazione è mediato dalla distinzione in ruoli, fino alle
soglie del Novecento. L’attore è autonomo, libero dal rischio rituale, pulsionale. Non solo
controlla il corpo, il gesto, le passioni, ma sa adattarle a seconda del tipo che deve
interpretare. Tassonomia di gesti, movimenti, nasce il concetto di comportamento scenico
adattato a seconda del carattere interpretato. La tecnica è regolatrice del comportamento
scenico e tecnica media. Il comportamento scenico necessita di determinati sentimenti e gesti.
In età classica era chiaro chi interpretasse i vecchi, chi i servi... Gli attori potevano lavorare
fino a un certo punto su un carattere senza svilire la propria arte. Alcuni attori non lavoravano
sui servi: sarebbe stato un imbarbarimento sociale per certi attori che interpretavano solo certi
caratteri. Fin dall’inizio in questo teatro è assente la figura della donna. C’erano solo
nell’espressione teatrale dei mimi, anche esplicite dal punto di vista sessuale, pornografico,
spettacoli come spogliarelli. La questione estetica diventa anche etica.
La tecnica quindi permette il controllo dei gesti e l’adeguamento dei comportamenti scenici a
certe tipologie di caratteri.
Il riferimento non è il teatro ma l’oratoria, arte che si avvicina al teatro. Soprattutto in età
romana il riferimento più lampante sono i trattati di retorica e di oratoria in cui si fanno
paragoni su come si deve comportare l’oratore quando recita e l’attore. La figura dell’oratore
è dominante nell’economia politica e sociale. Non troviamo trattati sulla recitazione, sull’ars
recitativa teatrica, ma molti sull’ars oratoria. Chi li scrive spesso deve citare gli attori come
punto di riferimento per gli oratori. Ci sono riferimenti a testi, interpretazioni e caratteri: il
cliente diventava un personaggio con cui l’oratore si doveva identificare. Momenti forti di
teatralizzazione. È evocato il personaggio, cliente da tutelare nella sua vita. L’attore e
l’oratore lavoravano sulle stesse modalità. Il discorso vale anche viceversa: spesso i trattati di
retorica venivano usati dagli attori per legittimare la loro professione (gli attori della
commedia dell’arte ma anche alcuni medievali, sono dello stesso livello se non di più perché
gli oratori lavorano solo sulla parte alta del corpo, gli attori con tutto il corpo nella sua
potenzialità espressiva. Si legittimavano anche dal punto di vista etico perché l’oratore era di
primo piano nella riconoscibilità sociale.
Nell’analogia recitazione-oratoria abbiamo due riferimenti principali: Cicerone e Quintiliano.
L’oratore nella sua professione, nella sua ars, lavorava su 4 elementi più 1:
1. Inventio (1, 2, parte di 3) dimensione drammaturgica, testuale
2. Dispositio
3. Elocutio (3, 4) parte performativa
4. Actio
1. Inventio: Definizione dell’argomento dell’orazione. Hai il caso da affrontare e devi
definire quali sono i punti fondamentali. Devi argomentare (in un’orazione, perorazione,
orazione bellica, funebre ecc...) selezionando i punti forti
2. Dispositio: devi articolare i punti nel discorso, decidere cosa mettere prima e dopo, creare
la tensione per arrivare alla parte finale. Articolare quella che nella dimensione testuale è la
fabula. Non basta.
C’è poi la parte interpretativa che per certi elementi ha a che fare con l’elocutio (3), poi ha a
che fare con l’actio (4). Bisogna temperare il discorso per raggiungere il maggior effetto alla
fine. Bisogna curare le parole: puritas, curare forma, terminologia precisa, aspetto del decoro,
equilibrio in tutte le parti del discorso.
4. Tutto questo deve essere pensato in vista dell’actio. Il ritmo, la sonorità del discorso è da
pensare rispetto alla fase performativa.
La verità è nella persuasione? L’attore e l’oratore sono accomunati nella finzione. L’oratore
teoricamente lavora nell’ambito della realtà. Un ultimo elemento determinante è la memoria.
Entrambi non si limitano a costruire il testo e agirlo ma c’è un passaggio attraverso la
memorizzazione. Inventio, dispositio ed elocutio possono diventare actio in virtù della
capacità memorativa. Non è semplicemente un fatto tecnico, è un aspetto dell’actio:
costruisce il testo ma allo stesso tempo lo fa diventare corpo: è funzionale alla
regolamentazione delle azioni. La memoria è un archivio attivo di un processo di restituzione
della testualità. Senza la memoria l’attore non avrebbe la capacità di entrare nella parte, di
interpretare. In latino usata l’espressione “agere memoriam”: non è un contenitore passivo di
dati ma bisogna attivarla per renderla efficace. Memorizzare significa già attivare il corpo,
evocare emozioni, restituire passioni. Qual è fra queste parti dell’oratoria la più importante?
Molta trattatistica concorda sul fatto che la cosa più importante è l’actio. Demostene dice (e
Quintiliano lo cita) che è più importante la declamazione, la parte agita. Occupa anche il
secondo e il terzo posto, come se non fosse l’elemento principale dell’oratoria ma l’unico.
Nella trattatistica, nella retorica classica, di tutte le componenti che costituiscono la tecnica
dell’oratore è come porgi il discorso, come lo agisci, come lo performi. L’oratore nella
trattatistica è sempre più associato, per abilità e tecnica, all’attore. La parte più importante
dell’oratore è l’attorialità, lo mettono al seguito dell’ars attorica, sapendo come recitavano gli
attori dell’epoca.
Su cosa si basava l’Actio, così importante? L’elemento fondamentale secondo tutti i trattati è
la capacità di trasmettere emozioni e passioni. È più efficace quanto più riesce a suscitare nel
pubblico azioni ed emozioni. Stigma platonico: Platone temeva il teatro (lo considerava una
malia psicagogica). Per l’ars oratoria l’obiettivo è sempre quello: suscitare delle passioni che
empatizzino con il pubblico, ma l’oratoria non è stigmatizzata perché ha potere civile.
Dissimula il discorso delle passioni perché lo fa diventare comunque tecnica. L’empatia, il
perdere sé stessi per essere totalmente dentro a ciò che accade rimane ma la tecnica agisce sul
controllo moderando, da un lato distanzia dalle passioni, dall’altro favorisce il meccanismo
finzionale, esplicita il “come se”. Emancipa tutto questo dal caos rituale ma l’effetto è quello;
non si esce molto dalla dinamica di Platone. Lui ha anche davanti l’esperienza rituale,
orgiastica, ma in realtà tocca proprio il cuore della questione. Aristotele cerca il
distanziamento con la tecnica, il meccanismo è lo stesso ma è tutelato dalla tecnica e inserito
in un meccanismo che non è ma è “come se”. L’attore interpreta, non è. Nel Novecento
questo è scardinato di nuovo, l’attore è (Stanislavskij). La retorica inquadra, governa le
emozioni all’interno di una costruzione tecnica. Costruisce la retorica delle emozioni, non si
posseggono dall’esterno ma sono dosate, prima nel testo e poi nell’esecuzione. Di fatto
l’oratore è attore e interprete di un’emozione non subita ma dominata, in funzione dell’effetto
che può avere. Nel testo sono poste le basi di come devono essere le emozioni, la memoria
costruisce, facendole diventare attive con immagini mentali e l’actio riproduce. L’attore non è
posseduto ma ha articolato questo discorso dosando le passioni a seconda dei caratteri che
devono essere valorizzati. Sono messi in moto anche dei meccanismi fortemente empatici
(vesti macchiate di sangue di Cesare). C’è anche una dimensione fortemente pulsionale, ma
salvata dal fatto che non è indotta ma costruita attraverso la tecnica. Quando l’oratore-attore
si trova di fronte all’azione rimane il problema che dirà Stanislavskij: come si fa?
Qui tornano le ambiguità: rapporto tra finzione e verità. Quando costruisce retoricamente
l’emozione e poi la agisce sulla scena, l’emozione risulterà tanto più efficace quanto più è
naturale ma la naturalità vuole che ci sia un sentimento vero. Ma come il sentimento vero può
essere indotto e non frutto di un processo naturale? Se non c’è l’elemento di verità si passa al
grottesco. Se l’attore non vive il sentimento, non lo esplicita, diventa addirittura risibile. In
che modo una tecnica artificiale può indurre emozioni naturali? Come il “come se” può
favorire un sentimento autentico e quindi efficace?
I latini hanno già sviluppato elementi che si ritrovano:
l Tassonomia dei caratteri. L’oratore è più efficace se individua elementi del carattere,
tipologia di personalità, se innesta nell’argomentazione elementi che innestano il
carattere. Quanto più riesce ad articolare l’infinita varietà di sentimenti in tipologie
predefinite, tanto più ci sarà una tecnica che favorisce l’emersione di passioni
autentiche. Il testo deve individuare caratteri che abbiano connotazioni precise di
emozioni e comportamenti a essi legati.
l Il testo riesce a suscitare immagini mentali. È la capacità di un testo di rinviare
direttamente la lettura alla situazione, come se si stesse realizzando davanti a me. Se il
testo è capace di far visualizzare, allora emoziona, ha a che fare con un altro elemento
cruciale: la memoria. Ciascuno lo associa alla propria memoria personale (se un
romanzo è potente il personaggio lo vedi). La parola si interfaccia con il nostro
deposito memoriale di figure (ognuno immagina un Renzo e una Lucia diversi).
L’immagine mentale ha a che fare con il nostro deposito memoriale, quindi è emotiva.
È una delle più importanti tecniche meditative delle pratiche religiose. Le immagini
mentali sono veicoli dei processi di visione. È la tecnica degli esercizi di Sant’Ignazio
di Loyola. Per meditare la passione di Cristo: leggerla, immaginare di essere là,
com’era quel posto, da dove lo guardavi. Il corpo si attiva immediatamente così,
suscita empatia emotiva. Questa cosa connette la parola, l’immagine, il corpo, il
gesto, la recitazione. Quanto più il testo, grazie alla tecnica, sarà capace di evocare
immagini mentali, tanto più saranno connesse a emozioni individuali. La parola si fa
corpo.
Cosa differenzia questo dal posseduto? In termini concettuali sono due cose diverse. Là è la
trance, la perdita di identità a provocare questo. Qui la tecnica porta al massimo dell’identità,
della soggettivazione. Le basi sono queste quando la commedia dell’arte si deve difendere
dalle accuse della chiesa, dai paragoni ai saltimbanchi. Si rifanno a Cicerone e Quintiliano
per legittimare la loro arte. Non lo fanno in modo strumentale, era così. Gli italiani colti
studiano Petrarca ecc... tutta materia testuale che serviva per l’incorporazione. Serve la
cultura dell’attore perché la tecnica non è esecutiva ma produttiva. È quello che salvaguarda
l’attore dall’essere confuso con un pazzo isterico, invasato, posseduto. Questo discorso, a sua
volta, passa attraverso un ulteriore disciplinamento. In età classica il meccanismo di creare
una testualità che favorisse la definizione di personaggi precisi, parole evocative che
creassero immagini mentali. Non potevi esprimere te stesso, non era possibile la costruzione
di personalità individuali, ma tutto era espresso in forme normate, unificate in un
comportamento sociale. Bisogna esprimere un tiranno crudele: si costruisce testo dove
l’elemento passionale deve essere fornito da una retorica che suscita rabbia, ma il tiranno non
si scompone mai tanto, non deve uscire dalla dignità regale, il gesto deve sempre essere
adeguato al suo rango. La dimensione finzionale è ancora più accresciuta. Nella retorica tutto
ciò è sintetizzato dalla parola decorum. La più squallida delle azioni, se associata a
personalità di rango deve essere dentro al decorum perché non sono ruoli personali ma
sociali. Una partitura fisica disciplina dentro un contegno. Differenzia questo attore da quello
posseduto. L’attore vive la rabbia ma l’esposizione è sempre moderata, non perché lui
controlla ma perché lui si esprime così. Nel naturalismo non si possono più esprimere con
quel decoro.
Roscio è un attore celeberrimo di età ciceroniana. Pur esprimendo passioni fortissime le
contiene nel decorum. (Cicerone dice che ha testa eretta, contenimento totale, funzionale a
rendere visibile un ruolo laddove, per esempio, la testa inclinata indicherebbe fiacchezza). Al
servo è permessa una trasgressione maggiore ma sempre in regole che non trascendessero
nella scurrilità (dei saltimbanchi). La tensione basso-mimetica è più esplicita ma non poteva
concedersi tutto. A volte tutto questo non era seguito perché l’efficacia prevaleva (vedi
Isabella Andreini ne La passione di Isabella).

Lezione 5 14/13
Abbiamo cercato di definire come il profilo dell’attore trova spazio nella cultura latina. Per
lo stigma platonico viene però relegato in una zona oscura, magmatica, dove di fatto la sua
identità è associata a uno stato di alterazione di coscienza, induttivo, nei confronti del
pubblico, della stessa alterazione. Rispetto alla dimensione sociale e culturale è figura
ambigua perché la sua attività sfugge al controllo di sé stessi e altri. Meccanismo mimetico
lambisce i confini della dimensione posseduta. Il discrimine di questo atteggiamento è che
l’attore lavori con il corpo e esso determini potenza e intensità energetica della sua azione.
Dimensione irrazionale è mediata da quella razionale. Il secondo aspetto è quello della
tecnica: problema associare all’attore un’autonomia di controllo che dipenda dalla tecnica.
È alla base del problema dell’attore e quindi del teatro. Opsis, in Aristotele, è legittimato
attraverso il valore della parola. Il testo implica che ci sia qualcosa di predefinito che
l’attore deve interpretare. Deve imitare qualcosa che c’è già. Ma come si fa a imitare?
Tecnica risolta con le doti naturali, allora non le controlli. Altro grande problema è il
sentimento, non si capisce come si deve determinare in termini tecnici. La teoria classica
ritorna sul fatto che perché la passione sia credibile la si deve provare. Il secondo grande
scarto che permette all’attore di legittimarsi è il paragone tra ars attorica e ars oratoria. In
qualche modo lavorano allo stesso modo. L’attore non si è mai pronunciato nella sua
legittimità. Trattati sull’attore non esistono. Con inventio oratoria siamo sempre di fronte a
definizione dell’attore marginalizzata e mai chiara rispetto alla technè. L’oratoria è definita
in tutte le sue parti. Deve lavorare sull’immagine mentale. Il penitente deve visualizzare
mentalmente la situazione e calarsi per vivere la compassione rispetto all’esperienza vissuta
(esercizi di Sant’Ignazio di Loyola).

