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Tutto questo trova il suo culmine all’inizio del Novecento con le cinque grandi rivoluzioni:
1. l’invenzione della regia - fino al ‘900 c’era il capocomico che organizzava lo spettacolo, il concetto di regia
nasce come organizzazione espressiva dello spettacolo;
2. il rifiuto del fatto che il teatro si fondi sul testo drammaturgico - è il momento spettacolare che può basarsi
su un testo letterario ma il suo carattere artistico intrinseco esiste a partire dallo spettacolo, quindi il teatro visto
non come genere letterario;
3. pedagogia dell’attore - l’attore è qualcuno che deve essere educato alla rappresentazione, nell’800 il
pubblico del teatro del grande attore diceva “vado ad ascoltare, non a vedere lo spettacolo” proprio perché
l’elemento retorico era centralizzato, non era tanto la presenza scenica del grande attore;
4. la rinascita della danza - non più pensata in termini classici, ma moderni (es. Isadora Duncan), la danza
e il teatro come movimento puro del corpo;
5. il ripensamento dello spazio scenico - il teatro non solo come luogo tradizionale, ma in qualsiasi luogo in cui
qualcuno è disposto a vedere qualcosa di teatrale, quindi come esperienza più che luogo, si supera l’idea della
frontalità tra l’attore e il pubblico, il piano di chi assiste e di chi fa spettacolo si confonde. Il Living Theatre infatti
parla di “happenings” in cui attore e spettatore condividono un momento rituale vero e proprio.
altro oggetto, luci, etc. non implica una presenza umana, il teatro è impensabile senza presenza umana,
l’uomo dev’esserne almeno componente.
La prima direttrice si inaugura con il metodo Stanislavskij, che mette l’uomo, l’attore, al centro di concetto di
teatro, quest’ultimo si fonda sul principio dell’attorialità.
Stanislavskij
A Mosca, egli creò un teatro interrogandosi sul suo ruolo di proto-regista, anzi di
capo compagnia, e in quanto organizzatore, la sua interrogazione nasce da un
problema singolo che gli viene posto, a partire dal suo rapporto con Cechov capisce
che per metterlo in scena ha bisogno di ripensare il concetto di recitazione - i suoi attori
devono comprendere la recitazione. Inventa una educazione/pedagogia dell’attore,
cosa vuol dire esserlo e cosa vuol dire recitare. Tutta questa esperienza la esprime ne
“Il lavoro dell’attore su se stesso”: è un diario, si inventa un personaggio Coschia,
giovane attore di una compagnia teatrale che prova con il suo regista, Torkov (egli
stesso), attorno a queste prove Torkov educa, sviluppa la sua pedagogia dell’attore
che si fonda sul fatto che egli decide che l’unica maniera autentica della recitazione è
superando il concetto di rappresentazione e imitazione (alla base del teatro c’è l’idea
che il teatro è imitazione dell’azione, il rapporto tra attore e personaggio è imitazione).
Stanislavskij pensa che per trovare l'autenticità reale del teatro, affinché diventi
un luogo artistico ed espressivo, bisogna sostituire questa idea con l’idea di
personificazione - l’attore non deve imitare o rappresentare il personaggio, ma deve
diventarlo, deve lavorare nella maniera più graduale e approssimarsi più possibile al
personaggio stesso, deve diventare il personaggio non solo durante le prove ma tutti i
giorni, costantemente, l’attore e il personaggio devono coincidere. Come fa l’attore a
farlo? Non è un processo uni-direzionale ma avvicinarsi al personaggio e viceversa,
portando il personaggio a sé, per fare ciò egli inventa una serie di procedimenti, che
descrive in questo diario:
1. Reviviscenza - l’unico modo che l’attore ha per portare il personaggio a sé e
viceversa è recuperare, attraverso questo lavoro di reviviscenza, dentro di sé le
emozioni che il personaggio che deve rappresentare vive, più è ricca la biografia
dell’attore più le sue possibilità espressive sono ampie, una “memoria emotiva” di
emozioni. E’ dunque il processo attraverso cui l’attore scava dentro questa
memoria emotiva recuperando quell’emozione che più si approssima al
personaggio, riportandola al livello di coscienza, utilizzandola per poter
personificare quel personaggio.
2. Sottotesto dell’attore - l’attore deve costruire il sottotesto del personaggio, non può
solo basarsi sulle azioni del personaggio descritte sul testo drammaturgico (che è
fotografia del personaggio), deve costruire anche tutto il contorno, scrivendo la sua vita
aldilà del testo. Il sottotesto è quel qualcosa che del personaggio non c’è e che l’attore
deve costruire per poter diventare quel personaggio. L’attore crea personaggio tanto
quanto l’autore. L’attore lavora dunque sulla propria interiorità che poi si traduce in
azione. Il suo metodo contempla questo e il suo opposto.
3. Concetto di “io magico”, solitudine dell’io - deve percepirsi nella sua totale
solitudine, come se il pubblico non esistesse. L’attore per poter personificare il
personaggio deve smettere di vedere sé stesso dall’esterno, se devo personificare
qualcuno, quel qualcuno non è solo qualcosa che osservo dal di fuori, a un certo punto
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l’io dell’attore deve coincidere con quello del personaggio e questo avviene proprio
tramite l’”io magico”, che è una condizione magica che rende la soggettività dell’attore
una nuova soggettività attraverso un processo di alchimia. Da qui si crea il nuovo io del
personaggio. E’ il risultato di un dialogo, di un rapporto, di una dialettica tra l’io del
personaggio e quello dell’attore, in questo rapporto si sintetizza questa dialettica nella
creazione dell’io magico. La condizione specifica di questo io magico è il fatto che
l’attore crea l’io magico del personaggio nel momento in cui smette di vedersi
dall’esterno, diventandolo in maniera assoluta. Per potersi percepire come nuovo io,
deve sentire il vuoto intorno a sé, solo, solo questo gli consente di guardarsi
dall’esterno.
Nel “Lavoro dell’attore sul personaggio” Stanislavskij tenta di dire le stesse cose del
primo testo a partire da una forma saggistica, e non più finzionale, è un testo
incompleto. Non si cambia la natura del tema ma lo aggiorna, in particolare è il
momento in cui parla delle 3 fasi del metodo:
1. Conoscenza; 2. Reviviscenza; 3. Personificazione. Il metodo di recitazione che
propone si divide in queste tre fasi dove di fatto non aggiunge molto. Nel primo, l’attore
deve conoscere il testo nel modo più approfondito possibile, una volta fatto questo c’è
la fase di Reviviscenza, lavoro su sé stesso e memoria emotiva, dopodiché ci sarà la
terza fase di Personificazione, ovvero la creazione dell’io magico, crea una nuova
dimensione dell’io smettendo di vedere dall’esterno.
Dunque vengono dette le stesse cose ma in forma saggistica.
Stanislavskij compie una rivoluzione, da qui nascerà tutto il Novecento che verrà
perché definisce sé stesso e il suo opposto - nel secondo saggio fa una rivoluzione
sul suo metodo e comincia a parlare del “Metodo delle azioni fisiche”: arriva a pensare
che il metodo più appropriato per raggiungere l’obiettivo della personificazione è
l’esteriorità sull’interiorità, quindi non scavando etc., ma cominciando ad agire, devo
comportarmi e agire come il personaggio, tutta la dimensione corporea e fisica.
Solo in questo modo tutta la parte interiore prenderà corpo da solo. Definire il dominio
del corpo sul dominio delle emozioni.
Il Novecento si divide in due categorie: teatro con l’uomo centrale e il teatro con
l’impersonale centrale (e quindi scenografie e oggetti, con l’uomo compreso).
Stanislavskij è uno dei grandi esponenti della prima direttrice, questa contiene due
direttrici a sua volta:
1. Lui, che aveva teorizzato per tutta la vita totalmente l’ opposto, arriva all’intuizione
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della centralità del corpo, che svilupperà l’origine del performativo (esponente
maggiore Mejerchol’d).
2. Proprio per questo, pensando che il corpo e l’esteriorità sia il centro, penso che il
corpo di chi lo abita, di chi lo appartiene, è più importante del personaggio.
Qui c’è già l’intuizione del futuro, cosa impensabile per il teatro del primo Novecento. Il
corpo diventerà la piena presenza. Tutte le teorie successive saranno tutte una sua
conseguenza.
- Quello di mestiere che fa uso dei cliché, dei modelli stereotipi di recitazione ed
è del tutto estraneo alla dimensione artistica.
- L’attore rappresentativo che approfondisce il personaggio durante le prove
ma poi in scena si limita a riprodurre il lavoro fatto,
- Infine l’attore che agisce come se per lui tutto ciò che accade sulla scena
stesse capitando per la prima volta, che rivive in scena ciò che ha
vissuto durante le prove. È l’attore di cui Stanislavskij è in cerca e per
trovarlo costruisce un sistema di lavoro. La prima fase riguarda le
‘’circostanze date’’ e il ‘’magico sé’’. Le prime sono rappresentate dal contesto
narrativo in cui agisce il personaggio, ma anche dall’ambiente in cui agisce
l’attore: non una scenografia bella in sé ma utile alla verità della recitazione.
L’attore deve affrontare il personaggio dividendone le azioni in sezioni per
ciascuna delle quali si attribuisce un compito: che cosa fare e soprattutto
perché. Si tratta di un lavoro di approfondimento razionale della parte che
rischierebbe di restare freddo se non intervenisse il ‘’magico sé’’: che cosa
farei se fossi al posto del personaggio? Non è un lavoro di immaginazione ma
di investigazione dell’attore su se stesso. L’attore sposta il baricentro dal
personaggio a se stesso cercando situazioni emotive sue che corrispondano
a quelle del personaggio. Il lavoro si svolge sue due piani: quello dell’analisi e
quello della capacità di rievocare le emozioni. In entrambi i casi occorre agire
su cose concrete. Nel primo ricostruendo mentalmente quello che il
personaggio fa anche quando non è in scena: come si relazione questa
biografia immaginaria con le scene predisposte dall’autore? Nel secondo
sollecitando le sue emozioni attraverso il ricordo di cose che gli sono
realmente successe. La memoria diventa così un vero strumento di lavoro, un
archivio che Stanislavskij definisce una ‘’memoria emotiva’’ in quanto è in
grado di far tornare in vita sentimenti già vissuti. Ciò che importa, non è il
ricordo di un sentimento ma la capacità di riviverlo. Durante le prove la
ricostruzione mentale di una certa situazione è l’elemento scatenante
dell’emozione, lo stesso effetto lo producono in scena un oggetto, un abito,
una musica.
Con gli anni Stanislavskij si accorse che il suo metodo, che aveva una straordinaria
efficacia pedagogica nella formazione dell’attore, creava parecchi problemi perché il
lavoro di scavo psicologico richiedeva tempi lunghissimi. Provò allora ad invertire il
procedimento, partendo dalle azioni fisiche investigandone le implicazioni
psicologiche: aprire una porta è un semplice gesto fisico, ma aprire una porta alla
ricerca di un cadavere è un’azione. Occorre però lavorare sul gesto, non sulle
implicazioni seconde. Bisogna agire coraggiosamente, senza ragionare – diceva agli
attori – non appena comincerete a agire, sentirete immediatamente l’esigenza di
giustificare le azioni. Il procedimento è inverso ma il risultato analogo:
l’immedesimazione come creazione di un’autenticità che risulti credibile allo
spettatore. Cechov sente limitante il rapporto tra personaggio e vissuto dell’attore.
L’autenticità emotiva, che resta il suo obbiettivo, gli sembra più efficacemente
raggiungibile se si parte, invece da un lavoro di più libera immaginazione da parte
dell’attore, che è chiamato a stimolare il proprio organo emotivo con suggestioni che
non provengono immediatamente dalla sua esperienza personale.
Mejerchol’d
Dopo essere stato il primo Treplev del Teatro d’Arte di Mosca, Mejerchol’d
abbandona l’impresa di Stanislavskij e si avvia lungo una ricerca personale di tipo
simbolista. Mejerchol’d avvia la sua prima stagione come regista, definendola
<teatro della convenzione>. Convenzione, significa, nel suo lessico, rifiuto del
realismo e viceversa, piena leggibilità della dimensione artificiale della messa
in scena. Una componente fortissima è quella della dimensione visiva e pittorica: lo
spettacolo è concepito come un quadro animato. Il movimento sulla scena, non è
dato dalla parola, ma da linee e colori. L’occasione di sperimentare questa ipotesi gli
è offerta da Vera Komissarževskaja, la grande attrice russa, che lo coinvolge nella
sua compagnia. Il debutto, il 10 novembre 1906, fu una Hedda Gabler di Ibsen,
ripensata in termini antirealistici: Hedda diventava lo spettro di una bellissima dama
del nord in un regno fiabesco. Komissarževskaja rimaneva immobile all’interno di
un’atmosfera di cromatismi e penombre. Lo spettacolo fece scalpore e gli spettatori
protestarono perché tutto si svolgeva in una rigida cornice registica. Gli elementi che
caratterizzano il teatro della convenzione sono l'anti realismo, la figuratività pittorica,
gesti statici e l’assorbimento dell’attore nel quadro scenico.
La collaborazione con Vera durò poco e Mejerchol’d si mise a lavorare sui classici
attraverso quello che definiva il tradizionalismo, riportare i testi alla loro veste
spettacolare originaria, inserendovi, allo stesso tempo elementi modernisti. Nel Don
Giovanni di Molière ricostruiva l’atmosfera del seicento ma vi inseriva dei negretti
che fungevano da servi di scena e giocava sulla dialettica tra la luce delle candele e
quella dei proiettori elettrici. Lo spettacolo più significativo di questo periodo fu il
‘’Magnifico cornuto’’ del 1922. Mejerchol’d non era interessato al tema: un marito
geloso, che per provare il tradimento della moglie, la spinge tra le braccia di tutti gli
uomini del paese. Era interessato alla composizione di questa farsa. L’impianto
scenico consisteva in una struttura fatta di più piani, con scale, ponteggi, eliche,
scivoli. Più che una scenografia era una macchina per gli attori che la agivano in
tutte le sue dimensioni, scalandola, scivolandovi dentro, attivando le strutture
ruotanti. A sottolineare che gli attori fossero operai, che lavoravano con la
macchina scenica, vi erano delle tute blu, con pochi segni che distinguevano un
attore dall’altro. Lo spettacolo diventò un vero e proprio mito per l’epoca. Gli anni 30
non furono facili per Mejerchol’d. fu accusato di formalismo, si difese strenuamente,
ma fu imprigionato e ucciso.
Russia:
La presenza di Stanislavskij e Mejerchol’d in Russia crea una condizione
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Germania:
Il regista è il leader di un insieme, ma un ruolo particolare lo ha il dramaturg,
consulente e mente letteraria nel lavoro di adattamento del testo alla scena. In
Germania Max Reinhardt è visto come un modello da cui prendere le distanze, sia
dal punto di vista linguistico, sia dal punto di vista ideologico. Al teatro festa si
contrappone un teatro impegnato sul piano politico che in quel decennio vede le
vicende controverse della repubblica di Weimar e i fermenti rivoluzionari abortiti del
movimento spartachista. Il regista emblema di questa situazione è Erwin Piscator. Di
ritorno dal fronte, il giovane attore di formazione accademica ribaltò la sua visione
del teatro. La reazione alla disfatta bellica aveva prodotto in Germania una forte
tensione politica e l’aggressività del dadaismo che proponeva l’azzeramento del
linguaggio e dell’opera d’arte. Il suo voleva essere un teatro rivoluzionario nel senso
marxista del termine, non un teatro destinato a mettere in contatto i proletari con
l’arte, ma di propaganda concreta. Il naturalismo non è rivoluzionario e serviva una
formula nuova, una regia concepita come una scrittura multimediale.
Francia
Il contesto teatrale e culturale francese si presenta profondamente diverso da quello
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russo e tedesco. A Parigi c’è un gran teatro sia sul piano accademico, la Comédie
Française, che su quello commerciale. Gli elementi di innovazione registica faticano,
in questo contesto a trovare adeguati spazi di visibilità. Punto di riferimento è
Jacques Copeau. Il Vieux Colombier è il luogo di formazione di due dei protagonisti
della regia francese: Louis Jouvet e Charles Dulin.
Louis Jouvet era il più stretto collaboratore di Copeau, attore e régisseur (direttore
di scena) ebbe una parte rilevante nella messa a punto del tréteau. Questo lo porta
a curare tutti i particolari della messa in scena preferendo scenografie essenziali
inondate da una luce bianca e uniforme, concepite come un equivalente sensibile
del testo. Il fulcro della sua ricerca è l’attore.
Jouvet distingue tra acteur e comédien: l’attore non può che interpretare certi
ruoli, gli altri li deforma a seconda della sua personalità. Il comédien può
interpretare tutti i ruoli.
Italia
La regione per cui è presente l’Italia in un discorso sulla regia primo novecentesca è
diametralmente opposta a quanto detto per gli altri paesi: anziché rapido, il suo fu un
lento, lentissimo affermarsi. Fino al 1932, quando il linguista Bruno Migliorini
propone in un articolo sulla rivista Scenario di adottare i lemmi ‘’regia’’ e ‘’regista’’,
non esiste neanche la parola per identificare quel tipo di operatività. Migliorini sceglie
‘’regia’’ da ‘’régie’’, preferendolo a ‘’mise en scène’’ e opta per l’espressione ‘’regista’’
che oggi ci sembra ovvia , al posto di un cacofonico ‘’regissore’’, che avrebbe
tradotto letteralmente régisseur. Il testo di Migliorini testimonia due cose: quanto il
dibattito sulla regia in Italia sia tardo e come la scelta terminologica abbia inciso, poi
nel discorso critico, consentendo di distinguere nettamente tra regia e messa in
scena, cosa che i francesi ad esempio non possono fare. La ragione di questa
situazione, non risiede nell’ignoranza dello scenario europeo ma nella struttura di un
sistema teatrale basato ancora sul capocomicato e su compagnie di giro, che
cambiavano continuamente città e repertorio non avendo una sede stabile dove
poter sperimentare, volendo, soluzioni sceniche diverse. Regia e stabilità sono
invece, un’accoppiata inscindibile. Luigi Pirandello nel 1925, assume la direzione del
teatro d’Arte, esperienze importante, ma troppo breve, che si conclude nel 1928. Il
progetto teatro d’Arte consisteva in alcuni punti chiave: costituire un teatro stabile,
sperimentare una messa in scena che desse dignità d’arte allo spettacolo, curare
una distribuzione delle parti che non tenesse conto in modo rigido del sistema dei
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ruoli, dare uno spazio importante alle prove. Pirandello non fece del teatro d’Arte il
luogo dove rappresentare i suoi testi, ma concepiva questo luogo come l’occasione
per cimentarsi con la messa in scena come attività autonoma appassionandosi
soprattutto alle possibilità espressive delle luci. Per il teatro d’Arte nel 1925 riscrive
Sei personaggi. Un ruolo importante per creare le premesse per l’affermazione in
Italia della regia lo ebbe il critico Silvio d’Amico, sostenitore di una dura battaglia
contro la dimensione mattatoriale del teatro italiano. Per d’Amico bisognava
superare la stagione del grande attore e recuperare la centralità del testo
drammatico. Questo era possibile solo grazie all’introduzione del regista, che
diventasse il garante dell’integrità del testo e il portavoce dell’autore.
Biomeccanica
Il teatro è il luogo in cui si produce una performance (che nasce dal concetto di
Stanislavskij), un puro momento spettacolare. La prima grande esperienza successiva
a Stanislavskij che interpreta questa parte performativa è formata da un suo allievo,
Mejerchol’d. Allievo di Stanislavskij che vive la fase storica degli anni ‘20, fase che sta
producendo un momento decisivo della storia russa, dove comincia quel lungo
processo che porterà nel ‘17 alla rivoluzione russa. E’ uno dei grandi intellettuali del
regime che si sta instaurando, esponente del mondo bolscevico, allievo del teatro
istituzionale russo, all’interno quindi di un teatro ufficiale che Stanislavskij rappresenta.
Dall’altra parte drammaturgica russa c’è Chekov. Mejerchol’d ha la concezione del
teatro come prodotto di concezione politica del marxismo, il centro della società è la
classe proletaria. Concepisce una nuova idea di recitazione, adeguata a questo tipo di
scopo, ma a sua volta la portata della sua rivoluzione è universale. Il punto di partenza
è l’azione fisica e il suo predominio sull’esteriorità, movimento dentro la scena, azione,
a partire da qui Mejerchol’d concepisce la Biomeccanica (Stanislavskij ha il concetto di
metodo, invece), ovvero meccanica del corpo, sottoporlo ad una meccanica, perché il
corpo dell’attore deve essere come il corpo del meccanico, l’operaio, uomo cui
movimenti sono movimenti di macchina, la sua è una meccanica vera e propria, è
l’uomo che diventa l’epicentro del potere della rivoluzione, attorno cui il pensiero
marxista gira. La caratteristica dell’attore è quindi il rapporto che instaura di
immedesimazione con il personaggio.
L’attore non deve personificarlo, deve stare al di fuori costantemente dal personaggio,
deve pensarlo come un altro da sé, estraniarsi da esso, e ciò lo fa attraverso vari modi:
quello più importante è instaurare col proprio corpo un rapporto di pura esteriorità e
meccanica, che non intende l’esteriorità come un traino dell’interiorità, ma come un
puro movimento esteriore, perché questo è il movimento del corpo come quello della
macchina, sottoposto al controllo razionale, come se il movimento del corpo fosse un
meccanismo tecnico.
La prima regola della Biomeccanica è che se si muove la punta del dito, si muove
anche la punta del piede. Come fa l’attore però a non instaurare un rapporto col
personaggio che interpreta (siamo sempre nell’idea di teatro letteraria, il suo grande
autore feticcio è Majakovskij) in termini di pura esteriorità?
Il secondo principio della Biomeccanica è quello che chiama “Enploix”, l’idea che
l’attore debba recitare sempre il personaggio più lontano a sé stesso possibile. Io sto
fuori dal personaggio perché così lo posso criticare e dare al pubblico una mia lettura
L’idea più articolata dell’attore come corpo di scena sia ha con la Biomeccanica di
Mejerchol’d. Siamo nella stagione costruttivista e Mejerchol’d scrive: ‘’il
costruttivismo esige dall’artista che egli diventi anche un ingegnere’’, bandendo così
dal suo orizzonte ogni sentimentalismo e ogni indulgenza verso l’intuizione. La
recitazione biomeccanica è presentata come un processo di costruzione. La
recitazione è un frutto di uno studio e deve essere sottoposta a un continuo controllo
da parte dell’attore. Il primo principio della biomeccanica è che il corpo è la
meccanica, l’attore è il meccanico, affermazione che non va confusa con una
robotizzazione dell’attore ed esprime, invece l’idea che il corpo è un mezzo
d’espressione che l’attore deve gestire in maniera consapevole. La grammatica della
macchina dell’attore è il movimento. Afferma Mejerchol’d: non partiamo dalla
psicologia per arrivare al movimento, facciamo il cammino inverso e fa l’esempio di
un attore che debba impersonare un uomo inseguito da un cane. Non dovrà partire
dal sentimento di paura e tradurlo nella corsa, ma cominciare a correre e in questa
maniera, far emergere in sé la paura. Il movimento della biomeccanica si basa su
due principi: la scomposizione e ricomposizione e il rapporto con lo spazio. Occorre,
sostiene Mejerchol’d che un movimento, per essere espressivo, debba essere
dapprima scomposto in segmenti.
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Il primo è l ‘’oktaz’’ , la fase iniziale in cui l’attore dirige il gesto nella direzione
opposta a quella che avrà per caricarlo di energia- segue lo slancio, cioè il
compimento del gesto, quindi l’arrivo, la sua conclusione, cui succede una pausa per
sottolineare la fine di uno stato di sospensione. Per quanto riguarda lo spazio,
Mejerchol’d sostiene che attore e spazio siano entità strettamente interrelate perché
la posizione del nostro corpo nello spazio influisce su tutto ciò che chiamiamo
emozione, e che quindi ogni piccolo gesto va accuratamente calcolato. Ci sono altri
due elementi, che per Mejerchol’d sono fondamentali. Il primo è la reattività, la
capacità di ridurre al minimo l’intervallo tra intenzione ed esecuzione; il secondo è la
musicalità, nel senso che l’attore lavora sul ritmo, che lo stesso movimento è ritmo e
come tale va musicalmente trattato; infine l’acrobatica, intesa come sapienza nella
gestione del corpo.
