Sei sulla pagina 1di 48

ELEMENTI DI TEATRO EDUCATIVO SOCIALE E DI COMUNITA’

Pontremoli
CAPITOLO PRIMO

NOZIONI PRELIMINARI

1.1. INTRODUZIONE L’esperienza autoplastica è quella dell’opera aperta, laddove per opera aperta si
intende quell’esperienza teatrale che si concretizza in forme partecipate dove vige una forte esigenza di
comunicazione (in una forma artistica che sia stabile e individuata sul piano estetico).
Il modello autoplastico è mosso da un forte desiderio di trovarsi in un orizzonte condiviso, come esordio di
un nuovo immaginario: si tratta di una autorappresentazione che deve essere ricondotta ad un orizzonte
rituale per non ripiegarsi su sé stessa (divenendo un luogo meramente consolatorio). L’elemento della
teatralità festiva, e dunque l’opera aperta, trova spazio in quei luoghi che necessitano di una rigenerazione
della relazione (luoghi del disagio), che sono i più adatti all’immissione di quella linfa vitale che è propria del
teatro. La forma aperta, dunque, privilegia un ritorno alle origini, insistendo sui dati dell’incontro diretto fra
i due poli della comunicazione teatrale (attore e spettatore), attraverso la dinamica dello sguardo, e
orientando l’individuo verso l’esplorazione del suo mondo interiore. Il teatro come esperienza della
comunità non necessariamente implica il mostrarsi e il ripetere.

L’opera chiusa è invece quella del prodotto finito agilmente smerciabile, il tutto nella logica di una netta
separazione fra chi assiste e chi fa teatro. Ciò che viene valorizzato è il momento della creazione
individualistica, il culto dell’immagine che si propone aristocraticamente come forma chiusa da un autore a
un pubblico passivo. La ripetibilità è la maledizione dell’attore professionista, sfida lanciata alla morte.

1.2. CHE COS’E’ IL TEATRO? Se si rimane nel contesto del senso comune il teatro può essere definito come
“la rappresentazione di un testo drammatico scritto e compiuto da un attore, mediato da un regista e da
attori professionisti in un tempo deputato che coincide col tempo dello svago, in uno spazio urbano
predisposto per lo spettacolo secondo lo schema del teatro all’italiana, e offerto ad un pubblico pagante”.
Tale definizione si erge però su un contesto ben preciso, che è quello tradizionale, aristocratico, nato in
Italia durante il Rinascimento e diffuso in seguito in tutta Europa.

Fra Cinquecento e Seicento si definisce il modello teatro professionistico, caratterizzato dalla graduale
separazione fra scena e platea: con la costruzione dei teatri come edifici deputati, sia nello spazio urbano,
sia come interni al palazzo, si cristallizza un nuovo paradigma che vede una divisione netta (evidente da una
differenza di altezza dei luoghi). La scena all’italiana, caratterizzata dall’ampio utilizzo dell’illusione
prospettica, ha la necessità di mantenere il pubblico a una certa distanza affinché l’illusione sia efficace.

La definizione sopra citata fa riferimento, dunque, a un modello teatrale che abbia delle marcate
caratteristiche letterarie, nel quale il testo sia premessa necessaria alla realizzazione della messa in scena.
Le esperienze maturate, però, nell’orizzonte teatrale novecentesco hanno messo in crisi questo modello,
privilegiando un ritorno alle origini: attore e spettatore sono in presenza l’uno dell’altro, uno in relazione
all’altro in uno spazio delimitato dall’azione delle vive corporeità dentro la comunicazione istauratasi.
Tale comunicazione si realizza in un tempo altro rispetto alla quotidianità e trasforma qualsiasi altro tempo
come un tempo festivo. La legge più importante del teatro sta nelle parole “come se”, che rivelano la
necessità di un patto comunicativo fra l’emittente e il destinatario, in una sfera in cui ciò che viene agìto
abita una sfera diversa da quella del quotidiano. In questa nuova prospettiva, la drammaturgia cambia volto
e non è più solo l’operazione inerente alla creazione di un testo teatrale in senso linguistico e letterario. Si
può a questo punto parlare di una teatralità diffusa, che permette di inglobare all’interno della sfera
teatrale tutte le forme para-teatrali o affini al teatro, rimanendo in grado di distinguerle.
Ad oggi, il teatro si ritrova ancora coinvolto in una gara coi moduli della comunicazione massmediale, in
particolare con quelli della televisione, che enfatizza il momento di evasione e di divertimento, ed è
asservito alla legge economica della domanda e dell’offerta, che gli conferisce un basso profilo in termini di
comunicazione e di funzione sociale e che non gli dà prestigio neanche nella battaglia con i network, in
quanto i loro stessi mezzi sono estremamente diversi e impari.