Tutto ciò ancora più problematico quando si passa all’età cristiana. Ostacolo difficile da
superare: allo stigma platonico si aggiunge la questione etica-morale cristiana. L’attore
subisce in maniera netta, evidente, tutto ciò che la cultura cristiana produce contro lo
spettacolo. Su questa deriva di furor e perdita di controllo la cultura cristiana innesta il tema
dell’idolatria. Analogia tra lo spettacolo e l’idolatria pagana. C’è un momento in cui lo
spettacolo viene preso dai padri della chiesa, dai teologi medievali come simbolo della
corruzione pagana perché quando la cultura cristiana si rifà ai teatri, non si rifà a quello che
Aristotele ha nobilitato con discorso sulla tragedia. I cristiani non accusano tanto quello ma i
ludi, i circhi, le arene, i combattimenti dei gladiatori, le naumachie, le gare con le bighe…
Spettacoli festivi e celebrativi, molti cruenti, che avevano alimentato l’ultima stagione
dell’impero. Spettacolo della violenza e della morte. Servivano all’impero per sviluppare una
catarsi che potesse recuperare coesione con il sistema che non c’era più. I polemisti cristiani
accusano anche i mimi. Si diffondono spettacoli gesticolatori, che fanno un uso del corpo
anche in senso pornografico e che sanciscono una delle caratteristiche della cultura pagana di
fine impero. L’attore ne è l’elemento rappresentativo. Il concetto di perdita del controllo,
possessione, dominio delle passioni, violenza, viene ulteriormente rafforzato come accusa di
paganità. Molti padri della Chiesa scrivono contro gli spettacoli e contro l’attore.
Uno dei polemisti più famosi contro il teatro è Tertulliano. Scrive trattatello De spectaculis
(III sec., sono ancora i primi padri della Chiesa). Spostamento sull’attore dell’accusa allo
spettacolo. Lo spettacolo è il dispositivo che favorisce il culto della paganità, ma il mediatore
di questo culto, in quanto suo rappresentante, è l’attore che utilizza il corpo, il gesto e
l’azione: il corpo è il dispositivo; il gesto si evidenzia quando l’azione viene frammentata,
isolata, il gesto è un’interruzione dell’azione. Nel continuum dell’azione è qualcosa che
interrompe e ha valore simbolico, di energia). L’ attore per Tertulliano incarna l’eroticità, la
violenza, seduzione che lo spettacolo ha. Venere e Libero, recupero della posizione platonica:
dell’attore posseduto. Eros emerge in senso erotico e in senso della sregolatezza. Tertulliano
recupera trasversalmente posizioni platoniche. Platone parlava di un dio, Tertulliano li
chiama in causa tutti. Teatro posseduto da ogni rappresentante dell’olimpo pagano, l’attore in
particolare da Eros e Libero. Tutto l’Olimpo costituisce la visione distorta della paganità. Di
nuovo ritorna il discorso platonico mediato dalla visione cristiana. Ritorna il concetto della
calamita di Platone. L’attore è posseduto, non ha più il controllo della sua passione. Innesca
la dimensione attiva, il corpo, la capacità energetica.. Hai dentro una parte di passione che
verrà accesa dall’attore. Tertulliano dal punto di vista cristiano aggiunge che tutto questo è un
problema morale. Con il discorso cristiano arriva in maniera netta. Eros, la bile, il furore
corrompono l’anima e il sistema stesso dei valori morali cristiani, corrotti a partire dal piacere
sessuale. La morale ha a che fare con la coscienza, dimensione intima della persona e quindi
più difficile da estirpare. Più sottile. Apparentemente puoi non subire il furor ma in realtà la
corruzione entra.
San Gerolamo, Adversus Iovianum: è un esempio interessante a più livelli. Nella letteratura,
per Cavalcanti, gli spiritelli entrano dalle porte degli occhi, amore cortese e stilnovista. C’è
un rapporto forte tra il corpo e l’amore. Qui le finestre non sono solo quelle degli occhi ma
quelle dei cinque sensi. San Girolamo inchioda l’attore nella sua corporeità. La sede
dell’azione dell’attore è il corpo: il contagio allora è corporeo. La mente è come la città
arroccata che tenta di difendersi, il corpo è un accampamento nemico dove tutti gli elementi
sono l’esercito ostile. L’attore è relegato a funzione corporea e ciò che è nobile legato alla
dimensione mentale. Alcune arti sono più facilmente nobilitate rispetto ad altre. Esercizio
della scrittura, mentale, nobilitante. Comici dell’arte depositano su carta le commedie
all’improvviso, perché così c’è nobilitazione. L’attore, non avendo controllo della mente è un
corruttore nato perché di fatto attiva quell’esercito che prima o poi penetra anche nella mente.
Ogni singolo senso viene descritto. In virtù di discorso del corpo e dei sensi non c’è più
distinzione tra ciò che è arte e ciò che non lo è; tutto è inglobato nel processo di corruzione.
Corruzione del corpo esercitata da attore che non ha dignità, non corrompe artisticamente: è
come prostitute, come coloro che bevono, anzi ancora più pericoloso perché non c’è
autonomia nella sua arte. Dobbiamo aspettare secoli, nella commedia dell’arte ancora
moltissimi sforzi per emanciparsi. Non vedi più nessuno se non l’uomo corrotto. Vedevano
moltissimi di questi spettacoli. Sottolinea qualità: ars attorica non recitativa ma accompagnata
da danza, musica… Ci si riferisce a figura versatile di performer che fa spettacolo su più
livelli, tutto dentro alla stessa dimensione e alla stessa attitudine da parte dell’attore. S
Girolamo riesce a cogliere il fatto che non si percepisce solo il movimento ma sei catapultato
in dimensione sensoriale per cui tutti i sensi si attivano. Ha le idee chiare e le fa diventare
strumento di negazione. Qui attore non ha neanche più dignità di essere artista, non ha
autonomia, è marginalizzato.
Confessioni Sant’Agostino, parla anche del suo passato di spettatore di teatro. Analisi
psicologica dello spettacolo. Il meccanismo perverso del teatro e dell’attore è che porta lo
spettatore a vivere come piacere un’esperienza dolorosa. In un meccanismo apparentemente
di finzione ma diventa reale, per cui non si attiva lo spettatore ma rimane passivo. Di fronte a
tanta sofferenza lo spettatore non si attiva per provare compassione o per andarsene, la malia
del teatro risiede nella capacità perfida di ridurre alla passione per la passione, sofferenza per
la sofferenza. È immorale non perché induce immedesimazione nelle passioni ma perché non
avviene il contrario, il distanziamento. Tutto ritorna, paradossalmente, con Brecht: il piacere
collude con la sofferenza, piacere trascinante di ciò che vediamo, preferiamo questo che
distacco critico. Per questo non va bene Stanislavskij per cui lo spettatore entra in empatia
con il personaggio. Brecht ha il problema medesimo. Se non ti distanzi perdi la parte di
critica in rapporto con l’azione.
Pars construens : teatro non ha a che fare con immedesimazione ma con il fare memoria (re
ad presentare). Herrada di Landsberg: la teologia cristiana ha fatto sì che Cristo sia
rappresentabile, allora anche noi possiamo rappresentarlo ma nell’ottica di ripresentare quasi
ritualmente un evento: fare memoria. In questo caso il teatro è lecito ma la Chiesa lo chiama
azioni memoriali ecc… La dimensione del corpo e delle passioni è completamente azzerata.
C’è anche un’altra via ma più contorta. (poi la vedremo).
Termini che acquistano un nuovo significato: riguardano il giullare: figura che per quanto
eccentrica e difficile da definire in maniera chiara, pluralità di figure, è il rappresentante del
teatro medievale (al di là di scena cristiana, che pure a volte si serve del giullare). Eredita
l’identità dei mimi classici. Elabora le qualità corporee dell’azione, del gesto, si specializza in
alcune tipologie di azione. Alcuni più sulla danza, più sul contorsionismo, alcuni su capacità
affabulatoria, composizione poetica… Dalla società cristiana è totalmente marginalizzato,
non ha riconoscibilità sociale. Popola strade, campagne, città, i monaci li hanno messi in
evidenza nelle incisioni. Stigma si basava su tre parole chiave:
1. Vagus: giullari si muovevano sulle vie della mercatura, del pellegrinaggio,
passavano di città in città. Si tratta di “incessabile agitazione” per Andreini.
Necessità interpretata come aspetto di marginalità. Senza fissa dimora allora sei in
fuga, instabile, non ti si può riconoscere, appartieni alla natura del vagabondo,
pericoloso. L’attore non è il pellegrino (homo viatur spe erectus, uomo girovago
ma moralmente retto dalla speranza). Homo vagus, senza meta, non direziona il
suo cammino, è totalmente dominato dalle passioni. Accezione morale, non solo
tecnica, l’instabilità è instabilità dell’anima. Non sei retto da fede, speranza,
obiettivo, ma sei vagus dentro te stesso, dentro alle tue passioni.
2. Vanus: ciò che è inutile, superfluo, improduttivo. Attore non era artigiano, ciò che
produceva non era concretezza, non produceva opus, attività non operosa, non
aveva oggetti di scambio, attività non orientata alle opere (fondamentali per la vita
cristiana). Produce immagini, azioni ma non operose, non si traducono in oggetti
concreti: sono finte. Non nel senso della fictio positiva ma nel senso del falsum,
ancora una volta sono ingannatrici. Qui ricade in pieno il tema dell’idolatria. Gli
idoli per i pagani erano finte divinità che ostentavano sentimenti corrotti come
eros. Attore non produce nulla, solo immagini che svaniscono, non resta nulla,
onirici e carichi di falsità carica di eros. Caratteristica apparentemente tecnica
dell’attore diventa un’accusa morale. Vanus perché la sua azione è dominata dalla
vanitas: produzione di azioni, sentimenti immagini superflui e corruttibili in
quanto falsi: ostentano verità ma verità non è. histrio: si usava come fosse
storpiatura di stregone, il negromante, colui che produce falsità. Crea miraggi, fa
passare per vero ciò che è falso.
3. Turpis: Giovanni di Salisbury (IV secolo). Come aveva già fatto San Girolamo
non c’è più distinzione tra arte e vita. L’istrione è turpe sempre, nello spazio che
occupa, nella vita che conduce. Diversità tra vita artistica e privata molti cristiani
la negano, perché attore corrotto nell’anima, completamente posseduto da eros e
sentimenti negativi. Dal latino torpeo significa distorcere, deformare, l’attore
lavorando sulla fictio non si limita ad imitare ma deforma la realtà, posseduto da
una serie di passioni che ne alterano fisicamente la postura, il corpo, il gesto.
Maschera mostruosa. Non c’è più differenza tra maschera che indossa e attore che
è. Contrario di kalos kai agathos, entriamo nell’oscenitas, il vaniloquio e
turpiloquio. La parola stessa perde la sua autonomia, il suo significato e si fa vana
e turpe. Non si salva neppure l’aspetto che aveva reso l’attore indipendente.
Altre due parole hanno molto a che fare con questa accusa nei confronti dell’attore:
1. Gesticolatio: il gesto rappresenta, rispetto all’azione e al corpo, un elemento
significativo: è l’apparizione del corpo nel continuum dell’azione. Sospensione in una
postura fisica in cui si condensano le energie. Capacità di convogliare le energie, le
tensioni dell’azione in una parte del corpo particolarmente visibile e sospesa rispetto
all’azione. Gesto è elemento che più si carica di passioni, è il più pericoloso perché
quello che più dà senso, significato all’azione (Quintiliano, oratore). Per questa sua
potenza bisogna controllarlo, moderarlo. Soggetto al decorum, alla temperanza,
modestia. Se non è così diventa gesticolatio: uso incontrollato del gesto dove passioni
non sono moderate, disciplinate.
2. Si cade nella scurrilitas, gesto non moderato, disciplinato. I giullari sono produttori di
scurrilitas,. Tensione erotica, carica emotiva portate all’eccesso con capacità molto
elevata di corrompere l’anima. Gesticolatio dell’attore è antagonista al
comportamento. Mentre la società per disciplinare i gesti e le passioni ha creato il
comportamento, disciplina del gesto, comportamento legato a carattere dell’individuo
e sua disciplina sociale. L’attore è antitesi, privo di regole, allora antagonista della
società. C’erano protocolli corporei di riconoscibilità, disciplina nel comportamento
del fanciullo e della fanciulla (arte del ricamo per disciplinare i gesti in struttura che li
rendesse moderati: compressione del corpo, occhi bassi. È postura del femminile
passiva. Incedere, petto non esibito. Nel maschio educazione militare era educazione
posturale). Era una norma sociale. Quando abbiamo a che fare con l’attore abbiamo a
che fare con gesticolatio, non disciplinato. Gesto osceno non perchè eroticamente
connotato ma perché non tiene conto della disciplina, del governo del corpo. Che
corrisponde a quello dell’anima. Se gesto non modesto, non disciplinato è specchio di
anima corrotta, tranne nei carnevali: momento della vita sociale in cui era legittimato
sospendere la disciplina, il decoro, l’armonia del gesto. L’associazione del giullare
con il carnevalesco e con la maschera è dovuta a questa sorta di trasgressione.
Condannata l’arte dell’attore a un limbo perché tecnica non è sostenuta da decorum,
attore esce da capacità di governare il corpo.
Lezione 6 15/03
Il giullare medievale è privo di legittimità artistica e sociale. Nel medioevo cristiano si
aggiunge il problema morale, religioso, della patristica che si oppone a tutto ciò che è
definito paganesimo. L’attore è associato come simbolo all’esaltazione di una paganità
turpe, antagonista della morale cristiana. L’attore, performer, giullare, perde ogni
legittimità. Questi tre aggettivi ricalcano quegli elementi, vanitas, vagabondaggio e
turpitudine che intaccano la sfera della morale. All’interno di ciò che è turpe, il gesto inteso
come atto corporeo, selezione di un segmento dell’azione isolato e posto in evidenza, il gesto
è ciò che dell’attore risulta più odioso perché supera i limiti del decoro, di quel
disciplinamento del corpo che caratterizzava l’uomo in società. La scurrilitas intesa come
turpitudine del gesto è l’eccesso basato sulla passione, eros, dimensione significativa per età
medievale e riconducibile al discorso platonico della possessione. Esplicita la sua scurrilità
quando i suoi gesti non sono commisurati al fine. Ogni gesto è commisurato a un fine nella
prospettiva reazionale. L’attore è sregolato rispetto agli obiettivi. Il gesto è ridotto a
gesticolatio, gesto come segno di follia, diabolicità, essere posseduto, eros che di fatto è fuori
dalla società. Nelle miniature con i giullari, era evidente l’elemento di smodatezza del gesto,
di sregolatezza rispetto a un canone. L’attore è questo, per questo è mostruoso e fuori dalla
dimensione sociale: è portatore di paganità e non si sottopone a nessuna disciplina sociale
(tranne in momenti particolari come il carnevale).
In questa prospettiva esistono delle eccezioni. Dei casi in cui l’attore viene riabilitato: non gli
viene data riconoscibilità sociale, non è autonomo, inquadrabile nell’estetica delle arti, la sua
identità rimane priva di ogni elemento di riconoscibilità, ma in qualche modo la sua presenza
può essere tollerata nella società in quanto attore, pur essendo vanus, esplicita una funzione
che di fatto può rientrare nel sistema delle arti (intese come mestieri). Nel modello totalmente
chiuso si apre qualche spiraglio all’interno del sistema delle arti da cui l’attore era escluso.
Ugo di San Vittore scrive trattato didascalicon. Esiste una ripartizione tra arti liberali e arti
meccaniche. Nel sapere e saper fare, contesto delle arti, si distinguono le liberali, oggi quelle
più “teoriche”, del trivio e del quadrivio, grammatica, retorica, dialettica (trivio), aritmetica,
musica, geometria, astronomia (quadrivio). Meccaniche sono le arti operose, collegate
all’opus, alla realizzazione di un manufatto, qualcosa di concreto; arte della lana, delle
armature, caccia, medicina e teatrica. Intende la teatrica come scientia ludorum. Per la prima
volta il teatro che era escluso da riconoscibilità sociale, viene inserito sotto il nome di
teatrica, scientia ludorum. Un saper fare che riguarda i ludi, parola che ha a che fare con
l’eredità latina. Non l’avevano accettata, tuttavia Ugo da San Vittore, quest’arte la legge
positivamente in quanto la iscrive dentro a tutti quei rimedi che possono sollevare l’uomo
dalla sua fatigatio. Nella prospettiva teologica la fatica, la morte, il dolore appartengono
all’uomo dopo il peccato originale, sono frutto del peccato originale. Tutti i mestieri rientrano
in questa fatigatio, prospettiva che fa l’uomo sociale, inserito nella società in quanto
produttivo e appartenente alle arti. Ogni tanto la fatigatio richiede una pausa. Intervengono
allora degli elementi che favoriscono sospensione della fatigatio nella sfera del remedium.
Teatro, scienza dei ludi, appartengono a questi rimedi, uomo sollevato dalle sue fatiche e
portato in una sfera di benessere: recreatio, Momento in cui l’uomo può ricreare se stesso
dopo la fatigatio, recuperare le forze mentali e fisiche. Ugo da una parte fa entrare il teatro tra
le arti ma essendo rimedio alla fatigatio non ha valore in sé, sociale, ha valore solo perché
risolleva l’uomo nel momento in cui la fatigatio è troppo pesante. Primo momento in cui arte
del teatro entra nella sfera dell’intrattenimento, che non ha dignità al pari delle altre arti,
letteratura musica, è arte ma la sua spendibilità si gioca solo in una sfera sussidiaria che è
quella dell’intrattenimento; il delectando docere di Orazio. È difficile si parli di pittura come
intrattenimento, poesia come intrattenimento, ma la vera arte dell’intrattenimento è il teatro.
Figlio di quest’eredità. Divertimento come devertere, spostare l’attenzione, sollevare dalla
fatigatio. È una necessitas ma che non ha un suo valore, ce l’ha in quanto è utile a qualcosa, è
sempre strumentale all’intrattenimento. San Tommaso quando si trova ad avere a che fare con
gli attori parte da una posizione negativa ma recupera questo ruolo come rimedio alla
fatigatio attraverso concetto di eutrapelia: la cosiddetta virtù mediana dell’intrattenimento,
non è principale, è strumentale, ma ispira azioni equilibrate che vengono incontro alla fatica
dell’uomo. Ha a che fare con il risus. È la virtù della temperanza, è un divertimento ma
moderato, sempre disciplinato in modo tale che non superi l’eccesso. Per questo i teologi
medievali si salvano dal rischio dell’esagerazione. Per Tommaso il teatro può essere
riconosciuto all’interno della società, a patto che sia teatro eutrapelico, fondato sul
divertimento ma modesto, che non supera la soglia, con il fine di ricreare, ritemprare l’animo
e il corpo. Non risus carnevalesco, c’è decorum ferreo ma è lecito, l’attore può esercitarlo.
All’attore interessava il guadagno. Può esercitarlo ma a patto, per San Tommaso, che il
guadagno sia elemosina, non è un vero mestiere, non una vera arte, può essere riconosciuto
solo con un obolo. Utilizza l’avverbio latino “Moderate”. L’esercizio non deve comunque
prevedere l’utilizzo del turpiloquio, argomenti non convenienti e non deve essere fatto in
periodi non convenienti (gli attori non potevano recitare durante la quaresima). Supera il
decreto di Graziano per cui non si poteva nemmeno dare l’elemosina. Grazie a questo il teatro
non è più un turpe lucrum, guadagno illecito tra cui c’era la prostituzione e l’histrionatum.
Tommaso dà la “patente finale”, gli attori si giustificheranno poi citando lo stesso S.
Tommaso. C’è un rapporto con la contemporaneità, ancora oggi c’è una connessione stretta
tra teatro e divertimento. È un problema che le altre arti non hanno avuto. La questione che
l’attore deve divertire attraversa come un filo rosso la storia del teatro e dello spettacolo.
Deve essere decoroso e non può recitare in tempi indebiti.
Prima grande svolta è quella del professionismo: commedia dell’arte. L’attore viene di fatto
riconosciuto nella sua professionalità non solo come marginale a cui è lecito dare
l’elemosina. Grazie ai più importanti e colti comici dell’arte l’attore (e soprattutto l’attrice) è
sdoganato. L’attore della commedia dell’arte si può definire una cerniera tra la recitazione
medievale e quella moderna almeno fino alla stagione dei registi. Eredita la performatività
medievale e la rinnova nell’orizzonte moderno, attribuendo all’attore un ruolo fondamentale
in quanto professionista. Anche la commedia dell’arte ha a che fare con un contesto non
proprio propizio alla teatralità. Si sviluppa nella metà del Cinquecento, siamo nel momento
più radicale del rinnovamento della società cristiana e del cattolicesimo, siamo nel periodo
controriformista. La Chiesa ripensa ai suoi assetti perché c’è la bomba della riforma luterana.
La Chiesa si contrappone a eresia luterana, riformata e stabilisce i canoni della controriforma,
la Chiesa assume l’assetto che attraverserà la storia fino al Novecento. Controriforma rafforza
due cardini fondamentali del cattolicesimo: dimensione della morale e rapporto tra la
religione e la società. L’obiettivo è proteggere dalle influenze perniciose del calvinismo
ecc… C’è un controllo sociale fortissimo ancorato a dimensione etica e moralizzante
altrettanto forte. Grande disciplinamento della morale e dei costumi, disciplinamento sociale,
in stretto contatto con il mondo laico. Disciplinamento di cui risentiamo ancora oggi. Come
già accaduto con Platone, in seguito con il teatro nell’età medievale, anche nel mondo
moderno, per la controriforma il teatro è problema, è associato alla corruzione. Si crede che
apra le porte all’eresia luterana, al peccato. Come se ci fosse un rigurgito delle accuse dei
padri della Chiesa. I polemisti cattolici, controriformati usano le stesse accuse dei padri della
Chiesa di mille anni prima. Sostengono che il teatro sia negotium diaboli, commercio del
diavolo. Non tanto corruzione astratta ma concreta, sovvertimento dei costumi, dei
comportamenti, che mina l’equilibrio della società, sovverte le regole della distribuzione
delle gerarchie sociali e del decorum con una fortissima dimensione morale. Uno dei livelli
più toccati è il rapporto tra livello individuale e livello collettivo, nel Cinquecento la società
sta cambiando in senso borghese. Il teatro agisce come strumento di corruzione a livello di
vita privata e di vita pubblica perché l’arte dell’attore consiste in una spettacolarizzazione di
corpo e gesto che sovverte il decorum, va contro la morale per quello che il teatro mette in
scena (eros) e per come lo mette in scena (gesto indecoroso). Novità che fa peggiorare la
posizione del teatro è la presenza delle donne in scena. La chiesa fa questo discorso
soprattutto a livello simbolico. La società cristiana, infatti era già diffusa e stabile, il teatro
era niente, non era pericoloso in realtà. La forza sociale era praticamente nulla, quello tra
Chiesa e teatro era uno scontro impari e non molto motivato. I professionisti stavano
nascendo in quel momento, c’erano una ventina di compagnie. È un attacco strumentale da
parte della Chiesa. Poi concretamente i comici dell’arte recitarono per cardinali ecc… ma alla
Chiesa serve come simbolo quest’accusa nei confronti del teatro. Il teatro viene proibito,
censurato, anche se le maglie erano lasse e il teatro penetrava. Citazioni di accuse agli attori:
si produssero centinaia di libelli contro il teatro.
Hurtado da Mendoza non distingue la dimensione artistica professionale da quella
familiare. È come se dicesse che il loro comportamento scenico corrisponde al loro
comportamento di vita. Opera una sorta di sovrapposizione che impedisce quello che l’attore
voleva farsi riconoscere: essere un professionista, che quando non recita è un privato
cittadino. Lui rompe la differenza e propone un’analogia, una sovrapposizione. Coglie degli
elementi reali della vita comica del momento, per esempio il modo promiscuo di abitare e
convivere è accusatorio ma vero, si riunivano in compagnia, microsocietà in cui abitavano.
Nella coabitazione si faceva fatica a distinguere l’aspetto familiare da quello professionale.
Lo testimonia il fenomeno dei figli d’arte. I giovani attori crescevano all’interno delle
famiglie comiche ed ereditavano il mestiere. Gli attori sono persone corrotte, sfrenate. Era
vero che imparavano a memoria testi amorosi e recitarli continuamente faceva parte di
processo che andava a costituire i generici, il repertorio. Imparare a memoria era funzionale
all’arte, non perché si dilettassero morbosamente di poesie licenziose, era uno strumento di
lavoro. Hurtado usa in modo polemico un aspetto reale.
Per quanto riguarda le donne parla di spudoratezza, in parte è vero, rispetto al ruolo classico
della donna in società erano più libere. A volte dominanti in compagnia. La Andreini, la
Cecchini erano quasi capocomiche in compagnie, qui si ravvisa la spudoratezza, il
sovvertimento delle regole che vedono la donna sempre sottomessa, ancillare. È un’evidente
sovrapposizione: il vestirsi, pettinarsi, vedersi era nel cambio scena ma qui riportato come se
fosse nella vita privata. Elemento pruriginoso, i temi lascivi erano funzionali al lavoro
scenico. Anche le donne avevano un repertorio. Questo brano dice molto della vita dei comici
anche se qui è tutto riportato in modo critico. (questo per quanto riguarda la professione
dell’attore).
Paolo Segneri, predicatore gesuita, ragiona sulla teatralità. Affronta la questione in modo
molto negativo. Recupera l’altra grande accusa che c’è da Platone in avanti, quella della
calamita. L’azione dell’attore è uno strumento di corruzione sociale perché quello che
rappresentano gli attori nella scena è assorbito dallo spettatore. Segneri fa un’analisi
psicologica ancora più sottile. Analisi della visione spettatoriale. È vero che è così come
scrive, c’è una sopravvivenza del teatro. Dal punto di vista fattuale non sopravvive ma dal
punto di vista concettuale e pratico sì, il teatro si fa memoria corporea, lo spettacolo te lo
porti dentro. Teatro portatile, te lo porti dentro, sei continuamente sottoposto alla
fascinazione di quello che hai visto. Sei totalmente imbevuto della teatralità, per questo il
teatro è pericoloso. (per quanto riguarda lo spettatore).
C’è poi una dimensione più morale in senso educativo. Corruzione degli animi in senso
pedagogico. Il teatro non è solo qualcosa che corrompe gli attori che vivono in maniera
promiscua, non solo corrompe il pubblico, ma la società perché educa a comportamenti
contrari alla morale cristiana, alla norma dell’onesto cittadino. Ad essere chiamati in causa
sono i giovani, c’è il discorso pedagogico. Gli attori corrompono i giovani nei loro elementi
più faticosi, difficili. Polemica contro l’ozio. É colpa loro la perdita di tempo, lo sperpero di
denaro, il giovane che non diventa produttivo, ma spreca tempo e denaro in donnacce.
L’otium è visto come contrario alla società connotata in senso borghese. L’otium è nemico
capitale della società borghese. A causa dell’otium non si produce e non si accumula.
Francesco Maria del Monaco dice che bisogna smettere di dire che teatro è arte, smettere di
identificarlo come finzione. Devi decidere di essere quello che sei. Se è vero tutto ciò non
bisogna concedere al teatro la legittimità della finzione, dell’arte della tecnica, che aveva
salvato in età classica unendolo all’oratore. Non c’è meccanismo mimetico, basta pensare che
sia qualcosa di diverso da un effetto di realtà.
Accuse che rimettono il teatro in posizione scomoda. I comici dell’arte allora non avevano
grandi possibilità di opporsi alla chiesa, alla controriforma, è una battaglia impari ma l’attore
aveva bisogno di legittimarsi, allora cerca di porsi sullo stesso piano dei polemisti, inizia a
citare i classici ma a proprio favore. Argomenta il valore della propria professione, non è
professione che rischia di cadere nelle accuse che le vengono fatte.
Cercano di emanciparsi. Non parliamo di saltimbanchi, di attori di piazza che rappresentano
un continuum della teatralità che andrà avanti per secoli. Parliamo di attori che vengono da
quel mondo lì ma hanno una cultura che li differenzia, si distanziano dagli altri. Sottolineano
che un conto è parlare di loro, un conto è parlare di quei ciarlatani che usano turpiloquio e
gesticolatio. Sono professionisti che si vogliono distinguere dal mondo di ciarlatani. Hanno
non solo una loro cultura dell’attore ma rientrano in piena regola nella nomenclatura di attori
legittimati dallo stesso S. Tommaso a fare teatro. Per dimostrare abilità e cultura, come
polemisti cattolici, scrivono trattatelli in difesa (Giovanbattista Andreini). Il Trattato sull’arte
comica è cavato da San Tommaso. È un trattatello in realtà anonimo, poi ciascun comico
dell’arte se lo attribuisce. Se lo portavano dietro per dimostrare quanto fossero diversi dai
saltimbanchi e quanto fossero nobili nella loro arte. Piermaria Cecchini pubblica a Parigi un
trattato in latino, in occasione delle nozze di Maria de Medici, compare per la prima volta nel
1601. Quella che vediamo è quella che si attribuisce Andreini in appendice al poemetto La
saggia egiziana (1604, stampato a Venezia). Prima lo fa in latino, poi ne fa una sintesi in
italiano. I comici usano gli stessi repertori patristici. C’è la stessa citazione da San Tommaso.
Dice che segue alla lettera quello che diceva lui, quindi è legittimato: non fa un teatro che
serve per corrompere ma per 1. lenire la fatigatio. Necessario alla conversazione umana, al
riposo di anima e corpo. Intrattengono, non sono i cialtroni di strada con parole burlevoli e
fatti sollazzevoli. Parola e gesto.
Poi fa un’altra citazione, l’eloquio è filosofeggiante. Gli attori sono persone che hanno come
scopo quello di favorire divertimento e come tali non sono in peccato ma hanno diritto alla
loro mercede, 2.possono essere pagati. Figure che aveva citato prima nel trattato latino.
Devono essere sottoposti a un disciplinamento parole, fatti e azioni. Possono esercitare la loro
professione a patto che non abbiano parole disoneste, gesti turpi e contenuti peccaminosi. Ce
l’avevano ma ci tengono a dire di no. Avevano costruito sistema recitativo che pur
veicolando grandi passioni, si manteneva moderato. Dice che non usano parole sporche, poi
dice che non tutte le parole sporche sono di peccato mortale (perché in effetti loro le usano).
Sono solo sporche quelle che portano ad atti di libidine mortale. Cercano di salvare tutto.
Stessa cosa con i fatti sporchi, dicono che non li usano, poi che sono pochi e che se li usano
per burla va bene, sono così ridicoli che c’è l’effetto contrario, aspetto del grottesco.
L’importante è non commettere azioni dannose per il prossimo, ma essendo finzione non si
commettono.

Lezione 7 16/03.
Si tratta di una sorta di vademecum che i comici dell’arte portavano nelle loro tournée come
se fosse un passaporto. Ogni città che lambivano doveva dare il permesso per recitare, non
era scontato che potessero sempre recitare in tutte le città. Nella Milano di Borromeo, gli
Andreini sono stati costretti a sottoporre alla censura i canovacci di quello che sarebbero
andati a recitare. In realtà si trattava solo canovacci, non c’era scritto l’intero contenuto, era
una burla.
Questo vademecum è anonimo, non sappiamo quale sia l’autore, ciascun comico lo diventa.
Ognuno si appropria di questo lasciapassare. I comici si aggrappano a quel poco che c’era
di positivo nei Padri della Chiesa e lo usano al massimo. San Tommaso, per esempio, aveva
fatto il discorso del remedium alla fatigatio (già nell’etica Nicomachea di Aristotele). Aveva
elaborato la possibilità di liceità del teatro, anche se sottomessa a etica del comportamento
scenico. I contenuti dovevano essere fortemente disciplinati, evitando l’esagerazione comica
che avrebbe portato gli attori nell’universo diabolico dei saltimbanchi. Ne ereditavano
l’intensità energetica e l’esagerazione corporea. Il corpo femminile, inoltre, esaltava la
pulsionalità. I comici avevano la capacità di elaborare testi dove le analogie, i doppi sensi
erano continuamente sviluppati, cercavano di contenere il tutto nella regola di San Tommaso
che diceva che l’attore non doveva uscire dal perimetro recitativo. Doveva tenere la
modestia nell’utilizzo delle parole (primo punto), non sporche, fatti (secondo punto) non
sporchi, azioni (terzo punto) ossia il comportamento scenico, fisico dell’attore, che non
doveva essere sconveniente. Non tutte le azioni dannose al prossimo sono però da peccato
mortale. Alcune possono essere utilizzate.
Quarto punto. Il discorso del luogo, del tempo, era più ampio, qui è così ridotto da permettere
di fare commedie ovunque e sempre eccetto in luoghi sacri e in periodo di quaresima.
Rispettano il dettato di San Tommaso, allora la commedia è sempre lecita e lo è anche come
professione; permette di avere un guadagno, legato al fatto della vendita dello spettacolo in
un luogo pubblico, dove lo spettatore paga un biglietto. I comici più illustri tentavano di
costruire tournée intorno alle grandi corti dove era garantito un guadagno sicuro in un
contesto molto agevole. Ma non disdegnavano un luogo pubblico (il primo a Venezia, posto a
sedere). Si supera la liceità dell’elemosina che era propria del giullare. L’ultima digressione
di Andreini è molto interessante: segna la distanza che i comici dell’arte vogliono sottolineare
rispetto ai saltimbanchi, agli attori di piazza che non rispettavano le regole tomistiche. Un
conto sono le compagnie colte, un conto i saltimbanchi che non hanno nulla da spartire con
loro. Per farsi riconoscere usano questa strategia. Andreini, quindi, si scaglia addirittura
contro i suoi stessi fratelli comici. Come mai la Chiesa allora accusa molto spesso le
commedie? Visto che lui ora le ha difese. Non è a loro che l’accusa viene fatta ma ai
ciarlatani che non rispettano queste regole. A loro secondo Andreini non va data la
comunione: devono essere scomunicati e non devono essere pagati. Discorso di traccheggio
mercantile. I comici in realtà non hanno un peccato, ce l’hanno solo nel momento in cui
recitano e mettono in scena parole disoneste, atti disonesti o contenuti in contrasto con la
Chiesa, con la religione. I comici più famosi, colti, consapevoli della loro arte, sfornano
continuamente testi in difesa per contrapporsi alle accuse della Chiesa utilizzando gli stessi
mezzi della Chiesa.
L’attore per emanciparsi usa strategie che servono a renderlo compatibile con la società
fortemente disciplinata della controriforma a livello teorico. La polemica è a livello di
trattatistica. In che modo concretamente questo si traduceva nell’esercizio scenico che gli
attori facevano della propria arte? Bisogna capire in che modo traducessero la liceità nella
performatività scenica. Come riuscivano a eludere il problema del turpiloquio, dei fatti e delle
azioni scurrili? Come mantenevano la forza tipica del giullare ma allo stesso tempo
riuscivano a controllarla, facendo in modo che rimanesse in disciplina del gesto, della parola
per far capire che erano diversi dai ciarlatani di piazza? Come recitava visto che era diverso
dal buffone di piazza ma portatore di sapere comico che ha a che fare con quel tipo di
recitazione?
Cultura dell’attore
Ripasso di stili e forme della commedia dell’arte: la novità del professionismo teatrale
consisteva nel fatto che per la prima volta l’attore è allo stesso tempo autore e l’autorialità è
plurale, non del singolo autore ma della compagnia. La commedia è associata a un solo
attore, ma poi in realtà è frutto della concertazione tra i vari. Prescindono dall’autore.
Dipendeva da due sostanziali grandi invenzioni: destrutturare l’impianto della commedia
nella divisione dei ruoli. Ricordiamo che stiamo parlando della Commedia non come genere.
La possibilità di ricondurre tragedie, commedie e pastorali a sistema fisso di ruoli era
abbastanza facile. I comici dell’arte comprendono che esistono tre fasce di ruoli: genitoriale,
degli anziani, padri di famiglia, re, tiranni della tragedia, pastori della pastorale; ruolo
mediano degli innamorati, fascia giovane dove si inserisce in maniera evidente la forza
della donna in scena; terza fascia legata alla presenza dei cosiddetti Zanni: i servi. Varie
tipologie di personaggi che si innestano su questo sistema di ruoli. Autonomi non solo
nell’aspetto recitativo ma anche produttivo delle commedie. Basta che ciascun ruolo abbia
competenza drammaturgica e performativa. Per essere autori, ciascun attore doveva avere
ruolo in cui disponeva di un sapere in termini testuali e performativi, recitativi. Competenza
drammaturgica e attoriale suddivisa nei vari ruoli. Aspetto per la prima volta decisivo, che
rende l’attore un vero autore. Implica che l’attore sia dotato di cultura, di un sapere che gli
permette di essere produttivo in termini scenici. Sapere ha doppia valenza: poetico-letteraria
testuale e performativa. Doppia competenza, sbaraglia il campo rispetto a tutte le altre forme
artistiche. I comici dell’arte esplodono e diventano riferimenti arte teatrale in Italia ed
Europa. Richiesti, si impongono anche da un punto di vista estetico. Hanno il primato perché
il loro sapere non è solo saper poetico letterario dell’autore classico (tasso che scrive
l’Aminta). Ma il comico che non aveva la specificità artistica di Tasso nell’elaborazione di
tessitura drammaturgica di alto livello, aveva sapere pratico della scena che gli permetteva di
usare parole che anche se meno eccezionali di quelle di Tasso, dal punto di vista della resa
scenica erano nettamente superiori. Per la prima volta autori con sapere anche pratico, hanno
una sintesi tra il sapere letterario (Andreini studiava) e quello pratico. Sapeva subito quale
variante fosse più efficace. Nel Pastor Fido di Guarini, manca la competenza di tipo
performativo. Riguarda non solo commedia dell’arte ma teatro in assoluto. Manzoni Conte di
Carmagnola e Adelchi opere meravigliose, ma mai rappresentate se non da Carmelo Bene.
Cultura su cui si innestano due saperi. Isabella Andreini scrive tre volumi di rime. Aveva una
profonda cultura letteraria e gli esiti sono originali.
L’attore si allenava e costruiva il suo profilo specializzandosi in un ruolo e dotandosi di un
patrimonio culturale di testi e gesti. Autori della commedia dell’arte studiavano, lo studio era
fondamentale nell’esercizio dell’arte performativa. Se non si capisce, si riduce la cultura
dell’attore a cultura posticcia o li si riduce a saltimbanchi. Il professionista, comico
professore, studiava molto. Cosa e come? Era innanzitutto un esercizio mnemonico di
accumulazione e archiviazione di testi che potevano essere utili alla creazione di una partitura
testuale legata al ruolo. Cultura selettiva. Isabella nel ruolo dell’innamorata, è un archivio di
tutta la poesia lirica amorosa recente e passata e di quella tragica. Servivano parole
convenienti al ruolo dell’innamorata. Archivio memoriale straordinario di possibilità
linguistiche. Quella dell’attore era cultura orale, basata sulla memorabilità dei testi che si
traduceva in capacità produttiva dei testi. G. Andreini ne La ferza racconta della madre
Isabella, donna straordinaria perché ottima madre ma non passava un attimo della giornata in
cui non si dedicasse allo studio dell’arte comica. Esercizio quasi sacrificale. Rapporto
celeberrimo tra Isabella Andreini e Tasso, frequentazioni epistolari, si erano incontrati. Tasso
immagina un’incoronazione dei più grandi poeti della sua epoca a Roma e accanto a lui in
effigie: Isabella Andreini. Lo stesso Tasso, lo si vede nell’Aminta, ha ben presente la forza
degli attori, spesso la sua scrittura ne tiene conto. Noti i rapporti tra i comici e Gabriello
Chiabrera, rime di Isabella Andreini preceduti da sonetti in lode dei più grandi dell’epoca.
Anche Marino.
Comici fanno anche una specie di retorica della loro autodisciplina e capacità di avere sapere
doppio.
Domenico Bruni scrive un trattato con un capitolo sulle fatiche della vita comica. Prologo da
Fantesca, servetta nella compagnia. Fin dal mattino corre al servizio dei ruoli più importanti,
non per servire ma per portare dei libri. Signora: prima attrice, Pantalone, Capitano.
Sottolinea come fin dal mattino non stavano a fare esercizi sconci delle loro qualità fisico
performative. Più livelli: ciascun libro è adatto a un ruolo: signora, innamorata legge
Fiammetta, tradizione boccaccesca, Pantalone, anziano padre di famiglia chiede le lettere del
Calmo. Capitano chiede Capitano Spavento. Zanni più basso, astuzie di Bertoldo. Fugilozio,
Ore, sono compilazioni di detti. Studiavano non solo le cose teatrali ma tutta la letteratura.
Graziano Sentenze del Eborenze. Franceschina Celestina (unica commedia tra tutti i testi
citati). Innamorato prende Platone. Cultura comica è estesissima dal punto di vista delle fonti.
Andreini sapeva a memoria la Gerusalemme liberata. Vero studio del ruolo in tutte le sue
possibilità espressive. L’improvvisazione era questo. Quando l’attore recita non fa
un’invenzione sul momento di una battuta di spirito efficace, come se fosse innata. Platone
bandisce l’attore dalla società, Aristotele in parte lo emancipa, attore ha tecnica ma quando
la deve spiegare rischia poi di cadere nello stesso problema di Platone parlando di indole,
dono di natura. Questo ribalta tutto: l’attore è capace di improvvisare non perché la parola gli
viene spontaneamente per dote naturale. L’improvvisazione, al contrario, è figlia di uno
studio così intenso, quotidiano. L’attore ha un bagaglio così ampio di possibilità testuali che è
spontaneo che lo traduca nella sua parte. É il contrario dell’invenzione, ha già tutto ed è poi
facile la declinazione del bagaglio di termini e forme. Conoscono Tipologie delle liriche:
descriptio bellezze, topoi che l’attore ha studiato. Andreini qualità di letture in situazioni
complesse nelle tournée. Anche se c’era anche idealizzazione mistica. Incessabile agitazione.
A differenza di quello che si è creduto, che commedia dell’arte sia solo pratica teatrale
gestuale, utilizzo della parola è continuo ma la parola è fortemente connaturata con il gesto.
Come recitavano? Come riuscivano a far fede a recitazione che pur avendo contenuti
rischiosi rimaneva moderata, mai scurrile come quella degli istrioni? Prendevano parte che
ereditavano dalla giulleria, l’acrobatica, seduzione, scatologia, caricare tutta questa energia
ma mantenendola dentro un decorum. Le fonti per capirlo sono quelle iconografiche. Bisogna
eliminare quelle iconografie fuorvianti che ci danno un’idea della recitazione frutto di una
stereotipia. Uno dei problemi più gravi dell’iconografia è la fedeltà al vero. Spesso si carica
di intenzioni simboliche che trasformano il dato reale in idea. Comici dell’arte hanno eredità
che li pone come figli degeneri dei saltimbanchi, oppure c’è l’idea del genio italico. Si tratta
di una doppia eredità in entrambi i casi falsa, iconografie fuorvianti che pur descrivendoli li
caricano di elementi che non li rappresentano ma sono simbolicamente quello che si
portavano come eredità. Prima tipologia è rassegna di immagini di un incisore Callot che fa
una serie di cicli compositivi, Balli di Sfessania, dove vengono realizzate figure di comici
dell’arte colti in atto, nella performance. Esaspera l’eredità grottesca, disarticolata, eccessiva
ed energicamente connotata che stava nell’immaginario giullaresco. Sottolinea attore come
era nell’immaginario che gli derivava dall’essere erede del giullare. Dimensione pulsionale,
dell’eccesso. Risente della napoletanità dell’immagine, ispirato da tradizione
popolareggiante.