L’arte del teatro è nata dall’azione, dal movimento, dalla danza, scrive Craig nel
1905. Non l’arte dell’attore ma l’arte del teatro nel suo complesso. Teatro e danza,
fino a quel momento soggetti a spettacolari sostanzialmente diversi, trovano un
punto di incontro. Questo è reso possibile dall’affermarsi della danza moderna che
prende decisamente le distanze dal balletto classico. Se il teatro, nel ripensare la
sua identità, può considerare la danza come un interlocutore privilegiato è perché la
danza sta procedendo a un angolo processo di rifondazione. Il passaggio da balletto
a danza non è solo terminologico. Per come si era strutturato nell’ottocento, il
balletto si basava su una codificazione di passi e figure che creava una grammatica
fissa e mirava da un lato all’esaltazione del virtuosismo tecnico e da un altro
defisicizzazione del corpo, specie di quello femminile, a cui venivano tolti peso e
aderenza a terreno. La danza moderna rifiuta tutto questo e torna al corpo in quanto
tale, alla sua manifestazione fisiologica, al movimento e non al passo codificato.
Con il termine pratiche basse, si intendono quelle forme teatrali legate alle
dimensione popolare e allo spettacolo come intrattenimento. Nel 1931 Eduardo,
Peppino e Titina de Filippo, figli naturali di Eduardo Scarpetta fondano una loro
compagnia, il teatro umoristico ‘I De Filippo’. I tre figli d’arte muovono i loro primi
passi nella compagnia del fratellastro Vincenzo all’interno della tradizione
napoletana riformata tipica del padre: dialetto, tipizzazione, andamento farsesco ma
anche apertura alle trame che venivano dalla Francia. Nei loro primi anni i tre fratelli
fanno un teatro fortemente radicato nella città. Il dialetto e la struttura farsesca
cominciano ad essere rielaborati perché il regime fascista sta facendo una politica
spietata contro le lingue locali. I tre come attori incarnano delle tipologie precise:
Peppino è il mamo, ingenuo e bonaccione, Eduardo l’astuto smaliziato e Titina la
donna di carattere. Si tratta di un teatro popolare che cerca di svilupparsi in
qualcos’altro. Eduardo diventa sempre di più la mente drammaturgica del trio, ed è
influenzato da Pirandello. Interviene sulla lingua, stemperando il dialetto, introduce
elementi drammatici , che interagiscono con il comico creando i tratti di una moderna
commedia umana. Natale in casa Cupiello è un testo ponte, il comico si trasforma
in grottesco, la famiglia diventa luogo di conflitto e non più isola rassicurante, la
tragedia si inserisce nella vicenda.
Ogni regola ha un’eccezione e pertanto anche se non si vuole parlare della storia
degli attori, non possiamo non ricordare Eleonora Duse. Senza di lei, la sua
indipendenza e diversità rispetto ai modelli che si vanno codificando, un racconto del
novecento teatrale risulterebbe incompleto. La Duse sarà definita l’attrice moderna
per eccellenza, perché libera dagli stereotipi dei ruoli, perché pur restando una prima
attrice, ne abbassava i toni, lavorando sulle sfumature espressive, su una femminilità
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LIBRO
L’ATTORE BIOMECCANICO
Lo stesso Mejerchol’d si è sempre rifiutato di fissare sulla carta i fondamenti della sua tecnica.
Non è un sistema di recitazione ma un allenamento globale dell’attore in funzione di un
momento successivo che è la recitazione.
Non nasce negli anni 20 ma affonda le radici nei primi esperimenti pedagogici (1913-1917), che
però rimasero completamente autonomi dall’attività registica.
I corsi sono divisi in due cicli, il primo dedicato alla voce, il secondo al corpo. Componente
di ricerca è l’attenzione alla gestualità degli attori orientali, con la sua astrazione perfetta, la
sua ritmica definizione degli ambiti spaziali.
N = A1 + A2
dove N è l’attore, organizzatore del proprio materiale corporale, che risulta la somma del cervello
da cui parte il compito (A1) e del corpo che lo realizza (A2).
La biomeccanica è lo studio dei rapporti che l’attore deve esplicare nel suo mestiere.
Rapporto con le varie parti del corpo: se si muove la punta del naso si muove tutto il corpo.
Rapporto con del corpo con quello del proprio partner.
Rapporto del corpo con l’oggetto.
Rapporto dell’attore con l’osservatore.
Pochi furono gli spettacoli costruttivismi di Mejerchol’d, pochissimi quelli in cui il laboratorio
biomeccanico affiorò in scena. Le cocu magnifique del 1922 fu il primo di questi.
Egli stesso non ha mai posto mano alla redazione di uno scritto organico e completo sul proprio
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sistema.
Il sistema storico del teatro di Mejerchol’d venne adottato in pratica attraverso il metodo
pedagogico su cui si basava il lavoro dei laboratori del team e fu formulato dal maestro in
persona e dai suoi collaboratori in numerose lezioni, prove e interventi.
L'obiettivo fondamentale del gruppo di persone guidate da Mejerchol’d consisteva nello sviluppo
di nuove potenzialità dell’attore.
Il controllo cosciente dell’esattezza dell'azione è al centro della recitazione dell'attore sia nella
fase preparatoria del personaggio sia durante l'esecuzione.
La tecnica biomeccanica presuppone, in primo luogo, la capacità dell'attore di analizzare in ogni
momento i propri movimenti.
La biomeccanica mette in primo piano la comprensione dell'attività psicofisiologica dell’attore.
La padronanza dei movimenti veniva però considerata di primaria importanza nella professione
dell'attore. Tuttavia, anche il gradino successivo all'azione fisica, quello emotivo, è essenziale nel
processo creativo dell’attore.
Non possiamo prendere in considerazione i movimenti fisici senza occuparci del meccanismo
interno.
Il principio della relazione reciproca e del coordinamento degli elementi plastici con la parola è
fondamentale per la biomeccanica.
Secondo Mejerchol’d l'attore raggiunge così la profondità della psicologia e ci arriva proprio per il
fatto che, oltre al testo, che esce dalle labbra, in palcoscenico esiste un'altra atmosfera, quella
della gestualità e dei movimenti.
Il movimento è lo strumento più efficace per creare rappresentazioni artistiche. Alla parola segue il
movimento come strumento potentissimo. Nell'ambito dei movimenti rientra la pausa, che non è assenza
o interruzione del movimento, ma al contrario come nella musica, la pausa contiene in sé il movimento. Il
teatro è l'unica forma d'arte che domini questo potentissimo strumento di espressione. I movimenti
possono essere uguali a quelli della vita.
Le dimensioni della scena, gli angoli, le pareti devono per forza di cose condizionare i
movimenti. L'attore deve razionalizzare i propri movimenti, evitando di muoversi a vuoto.
Nel laboratorio dell'attore non ci devono essere specchi. Nel corso di una giornata acquisita e quella
personalità che il mattino non avevate.l'abilità principale sta nel riuscire a specchiarsi mentalmente di
continuo. Se l'attore si vedesse prima di andare in scena anche per un solo attimo e ne rimanesse
insoddisfatto, non potrebbe più recitare. Quando invece entra in scena con la convinzione che sia tutto a
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Sin dall'inizio del lavoro dell'attore sul personaggio si possono osservare due momenti: il primo di ordine
puramente drammaturgico (vedere l’ alter ego nello spazio scenico) il secondo, di ordine registico
(organizzare lo spazio scenico). Solo dopo aver chiarito questi due momenti, l'attore passa allo studio delle
linee del proprio corpo in relazione allo spazio immaginato. Ma l'esame e lo studio del corpo devono
assolutamente partire dei movimenti elementari e fondamentali. Quelli più raffinati verranno in seguito.
La reviviscenza.
Nel primo periodo della sua attività si pose anche la questione della reviviscenza dell'attore. Egli
infatti, ammetteva l'intervento di emozioni immediate nel processo creativo. Il regista non
metteva sullo stesso piano il mondo emotivo dell'attore e la reviviscenza, ma in ogni caso la
tecnica dell'attore non ostacola mai l’affiorare del temperamento del personaggio.
D'altra parte, Mejerchol’d sin dall'inizio era convinto che nel personaggio non potessero esistere
emozioni prive di espressione formale. Eppure contrappone la verosimiglianza dei sentimenti in
circostanze ipotizzate ai sentimenti autentici in circostanze autentiche.
Il compito degli attori a perseguire una bella forma è di non dimenticare che, sotto questa forma
elaborata, devono imperversare le passioni.
Egli imponeva all'attore una recitazione esteriore, formale, e nel contempo lo costringeva a
giustificare interiormente quella esteriorità.
Non era contrario alla recitazione carica di emotività.
Concepiva la reviviscenza come uno dei tanti importanti strumenti a disposizione dell’attore;
anche la reviviscenza dipende dall’organizzazione cosciente e della preparazione tecnica.
La biomeccanica serviva anche a questo.
Secondo la concezione biomeccanica, nello sviluppo del personaggio solo in alcuni momenti
(prefissati) era opportuna la piena corrispondenza delle emozioni dell'interprete con i sentimenti
del personaggio.
Altre componenti del personaggio, indubbiamente, richiedono una partecipazione emotiva
dell’attore ma tuttavia essa, per natura e contenuto, sarà completamente diversa da quella del
personaggio.
Potrei calarmi nel personaggio a tal punto da soffrire spargere vere lacrime, ma se nel contempo i miei
mezzi espressivi non corrispondono al pensiero, tutte le mie sofferenze non sortirà hanno alcun effetto.
Gestualità ed emozione.
Gli obiettivi della biomeccanica riguardo alla sfera emotiva dell'attore sono la preparazione la
precisione dell'azione visibile e udibile.
Le emozioni dell'attore vengono definite dalla sua gestualità.
La stessa richiesta, ossia la coordinazione tra gestualità e pienezza emotiva, avanzava
Mejerchol’d all'attore drammatico.
La battuta deve sorgere come risultato della fusione tra azione plastica ed emotiva.
I riflessi e la prerecitazione.
La biomeccanica presuppone la consequenzialità è l'interrelazione degli elementi coinvolti nel
processo emotivo.
Mejerchol’d non escludeva che l'immaginazione dell'attore potesse contribuire a far insorgere la
condizione necessaria. L'impulso gestuale rende tangibile la condizione immaginata. L'attore
biomeccanico doveva, con forza espressiva e precisione, esplicitare l'idea nel movimento,
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Ciò che chiameremo convenzionalmente emozione, non può essere suscitato nel corso dell'esercitazione,
prima che venga compiuto il movimento che consente l'insorgere di tale emozione. Alcuni pensano che in
scena il gesto venga da sé. Non è così, non esistono gesti a sestanti. La parola chiede un suo allenamento
particolare, ma non esiste parola separato dal movimento.
Le leggi della costruzione del dialogo prevedono la ferma rinuncia il discorso quotidiano e la
creazione di una trama verbale organizzata musicalmente.
Esperimento sulla lettura musicale: il coro parlava con intonazioni musicali definite sulla base di
una melodia composta dal musicista. Bisognava badare a non cantare. Le intonazioni
convenzionali nella lettura dei versi venivano registrate con note musicali.
Al pari della partitura gestuale del personaggio, la partitura musicale del linguaggio deve essere
costruita consapevolmente. L'attore deve imparare a dominare consapevolmente la forza
espressiva della parola. Ogni frase alla propria melodia e il proprio timbro. Inoltre in questo
ambito ritroviamo altre definizioni come quella di staccato alle quali corrisponde un preciso
contenuto.
Ogni battuta degli attori viene studiata in relazione alla sua forza espressiva. Il disegno
melodico si amplia la dove le emozioni dei personaggi raggiungono un livello di alta tensione.
Quando scegliete una melodia sbagliata, la frase suona falsa o più semplicemente sbagliata. Occorre
precisare se il tono è maggiore a minore in funzione del contenuto. Siamo tenuti a studiare le leggi della
musica. Nel momento in cui pronunciamo una frase siamo compositori di una melodia.
Il ritmo.
Il ritmo è sempre stato una categoria della mentalità musicale dell'attore.
Anche in questo Mejerchol’d si basava sulla secolare esperienza del teatro orientale. Se la
gestualità del personaggio è organizzata con precisione dal punto di vista del ritmo, allora
anche il contenuto interiore risulta più chiaro.
Per la biomeccanica è di primaria importanza lo sviluppo del senso del ritmo nell’attore.
Sin dai primi esperimenti fu stabilito che l'attore dovesse dominare il ritmo, che si contrappone
alla struttura della realtà piuttosto che replicarla.
Il ritmo scenico, tutta la sua essenza è agli antipodi dell'essenza della vita reale, quotidiana.
Quando l'attore lavora su un personaggio e si è abituato a lavorare con un sottofondo musicale
nell'ambiente dello studio, conserva l'abitudine di stare attento al tempo anche quando la musica
non c'è più.
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Quando parlo di ritmo insisto perché riacquistate una familiarità con il mondo animale che è rimasto
sempre fedele ritmo. Irrobustirci e restituire noi stessi a quel mondo naturale con cui gli animali sono in
costante simbiosi è proprio questa necessità conduce allo studio della musica e delle leggi del ritmo. Il
nuovo teatro dunque, nascerà dall'interrelazione fra natura e corpo umano, vale a dire dalla fusione tra
l'uomo e la parte animale che è in lui.
Secondo Mejerchol’d il teatro è recitazione perciò l'attore deve rappresentare il personaggio non
solo come esso è, ma come egli lo vede nei suoi tratti negativi e positivi: non deve
necessariamente sforzarsi di assomigliargli, è sufficiente che vi colga il tratto saliente.
L'arte stessa dell'attore, la creazione del personaggio sotto gli occhi degli spettatori, deve
diventare un momento significativo dello spettacolo.
In ogni attore si trovano due persone: una presenza fisica, un corpo, e una seconda persona che
in pratica non esiste ancora, ma che l'attore si appresta a mandare in scena.
La natura estetica del teatro di Mayer conta presuppone un esplicito contatto creativo tra attori
e spettatori che determina anche le leggi della recitazione.
Non è indispensabile la stessa identica forma, basta rendere la sagoma, i tratti salienti, caratteristici.
Pertanto la maschera e la semplicità del gioco infantile sono gli elementi che differenziano il nostro
teatro da quel teatro che così si chiama ma che secondo noi non è affatto teatro.
Ci sono delle particolarità nei nostri movimenti che rendono evidente che stiamo compiendo una
determinata azione. Questi movimenti un po' li conosciamo, il fatto è che dobbiamo esercitare il nostro
spirito di osservazione in modo da prendere nota dei loro elementi più caratteristici e poi, dopo averne
fatto una bella scorta, potremmo riprodurre tutto sulla scena con pochissimi oggetti.
L’improvvisazione.
L'improvvisazione costituisce una delle basi del contatto con il pubblico.
L'attore crea in pubblico e ha la possibilità di improvvisare sotto l'influsso che gli spettatori
esercitano su di lui.
L'improvvisazione è legata a quella parte della personalità dell'attore che rimane fuori dai confini
del personaggio. Lo slancio artistico aiuta l'espressione dell'attore, lo induce a risplendere in tutti i
suoi colori. In nessun caso deve esserci una corrispondenza tra lo stato d'animo personale
dell'attore e quello del personaggio rappresentato.
L'emozione creativa deve nascere dalla complicità con l'idea, e non da sensazioni
psicofisiologiche.
Condizioni indispensabili per uno spettacolo improvvisato sono la conoscenza delle convenzioni teatrali
da una parte e l'affinamento della compagnia dall'altro. Si deve avere un bagaglio di tipi e situazioni. Le
parole esatte non contano è importante che si conosca bene l'ossatura sulla quale il tutto possa reggersi.
Se tutto è disposto meccanicamente, se tutto è stabilito, se non c'è improvvisazione, non si riesce a
coinvolgere il pubblico. La tecnica e precisa, ma si vede l'imbastitura del compito che non viene coperta
dall’improvvisazione.
Un altro metodo è evidenziare un approccio ironico al testo dettato dalla nostra interpretazione.
L'uscita dal personaggio, il peculiare ammicco dell’attore allo spettatore venivano sottolineati da
una serie di movimenti introdotti a bella posta.
Si realizzava uno dei principi del grottesco: rapportarsi in modo doppio a quanto si svolge sulla
scena.
Il metodo della trasposizione straniamento: l'attore dopo aver recitato un dato personaggio è
come se uscisse da esso e rimanesse semplicemente attore dinanzi agli occhi degli spettatori.
Verso la metà degli anni 20 l'esplicitazione dell'atteggiamento dell'attore nei confronti del
personaggio diviene una costante della recitazione al Tim e ottiene pure una formulazione teorica.
La forzatura nei confronti del personaggio da parte dell'attore è un elemento tradizionale del
teatro popolare che il teatro di Mejerchol’d riprende e sviluppa.
È come se si instaurasse, fra attore e spettatore, un dialogo aldilà del personaggio, sul
personaggio. La quarta parete viene abolita.
L’emploi.
(Il ruolo che l'attore si assume in presenza di dati richiesti per un'esecuzione piana e precisa di una
determinata fascia di personaggi aventi funzione sceniche definite.)
Nel suo lavoro di regista riteneva fondamentale ricorrere a una vastissima serie di associazioni.
Durante le prove non è sufficiente fare appello alla psicologia personale dell'attore, stimolando in
essa definite rispondenza al personaggio. Il personaggio deve venire alla luce attraverso metodi
puramente artistici come la scelta del giusto emploi, la percezione è paradossale del personaggio
e il suo collegata, l'uso delle associazioni, la creazione di una maschera dei tratti essenziali.
Nel lavoro del regista con gli interpreti ciò che conta è trovare associazioni nuove, definire con
precisione la valutazione del personaggio, lo stile della recitazione piuttosto che tenere una
corrispondenza interiore fra i sentimenti dell'attori e quelli espressi dal testo. Di conseguenza
Mejerchol’d trova riduttivo l'approccio psicologico al personaggio basato sull'immedesimazione
interiore. Secondo lui la reviviscenza dell'attore non coincide con la reviviscenza del personaggio.
La reviviscenza degli attori mejerchol’diani non costituisce soltanto la giustificazione delle azioni
dei personaggi, ma rientra nel complesso profilo emotivo del personaggio, accentuando e
consolidando in ugual misura i temi lirici e quelle satirici.
Questi attori invece di provare sentimenti dei personaggi, sentono il modo in cui vengono recepiti
visti e valutati dal pubblico.
La recitazione è contrassegnata dalla paradossalità di un'interpretazione delle azioni del
personaggio e emotivamente espressa, divergente dei pensieri e dei sentimenti degli interpreti.
La realizzazione del personaggio da parte dell'attore è subordinata all’emploi nel quale è contenuta e alla
partitura drammatica e registica.
L’emploi contribuisce alla realizzazione del personaggio in quanto combina una serie di segni partendo
dall'interrelazione fra esteriorità e funzioni sceniche. L'aspetto interiore della costruzione del personaggio
come risultato dell'intera forma è l'avvicendamento ritmico della diversa intensità delle singole posizioni.
Mejerchol’d aveva intuito che la metafora è il principio generale di questo tipo di arte.
La sua idea principale è di sostituire la rappresentazione con l'espressione metaforica
dell'essenza dei fatti e dei tipi umani.
L'attore non si limita a imitare la vita quotidiana, ma ne trasmette il senso celato attraverso
associazioni di immagini: l'attore incarna la metafora.
Gli attori portano alla luce, accentuano e rilevano l'essenza delle azioni, delle idee, dei sentimenti
nascosti dietro le parole e gli atti quotidiani.
I personaggi appartengono al mondo dell’esagerazione, dell'invenzione, dell'immaginazione.
Essi si distinguono per la prevalenza del principio metaforico su quello della rappresentazione
diretta dell’uomo.
La tradizione.
Il ricorso alle antiche tradizioni teatrali per arricchire l'arte contemporanea caratterizzare gli
esperimenti di Mejerchol’d.
I personaggi degli spettacoli del Tim ricordano la commedia dell'arte italiana è il teatro tradizionale
orientale. Mejerchol’d studia il teatro mondiale di tutti i tempi cercando nei vari sistemi teatrali le
leggi secolari della genuina teatralità.
Fonte precipua degli esperimenti per trasformare il personaggio, sono le idee estetico teatrali di
Puškin che ti vengono le basi del sistema attorico del teatro di Mejerchol’d. Inverosimiglianze
convenzionale, attrazione dell'azione, maschere di esagerazione, verosimiglianza dei sentimenti in
precise circostanze, libertà di giudizio della piazza, rozza sincerità delle passioni popolari.
L'essenziale per Mejerchol’d è trasmettere queste idee nuove sull'animo umano, il che richiede
nuovi mezzi espressivi da parte dell’attore.
L'invisibile diventa visibile.
Il fittizio, il nulla, secondo le leggi della ricettazione grottesca, si fondano sulle azioni più naturali
che in circostanze fantasmagoriche, proprio per via della loro naturalezza, appaiono strane,
conferendo una risonanza il reale al personaggio.
L'attore deve agire o da difensore o da accusatore del personaggio rappresentato. Questa è la cosa più
importante. Se non riuscirete a fare questo, non occupare del posto che vi compete nello spettacolo.
Sin dall'inizio della sua attività di regista aveva proclamato l’affinità tra le immagini teatrali e le
immagini musicali e aveva insegnato agli attori a utilizzare i principi della costruzione musicale
dell’azione (nel fissare gli spettacoli del team veniva usata una terminologia musicale). In
modo analogo viene costruito ciascun personaggio dello spettacolo.
Gli attori imparano a governare le intonazioni, i tempi, la misura e il carattere della recitazione. Le
indicazioni musicali vere proprie conferiscono precisione alla struttura emotiva dei personaggi. Le
partiture dei personaggi vengono impostate in maniera che un attore afferri e prosegua il tema di
un altro attore o contrapponga all'altro il proprio.
L'attore deve padroneggiare le leggi dei passaggi, delle combinazioni e dei contrasti.
Il dialogo viene inteso come un concetto musicale, una combinazione di voci in contrasto,
un'elaborazione parallela di due temi che arricchisce di nuove qualità suoni e significati.
Non c'è spettacolo del regista in cui l'organizzazione musicale non sia accuratamente ponderata
e non agisca sul contenuto dello spettacolo.
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Gli attori mejerchol’diani maturano una mentalità musicale e un approccio musicale alle soluzioni
gestuali che si contrappongono all'approccio psicologico quotidiano.
Mejerchol’d desidera che l'espressività musicale della recitazione dei suoi attori raggiunga
l'organicità dell'opera lirica nel momento in cui hai iniziato il recitativo, è la parola cantata cessa di
sembrare cantata.
Bisogna saper giocare con le modulazioni, cioè con i passaggi da una parte nell'altra.per imparare a
giocare con le modulazioni, occorre concentrare la propria attenzione sul passato e sul futuro.
L'attore deve essere consapevole del livello di tensione che sono i partner hanno creato in scena prima del
suo ingresso per non distruggere tutto entrando, ma inserirsi e continuare il movimento musicale.
Mejerchol'd sviluppa l'eccentricità a suo modo, secondo la particolarità del suo sistema, ma non
si limita mai soltanto ad esso, anzi nei suoi scritti e nelle sue lezioni ne parla pochissimo.
Gli attori di Mejerchol’d sono i primi a rappresentare i molti personaggi satirici tipici, non mancano
mai nei suoi spettacoli.
A partire dagli anni 20 la satira si fa più complessa dietro l'apparente superficialità dei personaggi
affiora uno spessore di angoscia e disperazione.
Mejerchol’d sistematizzata all'esperienza di molte epoche di teatro per fondare su questa base
una metodologia per il teatro della nuova società: l'arte del nostro tempo non è né tesi, come
pensano alcuni, né antitesi, come pensano tutti, ma sintesi.
La recitazione dell’attore.
Gli attori non devono mandare a memoria la parte, ma ricordarla sulla base della memoria loci, ovvero
sia partire dal luogo, dalla posizione del proprio corpo in uno spazio e un tempo determinati.
Per soddisfare l'esigenza di improvvisare, l'attore attinge il materiale di scorta e lo combina in vario modo.
La professionalità di un attore dipende dalla quantità di tecniche che conosce e dalla capacità di
combinarle.
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La creazione dell'attore si differenzia nettamente dalla creazione del drammaturgo e del regista per il fatto
che l'attore crea in pubblico e alla possibilità di improvvisare sotto l'influsso che gli spettatori esercitano su
di lui. In palcoscenico il compito principale dell'attore e di avere la percezione di se stesso, del proprio pezzo
di corpo nello spazio scenico.
L'attore deve avere un senso dell'equilibrio così sviluppato che il suo corpo deve sentire fisicamente le
imperfezioni nel costume che si è adattato al corpo.