1.3. IMMAGINARIO E RAPPRESENTAZIONE La tensione reciproca fra soggetto e oggetto, fra persona e
realtà, avviene sempre all’interno di un preciso orizzonte conoscitivo. La coscienza, che opera in questo
orizzonte, in un corpo che è collocato in una dimensione spaziotemporale determinata, raccoglie in sé le
diverse percezioni. L’incontro del soggetto con l’oggetto avviene dunque in questo orizzonte conoscitivo,
assumendo la forma della sensazione, della percezione, della concettualizzazione o dell’immagine.
Quello dell’immagine è il luogo della creazione artistica e al contempo dell’esperienza quotidiana: il teatro è
uno dei luoghi privilegiati dell’esercizio della facoltà immaginativa, incarnazione di secondo livello di
immagini spesso già consegnate alle parole di un testo drammatico.

Analisi del termine “rappresentare”: ri- : idea di un ripristino di qualcosa di già dato e di un suo essere
portato a presenza di fronte a qualcuno; ad- : direzione, movimento che ricompone una presenza o prepara
alla rivelazione di questa. Rappresentare significa dunque ri-ad-presentare, vale a dire portare a presenza
qualcosa sulla base di un già dato che viene in tal modo rivelato.

La conoscenza è una rappresentazione, una costituzione di senso, intesa come apertura all’alterità e
adeguamento della totalità del significato per progressive trasgressioni: il senso dell’oggetto non è dato
dalla somma delle diverse percezioni (avute per progressivi spostamenti dello sguardo), ma
dall’integrazione delle stesse in una totalità di rapporti di cui si fa garante la totalità immaginativa con le
sue rappresentazioni, in grado di riportare alla coscienza l’immagine percepita dalle diverse prospettive.
La verità è dunque un rivelarsi dell’essere in una prospettiva: verità e rappresentazione mostrano la loro
trascendenza reciproca, che pure non è un’alterità assoluta.

Sullo stesso terreno si gioca la partita della relazione interpersonale: io posso percepirmi come soggetto,
ma non posso cogliermi nel mio guardare, nel mio essere oggetto e soggetto insieme. Io posso giungere a
me stesso solo grazie allo sguardo di un’altra soggettività all’interno della cui prospettiva sono entrato
come oggetto/soggetto. L’altro mi riflette come iniziativa di senso, come soggettività, e ciò avviene solo se
le due soggettività si incontrano sulla strada del riconoscimento. Nella dialettica degli sguardi ciascuno
riconosce nello sguardo riconoscente dell’altro la propria condizione prospettica.

La dialettica degli sguardi trova nel teatro un territorio privilegiato, in quanto la rappresentazione di un
personaggio (mimesi della presa conoscitiva dell’uomo sul mondo) è della stessa natura della relazione
interpersonale descritta sopra. Il personaggio è un universo di sensi che lo sguardo dell’attore, a partire
dalla sua soggettività, riconosce come la verità di sé, pur nella consapevolezza della trascendenza.
Il personaggio viene a parola nell’attore, che ne costituisce la rappresentazione, analogamente a quanto
accade nel rapporto tra soggetto e alterità, Essere ed ente. La rappresentazione è dunque un luogo in cui si
fa presente l’assenza dell’essere ed assente la sua presenza. All’origine del teatro sta dunque un’istanza
rappresentativo-conoscitiva che è mimesi, comunicazione, “come se” rituale.

L’istanza drammatica originaria si situa nell’immaginario simbolico, che per sua natura è dinamico ed è
sempre un rapporto tra soggetto-coscienza e oggettoconosciuto. Nella dinamica conoscitiva, la verità del
mio conoscere è data dallo sguardo dell’altro, che mi rimanda il mio. Questa dialettica degli sguardi è
dialogo, elemento fondamentale di ogni drammaturgia, è istituzione di un io e di un tu.

Il testo drammatico che nasce dall’istanza drammatica originaria non riposa in una scrittura fine a sé stessa,
non è stato creato per la lettura e in essa non si esaurisce. È piuttosto stazione di transito d’un desiderio di
rappresentazione esteriore delle immagini, di un’intenzionalità drammatica. La forma drammatica è perciò
sempre un’opera incompiuta, in fieri, è solo uno degli esiti possibili di quell’istanza drammatica originaria.
Se certamente il testo drammatico possiede valenze poetiche autonome, è tuttavia un oggetto trasparente:
questa trasparenza non è però assoluta, ma si declina in rapporto alle convenzioni sceniche di un certo
contesto teatrale, storico, sociale e culturale.

1.4. IL TEATRO SOCIALE TRA VERITA’, RAPPRESENTAZIONE ED ETICA Il teatro, inteso come una delle arti,
va collocato entro le coordinate della più ampia problematica della verità come rappresentazione. Il
rapporto tra soggetto e oggetto si spiega con una relazione di inclusione della libertà del soggetto e della
sua autonomia nella donazione della fenomenalità, laddove per donazione si intende l’atto di donarsi ad un
soggetto ricevente per mezzo della percezione cognitiva.