Signora Lucia e Trastullo sono


Pantalone e L’innamorata. Scena
tipica di corteggiamento
dell’anziano nei confronti della
giovane, umiliazione per
possederla e lei fa di lui quello che
vuole. Costruita per dire
quell’aspetto. La postura
dell’anziano inginocchiata con
implorazione, la donna anche
sovradimensionata, ha postura che
ha elementi interessanti come lavoro sul bacino e braccio che tiene le distanze dal vecchio
anziano. Alcuni elementi erano quelli. Topos del corteggiamento umiliante, riso beffardo
della donna ma c’è una rigidità che non era quella reale dell’azione.

Ancora più evidente nel doppio scambio tra due Zanni, figure basse, mentre prima erano due
nobili, tutto composto. Duello tra due zanni con soprannomi, eccesso opposto. Con maschera,
sono colti in una specie di duello di scurrilità. Uno offre deretano all’altro che esibisce il suo
sesso. Alcuni scambi tra gli zanni avevano veramente questa dimensione scurrile, ma qui
esagerato. È retaggio del priapismo latino. Lo zanni non esibisce mai il fallo in quanto rientra
nell’indecoroso. La postura con cui uno ostenta il didietro è eccessiva. Eccesso si può
cogliere ancora di più guardando le articolazioni delle appendici: braccia e dita
eccessivamente disarticolate, deformate. Anche le gambe. C’è la regola base dell’efficacia del
gesto, che ha un suo opposto, ma la contorsione dell’opposto è smodata rispetto all’esigenza
teatrale, c’è il vero ma distorto perché si vuole dare dell’attore un’immagine di sregolatezza.
Lezione 8 21/03
Lo stile recitativo della
commedia dell’arte è la
prima vera rivoluzione
nell’arte della performance,
prima vera espressione di
autonomia culturale e
autoriale dell’attore. L’attore
per poter parlare della
propria tecnica non deve
sempre appoggiarsi a figura
nobile come quella
dell’oratore ma può
affermare l’autonomia a
partire dalle tecniche che ha
elaborato. È difficile
delineare le tipologie di
queste tecniche. Abbiamo una
documentazione simulata, difficile da individuare. Attore da una parte riconosciuto come
professionista ma la sua autonomia deve fare i conti con cultura ed etica innervata, deve fare
i conti con pensiero che si contrappone, non riconosce questa autorità. Non può esplicitare
fino in fondo, per legittimare la sua arte deve ancora appoggiarsi alla cultura alta, altra, al
discorso dell’ars oratoria, via di sfogo per gli attori fin dai tempi di Quintiliano. Dobbiamo
leggere i segni di questa specificità nelle maglie di discorsi che spesso parlano di altro. Altra
fonte a cui possiamo far riferimento è l’iconografia. Stessi stereotipi che caratterizzavano
l’aspetto culturale, letterario. Percorso dentro lo stile recitativo della commedia dell’arte.
Erano riusciti a rendersi autonomi dalla teatralità testo centrica. Testi e azioni permettevano
loro di comporre, di concertare sulla scena.
Iconografia, primo blocco di immagini (vedi lezione precedente) associate a fuorvianti.
Colgono gli attori in azione, evidenti i tipici contrasti. 1.Anziano e innamorata. Non coglie
perfettamente la tensione del rapporto tra questi due attori, colloca l’elemento recitativo in
uno stereotipo visivo, iconografico, volutamente eccessivo rispetto alla dimensione grottesca.
Contrasto tra due zanni fortemente connotato in termini scatologici.
2.La seconda probabilmente si riferiva a lazzo autentico ma il contorsionismo dei corpi,
l’esibizione pornografica è eccessiva rispetto a quello che doveva essere nella realtà.
Entrambe le posture oltrepassano troppo la sfera del decorum che rendeva tollerabile la
commedia dell’arte. Il tenore e la tensione dello stile recitativo dei comici era quello
(umiliante e pornografico), difficilmente si sarebbe potuta esprimere con questo grado di
grottesco, esibizione, contorsionismo.
3.Specie di ballo di zanni. Callot, per
sua cultura è legato al mondo
partenopeo, rievoca due zanni che si
atteggiano come maschera di pulcinella.
Elemento folclorico e grottesco è anche
qui molto esibito. Callot probabilmente
ha come punto di riferimento reali scene
di danza diffuse nei canovacci della
commedia dell’arte. Continuamente
all’interno delle partiture testuali
c’erano aspetti cantati e danzati, perché
elemento di grande attrazione. Altro
caso interessante delle iconografie che
distorcevano in un immaginario segnato
dal contorsionismo giullaresco:
Watteau fine XVII- inizio XVIII secolo, approccio opposto, commedia dell’arte perde il suo
carattere scurrile, eroticamente connotato, di tradizione giullaresca, sviluppa invece l’aspetto
sentimentale, amoroso nel senso romantico del termine. Espressione di un mondo popolare
perduto di cui le maschere rappresentano ancora il segno, una sorta di universo lirico,
sentimentale, amoroso che apparteneva a ideale di popolo in termini di autenticità, semplicità,
che la commedia dell’arte mantiene. Watteau non sbaglia del tutto. È aspetto che la
commedia dell’arte aveva, che faceva da contraltare a quello grottesco. L’elemento comico
basso si univa a quello alto. A differenza di
Callot, però, coglie solo questo estremo.
Figure di Zanni, Arlecchini, Colombine
fortemente edulcorati.
4. Mezzettino, maschera diffusa soprattutto in
Francia. Il viso ha una sorta di aria trasognata
mentre suona, è dentro una specie di giardino
nella natura, comincia l’aura romantica della
fusionalità con la natura, come se la maschera
non avesse una provenienza urbana, cittadina.
Schitarrata amorosa che non ha nulla
dell’elemento comico, volgare, anche nella postura, gamba accavallata, corpo morbido,
rilassato, eleganza del gesto, sguardo trasognato.

5.Pierrot che suona in una sorta di festa popolare di attori e pubblico. Contesto edenico,
boschereccio, pervaso dalla natura. Non c’è nulla della tensione erotica, violenta, contorta
delle maschere di Callot. Pierrot è vero che aveva questa caratteristica, ma mortifera. Dietro
di lui c’è un arlecchino che gli fa da sfondo ma in maniera composta. Non c’è nessun gesto
scurrile da Zanni, tutto avvolto in una notte magica, di canto. Entrambi non hanno la
maschera pur essendo eredi della dimensione dello zanni. Nel ‘700 alcuni attori perdono la
maschera perché perdono la dimensione animalesca che caratterizzava lo zanni nella sua
forza.
6.Arlecchino corteggia una dama, modalità basso-corporea. Arlecchino di sua natura è
violento, trasgressivo, eroticamente connotato. Batacchio con cui mena è anche simbolo
sessuale. Qui invece arlecchino gentile, evoca l’idea del corteggiamento con il braccio ma
non ha l’elemento scurrile che c’è in Callot.
Quando andiamo a vedere come recitavano, nelle testimonianze iconografiche ci
troviamo di fronte a due evidenze che nel loro eccesso ci aiutano a capire: da una parte
sapevano mantenere la pulsionalità basso mimetica, della tradizione giullaresca, che fa
comicità in senso grottesco e anti-decoroso. Dall’altra parte la tecnica consisteva nel
saperla temperare con un elemento alto, etereo, con un’armonia che governava, faceva
passare la pulsionalità, ma mantenendola in un registro decoroso che permetteva ai
comici di emanciparsi dallo stuolo di attori da piazza. Questo è l’attore delle compagnie
più colte, più attente a inserirsi in contesto alto dell’arte, è attore che si emancipa. Capacità
tecnica di una rosa ristretta ma visibile, una volta resi degni della loro professione in termini
etici ed estetici daranno l’impronta per il teatro successivo. Sono le compagnie che poi hanno
fatto il salto di qualità.
Altre fonti iconografiche: questo tipo di fonti colgono l’attore così com’era realmente,
iconografie anche abbastanza dozzinali, non così eleganti dal punto di vista della grafica (le
altre realizzate da un incisore e da un pittore). Sono meno qualitativamente pregiate, filtrano
meno, soprattutto la seconda che è una fonte diretta: composition de rethorique di Tristano
martinelli.
Raccolta Fossard, album commissionato da
Luigi XIV a copista. Cartoline per
diffondere gli spettacoli di corte. Vi erano
raffigurate le varie maschere, era materiale
di scambio, senza nessun filtro estetico.
1. Arlecchino e Franceschina. Pantalone,
vecchio bavoso che spia in maniera
voyeristica le avances del corteggiamento
tra servi. Arlecchino: centro della
raffigurazione, corpo non contorto come gli
zanni con braccia disarticolate (Callot). È seduto, ma si capisce che è atleticamente potente.
Valorizzati la schiena e le braccia. Atletico ma non bestiale. Nessuna esibizione animalesca.
Corpo quasi rilassato ma potenza della schiena si vede, anche se contenuta. Gambe con
quadricipite evidenziato. Elemento conturbante è che sta mettendo le mani sotto la gonna, è
tutt’altro che innocente. Esibisce un fatto fortemente erotico, tutt’altro che decoroso.
Franceschina non ha esibizione della sessualità, ha un viso quasi dolce, ma sotto si dispone in
maniera disinibita. Avevano grande tecnica di misurare l’energia pur esibendola. Potevano
fare gesti connotati in senso erotico ma che non sembravano trascendere mai.

2.Altra gag a sfondo


animalesco, forse anche
sessuale. Ma ancora una
volta l’incisore sottolinea
la potenza di Arlecchino
nel suo camminare sulle
mani. Posizione
disarticolata ma pur sempre
postura contenuta anche se
esibita energeticamente.
3.Arlecchino in scena con
Pantalone al centro.
Vecchio accetta che la coppia si unisca, legittimazione amorosa. Arlecchino ha una postura
sotto certi aspetti elegante, non esagerata anche se è sottolineato sempre il fatto che
Arlecchino ha ondeggiamento dell’anca. È una tecnica, del contrasto. Se faccio gesto in una
direzione devo bilanciare con gesto antagonista. Per rafforzare il gesto (mano protesa verso
l’amata), contrappone postura del bacino. Atletismo evidente ma allo stesso tempo contenuto,
non c’è niente di volgare ed esibito. Pantalone appartiene alla schiera degli anziani, ha anche
qui quell’assetto ma non è raffigurato un corpo vecchio. La componente umiliata, il suo
essere decrepito è evidente in Callot, qui invece ha i tratti dell’età matura, ma se non
guardassi il viso potrebbe essere il corpo di un attore giovane. Anche in Pantalone accadeva
questo: figura che esibiva componente della vecchiezza, dell’abbrutimento della persona ma
mantenendo un atletismo. C’è un doppio registro: ha i connotati dell’anziano, segnato dalla
vecchiaia, ma ha un corpo vigoroso.
4. Arlecchino innamorato con zanni e serva. Arlecchino esangue per amore, soccorso dagli
altri due zanni, ma postura in cui il tormento d’amore non si riflette in maniera volgare,
violenta, non esagerata nel tono del dolore. È quasi composto, c’è una sorta di eleganza che
faceva il contraltare con l’aspetto più pulsionale che emergeva in altri momenti.

5. Lazzo della supposta. Pantalone


corteggia la giovane nello stereotipo
dell’anziano ma ancora bramoso di
sessualità. La serva accetta per poi
sottrarsi nel momento opportuno e
Arlecchino interviene in maniera volgarissima, in analogia con l’iconografia dei due zanni,
ma qui non c’è nulla di volgarmente esibito, contorto. Il lazzo è ammantato di eleganza come
se si trattasse di una scena accademica. Pantalone vecchio bavoso, anziano, sessualmente
compulsivo non ha il tratto disgustoso di questa figura. Ancora una volta, coperto il volto, è
corpo adulto, vigoroso, prestante, potente nella sua disposizione. Pienamente eretto sulla
colonna, mano ha una presa solida, di dominio ma non volgare, gamba in avanti per
incrociare quella della serva. Forza che non eccede, non attribuibile alla vecchiezza, c’è
vigore in Pantalone che crea contrasto. Arlecchino sta facendo un lazzo volgarissimo, fallico,
violento, tuttavia il suo corpo mantiene un contegno quasi come se stesse per porgere un
dono, piegato sulle ginocchia, tensione muscolare, spalle. Trattiene la parte più volgare e la
condensa in energia che si sprigiona in gesto apparentemente innocuo ma in realtà
volgarissimo. Ma il braccio è morbido, non disarticolato e scomposto. Si evince che la
tecnica segreta di questi attori consisteva proprio nel saper temperare questo doppio registro e
saperlo dominare.
Lezione 9 22/03
Toccavano corde esasperate ma senza mai sfociare in scurrilità dei comici di strada da cui i
comici dell’arte volevano emanciparsi per legittimare l’arte recitativa come parte di una
cultura alta che doveva avere riconoscibilità e dignità al pari delle altre scienze. Snodo
fondamentale perché qui si forma la tecnica attorale. Per la prima volta attore consapevole
della sua tecnica che usa per uno scopo ben preciso, estetico ed etico. Tocca corde emotive e
performative altamente energetiche, senza mai uscire, mantenendo una posa decorosa, è
difficile stabilire come recitavano ma da alcune iconografie possiamo intuire come potesse
essere qualità tecnica dei comici dell’arte. Siamo passati per due opposti che non
fotografano la recitazione dell’attore ma ne colgono due elementi. Callot esaspera
componente performativo-contorsionistica. Watteau fa emergere la componente romantica,
affettiva, folclorica ed emotivamente coinvolgente. In realtà non era una recitazione
contenuta nell’attitudine
romantica e sentimentale.
Sintesi nella raccolta Fossard:
le maschere fondamentali
hanno una posa scenica che
denota una fortissima tensione
energetica, atletismo corporeo,
intensità muscolare, fisica,
prepotenza. Accompagna azioni
e gesti altamente segnati dalla
dimensione erotico-scurrile, ma
senza mai degenerare nel
contorsionismo. Le pose sono
energetiche ma contenute in
posa decorosa. Elemento
trasgressivo, animalesco, è
evidente. Capacità di esprimere
energia e contenerla. Figura
dell’anziano mai gobbo e
rattrappito. Non grottesco ma atletico, consapevole della propria eleganza, fisico giovanile,
prestante, azione alle soglie dell’oscenità ma si vede lo sforzo di Arlecchino di mantenere
pulsionalità quasi animalesca in un’energia che è contenuta. Composition de retorique,
librettino curato dal primo Arlecchino, Tristano Martinelli, che acquisisce la sua fortuna e il
nome della maschera durante il successo della prima grande tournèe. Nozze di Maria de’
Medici con Enrico IV. Segnano il successo della comedie italienne in Francia. Non si sa se
Tristano Martinelli, quando parte, aveva già trasformato la sua maschera in quella di
Arlecchino. Insieme di fogli a stampa alla fine del mondo, evoca lo scenario infero di
arlecchino, l’aspetto diabolico, l’antimondo, sembra uno scherzo editoriale, dovrebbero
esserci compositiones che non ci sono ma ci sono immagini. Libro poetico senza poesie, c’è
chi ritiene che sia una burla. Testo senza testi come a dire che il testo è il suo corpo, basta
l’azione scenica, la sua cultura non è letteraria ma fisica. Non si sa se sia interpretazione vera.
Forse per motivo di tempo non sono andate in stampa e quindi vuoti, magari è solo un
disguido editoriale e Arlecchino in realtà voleva nobilitare la sua figura con la poesia.
Arlecchino voleva fare autorappresentazione, modalità molto simile a raccolta Fossard.
Posa scenica, piccolo palchetto sopraelevato dove si esibisce, Arlecchino è visibile e si
autorappresenta in scena. Ha elemento fallico, maschera, il suo corredo di costumi e oggetti
scenici. Non è posa in cui sta esibendo una sua tipica postura teatrale. Sembra che si
rappresenti subito prima di andare in azione. Ha le spalle totalmente contratte, la testa
incassata, le mani pronte ma aderenti al corpo, gambe con ginocchio in avanti come se stesse
per partire. Come se volesse mostrare non tanto l’azione scenica, il suo lazzo, ma la tensione
preparatoria che lo precede. Come se volesse dimostrare che tecnica dell’attore non consiste
nel lazzo ma in ciò che lo precede. Garantisce potenza dell’azione ma dotata di capacità di
dosare le forze. Come molla contratta prima che esploda. Altrettanto interessanti altri
personaggi.
 Capitano Spavento, esibiva coraggio e prestigio guerresco che non corrispondevano
mai alla realtà. Quando il capitano sulla scena esibiva questa sua esuberanza
militaresca, repertorio di conquiste, uccisioni, costruiva partiture verbali, sceniche,
esagerate, era un personaggio esagerato. Qui invece Tristano lo descrive quasi come
se fosse un gentiluomo. Postura non dimessa, impavida ma non c’è il contorsionismo
di capitano che celebra un’impresa bellica. È invece eleganza. Vuole esibire come
comici dell’arte pur avendo dentro di sé qualità dell’esagerazione, potessero
governarla in uno stile decoroso, formalmente ineccepibile.
 Pantalone non mostra tutta la parte pruriginosa, avida, tipica della maschera. La sua è
una posa totalmente onesta, morigerata, del buon padre di famiglia. Mano tesa e per
nulla esibita. Come se i comici dell’arte volessero dire la capacità di tenere questo
doppio registro. Provocatori ma allo stesso tempo dentro alla norma. Tecnica basata
su continuo training fisico. Basata sui fondamenti di disciplina del corpo che badava a
mantenere posture legate al carattere, al tipo fisso. Nella nomenclatura ortodossa: il
nobile ha una certa postura, il servo è più scurrile ma con stile. Partiture fisiche che
replicavano ideale di comportamento.
Rappresentazione comici diventa anche ricorrente a livello decorativo. Immagini tratte da
affreschi di castello in Baviera. Belle scene comiche. Pantalone Vecchio con vigore e
atletismo fisico, tutt’altro che vecchiezza decrepita del corpo abbandonato. Allo stesso modo
dama, innamorata. Disciplina del corpo, adeguamento a posture fisiche, sceniche dei tipi fissi,
irregolari. Capacità di uscire da quel decoro.
Il segreto della commedia dell’arte, quindi, è quello della coincidentia oppositorum. Termine
di matrice neoplatonica, può esistere un equilibrio tra gli opposti nella loro pacifica
convivenza all’interno di partitura fisica che li domina entrambi. Non necessariamente
gli elementi sono contrastanti, il contrasto può essere virtuoso perché li mette insieme e
li dosa reciprocamente. Tutto questo riguardava anche la parola. Fino ad ora abbiamo fatto
riferimento ai gesti ma non è solo questo. Importanza dei generici per ampliare il repertorio
testuale. Tecnica è usare la parola all’interno della stessa cultura corporea. Parola non retorica
delle accademie cinquecentesche, non c’è declamazione della parola, doveva essere parte
della qualità energetica del corpo. Per la prima volta il concetto di interpretazione. La parola
non deve essere declamata, detta, ma interpretata, fatta parte di sé. Prendere su di sé la parola:
processo di incorporazione. Non recitata ma nemmeno imitativa. La parola passava
attraverso l’inclusione nei processi fisici. Tutto nel processo di memorizzazione. Descrizione
di questo processo fisico da G.Andreini in una commedia. Uno di questi due protagonisti è
servo Coniglio. Il suo padrone, Pantalone, si stupisce della sua cultura (Andreini in questo
modo evidenzia la cultura dell’attore). “Come mai favelli così bene?” Coniglio: “pensi che io
servo zanni, sia ignorante ma non è così. La mia però non è la cultura dei togati, studenti di
accademia, che hanno un sapere appreso dai libri. È sapere che non mando dalla lettura alla
memoria ma lo mangio, lo incorporo.” Comici dell’arte smembravano e dividevano a seconda
delle parti, dei ruoli. C’è anche un riferimento biblico. Un profeta deve apprendere il verbo
divino, per profetarlo mangia il rotolo. Andreini fa una strizzata d’occhio. Siccome è duro di
memoria, non memoria solo irrazionale, intellettuale, ma ha memoria corporea che passa per
la bocca, processo di incorporazione. Descrive come funzionava l’arte dell’attore. Prendo un
elemento testuale non necessariamente teatrale. Non mi interessa la continuità, il rapporto
causa effetto, ma lo faccio a pezzi e lo incorporo, lo memorizzo non mentalmente, ma con
l’azione fisica. Alla prova del corpo io capisco cosa tenere e cosa no, cosa che non sanno fare
i drammaturghi, che scrivono cose che non reggono. La vera memoria è memoria del corpo,
digestione e così possono tenere le parole veramente efficaci per la scena. Il corpo è spugna
tenace, capace di assorbire la qualità della parola in un processo che è già azione. La sua
tecnica non distingue parola e azione. La parola, se solo scritta, è lettera morta, deve essere
sempre agita e deve essere incorporata. Deve essere ingurgitata. Memoria non è più mentale
ma del gesto, ricordo quella parola non in quanto parola ma in quanto parola che si è fatta
gesto. Non tutte le parole diventano gesti efficaci. La memoria del corpo è selettiva, prende
solo ciò che è efficace. Per questo la cultura dell’attore vale di più. I letterati non ce l’hanno.
È quello che poi sosterrà Stanislavskij (nella fase finale?) in un altro contesto. È il corpo che
deve conservare la verità dell’azione. La parola mentale vale un momento, ma poi si perde, se
passata attraverso il corpo è capace di essere conservata. Le parole della commedia non sono
prima, sono dopo, rappresentano la parola passata attraverso il vaglio dell’esperienza
corporea. È inutile che si stupisca della parola di Coniglio. Tutto è perché la parola non è più
tale. È diventata tutt’uno con il corpo, si è sgretolata, è diventata parte di qualcosa che è
processo organico, digestione. Non ha nemmeno più statuto di parola, è tutt’uno con il flusso
organico del corpo, è parola che è suono, non ha neanche più autonomia semantica, bolle
confusa, parola non ha più uno statuto di autonomia.
Dobbiamo immaginare che il successo dei comici dell’arte stia proprio in questa novità
dell’attore, capace delle più grandi intemperanze fisiche, ma in grado di controllarle allo
stesso tempo unendo corpo e parola. Questo determinò un successo strepitoso delle maschere
a scapito di commedie regolari e di recitazione più accademica, associata all’oratoria. Più che
in Italia, questo aspetto emerge in qualsiasi modo in Francia. I comici dell’arte si diffondono
alla corte del re e della regina. A Parigi si installa in maniera permanente la comedie
italienne. I comici italiani hanno successo per novità della recitazione. Il più famoso è
Biancolelli. Era un arlecchino, forse il più famoso in terra di Francia, famoso per il suo
doppio registro: da una parte eleganza, virtuosismo, dall’altra atletismo del corpo e del gesto.
Faceva andare in visibilio gli spettatori quando arlecchino faceva lazzi, acrobazie. Gli eccessi
di volgarità, comunque si mantenevano in stile che aveva il suo decoro. Voce da perroquet,
pappagallo. Successo strabiliante, alle volte arrivava alla volgarità da saltimbanco. Era capace
di azioni di questo tipo. Descrive il naufragio di Arlecchino. La commedia è il Don Giovanni,
con scene volgari. Vesciche, pesce, seno come salvagenti. Due innamorati, scene galanti, lui
intanto fa scoppiare le vesciche. Pura grossolanità. Lazzi legati alle scoregge. Facevano ridere
ma tenute sempre in uno stile recitativo che non trascendeva mai il decoro, la norma.
Tommaso Visentini
Negli anni ‘90 i comici italiani vengono cacciati da Parigi. Ci sono invidie, i comici stavano
prendendo sempre di più la scena. Querelle tra italiani e francesi. Gli italiani sono
ingombranti. Caso montato ad arte per cui il re caccia gli italiani. Commedia ritorna con
Riccoboni nel 1717. Vuole andare a Parigi con l’idea di riformare la commedia dell’arte. È
attore, ne conosce lo stile recitativo. Per la sua ansia letteraria rifiuta la grossolanità e
vorrebbe la commedia regolare. Ha idea di riportare italiani a Parigi per fare riforma del
teatro dove il comico fosse una commedia a sfondo educativo, delectando docere, commedia
dei buoni costumi basata sul riso onesto, che fosse moraleggiante. Ideale di riforma che deve
mettere nel cassetto. I parigini dopo l’assenza, infatti, vogliono Dominique (Biancolelli) e la
commedia che veramente faceva ridere. Riccoboni si deve adattare alla situazione reale. Deve
tornare alle maschere ma ha in compagnia un arlecchino che è l’opposto di Biancolelli.
L’ultimo Biancolelli era anche appesantito, con un erotismo smaccato, esibito. Voce per nulla
verosimile. Visentini, invece, è un omino alto un metro e cinquanta. Esile, fragile, tutto nervi.
Non aveva la presenza di Biancolelli, estremamente elegante, mai esasperato, forse anche per
quello Riccoboni l’aveva portato con sé, perché è espressione di gentilezza della maschera. In
realtà Visentini ha successo perché non imita Biancolelli, si esprime fisicamente come può.
Prima pièce, tutti e due hanno così paura che scelgono un canovaccio in cui arlecchino è
muto “Muto per lo spavento” perché temono che con quella voce non possa piacere al
pubblico. Visentini entra in scena con Riccoboni, attore, e siccome non ha dormito fa una gag
da narcolettico. Il primo è buffone di corte. Ingentilito, più moderato nella grossolanità
rispetto a Biancolelli, ma anche qui c’è un’esagerazione comica, si crea un repertorio di lazzi.
In Muto per lo spavento, fa un lazzo in cui si cuce la bocca con ago e filo. In I quattro
arlecchini con agilità si arrampica fino a quarto ordine del palco e poi scende.
Tema del Don Giovanni, nell’apparizione del convitato di pietra finale. Fa una capriola
all’indietro senza versare una goccia di vino dal bicchiere perché vuole ubriacarsi. Molto
esibito. Il suo è un virtuosismo più elegante rispetto a Biancolelli ma è comunque acrobazia.
Tensione fisica fine a se stessa, ma all’interno di energia decorosa.
In sintesi, oltre ad aspetto che riguarda lo stile recitativo è evidente che esistevano poi delle
indicazioni tecniche più specifiche, su quello abbiamo pochissime fonti. Non sentiva il
bisogno di scrivere. Poche indicazioni meramente sceniche. Stefano Bottarga scrive banalità:
attore deve essere chiaro mentre parla, pronunciare la parola in maniera netta, chiara. Attore
deve stare attento alla sonorità della parola, alla chiarezza della desinenza. Tendevano
comunque a mettersi al centro della scena, luogo della recitazione tendenzialmente era il
proscenio. Parte testuale doveva essere recitata lì, a ridosso del pubblico. Stava a sottolineare
quello che Flaminio Scala dice in maniera evidente. In che modo questi precetti possono
essere appresi? È sapere basato sull’esperienza, non sapere teorico. Grande tema che
accompagnerà la pedagogia dell’attore, l’esercizio. Tecnica non è cosa che si impara ma si
pratica, altrimenti non si possiede. Con pratica si possiede, si perfeziona, si trasforma.
Rapporto che l’attore ha con il tipo fisso, il carattere. A fine Ottocento, con la regia i
personaggi non sono più adeguabili a dei tipi fissi. L’attore nella variabilità delle sue
potenzialità espressive si mantiene fedele, ha come riferimento personaggio, appartenenza
sociale. Fascia genitoriale, dei personaggi illustri, fascia intermedia, giovanile, degli
innamorati, fascia dei servi. Ogni personaggio doveva aderire a uno di quei caratteri. Tutto
si adeguava a uno stile equiparato ad articolazione che c’era nella società. Componente
artistica aveva a che fare con disciplinamento sociale. Tipo fisso corrispondeva a caratteri,
aveva sfaccettature sociali e per ciascuna c’era un comportamento predefinito che portava
con sé tipologia di passioni che determinava variabilità del personaggio. Questa griglia
determinante, non si poteva rovesciare, dissimulare, era legata allo stile con cui si definisce
la società. Lo dice Giraldi Cinzio, in un discorso introno al comporre tragedie e commedie.
Legato a Baldassar Castiglione, società articolata in ruoli chiari. Teatro e attore adegueranno
recitazione a questi ruoli che hanno caratteristiche di azione, postura… già stabilite anche se
variabili. Questo era lo stile sociale. Idea che non si potesse recitare altro che quel carattere. Il
comportamento scenico doveva essere adeguato a quel carattere.