Entrando in scena deve tenere gli occhi sulla linea dell'orizzonte. Bisogna imparare a descrivere con gli occhi
ciò che vogliamo.
Anche per versare una lacrimuccia bisogna ricorrere all'artificio.dobbiamo conoscere noi stessi a tal punto
da sapere quale apparato mettere in moto perché venga fuori una lacrima.
La mimica è nel corpo e non nella smorfia del viso.
L'ideale è che il rettore recita in costume partire dalla prima prova.
Sviluppare il senso del tempo allo stesso modo del senso dello spazio.
Sentire la durata di una pausa orecchio automaticamente senza calcolarla.
Il laboratorio dell'attore deve essere una camera vuota, senza specchio, niente mobili, solo
qualche accessorio di forma geometrica.
Tutti i movimenti dei nostri meccanismi fisici dipendono da un centro fondamentale, dall'encefalo. Si
possono studiare i testi e movimenti più svariati, ma essi saranno privi di vita se l'attore non vi parteciperà
con il cervello. Anche la frase più insignificante deve passare attraverso il cervello.
Per diventare attori non è sufficiente perfezionare l'apparato vocale e il sistema dei movimenti. Occorre
anche la capacità di analizzare in ogni momento i propri movimenti e poi, sulla base della propria analisi,
l'attore di minuto in minuto migliora e il suo apparato intellettivo diventa più agile. Sempre nello stesso
lasso di tempo riesce non solo organizzarsi, ma anche a tener conto del tipo di pubblico in sala per
adattarsi ad esso.
Grazie a una serie di segnali l'attore deve individuare con sicurezza l'atteggiamento dello spettatore nei
confronti dello spettacolo.
La capacità di collocare spostare il corpo all'interno dello spazio è uno dei momenti fondamentali del
controllo del proprio materiale. Occorre studiare a fondo la meccanica del proprio corpo tanto da
conoscere con esattezza l'interrelazione il funzionamento di ogni sua singola parte.
Oltre al bagaglio tecnico, l'attore utilizza il materiale di osservazioni che accumula nel corso della vita. Esse
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Quando parliamo di messinscena non intendiamo soltanto la disposizione di un gruppo di persone nello
spazio, c'è di più. C'è l'interrelazione fra tempo spazio.
L'aspetto più importante della recitazione e l'uso del tempo. Niente di più. In questo consiste l'arte attorica.
PRINCIPI DI BIOMECCANICA.
1. L’intera biomeccanica si fonda sul principio che se si muove la punta del naso, si muove tutto il corpo.
Occorre quindi trovare la stabilità del corpo prima di tutto.
2. Durante l'esercitazione è necessario fissare un tema.
3. Ogni movimento in biomeccanica è composto da tre movimenti: intenzione, equilibrio ed esecuzione . 4.
Requisiti base della biomeccanica sono il coordinamento nello spazio e in scena, la capacità di trovare il
proprio centro in mezzo a un gruppo in movimento, la capacità di adattamento, il calcolo e il preciso colpo
d’occhio.
5. L' emissione vocale deve sempre avere un fondamento tecnico. Essa può avere luogo solo quando tutto è
in tensione.
6. Calma imperturbabile e perfetto equilibrio sono condizioni imprescindibili di un lavoro di buona qualità.
7. Ogni attore deve possedere un equilibrio convincente, una certa quantità di posizioni. 8. Il gesto è il
risultato del lavoro di tutto il corpo.
Il gesto è sempre il risultato di ciò che l'attore ha nel suo bagaglio tecnico.
9. La reattività nasce nel corso del lavoro come risultato dell'uso corretto di un materiale sottoposto a un
buon allenamento.
10. Le peculiarità e la difficoltà dell'arte attorico sta nel fatto che l'attore è al tempo stesso materiale e
organizzatore del materiale.
11. Una difficoltà dell'arte attorica sta nel conciliare con estremo rigore tutti gli elementi del lavoro. 12.
Durante l'esecuzione ogni compito viene programmato con precisione in relazione allo spazio scenico.
13. È importante che ciascun esercizio venga eseguito in maniera accurata.
14. Ogni azione dell'attore ha la sua bellezza esteriore.
15. Non si può dare libero sfogo ai movimenti. Occorre invece osservare una severa economia di essi. 16.
Il pubblico in sala deve sempre avere l'impressione che rimanga una scorta di materiale inutilizzata. 17. La
biomeccanica non tollera niente di casuale, tutto deve essere fatto consapevolmente e con calcolo. 18.
Durante le prove tutte le emozioni vanno indicate con leggerezza, limitandosi a indicare con precisione
dove e quando deve aver luogo l’esplosione.
19. Per un attore il controllo del corpo è sempre al primo posto.
Non è l'immagine che conta, ma il bagaglio del materiale tecnico.
20. Il primo principio della biomeccanica è: il corpo è una macchina, l'attore è il meccanico .
- Si interroga su quello che della biomeccanica rischia di finire scordato al di sotto. La sua
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origine.
- Mejerchol’d è di origine tedesca, nato e residente nella città di Penza, Karl Theodor Kasimir
Meiergold nel 1895, successivamente prese alla cittadinanza russa, si convertì al luteranesimo
e cambia il suo nome.
- Era un personaggio irrequieto, sempre in sfida con se stesso. Un dandy ribelle. Insieme alle
armi dell'ironia, si ritrova a dover imbracciare anche quelle dello scontro aperto. Quando nel
suo armamentario entrò la biomeccanica non dovete più farlo.
- La biomeccanica fu il primo vero balzo del teatro nella vita. Abbiamo finalmente in essa la
congiunzione fra organizzazione in arte e organizzazione della vita. Metteva d'accordo le due
facce di Mejerchol’d, permettendo ad ognuno di esprimersi appieno.
- Morì come martire, oltre che il maestro del teatro. Fu giustiziato dal regime stalinista il 2
febbraio del 1940, dopo essere stato incarcerato, sottoposto a tortura è un processo farsa.
- In ogni essere umano, attore o non attore, abita una marionetta interiore, ma in particolare
non tutti gli attori sono capaci di utilizzarla per diventare attore-acrobata. Non ne sono capace
io addirittura più o meno consapevolmente, il loro addestramento va in direzione contraria.
- La prima volta in cui ebbe piena consapevolezza delle leggi della biomeccanica fu, quando vide
la recitazione del notevole attore tragico il siciliano Giovanni Grasso. Sulla scena produceva
l'impressione di un temperamento selvaggio, scatenato, ma avendo l'osservato bene, sapeva
che era tutto addestramento tecnico.
- Grasso era un prestigioso puparo, un parlatore. Osservava i pupi nazione è, assorbendo nei
movimenti, di associava la voce. Innumerevoli volte doveva essersi trovato a fronteggiare una
situazione scenica nella sonorità della parola e nel silenzio esteriore del gesto. Poi, da quando
comincia la carriera da attore, quel gesto fino ad allora costretto dentro il corpo aveva potuto
farlo erompere al di fuori.
- C’è differenza tra il lavoratore in fabbrica e l'attore in scena. Per il primo, il lavoro è
condizionato esclusivamente dal materiale su cui si applica, mentre per il secondo è finalizzato
all'effetto da produrre sullo spettatore.non può esserci il taylorismo nella biomeccanica, ma c'è
tuttavia il taylorismo di quel Taylor del teatro che è Mejerchol’d.
- Mejerchol’d fece di tutto per distanziare il suo atelier da uno scapigliato studio d'artista. Riuscì
a farlo somigliare a una palestra, ma restò irrimediabilmente diverso da un'officina o da un
reparto di fabbrica.
- Anche all'origine della biomeccanica c'è un'evidenza: l'organismo in vita dietro il corpo in
movimento dell’attore. Ad un livello più profondo del corpo animale in cui si rivela l'organismo,
c'è il corpo animato in cui si rivela l'anima e infine il corpo spirituale del quale poco niente
possiamo dire.
- Problema del corpo fu il centro comune nella ricerca di tutti i maestri del 900. L'obiettivo era
andare aldilà della sua facciata.
- Ridotto a scenario, il dramma vedrà fiorire le sue parole, non più come letteratura, ma come
ricambi necessari della trama dei movimenti. Ma man mano che l'attore consolida la linea fisica
della parte con l'appoggio delle relative reviviscenze, le parole improvvisate con le quali
accompagna l'azione vengono poco alla volta soppiantate dalle parole dell’autore.
- Negli esercizi e come se l'attore presentasse lo spettacolo della sua marionetta interiore, non
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- Mejerchol’d elaborò il metodo la sua innata qualità anche perché la si potesse ritrovare nella
costruzione degli spettacoli.
- Si specchiano l'uno nell'altro, Stanislavskij e Mejerchol’d. S’inverte il centro, muscoli e
sentimenti per Stanislavskij e corpo e organismo per Mejerchol’d, ma al centro della loro ricerca
ci fu uno stesso problema.
Bertolt Brecht
La seconda strada maestra della recitazione primo novecentesca è rappresentata
dallo straniamento ed è legata strettamente al nome di Bertolt Brecht: l’attore non
deve identificarsi con il personaggio. Brecht definisce l’estraniamento anche
storicizzazione, facendo riferimento al fatto che l'attore debba trattare il personaggio
come un soggetto storico. Brecht fa delle riflessioni nello scritto Nuova tecnica
dell’arte drammatica. Egli elimina gli atteggiamenti empatici, si rivolge allo spettatore
in maniera diretta ed elabora un tipo di gesto definito Gestus, ossia un gesto sociale.
Un gesto attraverso cui l'autore mostra al pubblico il tratto distintivo del personaggio.
Ogni gesto corrisponde a una decisione ed esprime il carattere individuale e sociale
del personaggio. Per Madre Coraggio aveva elaborato alcuni gesti: mordere le
monete per attestarne l’autenticità, far scattare la chiusura del borsellino- che
evidenziano il rapporto con il denaro che conduce alla tragedia. Il più forte tra tutti
era un urlo muto a bocca spalancata e testa riversa, dopo aver disconosciuto il
cadavere del figlio. Un gesto che portava in sé la natura contraddittoria del
personaggio: il dolore umano e un cinismo inevitabile per poter sopravvivere in un
mondo che altrimenti la schiaccerebbe. Per liberarsi dalla tentazione
all’immedesimazione sono fondamentali le prove. È allora che si creano le condizioni
di straniamento tra attore e personaggio che poi verranno proiettate sullo spettatore,
consentendogli di restare seduto in sala a fumare, osservando con il dovuto distacco
critico quello che vede. Brecht individua tre accorgimenti che possono aiutare
l’attore.
I primi due servono a istituire la distanza con il personaggio: la trasposizione alla
terza persona della battuta e lo spostamento nel tempo passato. Nel primo caso
l’attore trasforma le battute in discorso indiretto, nel secondo rievoca l’azione come
già accaduta: egli fece questo e disse quest’altro. Il terzo accorgimento consiste nel
pronunciare ad alta voce le didascalie e introdurre commenti all’azione. In questo
modo azione e descrizione si contaminano. A questi 3 accorgimenti Brecht ne
aggiunge un quarto che dà come
preliminare. L’attore deve allungare il più possibile i tempi di lettura del testo, non
deve precipitarsi a trovare la chiave di interpretazione del personaggio, non deve
farsi adescare da lui. Solo così riesce a mettersi nella giusta prospettiva d’analisi.
Brecht, autore tedesco che si muove in Germania negli anni ‘20-‘30, anni in cui agisce
Mejerchol’d e anni in cui il nazismo prende piede in Germania, Brecht è un marxista
come Mejerchol’d, per cui si vedrà il teatro anche come dimensione politica. Durante il
nazismo, Brecht fugge ad Hollywood, dove tenta di entrare nel mondo del cinema, non
riuscendoci, ritorna a Berlino e fonda un teatro che tuttora è attivo, gestito da un
importantissimo regista contemporaneo, Bob Wilson, ultimo grande regista puro
probabilmente. La sua teoria e pratica teatrale si chiama “teatro epico”, una categoria
totalmente paradossale e contraddittoria perché il teatro è l’opposto dell’epica, secondo
anche Aristotele, il tragico e drammatizzazione, l’epica è racconto con l’idea di un io in
cui c’è un narratore. Il teatro è la negazione dell’epica perché si fonda sulla
drammatizzazione, non c’è nessuno che racconta ma è il luogo in cui l’attore agisce ed
è. L’operazione che Brecht fa è appunto la sostituzione di questi fattori, facendo
prevalere l’etica. Si distingue da Mejerchol’d, Brecht non è solo un uomo di teatro ma è
anche drammaturgo, scrive le sue opere, non prende dalla Biomeccanica l’elemento
letterario, ma prende il concetto di alienazione. Idea di teatro come presentazione
(presento a voi me stesso), e non rappresentazione (qualcos’altro che io non sono).
Brecht non pensa che il teatro debba essere un luogo di espressione di pura corporeità,
l’attore non deve mai immedesimarsi nel personaggio, nel teatro epico il rapporto tra
attore e personaggio è di assoluta distanza. E’ come se ogni cosa che io pongo davanti
allo sguardo dello spettatore fosse la mia lettura critica di ciò che sto interpretando.
Il teatro epico si fonda sull’effetto di estraniamento, l’arte della recitazione dell’attore
deve essere una recitazione anti-naturalistica, il modo di recitare deve essere lontano
dalla realtà, recitando il personaggio in modo innaturale. Brecht concepisce la
recitazione di estraniamento come un momento in cui il personaggio e l’attore sono
l’uno di fronte l’altro e fra di loro non c’è più un ponte naturalistico, ma un piano
straniato, alienato. Il teatro epico ha una funzione didattica, quasi ancor più di
Mejerchol’d (l’attore biomeccanico voleva rappresentare il nuovo uomo della
rivoluzione, agendo in essa), lui vuole educare alla rivoluzione. In che modo tutto
questo avviene? Il primo principio è l’idea per cui il teatro è un luogo di narrazione oltre
che di racconto, l’elemento narrativo del teatro sono le didascalie, sono semplici
indicazioni per chi mette in scena, ma non sono lette dall’attore. Per poter rendere
epico il teatro, tutto ciò che appartiene al testo deve essere letto (che è già di per sé
epico, ma in scena smette di esserlo in quanto funzionale alla drammatizzazione ma
non ne fa parte). Il testo è il luogo in cui si manifesta l’idea, il piano politico è costruito
dall’oggetto e tema dell’opera. L’epica è il distanziamento più puro, è il momento in cui
tutto ciò che è immedesimazione non esiste più (descrivo la mia azione in terza
persona). Quali sono gli altri principi? L’idea che il personaggio che lui costruisce nelle
sue opere parlando di sé in terza persona, oppure parlando di sé stesso al passato,
rompendo la dimensione del presente assoluto dell’azione. L’altro principio è lo
scardinamento della quarta parete di Stanislavskij, proprio perché la funzione del
pubblico è essenziale e l’attore deve parlare col pubblico. L’abbassamento delle luci in
sala rappresenta la quarta parete, mantenere le luci in sala mette in condizioni l’attore
di essere sempre di fronte a un pubblico.
Quel piano di immedesimazione di Stanislavskij funziona benissimo al cinema, in cui il
piano di finzione esiste ma è costantemente negato dall’immagine. Il dispositivo teatrale
che è per sua natura distante dalla realtà. Altro elemento è la musica, che è ancora più
rilevante di Mejerchol’d, sono vere e proprie ballate musicali in Brecht, soprattutto con
Kurt Weill, uno dei più grandi compositori di quell’epoca con cui Brecht costruì un
sodalizio. Perché la musica? Perché è l’elemento straniante per eccellenza, cantare
significa utilizzare una tecnica senza utilizzare strumenti, devo rendere la mia voce uno
strumento, il canto è una resa non legata alla dimensione naturalistica. Cantando
prendo l’azione anti mimetica per eccellenza. E’ il rovesciamento della catarsi
aristotelica, ovvero che attraverso l’immedesimazione mi purifico. Il teatro deve
intrattenere attraverso lo spettacolo, la musica deve, attraverso una sorta di
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Il giovane Brecht, risente del clima della Germania postbellica. Pur non amando su
di un piano ideologico l’Espressionismo, né è in qualche modo influenzato, così
com’è importante la collaborazione con Erwin Piscator. Nel 1928 Brecht scrive
L’opera da tre soldi. Il racconto ha l’andamento di una favola e nel testo sono
introdotti momenti di commento sull’azione. C’è uno scenario sociale che esprime il
disagio dell’epoca: in una Londra metafora del sistema sociale si intrecciano le vite
del bandito Messer, di Brown la tigre, e di Peachum, organizzatore
dell’accattonaggio cittadino. La novità dell’opera, consiste nella struttura
compositiva. Ogni scena è introdotta da cartelli illustrativi. Una volta letti i titoli
proiettati sui cartelli, lo spettatore assume l’atteggiamento dell’osservatore
che fuma, un modo per dire che non si lascia coinvolgere ma resta critico e
distanze. Con lo stesso obiettivo sono introdotte le canzoni su musica di Kurt
Weill. L’attore, scrive Brecht, deve anche mostrare uno che canta. La canzone
non è organica alla parte del personaggio, ma rappresenta un momento in cui
si stacca dalla sua funzione narrativa e diventa una sorta di commentatore
della sua situazione. Durante le canzoni devono esserci delle luci a vista, a
separare quel momento dagli altri e gli attori devono uscire dal personaggio.
Queste tecniche servono ad evitare il coinvolgimento emotivo dello spettatore.
Brecht definirà tale atteggiamento straniamento e gli assegnerà la funzione di
porre lo spettatore in una relazione critica con l’azione drammatica. Nello
stesso lasso di tempo in cui scrive L’opera da tre soldi Brecht si avvicina al
marxismo. Nel testo se ne trova già qualche traccia, ma solo negli anni a venire la
dimensione ideologica diventerà centrale. Brecht non farà mai del suo teatro un
veicolo di propaganda o un tramite per offrire al pubblico risposte
ideologicamente preconfezionate. Il teatro per lui, è politico nella misura in cui
mette lo spettatore nella condizione di riflettere in maniera consapevolmente
critica sulle dinamiche che legano gli uomini, le classi e la società. Per
riuscirci deve reinventare i suoi codici linguistici ed evitare che il piano
emotivo interferisca con quello intellettuale.
È necessario inventare un nuovo modello drammatico, risultando quelli a
disposizione, compreso il realismo che era stato assunto dall’estetica marxista,
inadeguati. Nel 1931 Brecht formula la sua prima sintesi teorica. In Il teatro moderno
è il teatro epico, contrappone alla forma drammatica quella epica. Il riferimento è
evidentemente Aristotele, ma il significato attribuito ai due termini è del tutto
personale. Se nella prima le scene dipendono l’una dall’altra e dominano il
coinvolgimento emotivo dello spettatore, il sentimento, l’uomo come concetto
assoluto e astorico, nel teatro epico la struttura narrativa è segmentata in scene
separate, lo spettatore è trasformato in osservatore distaccato, centrale è la ragione,
l’uomo è oggetto di indagine nella sua relazione con il contesto sociale. In più
opponendosi alla nozione wagneriana di opera d’arte totale, Brecht ipotizza una
radicale separazione degli elementi, ognuno dei quali, dalla parola ala scena
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all’attore, è parte costitutiva dell’opera in una tensione dialettica tra loro così da
evitare l’effetto di ipnosi indotto dalla suggestione della sintesi. Dal 1933 al 1947
lascia la Germania, con l’avvento di Hitler e sono gli anni dell’esilio, in cui lui scrive
opere più mature come Madre coraggio e i suoi figli e Vita di Galileo. I testi sono
strutturati per scene poste in una relazione non consequenziale tra loro, così da
istituire un dialogo tra momenti emblematici della vicenda. Non ci sono tesi
preconfezionate ma problemi aperti alla cui soluzione si può giungere solo attraverso
una presa di coscienza politica. Madre coraggio dell’omonimo testo è una
vivandiera che vive al seguito degli eserciti nella guerra dei trent’anni. Per i tre figli,
ma non può che continuare a vivere nell’ombra della guerra. La sua vita è distrutta
come il carro che progressivamente perde pezzi, ma lei non si rende conto di essere
una pedina perdente in un gioco che la trascende. Brecht ci mostra che durante la
guerra l’unica legge è sopravvivere. Non lo dice chiaramente, ma è lo spettatore che
mentre metaforicamente fuma in sala, va verso quella direzione.
Brecht rientra in Europa nel 1947 dopo aver peregrinato ed essersi rifugiato negli
Stati Uniti. Il termine teatro politico non era usato da Brecht perché i tentativi di
trasformare lo spettacolo teatrale allo scopo di fargli assolvere compiti direttamente
dettati dallo scontro politico gli paiono sterili. Il teatro doveva essere un mezzo per la
diffusione di una coscienza politica non di un messaggio ideologico. Diversamente la
pensava Piscator che credeva nell’importanza della propaganda. Il coinvolgimento
politico non si ritrovò solo in Piscator e Brecht, ma anche in Majakovskij,
Mejerchol’d. la loro vicenda è emblematica da un lato per l’adesione delle arti al
processo rivoluzionario, dall’altro per lo scontro drammatico con il sistema sovietico,
quando con Stalin, prende una piega autoritaria e dittatoriale.
Il loro impegno politico fu la forza della loro proposta estetica ma anche la loro
condanna. Non va scordato, il caso di Marinetti, il lui lato politico viene spesso
rimosso perché legato all’interventismo e al fasciamo. Invece, nella sua concezione
il teatro fu il luogo ideale dell’incontro tra arte e politica.
Antropologia teatrale
L'antropologia teatrale è di tutte queste tradizioni teatrali fondate sul concetto di attorialità
e corporeità, e in queste strade c’è un elemento che l’antropologia coglie è la dimensione
della centralità del corpo dentro come un vero e proprio addestramento, pedagogia, teatro
come formazione della persona.
Questo momento di scoperta della verità dell’uomo è un momento che tiene a tutta quella
vita teatrale, comunitaria. Questa dimensione appartiene a dei momenti di costruzione,
pratiche di vita che prendono forma con un addestramento, costruire una vera e propria
pedagogia, diventa consapevole del suo corpo. Questo processo inaugura Stanislavskij,
nell'antropologia di Grotowski prende effettivamente forma in maniera più radicale.
Perché appunto il teatro coincide con l'addestramento dell’attore e durante lo spettacolo si
sacrifica, viene visto come “santo” da Grotowski perché l’attore offre tutte le verità che ha
acquisito durante l'addestramento agli spettatori. Testo importante perché viene visto
come un archetipo, “Il principe costante” come un vero e proprio sacrificio. L’essenza del
teatro sta nel momento del rapporto fisico e diretto che riguarda l'attore e spettatore.
Il concetto di addestramento nasce con la biomeccanica di Mejerchol'd, perché afferma
che il corpo dell’attore doveva essere come un’atleta.
L’antropologia porta tutto questo alle estreme conseguenze, con l'addestramento bisogna
raggiungere la verità dell’uomo, scoprire la sua vera essenza. Qual è l’essenza di questa
verità? Ricade nella definizione dell’ extra-quotidiano: è ciò che corrisponde all'auto
autenticità, sottopone se stesso ad un principio vitalistico. Ogni singolo gesto, ha un fine.
Addestrare il corpo dell’attore cercando di superare i movimenti quotidiani.
ANTROPOLOGIA TEATRALE
L'analisi scientifica non può che poggiare sui dati oggettivi costituiti dalle tecniche esplicite,
osservabili come se fossero a sestanti, praticate da quegli attori valutati come credibili o
efficaci.
agisca programmaticamente per plasmare gli sguardi, in un tempo spazio ritagliato del tempo
spazio quotidiano.
Nel suo aspetto più elementare e di base, l'arte dell'attore di teatro consiste nel destare e
modellare l'attenzione degli spettatori.
L'insieme dei procedimenti con i quali l'attore modella la propria presenza crea una sorta di
seconda natura, che costituisce il livello di organizzazione chiamato, da barba, pre
espressivo. Esso indica l'organizzazione della presenza fisica tesa all’espressione.
Dopo la nascita del cinema, parlare seriamente di attori di teatro significa ormai parlare di
una rarità, e spesso occorre rifarsi ad esempi lontani.
L'antropologia teatrale costituisce forse il primo caso di studio globale del comportamento
dell'attore, al di là delle distinzioni fra teatro di prosa, musica danza, balletto pantomima e
Mimmo, e aldilà delle diverse tradizioni europee ed asiatiche.
Ogni qualvolta un attore o un attrice acquista grande fama e diventa un punto di riferimento per
gli spettatori, alla sua recitazione comincia ad intrecciarsi la gestione della propria immagine
personale. Il distacco fra persona e personaggio non sempre può essere letto.