Alla base di un teatro che istituisce le sue forme e basa il suo statuto sul principio della delega sta proprio il
concetto di rappresentazione, meccanismo della conoscenza che a partire da una presenza permette la
possibilità di una sua costante ripresentazione e duplicazione tautologica. Insomma, questo teatro come
rappresentazione della presenza, che abita i teatri stabili, è il teatro della prepotenza e della separatezza e il
teatro sociale gli si oppone con una proposta completamente diversa, che è quella della corporeità come
scrittura, quella della carne come consegna dell’Essere. Nel teatro sociale si è consapevoli di questa
consegna che ci si porta dietro, e la prospettiva di condividere con una comunità di persone il peso di
questa consegna è vivere un segno comune, in una prospettiva di apertura. La consegna dell’Essere è infatti
compito attivo della vita, compito difficile in una società come la nostra che sembra destinata invece
all’accumulo, alla sterile archiviazione.

Pienezza non come altro e altrove, ma proprio come quel corpo lì e ora, sulla scena teatrale; e non come
doppio di una presunta realtà di riferimento, ma come luogo protetto in cui vivere per imparare a vivere.
Attraverso il teatro, si tratta di definire un orizzonte che è quello di una pratica dentro il mondo, finalizzata
al suo orientamento, all’autocomprensione dell’uomo. Il teatro sociale si colloca infatti sul versante della
vita, anche nei suoi risvolti di concretezza pratica. La soggettività si costituisce attraverso una presa di
coscienza, un ritornare a sé a partire dalle sue manifestazioni. L’alterità è costitutiva della soggettività e ciò
si rivela nella dialettica del riconoscimento (cioè dello sguardo): nel momento in cui in uno spazio abitato
prima da un singolo corpo giunge un altro corpo, solo in quel momento il primo smette di accoppiarsi al
mondo e si affianca all’altro, affascinato dall’unica occupazione di fluttuare nell’Essere con un’altra vita, di
divenire l’esterno del suo interno e l’interno del suo esterno.

Le risorse creative del soggetto, che è un essere simbolico, gli permettono un’attività interpretativa feconda
per il superamento delle conflittualità: nella pratica, nell’azione e nella performance del teatro i conflitti
trovano una composizione, attraverso una sintesi pratica e non speculativa dell’esperienza. Il linguaggio del
teatro dei corpi viventi sulla scena riesce a dire la realtà attraverso la sintesi metaforica, che genera sempre
innovazione di senso. La funzione mimetica del teatro è metafora viva che porta alla luce la struttura
temporale dell’agire: il teatro si fa così fonte di cambiamento, di trasformazione e innovazione. L’esempio
più evidente di questo processo è il meccanismo della narrazione: le diverse identità narrative procedono
alla costruzione di comunità, quando si scoprono in tensione verso la medesima istanza di vita buona. A tal
proposito il concetto di rappresentazione può tornare con una connotazione ora meno invasiva, su un
piano di saggezza pratica. Tale saggezza pratica finisce così per guidare verso una ritrovata dimensione
comunitaria, come identità condivisa, aperta e partecipata. Si raggiunge insieme la capacità collettiva di
agire instaurando nuovi e ulteriori legami sociali di natura ricostruttiva, in grado di rispondere al desiderio
inappagabile di tutti gli uomini di essere riconosciuti e di appartenere.

1.5. LA MATRICE RITUALE DEL TEATRO Il teatro affonda le radici in quell’esperienza antropologica
originaria che è il rito, inteso come espressione ordinatrice del mondo che si ripete onde rafforzare
quell’ordine.
Secondo l’antropologo Victor Turner tanto le performance teatrali quanto i riti “tribali” si generano al
livello di quella zona liminale che viene creata dai cosiddetti drammi sociali, quando – in seguito a una
frattura all’interno della struttura sociale – il passato è temporaneamente negato, sospeso o abolito, e il
futuro non è ancora iniziato, un istante di pura potenzialità in cui ogni cosa è come sospesa ad un filo.
Quattro sono le fasi del dramma sociale: l’infrazione pubblica dei normali rapporti sociali; la crisi che segue
l’interruzione dei rapporti sociali e comporta il contrapporsi delle fazioni coinvolte nel dissidio; l’azione
riparatrice, che limita l’estensione del conflitto; la reintegrazione o il riconoscimento dello scisma.
In questo processo di ristrutturazione sociale il rito costituisce un forte elemento di integrazione, in quanto
rafforza i valori comuni superando le conflittualità. Ogni infrazione, all’interno dei rapporti sociali, è sempre
occasione per ribadire le regole della convivenza. La simbologia rituale produce un’azione, mentre la
liminalità propria del rito opera una rottura: il rito si pone come un elemento di mediazione nel duplice
passaggio dalla struttura all’antistruttura e da questa a una nuova struttura.