Lezione 10 23/03
Danno vita a un compromesso tra l’esigenza performativa dell’attore e il decorum che
l’attore doveva mantenere sulla scena. Equilibrio tra l’alto e il basso della dimensione
performativa. Attore riconosciuto nel parnaso delle arti da un punto di vista etico ed estetico.
Compromesso si fonda su alcuni punti decisivi anche in futuro, fino alla regia e al dramma
borghese. Adeguamento dello stile recitativo al sistema dei ruoli. Attore recita e si
specializza in una determinata tassonomia di caratteri (commedia regolare, tragedia) ed
etica del comportamento sociale che diventa stereotipo. L’identificazione del carattere e la
creazione del sistema dei ruoli viene incontro al modello della drammaturgia classica,
questa tipologia aveva comunque un riscontro nell’etica del comportamento sociale. Nobile,
gentiluomo, dama, servo. Non rispecchiamento ma comunque profonda consonanza. L’etica
del disciplinamento sociale tratteggia dei caratteri sociali che corrispondono a caratteri
drammaturgici. Il cortigiano definisce e delinea etica del comportamento sociale distribuito
a seconda dei caratteri. Corpo e parola disciplinati in termini sia etici che estetici (arte e
vita) ci sono corrispondenze, commedia dell’arte tematizza come produttivo. La recitazione
si adatta a questo sistema. Il secondo aspetto riguarda la tecnica della parola e del gesto.
Costante allenamento dell’attore sulla ricezione di una memoria testuale fatta di una
pluralità di testi che vengono incorporati e non semplicemente memorizzati. La novità del
rapporto recitativo che l’attore della commedia dell’arte ha con la parola è che non è
semplicemente declamata ma incorporata. Anche trasformata rispetto all’originale.
Smembrata e ricreata. Generici si basano su memoria che non è solo mentale ma memoria
del corpo. Generici masticati e restituiti. La tecnica interpretativa dell’attore diventa tecnica
che non si limita a declamare la parola ma la incorpora e la ricrea. Rispetto al gesto,
all’azione, il grande sforzo della commedia dell’arte è quello di gestire l’equilibrio tra una
componente fortemente energetica del linguaggio del corpo, fortemente sregolata fino ai
limiti della pornografia, dell’esibizione basso-mimetica del corpo e la capacità di governare
gli eccessi del corpo dentro delle forme, dei modelli, delle posture che mantenevano il
decorum. Questa capacità di disciplinare l’eccesso dentro forme che apparivano regolari è
la grande invenzione dei comici dell’arte ed è puramente tecnica. Permetteva l’introduzione
dell’eccesso ma governato dalla disciplina, dall’arte.
Il terzo elemento che caratterizza questa tecnica dell’attore della commedia dell’arte riguarda
il rapporto con le emozioni, le passioni e con l’autenticità del comportamento. È evidente che
la componente più trasgressiva della recitazione comica portava con sé un eccesso del
sentimento che si esplicitava con eccesso del corpo. Coincidenza oppositoria. Tutto ciò
implicava la verosimiglianza del comportamento attorale. Questa sintesi fino a che punto
portava a una recitazione credibile dal punto di vista dei sentimenti? Naturale e autentica?
Fino a che punto questo equilibrio riusciva a restituire sulla scena una recitazione dove il
sentimento fosse percepito come autentico, vero? Per la prima volta la credibilità è un
problema. I comici dell’arte quest’equilibrio non sempre lo ottenevano. Alternano una
recitazione patetica a dei lazzi gratuiti in cui il esibiva sesso, paragonava seni a vesciche
come salvataggio. Recitazione in cui il contrasto tra esibizione virtuosismo corporeo e
coerenza della recitazione è problematico. È quello che piaceva al pubblico. Inventavano
tecnica autonoma dell’attore ma nello stesso tempo una recitazione dove molte volte l’effetto
è di incoerenza. Si privilegiava alla fine il piacere del pubblico a scapito della coerenza della
recitazione. Altro tema spinoso è il tema della donna in scena. Da una parte la donna nella
parte dell’innamorata era chiamata a dare voce e gesto a repertorio patetico dell’emozione,
amore, corteggiamento, lamento... Il femminile emerge in tutta la sua potenza sentimentale. Il
lamento della donna abbandonata. Il registro da un lato esprimeva passioni, sentimenti,
dall’altro rischiava di essere inquadrato in una retorica della voce e del corpo che
contraddiceva l’autenticità del sentimento dentro formule che erano ripetute sempre uguali.
Questo segnerà e anticiperà la grande svolta della recitazione: quella della teoria
dell’emozionalismo che diventerà la teoria legata alla verità dei sentimenti, grande tema di
Stanislavskij. Come si fa ad essere credibili se la verità è sempre sacrificata alla retorica dei
gesti e piacere che deve suscitare nel pubblico? Come essere autentico se suo personaggio
corrisponde a ruoli e la sua arte è efficace nella misura in cui diventa virtuosismo? Come si
concilia? Riassunto per entrare nel vivo:
Riccoboni è un personaggio significativo, il suo ruolo di capocomico rientra nel sistema
recitativo della commedia dell’arte, agisce tra fine Seicento e prima stagione del Settecento.
Quando la commedia dell’arte era fenomeno diffusissimo ma altamente stereotipato.
Riccoboni da una parte è portatore di quell’eredità, dall’altra la sua statura intellettuale ed
etica professionale lo porta a voler ripensare il sistema in senso sia etico che estetico. Da una
parte per sua formazione vorrebbe riformare il teatro, ricondurlo dentro una forma
drammaturgica e performativa che rispondesse più ai canoni di una morale che secondo lui il
teatro doveva percorrere in quanto immagine della verità. (Questo è l’aspetto etico).
Aspetto estetico: Riccoboni è un lucidissimo analista e conoscitore del sistema recitativo.
Capiva la contraddizione: attori con tecnica straordinaria ma li rendeva prigionieri di una
sorta di tensione verso l’effetto scenico che impediva l’autenticità della loro recitazione,
soprattutto in termini di sentimenti. Vorrebbe un teatro che fosse efficace dal punto di vista
scenico ma anche moralizzato e riportato a una verità delle emozioni e della recitazione.
Fallisce nel suo intento. Tuttavia, il suo sforzo è significativo: permette di capire fino in
fondo il tema della verità dei sentimenti e l’emozionalismo della recitazione. Lui stesso è
prigioniero da una parte della necessità di fare spettacoli che fossero apprezzati e riconosciuti
come efficaci rispetto al pubblico. È capocomico che vive di teatro. Motivo più sottile è che
Riccoboni pensa che la soluzione risieda nel ritorno alla commedia regolare. Ritiene che la
tecnica recitativa possa essere moralizzata e riformata nella misura in cui l’attore non è più
autonomo, ma imita una drammaturgia regolare tradizionale (commedia e tragedia) e la
commedia distesa è una sicurezza perché è morale nei contenuti e nella forma in quanto
scritta da letterati e nello stesso tempo si costruisce in drammaturgie in cui la temperatura del
sentimento permette di confrontarsi con un’autenticità. È un errore: alla prova dei fatti
Riccoboni si rende conto che la drammaturgia regolare, testocentrica, non facilita l’emersione
della verità di gesti e sentimenti, ma porta a sovrastruttura: attore ancora più finto nella
recitazione. Drammaturgie stavano perdendo ogni riferimento con la realtà sociale che stava
cambiando. Parlavano di contenuti, di fatti di cui non si riusciva a comprendere l’analogo
nella vita reale.
Il primo impatto negativo ce l’ha con la tragedia. Nella sua formazione parte con l’idea di
ricostruire il tragico, vuole tornare alla produzione di tragedie costruite secondo il modello
tradizionale aristotelico sulla base dell’insegnamento francese. Si ispira a Corneille, Racine, li
traduce, li produce in Italia, ma senza successo. Anche la Merope del Maffei è un insuccesso.
Non è lì che si gioca la riforma: il pubblico non accetta il cambiamento. Non aiuta l’attore ad
essere autentico nella recitazione.
Riccoboni si sposta sulla commedia. Fa la stessa cosa che aveva pensato per la tragedia.
Abolire l’improvviso e rifondare la commedia letteraria, testo-centrica, riprendendo i padri di
primo Cinquecento, emulando queste commedie. Ha un insuccesso. Pensa che il problema
non siano commedie e tragedie ma l’Italia. Un contesto che non riesce a capire la riforma.
Propone la commedia a Parigi dopo la cacciata. Nel ‘16 ritorna a Parigi con nouvelle troupe
italienne. Spera che così potrà riproporre in Francia il teatro riformato secondo principi che
abbiamo detto. Abbiamo degli scritti che sono tra le poche testimonianze dell’arte della
recitazione di Seicento e Settecento. Dell’arte rappresentativa è trattato in versi sulla
recitazione. Da una parte demolisce l’impianto della sua stessa creatura, dal punto di vista
etico ed estetico. I canovacci della commedia dell’arte erano volgari., avevano contenuti
erotici, morbosi, licenziosi, diseducativi. I testi non scritti in maniera preventiva lasciavano
spazio a lazzi che non c’entravano con il testo ed erano interpretazioni virtuosistiche del
corpo del tutto inutili rispetto alla drammaturgia, solo per far vedere le abilità fisica.
Commedia all’improvviso deve essere abolita perché oltre ad essere volgare nei contenuti, ha
anche degli effetti scenici che per quanto piacciono rompono ogni verosimiglianza. La
drammaturgia non esiste più, si perde la trama, si perdono i contenuti e si perde la verità in
termini di trama e di sentimento. Non c’è autenticità. È però costretto a tornare sui suoi passi
perché attore che sa recitare nel sistema all’improvviso crea un’abilità corporea che
paradossalmente è naturale perché non è imitazione ma parola e gesto sono figli di un
progetto di incorporazione: sono autentici, spontanei. Se testo è memorizzato si capisce che
non è suo ma declamato e restituito. Quindi ancora più falso. È a un bivio. Montaggio di gag
volgari che non hanno nulla di profondo dal punto di vista dei contenuti. Lui lo capisce.
Tuttavia, si rende conto che gli attori in questa iperbole di gesti sono autentici perché non è
un apprendimento di qualcosa di esterno, di parola scritta ma partitura totalmente dell’autore,
autentico. Il gesto comico è autentico nella sua esagerazione. Tutto ciò lo sperimenta con
Visentini. È un Arlecchino curioso. A differenza di Biancolelli, grossolano, volgare, è esile,
minuto, atletico in un virtuosismo sottile legato alla sua fisicità nervosa. Grandi scatti ma
sempre con eleganza. Faceva acrobazie simili al predecessore. Tutta la parte acrobatica il suo
arlecchino la faceva con grazia, gentilezza tale che sembrava spontaneo, autentico e quindi
credibile. Alla luce di esperienza concreta, Riccoboni ipotizza che è necessario non tanto
ritorno a parola scritta, drammaturgia testo-centrica, anzi, questa crea distanza. Bisogna
invece riformare l’attore che deve usare capacità acquisita nell’improvvisazione ma metterla
al servizio della parola e di azioni sempre più meditate. La commedia dell’arte deve
mantenere freschezza, naturalità del gesto ma non più restringerla a capriola e lazzo, ma a
una drammaturgia più colta, in relazione allo spessore del carattere del personaggio. Teorizza
la possibilità che l’arte della recitazione all’improvviso rinunci alla pura spettacolarità e
ripensi se stessa in funzione dell’articolazione drammaturgica del testo e la specificità dei
caratteri, dei personaggi. È quello che cercherà di fare Goldoni quando nella riforma
restituisce dignità che non è solo dell’uomo, ma definisce il personaggio in tutte le sue
sfumature. È quello che fa con Mirandolina. L’attore deve usare la sua capacità incorporativa
andando ad approfondire il carattere rendendolo meno stereotipato e sempre più colto nelle
sue sfumature. Attore deve rimanere se stesso ma non più rivolgere attenzione solo a
virtuosismo dell’attività fisica ma alle sue sfumature, suoi contesti. Non più rabbia generica
ma situata in un contesto in cui emerge. Un conto è rabbia di tiranno con sete di potere, un
conto quella di Edipo per dolore della sua sciagura. Rabbia non più sentimento astratto ma
declinato nella situazione. Abilità corporea va resa sempre più specifica rispetto al carattere
che si sta interpretando. Nello stesso personaggio ci possono essere anche sentimenti
contrastanti., sue passioni non codificate a priori a seconda del suo carattere ma una cosa che
emerge di volta in volta in base alla situazione in cui il personaggio si trova. Questo poi
porterà al discorso della psicotecnica. Questo produce a cascata un’altra modifica che
Riccoboni voleva che il teatro recepisse. Situazioni sceniche sempre uguali. I lazzi per
Riccoboni: se esercizio virtuoso di essere naturale in ciò che prova, può evitare il repertorio
di gesti caratteristici del personaggio. Arlecchino sempre meno prigioniero di lazzi volgari
ma arlecchino gentile, capace di essere innamorato. Comincia a rompersi l’uniformità dei
ruoli. Mantiene qualità fisica, gestuale dell’azione che lo contraddistingue. Corteggiamento
non più quello di Martinelli che mette mano sotto la gonna ma gentile che fa dichiarazione
d’amore, sempre con posture ma adeguate alla situazione. Diventa altro da sé. Teorizza la
rottura dei confini dei ruoli. Expression naturelle: affidarsi alla naturalità indipendentemente
dal suo repertorio e dagli oggetti (arlecchino aveva un batacchio che userà sempre meno).
Basta con oggetti che sono appendici del comportamento scenico dell’attore. Voce di
Biancolelli era lo stereotipo di arlecchino, solo Visentini lo rovescia. Era diventato attributo
di arlecchino, gli altri imitavano la voce nasale: il pubblico riconosceva l’attore nel suo
ruolo. Arlecchino per Riccoboni può essere così virtuoso da poter diventare innamorato
(costruisce sempre performance partendo da lazzi e generici ma si emancipa da costruzione
che lo obbligava a immagine di sé sempre stereotipata). Stesse qualità del corpo ma usate
per dichiarazione amorosa. Recitazione francese fortemente cantilenata. Per Riccoboni si
teorizza recitazione dell’attore che pur essendo dentro i ruoli non è adeguata a codici
precostituiti, quasi alle soglie di recitazione moderna, contemporanea. Ancora una volta
problema; teorizza ma non riesce fino in fondo a realizzare. Recitazione spontanea, non
ingabbiata da ruolo ma ancora prigioniero, la generazione tutta lo sarà. Concetto di decorum
di cui si diceva: un personaggio alla fine non può mai uscire da equilibrio, moderazione che
lo caratterizza. Questo carattere è già definito a priori. Deve rompere la retorica dei gesti e dei
sentimenti che di solito usava in maniera stereotipata. Deve adeguarla alle situazioni, ma
adeguamento non può superare una certa soglia. Re non può apparire sulla scena sconcio,
volgare, non è nel suo decorum, non solo artistico ma sociale. Non si può rappresentare come
servo. Contraddice stereotipo artistico e sociale. Innamorata non potrà mai rinunciare alla sua
modestia, esibire corteggiamento volgare: contraddice l’idea di donna, fanciulla innamorata
che sta dentro al decorum sociale. Allo stesso modo servo potrà quasi emanciparsi e usare
gesti che usa per capriole per essere qualcosa di diverso, deve riportare a burla, suo ruolo, suo
stereotipo. Eleganza scenica: non si può rompere in termini di decorum una bellezza che non
necessariamente equivale alla realtà (anche per servo) impossibile rompere questo sistema.
Riccoboni dice che re non potrà mai abbassarsi, sempre eleganza nel suo porsi anche se
corrotto. Retorica, eredità latina si impone: non si arriva mai a una vera naturalità dei
sentimenti. Grande problema che caratterizzerà la storia del teatro fino all’epilogo del grande
attore. Formula generica che include anche tipologie attorali diverse tra loro: grande attore è
epilogo, massima espressione di stile recitativo che nasce nella commedia dell’arte e si
sclerotizza per parti e ruoli. Attore che esprime se stesso totalmente dentro un ruolo e in
questo riassume tutte le parti che può portare in scena. Testi, gesti, repertorio che per quanto
mutino, non riescono mai ad attingere totalmente all’expression naturelle. Il grande attore
sarà la chiave di volta di tutto questo. Rappresenta la punta più elevata della specializzazione
degli attori. Pensa a Tommaso Salvini. Il contrario di quello che Stanislavskij ipotizza ma che
è così potente che Stanislavskij è sbalordito quando vede Otello a Mosca. Dizionari delle
pose sceniche: repertori di gesti che corrispondevano a sistema delle passioni legate a un
ruolo. Rabbia: nella variabilità delle posture stava comunque sempre dentro a quella regola.
Attore non poteva uscire da questo sistema ma poteva colorare i gesti in modo diverso: attori
più freddi, più caldi, più classicisti, più romantici. Differenze nel modo di restituire oscillano
tra romantico (Ernesto Rossi) e classicista (Salvini). Si esce però da questa situazione solo
quando cambia sistema drammaturgico, con il dramma borghese. Attore non ha più appigli
per entrare nel personaggio e c’è un regista per cui l’attore non è più autonomo nel processo.
Tecnica non più tutta sua, diventa pedagogia che deve essere insegnata da qualcuno: regista.
Cambiano le linee, crolla uno dei sistemi della prassi del grande attore; sistema dei figli
d’arte. Si trasmetteva per imitazione. Figli d’arte avevano bisogno solo di arte, sistema di
parti e ruoli tramandati da anziani. Non basta più con la pedagogia. Non basta solo più
tecnica, repertorio attorale, non c’è più grande autonomia, ma serve figura terza: pedagogo.
Va in crisi anche la tecnica in quanto tecnica. Prima era qualcosa che si apprendeva e basta.
Poi non solo più regole da apprendere ma è chiamata in causa la sensibilità personale. Attore
inizia ad essere protagonista del processo creativo in quanto uomo. Stanislavskij lavoro
dell’attore su se stesso in quanto uomo. Tecnica non più qualcosa di predefinito che incorpori
ma insieme di nozioni che permettono all’attore di acquisire una sua sensibilità. Nessuno
uguale all’altro. Attore autore ma perché c’è un lavoro che lo implica come uomo. Serve a
migliorare l’attore o la persona? Così toccato da arte della recitazione che la sua è
maturazione anche umana: Grotowski, arte non più fine a se stessa ma arte come veicolo.
Quando arte dell’attore non basta più a se stessa, perde autonomia per parti e ruoli. Rovescia
le carte in tavola.