Non si è vivi e credibili quando si agisce sapendo se osservati: gli sguardi altrui ci gonfiano ho
cinque o Dano, ci sentiamo montati o bloccati. Tutta l'arte degli attori in fondo consiste nel
dare vita a questa situazione, normalmente morta, dell'agire esposti.
L'esposizione spinta verso il suo eccesso non riguarda la tecnica, ma la biografia. È perciò
spesso illude, come se invece di un punto d'arrivo fosse una via breve per l’arte.
L'attore che invece di agire la finzione, finge di agire, in realtà offre quasi sempre di se è
solo un'immagine esibita è falsa, spossessata dall'atto dell’esposizione.
Dobbiamo distinguere fra l'uso del corpo così come viene sperimentato architettato dall'attore, e
l'effetto che esso fa allo spettatore.
L'azione scenica per essere efficace ed attraente deve essere sempre reale. L’attore agisce la
finzione, non finge di agire. Il che vuol dire che la sua azione implica un reale dispendio di
energia, precisione, attenzione, concretezza, unità del fisico dello psichico.
Per agire la finzione l'attore deve ricostruire le regole del proprio muoversi, a partire dalle basi
più elementari. In genere sono le diverse tradizioni teatrali e stabilire suggerire questa
ricostruzione del corpo in moto.
In ognuna delle sue forme, il comportamento extra quotidiano del performer è basato sullo
spreco dell'energia, mentre il comportamento quotidiano è basato sull'economia, e cioè
sull'adeguare l'energia impiegata al lavoro da svolgere. Il surplus di energia che invece l'attore
utilizza per le sue azioni sceniche serve a dilatarne la percezione per lo spettatore. Poiché l'attore
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per sollevare una sedia mobilita il suo corpo, la sua azione diventa viva, quindi credibile.
La gestione di un corpo finto può essere il risultato di una selezione, quasi di una putativo nel,
che lasci crescere a dismisura un solo elemento (solo voce o solo viso).
Non di rado la maschera teatrale assolve una funzione di equilibrare il grado di espressività
del viso con quello dell'intero corpo. È un viso finto adatto ad un corpo finto.
Anche quando sono le espressioni del viso, necessariamente dilatate e fissate per resistere
a distanza, a comunicare allo spettatore i sentimenti del personaggio, sono però le
sfumature dell'intero corpo dell'attore a renderle vive e credibili.
Ovviamente non è sempre così.
La tecnica efficace per l'attore di teatro, il corpo finto è ricostruito, architettato di bel nuovo nella
sua interezza. Un esempio particolarmente evidente di questa ricostruzione si ha quando il sesso
dell'attore non corrisponde al sesso della figura rappresentata. Che il sesso dell'attore debba di
regola coincidere con quello del personaggio è una convenzione moderna europea che non ha
fatto più giustificazioni di altre.
L'espressione corpo finto non vuol dire menzognero o travestito, indica un'analisi ed
una ricomposizione delle tensioni e delle energie organiche, prima ancora che della
forma.
Gestire un equilibrio instabile e già danza. Anche nell'attore tradizionale europeo l'equilibrio è
reso instabile da spostamenti di peso che, fanno della normale posizione eretta il risultato di una
tensione avvertita dallo spettatore per via indiretta.
Le tecniche pre espressive infatti, aderiscono talmente il corpo dell'attore che possono
facilmente apparire bizzarre doti naturali. L’equilibrio instabile dell'attore non contraddice ma
dilata ciò che accade nella quotidianità. È una danza microscopica di cui non ci accorgiamo.
Il disegno del gesto deve essere tale che ogni suo segmento non lasci prevedere l'energia e
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Acrobata.
L'acrobata ha a che vedere con i limiti del corpo e con la morte.
Gli esercizi di acrobatica si dividono in tre categorie: esercizi a terra, esercizi agli attrezzi,
esercizi icariani.
La differenza fra l'attore e l'acrobata è che il primo si gioca la faccia, il secondo la vita. Non è
solo il pericolo attendere l'attenzione dello spettatore: e anche la contemplazione di una fisicità
trascendente l'esperienza quotidiana.
È ovvio che l'acrobata, l'attore e il danzatore non siano sempre distinguibili, ma la soglia
decisiva è quella del rischio: quando cessa l'esibizione del rischio l'acrobata muta natura e
diventa una delle abilità del performer, entrando in un genere più complesso di spettacolo.
Alcuni esercizi acrobatici, soprattutto quelle a corpo libero, fanno parte dell'addestramento
dell'allenamento degli attori danzatori, non tanto perché contribuiscono a formare il loro per
repertorio gestuale in scena, ma perché a destra no alla conoscenza precisa degli impulsi fisici
e dalla decisione dell'atto senza titubanze.
La con robotica sembra un'arte basata sul vigore è sulla destrezza e basata soprattutto
sulla decisione. Per questo può essere essenziale farla sperimentare all’attore.
Grotowski
Grotowski era un giovanissimo regista. Sono gli anni della cortina di ferro e quindi
tutto quanto accadeva nella vicina Polonia era praticamente sconosciuto. Nei suoi
primi anni di attività Grotowski propose una modernizzazione della regia attraverso
un lavoro di stilizzazione visiva toccando un repertorio che spaziava da Cocteau a
Byron e Majakovskij. Già in quei primi esperimenti Grotowski ridisegnava il rapporto
convenzionale di fruizione dello spettacolo, disponendo l’azione anche al di fuori del
palcoscenico creando un coinvolgimento più diretto del pubblico. Grotowski realizza
spettacoli come Akropolys, il principe costante e Akropolys cum figuris. Questi
spettacoli al di là del loro valore estetico, si collocano all’interno di un processo
strategico del teatro di Grotowski: concentrare l’azione drammaturgica sull’attore,
elaborando uno studio sulla sua dimensione artistica e umana; trasformare la
compagnia in un teatro Laboratorio, luogo di ricerca prima che di realizzazione
scenica. Si tratta di un teatro colto nella sua fase embrionale, nel mezzo del
processo creativo quando gli istinti della recitazione, appena risvegliati, scelgono
spontaneamente gli strumenti della loro magica trasformazione. Il teatro povero sa
strategicamente fare a meno di tutto, si sottrae alla spettacolarità, riconducendo il
teatro alla sua dimensione originaria di rito basato sullo scambio tra officiante e
partecipante in nome della loro comune natura umana: un teatro in cui gli attori e il
pubblico sono tutto ciò che è rimasto. Quando alla metà degli anni 60, la sua visione
varcò, grazie a Eugenio Barba, i confini della Polonia per approdare in Europa
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Regista e teorico del teatro polacco che scrive “Per un teatro povero”, lavora in Polonia
principalmente, fonda un teatro laboratorio negli anni ‘50, la dimensione del training è
decisiva, proprio per questo si parla di laboratorio. Il teatro dev’essere un luogo di
apprendistato prima dello spettacolo, che è l’esito, il punto di arrivo di un lungo processo
di apprendistato. Parte integrante dello spettacolo è anche il vero e proprio training
dell’attore, è un momento di lavoro importante tanto quanto il momento dello spettacolo
vero e proprio. La fase conclusiva della vita di Grotowski la passa in Italia in cui fonda
negli anni ‘80 il “Work Center” dove dà spazio alle sue ricerche e lavoro.
Grotowski non si considerava tanto allievo di Mejerchol’d quanto di Stanislavskij, il
secondo Stanislavskij, quello del metodo delle azioni fisiche, che mette al centro la
dimensione gestuale piuttosto della Reviviscenza. Grotowski non rifiuta il testo
drammaturgico, il suo rapporto con la drammaturgia è forte e complesso. Dalla
Biomeccanica prende il concetto dell’extra-quotidiano ma ritiene il suo lavoro sull’attore
di derivazione Stanislavskijana. Il suo lavoro comincia negli anni ‘50, la sua teoria
teatrale si basa sul concetto di povertà, “per un teatro povero” - la povertà del teatro è
una povertà di tipo tecnico, tecnologico, il teatro è anche una macchina tecnica e
tecnologica (nel cinema concetto di messa in scena teatrale), però, ragionando negli
anni di primo sviluppo della televisione e dentro il cinema classico in termini industriali,
per Grotowski questi hanno un potere tecnico e tecnologico immensamente superiore al
teatro, il teatro ha fatto loro da maestro ma il cinema e la televisione elaborano questa
componente in modo più strutturato. Il teatro fa della sua ricchezza la sua povertà: se il
teatro non può competere su un piano tecnico tecnologico con i nuovi media audiovisivo,
può contrapporre a loro la sua povertà intesa in termini di autenticità - non ha la loro
potenza, ma ha il concetto autentico di presenza e il rapporto fisico tra attore e
spettatore. Il teatro è l’unica arte che non è un oggetto ma è una procedura, si realizza in
essa. Per Grotowski il teatro è una procedura che si fonda sull’incontro, l’arte più povera
(dal punto di vista strumentale/tecnico) che esiste senza bisogno di alcuna mediazione
tecnica. Se il teatro è un incontro tra attore e spettatore, si può controllare solo uno di
questi due elementi, ovvero l’attore. In che modo posso lavorare sull’attore? Deve
diventare un santo, non in senso religioso, l’immagine di Cristo, che sacrifica sé stesso e
il proprio corpo di fronte ad una comunità.
Eugenio Barba
Fonda “Odin teatret” - sono attori che vengono espulsione dalla istituzionalità teatrali, gli emarginati
praticamente, e comincia un processo pedagogico, gli educa ai principi dell’antropologia di Grotowski, un
vero e proprio addestramento, lavoro sul corpo dell’attore però è un vero e proprio addestramento
militare, essendo anche lui stesso militare. Parla del suo teatro come un terzo teatro, perché si distingue dal
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primo (quello classico, istituzionale), dal secondo (che è quello delle avanguardie), il suo non è solo tutto ciò, il suo
è un'esperienza di vita teatrale, una quotidianità.
Il teatro è una pratica politica, produce politicamente la realtà, crea un teatro con leggi proprie.
Barba non è d’accordo con l’extra-quotidiano, è anche vero che il teatro è una singolarità precisa, c’è un recupero
della dimensione teatrale; lo spettacolo risponde a delle leggi, il teatro dev’essere una pratica in cui la dimensione
teatrale viene fuori con tutto il suo piano espressivo ed estetico. Barba “lo spettacolo è comunque uno spettacolo
e lo si fa con dei meccanismi spettacoli teatrali e non togliere tutto come fa Grotowski”. L’extra quotidiano va bene
ma non tutto è teatrale.
Barba lo chiama pre-espressivo, ciò che precede la dimensione dell’espessivo.
Antonin Artaud
Recupero della dimensione della teatralità legata al piano irrazionale, non ancorata al linguaggio, la presenza
sostituisce il discorso: il teatro si configura come una specie di dispositivo dell’emotività, il rapporto che costruisce
con lo spettatore è un rapporto di scuotimento, irruzione e quasi violenza dell’emotività, trova la sua tematizzazione
più compiuta nel pensiero di un regista francese del ‘900, Antonin Artaud.
Attore oltre che regista, la sua importanza risiede nella forza della sua filosofia del teatro, “il teatro della crudeltà”.
La forza del suo pensiero sovrasta le sue esperienze pratiche, l’idea prevale sulla pratica. Artaud è un uomo
particolare, soffre anche di schizofrenia, la sua utopia è pari alla sua follia, il momento più importante della sua
vita artistica è quando a Parigi, durante l’esposizione universale del 1900 arrivano una serie di esperienze,
soprattutto extra-europee, qui lui vede uno spettacolo Balinese (Bali - isola Indonesia) in cui scopre esserci
una forma di teatro quasi rituale con la dimensione religiosa, l’aspetto che caratterizza ciò è la crudeltà,
l’elemento puramente emotivo. Un’idea di teatro completamente diversa da quella europea, che è ancorata ancora
nella dimensione drammaturgica in cui il testo letterario è un punto di partenza. Si trova di fronte ad una forma di
teatro dove la “violenza” diventa il punto essenziale. Lo spettatore vive tutto ciò in una dimensione mistica in
cui si consuma un’esperienza irrazionale in cui non si usa il linguaggio, in cui in qualche modo si compie una
rivoluzione emotiva, un atto violento. Pensa la teatralità in un luogo in cui la crudeltà coincide con la sua
estroflessione più radicale. Forma la sua compagnia teatrale che sta vivendo la fase delle avanguardie storiche,
fonda il suo teatro e all’interno di esso mette in scena una serie di spettacolo, con la sua idea di teatro.
Artaud è il teorico del teatro più influente del corso del ‘900. “Il teatro e il suo doppio” è il teatro messo in
rapporto con la vita, “ha senso pensarlo solo in rapporto alla vita e viceversa” - il teatro è il doppio della vita
esattamente come la vita è il doppio del teatro. La vita non è qualcosa di spiegabile, ma mistico e inspiegabile,
perciò il teatro deve dare conto a questa dimensione della vita: elemento di astrazione assoluta. Il teatro che è
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capace di mettersi in questa relazione è un teatro crudele, il teatro della crudeltà è il saggio più importante della
sua raccolta. Crudele perché deve rappresentare la vita nella forma più legata alla dimensione di evento,
siccome gli eventi non sono omogenei ma una complessità di cose senza forma, il teatro deve dar loro forma,
scuotendo lo spettatore. Crudele in quanto capace di avere un impatto sullo sguardo di chi assiste e
sull’esperienza di chi vive. La dimensione della crudeltà è intrinsecamente emotiva, complessa, deve dare
forma a questa esperienza in modo crudele. Con la parola “crudele” per Artaud ha come significato l’idea di
scuotimento. Non può essere un teatro legato alla semplice presenza attoriale, è un insieme di cose, “è
un’opera d’arte totale” dice Artaud, teatro come la sintesi di tutte le arti, quindi fatto di attori, luci, suoni. Non
rinnega l’impianto classico Artistotelico, il teatro non è strumento di verità come lo intende Brecht o
l’antropologia, lui riprende l’idea secondo cui il teatro è il luogo in cui si forma l’esperienza psicologica più che
conoscenza. “Il teatro è come la peste”: la peste è un momento di liberazione di forze oscure, forze
antinazionali che hanno la capacità di scuotere l’uomo ammalandolo, il teatro deve funzionare come la peste —
deve entrare sotto pelle degli attori e spettatori, scuoterli anche in senso negativo per liberarli da ogni certezza.
Esattamente come la peste diventa da malattia a condizione sociale.
Questo ammalarsi crea un nuovo ordine sociale, psicologico. Il teatro è una forma di alchimia perché è una
pratica magica, questa capacità che il teatro ha di costruire una nuova realtà, trasfigurandola attraverso
l’artificio. Questo forse è il momento più alto dell’utopia di questo teatro, un altro momento altrettanto alto è il
testo di Nietzsche “La nascita della tragedia”, tragedia come rinascita del dionisiaco. Tanti elementi che danno
un senso di visione altissima, teatro come strumento di cambiamento del mondo in senso intimamente umano, il
teatro raggiunge la sua utopia più grande.
Teatro come veicolo di cambiamento dell’uomo.
“Per farla finita con il giudizio di dio” - teatro come strumento per farla finita con dio, di un carattere
provocatorio.
Senza la sua schizofrenia non è Artaud, è capace di cogliere elementi che la salute mentale non l'avrebbe
permesso - ha tratti allucinatori che per chi non ha uno sguardo alterato della vita, non saprebbe coglierlo. In
Grotowski e Barba c’è il frutto del pensiero di Artaud - c’è l’idea che scuotere lo spettatore si crea attraverso un
rapporto fisico con lo spettatore.
Quello che non c’è in Artaud è proprio il concetto di conoscenza, cosa che nell’antropologia c’è - per
Grotowski e Barba è un luogo di conoscenza mentre per Artaud il teatro è un luogo di abbandono, di farla finita
con la religione. Concetto di conoscenza: il mondo sta li perchè io lo devo conoscere e lo facciamo grazie a
Dio. Artaud deve scardinare l'idea stessa di umanità fondata secondo questo principio razionale religioso la punto
tale. Inizia a percepire il rapporto attore e spettatore in modo circolare, lo spettacolo che ruota intorno agli
spettatori, non sta fermo. La sua condizione di follia gli permise di fare quello che ha fatto.
Artaud mise in scena un suo testo I Cenci, in cui cercava di dare corpo alle idee raccolte in un libro diventato
un classico: il teatro e il suo doppio. Artaud rifiuta il teatro occidentale. Rifiuta il dialogo, portatore di una
dimensione narrativa e discorsiva, che la parola in sé di cui, invece apprezza le potenzialità di evocazione
magia legate alla sonorità, che la rende materica e sensibile. Ciò che gli preme è un linguaggio teatrale, in
grado di toccare i sensi più che la mente dello spettatore. Il teatro della crudeltà è un teatro che imprime nello
spettatore l’idea di un conflitto e di uno dolore in cui la vita viene troncata ad ogni minuto. Artaud non intende
però un teatro basato su fatti di sangue o su orrori, quanto su radicalismo estremo di certe pratiche mistiche.
Il teatro per Artaud è come la peste, malattia simbolica per eccellenza che scava l’organismo
dall’interno ed è portatrice di un ribaltamento delle convenzioni sociali. Come la peste, una vera opera
teatrale scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio compresso, spinge a una rivolta virtuale, come la peste il
teatro è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione. Sembra quasi di sentire Aristotele quando
parla della catarsi. Il teatro è un processo di dissoluzione interiore in vista di una rinascita che in Artaud resta
sospesa.
Anton Cechov
La destrutturazione della forma dramma è presente in Anton Cechov, drammaturgo
russo degli ultimi anni dell’Ottocento e dei primi del Novecento. Il dramma fotografa i
personaggi bloccati in una condizione da cui non riescono ad evadere. Non c’è
spazio per trasformazioni, evoluzioni metamorfosi. Più che agire, i personaggi
cecoviani si agitano sperando così di vivere, ma restano impantanati in loro stessi.
Potremmo definire questo procedimento una ‘’drammaturgia del ribadire’’, nel senso
che Cechov ribadisce la stessa situazione in momenti diversi di una vicenda che
sembra muoversi, ma in realtà resta ferma. Indirizza la sua scrittura verso un
impianto realista cominciando ad avere come oggetto il tema dell’inerzia e
dell’inazione. Tutta la produzione maggiore di Cechov, trovò la sua casa nel Teatro
D’Arte di Mosca. Ma in che cosa il Gabbiano infrangeva le convenzioni sceniche?
Nel biglietto da visita con cui presenta il suo lavoro, Cechov sottolinea la non
convenzionalità della struttura e l’assenza di un centro drammatico forte. Il gabbiano
è un testo corale che racconta di un gruppo di personaggi, una microsocietà chiusa
in se stessa e incapace di evolversi. Treplev è un giovane scrittore che aspira a
riformare la scena, ma sia le sue aspirazioni artistiche, sia il suo sogno d’amore per
Nina saranno destinati al naufragio. Naufraga è anche Nina, la cui passione per lo
scrittore Trigorin sfocia in tragedia. Al di là dell’intreccio e dei personaggi è la
costruzione dell’azione a rappresentare la novità del testo. Sembra un dramma ricco
di avvenimenti e invece non accade quasi nulla e quel poco in una maniera quasi
inavvertita. L’innamoramento di Nina per Trigorin rimane quasi nella penna di
Cechov. Si percepisce dai riflessi, dal non detto, dal parlare d’altro. Alla fine del
Gabbiano, Treplev è solo. Prende i suoi manoscritti e in due minuti di silenzio
comincia a strapparli. Ha appena confessato la sua insoddisfazione per se stesso
come scrittore. Ha appena perduto Nina per sempre. Non dice nulla, ma in questa
sorta di monologo muto c’è tutta la dichiarazione di disperazione che si concluderà
con il suicidio.
La nascita della regia
Il concetto di attorialità nella regia nasce nel ‘900. Il teatro mantiene una autorialità
doppia, autore - e chi lo mette in scena. Il concetto di regia nasce nel ‘900, il primo
elemento in cui il concetto di regia è presente nella storia del teatro è l’opera di Wagner: è
un compositore, uomo di teatro musicale, si fa costruire un teatro appositamente fatto per
mettere in scena alle sue opere, che supera i concetti del teatro all’italiana, e scrive della
necessità di una figura che lui chiama “regista” (all’epoca coincideva con il capocomico),
responsabile artisticamente dello spettacolo. Cominciano a germinare il teatro di Antoine
e i Meininger, ma i due autori in cui abbiamo la vera tematizzazione della regia sono
Adolphe Appia e Edward Gordon Craig, uno è svizzero, l’altro è inglese.
Appia nasce come scenografo, costruisce delle scene, coreografo, il suo interesse è
principalmente musicale, ed è svizzero di nascita. La sua figura è particolare: formula le
sue teorie per risolvere problemi concreti - nel suo caso, vuole dare forma a quello che
Appia riconosce essere il problema più grande del teatro di Wagner, si rese conto
che tutti gli ideali di Wagner (opera d’arte totale, concetto di regia) erano stati smentiti
dalla realtà, Wagner era talmente tanto ancorato dalla cultura Ottocentesca, perciò voleva
incaricarsi lui stesso di ciò che Wagner pensava ma che non ha mai realizzato. Il punto di
partenza è definito da “La messa in scena del dramma Wagneriano” - Appia definisce
cosa intende per regia, il teatro inteso in senso tradizionale non può dare forma al
dramma wagneriano, è legato al concetto di bidimensionalità, nega l’idea di profondità (la
scena era bidimensionale perché la scena era costruita su tele dipinte), se il teatro è un
luogo dell’attore, non ho bisogno di una scena vera e propria su cui io creo una
profondità, posso limitarmi alla tela dipinta.
Tutto ciò non è fattibile per il dramma Wagneriano perché è un’opera lirica, non un teatro parlato, perciò tutto si
origina su questo problema: il tempo e il ritmo del dramma è definito dal linguaggio musicale, che è innaturale,
segna un ritmo completamente irreale. Il secondo saggio si chiama proprio “La musica e la messa in scena”.
Qual è la caratteristica principale della musica? E’ la sua astrazione, un linguaggio che ragiona per numeri, per
l’essenzialità. Se il linguaggio della musica è astratto, la scena deve essere astratta e non realistica. Prima
concepisco ciò che vedo in scena in termini di astrazione, poi concepisco questa astrazione come astrazione
praticabile, l’attore deve potersi muovere, anzi la scena deve quasi poter contrastare il movimento dell’attore. La
regia nasce per rispondere a questa domanda: come faccio a tradurre sulla scena qualcosa di astratto? Sono
strutture tridimensionali praticabili, come scale, solidi con forma schematica e geometrica la cui caratteristica
principale è il fatto di essere pensati in termini praticabili. Altro elemento determinante della scena che
risponde al principio astratto della musica è la luce, l’illuminazione, che diventa tanto importante quanto tutto il
resto, attraverso essa genera astrazione e plasticità della scena. Macchina e uomo sono sullo stesso piano, da qui
si concretizza il concetto di regia che diventa non solo una pedagogia dell’attore, ma deriva soprattutto dal
pensare, dispositivo organizzativo estetico, estetico, autoriale dello spettacolo. In questo rapporto tra tecnica, luce,
scena e astrazione, che per Appia risponde alle esigenze per mettere in scena le opere di Wagner, si arriva a
definire una nuova autorialità e artisticità. Dopo aver descritto il rapporto tra attore-scena, musica-scena, la luce
dice Appia che è l’elemento unificante, in questo corpo a corpo che si produce tra attore e scena e musica e
scena, permette al tutto di amalgamarsi e trovare un’unità.
sostituire l’espressione che si usava abitualmente, régie. Ogni qual volta c’è
l’esigenza di introdurre una nuova parola per nominare qualcosa, si ha la chiara
percezione che la stessa cosa sia diventata diversa. Allora la mise en scène, non è
la regie. Se quest’ultima consisteva in un lavoro di coordinamento e direzione
materiale, come lo stesso etimo della parola dimostra, la mise en scène indica un
processo di messa in relazione dialettica tra pagina e scena.
Agli esordi del secolo vengono prodotte una serie di formulazioni teoriche che
rimettono in gioco il concetto stesso di teatro. Sono ipotesi fondative
associabili a Adolphe Appia, Gordon Craig e Georg Fuchs.
Per Wagner l’opera d’arte teatrale era composta da tre elementi convergenti: la
musica, la poesia, la danza, ma più complessivamente la dimensione scenica,
chiamata ad agire sul piano della sensorialità. Il teatro è il risultato di una sintesi di
arti diverse operata da un creatore unico che scrive attraverso di esse. Wagner
considera, il momento concreto dello spettacolo come un atto linguistico e artistico in
sé e non la semplice trasposizione di un atto linguistico preliminare come il testo
letterario. L’influenza di Wagner sulla cultura europea è stata enorme, in particolare
per il teatro per il quale la sua elaborazione teorica rappresenta una vera e propria
premessa per ripensare l’idea di opera d’arte teatrale.