Il rito è dunque la conclusione di un’esperienza, così come ogni performance culturale. La comprensione
totale di un’esperienza avviene in una circolarità ermeneutica, in quanto la comprensione parziale della mia
soggettività non basta e viene completata mediante l’esperienza altrui che si rende accessibile alla
collettività attraverso la performance stessa. All’interno della communitas gli individui, senza che per
questo vengano cancellate le loro particolarità individuali, si concepiscono come un noi nel loro tendere
verso una meta comune liberamente scelta. Dunque, nelle società tribali tanto quanto in quelle
preindustriali, la liminalità risulta essere il terreno fertile per il sorgere di relazioni comunitarie dirette,
immediate e totali (attraverso il rito o la performance).

I riti della nostra società coincidono con quelli che Turner chiama generi liminoidi, ossia forme di
intrattenimento (sport, gioco, svago) fra le quali viene annoverato anche il teatro. Tuttavia, c’è una
differenza tra ciò che è liminale e ciò che è liminoide: il fenomeno liminoide è pervaso di volere, quello
liminale di dovere; l’uno è fatto tutto di gioco e di scelta, è divertimento, l’altro è una faccenda
terribilmente seria, addirittura, minacciosa, e obbligatoria.

I tre elementi irrinunciabili del rito sono la convenzione, la ripetizione e l’efficacia. Mentre il rito è il luogo
dell’attuale, il teatro è invece il luogo del possibile, del “come se”. Dunque, i due fenomeni si assomigliano
per la messa in atto da parte dell’immaginario della creatività di un universo simbolico; tuttavia, mentre il
teatro pone in evidenza i conflitti e il malessere sociale dell’individuo, il rito tende a occultare la crisi
attraverso la maschera. Il teatro non è un fatto puramente estetico, è il luogo protetto dell’immaginario,
delle emozioni profonde, della sperimentazione; è il luogo delle relazioni, ambito terapeutico e
socializzante per sua natura.

1.6. LA FESTA Il processo educativo e quello sociale devono rifarsi alla dimensione rituale ponendosi come
momenti di condivisione originaria del dramma dell’esistenza umana, realizzando a pieno il compito di una
comunità viva che accoglie, educa e non oppone rifiuti. Nell’esperienza teatrale ci si confronta col modello
drammatico delle nostre vite psicologiche, entro una situazione controllata e protetta, che permette a una
comunità di parlare a sé stessa, caratterizzata da sguardi reciprocamente riconoscenti, in grado di operare e
attuare una illuminazione intersoggettiva.

Il modello festivo è il modello del teatro della comunità, dove la festa è infatti la drammaturgia della
coralità, del primato del gruppo, dell’espressività del corpo. È proprio all’interno del dispositivo festivo che
emerge la dimensione dell’inconscio, dell’emozione, che si innesta il processo di crescita umana del
soggetto. Il rito è compreso nello statuto della festa e predispone delle tappe all’individuo il quale, grazie ad
esse, costruisce la propria identità in un divenire che coinvolge la totalità dell’essere.
CAPITOLO SECONDO

LA DOMANDA DI TEATRO

2.1. INTRODUZIONE La nostra cultura è oggi più che mai incentrata sull’individuo piuttosto che sulla
collettività e con il tempo ha perso non soltanto i luoghi di aggregazione comunitaria ma anche gli stessi riti
che le appartenevano e la costituivano. L’uomo ha rinnegato le proprie matrici antropologiche,
contribuendo così all’eclissi del sacro e all’obliterazione del rapporto fra la comunità e la dimensione del
trascendente. In questo contesto la rappresentazione è diventata uno svago fine a sè stesso, ed un teatro
come gioco e illusione si trasforma così in un rituale svuotato di senso, strumento per garantire la
persuasione ideologica e il controllo sociale.

Questo fenomeno si verifica ogni volta che il teatro rinuncia alla sua originaria vocazione di evento rituale di
partecipazione e di condivisione di una comunità. Nel teatro barocco la realtà è riprodotta illusoriamente ai
fini del delectare, movere e docere, in un contesto in cui l’interazione tra osservatore e attore è minima: a
partire da questo modello si può parlare dei mass media, i quali si muovono sullo stesso piano di una
divisione netta tra prodotto e fruitore, e di un controllo su quest’ultimo. Come logica conseguenza di questa
situazione c’è stata così la progressiva estinzione della potenza generatrice e trasformatrice dell’evento
rituale. Si può parlare di teatro della dipendenza, di individualizzazione e personalizzazione della
drammaturgia e dell’evento, dove ogni elemento della rappresentazione sta per sé stesso, schiacciando
tautologicamente il segno sul suo significato, dunque impoverendo la comunicazione. Nel processo di
comunicazione simbolica, invece, ogni elemento sta sì per sé stesso ma richiama al tempo stesso
un’alterità, testimone dell’unità profonda che è alla base della relazione.