Lezione 11 28/03
Alle soglie della stagione ottocentesca, epoca del grande attore. È un momento topico nella
storia della recitazione perché il grande attore costituisce l’esempio più compiuto e portato
agli eccessi di sistema recitativo teatrale inaugurato nella commedia dell’arte e sclerotizzato
nella stagione settecentesca. Il modello del grande attore porta alle estreme conseguenze
quello stile recitativo, lo afferma come stile per eccellenza della recitazione anche per la
fortuna di attori italiani a livello internazionale (scenario anche oltre oceano, nelle due
Americhe). Segna anche la fine, la crisi profonda di quello stile recitativo. Questo modello si
afferma come quello più presente e diffuso che porta agli eccessi lo stile recitativo. Emergono
delle crepe che porteranno alla rivoluzione registica e pedagogica del primo Novecento.
Alcune modalità antagoniste rispetto allo stile dominante del grande attore ci saranno già in
quel periodo. Avremo attori che appartengono a questo modello ma nella pratica
contraddicono: Gustavo Modena, eccezione nel panorama del grande attore italiano,
ripensamento della recitazione e del ruolo dell’attore non solo in senso estetico ma anche
politico. La riforma di inizio Novecento ha degli antecedenti, alcuni sono già dentro il
modello del grande attore. Stile che in Italia durerà anche per tutto il Novecento. Il modello
del grande attore è così pervasivo che gli esiti dureranno anche quando si entrerà nel periodo
della riforma pedagogica, soprattutto in Italia, dominata da questo almeno fino alla guerra.
Durerà fino a Proietti, Gassman, Bene per certi aspetti. Appartengono a quella generazione.
Durata anche quando si impone un modello diverso. I grandi maestri della riforma
novecentesca, pedagoghi che sovvertono quel modello, ne sono stregati e compiaciuti.
Risulterà chiaro_ Stanislavskij pensa alla riforma, ne delinea i presupposti dopo aver visto in
scena l’Otello di Salvini. Uno degli attori mattatori. Da lì inizia a ripensare l’arte dell’attore.
Non solo a livello italiano ma anche a livello europeo, accade quello che già nei comici
dell’arte era misurato: diventa vera e propria industria, esce dalla misura artigianale, dalla
nicchia e diventa industria a tutti gli effetti, più di qualsiasi altra arte, si afferma il primato
dello spettacolo. Della replica, della recita, della tournée. Lo spettacolo come prodotto
industriale che si genera e produce secondo meccanismo della domanda e dell’offerta che
regola il meccanismo. Creerà alleanza con la borghesia e sistema capitalistico moderno. Si
afferma lo spettacolo come industria del divertimento. Il rapporto tra domanda e offerta è
vincolato a questo tipo di richiesta. Diffuso in maniera capillare su tutto il territorio, prevede
proliferazione di compagnie. Fatto professionistico e quindi industriale. Ensamble di attori
che si uniscono per creare associazione produttiva di spettacoli. È un unicum nel sistema
delle arti la compagnia. Artisti che si uniscono in una struttura che non ha solo ambizione
artistica ma produttiva. Non alleanza estetica, ma compagnia e vincolo che li lega è
produttivo, industriale, arte intesa come artigianato. Questo è già chiarissimo per i comici
dell’arte ma nel corso del Settecento e soprattutto dell’Ottocento diventa sistemico. La
compagnia è la cellula produttiva dell’industria dello spettacolo ed è fatta da attori. Segna il
primato dello spettacolo sul testo, sull’autorialità drammaturgica, perché autore è in
compagnia ed è marginale, serve all’industria, fornisce testi che devono essere ripensati dalla
compagnia, veicolo fondamentale del sistema dello spettacolo. È tassello cruciale, farà sì che
il modello drammaturgico, testo-centrico e il principio di autorialità, che per tanti anni è stato
tassello determinante, è subordinato alla funzione produttiva. È funzionale all’industria e
quindi tende a replicarsi, a non essere evolutivo. È repertorio sclerotizzato di drammi che non
evolvono, si perpetuano sempre uguali a se stessi. Shakespeare, Goldoni nel repertorio,
qualche italiano minore, francesi, che a sua volta teatro si era sclerotizzato nella produzione
di tragedie e commedie. Non c’è ricambio generazionale, attenzione alle nuove
drammaturgie. Non interessa una riflessione estetica. L’industria dello spettacolo produce
oggetti di consumo. Domanda del pubblico. Bisogna rispondere, se chiede Goldoni gli si dà
Goldoni. Che ci siano i testi è importante ma sono completamente impostati secondo
stereotipo dei classici o attore coevo preso non per la sua originalità ma perché si presenta
dentro quello schema e quindi è riconosciuto dal pubblico. Intrattenimento che produce una
macchina industriale che raggiunge i suoi massimi livelli produttivi. Le compagnie si
diversificano perché è alta la domanda. Compagnie di primo piano, di giro, si affermano
come quelle più quotate e poi compagnie più territoriali che si disputano le piazze minori.
Teatri: come prolifera il sistema capitalistico basato su domanda-offerta, altrettanto
proliferano i luoghi in cui gli spettacoli verranno realizzati. Tra Settecento e Ottocento c’è
incremento smisurato di teatri costruiti secondo modello del teatro all’italiana (come
Fraschini). Anche piccoli paesi si dotano di teatro. Incremento tra anni 40 ottocento e anni 90.
Centro di periferia più piccoli si dotano di teatri grazie a intervento dei soci: teatro sociale.
Soci erano le persone più abbienti della città appartenenti a borghesia capitalistica che si
mettevano insieme affinché la città avesse il suo teatro, luogo di rappresentanza e di
rappresentazione. Paesi minori hanno teatri straordinari. Anche la periferia culturale trova
segno di riconoscibilità. Si genera un circolo produttivo economico ferreo tra compagnia,
tournee e spazi, luoghi. L’itineranza recitativa è il dispositivo dell’industria dello spettacolo.
Ha due momenti, uno produttivo e uno di fruizione del prodotto che passa attraverso la
tournée, vuol dire non tanto come oggi siamo abituati, repliche qui e là ma itineranza
capillare che batte tutte le città. Le più grandi compagnie saranno richieste da città importanti,
secondo modello industriale. 160/170 repliche all’anno, anche di più come sistema
produttivo, quindi per anni. Rimanendo più in alcune città e meno in altre. In Italia e per i più
affermati in Europa. Tutto questo crea un secondo elemento cruciale, della macchina
organizzativa. Lo spettacolo, dal momento in cui si afferma come industria, richiede una cosa
che le altre arti hanno molto meno, l’organizzazione. Questo sistema necessita che il prodotto
sia distribuito con efficacia secondo il modello viaggiante da un posto all’altro con tutto
quello che comporta, una macchina organizzativa. Questo sposta il baricentro del teatro
rispetto alle altre arti. Sempre di più il teatro non è qualcosa che ha a che fare con l’arte in
termini squisitamente estetici ma come produzione, come industria. La figura fondamentale
ancora oggi, dell’organizzatore teatrale, è cruciale. È quello che ha in mano la gestione della
compagnia, amministratore. Gestisce gli spostamenti, seleziona le piazze. Figura che si
afferma già in maniera evidente nell’Ottocento, non è figura contemporanea, siamo in
un’industria, non un’arte fine a se stessa. Coincide con la figura dell’impresario, del
capocomico, attore più importante della compagnia che si sobbarca l’onere organizzativo ma
anche la ricaduta economica. È l’attore che domina gli altri, anche dal punto di vista dei
contributi che riceve. Oppure è figura esterna, dell’impresario, che convoca la compagnia.
Cambia attore che non funziona, determina le piazze. La figura dell’impresario o capocomico
costituisce il tassello fondamentale, colloca in campo industriale, non in campo artistico.
Capocomico si prende il faticoso onere organizzativo. Diventa figura fondamentale e si
capisce se si pensa al teatro come industria. Una compagnia di giro, (oggi in repertorio hanno
uno o due spettacoli in una stagione), nell’Ottocento, quando partiva con la tournée aveva
10/15 spettacoli in repertorio sempre per discorso antiartistico di domanda e offerta. Doveva
avere almeno 3 commedie efficaci, poi tre tragedie di cui due classiche, tipo shakespeare o
greca e contemporaneo. Le farse, intrattenimenti teatrali a matrice comico-grottesca per
intrattenere il pubblico. A seconda della città in cui andavi davi una cosa o l’altra. Pubblico
medio: commedia. Non era scelta con criteri estetici ma produttivi, industriali, si sceglieva
quello che funzionava. Attualmente se metti spettacoli di autori che vengono da Zelig,
funzionano. Questo criterio di impostare la programmazione di un teatro su questa base è
funzionale. Oltre a giro della compagnia c’è l’impresario che gestisce il teatro. Compagnie
spesso non attore solista ma essendo attori per parti e ruoli ci dovevano essere almeno 3 o 4
ruoli principali. Alcuni erano comparse, ma erano comunque in compagnia, anche se con
ruolo minore. È fondamentale, altrimenti si perde di vista perché l’attore matura un certo tipo
di recitazione. L’attore di prosa doveva competere sempre anche con l’altro grande prodotto
spettacolare di successo: opera lirica, spesso anche in forma ridotta per i teatri più piccoli. La
competizione tra teatro lirico e di prosa inizia ad essere determinante, si contendono le
piazze. Se non si capisce l’industria non si arriva a comprendere il sistema per parti e ruoli. Si
sclerotizza. L’attore si specializza nei due generi dominanti: tragedia e commedia, repertorio
della compagnia. Classici Shakespeare, goldoni ed eventualmente autore minore, innovativo.
Necessariamente le parti sono quelle di drammaturgie. Sulla base di questo i ruoli si
precisano. La base di questo sono sempre i comici dell’arte ma non è più il teatro delle
maschere, Pantalone, anziani, amanti, ma amplificazione del repertorio tragico e comico. I
ruoli dominanti del capocomico o primo attore, che si attribuivano a nobili (re, regine o padre
madre nobile). Lì si esibiva il grande attore perché era prevista la figura dell’eroe, re, regina o
più giovani amorosi. Poi stuolo di servi e serve non più rigidamente identificati con Zanni ma
fasce che rappresentano figure di appoggio. Possono essere anche figure di contorno che
facilitano lo sviluppo della drammaturgia. Ruoli sempre più netti e legati alla cristallizzazione
dei generi. Se ho Shakespeare inevitabilmente il primo attore è re o regina, se ho Goldoni
altra fascia comica ma dove si intravedono padre nobile, morosi, servi. L’attore si specializza
in quello, alcuni, secondo l’evoluzione della carriera passano da un ruolo a un altro, alcuni
hanno più ruoli ma di fatto la gerarchia è questa, questo tipo di specializzazione del ruolo, la
compagnia a volte lo perpetua con il modello dei figli d’arte. È industria, ha le modalità del
capitalismo e quindi funziona per eredità familiare. Compagnia viene portata avanti dai figli e
dai nipoti, legittimi o adottati. Figlio: erede, d’arte: creato dall’industria, non deve essere per
forza figliolanza reale.
Che rapporto c’è tra il testo sclerotizzato in generi sempre uguali a se stessi e spettacolo?
Abbiamo la definizione del modello del grande attore. Drammoni francesi, cavalli di battaglia
goldoniani, Ristori, pazza di Tolone di Le Fevre, Dumas, Maria stuarda, Francesca da rimini.
Predominanza della drammaturgia francese. L’attenzione produttiva si concentra su una
figura (grande attore), o due. Efficacia si concentra sulla fascinazione del grande attore. Il
modello recitativo tende a concentrarsi su una sola figura. Uno o due avevano in mano lo
spettacolo, tutta la recitazione gravava su di loro, i testi venivano manipolati in funzione di
questo principio. I cosiddetti autori di repertorio alla fine non erano rispettati nella loro
autonomia di autori, c’erano pezzi di goldoni isolati perché funzionali all’esibizione del
grande attore, tutto doveva ruotare intorno alla sua bravura, alla sua fascinazione. Grande
attore era tale perché gratificava il pubblico, lo affascinava portandolo in una dimensione
recitativa basata sulla retorica d’eccesso delle passioni, l’eroismo portato alle estreme
conseguenze e passionalità allo stato puro che corrispondeva all’esagerazione romantica che
stava dentro alla cultura del periodo, il grande attore era tale perché toccava il sublime,
l’ideale. Si faceva veicolo di insieme di passioni che facevano del protagonista l’eroe.
Sistema basato sull’amplificazione dei sentimenti: amplificazione dei gesti. Termine dallo
spagnolo Matador. Mattatore, incanta il toro. Lo domina. Capacità fascinatoria legata alla
retorica del sublime innervata dall’eccesso delle passioni. Tutto centrato sul grande attore per
cui lo spettacolo era individuale. Il grande attore si individualizzava lasciando il resto della
scena dietro di sé e aveva come luogo privilegiato il proscenio. Parte del palco aggettante sul
pubblico. Per le grandi attrici si parla delle donne mondiali, come la Ristori, riassume la
passione femminile nel senso più alto. Giganti buoni, eroi portati alle estreme conseguenze
(Salvini). Passione amorosa, retorica che stava dentro a una drammaturgia basata sull’irrealtà.
Potevi farlo solo con personaggi che incarnavano tutto questo. Se lavoravi su ruolo non
quotidiano ma separato dalla vita. Identificava figura, contesto estraneo dalla quotidianità
come re o regina. Ruolo così distante dalla quotidianità delle relazioni da diventare uno
stereotipo, un simbolo, un ideale. La drammaturgia non importa più per quello che dice, per i
contenuti, ma figure eroiche in un mondo fittizio. Potevano stare in una sublimità del ruolo
totalmente avulso dalla realtà. Facendo Macbeth o Amleto, potevi caricare il personaggio di
una enfasi passionale, gestuale, vocale. Quel ruolo non corrispondeva a personaggio che
intercettavi nella quotidianità ma era incastonato in una scena, in un’architettura che lo
rendeva altro, lo poneva su piano ideale, separato dalla realtà. In realtà è tradimento del testo.
In Shakespeare problematizzati i personaggi in un contesto storico, critico, sentimentale,
psicologico. Introspezione, psicologia li rende unici. Complessi. Macbeth lotta tra ego
smisurato e sentimento di colpa alimentato da rapporto erotico-morboso con la moglie. Era
un tiranno e come tale, essendo crudele, poteva essere amplificato nella recitazione,
innestando elementi che avevano a che fare con la crudeltà dei comportamenti. Bisognava
allora solo prendere le parti del Macbeth in cui questo si evidenziava, erano, nel Macbeth, le
cosiddette parti scarnate. Amleto è testo complesso, difficilmente definibile. Ha
contestualizzazione storica molto forte. C’è un problema di tipo politico. Norvegia che vuole
dichiarare guerra… Ma viene tolto. Si parte con Amleto che ha la visione dello spettro del
padre. Su questa base si formano attori che in schemi fissi fanno emergere forza straordinaria.
Adelaide Ristori attrice più significativa prima della Duse, madrina di una delle future
protagoniste, famoso lo scontro che ebbe con antagonista francese Reinhart. Spesso vittoriosa
proprio a Parigi per il suo Pathos recitativo. Nasce nel 1822, muore nel 1906. Apprendistato
di giro, figlia d’arte, conosce Gustavo Modena anche se poi si distingue dal suo modello.
Raggiunge ruolo di prima attrice in compagnia Mascherpa. Qualità recitativa consisteva nella
sua specializzazione nei ruoli tragici. L’eroe tragico nella sua astrazione dalla realtà
diventava un condensato di passioni che sta nella struttura del tragico. Si basa su due
elementi: quello della passione e dell’emozionalismo e nella capacità di immedesimarsi. Già
nell’ars oratoria, non idea che personaggio ritrova nelle proprie emozioni delle attitudini
affini a quelle del personaggio (Stanislavskij). Essere capace di comprendere qual è il tipo del
personaggio da recitare, la casella dove inserirlo dal punto di vista del ruolo individuare le
sue attitudini e caricarle di sentimento, in linea con attitudine trovata. Lady Macbeth:
crudeltà, metti tutte le capacità passionali, emotive dentro quella linea portando la passione
alle estreme conseguenze. Ristori era regina in questo. Memorie: autobiografia. Capolavoro
immortale in grado di evidenziare un insieme di passioni non specifiche del personaggio ma
universali. Personaggio serve all’attore per far emergere le passioni che lo dominano. Gonfia
lo studio, dice che studia un personaggio nel dettaglio lo contestualizza per dedurre qual è la
passione eroica, mai specifica ma generica, che sintetizza tutto. Mansueta e terribile, sono
amplificazioni in un senso e nell’altro mentre per Stanislavskij il livello dell’attore è il livello
medio. Bisogna trovare intimità del personaggio per renderlo sulla scena. Mentre la Ristori
cerca doppio registro. Esce di scena prostrata perché dà tutto quello che serve a portare quella
passione all’estremo. Non immedesimazione moderna, naturalistica. Prendi ruolo di madre
nobile, non va nel dettaglio, identifica la passione forte: il dolore straziante della morte che è
spersonalizzato rispetto allo specifico del personaggio. Carica sé stessa di quel sentimento ma
è stereotipato, va bene per tutte le madri che perdono figli. Stereotipo sublimato e gonfiato.
Questo le provocava commozione vera. Pubblico immenso, spesso spettacolo en plein air,
non hanno supporto degli effetti illuministici, suscitare la passione stava tutto nella bravura
dell’attore. Non mette in dubbio che sia anche un lavoro su se stessa ma mai nella direzione
del naturalismo che restituisce se stessi e i personaggi sullo stesso piano, ma sempre
nell’ambito della retorica del gesto. Attrice neanche più se stessa, diventava tutt’uno con
quello che incarnava. Siamo nella dimensione dell’attore posseduto. La passione dominava.
Critico cerca di ritagliare un elemento fisico della recitazione, gli occhi, che diventavano
capaci di risvegliare un umore. Capacità tale di lavorare con dilatazione occhi, sopracciglia al
punto che occhio era catalizzatore, discorso prestigiativo, lo sguardo diventava potente,
convogliava energia. Attrice poteva veicolarla avendo nel suo bagaglio una passione
smisurata. Gradazione del tono di voce sublime ma sentimento portato all’estremo. Gioia o
terrore, mai sentimenti medi. Pose sceniche mai del tutto attendibili. Foto di posa o di scena?
Corpo equilibrato, sostenuto lungo la colonna vertebrale. Nulla di naturalistico perché il
corpo doveva adattarsi a retorica esasperata della passione. Ruoli mai riconoscibili come
quotidiani: re e regina non potevano comportarsi se non secondo una retorica del gesto. Non
potevi cogliere l’essenza perché gesti disciplinati secondo l’ordine sociale.

Lezione 12
Ristori, testimonianze che abbiamo di lei sono fonti indirette, fotografie, immagini, resoconti
di critici, con paradigma del grande attore. La Ristori appare come una delle grandi
protagoniste della stagione attorale nella misura in cui la sua eccellenza recitativa è conforme
a struttura che avevamo delineato, in rapporto a generi teatrali di cui la Ristori si fa interprete.
Il tragico si condensa nella figura dell’eroe. Dentro la drammaturgia tragica portiamo alle
estreme conseguenze l’ampio spettro delle passioni. La Ristori le restituisce in tutta la loro
forza. Si adattano a un tipo fisso, carattere che non ha riconoscibilità immediata nella vita
sociale e quindi può essere enfatizzato. Alimentate passioni portate all’eccesso e
sovradimensionate. Ristori parla di se stessa e di lavoro di attrice nei termini
dell’immedesimazione. Non è un rapporto personale, introspettivo, empatico con un
personaggio che è come interlocutore reale, ma è incarnazione delle passioni in una forma
che nella sua astrazione, visto che è tipo fisso, ingigantisce e pone le passioni in un piano di
assoluto dominio ed esagerazione. Corporeità, occhi languidi, posture che si adattano a
carattere che nell’immedesimazione è carattere astratto.
Ernesto Rossi è uno dei più grandi attori insieme a Salvini, nell’Ottocento. Allievo di
Gustavo Modena, rispetto a controtendenza recitativa che si contrappone a modelli di cui
stiamo parlando e di cui Modena è animatore. Rossi è corrispettivo maschile della Ristori,
attore tragico delle compagnie teatrali. Vasta gamma di ruoli. Il suo successo, la sua fama
nasce e si afferma proprio dentro i ruoli tragici. Rossi diventa celeberrimo nel repertorio
Shakespeariano. Non si intende la sua complessità drammaturgica, non drammaturgia
shakespeariana nella sua interezza ma rapporto tra attore e testo per cui è smembrato, adattato
al protagonismo dell’attore. Non rapporto registico di Stanislavskij che coglie la complessità.
Per Rossi sono Amleto, Otello e Macbeth, riscrittura scenica solo attraverso l’emersione
dell’eroe, protagonista entro cui si sviluppa la performance attorica di Rossi. Porta in scena
Shakespeare riducendolo a drammi che si adattano allo stile recitativo di Rossi. Traduce sulla
scena i suoi protagonisti, furore, violenza di Macbeth ancora una volta come per la Ristori,
qualità di Rossi si esprime nella capacità di portare all’estremo passioni che si addicono a
ciascuno di questi ruoli. Elemento distintivo rimane il medesimo. Rossi sulla scena è eroe
tragico, porta alle estreme conseguenze tutte le passioni dell’eroismo tragico. Il registro è
sempre ideale, sublime, esasperato. In Otello però vena più legata a gelosia, Amleto
malinconia, Macbeth tensione omicida. Mantenevano lo stesso registro passionale, come
grado di alterazione, fortemente enfatico, idealizzato, teso all’estremo, poi, a seconda del
personaggio, tensione recitativa prendeva delle sfumature diverse che nel caso di Rossi si
vedono bene nei personaggi shakespeariani. Non grandi riferimenti a Rossi. Abbiamo
immagine dell’Amleto, poco fedele rispetto alla recitazione, non tanto colto in scena ma in
una posa figurativa.
L’antagonista di Rossi nell’Ottocento italiano è altro grande attore che ispirerà Shakespeare,
Tommaso Salvini. Nasce nel 27 e muore nell’86. Stagione romantica, è campione della
passione romantica applicata a registro tragico. Muore nel 15, anche lui figlio d’arte di
Gustavo Modena, entrambi non riescono a ereditare in pieno l’eccentricità della pedagogia di
Modena e il suo modo di percepire il teatro. Modena eccentrico anche per idee politiche,
libertario, mazziniano, legato al risorgimento italiano. Idea di teatro politico confliggeva con
industria del teatro. È motivo per cui poi i suoi allievi si distanziano da lui. Sono i due poli
della recitazione ottocentesca, entrambi con lo stesso ragionamento. Anche Salvini fa propria
la stereotipia dei ruoli, nessuna differenza con Rossi, per il successo privilegia le parti
tragiche, gamma di ruoli e parti che hanno a che fare con la dimensione eroica, sacrificale
della tragedia. Attinge a mani basse dal repertorio shakespeariano. A differenza di Rossi,
Salvini lavora sui ruoli privilegiando invece che l’esasperazione passionale, la tensione
romantica, l’equilibrio neoclassico e quindi un certo temperamento delle passioni. Rossi era
un attore caldo, Salvini un attore freddo. Tutti e due stesso atteggiamento, stesso repertorio
ma Rossi enfatizza esasperazione dei ruoli. Salvini pur mantenendo l’ideale romantico, la
passione eroica dei personaggi, li contiene in una gabbia fisica ed emotiva, più
classicheggiante e armonica, meno squilibrata nella gestione del ruolo. Non c’è eccesso di
Rossi ma misura, contenimento delle passioni. Stile recitativo non è mai in eccesso,
scoordinato, fuori controllo, ma estremamente armonico, pulito. Duplice atteggiamento, fa
emergere elemento che appartiene alla stagione romantica, è quello del neoclassicismo. Il
romanticismo non è solo Sturm und drang, esasperazione smisurata delle passioni, sentimenti
selvaggi, ma c’è anche tutta la parte neoclassica. Stagione delle scoperte archeologiche,
Winckelmann, armonia velata di romanticismo, ma sempre dentro un ideale di misura che
appartiene a questo stile, della riscoperta della grecità, che Nietzsche concilierà nei due volti
di Dioniso e Apollo. Postura attorale di Salvini è di naturalità perduta, primordiale,
fortemente primordiale ma mai fuori misura. Sempre equilibrio. Rossi aveva come cavalli di
battaglia Amleto e Macbeth. Quello di Salvini è il celeberrimo Otello che Stanislavskij vedrà
a Mosca. Salvini, rispetto a Rossi, ponendosi nei confronti delle passioni con uno stile
classico più che romantico, ottiene una recitazione più misurata, più verosimile, naturalistica,
non perché andasse in quella direzione ma perché il temperamento romantico dei suoi
personaggi, avendo disposizione fisica più misurata aveva eco di verosimiglianza che per
Stanislavskij si accende quando sta lavorando a riforma della pedagogia teatrale. Dal punto di
vista dell’allenamento si traduceva nella preparazione prima dello spettacolo. Prima di andare
in scena processo di immedesimazione. Aspetti fisici e psicofisici che alimentavano principio
di verosimiglianza che poi sarà preso da Stanislavskij. Descrizione di Salvini. Al di là delle
parole ridondanti, aggettivi fanno emergere che lui fa ciò che vuole, per la recitazione è
fondamentale ed è la grande preoccupazione di Stanislavskij, l’attore è sempre presente a se
stesso, la grandezza recitativa sta nella padronanza del suo personaggio. In Rossi forse
sembrava meno. Attore dentro a ciò che faceva perché faceva ciò che voleva. Grandezza di
Salvini che emerge in queste parole. Occupa tutto l’animo dello spettatore. Non totalmente
anticipatore dell’attore moderno stanislavskijano, non restituiva mai un’immagine quotidiana,
verosimile in termini di personaggio, c’era sempre una distanza eroica, che riconosciamo.
Presente a se stesso in modo naturale, fortemente limitato dal fatto che sulla scena
rappresentava degli eroi, delle figure stereotipate. La parola intenzione è magica per il teatro,
l’attore per essere presente a se stesso deve essere continuamente motivato nell’intenzione,
nel tradurre in azione la parola, il pensiero, l’immagine del personaggio, volere ciò che si fa.
Non psicologismo alla Stanislavskij ma psicologismo che restituisce sempre un eroe. Posa da
ritrattistica ma sguardo interessante, occhio. Capacità di sollecitare l’occhio come veicolo
della passione, già nella Ristori, occhio non solo vigile ma fortemente amplificato.
Sopracciglia che si arcuano.
Figura di Salvini nella parte di Otello, trucco perché moro. Preparazione lentissima. Costume,
sulla scena figure che trasportavano in un mondo totalmente astratto. Ci fa capire quanto è
stato stravolgente il dramma borghese. Il tutto si strutturava in un mondo possibile totalmente
astratto. C’era molto di finto, struttura effimera che portava in un’evasione dal mondo, anche
in maniera del tutto inverosimile. Sale del trono, alcune più all’antica, altri più moderni ma
invenzioni sceniche sempre fittizie. Parametri portavano la scena a evidenziare mondo
totalmente altro, artefatto.

Giovanni Emanuel
Più giovane, nasce alla fine degli anni ‘40, muore nel 1902. È interessante (come Giacinta
Pezzana), perché pur rimanendo nello stereotipo dell’attore per parti e ruoli, l’astrazione del
personaggio e la retoricità, Emanuel compie passi più marcati verso la recitazione naturalista
ereditando l’insegnamento di Modena, siamo in vicinanza anche cronologica al naturalismo.
Emanuel si pone in maniera netta contro gli eccessi della recitazione. Non erano tutti Rossi e
Salvini, non tutti di quella statura, la stragrande maggioranza, mercato amplissimo,
compagnie smisurate. A fronte di una tecnica, di una raffinatezza come Rossi e Salvini, gli
attori mediocri, finivano per fare un’esasperazione grottesca. Squilibrio eroico-passionale.
Contro questa esagerazione si scaglia Emanuel che rifiuta la retorica romantica delle passioni,
il barocchismo. Tutto questo cadeva sul gesto, sull’azione fisica ma anche sulla voce,
possente, rischiava di diventare artefatta, sguaiata in attori mediocri. Contro questa
inverosimiglianza dell’attitudine recitativa, si scaglia. La poesia di un carattere sta nel
semplice, il sublime dell’arte è la semplicità. Per Emanuel semplice è il contrario della
sovrabbondanza recitativa dei suoi attori antagonisti, esasperazione dell’attore mattatore,
ridimensionamento radicale, carattere per quello che è anche se la ricerca dell’attore è sempre
nella dimensione del sublime. Ha sempre idea che attore sulla scena tende al sublime, alla
trasposizione del carattere in una sorta di ruolo artefatto, astratto. Bisogna farlo mantenendo
una recitazione semplice, più aderente alla verità. Rossi il vero romantico, Salvini il vero
classico, lui il vero semplice e naturale. Qualche via: una è quella del testo. Emanuel evoca
un ritorno al testo, la necessità di riportare il personaggio al contesto drammaturgico di
riferimento, non farlo diventare subito eroe estrapolato, ma ricondurlo all’autorità del
drammaturgo. L’attore deve essere aderente a quell’eroe ma dentro alla complessità del testo.
Strabuzzamento degli occhi, esasperazione dello sguardo. Anche in Emanuel c’era
esasperazione, una recitazione enfatica non stonava dentro quell’astrazione e finzione scenica
che aveva il teatro dell’Ottocento. Gli attori devono essere sempre veristi. Non si deve
uniformare, incasellare il testo dentro parametri stereotipati che il genere stesso individua,
non è importante che attore sia romantico, idealista, classico, la sua recitazione deve sempre
direzionarsi verso il vero, altrimenti è barocchismo. Fa un parallelo interessante. Quando un
attore deve approcciarsi all’Oreste non deve incasellarlo subito nel genere che gli appartiene,
tragedia, porlo nella stereotipizzazione dei ruoli. Non equiparare la recitazione al genere ma
recitarlo come Armando della Signora delle camelie, ossia testo che non ha nulla del tragico
classico, anzi è personaggio borghese, quotidiano da un certo punto di vista. Passaggio
fondamentale perché ci dice che l’attore deve emanciparsi dai ruoli. Anche se i primi a
sclerotizzare questa cosa erano stati gli attori, non viceversa. Emanuel dice il contrario,
bisogna uscire da questo vincolo, gabbia, inserendosi non tanto in un personaggio ma un
ruolo. Il tragico si recita come si reciterebbe il quotidiano. Ammorbidisci la durezza
alfieriana, togli il personaggio dalla patina che aveva essendo attribuito a un ruolo.
Elementi comuni in tutti quelli analizzati, tranne Emanuel che tenta strada ma comunque
sempre prigioniero, tensione eroica c’è sempre. Concretamente com’erano in scena? Non ci
sono testimonianze ma due repertori interessanti. Attore ha tecnica, possono.
Cominciano a diffondersi, essendo l’industria dello spettacolo così sviluppata, circolano
manuali, scuole. Manuale aiuta a comprendere lo stile recitativo. Uno di quelli più
interessanti Morrocchesi. Lezioni di declamazione. Primissima generazione, prima di Salvini
e Rossi, anche lui lavora sul repertorio tragico, su Shakespeare, si cimenta anche con tragedie
alfieriane. Repertorio struttura fissa con cavalli di battaglia che si ripetono uguali e il nuovo,
tragedia contemporanea (Alfieri). È stato anche insegnante, pubblica le lezioni nel 1832.
Trattato. In appendice ritrae una serie di figurine di attori mentre recitano e declamano dei
versi. Plico di stampe ripiegate dove l’attore viene disegnato nella posa scenica che
corrisponde a declamazione di un verso che descrive sentimento. Dice com’erano in scena
questi personaggi. Mostra gamma di gesti e posture che rappresentavano il sublime recitativo
innervato dai sentimenti e dalla passione.
Ti plachi il mio dolore È verso enfatico, sovradimensionato, postura con mani giunte, segno
di implorazione, viso leggermente piegato, occhio verso l’alto come preghiera, lamento.
Affinità con l’iconografia dei dipinti. Movimento non del tutto naturale, restituisce
l’iconografia del sentimento.
Morrete anime ree Postura del tiranno, dove non c’è nulla di naturale ma attenzione a una
retorica del gesto per cui rabbia e violenza della parola sono testimoniati da pugno stretto,
articolazione del braccio in tensione. Nobiltà regale. Verso: morirete anime ree, in bocca a
uno desideroso di uccidere non avrebbe questa postura ma la regalità doveva essere espressa
così. A identificare la rabbia c’è pugno chiuso, tensione del braccio.
Giovane a fianco dell’aguzzino, in trono mi siede a lato, orrore ma non assume una
declinazione fisica, naturalistica ma postura fortemente retoricizzata, atteggiamento, gesto, da
una parte indica con il braccio destro, è retorico, dall’altra parte scherma, non vuol vedere,
ma è altamente enfatica, lontana dalla verosimiglianza naturalistica. Il tutto aiutato anche da
costume neoclassico.
Qui si trascini a forza. Tutti altolocati, siamo nell’universo di re, regine, principesse. Postura
nobile, eroica, supportata da alternanza tra braccio che indica e uno che rafforza la postura
mettendo il braccio al fianco. Posizione del dominio, della forza. Non c’è nulla di verosimile
ma retorica straordinaria.
Carlo, ah! Si fugga, c’è trasposizione retorica del bisogno di fuggire, una parte del corpo va,
l’altra ferma, fissa, contraddice. Corpo fortemente piantato a terra, è nobile, contenuta.
Immagini in stile greco, con toghe. Inique stelle, maledizione, fato. È una rabbia governata da
una parte da armonia, equilibrio, ideale corporeo, ma a contraddire decoro e nobiltà sono le
braccia tese con il pugno. La rabbia è condensata in un elemento della postura altrimenti
nobile, pugni tesi.
Gran dio pietà, implorazione. A governare la retorica del gesto sono braccia e testa, anche
gambe ma più nell’atteggiamento. C’è un’enfasi nella gestione del protocollo fisico.
Orribil vista. Si copre il volto con la mano, ma con l’altra porta tensione a evidenziare
proprio quella vista così orribile. Gesto artificiato con due energie differenti, il sinistro chiude
la vista, il destro evidenzia l’oggetto che non vuol vedere. Corpo sempre fortemente
equilibrato, baricentro saldo, coerente.
Implorazione al maschile, non sorgo dai piedi tuoi… Inginocchiamento non è funzionale
all’espressione di sentimento naturale. La figura regale prevede che ci si inginocchi in certe
situazioni, è regale, fortemente istituzionalizzato.
Già sordi al freno. Importante per strabuzzamento degli occhi, braccio teso in pugno.
Retorica molto formalizzata.
Finché percosso, muscolatura impegnata
Spavento, retorica del gesto molto amplificata.
In una situazione del salotto del dramma borghese non si può fare così. In reggia astratta, con
personaggi alterati, ci stava bene. In Francia ancora più affettati nel gesto. Le grandi nazioni
avevano maturato questo tipo di recitazione, uniformità. Con la regia cambia tutto.
Prontuario per le pose sceniche: Morelli. Interprete di Shakespeare, di Dumas soprattutto.
Insegnante all’Accademia dei filodrammatici. Prontuario delle pose sceniche, come
dizionario sui gesti da attribuire a determinati sentimenti. In ordine alfabetico: per ogni
passione c’è scritto come farla. Quello visto nelle immagini qui descritto. Non ammirazione
come la vivi dentro. C’è naturalmente studio della fisiognomica ma stereotipata. Allora si
intende la recitazione come una tecnica. Se la posso insegnare allora va al di là del dono
naturale.