Adolphe Appia
Appia ha un interesse per la messa in scena. L’importanza di Appia, nel contesto
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teatrale novecentesco è legata alla teoria, che ne fa uno dei padri fondatori della
modernità. Il primo elemento ad essere coinvolto è lo spazio. Teatro è per Appia,
dialettica tra tempo e spazio, gestita all’insegna di un’unitarietà progettuale. È
indispensabile perciò affidare a una sola persona la responsabilità di tutta la parte
rappresentativa. Questa persona è il regista. La scenografia dovrà essere una
struttura architettonica, tridimensionale, praticabile su cui inciderà la luce, con
funzione coloristica, plastica, espressiva. In questo quadro all’attore è affidato un
ruolo intermedio: è il portatore del ritmo della musica attraverso il gesto e il
movimento ed è colui che dinamizza lo spazio.
L’ultimo aspetto su cui si sofferma Appia è nel saggio “Opera d’arte vivente” -
importante perché quasi si lega al principio utopistico di Artaud, il teatro pensato come
doppio della vita e luogo dell’autenticità, l’opera d’arte vivente è l’utopia del teatro di
Appia. L’utopia di sua stessa natura è irrealizzabile, ma c’è il segno di un futuro, una
visione. Nel suo caso è appunto l’opera d’arte vivente, il teatro è un’opera d’arte
vivente, non subisce la mediazione oggettuale di qualcosa, fatta da persone viventi che
consumano un rito sia da attore che da spettatore, questa dimensione rituale trova nel
pensiero di Appia un’importanza data dall’elemento coreografico, essendo lui molto
legato alla musica e alla danza libera. L’attore è un mediatore, un vero artista è il
regista.
Gordon Craig
Gordon nasce nei teatri, proviene da un'esperienza teatrale della figura dell’800. Figura
del teatro anche in senso critico. Le sue idee teoriche sono raccolte nell'arte del teatro
che raccolgono una serie di dialoghi dove descrive il suo punto di vista del teatro.
Lui mette in scena un vero e proprio dialogo e spiega quella che è la sua idea di teatro.
Il primo punto di partenza: il teatro non è recitazione, non è luce, il teatro è azione, si
identifica con il concetto di azione, qualsiasi altro aspetto sono subordinati all'idea di
azione. Per Gordon qual è il modello teatrale di riferimento?
La fase storica è il teatro medievale che concepiva il teatro come pura azione, l’idea di
una pur dinamica performativa, in cui non c’è testo, ne recitazione, è puro spettacolo
senza particolari elementi scenografici. Il principio dell’azione è quello regolativa della
scena - non esiste una dinamica musicale che si contrappone alla vita. L’azione non è un
elemento specifico dell’uomo ma di tutta la macchina teatrale, l’azione è il dispositivo da
cui si origina tutto il teatro.
Ciò che manca al teatro è colui che mette in scena tutta la macchina, il cosiddetto
reggente dell’oggettività teatrale. Il regista non è colui che regola la scena come in Appia,
ma è colui che regola tutto lo spazio del teatro, perché qualsiasi elemento teatrale è
sottoposto al principio dell’azione. L’attore deve trasformarsi in una super marionetta, non
solo l’attore è un mediatore (in Appia) ma è un mediatore che deve disumanizzarsi, il
regista determina i movimenti, è nelle sue mani. Il regista deve dominare la sua opera e
tutti gli elementi deve essere sottoposti al dominio da parte del regista, solo così potrà
essere autore.
un pannello mobile, che permettono alla scena di muoversi, pannelli che contribuiscono ed entrano nel movimento
dell’azione tanto quanto l’attore - strutture mobili. La scena marionetta come l’attore. Il movimento dei pannelli
viene accompagnato dalla luce. Craig viene invitato da Stanislavskij (teorico della personificazione e reminiscenza)
a partecipare alla realizzazione dell’amleto nonostante fossero due persone completamente diverse. Andò in
scena anche senza Craig che abbandonò le prove. Episodio cruciale, incontro tra i due mostri del teatro. Da un
lato l'idea del teatro mimetico, dall’altro l’idea del teatro che si oppone in termini simbolici. Craig pensava di
realizzare una scena con una piramide, dove il re e la regina stavano sopra con un mantello che arrivasse fino a
giù coprendo tutte le altre persone ma facendo solo uscire la testa. A lato, a destra, Arlecchino che ride di ciò che
dice il re. Sullo sfondo i famosi screen di Craig e davanti persone con vestite con cosa realistiche.
In questo grande sodalizio non riuscito si gioca tutta la storia teatrale novecentesca, questo incontro tra Craig e
Stanislavskij. Da un lato abbiamo Appia con una definizione dello spazio, del tempo sotto forma di
astrazione, che risponde al principio musicale che trasforma il suo spazio plastico e che ospita l’attore; dall’altro
abbiamo Craig una prospettiva registica che identifica il carattere impersonale che coincide con l'elemento
dell’azione, sia dell’attore che della scena costruiscono il movimento della scena e tutto ciò si contrapposte a
Stanislavskij etc. ovvero l’idea che la pedagogia dell’attore sia al centro.
C’è una grande prospettiva Craighiana nel cinema moderna.
La terza via della recitazione primo novecentesca concepisce il corpo come mezzo
di espressione, l’attore ‘’come corpo di scena’’. Nel 1908 Gordon Craig teorizza
übermarionette, un nuovo modo di intendere la recitazione. Secondo Craig l’uomo è
inutilizzabile come materiale artistico in quanto le azioni fisiche dell’attore,
l’espressione del suo volto, il suono della voce, tutto è in balia delle emozioni.
L’emozione che è naturale, produce accidentalità e l’accidentalità è nemica dell’arte,
che viceversa, si basa sulla perfezione, sul compimento della forma. Di qui l’idea
rivoluzionare di eliminare l’attore dalla scena per lasciar posto a una figura inanimata
definita ‘’übermarionette’’, termine che rimanda all’übermensch di Nietzsche, in
italiano tradotto come supermarionetta che non lascia trasparire la dimensione
dell’oltre che è contenuto nel prefisso über. Per la prima volta il discorso sull’attore
viene spostato da ciò che sa fare e da come lo fa a ciò che è, a un livello umano
prima che artistico. Negando il suo ruolo, Craig crea in realtà le premesse per una
riflessione sull’attore, e ancor prima, sul corpo come veicoli di conoscenza.
Bisognava acquisire una tecnica che rendesse l’attore simile ad una marionetta.
Craig è nato nel cuore del teatro, poiché figlio della più famosa attrice vittoriana,
Ellen Terry. Il modo di impostare l’allestimento scenico fu già pienamente e
modernamente registico. Didone ed Enea (1900), Masque of love (1901), sono
caratterizzati dall’eliminazione di ogni elemento descrittivo, dalla semplificazione
della scenografia ridotta a pochi segni simbolici. Nel 1903 con la madre, dirige The
Vikings. L’opera fece molto scalpore perché la madre interpretava un personaggio
dai tratti demoniaci. Sulla scena c’erano i soliti tendaggi che creavano uno spazio
indefinito, la dimensione simbolica del cerchio e le luci che suggerivano atmosfere.
Craig cercava di fornire un simbolismo. Ambiva a comporre l’insieme con un tutt’uno,
compresi gli attori. Il 1903 segna un anno di cesura nella sua attività. Craig fu
chiamato in Germania, dove si illuse di portare a compimento i suoi progetti registici
e di lì in avanti la sua produzione registica rallentò fino a fermarsi. Disegnò delle
scene per la regia di Amleto (1912). Sperimentò i suoi screens. Si tratta di alti
schermi rettangolari di colore neutro che avrebbero dovuto muoversi, grazie a
cerniere che li legavano tra loro, in modo da costruire uno spazio plastico e
dinamico, reso ancora più attivo dalla luce e in grado di suggerire l’atmosfera
drammatica del testo. La componente visiva doveva rappresentare la chiave
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La sua viene considerata la prima teoria della regia in chiave moderna. Ciò che
interessa a Craig non è proporre una nuova estetica o un nuovo stile quanto
ridisegnare lo statuto stesso del teatro. Per Craig l’arte del teatro consiste in una
scrittura che coinvolge tutti gli elementi della messa in scena,e il regista è la figura
tecnica in grado di rispondere a tale fondamento linguistico. Craig distingue due
tipologie di registi: l’artigiano che opera con il testo drammatico e quello in grado di
diventare artista, che sarà tale quando opererà in totale autonomia in assenza di un
testo drammatico di mettere in scena. La regia con Craig diventa creazione.
Georg Fuchs
Il Wagner che più sta a cuore a Fuchs quello del teatro come voce originaria e
arcaica del popolo, che attraverso la riscoperta del mito mira al recupero dell’ethnos.
Fuchs arriva anzi ad affermare che ‘’il teatro non può essere opera d’arte totale’’. Il
teatro è inteso come luogo di comunione in grado di riscattare l’identità originaria,
che da un lato è quella di natura antropologica, dall’altro è quella tedesca. Fu molto
influenzato da Nietzsche con la ‘’nascita della tragedia’’. La visione teorica di Fuchs
si può riassumere nel concetto di teatro come festa, di edificio come tempio, di
dramma come articolazione di un movimento che parte dal corpo e si estende agli
altri elementi del linguaggio relazionandosi a uno spazio in rilievo.
Peter Brook
Peter Brook - regista inglese, l’ultimo grande uomo di teatro vivente del Novecento
assieme ad Eugenio Barba, ultimo grande esponente di una tradizione novecentesca che
arriva fino a noi. Inglese, ma la sua principale attività avviene a Parigi, fonda il teatro
“Bouffes du Nord”. Nasce come membro della Royal Shakespeare Company, grande
compagnia inglese, viene da un teatro tradizionale e ne è esponente, nel corso del
Novecento si sposta a Parigi e crea questo teatro che definisce “Lo spazio vuoto”, ha un
origine tradizionale e che poi, poco a poco, assume l’etichetta di spazio vuoto. Il suo
teatro è complesso, mette insieme le tradizioni in modo eterogeneo - lo spazio vuoto è lo
spazio del teatro, basta che ci sia qualcuno che lo attraversi e questo si qualifica come
esperienza teatrale (recupero del concetto di povertà Grotowskiana), il teatro non ha
bisogno di nient’altro che uno spazio vuoto e di qualcosa, anche una singola
persona, che attraversandolo costituisce un’esperienza teatrale. Per definire cos’è il
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suo teatro Peter Brook fa una tassonomia, descrizione di figure del teatro moderno, la
prima è quella che chiama “Il teatro mortale”: categoria più immediata, il teatro mortale è
quello di tradizione, quello che fa sua la componente della mortalità, perché la
dimensione materiale/spettacolare del teatro di tradizione è per sua stessa natura
mortale, totalmente ancorato alla dimensione drammaturgica del teatro, una forma
materiale di un genere teatrale che si identifica a partire dal suo impianto letterale. Il
teatro di tradizione è una semplice conseguenza del testo, ma lui dice che non per questo
è un teatro minore (Brook fa questa intuizione innovativa) - dentro il teatro mortale Brook
non inserisce delle categorie del teatro di tradizione come possono essere del teatro
commerciale, ma il teatro mortale racchiude in sé dei generi nobili ed elevati sul
piano artistico/culturale, ad esempio lui parla dell’opera lirica, anche se nel suo
periodo è un teatro che per sua natura è aderente al testo, però per lui per sua stessa
definizione, l’opera lirica appartiene al teatro mortale perché pone il regista in termini di
impossibilità di smarcare quel testo, bisogna per forza essere aderenti al testo.
Da una parte, quindi, Peter Brook dice che il teatro è uno spazio vuoto e tutto ciò che lo attraversa crea
un’esperienza teatrale, dall’altra parte sta dicendo che il teatro non è il luogo dell’attore, è la creazione di un
regista che non è un semplice pedagogo, è colui il quale costruisce esteticamente lo spettacolo.
La sua seconda forma di teatro mortale la chiama “Il teatro sacro”: è Grotowski, l’antropologia teatrale, è il
teatro che si fa carico della dimensione rituale che nel mondo a lui contemporaneo (anni ‘60) le società
non hanno. Nasce dal tentativo di colmare questo vuoto del mondo moderno. Brook qui fa riferimento a
Grotowski e ad Artaud, il teatro della crudeltà dovendo compiere questo sconvolgimento dei sensi deve costruire
un piano quasi rituale.
La sua terza categoria è quella che definisce “Il teatro ruvido”: è quella forma di teatro popolare, di
stampo tipicamente commediano, che però è mossa soprattutto da un principio ideologico, educativo e didattico,
il più grande maestro di questo è Brecht. La commedia è il genere politico per eccellenza, che racconta il vincolo
sociale, non a caso una delle forme della commedia è la satira. Anche il cinema di Chaplin.
Cosa aggiunge lui rispetto a queste tre categorie? Quello che lui chiama il “Teatro immediato”: è un teatro
fluido, in continuo cambiamento, utilizza tutte queste grandi categorie, è una sintesi dello straniamento di
Brecht e dell’attore santo di Grotowski, è un teatro che fa proprie queste categorie usandole in un senso
specificamente teatrale. Il problema di queste teorie è il fatto che sono pre-teatrali, il limite di queste teorie non è
quello che dicono ma il fatto che si basano su una prospettiva ideologica che precede l’esperienza teatrale. Il
teatro immediato traduce in termini specificamente teatrali tutto questo, non si fa carico di idee o concetti che lo
precedono. Il limite dell’antropologia teatrale è il fatto che cerca di usare il teatro come dimostrazione di un
discorso che appartiene all’antropologia. Stessa cosa per il teatro epico di Brecht, con ideologie politiche
Marxiste. Brook è autore di grandi spettacoli, uno si chiama “Il mal parata” che è basato su un testo della
tradizione induista.
Il più importante spettacolo è “Il Marat/Sade” (Marat rivoluzione francese, Sade come il marchese de Sade) - è
un testo teatrale scritto da Peter Weiss, un grande drammaturgo tedesco, è uno dei grandi spettacoli messi in
scena: è il racconto della morte di Marat, il marchese de Sade è il grande scrittore della rivoluzione francese, ha
generato un vero e proprio aggettivo ovvero il Sadismo (tendenza sadica, godere del dolore altrui), è un autore
complesso, scandaloso per l’epoca. Il Marat/Sade di Weiss racconta la detenzione del marchese de Sade
causata dalla sua pazzia sadica. Peter Weiss immagina, all’inizio del Novecento, una scena della detenzione,
immagina che il marchese insieme agli altri ospiti di questo manicomio, metta in scena la morte di Marat, grande
rivoluzionario della rivoluzione francese che si suicidò prima di essere ucciso. Immagine che la sua morte venga
messa in scena dal marchese nel manicomio usando come attori i matti presenti. Questo spettacolo è una sintesi
tra la grande tradizione del teatro santo di Grotowski (basato sulla dimensione totalmente estroflessa del corpo)
e dell’ estraniamento di Brecht (offre il corpo in maniera straniata e non personificante come Grotowski che
recuperava Stanislavsky).
Allo stesso tempo Peter Brook è un regista anche in senso Artaudiano, prendendo il teatro della crudeltà,
ma anche Craigiano e Appiano, di tipo impersonale e questo non è un caso perché dopo lo spettacolo del ‘63,
nel ‘64 Brook ci realizza un film (anche Ronconi lo farà in Italia con l’” Orlando furioso”). Costruisce un impianto
registico secondo regole estetiche geometriche, a partire dal concetto di spazio vuoto. L’uso dei costumi, del
trucco, delle maschere totalmente costruite per alterare il principio di realismo e dare un senso di alienazione,
l’utilizzo dei corpi, la regia come movimento dei corpi (concetto di Appia: regia come contrapposizione tra corpo
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e scena; di Craig: il corpo e la scena sullo stesso livello; in questo caso tutto quanto è legato all’attore non in
senso pedagogico ma in senso registico).
La più importante esperienza dopo la seconda metà del Novecento dal punto di vista teatrale è quella del Living
Theatre, la compagnia è stata fondata a NY negli anni ‘40 da due grandi artisti che si chiamano Julian Beck e
Judith Malina. Nasce come esperienza di contestazione degli anni ‘60 e quindi è espressione di questa stagione
storica che interpreta la cultura come movimento che si oppone alla cultura, un vero e proprio movimento sociale
umano, una sorta di comunità teatrale come in parte lo è quella di Grotowski e Barba. Non intende il teatro con il
concetto di spettacolo, pensa il teatro in termini puramente esperienziali, un teatro di strada, anche nei teatri ma
anche nella strada, produce degli eventi ed è in qualche modo l’idealizzazione del mito di Appia dell’opera d’arte
vivente, un’opera d’arte a cui chiunque può contribuire attraverso la propria forma di vita. Il teatro come
costruzione di un Happening, l’accadimento, nelle strade e piazze che coinvolge la comunità. Il grande riferimento
è proprio ispirato al teatro medievale nel senso “teatro non teatro”, ma c’è anche l’antropologia teatrale e il teatro
della crudeltà di Artaud, c’è Brecht con la dimensione politica. Il Living Theatre prende l’Antigone di Sofocle,
rivisitato da Brecht, e il pubblico nello spettacolo assume un ruolo, ovvero la città di Tebe, non c’è più distinzione.
Lo spettacolo va verso l’opera d’arte, l’arte contemporanea prende dal teatro contemporaneo il concetto di
performance. Una comunità che costruisce un rito vivente, non c’è più quella parvenza di singolarità teatrale che
c’è in Grotowski e Barba.
Per alcuni versi Eugenio Barba, italiano trapiantato in Norvegia prima e poi
stabilmente in Danimarca, è un regista di seconda generazione, perché la sua
iniziazione al teatro avviene in Polonia, dove tra il 1962 e il 1963 segue il lavoro di
Grotowski, ma l’impatto del suo teatro sulla scena internazionale lo lega
indiscutibilmente ai fondatori del nuovo teatro. Rientrato in Norvegia dopo il
soggiorno polacco, Barba riunisce un piccolo gruppo di attori e fonda l’Odin Teatret,
un teatro che lavora ai margini del sistema. Da Grotowski Barba ha ereditato il
rigore, la ricerca sull’attore, l’investigazione sulla natura più intrinseca del teatro, una
drammaturgia basata sulla scena.
Gli attori sulla base degli stimoli di Barba, improvvisano da soli e poi coralmente
partendo da proprie motivazioni interiori; Barba a questo punto interviene tagliando,
aggiustando, allargando o compattando, giungendo a un montaggio che rielabora i
segni scenici prodotti dall’improvvisazione. A partire dagli anni 70 sviluppa delle
pratiche spettacolari che chiama ‘’baratto’’: il gruppo entra in contatto con piccole
comunità in diverse parti del mondo e presenta delle esibizioni di teatro di strada,
delle parate, il cui emblema saranno gli attori sui trampoli, maschere, giochi con
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tratta di enfatizzare la voce, che con il passare del tempo diventa il suo strumento
d’elezione, non come veicolo intellettuale, ma come condizione fisica, come atto
materiale.
LIBRO
Brook ragiona da addetto ai lavori sulle condizioni di un mestiere ricco di rischi, a
cominciare da quello di mettere in scena qualcosa di vuoto e mortale. Il testo
profondo ci parla del senso della vita, e della morte, perchè il teatro è concepito
come la metafora del reale.
Siamo in un momento storico dominato dal “TEATRO MORTALE” cioè dal teatro
cultura, dal prodotto ben confezionato. In occidente non esiste una tradizione
vivente del teatro che affondi le sue radici nella storia cosi come avviene invece in
oriente, è per questo che la relazione tra evento storico e fenomeno vivente va
cercata altrove e non nella tradizione ma attraverso la coscienza di un impegno e di
un lavoro artigianale--> la ricerca di una profondità del rapporto interpersonale, nel
teatro occidentale, deve passare attraverso il canale della coscienza
artigianale.Quello di brook è teatro occidentale o meglio europeo, però non è un
teatro europeo come gli altri, diversità che deriva dal suo essere artigianale. Nel
proporci la sua idea di teatro, Brook analizza:
• quella che è l'idea di teatro corrente, che acutamente definisce il teatro
mortale; • le 3 linee fondamentali di ricerca del teatro contemporaneo: la
ricerca del SACRO (che si realizza con Beckett e Cuningam); RUVIDO ( con
Shakespeare) IMMEDIATO ( dove convivono l'alto e il basso, la spiritualità e la
materialità).
Perché “Spazio Vuoto”?
Perché lo spazio vuoto consente non solo di percorrere il mondo geografico e
storico, ma di passare senza interruzioni dal fuori al dentro, dall' universo realistico
ai fatti soggettivi dell'immaginario, dalla temporalità frammentaria del reale alla
temporalità fluida della coscienza. Uno spazio vuoto inteso come somma di tutte le
possibilità da cui nascono le forme della vita.
Nel lavoro di Brook nel teatro, c'è equilibrio fra ricerca e creatività e un attenta cura
dei dettagli. Il teatro occidentale non ha tradizione ma deve comunque avere una
guida, una linea da seguire, e questa è la ricerca. Nel teatro vi è un gruppo di
persone preparate che si riunisce e poi incontra un altro gruppo che non è
preparato, il pubblico. La domanda che tutti, sia gli attori e gli spettatori,si
pongono è: “ succede qualcosa?”. Se lo spettatore va ancora a teatro è perchè
continua a porsi questa domanda. Alla fine dello spettacolo, il solo punto di unione
tra attore e spettatore è quella domanda: “ è successo qualcosa?”---> se la
risposta è negativa, il pubblico rimane un individuo separato, ciascuno con le
proprie idee;
----> se la risposta è positiva, il pubblico si è trasformato in un unità, avviene una
sorta di fusione. Oltre a questa fusione si aggiunge un altro fenomeno:
l'intensificazione energetica, che a sua volta produce un mutamento nella qualità
della percezione, (che porta a una visione più chiara a una sensibilità più fine). Al
posto della tradizione che manca, Brook ha cercato come supporto, il momento
teatrale ( e grazie a quest'ultimo che nascono le altre domande artigianali), quel
momento che non è mai due volte lo stesso, perchè muta con il mutare delle
condizioni. Brook comprende che la funzione sociale e simbolica che il teatro è
chiamato a svolgere, appare intrecciata alla presenza viva degli spettatori, in altre
parole l'arte può trovare il suo senso ultimo nel suo contatto con i destinatari, con i
mille volti umani.
Il teatro non deve essere monotono né convenzionale ma deve essere inatteso.
Divisione del teatro in 4:
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• TEATRO MORTALE
• TEATRO SACRO
• TEATRO RUVIDO
• TEATRO IMMEDIATO
IL TEATRO MORTALE
Diamo per scontato che un'opera di successo sia vivace, rapida e brillante, ma non
sempre è così. Infatti un'opera di successo deve avere una giusta dose di noia, ne
troppa ne poca, e sono proprio gli autori senza talento ha trovare la miscela
perfetta, grazie a loro quindi il TEATRO MORTALE si perpetua di noiosi successi
che tutti apprezzano. Lo spettatore però attribuendo successo a un lavoro scadente
non fa altro che ingannare se stesso.
Il termine MORTALE implica una differenza tra la vita e la morte che è chiara
all'uomo, ma non è chiara in altri campi.
In Francia due modi di interpretare la tragedia classica 1) quella tradizionale
che richiede un determinato comportamento, e uso della voce e un aspetto
nobile. 2) l'altro che considera la recitazione retorica sempre più vuota e
priva di significato.
Il giovane attore quindi è spinto in modo rabbioso verso la ricerca della verità, per
recitare in modo più realistico, ma si scontra con la forma della scrittura, così rigida
da resistere a questo trattamento. Quindi si è costretti a trovare un difficile
compromesso ( in cui non si trovano ne freschezza del linguaggio né l'enfasi).---> è
questo porta a chiedere che la tragedia sia interpretata “ così com'è scritta”, ma gli
stili antichi autentici sono andati perduti e quindi si utilizzano imitazioni tramandate,
fondate su una fonte di ispirazione non reale, ma immaginaria., si tramandano modi
che non corrispondono più a niente.
Il solo modo per trovare il giusto percorso verso l 'espressione della parola è
vivere un processo parallelo a quello creativo originario.
Il teatro mortale si accosta ai classici partendo dal presupposto che qualcuno
abbia capito come deve essere rappresentato il dramma.