2.2. TEATRO E MEDIA Il teatro, la televisione e il cinema sono tre tipi di comunicazione interni all’universo
mediatico che vengono comunemente confusi, in quanto mezzi la cui matrice è certamente rintracciabile
nelle forme classiche del teatro occidentale (struttura fictional, impianto drammaturgico); tuttavia, gli ultimi
due presentano caratteristiche specifiche del tutto incompatibili con lo spettacolo dal vivo.

In primo luogo, in questi due casi, la comunicazione avviene attraverso un prodotto, mediata da una serie di
strumenti tecnici sui quali il pubblico non ha possibilità di intervento e modifica. Nella comunicazione
teatrale, invece, si hanno delle corporeità in presenza, laddove la televisione e il cinema offrono
all’osservatore unicamente dei simulacri, illusioni di corpi, oggetti e sfondi prodotti dalla luce e dai suoi
effetti di movimento sullo schermo.

In secondo luogo, ogni prodotto dell’industria culturale presenta un sistema che può essere più chiuso o più
aperto, laddove, nel caso in cui sia più chiuso, il mittente e il destinatario non potranno fare altro che
adeguarsi per soddisfare le condizioni richieste per la fruibilità del prodotto. L’interazione tra le due parti
dunque sarà predeterminata e orientata.

Nel caso in cui si tratti di una trasmissione in diretta ci si trova comunque nella impossibilità di interagire
con presenze fisiche: nei media, dunque, il soggetto dell’enunciazione non è riconducibile immediatamente
a un elemento dell’inquadratura. Sulla scena teatrale, invece, la responsabilità di un personaggio e della sua
rappresentazione è anzitutto dell’attore, ma anche dello spettatore, che influenza la comunicazione e in
parte la dirige con la sua presenza viva.

Non c’è teatro se non in questa condizione di reciproca influenza dentro l’esperienza, e di condivisione
della stessa, che verrebbe snaturata se venisse a mancare la presenza diretta di uno dei due componenti
dell’interazione.

2.3. UN CONFRONTO RAVVICINATO Il teatro invita alla dialettizzazione, alla messa in discussione e alla
domanda sull’esperienza in atto, è per questo che nella sua dimensione la credibilità non è data per
scontata, ma deve essere conquistata, proprio come all’interno della comunicazione interpersonale.
Nel caso in cui si parli invece dei media è evidente come, per loro natura istituzionale, siano dotati di un
forte potere veritativo, che sia in grado di portare gli utenti a credere a priori a quanto sia da questi
trasmesso.

Nel cinema e nella televisione, l’indice di realismo è alto ed è difficile per gli utenti distaccarsi dalla
percezione di presa diretta sul mondo che questi mezzi offrono. Cinema e televisione, nonostante tentino di
utilizzare la semiotizzazione del teatro dal quale derivano, finiscono per utilizzare gli oggetti della scena
come meri oggetti fini a sé stessi, non riuscendo a trascendere la loro realtà per dotarli di sensi più ampi.
Nel teatro qualsiasi cosa venga posta nel come se della scena perde la sua connotazione di realtà
individuale e diventa un oggetto che sta per la propria categoria di appartenenza, dunque si semiotizza,
cioè smette di essere interpretato e letto entro l’universo del fare ed entra di diritto nell’orizzonte del dire.
L’interazione dell’attore con quel dato oggetto lo renderà pregno di un significato che potrà dunque essere
diverso dal senso comune legato a quel tipo di oggetto: si parla di oggetto non fine a sé stesso.

La comunicazione mediatica ha origine da un apparato in cui non si riesce a identificare un preciso soggetto
dell’enunciazione ed è diretta ad una imprecisata massa di fruitori che viene considerata indistinta, divisa
per categorie di target. Nel teatro, anche nelle sue forme più distanti dal modello rituale e dalla
partecipazione collettiva, sono comunque convocate delle persone nella loro concretezza corporea in un
luogo e attorno ad un accadimento.