Lezione 13 30/03
In opposizione alla linea recitativa emotiva con afflato romantico, troviamo una linea
recitativa fredda o distanziata. Specchietto volume, Diderot. Il paradosso sull’attore. Mostra
preferenza per attore dotato di raziocinio, non troppo vulnerabile alla sensibilità. Tendenza
simile culmina nel lavoro di Brecht, distanziamento rispetto al personaggio.
Attore patriota Gustavo Modena, veneziano nato nel 1803. È un punto di pacata rottura
rispetto alle convenzioni vigenti nel teatro della sua epoca, è un uomo burbero dedito a una
miriade di lavori. Figura politica di spicco del risorgimento italiano. Vicino a Mazzini,
carteggi prima di divergenze che lo separeranno. Allievo di Giovanni Vicini. Personaggio
legato a filo doppio con storia dell’unificazione dell’Italia. Trascorrerà tempo in Francia,
Inghilterra, Svizzera, a contatto con altre realtà teatrali. Esiliato presso l’Italia, Stato della
Chiesa lo bandirà. Prassi recitativa di Modena e compresenza di entrambe le linee: fondatore
del romanticismo negli attori italiani, faro, punto di riferimento per tutti coloro che sono
dediti a una linea più razionalista e inventore del teatro poetico italiano, primo canonizzatore
di questa prassi che ha innegabile risonanza. Bisogna puntualizzare che non è mai stato
romantico in senso stretto. Coniuga afflato romantico, Mazzini, con illuminismo di Diderot.
Riottosità per pratiche della sua epoca. Personaggio formatosi nella tradizione in cui opera,
contemporaneo di Adelaide Ristori, grande attrice prima che arrivasse grande diva Eleonora
Duse. A più riprese considera l’idea di fare compagnia con lei. Maestro di Ernesto Rossi e
Tommaso Salvini, entrambi membri di triumvirato attoriale dell’Ottocento. Compagnia di
Modena, dei giovani, connesso a generazione attoriale della sua epoca e modello di parte di
essa, punto di riferimento per quella maschile. Rispettato da quella femminile. Rossi
riconoscerà sempre la sua grandezza, Salvini cerca di discostarsi, complici alcuni screzi
giovanili. Riferimenti all’elefantiasi. Modena personaggio paffuto. Persona affetta da
elefantiasi delle gambe rivestita da pantalonacci da contadino. Lo stesso Modena in gioventù
esordisce in piena osservanza di un metodo. Il padre avrebbe voluto vederlo formato come
avvocato. Lui molla in favore di pulsione filodrammatica. Esordirà come primo attor giovane
molto affettato, dotato di eccesso di metodo e di studio. Eccessiva aderenza alle norme
dell’epoca. Biografia dell’attore affidata alla penna di un altro attore che nei confronti di
Modena nutre devozione smisurata e che ne riporta l’operato con il massimo della sincerità,
ai limiti della lode (diversamente da Salvini). Luigi Bonazzi recita nella sua compagnia.
Conservazione di bontà attoriale contrapposta a stagnazione drammaturgica. Facilità gusti
pubblico e scelte repertoriali da esso dettate. Modena riformatore anche in ambito
drammaturgico. Testi francesi omaggiati da traduzioni scarse. Dramma di seconda mano
illuminato dalla grandezza recitativa del Modena. Grande attore eversivo che si muove in una
tradizione contro la quale può fare fino a un certo punto anche perché continuo esilio. Il
primo Modena è attore di maniera, poi elementi assolutamente distanti, a diventare celebri
realtà della sua interpretazione, studio approfondito della parte contro la prassi mattatoriale,
approfondimento anche testuale, intensità del gesto. Riferimento alla scuola del Modena, ha
seguaci benché non arrivi mai ad avere una scuola ma compagnia fattiva. Potenza espressiva,
verità sulla scena contrapposte all’eccesso degli attori dell’epoca in favore di maniera più
disinvolta, sprezzatura: capacità di fare i compiti loro assegnati al massimo dell’arte
dissimulando la propria bravura, realizzazioni frutto di nonchalance. Verso. Disinvoltura che
lega l’arte si lega alla liceità della poesia. Quella di Modena non è passaggio verso il
naturalismo ma usare poesia sul palco, evidenziare la finzione stessa. Minor aderenza alla
rigida partizione generica del passato. Aneddoti relativi alla sua grandezza e fama
dell’operato: Bonazzi recitando Hugo, pensando di rimuoversi il cappello per salutare, si
toglie la parrucca, guadagna le peggiori risa del pubblico. Modena vs orbetto (pubblico
incapace di vedere grandezze della scena) sarcasmo e bestemmie. Modena risulta essere
vittima di qualcosa di simile durante una sua interpretazione. Parole di Bonazzi. Carisma di
un grande attore. Verità dell’interpretazione di Modena, non coincide con recitazione
meramente naturalistica. Non uomo in piena identificazione della realtà, al contrario realismo
consapevole. Rende concreta non tanto la vicenda reale ma la scena, dice l’intima verità della
scena. Poetica del vero che non è naturalismo, verità di una scena che si mostra come fittizia
ma non manca di verità interpretativa. Sul fronte della prassi recitativa Modena, pur ostile
all’eccesso, al protagonismo mattatoriale, resta grande attore come identificazione di
categoria, grande teatro di grida, silenzi a effetto. Enfasi, enunciazioni clamorose. Cifra che
caratterizza la sua interpretazione è il grottesco, prefiguratore di quello Brechtiano anche se
non totalmente straniato, ma inizia a sfondare barriere di genere enfatizzando aspetti
contraddittori di personaggi che si sono fatti granitici nella tradizione (Saul, Luigi XI, due
personaggi vicini a livello generico). Protagonisti tiranni tragici di età avanzata. Vistose
consonanze a livello di riproposizione. Modalità eversive, tragicomiche. Età avanzata, quasi
goffi nella meschinità esibita. Saul più simpatia che terrore. Saul condanna a morte cruda e
lunga. Modena si raccomandava che sacerdote venisse messo a morte e poi rientrava per
premurarsi che fosse anche lunga. Aderenza al dettato testuale. Carattere grottesco si fa
ancora più preponderante quando si avvicina a Luigi XI, fammi vivere ancora dieci anni, anzi
facciamo venti. sovrano realmente esistito. Mai colori più veri e più comici per Bonazzi
interpretazione che Modena dà è l’unica consentita benché Luigi sia di ambito tragico.
Modena rappresenta sovrano semiparalitico, movimento compulsivo al labbro inferiore.
Personaggio reca in maniera vistosa sul corpo i segni della propria età, della propria malattia,
sottolinea possibilità comiche del suo ruolo. Si riferisce a figura di Santo. Paventando un suo
ringiovanimento, tira la pelle come per far scomparire le rughe, quando va a chiedere
intercessione per avere altri 10 anni di vita ci ripensa e raddoppia l’ammontare desiderato.
Cambia le proprie richieste, parla a bassa voce, tiranno impegnato in questa gag. Il mio
teatro è oltre la luna. Vorrebbe fondi statali.
Diversa la realizzazione delle dantate. Nel suo esilio europeo si vede richiamare in patria,
non ha soldi per tornare. Va a Londra e dà vita a letture dantesche, recital in cui il sommo
poeta interpretato da lui appare in scena intento a scrivere commedia come in work in
progress. Abbigliato come Dante, vicino a come lo immaginiamo ma anomalo, fondale non
molto definito, paesaggio roccioso, in scena ora solo, ora accompagnato da scrivano che lo
aiuta. Moglie, scenografa, sua collaboratrice teatrale. Dante solitario che parla modalità che
sono anticipatori di teatro di narrazione degli anni ‘90 italiani (Paolini), mastica la commedia,
riflette, scrive, pondera i testi poi divenuti immortali. Work in progress non manca che porti a
sé Dante. Quasi tutti i ruoli di Modena, sempre a fronte di approfondita lettura del testo,
interpolazione, Modena porta con sé Dante. Affine. Passa buona parte della vita in esilio, gli
è inviso lo Stato della Chiesa. Di Dante offrirà interpretazione marcata. In opposizione al
presumibile pensiero di Dante, Modena ne dà definizione di uomo ostile al potere, alla
tirannia temporale della chiesa, possibilità di work in progress lo soccorre. Episodio in cui
recitando il canto 19, dandosi a invettiva contro i simoniaci, Modena la traduce e la
conversione...e…di quella dote. Costantino non si sarebbe dovuto neanche convertire oltre a
non aver dovuto dare soldi. che gli guadagnava plauso del pubblico meno reazionario che si
edulcorava poi nella terzina che di Dante ci è rimasta. Dante dialoga con Nicolò III papa
simoniaco può prevedere arrivo di Bonifacio che spingerà in profondità Nicolò III
prendendone il posto con gambe scalcianti. Dante poeta del sublime non solo. Nelle dantate
non mancano elementi di precoce proto-straniamento.
Non rinunce ai baffi e alla barba neanche nel momento in cui deve interpretare Dante, è
elemento di evidenziazione del ruolo dell’attore anche nell’ambito di interpretazione di quel
personaggio. Non scrive con penna d’oca ma penna diffusa nella seconda metà dell’Ottocento
come elemento di distanza. Straccia carte provvisorie del suo lavoro. Gioca sulla grandezza
della tradizione apparentemente facendola a pezzi. Non deve trarre in inganno rispetto al
solco della tradizione. Nelle dantate l’anomalia di forma è tale da farle diventare commento
dantesco più che messa in scena. Esegesi. Apprezzamento che guadagna da Collodi, toscano
e altri contemporanei. Apripista, modello, anticipatore di recitatori danteschi come Benigni e
Carmelo Bene del quale sono ricordate possibilità di recitazione nasale forse adottate prima
dallo stesso Modena, grottesco, attua un rovesciamento delle aspettative. Modena amava
l’azione fisica, prediligeva i ruoli dove c’era più da fare che da dire, corredava la parola
dell’azione, amava gesticolare. Brutto vizio di telegrafare, gesticolare come un lazzarone.
Eccesso di autocritica, riteneva eccesso di gesticolatio. Fa scuola, si guadagna
rappresentazioni icastiche. Saul: passeggio. E infatti esplorava il palco. Chi per il crin
m’afferra. Dava icasticità al gesto tirandosi i capelli (raffigurazione di Casimiro Teia).
Mostra interesse verso fedeltà della resa. Saul rivestito di panni che richiamano ambito quasi
biblico. Oggetti di scena, pugnale, precoce attenzione alla credibilità contro la bravura del
singolo che finisce sempre per essere lui. Antipatie politiche, non vuole mai recitare con la
Ristori. Grottesco da alcuni critici è stata strategia di frammentazione del sublime che invece
caratterizzava la recitazione dei grandi attori. Abbassamento verità della scena, non
totalmente immedesimata dà maggiormente ragione della componente proto-epica.
Emblematico il detto: molto sarà ottenuto dagli spettatori se condotti a pensare (starebbe bene
in bocca a Brecht). Minore monotonia e straniamento del personaggio vissuto e illustrato con
vivace alternanza, primitivo convivere di forma drammatica con narrativa: vivere il
personaggio ma anche prenderlo in analisi come attore diderotiano. Modena si sarebbe
guadagnato il suo plauso. Grandezza che per gran parte della sua vita si dedica a dissimulare
in favore di qualcos’altro. Orchestrazione del tutto, non grandezza d’attore trascinante della
messa in scena ma che possa reggersi anche in sua assenza. Aspetto vistoso quando gestisce
compagnia dei giovani da 40 a 46, poi cede a Battaglia Giacinto. Periodo fondamentale per il
suo operato e per apprendistato di coloro che lo seguono. Ernesto Rossi aveva sua fama
d’attore quando si unisce, Salvini invece deve ancora affermarsi, lo ricorda con ammirazione,
invidia. Gruppo di giovani, formati in opposizione alle prassi recitative vigenti. Dedito alla
bontà dell’orchestrazione e fama di uno non deve risaltate troppo su mancanza di fama di
altri. Pubblico devoto a prassi dei grandi attori. Uno, zeri che erano stati trattati come tali poi
guadagnano risonanza. Lo dice Bonazzi. Almeno parziale venir meno al sistema di ruoli.
Parti di recita in recita assegnati in base ad attitudine. Gustavo Modena non disdegna ruoli
minori, frequente apparizione in testo Catena (che traduce di suo pugno, molto parlabile),
personaggio secondario. Primo attore che si relega a una mezza comparsata. Ci sono
addirittura drammi tradotti, di cui orchestra la messa in scena ma senza essere presente.
Cartelloni evitano la norma tipografica di allora. Evitano le evidenziazioni dei più noti. Sono
tutti attori di Gustavo Modena. Ai coniugi Bonazzi. Presa di posizione netta nei confronti del
clamore del pubblico, della facilità rappresentativa. Amico di Modena. Tutti generici,
abolisce il tiranno. Austerità capocomicale, impone norme a mariti e moglie, in
contrapposizione lavoro pedagogico, Tre anni ma lasciano il segno per la generazione
attoriale successiva. Mirmidoni. Dall’Ongaro usa questo termine, perché mirmidoni omerici
obbedienza assoluta al loro condottiero come formiche. Auspicava che gli attori si
muovessero così nella corretta orchestrazione della messa in scena. Malleabilità rispetto
all’allestimento e disponibilità attori. Sfaccettatura proto-psicologica dei personaggi di
Modena: transizione dei tipi ai caratteri, le possibilità insite in questi tipi, per quanto non si
possa ancora dire compiuta la transizione in personaggi successivi animati da pulsioni,
desideri. Ma lui è uno dei prefiguratori di questo passaggio. Necessità di un’aderenza al testo,
continua ad essere testimone Dall’Ongaro. Recitazione come strumento musicale dell’attore.
Familiarità con il testo, possibilità, in caso sia stato sufficientemente oggetto di studio, di
interpolazione con fonti significative, pertinenti. Lavoro di Modena su Fonte Biblica con
Saul. Come tanti degli innovatori dell’epoca è fortemente influenzato da Shakespeare. Non
metterà in scena che un singolo e sfortunato Otello. Convenzioni quasi neoclassiche,
attaccato perché troppo inglese, teatro medievale, non aderente a unità aristoteliche fattesi
granitiche. Luigi XI come Riccardo III shakespeariano. Machiavellico ma squassato da
malattia, età, turbe proto-nevrotiche. Quasi a metà, Modena fa propri gli stilemi di entrambi,
conosceva Lessing, ne condivideva la volontà di rinnovamento che si legava a desiderio di
rinnovamento del teatro che il suo paese ospitava. Ritorno alla Grecia antica, a teatro festivo,
accessibile a tutti, aperto alle suggestioni delle altre arti.
Lezione 14 04/04
Stanislavskij, dopo il consolidamento della figura del grande attore rappresenta il punto di
svolta per la recitazione contemporanea, vive tuttora nei paradigmi formativi. Non vive il suo
sistema ma pilastri di base dei suoi insegnamenti rappresentano la base della recitazione.
Oggi non si può prescindere. È pilastro nei confronti del passato e del futuro. È un punto
chiave per capire quanto la sua figura sia stata determinante, il suo metodo diventa la base per
la formazione dell’attore di prosa e di cinema, tuttora le scuole d’attore cinematografiche
lavorano con questo metodo. Avendo un approccio con l’attore diverso rispetto al teatro, il
cinema è favorito sul lavoro della psicotecnica, lavora su quanto la recitazione dal vivo lascia
nelle tracce di quello che viene poi montato. Stanislavskij ha il merito di ereditare il modello
del grande attore, ma nello stesso tempo di spostarlo su un nuovo orizzonte. Il lavoro del
grande attore muta di direzione ma rispetto ad alcuni aspetti rimane invariato. Il lavoro sulla
grammatica del corpo non è escluso, come quello del sentimento, ma direzionati in maniera
diversa. È una figura basilare per la storia della recitazione. In tutta la sua vita ha sempre
quasi esclusivamente lavorato con gli attori e per gli attori, mai un teorico del teatro, anche
quando fa regia la fa sempre con un’attenzione specifica all’attore. Ha sempre lavorato sugli
allestimenti, anche con grande attenzione alla messa in scena, luci, arredi, curati ma sempre
in relazione al lavoro dell’attore. Attore è stato il baricentro del suo metodo. È sempre stato
un uomo molto pratico, non ha mai teorizzato. Il secondo punto è che quindi non ha mai
elaborato un sistema in senso piano. Mai una figura che ha voluto subito sistematizzare il suo
metodo, come se si sentisse portatore di una nuova pedagogia. La storia del sistema è
paradossale, l’ha sempre vissuta in maniera empirica. Le grandi svolte del suo sistema
derivano da ripensamenti che fa a partire dal suo lavoro. Il terzo punto chiave: non ha mai
visto il teatro dentro un’idea politica e sociale di arte. È stato apolitico, asociale. Si è sempre
concentrato sul lavoro artistico, non si è mai preoccupato del ruolo del teatro dentro alla
processualità sociale. Non teatro come estetica ma come etica. Mai attenzione politica.
Attraversa il momento più critico della Russia e del mondo: rivoluzione russa, che porterà
Mejerchold a cambiare la prospettiva della sua arte. Non si fa toccare da quello che la
rivoluzione stava creando anche rispetto all’arte e al teatro. Dal punto di vista culturale è stata
una devastazione. Teatri nazionalizzati, quando nascono i proletkult l’arte viene assoggettata
al sistema, alla politica, la cultura diventa strumento di propaganda politica, di controllo, di
disciplinamento politico. L’ideale rivoluzionario diventa il motivo per fare altro. Nasce il
costruttivismo. Stanislavskij attraversa una fase politica devastante ma non c’è mai una
parola su tutto questo, non per codardia o opportunismo ma perché dedica tutta la sua vita
all’attore, a formarne una nuova idea circoscritta entro il perimetro dell’arte. È unico, la
stessa rivoluzione non sa cosa farne. Mejerchold viene travolto dalla rivoluzione, Stanislavkij
cerca anche di difendere Mejerchold. Stanislavskij è trattato quasi come una figura da vetrina.
Mostrato come emblema della grandezza della Russia rivoluzionaria senza che fosse un
personaggio scomodo, cioè un rivoluzionario. Non era un controrivoluzionario. La
rivoluzione non l’aveva toccato.
1. lavora su questione dell’attore, empirica
2.sistema non concepito come tale
3.apolitico.
Le fonti non sono tante né chiare. Genesi dei libri contraddice la chiarezza, la consapevolezza
del sistema. L’unico libro che scrive e pubblica consapevolmente è My life in art, libro tardo,
è autobiografia ma nasce come libro in inglese perché non aveva nessuna intenzione di
scrivere, nel 23 tournée in America. Fan americani, Reynolds, chiedono di scrivere la sua
autobiografia artistica, sul sistema che stava crollando. Ma rimane invischiato in sistema
editoriale, bisogno di denaro. Scrive forzatamente. Traduttore russo amico fa da mediatore.
Nel ‘24 esce. Lui la rinnega subito. Nel ‘26 esce edizione russa che è diversa, con parti
aggiunte ed espunte, psicotecnica rivista, non più così chiara. È già verso la fine della
carriera, inizia ad essere malato. Muore dopo dieci anni. Libro non così famoso anche se è
unico che è stato scritto da lui.
Il lavoro dell’attore su se stesso (1938) doveva essere il contrappunto tecnico, come se ogni
capitolo della mia vita nell’arte trovasse qui l’elemento chiave applicativo di quello che era
stato detto in maniera teorica, narrativa. Esce in edizione americana anche questo, quando lui
è già morto. Tramite la curatela della Reynolds in due volumi. An acotr prepares, buliding a
character. 10 anni dopo nel 48 esce il corrispettivo. Il lavoro… nel processo creativo della
reviviscenza. Il lavoro… nel processo creativo della personificazione. L’edizione italiana
tiene conto più della versione russa che di quella americana. C’è poco di premeditato nella
sistematizzazione. Lo dicono chiaramente i libri. La grammatica dell’attore per lui è sempre
stata esperienza di vita, non teorizzazione, non preoccupazione metodologica.
Leggere lo sviluppo di quest’innovazione seguendo la sua vita. Primo punto chiave è
l’infanzia, l’età giovanile. È sempre stato agevolato, mai artista maledetto, squattrinato, nasce
e cresce fortunato. 1863, Mosca, è il secondo figlio di una famiglia ricca, illuminata, di
imprenditori. Alekseev era il suo cognome. Stanislavskij è nome d’arte di attore dialettale a
cui era legato. La nonna era attrice, fin da bimbo respira il teatro. Infanzia ludica è permeata
di teatro con fratelli e sorelle. Avevano due teatrini, uno nella casa di campagna.
Lubimokova. Vicino a Mosca dove facevano le recite di famiglia, una nella casa di Mosca.
Anche concretamente ce l’aveva in casa. Racconta di luci, tendaggi, maschere, immaginario
fiabesco del teatro, della grande illusione teatrale. La prima compagnia con i fratelli. A 14
anni fonda il primo circolo d’arte. Ha sempre un ruolo importante il teatro amatoriale, il
dilettantismo. È anomalo da una parte, ma insegna il piacere ludico del teatro. Pensiamo ai
dilettanti come antagonisti dei protagonisti. A volte gli amatoriali scimmiottano i
professionisti, l’emulazione snatura la vera qualità dei dilettanti, di chi fa teatro per piacere
puro di farlo, non per professione, perché è forte il piacere di farlo. Amatorialità, godere di
quel che si fa a tal punto che tutto si riassume lì, arte per puro piacere di farla. Come il gioco.
Vivi l’esperienza autenticamente, il principio erotico domina su tutto. L’amateur si approccia
al teatro per puro piacere, non gli interessa che teatro venga bene o male, ma che esperienza
sia vissuta. Meno influenzato da giudizio, bisogno di emergere, antagonismo con altre
compagnie. Seguire la moda. Lì la teatralità è più vera. L’ha vissuta da ragazzino e sa cosa
vuol dire. Oggi c’è dimensione di pedagogia teatrale per cui senza amatorialità perdi
l’autenticità. Spesso nei pedagoghi del Novecento c’è il riferimento al gioco del bambino.
Copeau lo diceva agli attori: guardare i bambini che giocano, quello è il vero teatro. Ritorna
molto nella pedagogia degli anni Settanta. Se perdi l’essere amatore puro non sei libero
nell’esperienza recitativa, retorica. Il suo è dilettantismo di qualità. Il primo salto di qualità a
24 anni quando inaugura a Mosca, uscendo dal dilettantismo e aprendosi al pubblico,
fondazione di società di arte e letteratura. Il debutto ufficiale nella Mosca culturale è
abbastanza tardo. Nel dilettantismo ci sta molto tempo, i primi vent’anni della sua vita, è
anomalo rispetto al sistema del teatro professionistico del tempo. Poi esce per vari motivi.
1. Incontra Fedotov, professionista russo, hanno un’intesa forte sul bisogno di svecchiare
i repertori, spostare il teatro verso il naturalismo, il sistema del grande attore entra in
crisi perché ci sono novità dal nord Europa.
2. Incontri concreti dal punto di vista artistico: Meningen e Salvini. Meningen:
compagnia tedesca del duca di Sassonia che per la prima volta rovescia il sistema
professionale tradizionale in nome di un teatro corale e naturalista. Avevano la facoltà
economica, sono la prima compagnia che si muove con un gruppo di attori molto
numeroso, li portano sulla scena senza badare all’importanza del grande attore. Tutti
gli attori, anche l’ultima comparsa, hanno lo stesso valore del primo attore perché tutti
sono funzionali alla messa in scena. Lo spettacolo è lo specchio della vita che si
materializza sulla scena nella complessità dell’insieme degli attori e verosimiglianza
in termini naturalistici di quello che si vede. Porteranno grandi tragedie, drammi
storici, invece di mettere i fondali finti, ricostruiscono gli ambienti secondo un
approccio filologico critico, storico, secondo esigenza di naturalezza, di maturità.
Ciascuno è parte della verità che si manifesta. Stanislavskij è sbalordito da questa
novità quando arrivano a Mosca con la tournée.
Altro incontro è Tommaso Salvini che è l’opposto, il grande attore mattatore ma
quando arriva a fare l’Otello a Mosca sconvolge la visione di Stanislavskij e del
pubblico moscovita, incarna tutti quegli elementi. Una caratteristica, al contrario di
Rossi, era di lavorare sull’equilibrio delle passioni. Salvini recupera la retorica delle
passioni, dei gesti, dell’enfasi recitativa del grande attore ma la modera in una
recitazione sempre composta, disciplinata. L’effetto paradossale era quello del
naturalismo pur in retorica del gesto. Con Fedotov l’esperienza dura fino al ‘96.
L’ultimo grande spettacolo messo in scena dalla società è Otello.
È una pietra miliare, si intuiscono aspetti connessi: padronanza scenica, idea che
l’attore deve innanzitutto essere sempre presente a se stesso, essere dentro a quello
che fa. Importante la qualità dell’attore sulla scena. Salvini doveva tenere retorica ma
anche disciplinarla. Era sempre presente a se stesso. Il rischio che vedeva negli attori
mattatori era l’esibizione muscolare. Problema dell’attore è non governare più il
muscolarismo, la retorica del corpo esibito. Rapporto tra arte e vita. Idea che il teatro
alla fine è autentico, c’è verità sulla scena se c’è vita sulla scena. Si intende vita
scenica dei corpi ma anche vita personale dell’attore. Senza questo doppio registro
non c’è teatro. Interfaccia con vita personale. Diventerà reviviscenza,
personificazione…
qui non c’è ancora nessun sistema, solo delle intuizioni che fa su di sé rispetto al teatro che
sta abbozzando in età già adulta. Nasce nel ‘63, solo a 35 anni fonda il teatro d’arte di Mosca.
Il cuore della nascita del sistema lo vede come protagonista in età già molto adulta della sua
esperienza teatrale. Teatro nasce, si chiude la parabola della società, si allontana da Fedotov,
perché nasce l’urgenza di pensare un teatro popolare. Raccolta da Dancenkov. Non ha mai
cavalcato il teatro politico, mai idea politica di un teatro civile (tipo Grassi e Strehler).
Capisce che ha coltivato teatro prima casalingo privato, poi dilettantistico e poi raffinato per
intellettuali ma mai teatro per il grande pubblico. Decide di provare quest’esperienza del
teatro popolare. Mosca era piena di teatri, cuore di una teatralità diffusissima. Proliferazione
ma lui vuole fare teatro popolare ma di qualità cioè teatro dei testi. Idea che il nuovo teatro, il
nuovo attore dovesse confrontarsi non con repertorio tradizionale ma con una nuova
produzione. Teatro che si appoggiasse su drammaturgie non scarnificate e adattate al grande
attore. (Shakespeare ad uso e consumo dell’attore mattatore con testo snaturato). Qui i testi
devono essere rispettati nella loro complessità, e nuove drammaturgie. Non necessariamente
nomi noti. Non esistono piccoli personaggi, esistono solo piccoli artisti. Testo non deve
essere scelto per l’eroe che esibisce ma qualità complessiva dei contenuti.
Nuovo repertorio: autori naturalisti del dramma borghese Checov, Gork’ij. Il gabbiano
lanciato sulla scena moscovita, poi i Bassifondi, aspetto verista, il giardino dei ciliegi. Tre
grandi regie. Dancenkov ha ruolo fondamentale, quando gli propone Cechov, lo rifiuta di
primo acchito. Non personalità di spicco, non accade nulla, è dramma di fallimento della vita
non in maniera eroica ma in maniera meschina, testo chiave dei sogni infranti della vita,
delusione, nessuno ce la fa. Nessuna tensione esteriore, tutte tensioni implose interiormente.
Non c’è pathos né rapporto causa effetto che lo alimenti. Solo pistola finale, ma è appunto il
segno della fine. Fu un capolavoro perché nessuno a Mosca aveva mai visto recitare così.
Con il teatro d’arte di Mosca inizia a mettere a sistema modalità di rapportarsi con se stesso e
altri attori. Recitazione in maniera inedita che colpisce il pubblico. Vuole uscire da un bivio
senza esito dell’attore dell’epoca. Vuole uscire dall’attore d’istinto, il mattatore che ha un
bagaglio di gesti e sentimenti preconfezionati e su questi improvvisa per assecondare i gusti
del pubblico. È formula bassa dell’attore mattatore ma la più diffusa. Centra su sé la
recitazione, stravolge il testo. È costruita secondo un campionario base di gesti su cui
improvvisa per trascinare a sé il pubblico.
Attore rappresentativo è più vicino a lui. Cerca di ricreare la vita del personaggio nella
propria vita interiore, fare ciò che è alla base della reviviscenza ma problema: attenzione che
dedica a personaggio, testo, è esercizio di stile replicato meccanicamente. Non ha la retorica
enfatica dell’attore mattatore. È attento a ricreare vita interiore del personaggio ma non ha
strumenti per renderlo credibile sulla scena, allora usa stereotipi. Inizia a costruire un tassello
fondamentale del sistema, rapporto tra realismo della recitazione e verosimiglianza. Per
essere totalmente presente sulla scena deve ricreare la vita del personaggio attraverso
verosimiglianza, similitudine tra sé e il personaggio. Tra attore e personaggio si deve creare
un’empatia basata sul criterio della verosimiglianza. Empatia qui caratterizzata da due
elementi: il magico se e le circostanze date: condizioni finzionali per attingere alla vita
interiore del personaggio da ricreare in se stesso. Se io fossi così cosa farei? Il se collega la
vita interiore del personaggio alla vita interiore dell’attore: introduce il periodo ipotetico della
possibilità. Il teatro è mondo possibile nel mondo reale. Le circostanze date sono gli elementi
che aiutano la costruzione del magico se. Elementi strettamente connessi all’azione specifica
o meno, che aiutano l’attore a costruire il se. Fare in modo che si crei rapporto tra vita
interiore personaggio e attore. Se ipotesi che unisce le vite in potenza. Circostanze date fanno
in modo che attore agisca con azione reale ad azione immaginaria. Se è in condizione per cui
il mondo possibile ce l’ha dentro, potente forza di immedesimazione, si agisce con azione
reale a situazione immaginaria non data da grammatica esterna. È la circostanza data che crea
la situazione potenziale per cui l’attore agisce realmente in base a quello che matura in lui,
non in base alla retorica dei gesti che gli è stata data, con Cechov più facile perché personaggi
non inseribili in tipi fissi.