A New York l'elemento mortale per eccellenza è quello economico---> questo non
vuole dire che tutti i lavori siano scadenti, ma un teatro in cui, per motivi
economici, le prove non durano più di 3 settimane, parte già svantaggiato. Inoltre i
teatri sono sempre meno frequentati, ma in cassa il denaro affluisce sempre.
Sul piano artistico le conseguenze sono gravi. Broadway è una macchina con tante
parti strettamente collegate; ognuna è stata forzata, deformata affinché tutto
funzionasse senza fatica, è inoltre l'unico teatro al mondo, dove l'artista ha bisogno
di un agente che lo protegga, perché questi sono in continuo pericolo, ogni giorno il
proprio lavoro e stile di vita è in bilico. Questa situazione di tensione non provoca
un'atmosfera di panico, ma al contrario è propria questa tensione ad alimentare la
famosa atmosfera di Broadway. In queste condizioni è raro poter avere quella
tranquillità e sicurezza che consentono di esporsi, cioè quell'intimità autentica che
scaturisce da un lungo lavoro insieme e dalla fiducia negli altri. A Broadway è
diffuso un rozzo cameratismo--> una sorta di sensibilità particolare che viene
denominata “STILE”(l'attore che ha stile in America è quello che allude a
un'imitazione dell'imitazione di un europeo). New York potrebbe creare anche un
teatro autoctono perché dispone di tutti gli elementi necessari, inoltre dispone di un
pubblico che è il migliore al mondo, purtroppo però va di rado a teatro, a causa del
prezzo dei biglietti eccessivamente alto, e anche se potrebbe permetterselo non ci
va, perché è stato deluso troppe volte e per loro è troppo rischioso. Questa
situazione non è diffusa solo a New York, ma anche a Parigi. Il teatro mortale, si
scava la propria fossa. Un buon teatro dipende da un buon pubblico, d'altra parte
per lo spettatore è dura sentire parlare di responsabilità, anche perché egli non può
fare niente, non gli si può chiedere di andare a teatro per dovere, però anche se lo
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spettatore non può fare niente, da lui tutto dipende. Un pubblico sbagliato o un
luogo sbagliato inducono gli attori a tirare fuori il peggio di sé---> questo è il
pericolo delle tournée: è raro che tutte le condizioni originarie in cui è stato montato
uno spettacolo coincidano con le nuove. Spesso poi il contatto con un pubblico
diverso è anche questione di fortuna. Tutto si incentra nel contatto che si instaura
tra attori e pubblico.
Esperimento fatto con un pubblico di giovani pag 36-37
• Nascita dell'Actor's studio: scuola di recitazione, basato sul metodo di
Stanislavskij, che rispondeva adeguatamente alle esigenze dei drammaturghi e
del pubblico del tempo. Gli attori in 3 settimane proponevano uno spettacolo,
ma con la costanza di un insegnamento scolastico alle spalle. L'esperienza
della scuola dava ai loro lavori, forza e integrità. L'attore che seguiva questo
metodo imparava a liberarsi delle imitazioni della realtà e a cercare uno stile
proprio più autentico---> la recitazione si trasformò in una forma di studio
naturalistica. Il termine “teatro” è vago, non ha una collocazione precisa
nella società né uno scopo ben definito. È frammentato.
- ATTORE
• L'attore raggiunto un certo livello, fuori dal palcoscenico non studia più, l'attore
non sviluppa più il suo talento, dunque la recitazione mortale diventa la ragione
della crisi. • Non è detto che pianificazione della carriera e crescita artistica
vadano di pari passo. Spesso l'attore a mano a mano che la sua carriera si
consolida, comincia a scegliere lavori sempre più simili! La sua preoccupazione
primaria dovrebbe essere quindi quella di non starsene fermo, ma di lavorare
per crescere sul piano artistico.
• Anche una compagnia stabile a lungo andare se non ha una finalità, un
metodo, una scuola è condannata alla “mortalità”. Di chi è la colpa se ci
imbattiamo in questo elemento mortale? Dei critici!
- CRITICI
• (molto severi a New York) il critico ha un ruolo molto importante, un
critico scova l'incompetenza (vizio,tragedia del teatro) .
• Bisogna accettare il fatto che fare teatro è difficile, forse è il mezzo più
ostico e non vi è spazio né per l 'errore né per lo spreco.
• Prendersi il tempo del pubblico è un arte sopraffina. Noi ci dedichiamo al
teatro offrendo amore invece di scienza.
• Quindi il compito del critico è quello di:
1 scovare l'incompetenza e richiamare la competenza.
2 Battere nuove strade.
• Quando il critico minimizza l'importanza del suo ruolo, concorre anche lui al
gioco mortale. Il critico conosce il suo potere distruttivo ma sottovaluta
quello positivo.
• Artista e critico dovrebbero avere in comune l'obiettivo di tendere verso un
teatro meno mortale.
• Il critico è parte del tutto: deve avere una propria immagine del tipo di teatro
che vorrebbe per la comunità di cui fa parte e che la corregga ogni volta che
ha la possibilità. Più il critico si addentra nel lavoro meglio è.
• Il critico che ormai in teatro si annoia è un critico mortale VS critico
vitale. Il critico vitale---> è colui che ha elaborato una sua visione precisa
di quello che per lui è teatro e che, ogni volta ha il coraggio di rimettere in
discussione questa formula. È difficile per il critico mantenere vivo
l'entusiasmo, quando in giro ci sono pochi spettacoli di valore.
- AUTORI/ DRAMMATURGHI/SCRITTORI
Scrivere un'opera teatrale è molto difficile.
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- REGISTA
• Il regista non vuole essere Dio, eppure il suo ruolo questo richiede, vuole
essere libero di sbagliare, ma gli attori cospirano per fare di lui un arbitro.
• Il regista è sempre un impostore, una guida nella notte,che non ha scelta se
non quella di condurre gli attori e imparare il percorso da seguire strada
facendo. Ma l'elemento mortale è sempre in agguato, questo elemento ci
riporta sempre alla ripetizione: il regista mortale usa vecchie formule e
metodi. Il regista deve amalgamare sotto di lui tutti gli elementi del teatro
che costituiscono una sorta di unità, unità che è esteriore.
• Nei secoli diversi sono stati i linguaggi, quello non realistico, naturalistico, e
quello illogico del Teatro dell'Assurdo, quest'ultimo non cercava l'irreale fine a se
stesso, se ne serviva per fare esperimenti perché sentiva la mancanza di verità
nei nostri scambi quotidiani.
disciplina rigorosa, precisione assoluta. Teatri con cui è possibile toccare la realtà!
Living theatre --> è una comunità nomade che viaggia per il mondo, offrendo a
ognuno dei suoi membri uno stile di vita totale. Sono una comunità e ciò che li
accomuna è recitare. Sono in ricerca di un significato per le loro vite e per questo
che hanno bisogno di un pubblico perchè senza la sfida lo spettacolo sarebbe una
mistificazione.
Il Living Theatre è la sintesi di 3 necessità:
1. esiste per il piacere di fare teatro.
2. vive dei propri spettacoli.
3. e nelle messe in scena inserisce i momenti più intensi dell'esperienza della
vita collettiva. Il suo problema di fondo è che manca una tradizione una fonte da cui
poter attingere, è quindi costretto a ricercare il sacro in tradizioni e fonti diverse.
Non è l'artista a essere sacro ma la sua arte!
IL TEATRO RUVIDO
E' il teatro del popolo,caratterizzato da una certa ruvidezza. È quel teatro che non è
in teatro ma che avviene su carri, fienili, soffitte -> quindi sembra che non importi
dove viene messa in scena l'opera teatrale!
La scienza della costruzione teatrale si fonda sulla ricerca degli elementi in grado
di stimolare un rapporto tra le persone il più vivido possibile.
Il teatro Ruvido o Popolare:
• è vicino la gente.
• è caratterizzato da un'assenza di stile--> lo stile richiede agio e tempo.
• Il teatro ruvido non, seleziona non sceglie.
• È alla ricerca dell'unità di stile.
• Si avvale di un linguaggio molto sofisticato e stilizzato (il pubblico non ha
difficoltà ad accettare incongruenze e non si rende conte che tutta una
serie di convenzioni sono infrante).
• Si identifica nella commedia, questo tipo di teatro è ritenuto
meno serio. • Sembra non avere stile,convenzione, limiti ma
in realtà ha tutte e 3.
ideale).
Il teatro sacro ed il teatro ruvido traggono linfa dalle aspirazioni vere e profonde
del loro pubblico,ambedue liberano un infinita energia, sebbene quest'ultima sia
diversa fra l'uno e l'altro.
IL TEATRO IMMEDIATO
dell'allestimento.
- SCENOGRAFO/ SCENOGRAFIA
- REGISTA
• Il primo giorno di prove è come un cieco che guida un altro cieco. ( il poco
tempo per lo prove, non è sufficiente a creare una situazione che metta a
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proprio agio con gli altri) • Deve pensare alla successione delle prove come ad
un processo di maturazione> si renderà conto che vi è un tempo giusto per
ogni cosa.
• Inizialmente non riuscirà a far arrivare le sue idee, poi con il passare del
tempo si accorgerà di avere una diversa comprensione dell'insieme, le sue
stesse idee dell'inizio dovranno essere cambiate di continuo, per adattarsi
alle esigenze degli attori.
• È mortale il regista che il primo giorno si presenta con un copione fitto di
annotazioni> deve muove il suo lavoro in funzione degli attori e della
comprensione del dramma.
• Capita che un regista molto bravo sia eguagliato da un regista pessimo,perché
l'insicurezza e la disperazione degli attori si trasforma in forza. Un regista
che gode di sufficiente credito, ed è rigoroso produrrà sicuramente un fiasco.
• Il regista deve essere una guida per il gruppo, e deve assumersi tutte le
responsabilità-> il compito del regista è quello di aiutare il gruppo a
crescere, affinché possa idealmente fare a meno di lui.
• Il regista deve utilizzare nuovi strumenti, per scoprire che ogni tecnica ha una
sua funzione specifica e che non ne esiste una che vada bene per tutto.
• Imparerà che emozioni pensiero e corpo non possono essere separati, ma che
spesso bisogna simulare una separazione. (ritorna all'attore)
• il regista deve avere senso del tempo, sta a lui sentire e scandire il ritmo del
lavoro > vi è un tempo per discutere delle linee generali del dramma e un
tempo per dimenticarsene e un tempo in cui nessuno deve preoccuparsi dei
risultati dei propri sforzi.
• Deve accorgersi il momento in cui il gruppo perde di vista il teatro.
• È facile per un regista rimanere intrappolato in un metodo.
- ATTORI
NATURALISMO
• Esiste una nuova forma di recitazione sincera che consiste nel vivere tutto con
il corpo.
• L'attore tenta di imitare le azioni della vita quotidiana e di vivere il suo ruolo.
• Vi sono attori che si nutrono di Genet e Artaud e disprezzano ogni forma di
naturalismo, ma in realtà essi sono attori naturalistici.
• Musica è un linguaggio collegato con l'invisibile, attraverso cui il nulla si fa
presente in una forma che non può essere vista. ))))))))
- PUBBLICO
CONCLUSIONI
C'è un prezzo da pagare per essere attori: ogni volta donano parti di sé > Atto
teatrale è un lasciare andare.
Lo spettatore ha bisogno del teatro, in quanto tramite esso sente l'esigenza di
cambiare la sua vita, se stesso e la società di cui fa parte. Quindi il teatro viene
visto come aiuto, come riflettore e spazio in cui ci si confronta. Non ha bisogno
solo del teatro , ma di tutto quello che dal teatro può prendere.
La formula per Brook è:
TEATRO= RRA
• Répétition > che rivela l'aspetto meccanico delle PROVE--> la pratica rende
perfetti. Un attività monotona che dà buoni risultati, a forza di ripetere si
ottengono cambiamenti e risultati. Ripetizione si associa con qualcosa di
mortale, in quanto è un concetto freddo e sappiamo che la ripetizione nega
la vita. Però per sviluppare una qualsiasi cosa bisogna prepararla e spesso
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Il teatro contemporaneo
Lehman - l’oggetto teatrale contemporaneo lo descrive sotto l’oggetto del
post-drammatico: il teatro non è più una conseguenza del dramma, tenta di farne a meno.
Superando il regime drammatico, supera il regime della rappresentazione e della messa
in scena. E’ anche un teatro post-moderno, auto riflessivo, la prima grande opera auto
riflessiva è “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello. C’è una dimensione
metateatrale dentro la modernità, diventa però costitutiva nella contemporaneità. Utilizza il
proprio linguaggio, il referente del teatro non è più la realtà ma il teatro stesso. Tutto ciò
inteso nel teatro sperimentale e non tradizionale. Questa dimensione contemporanea ha
una genealogia: le sue origini vengono identificate in un elemento decisivo - la crisi
profonda del concetto di azione. Il teatro cambia natura, entra nella sua fase moderna
novecentesca nel momento in cui il dispositivo dell’azione diventa in crisi, ciò avviene
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L’autonomia del teatro dal dramma coincide con la seconda metà degli anni ‘60 con le avanguardie, come nel
Living Theatre, nasce una scrittura scenica, non è più una traduzione della scrittura drammatica, ma la scena
scrive con i suoi mezzi, vi è un processo di “riteatralizzazione”, una rinascita del teatro nel senso rinascimentale,
dove il teatro produce una vera e propria drammaturgia della scena (non letteraria), completamente autonoma.
Quindi il piano del dramma e dello spettacolo si autonomizzano, questo fa in modo che il teatro assuma
un’autonomia reale totale che si realizza in una nuova scrittura della scena.
E’ possibile identificare tre direttrici del teatro contemporaneo: 1. livello performativo, 2. livello documentale, 3.
livello mediale. Tutte le grandi esperienze del teatro contemporaneo ricadono in questi tre livelli, come se avesse
superato il suo rapporto con il testo drammatico o concedendosi con una pratica performativa o documentale o
mediale.
Livello performativo - performativo è per definizione la categoria del post-drammatico, il teatro non messo in
relazione col testo drammaturgico. La performance è l’idea che ciò che avviene sulla scena non sia una messa in
scena ma una presentazione, il puro apparire concreto di ciò che avviene in scena. L’attore non è più qualcuno
che recita, ma qualcuno che presenta sé stesso, aldilà di qualsiasi referente a cui deve adeguarsi. L’arte affine al
teatro che ha in sé questa caratteristica è la danza, l’esposizione più pura del corpo, dentro una logica in cui i
codici che regolano il corpo rispondono tradizionalmente al concetto di rappresentazione. Ma la danza in senso
novecentesco il piano ideale rappresentativo che a livello testuale c’è, è completamente superato. Caratteristiche:
l’idea che il corpo dell’attore sia pura performance, non c’è più un piano incorporeo, ma unicamente un piano
materiale legato all’io.
Questa rottura avviene tramite la simultaneità: ciò che avviene sulla scena avviene tramite principio di
simultaneità - le azioni sulla scena sono simultanee, non ci deve più essere una continuità.
Il secondo elemento è la paratassi, opposto della sintassi: l’idea che ogni elemento scenico che avviene in forma
di movimento e gesto sia slegato l’uno dall’altro, non solo può essere simultaneo, ma potenzialmente slegato,
ogni porzione scenica ha una propria autonomia.
Il terzo elemento è la densità e sovrabbondanza dei segni teatrali: il fatto che ogni porzione scenica sia
paratattica e simultanea, rende possibile una densità dei segni teatrali (devono essere per forza pochi, nel
momento in cui questa continuità salta, possono essere simultanei, dialogare tra di loro e possono essere
abbondanti).
Altro elemento è la musicalità.
Lo spettatore acquisisce una forma di esperienza, che ha il significato di permettergli di trovare la
consapevolezza di una qualche verità che lo spettacolo contiene, ma questa è data da una dimensione che
non attiene al linguaggio, non deve significare, deve semplicemente essere. Il teatro per quanto si sforzi di
annullare il piano reale, non potrà mai togliere quel minimo residuo reale che rimane. Il performativo è
l’autonomia del teatro rispetto a qualsiasi cosa.
Livello documentale - se il teatro annulla tutto ciò che elude il teatro performativo, il teatro documentale mette in
scena la realtà stessa, non viene mediata da una forma di rappresentazione come il testo scritto, ma portata in
scena quanto realtà: il teatro contemporaneo concepisce la scena come luogo in cui la realtà riproduce sé stessa.
Livello mediale - il teatro vuole superare il piano della rappresentazione tramite il teatro che costruisce dei piani
mediali, immagini viventi, la cui funzione non è descrittiva o narrativa, ma è l’immagine pura. Il teatro costruisce un
piano figurativo, come se fosse pittura in movimento vivente, in cui c’è un elemento performativo ma non
unicamente performativa, il cui scopo è figurativo, produrre immagini sonore o visive che interroghino lo
spettatore. L’autore che segna l’inizio del piano mediale è Bob Wilson, autore americano che lavora in Germania,
è colui che prende la direzione dei Berliner Ensemble, formata da Brecht. Il principio che regola la scena è
puramente figurativo, pittorico. Le pose degli attori rispondono a un principio di evocazione, crea immagini come
se fosse un quadro astratto, crea il suo significato attraverso l’immagine. Mette lo spettatore in una dimensione di
abbandono e concepisce la scena come un medium.
Romeo Castellucci, regista italiano - tragedia endogonidia. Mette in scena un teatro crudo, violento e diretto quasi
come Artaud. Anche animali, che mettono a nudo l’uomo, tutta la costruzione che l’umano opera sul linguaggio, di
fronte all’animale ci fa sentire nudi, e l’animale non agisce e non conosce il concetto di rappresentazione e il
linguaggio.
Altra caratteristica del teatro mediale è l’utilizzo del sonoro - Chiara Guidi, “Edipo Re di Sofocle”: medialità
totalmente sonora, quasi in una forma di concerto (es. Carmelo Bene che lavora basandosi sul concetto di
voce). Roberto Latini, “I Giganti della Montagna”: il performer è seduto di fronte al microfono, esiste una
sola dimensione vocale e sonora. In qualche modo declama l’attore ottocentesco, fermo davanti alla scena.
Non vale l’idea che il teatro essendo arte performativa possa essere riproducibile, perché si basa sul concetto di
pura presenza. La musica lo è, dove non vediamo un limite dell’oggetto musicale riprodotto, favorita però dal fatto
che sia un’arte performativa tecnica. Qual è il modo per pensare nuovi oggetti teatrali per poter pensare ad un
teatro mediale? E’ l’idea che la presenza umana non sia fondamentale (come disse Gordon Craig). Eduardo de
Filippo è l’autore che negli anni ‘70, dopo il teatro televisivo degli anni ‘60, realizza tutte le sue opere in cui il teatro
si appropria del mezzo televisivo, in un teatro vuoto, mettendo in scena le sue opere a favore del mezzo televisivo
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La regia
È nel Novecento, che la regia si trasforma da organizzazione della costruzione
dello spettacolo in un vero e proprio modello diventando una sorta di fil rouge
che attraversa il secolo subendo profonde metamorfosi ma presentando
alcune costanti: la composizione unitaria, lo spostamento autoriale nella
direzione del regista; la messa in scena come interpretazione e non
illustrazione drammatica.
I maestri fondatori:
Se Craig rappresenta la regia come teoria , la sua formulazione come prassi, il
teatro di regia si deve a Stanislavskij, Max Reinhardt, Jean Copeau, Mejerchol’d.
Nel 1888 Stanislavskij approdò alla società d’arte e letteratura come attore, per
assumere ben presto il ruolo di regista. Si trattava di una compagnia di dilettanti, ma
solo nel senso che agivano al di fuori del sistema professionale, e questo dava a
Stanislavskij più ampi margini di sperimentazione. Gli attori non professionisti
erano più disposti a farsi guidare. Così Stanislavskij iniziò a sperimentare
soluzioni nuove di messa in scena. L’ambiente scenico doveva essere curato
realisticamente nei dettagli e chiedeva agli attori la parte a memoria fin dall’inizio,
che si provasse a voce piena e senza gli ingombranti abiti di tutti i giorni. Nel 1897
incontra il critico teatrale Dancenko e questo incontrò fu leggendario. L’obiettivo della
loro conversazione fu quello di formulare nuove leggi per il teatro. Il primo problema
che si posero fu quello di incidere sul mestiere. A Stanislavskij fu affidata la direzione
scenica, a Dancenko la responsabilità drammaturgica. Dancenko impose a
Stanislavskij Il ‘’Gabbiano’’ di Cechov. La lettura del testo suscitò molte
perplessità. Per scoprire l’essenza interna dell’opera di Cechov, bisogna
scavare nella profondità della sua anima. Nell’inazione dei suoi personaggi si
nasconde una complessa azione interiore. Invece di recitare, bisognava
essere. Fu il passaggio dal realismo esteriore, ad un realismo interiore, alla
verità emotiva.
Da quel momento, fino alla sua morte nel 1904, Cechov diventò l’autore
d’elezione del teatro d’Arte. Un gabbiano fu anche il logo del teatro. Per dar
vita ai personaggi cecoviani e far sì che il sentimento sembrasse uscire da
loro spontaneamente bisognava creare loro intorno un mondo fatto di oggetti
reali, suoni, movimenti semplici e antiteatrale. Bisognava raggiungere un
effetto di naturalezza e fare un grande lavoro. Stanislavskij capisce che per
fare Cechov occorre lavorare sul ‘’sottotesto’’, sul mondo interiore e segreto
del personaggio più che sulla battuta.
chiuso.
Max Reinhardt
Viennese, impegnato giovanissimo da Otto Brahm, a Berlino per il suo Freie Bühne
(teatro libero), costituito sul modello del Théatre Libre di Antoine. Il naturalismo
cominciò presto a stargli stretto e così nel 1900 avviò quasi come un divertissement
un progetto destinato, nel 1901 a trasformarsi in uno spazio alternativo, un piccolo
cabaret, dove giocare con il teatro proponendo sketches, improvvisazioni, numeri di
varietà, canzoni. Nel 1902 il teatro venne ribattezzato Kleines Theater e diventò uno
spazio che rompeva con la tradizione, sia per il repertorio, una campionatura della
drammaturgia moderna: Strindberg, Wilde, sia per le modalità della messa in scena
libera dai vincoli del realismo e dai retaggi dell’accademismo. L’obiettivo era quello di
avere un teatro che sapesse riscattare la dimensione della teatralità, che tornava ad
essere Schautheater, teatro per gli occhi. La regia deve giocare liberamente con la
letteratura, non esserle contro. Il compito del regista consiste nel creare per ogni
opera le condizioni che deve aver creato l’autore stesso. Il successo del Kleines, con
la sua capacità di innovare senza rivoluzionare aprì la strada a una stagione
intensissima e a un successo enorme che fece di Reinhardt il re del teatro berlinese
e il prototipo del regista come effervescente ed eclettico costruttore di spettacoli,
diversi a seconda del testo: aprì teatri con caratteristiche adatte alle diverse
drammaturgie e utilizzò le nuove tecniche sceniche, prima fra tutte il palcoscenico
girevole che gli consentiva repentini cambi di scena. Reinhardt allestisce anche i
classici, tra cui Shakespeare. Fa ‘’Sogno di una notte di mezza estate’’ in cui
modificò radicalmente l’impianto convenzionale della messa in scena. Protagonista
divenne il bosco, con alberi veri di enormi dimensioni che rendevano piccoli i
personaggi ed effetti visivi esaltavano l’atmosfera magica del testo. Per Reinhardt
bisognava rappresentare i classici come se fossero autori di oggi.
Jacques Copeau
La terza via attraverso cui si manifesta questa prima stagione della regia moderna è
quella di Jacques Copeau. Inizia la sua attività come critico letterario, vicino ai circoli
del modernismo parigino. Nel 1908 fonda la nouvelle revue française che dirigerà
fino al 1913 quando avvierà la sua attività teatrale aprendo il teatro del Vieux
Colombier. Si dedica al teatro riconducendolo alla sua natura di evento culturale e
sottraendolo al mercantilismo. Secondo Copeau il teatro deve rifondare il suo
linguaggio e la sua tecnica nel 1911. Il passaggio alla pratica avviene con la
riduzione scenica dei Fratelli Karamazov. In questo momento Copeau cominciò ad
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Quando nel 1913, apre il suo teatro, voleva chiudere con l’industria dello spettacolo
particolarmente florida a Parigi e restituire allo spettacolo la sua bellezza. Si trattava
di un progetto che prevedeva un atteggiamento di natura etica oltre che estetica.