2.4. TEATRO, COMUNITA’ E INTERNET Si potrebbero utilizzare il web e i social media come metafora per
una singolare identificazione del teatro sociale. Infatti, si tratta di persone che comunicano attraverso
linguaggi e codici diversificati, utilizzando mediazioni simulacrali per tradurre i propri stati affettivi. Alla base
di questi meccanismi è riconoscibile una forte istanza di comunicazione, in una situazione in cui ai soggetti è
possibile, senza forti esposizioni, sentirsi coinvolti, ma al contempo protetti dall’anonimato e dal mistero.
Quello che si coglie dell’altro è sempre un’identità fictional, paragonabile a quella del personaggio della
scrittura drammaturgica. Si può essere sè stessi fino in fondo, senza essere visti o addirittura fingendosi
qualcun altro, creandosi una nuova possibilità di essere, come avviene normalmente proprio per l’attore,
che in scena rappresenta sempre un altro da sé, tuttavia incarnandolo a partire dalla sua presenza
corporea. La relazione di tipo rappresentativo, creata fittiziamente attraverso il web, è dello stesso segno di
quella che l’attore instaura col pubblico, quando facendo venire a parola il personaggio resta pur sempre sé
stesso e arricchisce nel profondo la propria identità.

La comunicazione che avviene per mezzo di Internet sembrerebbe dunque avvicinarsi non soltanto a quella
della relazione interpersonale ma anche a quella della stessa creazione drammaturgica. La possibilità di
comunicare in tempo reale, attraverso una digitazione che compone il dialogo sullo schermo carattere dopo
carattere, rende visibile, nel suo farsi, la scrittura del pensiero altrui, in un processo di formulazione delle
idee e di comunicazione dei concetti che è davvero trasparente. Siamo di fronte a una comunicazione
diretta che privilegia la spontaneità dello scambio dialettico.Nel dialogo, l’interlocutore risponde in tempo
reale, sullo stesso canale e con lo stesso potere comunicativo: ogni interazione virtuale è un piccolo dialogo
teatrale.

Che ne è però della principale caratteristica del teatro che è la corporeità di cui abbiamo tanto parlato? Che
ne è della caratteristica del teatro che lo vuole unico e irripetibile? L’assenza della possibilità di
riproduzione è stata considerata, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, un elemento caratterizzante e
valorizzante l’universo dello spettacolo dal vivo; la performance è da sempre identificata, infatti, con la
condizione della perdita, con qualcosa che non lascia alcuna traccia dietro di sé. I prodotti mediali sono
comunemente considerati l’opposto, disponibili cioè ad una riproducibilità e distribuzione potenzialmente
infinita. Quest’idea è stata però sfatata da studiosi come Philip Auslander, che hanno dimostrato come la
disseminazione delle memorie videografiche e fotografiche sul web subisca lo stesso destino di
ristrutturazione memoriale dei ricordi e delle immagini mentali umane, mentre sul lato più pratico gli stessi
supporti di memorizzazione digitali sono stati descritti come quanto di più effimero si possa trovare, in
quanto facilmente deteriorabili nel tempo.

Quando l’archivio si sostituisce alla memoria, l’identità progressivamente dismette il suo ruolo di
costruzione del singolo per divenire un noi indifferenziato e liquido detto anche soggetto connettivo, l’unico
in grado di padroneggiare l’onniscienza mitica della rete. Nell’ambito della performance si assiste oggi a un
ritorno del corpo nella centralità della scena, però trasfigurato.

2.5. TEATRO SOCIALE VS TEATRO DELLA DIPENDENZA Il teatro moderno è venuto costruendo un’estetica
della visione e della contemplazione, che privilegia una rappresentazione molto distante dalla sua
vocazione di evento festivo cui partecipare con un coinvolgimento totale. Quello dell’età moderno è teatro
del divertimento, votato ormai alla dissoluzione degli assetti originari, alla dicotomia insanabile fra scena e
platea: l’avvento del professionismo coincide col definirsi di una nuova estetica fondata sulla ripetizione
dell’evento, i cui esiti sono elitari. Si può parlare di teatro della dipendenza, dove è in atto una logica di
reificazione dello spettacolo, una sua riduzione a merce acquistabile sul mercato dell’evasione.

Questo fenomeno è specchio di una società che vede consumarsi la distruzione dei legami profondi del
gruppo e della capacità di quest’ultimo di rielaborare le trasformazioni interne ed esterne con appropriati
riti di passaggio, matrice di drammaturgie collettive che erano alla base dell’attribuzione di senso ai
cambiamenti in atto nei processi sociali della comunità. L’individuo, abbandonato a sé stesso nella
costruzione della sua identità, non ha più un orizzonte di accoglienza e di radicamento.

Oggi vivono infatti una grande sofferenza sia la relazione teatrale sia quella comunitaria, entrambe travolte
dalla crisi della persona: l’individuo non è più una realtà solida per la costituzione di relazioni con l’altro e la
comunità si è sfaldata, smarrendo il senso originario di luogo di accoglienza dove il soggetto acquistava
significato entro un sistema di scambi simbolici volto alla formazione e al consolidamento di quelle stesse
relazioni. In questo contesto la scena ha la grave responsabilità di facilitare la persona a riappropriarsi delle
ragioni profonde, facendosi, come nei tempi passati, rappresentazione vera del destino dell’uomo. La
realtà, all’interno di una dinamica teatrale, appare più nitida, grazie al modello rituale che dà senso e ordine
alle vicissitudini dell’uomo.