Magico se e circostanze date portano due elementi:


1. Immaginazione. Se non la alimenti non puoi comprendere le circostanze date che
sono finte, legate a mondo possibile, non reale.
2. Attenzione. Immaginazione non è efficace se non è accompagnata da attenzione.
Devo reagire in maniera autentica a situazione finta, posso farlo solo se sono molto
attento a ciò che ho sulla scena. La situazione immaginaria costruisce mondo
possibile ma magari poi sulla scena non ho rapporto con ciò che sono qui ed ora per
poterlo vivere. Bisogna costruire cerchi d’attenzione. Cerchi concentrici: dov’è il
divano, personaggi che stanno per arrivare, cosa succederà nella prossima scena.
Piccolo, medio, grande e massimo. Deve essere presente ai cerchi dell’attenzione
immediati. Elemento fondamentale: oggetti. Per la prima volta attenzione non
connessa solo ai gesti ma agli oggetti-punto: punto della tua attenzione. Devi aver
presente dov’è la sedia per andarci. Senza quello non agisci con azione reale.
Concentrazione, dilatazione e di nuovo concentrazione dell’attenzione.
Lezione 15 05/04
Due punti fermi del primo momento: il magico se e le circostanze date. Sono due dispositivi
via d’uscita dal sistema recitativo tradizionale che divideva gli attori tra d’istinto e
rappresentativi. Comincia a costruire il sistema con queste condizioni, che permettono
all’attore di agire con azione reale ad una situazione immaginaria. Il se avvia la situazione
immaginaria, le circostanze date la completano ma attua meccanismo per cui vengono
compensati dalla presenza e dall’attenzione. Alimenta attraverso la psicotecnica una continua
attivazione dell’immaginario. Attivi immaginazione psichica, sviluppi l’immaginario ma se
non è ancorato al dato di realtà crea una situazione emotiva e fisica che non trova rispondenza
nel dato reale. Non ci sono gli strumenti per far sì che la via creativa si esplichi in modo
credibile.
Coscienza: presenza. Si attua attraverso l’attenzione che ha vari gradi (cinque cerchi), sempre
tesa verso degli elementi reali che chiama oggetti-punto. Danno coordinate all’azione e sono
dei punti di attenzione. Se fossi Nora che dialoga con Helen (come se), sta in salotto
(circostanze date), la sedia è situata lì l’attore non si perde nell’immaginario, è in una
situazione di attenzione costante. Questa permette al come se di diventare reale. L’attore si
muoverà continuamente tra questi due poli mediante il continuo processo di dilatazione e
restringimento. Questa è la base per cui l’attore sia autentico e sviluppi via creativa che
permette all’attore di sviluppare vita interiore sua simile a quella del personaggio. La
condizione creativa dell’attore consiste (verità) è stato (stato di grazia) per cui l’attore rende
vivo un canale di rapporto con il personaggio per cui via creativa è via conscia verso
l’inconscio, ciò che sviluppa il sentimento. Elementi permettono all’attore di attivare in
termini di sentimenti la reviviscenza. In alcuni momenti è sovrapponibile alla memoria
emotiva. A un certo punto il come se e le circostanze date e l’attenzione la generano. Non
può avvenire senza questi elementi perché l’attore non ha attivato il canale di contatto. È ciò
che l’attore percepisce e poi attua in termini di sentimento. Appartiene all’attore come uomo,
non come artista. Rompe completamente con la tradizione del grande attore. Inneschi la via
conscia verso l’inconscio si crea empatia, canale di comunicazione che coinvolge l’attore in
quanto uomo, persona. Non è l’attore che guida l’uomo ma uomo che guida l’attore. Attore
non basta più a se stesso, senza dimensione umana non può aprire la via creativa. Lavoro
dell’attore su se stesso riguarda l’attore come persona. Si spalanca la porta dell’etica della
recitazione che sarà poi cruciale per la pedagogia del Novecento. È umano ancora prima che
artistico. Il primo problema concreto: (è pragmatico, il suo sistema avanza attraverso la
soluzione dei problemi che riscontra). Problema di tempi e di spazi. Il processo delineato
richiede tempo e spazi. Non può essere segregato a ridosso dello spettacolo né essere
sviluppato in luoghi teatrali solo deputati alla rappresentazione. Il discorso del come se, delle
circostanze date, lavoro sul testo che precede non dà nulla per scontato. L’attore non ha
repertorio di gesti, comportamenti, azioni che lo distinguono. Non è preventivo ma è
consuntivo, richiede tempo. L’attore non l’aveva. Una compagnia di giro portava un
repertorio di sette o otto commedie ecc… Le aveva nel repertorio, non le provava. C’era una
cultura dell’attore basata su questo. C’è bisogno di tempo per provare, noi lo diamo per
scontato, laboratorio teatrale. A un certo punto quello che Stanislavskij, non del tutto
consapevolmente, fa è spostare attenzione sul processo, le prove. Sono fondamentali, non più
esercitazione su dispositivi già noti ma diventano un luogo creativo. La via creativa non è
data prima. Si sviluppa proprio qui, nella fase del processo. Si inventa uno spazio-tempo
nuovo che chiama (non laboratorio che è termine scientifico) studio. Nascono gli studi. Il
primo del 1905 viene attivato in collaborazione con Mejerchold. Aveva già una sua
autonomia, un suo profilo teatrale e pedagogico. L’aveva individuato come facente parte
della scuola del teatro d’arte. Era già conosciuto. Tentano di lavorare in un nuovo perimetro
creativo: le prove e gli studi. Il problema di questa combinazione pedagogica è che
convergono sulla necessità di avere uno spazio nuovo. È importante che l’attore provi, attui
una via creativa, ma hanno due obiettivi diversi. Stanislavskij matura questo in una visione
naturalista della scena e del lavoro dell’attore. Fedeltà letteraria al testo. Mejerchold è
fortemente attratto dalle nuove spinte avanguardiste. Stanislavskij ha un’infatuazione ma
abbandona subito. Siamo ancora nel simbolismo. Non riesce a rientrare nelle corde di
Mejerchold che cercava non attore mimetico ma che lavorasse con corpo che fosse macchina
pensante capace di produrre forme sulla scena, non personaggi. Stanislavskij era fortemente
concentrato sul fatto che lavoro fosse sul personaggio. Mejerchold già più verso attore
biomeccanico. Attore è montaggio di gesti e azioni. Attore è forma pensante che produce,
attraverso il montaggio, delle energie. Connubio ha una vita brevissima, si separeranno
definitivamente. Ma Mejerchold lascia a Stanislavskij il lavoro sull’azione fisica (il lavoro
sull’attenzione è fisico, verità si ha con concretezza che è corpo). Mejerchold in questa fase
gli rafforza questo concetto. Corpo rappresentativo di per sé, non per forza si immedesima in
qualcos’altro. Il problema è che c’è arresto in questo sviluppo, dopo un periodo di grande
successo. Stanislavskij non ha mai avuto problemi economici. Diventa famoso subito, ha una
carriera in continua ascesa. Ha crollo solo perché sta male nel suo processo creativo ma non
perché le cose non funzionassero. Mentre Mejerchold rincorre il successo, la sua fama da
Mosca si irradia in tutta Europa. Nel 1906 fa una tournée ma alla fine cade in depressione sul
ruolo del dottor Stockmann in Un nemico del popolo di Ibsen. La tournée, il fatto che il suo
personaggio fosse replicato costantemente, perde di verità, si svuota. Non c’è più quello stato
di grazia che si era generato quando durante le prove si era aperta la via creativa. Per quel
personaggio era stata perfetta. Lessi, capii, rivissi e recitai la parte già alla prima prova.
Interlocutore fittizio entrato in empatia con Stanislavskij immediatamente. Frase che fa capire
com’era il processo, lavoro sul sottotesto, capire vuol dire visualizzare il personaggio in una
struttura immaginativa di come se e circostanze date. Sviluppano il canale della reviviscenza.
Rapporto tra il come se dell’immaginazione e presenza dell’attore sulla scena. Recita la parte
già alla prima prova, non si sforza. È in una situazione ideale ma la sintesi perfetta tra il
personaggio e l’attore si perde. Non significa che recita peggio. Spettacolo fu un successo
dall’inizio alla fine ma si rende conto di avere una lacuna dentro al discorso dell’attenzione e
quindi reviviscenza. Stanislavskij all’ennesima replica recita la parte in automatico, ha
talmente introiettato i gesti, le parole, il tono della voce, i movimenti, li replica senza essere
cosciente, attento dentro l’azione. La reviviscenza non scatta. Esteriormente fa quello che
deve fare ma non alimentato dalla fiamma dell’attenzione, della presenza, dell’autenticità.
Non è in quello che fa. Trionfa la cosiddetta memoria muscolare che per Stanislavskij è un
grande limite. È ciò che sopravvive quando viene meno la memoria emotiva, è esteriore. Va
in automatico, non è alimentata dalla memoria emotiva. Perde di attenzione. Episodio
conosciuto come quello dello scoglio in Finlandia. Dove si ritira per stanchezza e
depressione. Produce incrinatura del sistema e lo fa evolvere. Limita il dominio della
memoria muscolare. Si rende conto che per l’attore il rischio più grande è la sua stessa
qualità: il corpo, attiva una memoria muscolare che soffoca la memoria emotiva dell’attore in
quanto umana. Preservata la memoria esteriore ma non la parte umana dell’attorialità. È una
crisi umana prima che artistica. L’attore perde di credibilità perché la memoria muscolare non
permette più alla parte umana di innervare l’azione, renderla presente. Per Stanislavskij
bisogna trovare il modo non solo di eliminare ma preservare la memoria emotiva interiore
rispetto al dominio di quella muscolare. Bisogna ritornare a capire come si può essere sempre
presenti a se stessi con il sentimento, credere sempre a ciò che si fa, sentire la verità della
scena come se fosse la propria verità, bisogna spingere l’anima a credere e evitare che la
memoria muscolare non permetta più all’anima di credere a quello che fa perché di fatto già
lo fa il corpo, bisogna indurre l’anima a credere. Solo così si innerva la memoria muscolare
(serve ma non deve essere dominante altrimenti si svuota la componente umana, del
sentimento).
Come si induce l’anima a credere? Si delinea un altro dei concetti chiave di Stanislavskij.
Personificazione. Prima di arrivare a questo sente di nuovo il bisogno di avere un tempo per
le prove, dal 7 al 13 il sistema ha un’evoluzione accompagnata a momenti di studio, di prove,
scelta drastica e nuova nel panorama del programma teatrale. C’è la produzione, Stanislavskij
sa di dover rispettare dei patti impresariali ma ci devono essere dei momenti in cui l’attore
lavora per sé. Ci sono studio con Checov e Vakhtankov. Altra figura non di attore ma di
intellettuale, filosofo, eccentrico, con propensione allo studio delle culture orientali, Suler.
Affianca Stanislavskij nella fase di crisi in cui sente l’esigenza di separare il lavoro sul
sistema dalla produzione di spettacoli, suggerisce la necessità di dilatare ancora di più lo
studio teatrale sull’uomo. Alcuni studi saranno fatti in luoghi non teatrali. Momenti in cui
attore viene portato in contesto che è quasi di svago, con forte rapporto con la natura, dove
può sperimentare libertà espressiva che i contesti della scena limitano. Per essere creativo
devi uscire paradossalmente dal contesto noto della creatività. Copeau va in Borgogna ancora
più innovativo. La vera creatività quando non si è in situazione di condizionamento creativo.
Creatività non orientata verso il fine dello spettacolo ma è fine a se stessa. Tre anni
significativi che consolidano un nuovo sviluppo del sistema. Direzioni: rafforza un aspetto: lo
studio sul testo. Capisce che la memoria muscolare, il rischio dell’automatismo è quando
l’azione diventa uno stereotipo fisico e si perde di vista la complessità emotiva e interiore del
personaggio. Si può attuare solo se l’attore ha presente il personaggio nel testo e nel
sottotesto, la partitura non scritta del personaggio. Quanto più l’attore capisce la complessità,
è capace di sezionare il testo in particelle che fanno trasparire il sottotesto, partitura emotiva e
fisica, tanto più l’attore sarà costretto a essere presente con il sentimento e lavorare
costantemente sulla via creativa.
Secondo punto riguarda rapporto di magico se circostanze date, reviviscenza e memoria
muscolare. Il rischio della memoria muscolare, dell’automatismo si riduce nella misura in cui
il rapporto tra azione interiore ed esteriore è saldo, conosciuto, forte. Vita psichica introiettata
dall’attore e fatta propria in maniera quasi personale in termini umani. (stessa cosa accade in
quel periodo per danza, ginnastica, tutte le arti del corpo, in questi anni prende forma la danza
moderna in opposizione al balletto classico). Connessa a rivoluzione complessiva del corpo
nella società. Azione interiore-azione esteriore, attivazione corporea della vita psichica.
Bisogna saldare le due componenti. Bisogna sdoppiarle rendendole sempre più evidenti e
sovrapposte. Mette un tassello in più in questa bipartizione, azione interiore è via che porta
l’anima a credere, altra via che non deve sovrapporsi è dell’azione esteriore che è la
personificazione, possibilità che viene offerta al corpo di vivere. È come se questi due
momenti della via creativa fossero così interdipendenti che uno non può esistere senza l’altro.
Per renderli saldi bisogna creare le condizioni affinché il testo sia frazionato in una serie di
eventi, di situazioni, l’attore deve utilizzarle per innescare una reazione emotiva
(reviviscenza), a sua volta deve attuare una personificazione, rendersi visibile in un’azione
fisica. L’insieme dei due elementi è l’azione reale, quella ancorata al principio
dell’attenzione. Se l’attore riesce a tenere insieme questi due aspetti, l’attore acquisisce una
seconda natura. È la natura che si affianca alla condizione umana. La prima è quella
dell’attore come uomo, la seconda dell’attore in azione che fa propria la natura umana e la
sposta su un livello più alto, quello della creazione artistica. Con il biporalismo tra azione
interiore ed esteriore rafforza il sistema ma anche qui non riesce a risolvere lo snodo
fondamentale, la questione della memoria muscolare e della memoria emotiva non si risolve
del tutto. Lo stesso Stanislavskij ne sente le conseguenze (1914), sta provando dramma di
Dostoevskij , Il villaggio di stepanchikovo. Deve essere sostituito nella parte, non riesce ad
arrivare in fondo. Il problema non è di memoria muscolare ma di memoria emotiva, non
bastano le circostanze date e l’attivazione dell’immaginazione per indurre l’anima a credere,
non basta la psicotecnica perché anima creda a quello che fa. La reviviscenza, che dovrebbe
esserne la conseguenza, di fatto non è così stabile come si vorrebbe. Il problema sta a monte
per Stanislavskij, non nella reazione fisica. Ha momento di crisi e decide di prendersi una
pausa dal teatro di prosa, rimane uno dei protagonisti del teatro moscovita e mondiale.
Accetta una collaborazione al teatro d’opera Bolshoj.
Addestra cantanti che sono pessimi attori perché badano solo alla qualità del canto. Ci sono
stereotipi che fa propri ma in un periodo di naturalismo anche l’opera si pone il problema
della verità dell’azione. Ha un’intuizione. La partitura fisica è limitata, la vita interiore è
debole perché l’attore è attento al canto ma attrae la sua qualità, non solo del canto ma delle
emozioni. Ti commuove e gli dai credibilità anche se non c’è nulla di credibile nel suo
comportamento. Cosa lo rende credibile? Ragiona sulla musica, è il canto non per la bravura
del cantante ma perché il canto ha una sua partitura, un suo tempo ritmo molto preciso da
essere segnato sullo spartito. Il cantante ci lavora ma la partitura è fissa. Esiste nel cantante
un tempo ritmo interiore ed esteriore che non sono dati da come lui rivive ma dal fatto che il
suo canto è dato da base ferrea; tempo ritmo dato, che non si crea lui. Il sentimento è
qualcosa che la musica dà all’azione interiore ed esteriore. C’è una coerenza che non dipende
dalle circostanze date né dalla memoria muscolare, c’è un tempo-ritmo esterno ed interno che
viene stabilito. Il cantante si adatta, si uniforma dentro questa struttura. Se ci fosse per l’attore
di prosa lo stesso tempo ritmo dato che consente di liberare la propria creatività, si
risolverebbe il problema del rapporto tra azione interiore ed esteriore. Ci sarebbe condizione
esterna che porta l’attore già ad essere pronto. L’attore lo recepisce. Il corrispettivo attorale
del tempo ritmo è il corpo. Prima evento  memoria emotiva  personificazioneazione
reale. Questo sistema scricchiola perché la memoria emotiva non è sufficientemente autentica
da spostare il corpo. Stanislavskij allora rovescia, non bisogna partire da azione interiore, né
da esteriore intesa come comportamento, ma partire dal corpo allenato. L’attore deve essere
dotato di un corpo che ha tempo-ritmo così pronto che qualsiasi sentimento emerge. Il corpo
non reagisce al sentimento, ma suggerisce quale sentimento e come svilupparlo. È il segreto
dell’attenzione. Non è qualcosa di provocato, bensì provoca, preesiste. L’attore deve essere di
per sé attento con il corpo, senza sapere cosa farà. Non deve già registrare dei comportamenti
ma deve avere il corpo pronto a fare tutto, con sensibilità e tempo-ritmo sofisticato, alto da
poter reagire a qualsiasi emozione. L’attore non dovrà sviluppare una memoria emotiva
preventiva, corpo così aperto a possibilità che percepisce emozione corretta e plasma l’azione
fisica in azione reale. Dice quello che diceva all’inizio cioè l’attore deve vivere, sentire,
esistere come il personaggio ma cambia la prospettiva. Il corpo è già pronto, è il corpo che
produce il vero. Attore deve essere presente a se stesso senza sapere quello che farà, se il
corpo allenato, sarà capace a trovare la linea che lo porta al sentimento, emerge, si incanala.
Non serve neanche ricordarlo, perché il corpo è pronto.
Lezione 16 06/04/2022
Recuperiamo la linea fredda di Diderot, ripreso dall’operato sotterraneo, ibrido di Modena,
per parlare di tipologia di recitazione definita epica.
Brecht, nato nel 1898 e morto nel 1956, si è lasciato alle spalle il Berliner ensemble, fondato
nella Germania est, di influsso sovietico. Baluardo culturale, si guadagna premi,
sovvenzionamenti. Apprendistato da un regista, Piscator, da cui estrae il teatro epico nella sua
prima formulazione di tipologia spettacolare contaminata da montaggio, articoli di giornale,
fotografie, materiali altri che proiettano concretamente. Brecht è il più grande sviluppatore di
questa teoria. Ricondotto alla narrazione, si oppone in una dislocazione del punto di vista.
Inserimento di un Io epico che inquadra la vicenda rompendo l’immedesimazione, la
partecipazione scenica, l’erezione della quarta parete. Narrazione anche di personaggi inseriti
in una trama che riflettono su se stessi. Attori scoraggiati dall’ immedesimazione all’interno
di personaggio. Nell’idea di Brecht marxista, filosovietico, attento alle condizioni dei
lavoratori che è propenso ad attivare laboratori in ambiti operai, teatro che vive di politica, il
teatro non può rischiare una partecipazione emotiva, punta sulla partecipazione razionale.
Ritorna l’adagio di Gustavo Modena secondo il quale molto si avrà se lo spettatore più che a
sentire sarà condotto a pensare. Ricerca questo obiettivo tramite la tecnica dello straniamento,
Entfremdung effect, scollamento tra interprete e personaggio, che riguarda anche altre
possibilità sceniche come il metateatro, intrusione di materiali altri. Teatro che esibisce i suoi
meccanismi scenici. Trame già note che qui vengono svelate facendo sì che gli esiti siano
evidenti, la suspence viene meno e si ha modo di concentrarsi sulle caratteristiche
sociopolitiche.

Stralci estratti dagli scritti teorici di Brecht. Il processo di auto osservazione del performer
impedisce allo spettatore di perdersi nel personaggio, fa di mantenere una splendida distanza.
L’empatia dello spettatore non viene interamente rifiutata. Il pubblico si identifica con
l’attore in qualità di osservatore critico. Brecht sta dando prova di amore verso il teatro
cinese. È una conoscenza relativa ma contribuisce a disegno teorico ambizioso. Lo paragona
a quello occidentale, aristotelico, immersivo e fa notare come l’attore occidentale si applichi
per portare lo spettatore alla massima prossimità agli eventi e ai personaggi che porta in
scena.