Copeau non voleva tagliare i ponti con il passato, ma ritessere il legame con
una tradizione che riteneva tradita. Bisognava cercare la vita nei classici, senza
affossarsi nelle pratiche accademiche, ma senza neanche cadere nei modernismi di
maniera. Il motore di questo processo era il regista, guida dei diversi elementi
artistici. Il suo teatro si sarebbe affidato a una scena nuda, che si metteva al
servizio dell’attore, nel suo viaggio a ritroso verso la matrice originaria del
testo drammatico. La prima stagione lo fece mettere a confronto con la tradizione
(Shakespeare e Molière), ma purtroppo la guerra, lo costrinse a scappare negli Stati
Uniti. Partendo dal concetto di scena nuda, collaborò con Jouvet. La regia
consisteva nella capacità di guidare il dialogo tra attore e spazio per portare
alla luce la vita drammatica del testo.
Dopo la guerra riaprì il suo Vieux Colombier, ma il suo pensiero era rivolto alla
creazione di una scuola, un luogo dove formare gli attori, fin da giovanissimi come
persone, prima che da un punto di vista tecnico. All’attore era richiesta una ricerca
su di sé che mettesse in campo tanto l’espressione del corpo che quella delle
emozioni. Bisognava eliminare le trappole del mestiere e creare le condizioni di una
sincerità creativa. Copeau cercava la sincerità delle emozioni. Il suo teatro non
riusciva più a dargliela e così nel 1924 si trasferì con un gruppo di allievi in
Borgogna per provare a risalire alle fonti vergini dell’attore, al di fuori del
sistema teatrale. Accanto alla ricerca laboratoriale, propose spettacoli nelle
piazze durante le feste, un mezzo per tornare alle origini comunitarie del fatto
teatrale. Non amava la parola rivoluzione e la regia era costruzione delle
condizioni affinché la poesia tornasse a scrivere in prima persona il teatro.
Il futurismo
Nel 1911 Tommaso Marinetti scrive il Manifesto dei drammaturghi futuristi che poi
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verrà ribattezzato La voluttà di essere fischiati. Sono passati due anni dalla
pubblicazione del Manifesto del futurismo in cui aveva gettato le basi teoriche del
movimento: l’esaltazione della modernità, del movimento aggressivo, liberarsi dal
peso del passato della tradizione e della storia, la velocità come simbolo della nuova
sensibilità moderna, rifondare l’arte, la sensibilità e la società attraverso un atto di
drastica frattura. Il manifesto del 1911 è un’altra cosa. Vi tornano molti degli elementi
fondativi del Futurismo. In primis l’assoluta originalità novatrice, quindi il disprezzo
del pubblico, l’orrore per il successo immediato, la voluttà di essere fischiati,
esaltazione della frattura e della provocazione tipiche delle avanguardie di cui il
futurismo è la prima compiuta espressione. Per Marinetti il teatro deve essere
sintetico, alogico e irreale. Produrre schegge di scrittura, frammenti, che schiantino
la costruzione stereotipata del racconto teatrale, negando ogni rapporto di tipo
rappresentativo con la realtà e rifiutando la logica, la razionalità. Per raggiungere tale
risultato bisogna lavorare su atti scenici che colpiscano per la loro immediatezza – la
sintesi e non per il loro sviluppo narrativo. Nel 1913, Marinetti introduce il ‘’teatro di
varietà’’, che concepisce il teatro come evento. Del teatro di varietà, Marinetti
apprezza la mancanza di tradizione, la struttura a numeri liberamente montati tra
loro, la modernità naturalmente antiaccademica, il dinamismo. La creazione di eventi
unici e irripetibili trova un riscontro nelle serate futuriste. Si tratta di eventi in cui si
succedevano in ordine sparso proclami, declamazioni di poesie, esposizioni di
quadri, apostrofi al pubblico, il quale reagiva in modo irruento dando vita a gazzarre
che Marinetti usava come strumento di diffusione delle sue idee.
Dada e Surrealismo
Il dadaismo è il movimento più estremo che nasce a Zurigo nel 1916 in Svizzera.
Nasce dalle idee di numerosi artisti, di varie nazionalità, come reazione alle forme
consolidate d’arte. Tra gli esponenti del dadaismo ritroviamo Tristian Tzara, poeta
rumeno. Nel manifesto del dadaismo del 1918 Tzara scrive che ‘’dada’’ non significa
nulla. Si propongono una serie di abolizioni della logica. C’è un grande lavoro
distruttivo, negativo da compiere. Bisogna spiazzare, ripulire. Dada si presenta come
una antiarte che mette in primo piano la vita, l’effimero, e un gesto distruttore che
aggredisce la logica, il buon senso borghese e l’idea stessa di arte. Il dadaismo
nasce con il cabaret Voltaire, nome che mette insieme la modernità con il profeta del
razionalismo illuminista. Il cabaret Voltaire fu uno spazio animato da serate in cui
venivano declamati proclami, poesie dal linguaggio disarticolato, esposte opere
pittoriche. La poesia veniva spettacolarizzata attraverso azioni fisiche. Il 1924 è un
momento di frattura: in un processo di conflitto e continuità Dada si estingue e
nasce, ad opera di Breton, il surrealismo. Bisogna aprire un nuovo fronte di
sperimentazione che guardi alla dimensione originaria e inconscia dell’io liberandola
dalla gabbia della ragione. Fondamentale fu la lettura degli studi sull’interpretazione
dei sogni di Freud. Breton propone una fusione tra realtà e dimensione onirica che
strappi la percezione dall’illusione del quotidiano determinando una specie di realtà
assoluta, di surrealtà. Breton riteneva che la poesia e la pittura fossero le arti in cui si
potesse esprimere la scrittura automatica surrealista e guardava con sospetto al
teatro che aveva bisogno necessariamente di un processo di costruzione. Questo
non significa che non ci fu un teatro surrealista. Roger Vitrac e Antonin Artaud
Il Bauhaus invece era un progetto con l’intento di integrare arti diverse in una
progettazione integrata che trovava nell’architettura e nelle arti applicate il suo
momento di sintesi.
L’espressionismo
L’espressionismo è nato e si è sviluppato in Germania. È una sensibilità artistica,
piuttosto che un movimento vero e proprio e non è un caso che manchi un manifesto
programmatico. Bisogna fare una distinzione tra espressionismo ed impressionismo,
intesi come modi opposti di intendere il rapporto tra l’arte e la realtà: nel primo caso
prevale la ricettività percettiva dell’artista, nel secondo la capacità di produrre un
segno artistico espressione della propria interiorità. Per l’espressionismo, l’artista
non guarda, ma vede, non racconta, ma vive. Queste affermazioni evidenziano il
rifiuto della realtà sociale e una sofferta ribellione. L’artista espressionista è colui
che sente l’inutilità del tempo presente e scaglia questo suo sentire contro il
mondo: è il primato della cultura, che è vitale, sulla civilizzazione, che è
convenzione borghese. La data di inizio dell’espressionismo è il 1905 quando un
gruppo di pittori fonda il movimento del Ponte e tra il 1924 e il 1926
l’espressionismo può dirsi esaurito. I tratti comuni al teatro espressionista sono il
risalto dato alla parola come verbo, evocazione lirica più che tramite logico della
comunicazione; la trasfigurazione della realtà in una dimensione simbolica, la
forzatura del linguaggio, il sentimento di ribellione. L’espressionismo esaltava la
tragicità dell’epoca moderna. L’espressionismo aveva anche un’anima politica che si
rifletteva in Ernst Toller, che fu anche recluso per 5 anni. In Oplà noi viviamo (è
quasi un testo autobiografico) il protagonista, tornato in libertà dopo i moti
rivoluzionari, scopre che gli ideali di un tempo sono stati traditi dai suoi compagni.
Cerca di reagire e di uccidere uno di loro, divenuto ministro nel frattempo, ma è
anticipato da un nazionalista di destra. Arrestato nuovamente e in preda dello
sconforto si suicida. Il testo, oltre a testimoniare il tracollo del sogno rivoluzionario,
segna anche il passaggio da una scrittura di tipo espressionistico ad una struttura di
tipo più didascalico. L’espressionismo è ormai finito.
Il testo letterario
Il teatro del primo Novecento privilegia il momento scenico. È un atteggiamento che
si traduce nell’uso ricorrente di due termini che diventano delle vere e proprie parole
d’ordine: ‘’specificità’’ e ‘’autonomia’’. Entrambi fanno riferimento all’indipendenza
che il teatro rivendica rispetto al testo letterario, considerato secondo un modello
riconducibile ad Aristotele, al vertice di una piramide gerarchica in cui gli elementi
scenici, hanno, invece una funzione subalterna. I teorici e i registi del novecento
modificano sensibilmente tale assetto, spostando la dimensione dell’autorialità dalla
scrittura letteraria a quella scenica o creando le condizioni di una doppia autorialità.
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Questo non significa una messa al bando del testo letterario o la sua svalutazione,
piuttosto il suo riposizionamento all’interno del sistema linguistico.
Il 1921 è l’anno della svolta in cui scrive Sei personaggi in cerca d’autore. Della
vicenda di cui si racconta nel testo poco importa, ciò che conta è la dialettica
irrisolvibile tra i personaggi, che sono venuti a trovare un autore, e gli attori della
compagnia a cui si rivolgono. I primi vorrebbero vivere in prima persona la loro
storia, ma chiaramente questo è un paradosso logico, gli attori vorrebbero farlo loro,
ma la distanza che li separa dai personaggi è incolmabile. Il testo si conclude con un
niente di fatto: di fronte all’irrisolvibile enigma sulla morte dei due bambini – verità o
finzione? – il capocomico scaccia tutti e la problematica posta nel testo, se e come
un personaggio possa vivere a teatro, resta irrisolta. Con sei personaggi , Pirandello
apre la sua stagione più significativa in cui diventa centrale ‘’il teatro nel teatro’’.
L’attenzione è focalizzata sulla relazione tra testo e scena e sulla possibilità stessa
del teatro come rappresentazione. Il teatro dovrebbe esistere come pura
manifestazione della vita immaginaria dei personaggi, ma non può, così come non
può contaminarsi con il linguaggio materiale della scena e con l’ancor più materiale
atteggiamento del pubblico.
Nella Germania del primo dopoguerra, gli anni dei moti spartachisti, dell’instabile
repubblica di Weimar, della repressione conservatrice e della grande crisi economica
ma anche dell’espressionismo e dell’affermazione della regia, muove i primi passi
Bertolt Brecht, una delle figure chiave del teatro della prima metà del Novecento.
La recitazione
Guerra (1939/1945)
La seconda guerra mondiale taglia in due il novecento come una lama. Quando
Theodor Adorno affermava che dopo Auschwitz non c’era più spazio per la poesia,
metteva in evidenza un trauma a cui ne corrispondeva un altro che si traduceva
nella domanda, altrettanto inquietante, su quale mondo fosso pensabile dopo la
bomba di Hiroshima. Gli esiti, sul piano politico, di questa faglia profonda possono
riassumersi così: la divisione dell’Europa, in due blocchi contrapposti, quello
occidentale e quello orientale comunista; la Guerra fredda tra Unione Sovietica e
Stati Uniti; la centralità, non solo politica ma culturale assunta da questi ultimi. La
spinta propulsiva all’innovazione, così intensa nei primi venti anni del secolo, negli
anni trenta subisce una brusca battuta d’arresto. Le ragioni sono di natura diversa.
La prima è di natura politica. Gli anni trenta rappresentano in due dei paesi guida
della modernizzazione teatrale, la Germania e la Russia, l’affermazione di dittature
che schiacciano ogni forma di innovazione. Nella Germania con Hitler si determina
una diaspora culturale. Da Reinhardt a Brecht a Piscator, le menti migliori del teatro
tedesco lasciano il loro paese per sfuggire alla persecuzione ideologica o etnica, il
Bauhaus chiude. Negli anni 30 la Germania è fuori dal Novecento. Nella Russia,
divenuta ormai Unione Sovietica e dominata da Stalin, la sintonia tra momento
rivoluzionario e avanguardia, entrato già in crisi alla fine degli anni venti, si rompe. Il
suicidio di Majakovskij nel 1930 e la fine atroce di Mejerchol’d ne sono la
testimonianza più tragica. Anche in Italia si assiste a un processo reazionario:
Marinetti, sostenitore di Mussolini, si illude che il futurismo possa diventare l’arte
ufficiale del fascismo, cosa che regolarmente non accade. In Italia, come in Unione
Sovietica e in Germania, si afferma un’arte monumentale, celebrativa e retorica.
Uno degli esiti di tale situazione è l’emigrazione di molte figure di intellettuali e di
artisti sia teatrali che non, negli Stati Uniti, determinando un processo di
accelerazione nella modernizzazione culturale di quel paese che fa sì che nel
secondo novecento assuma una sua prepotente centralità. Tra la fine degli anni dieci
e i primi anni venti Jean Cocteau aveva introdotto la formula del ‘’richiamo
all’ordine’’: superare il decostruttivismo delle avanguardie in nome di una rinnovata
organicità dell’opera d’arte. Questo termine diventò il termine per definire la crisi non
solo delle avanguardie ma anche dei processi di innovazione. Un fenomeno che
segna effettivamente un’epoca sono le trasformazioni che intercorrono nella regia
francese. Jouvet, che di Copeau era stato l’allievo prediletto, sempre di più nel corso
degli anni 30 intende la regia come lavoro di interpretazione del testo. È uno
stabilizzarsi dell’idea di regia come mediazione, un richiamo all’ordine, rispetto alle
spinte indipendentiste. Quando dopo la seconda guerra mondiale, il teatro riavviò le
sue attività, ponendosi nuovamente il problema dell’identità, il vuoto da colmare era
più profondo di quello lasciato dal periodo bellico.
Durante gli anni del conflitto vengono scritti testi drammatici che con la guerra hanno
un rapporto, diretto o indiretto, rilevante per comprendere la natura. Il caso più
evidente è quello di Eduardo de Filippo che nel 1945 rappresenta Napoli
Milionaria. La città è già libera da più di un anno ma manca un mese alla fine del
conflitto, eppure Eduardo ha l’intelligenza drammaturgica di portare in scena il dopo
con le difficoltà che si porta appresso. Il testo ha nella sua vita artistica un ruolo di
spartiacque. È il primo dopo che si è chiusa l’esperienza della compagnia di famiglia;
è il primo di una fase nuova in cui introduce, attraverso il grottesco, uno sguardo
amaro alla realtà. Il testo è diviso in due parti. La prima ricorda ancora atmosfere
pari per la vivacità dell’ambiente nel basso napoletano dove la protagonista svolge il
suo mercato nero. Siamo durante la guerra ma la microsocietà di Eduardo ancora
tiene. Nella seconda parte, la città è libera, la donna si è arricchita alle spalle del
vicinato, il marito è sparito, ma quando torna, trova un mondo in cui non si riconosce
più: l’umanità che in qualche modo regolava i rapporti tra le persone si è dissolta. Il
danno della guerra è stato più morale che materiale. Eduardo è colui che porterà
una medicina per curare la bambina di questi nuovi ricchi. Una bambina identificata
come l’ITALIA stessa. ‘’Ha da passà a nuttata’’ è una delle battute più note del teatro
italiano, e chiude il testo in un clima di attesa e ripensamento.
La seconda metà del ‘900, dopo il trauma della guerra, può essere letta come un
ricominciare: ripartire daccapo per un verso, per un altro ritessere le fila con i
decenni esplosivi di inizio secolo. Nel corso di questi anni sono morti Majakovskij,
Mejerchol’d, Marinetti, Reinhardt, Jouvet, Dullin, Baty, Tairov, Stanislavskij,
Pirandello, Artaud. Craig è vivo, ma non se ne ricorda nessuno. Cocteau si dedica
solo al cinema. Restano a rappresentare una linea di continuità, Piscator e Brecht,
ma il soggiorno americano ha rappresentato per entrambi una frattura e il loro ritorno
europeo presenta significativi cambiamenti. Tre sono i fenomeni che caratterizzano
gli anni quaranta e cinquanta: l’affermazione di una nuova drammaturgia di frattura,
il rilancio della regia come progetto culturale oltre che artistico, la presenza dei germi
di una nuova idea di teatro che ne mette in gioco gli assetti linguistici. Uno dei
drammaturghi più famoso di questi anni è Ionesco. Il problema posto da Ionesco
può essere così sintetizzato: c’è stata un’avanguardia che ha vivacizzato il processo
d’invenzione del teatro che è stato insabbiato da una convenzione ovvia e ripetitiva,
si tratta ora di seppellire quell’avanguardia per recuperare lo spirito di ribellione e di
frattura. Nel suo testo ‘’Rinoceronti’’ si può leggere lo spettro di un conformismo
dilagante che sta trasformando la società in accumulo di uguali. Il nuovo inizio del
teatro novecentesco testimonia un malessere profondo: quale mondo è possibile
dopo gli orrori del conflitto mondiale che si trascinano nella guerra fredda? Ionesco
non ha un approccio politico, il suo teatro agisce sul filo della logica,
contraddicendone metodicamente le ragioni. Martin Esslin, per descrivere questa
stagione della drammaturgia, usò una definizione che ha fatto scuola: Teatro
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dell’Assurdo.
Il Teatro dell’Assurdo
Mette in scena la realtà del ventesimo secolo: l’alienazione dell’uomo
contemporaneo, la crisi, l’angoscia, la solitudine, la totale impossibilità di ogni
comunicazione, il progresso sociale, la scoperta di forze inconsce all'interno
della psiche umana, l'orrore della meccanizzazione. Il teatro dell'assurdo rivela
la natura intrinseca dell’essere umano e del mondo in cui vive, presentato
come un posto incomprensibile. La platea non comprende mai il pieno
significato di questi strani eventi, sebbene parli la stessa lingua utilizzata dagli
attori sul palcoscenico. La tecnica di Bertolt Brecht conosciuta come
“Verfremdungseffekt”, ossia tecnica dell’alienazione, trova nel Teatro
dell’Assurdo la sua massima realizzazione. Attraverso la tecnica dello
straniamento lo spettatore ha l’opportunità di fare delle libere considerazioni e
di poter riflettere senza essere guidato dall’autore. Sembra essere una
missione impossibile capire i personaggi e potersi identificare con essi, i quali
appaiono come meri burattini, senza alcuna volontà propria, passivamente in
balia del proprio destino. Pertanto, restano un libro chiuso e gli spettatori
mediante semplici azioni sono spinti a riflettere sul lato irrazionale della loro
esistenza.
Il 5 gennaio del 1953 è una delle date chiave del novecento. A Parigi, fu messo in
scena Aspettando Godot di Samuel Beckett. Beckett scardina gli elementi
costitutivi della drammaturgia: il piano narrativo non prevede lo sviluppo della
vicenda; il personaggio è immobilizzato in una condizione statica e non può che
continuare a replicare se stesso; il dialogo perde la funzione drammaturgica di
condurre avanti l’azione e si trasforma nel tentativo di riempire questo tragico vuoto.
I personaggi, non pensano e non sentono. Il rapporto di Beckett con la realtà è di
questa natura: nel mondo gli vede il processo che lo condurrà alla sua dissoluzione.
Non a caso il tema dominante in entrambi i testi, che rappresentano al meglio la
prima fase di Beckett, è l’attesa di un personaggio misterioso, Godot, di cui non
sappiamo nulla, che non arriverà mai ma che con la sua essenza condiziona in
modo irreparabile la vita dei due protagonisti, Estragone e Vladimiro; di una fine, la
propria ma anche quella della specie umana e del mondo intero che sta lì per
accadere ma resta sospesa. L’attesa rappresenta in Beckett la forma del
tragico: la tragedia non è un evento straordinario, consiste invece, nella riduzione
dell’individuo umano all’inerzia, alla replica, a una solitudine disperata.
Finita la guerra, per gli esuli tedeschi si pose un problema: restare o rientrare? È
una questione di storia culturale di grande rilievo che ha una ricaduta importante nel
teatro del dopoguerra. Piscator e Brecht vivevano da anni negli Stati Uniti.
Entrambi si trovarono ben presto ad avere a che fare con la caccia alle streghe,
espressione con cui si intendono le indagini, gli interrogatori, le vere e proprie
persecuzioni a cui forno sottoposti quanti fossero sospettati di compromissione con il
comunismo. Brecht, da par suo, riuscì ad aggirare le accuse ma l’aria non era più
respirabile. Entrambi scelsero la via di casa. Piscator rientrò nella parte occidentale,
Brecht in quella orientale. Brecht vedeva nella Germania comunista la possibilità di
far nascere una società diversa, Piscator, viceversa,voleva continuare a giocare la
sua partita nell’ambito delle democrazie occidentali. Piscator non concepiva più la
regia come costruzione della scena. Le sue regie sono analisi puntuali dei testi,
inserite all’interno di cornici sceniche sempre significative ma non dominanti con uno
spazio particolare affidato alle luci. Per Brecht la scelta dell’est ebbe implicazioni sia
politiche che teatrali. Per molti aspetti sembra perfettamente integrato, per altri
sembra mostrare segni di dissenso. Ebbe per la prima volta la possibilità di avere un
teatro dove sperimentare le sue idee: il Berliner Ensemble, destinato a diventare una
delle grandi istituzioni europee. Si ha l’uso di una diversa modalità di scrittura. Brecht
in collaborazione con Engel, progettarono una partitura scenica che rendesse
sempre contraddittorio e aperto il giudizio sul personaggio. La scena era ridotta a
pochissimi oggetti, straniati dentro un vuoto marcato da piccoli siparietti, su cui si
leggeva l’usura del tempo, così come accadeva per i costumi. Vero protagonista era
il carro, posto al centro della scena su un palcoscenico girevole e tirato in senso
inverso alla rotazione del palco, realizzando l’effetto di un movimento immobile che
visualizzava l’assenza di sviluppo sulla coscienza della protagonista. La regia era
caratterizzata da pochi elementi che assumevano una funzione drammaturgica.
Brecht intendeva con le sue regie investigare la sua idea di teatro. Non gli
interessava la confezione ma rimettere in moto la potenzialità espressiva del teatro
inteso come arte dialettica. Non è un caso, inoltre, che nel 1948 Brecht pubblichi il
Breviario di estetica teatrale, il testo di sintesi della sua concezione di teatro epico o,
come lo chiama in quella sede, del teatro nell’epoca scientifica, intendendo con
questo un teatro che sappia rispondere alla complessità della realtà sociale con un
atteggiamento analogo a quello della scienza nei confronti delle sfide della natura.
Secondo Roger Planchon, gli elementi della scena, hanno nella drammaturgia
brechtiana un valore di scrittura, in quanto assolvono alla funzione di
un’autonoma responsabilità espressiva.
Su molti piani - quello artistico, quello politico e quello sociale – gli anni sessanta
rappresentano un momento di svolta decisivo nel percorso identitario del secondo
novecento. Una diffusa contestazione tocca diversi assetti del sistema sociale ed
esplode clamorosamente in una serie di movimenti di cui quello del sessantotto.
Protagonisti di questi movimenti sono gli studenti, ma dato ancora più importante,
sono i giovani. Il concetto di giovani, inteso come conflittualità rispetto ai valori
precedenti, emerge proprio negli anni sessanta. I movimenti erano rivoluzionari
perché non ribaltavano violentemente lo stato, ma perché mettevano in discussine lo
statuto etico della società borghese. Negli anni sessanta nasce l’arte di massa più
grande mai conosciuta dalla storia, il rock, che esemplifica la condizione sociale
della seconda metà del novecento. C’è una riscoperta di Artaud e nel 1968, appare
già come un classico con cui è indispensabile confrontarsi. Nello stesso anno Peter
Brook fa riferimento ad Artaud come a un modello ideale di quello che definisce
teatro sacro, un teatro cioè, che vada oltre le illusioni fenomeniche e che sappia
cogliere il centro dell’umano. Artaud sosteneva che soltanto in teatro avremmo
potuto liberarci dagli stereotipi che dominano il quotidiano. Quanto comincia in
questo decennio sarà denominato in vari modi, ma noi utilizzeremo Nuovo Teatro: si
tratta di una denominazione meno connotata in chiave ideologica rispetto alle altre,
che coglie bene il profondo radicale rinnovamento del modo di fare e concepire il
teatro.