Anche questo teatro della dipendenza è alla fine entrato in crisi, non essendo in grado di dare risposte, e
sono sorte nuove realtà reclamanti una presenza piena e una riscoperta delle trame di relazione attraverso
le quali si formano le comunità. Fra gli anni Sessanta e Settanta si assiste al riattivarsi delle esperienze
teatrali collettive: il gruppo ritorna a essere il terreno di coltura di una drammaturgia che ha abbandonato il
primato della scrittura; al modello della vecchia compagnia si sostituisce la cultura del laboratorio. L’attore
non è più l’interprete di una parte drammatica che altri hanno scritto per lui, ma è un tassello di un più
ampio mosaico, fatto di tante soggettività in azione, che offrono il proprio contributo attingendo
all’esperienza e al vissuto personali.

In queste realtà la pratica dell’improvvisazione è preceduta dal training, durante il quale in una relazione
orizzontale ciascuno mette in comune la dimensione propria interiore ed emotiva, oltre che la propria
fisicità. Questa è la dinamica della communitas, che si realizza quando le tecniche teatrali investono altri
ambiti e divengono azioni culturali, educative, sociali, di comunità. È questo un nuovo teatro che riattiva
possibilità di comunicazione e di relazione insospettate, che più si riconosce ed è riconosciuto come tale
tanto più affina la propria cifra formale, che attraverso l’immagine della collettività, attraverso il senso di
appartenenza, riesce a consolidare l’identità anche del singolo.
CAPITOLO TERZO

IL TEATRO EDUCATIVO, SOCIALE E DI COMUNITA’

3.1. UNA PROPOSTA DI DEFINIZIONE Claudio Bernardi raggiunge una buona definizione di teatro sociale
inscrivendolo nell’impegno antropologico i cui punti fondamentali sono la costruzione sociale della persona,
la dinamica delle relazioni interpersonali e la struttura delle comunità, il tutto all’interno di una ricerca del
benessere psicofisico dei membri attraverso l’individuazione di pratiche comunicative, espressive e
relazionali che trovano largo spazio nei diversi generi teatrali del gioco, della festa, del rito ecc.

Il teatro sociale è dunque un preciso modello teatrale, all’interno del quale operano alcuni soggetti:
persone, gruppi e comunità. Il termine persona deriva dall’antichità classica ed ha una forte valenza
simbolica, in quanto indicava la stessa maschera utilizzata dagli attori teatrali; la persona dell’attore è
considerata una sorta di fantasma in cui si dà voce a una superiore dignità, in quanto la maschera
dell’uomo dà voce proprio a Dio, considerato nel suo esser all’interno della relazione con l’uomo, il quale è
a sua volta considerato nella sua relazione con Dio. La persona è dunque relazione, anche se in potenza.
Volgendo l’attenzione al termine gruppo, si tratta di un insieme di individui caratterizzato dalla presenza di
un forte senso di coesione interna (gruppo interno) e dalla percezione dell’estraneità nei confronti di altri
individui o gruppi (gruppo esterno). Questo si può formare a partire da condizioni estrinseche (dunque
contingenti) ed intrinseche (legate a scelte personali) e può definirsi come primario o secondario a seconda
dall’intensità dei rapporti personali che vi si istaurino all’interno. Gli equilibri nel gruppo sono spesso creati
dal riconoscimento dell’altro a partire da una negazione di sé: così si giunge alla creazione di un leader. La
comunità invece sembrerebbe essere l’esito di una particolare evoluzione della convivenza e delle relazioni
all’interno di un gruppo: si può parlare di comunità, dunque, per indicare un insieme di persone in relazione
tra loro, che vivono in un tempo determinato e in una località geograficamente definita, accomunate da
una stessa cultura e organizzate in una struttura sociale.

Nel teatro sociale, queste tre realtà attivano al loro interno e verso l’esterno meccanismi di espressione,
formazione e interazione, sfruttando gli strumenti del teatro sociale, come le attività performative.

Un esempio di fondazione del teatro di comunità lo ritroviamo in Mario Apollonio, nella sua proposta di
ternario drammaturgico (attore, autore, coro): l’orizzonte da lui delineato è quello di un incontro dialettico
dell’officiante-poeta e del gruppo-coro. La parola si incarna nell’attore e viene ad abitare e inverarsi nel
coro-gruppo: il coro che anima la scena della storia non è muto, anzi è attivo, ha più voci, e si dispone in un
luogo dove si anima l’intera dialettica della vita dello spirito, che circola nell’individuo e poi nel gruppo, per
estensione.