Il performer cinese (western, occidentale è actor, il cinese è performer) rifiuta la totalità della
performazione, si limita a citare i personaggi che porta in scena, è forma di distanziamento. È
anche forma di tutela, deposizione di responsabilità, significa spostare il proprio messaggio
addosso ad altri. Brecht applica un punto di vista sociale, non c’è più l’assolutismo
aristotelico. C’è individuazione di personaggi appartenenti a un determinato periodo,
protagonisti di vicende che allo stesso periodo sono ricondotte. Brecht marxista, ha
pessimismo di fondo, che non sposa totalmente l’utopia marxista del bene comune. Riadatta
testi della classicità (Opera da tre soldi), spesso i suoi soggetti sono storici o para-storici.
Ciascuna sequenza separata deve essere trattata per il suo Gestus sociale, sotteso ad essa.
L’unità dei personaggi non è turbata dalla riproduzione esatta del loro comportamento
contraddittorio, solo nello sviluppo dei personaggi possono trovare la vita. Titubanze di
Brecht rispetto al metodo Stanislavskijano, l’esteriorità della rappresentazione finisce per
avere il sopravvento sulla vita autentica, emotiva dell’attore che finisce per affidarsi a simboli
di esteriorità già rodati per raggiungere interiorità che nel procedere delle realizzazioni si fa
via via meno autentica. Straniamento interviene con le possibili sembianze di sensazioni che
non necessariamente coincidono con quelle del personaggio interpretato. Rabbia può
provocare disgusto. Sottolinea le contraddizioni del personaggio che non coincidono con
quelle dello spettatore che osserva. Il signor Puntila e il suo servo Matti, personaggio in vista
della società contemporanea amichevole con il servo quando è ubriaco. Nei momenti in cui
guadagna lucidità si rivela quasi una parodia del capitano d’industria. Scatti di umore dei
personaggi non coincidono con quelli dello spettatore chiamato ad osservarli. Il V effect,
straniamento, non richiede una via non naturale di recitare, al contrario dare vita allo
straniamento richiede leggerezza, naturalezza. Elemento grottesco non necessariamente
coincide con esagerazione stilizzata. La non coincidenza tra performer e personaggio non
necessariamente deve coincidere con recitazione lunatica, stilizzata, evidenziazione troppo
farsesca delle idiosincrasie del personaggio.
Influenzare lo spettatore tramite il metodo induttivo: la rappresentazione del comportamento
umano serve per agire sullo spettatore, renderlo critico verso la società. Il consenziente e il
dissenziente basato su opera giapponese ma con ambientazione cinese, classica. Un giovane
si appresta a scalare una montagna per avere una cura per la madre e cade malato. Sacrificio
di sé nei confronti della causa e poi, a fronte di reazioni studentesche crea poi il dissenziente,
marxista, nessuno deve essere lasciato indietro. Effetti emotivi devono essere controllati. Il
trattamento delle emozioni dello spettatore deve essere critico. Incidente: termine chiave nel
dettato brechtiano, accadimento della contemporaneità che ispira i lavori. Attinge ai fatti della
contemporaneità per creare drammaturgie, li chiama incidenti, possono essere trattate come
scene a sé stanti, trattate al di sopra del livello del quotidiano. Emblematicità anche nella
separatezza di dati momenti. Il non pacato fluire di una scena nell’altra, quasi scene spezzate
è un ulteriore device straniante. Separare il gesto dall’espressione facciale è uno dei metodi
per produrre lo straniamento. Fornisce indicazioni fattive: indossare una maschera, mettersi
allo specchio, performare isolando permette di costruire una partitura di gesti significativi in
sé e per sé, anche scissi dall’espressione. Di questo training allo specchio l’attore dovrebbe
poi inglobare gli elementi più significativi. Si parla addirittura di attitudine, postura,
approccio al lavoro. può raggiungere lo straniamento anche nel parlato, creare partiture di
particolarità fonetiche, grazie alle quali può permettere la trasposizione del naturale
nell’artificiale. Emblematico nella misura in cui può permettere la distanza senza essere
eccessivamente robotico e non naturale e permettere il sollevamento delle singole sequenze al
di sopra dell’ovvio.
Gestus: atteggiamento brechtiano, insieme di attitudini che dovrebbero caratterizzare l’attore
che si deve relazionare con lo straniamento. Influenzato dall’intento sociale di Brecht. Questa
è la teoria.
Risvolti della pratica: libro di Claudio Meldolesi e Laura Olivi si sono dati in anni 80 e 90
numerose interviste a esponenti del Berliner. Chiedono se attori praticassero straniamento. Ci
sono pareri discordanti. “Seguivo indicazioni e recitavo come mi veniva in quel momento” è
già tradimento della teoria. “Ho sempre recitato con l’immedesimazione come avevo
imparato con Max Reinhardt. Maestro di Brecht suo malgrado, nell’ambito
dell’espressionismo tedesco.
Bois:“Non so bene cosa intendesse, non lo ha mai spiegato all’attore”. Brecht
nell’approcciarsi alle prove, muoversi nel laboratorio pratico, non ha mai ritenuto di dover
istruire l’attore secondo i suoi disegni teorici. Teatrante formato in una tradizione ibrida
Attrice Inge Herbrecht contraddiceva il marito (Bienert): “la tecnica di straniamento è molto
semplice, congeniale all’essere il personaggio ma nel frattempo esserne fuori”. Entrare e
uscire dal personaggio è solo parola chiave utile per non cadere nella falsità. Preoccupazione
nei confronti del rischio della falsità viene meno nell’attore non immedesimato.
Distanziamento è meta teatrale e meno teatralmente richiedente. Brecht ricordato da qualcuno
come tiranno benevolo, rapporti non sempre platonici con più donne. Cercava rapporto
materno, amava essere imboccato, la moglie dice che non sarebbe stato capace neanche di
comprare un biglietto dell’autobus. Lui diceva di essere capace ma che voleva che gli fosse
comprato. Berliner è come grande e disfunzionale famiglia. Regine Lutz: “abbiamo sempre
usato distanziamento senza però rendercene mai conto”. Schall dice cosa paragonabile.
Wekwerth, personaggio di spicco nella Berliner post Brecht: la Weigel non era capace di
straniare coscientemente una scena ma capacità di recitare contraddizioni.
Hans Joachim-Bunge, realizzatore del diario, cronachista dell’allestimento brechtiano,
ricorda che Brecht non spiegò mai agli attori come recitare. Aneddoti di Brecht che di fronte
a una attrice che dice di star recitando le sue teorie lui dice: “per carità, non le legga di fianco
a me”. In situazione accademica, visita di alcuni studenti, è terrorizzato che possano
chiedergli qualcosa sui suoi scritti teorici perché non li ricorda. “Ciò che scrissi allora andava
bene ma ora è tutto diverso”.
Aderenza alla pratica a discapito di apparato teorico troppo granitico. Contraddizioni tra il
suo pensiero e la sua prassi artistica. Un disegno teorico che non può trovare riscontro nella
pratica. Da Reinhardt in sede di prove Brecht continua ad attingere la tipologia secondo la
quale non istruisce l’attore sul suo disegno teorico e non gli dà specifiche informazioni.
Raccontava aneddoti, forniva spunti circostanziali atti a sollevare un’attitudine, non troppo
precisa infarinatura teorica.
Fallimento brechtiano, Madre Coraggio e i suoi figli, cupidigia di piccola imprenditrice senza
scrupoli porta alla progressiva dipartita di tutti i figli. Attrice Weigel, pur animata da
dispositivi stranianti, guadagna la commozione del pubblico, applausi emotivi reazione che
per Brecht è fallimento del suo disegno teorico anche se gran successo di pubblico.
Vedi video. Madre coraggio fa urlo muto di fronte alla scomparsa dell’ennesimo figlio,
contenimento del dolore, urlo privo di articolazione.
Video: altra morte, ninna nanna, di fronte a sollecitazione di altri personaggi si appresta alla
sepoltura della figlia e poi torna l’usuale mercante, si dedica allo scambio di denaro e parte
per nuovi commerci. C’è anche una testimonianza di un attore al quale Brecht aveva rivelato
di non essere riuscito nel teatro epico. Straniamento è fondamentale nella cassetta degli
attrezzi di un attore. Mancanza di filologia. La dottrina di Brecht è spesso stata usata come
arma a doppio taglio, imposta anche in ambiti restii a farla propria (Francia, Brecht ha
risonanza ma brechtismo percepito come eccesso critico aleggia minaccia marxista). Non c’è
stata una precisa canonizzazione del metodo. Scappa dall’America, viene convocato, in clima
Maccartista presso il comitato anticomunista. Si salva da verdetti minacciosi con
testimonianza brillante. Scampato, torna in Europa e non tornerà più in America. Si cerca di
diffondere la sua teoria anche in luoghi che non l’avevano accolta a braccia aperte all’epoca.
Anche Artaud. Anche la non totale compiutezza ha alimentato varie direttrici. Miriade di
interpretazioni.
Ci sono prosecutori italiani della linea brechtiana che hanno fatto loro gli insegnamenti di
Brecht. Anche in un clima che abbandona le ferree dottrine.
Dario Fo emula i giullari medievali nel rafforzare la dignità degli ultimi. La sua tipologia
narrativa è un pastiche di parole quasi mai attinte dalle stesse sfere semantiche. Parlato infuso
di azione e preceduto da una spiegazione. Narrazione di ciò che si fa antecedente al fare. La
comprensione della lingua di riferimento non è sempre fondamentale, spesso è la gestualità a
fare da padrona. Spezzoni tratti da Mistero Buffo: figura di Bonifacio VIII, che Dante prevede
arrivare all’Inferno e cacciare Nicolò III. Fo propugna una cultura che è in opposizione alla
storia impostaci, propone una cultura non filologica, che fa proprie modalità del parlato,
mirabilia, dicerie, elementi popolari non comprovati, frutto dell’oralità trasmessici come
sicuri, nella misura di recupero della cultura per il popolo contro l’imposizione tecnica della
stessa. Porta alla sua contemporaneità la fonte, il clima medievaleggiante e popolareggiante
dei suoi lavori. Accoglie le suggestioni del pubblico nel momento spettacolare. Excursus.
Bonifacio con bava verde, riferimento alla politica del tempo, dice che a reggere la sua
portantina ci sono dei giovani di Comunione e Liberazione. Fo ammicca al pubblico,
contestualizza, offre le chiavi di lettura delle giullarate che lo hanno reso famoso. Le porta in
scena in maniera straniante, venir meno della partecipazione misurata dell’attore brechtiano,
in un ambito diverso Fo si permette delle uscite ben più evidenti. Ha introdotto Bonifacio per
venti minuti, poi lo porta in scena. Pastiche linguistico, dialetto artefatto con settentrionalismi
si unisce a orpelli del latino ecclesiastico.
Marco Paolini
Altro esito successivo a Fo, degli anni ’90, è il teatro di narrazione che nella maniera più
concreta fa proprio l’aspetto dell’epos, annulla la scenografia, aumenta la vicinanza anche
prossemica al pubblico. L’io narrante è tale in quanto è narratore in scena. Cose minute,
quotidiane, per arrivare poi a un explicit. Mette in luce la catastrofe, i fallimenti della società
italiana negli ultimi anni. Un esempio è il racconto del Vajont, duemila vittime. Alcune
tuttora non identificate. Paolini tradisce la derivazione da Fo. Diretta su Rai Due dal luogo
della diga. Doppia influenza di Fo e di Brecht. Corso di recitazione alla Paolo Grassi.
Eccessiva maestosità di un capostipite di questo genere. Spesso i riferimenti sono non
commensurabili. Ha toni comici, pur illustrando la vicenda del Vajont, è tutelato dalla
mancata identificazione, dall’essere distanti. Il riso trascolora nella percezione della tragedia
alla presenza di mille persone chiamate nel luogo del disastro. Distanza del narratore è anche
distanza effettiva. Paolini ha ricostruito la vicenda, non è stato testimone ma si è fatto tale. Ha
ricevuto prima di trasmettere. Strepitoso successo televisivo. In Paolini individuazione corale
dei personaggi coinvolti nella strage e operazione di cordoglio, ineluttabilità, non c’è un
puntare il dito. È evidenziata la regionalità degli abitanti, riferimenti al dialetto veneto, al
fatto che reggessero quel determinato vino.
Esempio ancora più attuale è Maurizio Crozza imitatore flagellatore di personaggi della
nostra contemporaneità. Politici e personaggi che sono in vista. Come Fo fa un cappello
introduttivo, ha un atteggiamento, frasi ricorrenti. Omaggio a Fo, fa riferimento a vicenda di
cronaca, Ruby. È meno consapevole ma è significativo del perdurare di una tradizione di
matrice straniata che in Italia ha visto come catalizzatore soprattutto Fo. Teatro che si rivolge
a molti. Accessibile, guadagna slot televisivi grazie all’ottica di distanziamento della materia
trattata.
Lezione 17 12/04
Mejerchold e biomeccanica.
La biomeccanica costituisce uno dei punti di svolta fondamentali nelle pedagogie teatrali.
Unita al discorso che fa capo alla teoria delle azioni fisiche, rappresenta l’eredità più
significativa del teatro del Novecento soprattutto per le avanguardie degli anni ‘50, del
dopoguerra. Grotowski fonda la sua teoria della recitazione sulla sintesi tra Mejerchold e
Stanislavskij. Tutto il teatro laboratorio di secondo novecento, (tutte le scuole lo usano come
dispositivo), si ispira, sintetizza gli apporti di Stanislavskij e di Mejerchold. Brecht meno
perché incide meno sul teatro laboratorio. Il tassello fondamentale è Mejerchold perché porta
a compimento il tema del lavoro sul corpo, sulle azioni fisiche. Quello che Stanislavskij
sviluppa nell’ultima parte della sua vita e in modo non del tutto consapevole, Mejerchold lo
fa diventare ipotesi scientifica su cui formare le basi dell’arte dell’attore. È importante capire
il contesto in cui opera. Dentro i fermenti, le utopie e i cambiamenti fondamentali della
Rivoluzione russa. Stanislavskij rimane ai margini dell’utopia rivoluzionaria. Poteva
prescindere dalla rivoluzione, non l’ha mai cavalcata né se ne è mai sentito parte. È stato
esibito dalla rivoluzione come uno dei frutti della stessa anche se lui si è tenuto in disparte.
Mejerchold invece è figlio della rivoluzione al punto da rimanerne schiacciato. Bisogna
partire dalla Rivoluzione per comprendere la sua evoluzione. La Rivoluzione russa ha
modificato non solo il sistema politico e sociale interno alla Russia, e, con l’utopia socialista,
le coordinate geopolitiche dell’Europa e del mondo, ma è stata una rivoluzione anche
culturale. Di fatto gli ideali del socialismo sono stati portati avanti dalla rivoluzione e da
coloro che l’hanno vinta, ma anche dalla guerra civile. Fin da subito all’interno del
movimento socialista ci sono state fratture, divergenze che sono state soffocate con il sangue.
La rivoluzione ha avuto episodi cruenti, dolorosi. Vittoria dei bolscevichi a scapito dei
menscevichi. Ha vinto la parte che faceva capo a Lenin ma processo di grande conflittualità,
per avere potenzialità di cambiamento gli ideali rivoluzionari dovevano essere parte di un
nuovo modello culturale. Gli ideali dovevano essere inculcati nella popolazione.
Eliminazione delle gerarchie e delle differenze di classe. Proletariato non solo mondo dei
lavoratori, rivoluzione che ha interessato le masse di lavoratori e soldati ma anche mondo
contadino. Ha curato la dimensione della propaganda, idea che rivoluzione deve diventare di
massa se la massa assorbisce gli ideali. Inculturazione. Elemento costitutivo di
disciplinamento sociale è il teatro, visto fin da subito come uno degli elementi più pervasivi
della propaganda. Gli effetti sono immediati. La rivoluzione porta fin da subito all’affermarsi
dei soviet. Centrali operative di pensiero della propaganda e proletkult, associazioni che
promuovevano pratiche teatrali fondate sui principi della rivoluzione. Gran parte dei teatri
vengono nazionalizzati. In questo clima si forma Mejerchold, che arriva al teatro prima della
rivoluzione. Aveva già fatto i suoi primi passi con Stanislavskij, guardava ai movimenti
avanguardisti, contrari all’ immedesimazione e al naturalismo. Fa suoi gli ideali del futurismo
russo, specie Majakovskij, inizia una carriera autonoma e arriva a dirigere. Passa da una
direzione di un teatro all’altra. Lavora con attore e impresario. Prende direzione di
Aleksandrinskij e Mariinskij. Mejerchold è così dentro il principio rivoluzionario che conia il
famoso detto dell’ottobre teatrale. La rivoluzione è Rivoluzione d’ottobre e lui conia
quest’espressione per dire quanto il teatro è stato partecipe della rivoluzione. Attivismo
fortemente propagandistico, seguendo le tendenze del futurismo russo. Tutto questo produce
una nuova idea di teatro. La sintesi tra l’eredità delle avanguardie e gli ideali della
rivoluzione crea un connubio che porta Mejerchold a costruire un suo metodo pedagogico e
un suo approccio alla regia. Questa fusione sarà centrale per la cultura russa dell’epoca. La
direttrice che prende la cultura rivoluzionaria non riguarda solo il teatro, ma anche le arti
figurative: la cultura è uno strumento rivoluzionario perché rende visibili i principi fondativi,
le linee di forza della rivoluzione. Oltre a propagandare le idee rivoluzionarie, doveva
incarnarle e renderle visibili nei loro principi costitutivi. Il futurismo tra tutte le avanguardie è
una delle più interessanti. Movimento avanguardista anti-mimetico. L’imitazione della realtà
e il naturalismo sono associati a un ideale borghese. Il futurismo invece rovescia questo
principio: compito dell’arte è astrarsi dalla realtà per coglierne i principi energetici, le
tensioni, le forze che la animano. Sono le essenze che caratterizzano la vita come energia,
colta nella sua dinamicità. L’arte non imita la realtà in senso borghese ma ne recupera le linee
di forza in termini astratti. Lo fa anche il futurismo italiano. Questo tocca la rivoluzione
perché uno dei principi è quello di aver sovvertito l’immagine dei rapporti di forza
tradizionali e aver portato in luce una nuova energia che mobilita le masse. È tensione che si
basa sul principio di azione. Ha rivelato qual è veramente la forza produttiva di una società,
non il capitalismo borghese ma l’economia che viene dalla massa. Anima della società non è
chi la controlla e disciplina ma la vera forza è la forza lavoro che anima l’industria, il
movimento operaio, i contadini e le azioni dei soldati. La dimensione produttiva di una
società appartiene alle masse, non all’élite. L’élite cerca di controllare, sfruttare e dominare le
masse usando la forza lavoro dell’operaio, del contadino, del soldato. La rivoluzione non ha
fatto solo un gesto politico che ha modificato gli assetti dominanti del sistema. Ma portando il
popolo al potere ha dimostrato che cos’è l’essenza del potere stesso, principio dominante
dell’economia e della vita, basata sull’azione e sulla produttività. La più emblematica è quella
dell’industria. Scopo della cultura è rivelare, far emergere l’identità di questa forza lavoro, la
realtà del nuovo assetto politico e culturale, basato sullo stretto rapporto tra massa e azione.
La loro unione produce il lavoro, anima della società, sua produttività. Il lavoro è azione. Il
principio dell’azione è commisurato alla forza lavoro delle masse e sua produttività.
Lo scopo dell’arte è semplicemente rendere visibili queste forze, mettersi al servizio di questa
nuova visione del mondo. In questo senso l’artista non è diverso dall’operaio. Ha la stessa
funzione. L’operaio agisce e rende visibile la forza lavoro, così lo fa l’artista che è come
operaio. L’arte non è imitazione di una realtà ma azione di una realtà. Non la imita, non la
nobilita ma è azione pura, è trasformazione della realtà. Deve rendere visibile l’anima
produttiva della realtà. Non può essere imitativa perché le forze invisibili devono essere
visibili. Arte deve essere geometrica, scientifica da un certo punto di vista. La processualità
artistica è come quella industriale, deve seguire gli stessi parametri. Siamo alla base del
costruttivismo. È un tentativo da parte del sistema delle arti di restituire tensioni e dinamiche
che stanno alla base di vita, azione e produttività. Concretamente come si traduce? Dal punto
di vista registico, Mejerchold traduce questa intenzione in vari modi: pratiche agit-prop,
azioni artistiche di strada che animavano la vita collettiva mettendo in luce ogni volta alcuni
dei principi rivoluzionari. Azioni sintetiche che non volevano restituire azione narrativa ma
simboli: linee, punti di forza della rivoluzione. Majakovskij: “le strade siano i nostri pennelli,
le piazze le nostre tele”. A Parigi il motto è “dans la rue” strada è non solo luogo della massa,
reticolo che anima la vita della città ma parte della società emergente.
Flash mob, azioni produttive di strada. Altra linea di lavoro di Mejerchold come regista è
costruire spettacoli secondo il modello costruttivista, applicando la biomeccanica. Non tanto
palcoscenico che imita la realtà. Mejerchold critica a Stanislavskij il non riuscire a uscire
dalla prospettiva naturalistica. Per Mejerchold il palcoscenico è luogo in cui l’invisibile si
rende visibile. Prende corpo dall’unione di più linguaggi, è principio del costruttivismo. Nelle
regie di Mejerchold l’attore non imita. È portatore di energia cinetica. L’insieme delle azioni
che tutti gli operai compiono produce manufatto, allo stesso modo teatro è luogo dove azioni
compiute da attori operai rendono visibili le linee di forza.
Lo spazio scenico non è più imitativo, rappresentativo ma il luogo dove, come in un quadro,
sono visibili le azioni. L’attore si muove nello spazio e interagisce con una scenografia ma
non mimetica. Piani inclinati interagiscono con movimento dell’attore e lo accelerano, lo
facilitano o ostacolano creando un quadro cinetico. Figure geometriche per nulla imitative se
non per visioni simboliche. L’attore si muove rendendo visibile la tensione della sua azione.
Uno degli esempi che stimolano Mejerchold e Eisenstein è il circo: era acrobatica, esibizione
del movimento non finalizzato a raccontare qualcosa ma pura esibizione del gesto atletico. I
principi che regolano sono l’equilibrio, la velocità, la forza. Vedi la forza e potenza
dell’azione in tutte le sue qualità, rapporto con il vuoto, il pieno, il trionfo dell’azione portato
alla sua qualità più alta e più produttiva. Chiamato non a imitare qualcosa o qualcuno ma
rendere visibile la vita nella sua dinamicità. Dinamismo non è solo quello cinetico.
Riflessione sul movimento, la velocità, in Russia si sovrappone alla dimensione produttiva
del lavoro. Arte non è altro che una delle varianti del lavoro che rende visibili le forze che
animano il lavoro stesso. Due o tre conseguenze:
 Alla luce di ciò, il fatto che non rappresenti ma rendi visibili delle tensioni, rompe la
dimensione narrativa dell’arte, contraddice il dominio testuale dove testo è dispositivo
fondamentale della narrazione. Teatro. Messa in scena altro non è che ricostruzione di
una storia rappresentata in consequenzialità causa effetto. Azione non deve narrare
qualcosa. Non solo non riproduce la realtà ma non produce neanche racconti. Esibisce
la realtà nelle sue tensioni, non la racconta. L’arte diventa antinarrativa, antitestuale.
Dimensione narrativa dell’arte viene meno. Non solo rottura del naturalismo ma
anche del dominio testuale. Tutti gli elementi della scena concorrono a rendere
visibile la forza dell’azione. Non devi restituire l’autorialità del testo. Elementi
puramente decorativi, per buona parte dell’Ottocento la scenografia era illustrazione
della scena. Aveva il compito di immergere lo sguardo dentro a un’immagine della
realtà che fosse simile a quello che avveniva. Qui non più, la scenografia è parte
dell’azione stessa. Non si può scindere dalla scenografia che la ospita. Il piano
inclinato è parte dell’azione che l’attore compie. Nasce il concetto di scrittura scenica.
Lo spettacolo è scritto dalla scena. Non ha una sua autonomia. Luci, oggetti,
scenografie, movimento dell’attore sono un tutt’uno e fanno parte della stessa
scrittura. Arte diventa questo.
 Al principio narrativo si sostituisce il principio del montaggio. Idea che la scrittura
scenica non essendo più narrativa, non più basata su rapporto di causa effetto, cioè
un’azione ne produce un’altra per affinità di geometrie, richiami di ritmo, affinità o
contrasto di emozioni, passioni. Attore corre su piano inclinato e salta. Unisce parte
dell’azione e la monta con un’altra. Il montaggio delle attrazioni. Il circense
ricostruisce il suo pezzo non per raccontarti qualcosa. Un trapezista dopo oscillazioni
si lancia, l’altro lo prende: nuovo schema; frutto del montaggio tra azione precedente
e questa. È necessaria la dinamicità. Lo spectaculum è frutto di montaggio di
attrazioni, momenti topici che combaciano tra loro e creano composizione. Non messa
in scena ma montaggio di azioni.
 Allora prenderà sempre più forza il processo rispetto al prodotto, viene meno il
concetto di opera come prodotto. Importante è come monti l’azione più che il risultato
dell’azione stessa, spettacolo vale in quanto testimone di un processo, non opera
finita. Le prove sono più importanti dello spettacolo per Grotowski perché metti a
fuoco la potenza dell’azione, la cambi, la perfezioni. Per i russi era fondamentale.
Così era la rivoluzione che aveva portato alla caduta dell’impero dello zar, ma il
processo non doveva limitarsi lì, processo che doveva sovvertire l’intero sistema
globale. Dopo la rivoluzione russa per molti anni in Europa c’era l’internazionale
socialista. Modello mondiale. Alla base c’è l’idea che rivoluzione non è prodotto ma
crea dei processi di cambiamento che sono contagiosi, tendono a riprodursi. Sempre
più interessante quello che avviene nel processo che ciò che si consuma nel prodotto.
È necessario ma perde la sacralità che aveva opera d’arte, Benjamin. Arte è
consumata nel processo.
 Le cocu magnifique, è una scena costruttivista fatta da geometrie di spazio
percorribili, praticabili. Idea che attore lì non rappresenta ma crea il ritmo, rende
visibile l’anima. Il flusso di queste geometrie. L’attore non è più individuale ma è
coro, è collettivo come lo sono l’operaio e la produttività. Gli attori valgono in quanto
portano il loro pezzo di dinamicità nel processo dell’azione. Sono parti del montaggio.
Costruiscono dei gruppi semantici di azione. Non ci sono mai individui, coralità
dell’azione. Il disegno è complessivo, non c’è un primo piano uno sfondo, una
prospettiva ma una visione complessiva dell’azione in cui ciascuno ha un piccolo
pezzo. Questo ideale dal punto di vista pedagogico sull’attore si trasforma in
biomeccanica.
Attore biomeccanico è un attore che ha consapevolezza della meccanica del bios, vita
nella sua organicità, sue componenti neurologiche e fisiche. Vita come muscolo, sangue,
respiro, battito. L’attore conosce meccanica del bios, se stesso nella sua organicità da
esserne padrone: viene fuori idea che attore altro non è che il suo corpo. L’attore non è
anima. Non deve servire a rappresentare un’immagine. Il corpo è rappresentativo in
quanto tale perché è vita. È prospettiva materialista, non spiritualista come era quella di
Stanislavskij. L’attore in questo senso è colui che ha maturato la piena consapevolezza di
sé in termini organici. Il lavoro dell’attore su se stesso è lavoro su organicità, sul proprio
corpo, mente, sintesi tra sentimento e azione. È scientifico, non c’è nulla di sentimentale
nel senso più spirituale del termine. Creatività è scientifica, non immedesimativa. L’attore
può essere capace di creare nella misura in cui ha corpo allenato. Bravura sta nella
capacità di essere padrone dei movimenti. Attore è biomeccanico. In questo senso è
operaio che concorre a rendere visibile la vita come processo produttivo. Russia è terra
della psicofisiologia, a supporto di Mejerchold ci sono movimenti, prospettive
scientifiche. Un attore non è mai un interprete, è espressione del suo corpo nella sua
potenza produttiva. Il lavoro dell’attore su di sé non sarà immedesimativo, spirituale, di
introspezione psicologica ma di allenamento fisico. L’attore deve conoscere se stesso in
termini fisici. Deve conoscere la propria organicità. Discipline del corpo che si stanno
fortemente imponendo in quell’epoca: ginnastica, euritmica, training. Oggi ogni
laboratorio teatrale ha training, esercizi fisici, allenamento del corpo alla padronanza dei
gesti, respirazione. Per Mejerchold i principi fondamentali sono quelli di opposizione,
tensione, distensione, equilibrio e disequilibrio, dinamicità e staticità. L’attore deve
allenarsi come operaio. Principio taylorista dell’industria, discorso sulla catena di
montaggio.
Immagini che documentano sezioni del lavoro di allenamento dell’attore. Sembrano
ginnasti che stanno provando, danzatori. Sono esercizi di smontaggio e rimontaggio
dell’azione; per avere padronanza del corpo, l’attore deve destrutturarlo e ristrutturarlo.
Trovare grado zero del movimento per poterlo ricostruire. Contraddice le logiche
dominanti della società borghese. La struttura viene destrutturata. Nessuna differenza tra
attore, sportivo e ginnasta. Azione colta nella sua dinamicità di base. Corsa, arresto, salto,
camminata.… disarticolazione permette di essere consapevole che ciascuna parte del
corpo è autonoma ma funziona in relazione con le altre parti. Altrimenti sei in logica
dell’automatismo. Movimento è unico. Più attori producono come catena di montaggio un
unico movimento. Non rappresentano i personaggi ma rendono evidente quella tensione
muscolare che c’è.
Tutto questo diventa improvvisazione: è la libera ricomposizione dei movimenti prima
destrutturati in un nuovo montaggio. Esibisce potenzialità del corpo che nella realtà non
sono percepiti ma resi visibili attraverso la scomposizione e ricomposizione. Gesto
liberatorio nei confronti del corpo perché lo pone in un’altra dimensione produttiva, altra
dimensione dell’uomo che prima non era concepita. Espressione di sentimento non
separata dall’organicità del corpo, ma sta dentro a organicità del corpo. Il montaggio per
l’attore è costruire delle partiture dove questo montaggio delle attrazioni viene reso
visibile. Non attrattivo, mimetico ma biomeccanico.
Sequenza del pugnale. Azione banale. Un attore pugnala un’attrice. In ambito
naturalistico avrebbe previsto interpretazione di tipo immedesimativo. L’avrebbe caricata
di pathos. Qui scomposizione scientifica di azioni corporali del pugnalare. È
asetticamente analizzata solo rispetto a impulsi e contro impulsi che questa azione
determina. Il protagonista si avvicina, anticipa allontanandosi. Per concentrare l’energia
nel gesto fa prima una tensione per sviluppare poi l’estensione. Quando esplode lo fa
creando la biforcazione. Il corpo dell’attrice si predispone come ricevente del colpo, si
inarca, dall’altra parte il pugnalatore fa arco nell’altra direzione. Il pugnale non va subito
giù, fa sforzo, ricarica e sforzo massimo.
L’attrice muore; non cade a terra ma compie continue azioni e contrazioni. Cade, si rialza.
Si inarca per far vedere quanto il colpo sia stato profondo, poi cade. Lui mette via
pugnale. Poi corpo morto dritto. Tutto il lavoro non è imitativo ma va ad alimentare e
scoprire innervazioni corporee funzionali all’azione. È il corrispettivo di quello che fa
l’acrobata.

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