Ogni teatro nella sua epoca è a suo modo ‘’nuovo’’, allora che senso ha usare
un’espressione come Nuovo Teatro? La questione è nell’uso delle maiuscole:
scrivere Nuovo Teatro appare un modo per alludere a un fenomeno culturale e non
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Nel 1947 si incontrano a New York due giovanissimi artisti. Lui, Julian Beck è un
pittore della cerchia di Peggy Guggenheim tra i più promettenti esponenti dell’action
painting: lei, Judith Malina è allieva di Piscator. Insieme decidono di dar vita a un
sodalizio che sarà artistico ed esistenziale, fondando il Living Theatre il cui debutto
avverrà qualche anno dopo, nel 1951. Gli anni cinquanta sono anni di apprendistato
i cui obiettivi sono creare una modernizzazione del teatro americano e aprire spazi
che siano non solo dei teatri ma dei luoghi di animazione culturale. Sul piano teatrale
il living introduce un repertorio moderno, Eliot, Stein, Brecht, Pirandello, Picasso a
cui associare scrittori americani sperimentali e anarchici come Jackson MacLow o
Paul Goodman, e un criterio di messa in scena che rompe gli schemi del
descrittivismo realista. Il nostro primo impegno fu la forma, ricorda Beck, ripensare
l’assetto estetico dello spettacolo ma al tempo stesso cominciare a porsi
l’interrogativo di un fondamento linguistico che andasse oltre la forma: il teatro sarà
la rinascita del rituale in una forma contemporanea, scrive Malina nel 1958. Il living
da compagnia teatrale si trasformò in una comune anarchica; da un teatro di regia,
per quanto estremamente moderna, passò ad un teatro di scrittura scenica. Questo
produsse una serie di spettacoli: Frankenstein (1965), Antigone di Sofocle (1967),
Paradise Now (1968).
Paradise now: lo spettacolo aveva una sua rigorosa struttura interna che prevedeva
un’ideale scala di otto gradini verso la liberazione, basandosi sul simbolismo dei
chakra dello yoga o su quello dell’hasidismo ebraico. A ogni gradino
corrispondevano tre fasi: il rito, in cui il gruppo si concentrava su se stesso in azioni
chiuse; la visione, in cui avvenivano delle azioni di natura visiva e performativa,
affidate all’espressività del corpo; l’azione, in cui il gruppo si rivolgeva direttamente
agli spettatori per coinvolgerli attivamente nello spettacolo. Questa struttura subì la
pressione di un pubblico particolarmente sensibile a quel tipo di coinvolgimento.
Paradise now si concludeva con gli attori che si caricavano gli spettatori sulle spalle
e uscivano dal teatro. Il teatro è nella strada, la strada appartiene alla gente.
Liberate il teatro, liberate la strada, cominciate. Dimensione politica e artistica
diventano tutt’uno.
Nel 1959 Jerzy Grotowski insieme a Flaszen inaugura il Teatro delle 13 file nella
cittadina polacca di Opole. La data, considerando che cosa avviene in quell’anno –
the Connection, il primo happening di Kaprow, il debutto di Carmelo Bene, per fare
alcuni degli esempi più significativi – la elegge a simbolico inizio del Nuovo Teatro.
L’happening
Nasce a New York nel fatidico 1959 grazie a una ‘’non mostra’’ di Allan Kaprow
intitolata 18 Happenings in six Parts: i visitatori erano invitati a prendere parte a una
serata in cui sarebbero successi degli avvenimenti che li avrebbero coinvolti
direttamente trasformandoli da visitatori in spettatori. Non immaginavano di andare a
vedere uno spettacolo teatrale e lo stesso Kaprow non era consapevole che
quell’evento avrebbe dato vita ad un genere espressivo nuovo. L’happening è una
forma di teatro in cui diversi elementi alogici, compresa l’azione scenica priva di
matrice sono montati insieme e organizzati in una struttura a compartimenti. È
dunque teatro a tutti gli effetti, un genere spettacolare nuovo anche se non discende
da una precisa teorizzazione intellettuale sul teatro. Ma in cosa consistevano gli
happening? In quello inaugurale di Kaprow la galleria era suddivisa in tanti piccoli
ambienti da pareti di plastica al cui interno avevano luogo avvenimenti diversi: attori
che si muovevano lungo delle linee prefissate senza fare nulla di specifico né
manifestare alcuno stato d’animo; attori/pittori che dipingevano sulle pareti divisorie;
un’attrice che spremeva delle arance fino a saturare di un profumo l’ambiente; attori
che leggevano testi privi di un senso compiuto; un’orchestrina di strumenti giocattolo.
Erano azioni prive di un significato decodificabile, non riconducibili a una qualche
forma di abilità artistica e apparentemente casuali. Ciò che caratterizzava gli
happening, era un peculiare principio di costruzione e di scrittura, che possiamo,
accettando la dilatazione delle categorie estetiche, identificare come teatro.
Negli anni settanta c’è tutta una zona della produzione artistica che ha fatto della
presenza in prima persona dell’artista e dell’evento la sua matrice linguistica, è la
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Performance Art, termine con cui si fa riferimento a esperienze anche molto diverse
tra loro. Le azioni dal vivo sono state costantemente usate come un’arma contro le
convenzioni dell’arte istituzionalizzata. Con la performance art, l’artista è soggetto e
oggetto della sua operatività artistica. Un caso esemplificativo è quello di Joseph
Beuys che crea una sovrapposizione tra sé come persona, sé come artista e sé
come opera. Le sue azioni performative non contengono elementi intriseci di
spettacolarità. Interessato in modo particolare alle questioni dell’ambiente, alcune di
esse si traducevano in conferenze durante le quali Beuys scriveva su delle lavagne
o si limitava a piantare alberi. Beuys ha trasformato se stesso in un personaggio.
È l’icona, anzi la maschera di sé. Il fenomeno della perfomance art che presenta più
eclatanti elementi di spettacolarizzazione è la body art. L’artista utilizza il suo corpo
come mezzo d’espressione forzandone i limiti, aggredendolo realmente: il sangue è
sangue e il dolore è dolore. La manipolazione del corpo è un modo di relazionarsi al
sé più profondo. Il caso più paradigmatico è quello di Marina Abramovic, che si
sottopone a prove estreme. Le sue azioni possono essere semplici come
spazzolarsi per ore i capelli fino a sanguinare o avere un’articolazione più
complessa. La teatralità dell’azione è molto intensa e infrange il postulato della
finzione. Quando negli anni 70 le chiedevano se quello che faceva fosse teatro, lei
affermava che non lo era in quanto non replicabile.
coscienza superiore. Rimandano alla morte e non a caso Kantor definirà ‘’teatro
della morte’’ la stagione più significativa della sua produzione. Prima di giungere al
teatro Kantor si dedica alla pittura, realizzando collage in cui introduce oggetti veri
nella materia pittorica. In una fase successiva si dedica agli imballaggi in cui
impacchetta gli oggetti rendendoli irriconoscibili. Ciò che conta non è l’oggetto in sé,
ma il gesto che conduce al quel risultato, tant’è che alcuni degli imballaggi verranno
eseguiti dal vivo.
Nel 1955 Kantor fonda un gruppo teatrale a cui dà il nome di Cricot rifacendosi come
in un’ideale seconda edizione ad un circolo di intellettuali avanguardisti polacchi di
inizio secolo. Tra gli anni cinquanta e i sessanta i due piani, pittura e teatro
convivono, ma come scrive lui stesso: il teatro Cricot non è un insieme di esperienze
pittoriche trasferite sulla scena. È un tentativo di creare una sfera di comportamento
artistico libero e gratuito. A partire dagli anni sessanta Kantor produce i suoi
spettacoli più significativi caratterizzati da un elemento costante, la sua presenza in
scena con un ruolo tra il testimone e il regista che osserva il suo lavoro,
intervenendo qui e lì con piccoli accorgimenti: sistemare meglio un oggetto, spostare
qualcosa, osservare più da vicino un attore. La sua postazione è di lato in un
proscenio, spalle al pubblico, una sciarpa attorno al collo seduto su di una sedia da
cui osserva lo spettacolo.
Nella seconda metà del secolo le questioni messe in gioco sono altre: che cosa
debba intendersi per attore, quale debba essere il suo sapere, la sua identità, la sua
tecnica. Accanto al problema di che cosa l’attore debba saper fare si presenta quello
di che cosa debba esserlo e come esserlo. Già in precedenza c’erano stati segnali in
questa direzione. È il caso di Artaud con cui il discorso sull’attore passa dalla
dimensione artistica a quella umana. Artaud metteva in gioco l’essere rispetto al
fare. Strasberg assunse la direzione dell’actors studio aperto a New York nel 1947.
Strasberg affronta uno dei grandi argomenti stanislavskijani: la creatività in pubblico.
l’attore dopo aver operato questo scandaglio dentro di sé che lo ha condotto a
toccare le sue corde umane più autentiche ha il problema di condividerle e per far
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questo deve superare i blocchi psicologici che gli rendono difficile essere vero in
pubblico. L’obiettivo è alleggerire qualunque difficoltà insiste in lui, che nega la sua
libertà di espressione e blocca le capacità che possiede. Si tratta di operare per
sottrazione, limando quei freni che ci impediscono di manifestare gli stati d’animo più
privati. A questo scopo Strasberg mette a punto un esercizio chiamato ‘’momento
privato’’: l’attore è invitato a ricostruire di fronte ai suoi compagni atteggiamenti,
modi, comportamenti che assume quando è da solo: quando saprà rifare se stesso
nella maniera più vera, riuscirà ad essere autentico anche nei panni di un
personaggio. Il momento privato non consiste nell’aggiungere al proprio bagaglio
un’ulteriore strumentazione tecnica, ma nel superare il blocco psicologico. Il metodo
Strasberg si basa su una tecnica che prevede l’immersione dentro il sé più profondo
e il superamento dell’inibizione espressiva, elementi che mettono in gioco l’essere
dell’attore prima ancora del fare. L’attore deve affrontare le cose profonde e solide
che sono all’interno di sé. Il lavoro si sposta dunque verso l’interiorità tanto che
Strasberg fu accusato di fare psicoanalisi più che recitazione. Questo metodo si
rivelò particolarmente efficace per il cinema, perché consentiva di utilizzare il lavoro
di introspezione nel personaggio seguendo l’andamento frammentario della
costruzione narrativa, tipico della produzione filmica.
Nel Nuovo Testamento del teatro Grotowski propone una distinzione radicale tra
l’attore prostituta, che vende al pubblico la sua arte per denaro e l’attore santo che
offre in sacrificio il suo corpo. E’ una distinzione che è diventata paradigmatica tra
l’attore come mestiere e l’attore come esperienza che tocca la profondità dell’essere
per condividerla con il pubblico. Viene data importanza agli esercizi fisici che
servono all’attore per localizzare quelle resistenze e quegli ostacoli che lo bloccano
nel suo compito creativo. L’attore deve capire quali sono gli strumenti che lo aiutano
a sbloccarsi, sulla base però di quella che potremmo definire una grammatica
espressiva: il controllo del gesto e del movimento. Il corpo deve liberarsi da ogni
resistenza, deve cessare di esistere. Le abilità tecniche non vengono esibite in
scena ma servono a Cieslak nel Principe costante, a compiere con il più assoluto
controllo e la massima fluidità ogni piccolo gesto. Servono inoltre a gestire in
maniera consapevole e controllata il passaggio dall’impulso emotivo all’azione del
corpo che deve tradursi in una partitura stabile e perfettamente regolata.
Il teatro di regia
Nel Nuovo Teatro la regia è uno strumento (tecnico e autoriale) per mettere in gioco
una questione che sta a monte la ridefinizione del codice linguistico. Nel caso del
teatro di regia il testo è il dato su cui si modella la scrittura scenica, che ha come
obiettivo, con tutte le manipolazioni possibili, di agire su di esso soprattutto in quanto
macchina narrativa. Ciò che distingue il teatro di regia del secondo ’900 è il rapporto
con il testo che serve per creare nuove strade alla narrazione teatrale, ricorrendo
spesso a materiali letterari non drammatici che consentono una maggiore libertà
compositiva. Un secondo dato è affidare allo spazio una funzione drammaturgica.
Infine c’è la questione della recitazione. L’attore del moderno teatro di regia usa
forme e soluzioni espressive canoniche. Potrà portare la sua voce in una maniera
personalizzata, ma dirà comunque la battuta, potrà utilizzare una gestualità straniata
e a tratti anomala ma sarà sempre riconoscibile come una persona della realtà. È
possibile distinguere una regia intesa come costruzione, in cui la scrittura scenica
predispone una macchina drammaturgica parallela al testo e una regia intesa come
interpretazione, in cui conta maggiormente il processo di lettura o di
approfondimento del materiale letterario.
spettacoli che hanno sempre conservato una forte matrice drammaturgica ma una delle
scommesse che fa Ronconi a un certo punto della sua carriera è di mettere in scena
materiali che non sono materiali nati per il teatro. Nel 1969 realizza uno spettacolo
considerato una leggenda del ‘900, che è l’Orlando Furioso. La drammatizzazione del
poema di Ariosto è commissionata a Edoardo Sanguineti, uno dei maggiori poeti
d’avanguardia italiani, che smonta l’intreccio ramificato del poema e lo riaggrega per
nuclei narrativi. Il testo è smontato e rimontato secondo una logica del frammento che
vieta il compimento del racconto. La realizzazione scenica enfatizza questa condizione. Lo
spettacolo è pensato non per uno spazio teatrale, un grande rettangolo con due palchi sui
lati brevi e una serie di carrelli, con sopra gli attori che si muovono in mezzo al pubblico. I
personaggi, più che agire la loro vicenda tendono ad esporla agli spettatori descrivendo le
azioni proprie e altrui nel momento stesso in cui vengono compiute. Gli spettatori si
muovono liberamente nello spazio, costruendo una loro personale drammaturgia. Lo
spettatore si trova non solo in mezzo, ma è lui che comincia a seguire una cosa e poi va
dall’altra parte. Ci ricorda l’happening, ma è chiaro che questo è molto più strutturato,
segue una logica, una sua discorsività, però è tutto frammentato e la scena diventa quello
che conta di questo spettacolo.
Quello che è rimasto nell’immaginario condiviso non è tanto come recitassero le parti dei
personaggi di Ariosto , ma dove le recitassero, quindi non quello che dicevano, ma il fatto
che ci fosse questa grande articolazione spaziale. Craig e Artaud questo avevano detto.
Craig lo aveva fortemente teorizzato attraverso i suoi scritti, attraverso i suoi schermi.
Ricordate quei pannelli in movimento? Sostenendo che quei pannelli, quella scena
recitava, non era un contenitore, era espressione di per sé. Il linguaggio del teatro non
deve essere un linguaggio basato sulla letteratura e sul dialogo, piuttosto sullo spazio, la
poesia dello spazio.
dell’uccisione della fiducia tra le persone che vivono accanto. Eduardo costruisce i suoi
drammi con un procedimento di naturalezza calcolata, la cui ambientazione è realistica
fino al macchiettiamo d’ambiente nel ritrarre luoghi e atteggiamenti canonici della
napoletanità e l’organizzazione del racconto procede in maniera lineare con una canonica
scansione per atti e affidandosi a un dialogo che mima la conversazione. in ognuno di
questi elementi, però viene introdotto un che di artificio che, inserendo spesso l’aspetto
comico, deformano ogni possibile naturalismo. Eduardo inserisce degli elementi tesi a
evidenziare il gioco teatrale. Nelle Voci di dentro un personaggio Zi Nicola, maestro dei
fuochi d’artificio, dai tratti surreali perché comunica solo con i botti.
In Sabato, domenica e lunedì la famiglia è fin troppo strutturata, ma rischia di scoppiare
per una paradossale incomprensione: l’assurda gelosia del marito nei confronti del vicino
di casa e la rabbia sorda della moglie perché il marito ha osato elogiare i maccheroni al
forno della nuora. I tre giorni scandiscono l’andamento del conflitto che trova il suo
culmine nella tragedia del ragù della domenica che si risolve con il chiarimento finale tra i
coniugi. Le conflittualità familiari, l’incapacità di comunicare di un mondo piccolo
borghese, sono denunciate da Eduardo con tensioni tragiche che si concludono con una
forma di pacificazione consolatoria. Quello di Eduardo è un vero e proprio teatro piccolo
borghese, che ritrae tra macchiettismo e denuncia, le trasformazioni della società italiana
e di Napoli in particolare con un certo rimpianto. Il suo teatro resta da un lato ancorato al
territorio, a cominciare dalla lingua, un napoletano molto addolcito, e all’ambientazione
sociale, da un altro riesce a sottrarsi al localismo assumendo un respiro nazionale e
internazionale. Il suo è considerato il teatro di tradizione, o meglio ancora di una
tradizione, quella napoletana, che va pensata come un corpo in metamorfosi.
Quando far finire il novecento è un problema che si è posto De Marinis in due occasioni.
Nelle pagine introduttive di In cerca dell’attore scrive che delle buone date per ritenere
concluso il novecento potrebbero essere il 1984 e il 1985, con la chiusura del teatro
laboratorio di Grotowski e la morte di Julian Beck. L’attenzione è rivolta alle
sperimentazioni linguistiche del XXI secolo nel loro rapporto con il secolo precedente. De
Marinis formula al riguardo due ipotesi: la prima si concretizza nel termine ‘’dopo’’,
presentato come segnali di ‘’rottura e discontinuità’’, la seconda in ‘’oltre’’, cioè
trasformazione e innovazione ma senza perdita di memoria. Ogni stagione del
Novecento, ha ritenuto programmaticamente che non si potesse più pensare il teatro
come lo si faceva prima. Se non si ha presente questa impostazione culturale, si perde
molto, se non tutto, dell’identità specifica del secolo. Affrontare la questione della
transizione di fine secolo significa, dunque confrontarsi in primo luogo con alcuni
interrogativi. Ha senso continuare a parlare di un nuovo strategico? Il teatro pensa
ancora di rifondare gli assetti? Ancora prima: quali sono gli assetti linguistici con cui deve
confrontarsi questo teatro di fine novecento? Sono ancora la centralità del testo
drammatico, la psicologia del personaggio e via dicendo o questo è un modello fittizio, se
non un antagonista di comodo? Forse dovremmo assumere la consapevolezza ce gli
assetti del teatro, dopo un intero novecento, non sono più in trasformazione, ma si sono
trasformati, che tutta una serie di fenomeni nati per rompere schemi, infrangere
pregiudizi, spostare discorsi, sono andati a costituire una tradizione del moderno, la sua
classicità. I nuclei tematici che seguiremo per raccontare questa ‘’fine del novecento’’
sono tre: la regia dopo la scrittura scenica; l’istituzionalizzazione di un teatro a matrice
performativa, l’esigenza di confrontarsi con le forme del racconto drammatico. Con
l’espressione ‘’la regia dopo la scrittura scenica’’ indichiamo una sorta di ricomposizione
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registica, di natura non restaurativa della forma teatro che torna a confrontarsi col testo
drammatico e la parola, mentre contemporaneamente continua a far cadere l’accento del
linguaggio sul materiale scenico inteso come autonomo elemento testuale.
Un esempio di ritorno alla cornice è quello di Toni Servillo. I suoi esordi, a cavallo tra gli
anni settanta e ottanta, sono all’interno del momento spettacolare e metropolitano della
postavanguardia di lui e il suo gruppo, il Teatro studio di Caserta sono tra i precursori con
spettacoli come Propaganda 1 e 2 (1979/1980) e Acquario (1981), basati su una
scomposta esuberanza fisica in cui le icone del postmoderno, dalla rockstar alla diva al
culturista, sono esibite in un gioco performativo su incalzanti basi musicali. Sono
performance dal forte e ironico impatto emotivo in cui emerge la fisicità di Servillo
tradotta, nei gesti spezzati e nei ritmi sincopati, in una sorta di danza decostruita. Del
1986 è il primo incontro con Eduardo de Filippo di cui recita le poesie in un monologo dal
titolo E… Comincia di lì una ricerca sul teatro napoletano, dapprima quello
contemporaneo con due testi di Enzo Moscato, Partitura (1988) e Rasoi (1991), del
secondo firma la regia a quattro mani con Mario Martone e poi con la rilettura di un testo
molto particolare di Viviani, Zingari (1993). Nel frattempo c’è stata la fondazione di Teatri
uniti nel 1987, in cui confluiscono Falso Movimento di Martone, il Teatro Studio di Servillo
e il teatro dei mutamenti di Antonio Neiwiller, esperienza unica di struttura produttiva che
nasce dalle sinergie di intelligenze artistiche diverse: i registi, gli attori e uno staff tecnico
ha un ruolo creativo. Nel 1989, proprio su sollecitazione di Servillo, Leo Bernardis viene
chiamato a dirigere uno spettacolo di Eduardo che finirà per essere su Eduardo perché
montaggio libero di passi diversi dei suoi testi: Ha da passà a nuttata (1989). Dalla metà
degli anni novanta il testo è considerato un potenziale di energia emotiva intellettuale che
va tirato fuori suggerendo e non imponendo una possibile interpretazione. Una regia
morbida che intese un dialogo con la tradizione, nel cui flusso Servillo vuole
muoversi, liberandola dagli orpelli della conversazione e tornando a renderla viva.
Si delinea così la sua figura di attore regista, non capocomico all’antica maniera ma
neanche il regista esterno al suo prodotto, piuttosto un primo violino, che legge, concerta
ed esegue lo spettacolo con i suoi attori. La progettazione, l’ideazione e la costruzione
sono suoi, ma Servillo vuole restare a far parte di quel corpo vivo che è uno spettacolo in
tournée affermando di ritenere le repliche un momento creativo quanto se non più delle
prove.
Negli anni Novanta l’attenzione si sposta da Napoli a Molière: il Misantropo (1995) e
Tartufo (2000), intervallati dalle false confidenze di Marivaux (1998). È una scelta
motivata dalla volontà di avviare una ricerca sulla tradizione dal respiro più ampio, per cui
in seguito interporrà il Goldoni della Trilogia della villeggiatura (2007) fra Sabato,
domenica e lunedì (2002) e Le voci di dentro (2013) di Eduardo. L’intreccio tra Molière,
Goldoni ed Eduardo definisce una linea progettuale: forme diverse di tradizione, scritture
nate all’interno del teatro, una teatralità immediata e diretta, una comicità che si vela di
tristezza e disperazione. Prima che i testi, Servillo sceglie gli autori. Molière è all’origine di
questo percorso, i due spettacoli hanno molti tratti comuni. Prevedono, che il pubblico stia
sul palcoscenico a contatto diretto con gli attori e che il testo scorra fluidamente nella sua
integrità, con un’esaltazione, però delle note amare. Misantropo ad esempio, vorrebbe
rifiutare quest’epoca, questo mondo, ma alle spalle e di fronte ne scorge forse uno
migliore? Un atteggiamento analogo Servillo lo ha verso Goldoni la cui trilogia, sulla base
del copione di Strehler, è risolta in un unico spettacolo. Affida a se stesso la parte del
parassita che rende attraverso una recitazione incalzante, con scatti e improvvise pause,
mentre la protagonista Giacinta viene velata di una tinta drammatica. Nel finale, quando
sceglie le convenzioni piuttosto che l’amore, abbraccia il suo promesso sposo fissando
con disperazione il pubblico. Anche con l’Eduardo l’approccio è analogo. Servillo dichiara
di essere arrivato a Eduardo attraverso Molière e lo tratta da autore, non da modello.
Nella messa in scena conserva non solo l’integrità del testo, ma anche il fluire naturale
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della recitazione accolta dentro scenografie stilizzate da cui è sparito il colore locale.
Nel secondo atto delle Voci di dentro il deposito da apparitori di feste dei due fratelli
protagonisti del testo è ridotto all’immagine quasi surreale di poche sedie fluttuanti nel
nulla così che l’ambiente che in Eduardo è saturo diventa vuoto. All’interno di questo
vuoto scenico la disposizione degli attori rivela, dietro l’apparente naturalezza, una
precisione geometrica, inoltre, spiega ogni attore ha il suo ritmo, fra tutti il suo che in
Sabato, domenica e lunedì disegna l’estraneità del protagonista nei confronti della
famiglia attraverso un tempo-ritmo più lento rispetto a quello degli altri e presentandosi
chiuso, nei gesti e nella postura, su se stesso. E poi ci sono i finali da cui Servillo toglie
sempre quel tanto di pacificazione che c’è in Eduardo. In Sabato, domenica e lunedì la
moglie arriva tardi alla finestra per il saluto di rito che avrebbe dovuto sancire la
recuperata armonia. Pur muovendosi nel fiume della tradizione, sostiene Servillo,
bisogna conservare nei suoi confronti un atteggiamento di ricerca che le impedisce
di scadere in monumento. La regia, dunque, si risolve nella costruzione di un ritmo della
recitazione, nella stilizzazione simbolica degli ambienti, nello scambio assembleare con il
pubblico. L’affermazione della scena ha spiazzato sia la nozione di drammaturgia che
quella di testo determinando quello slittamento del teatro verso le arti della visione e
quella riduzione del ruolo narrativo della parola che rappresentano il paradigma del
secolo.