I confini dell’esperienza del teatro educativo e sociale sono molto labili, ma possiamo puntualizzare che
questo teatro si distingua dall’animazione teatrale, definita in un contesto storico e culturale ben preciso (il
cui obiettivo primario è quello di formare gli individui e non di porli in relazione gli uni con gli altri).

L’animazione teatrale sorge come risposta alle esigenze e ai problemi dell’istituzione teatrale da un lato e di
quella scolastica dall’altro, alla fine degli anni Sessanta: il suo inizio coincide con la crisi del teatro pubblico,
nel momento in cui questo cerca di uscire dalle difficoltà provocate da una scena elitaria. In questi anni
alcuni attori e registi si rivolgono alla scuola, in cerca di nuove esperienze artistiche, introducendo
inizialmente prodotti di stampo tradizionale: l’identità politica di questi individui influenza il lavoro
direzionandolo verso strade diverse. A sinistra troviamo Franco Passatore, il quale inizia una collaborazione
con gli insegnanti del Movimento di Cooperazione Educativa (nato nel 1955) volta a condurre i ragazzi verso
una ricerca e una libera espressione individuale e collettiva. All’interno della scuola, le istanze di
rinnovamento spingono a riconsiderare il ruolo dell’insegnante e le dinamiche della sua azione educativa,
che si vuole orizzontale. Infatti, lo stare a scuola di fronte alla cattedra ripropone quell’atteggiamento di
dipendenza e di distanza che ritroviamo nell’ambito del teatro tra attore e platea.
Dunque, si propone in quegli anni un ritorno alla dimensione dell’oralità e a tutte le attività e a quei
linguaggi che coinvolgono la persona nella sua unità corpo-mente. In questa prospettiva il teatro appare
come la risposta sintetica a molte delle esigenze di rinnovamento che sorgono all’interno della scuola. Nella
cultura educativa cattolica, assieme a Marco Apollonio, ritroviamo Sisto Dalla Palma, il quale propone una
nuova drammaturgia all’insegna dell’impegno verso il cambiamento del mondo, anziché all’insegna del
divertimento e della contemplazione. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, all’interno della
scuola si assiste a una sempre maggiore integrazione delle attività teatrali con la normale prassi pedagogica
e di insegnamento. L’animazione si estende al coinvolgimento di nuovi soggetti in nuovi spazi: la piazza, il
quartiere, l’intero paese. Tuttavia, negli anni Ottanta l’intero fenomeno inizia la sua discesa, condannato
per non essere stato in grado di fissare competenze e tratti professionali dell’animatore, dunque finendo
per lasciare gli educatori all’educazione e i teatranti al teatro, il tutto giustificato unicamente dalla buona
volontà degli interventi e da un’aura di necessità sociale.

Il teatro sociale è una realtà diversa, in quanto coniuga la propria istanza etica con la creazione di una
forma necessitante, indispensabile per la comunicazione di un’esperienza vissuta come emotivamente
coinvolgente e proposta come ampiamente condivisibile. Negli ultimi anni una seria e approfondita ricerca
in ambito performativo è stata condotta proprio entro la progettualità e le forme del teatro sociale, in
figure come Pippo Delbono o Armando Punzo.

Il teatro educativo e sociale non è teatro terapeutico, anche se lo statuto della performance è vero abbia
molte relazioni con la psicologia del profondo. Un caso particolare è il Teatro degli Affetti di Giulio Nava, il
quale essendo sia psicologo clinico sia attore e regista del teatro di ricerca è ritrovato a proporre una
proficua sovrapposizione di competenze. Non è un caso che Nava abbia creato un modello di teatro sociale
ben identificabile, che egli non chiama teatroterapia ma Teatro degli Affetti.

Diverse ricerche, inoltre, hanno dimostrato come il teatro possa con efficacia entrare nel fare dell’arte
medica e come il teatro della cura abbia a che fare con il restauro del desiderio: la riscoperta del desiderio
riporta l’attenzione al sé come persona e segna un ritorno ai valori del soggetto e alle problematiche della
sua identità relazionale.

Il teatro della tradizione occidentale è basato, fondamentalmente, sulla rappresentazione, cioè su una
metafisica della presenza, che ha generato mostri come lo statuto della delega, la sostituzione arbitraria
della realtà con la finzione, la distanza e la separatezza. Chiuso in una scatola scenica il teatro subisce in
questo modo una reificazione a partire dallo sguardo dello spettatore, che se ne distacca progressivamente.
Un teatro che voglia sottrarsi a questa dinamica perversa è un teatro che deve recuperare il movimento
proprio di ogni rappresentazione, a partire dalla decostruzione del suo impianto ancora fortemente segnato
da un’ideologia di stampo platonico. Le avanguardie teatrali novecentesche hanno tentato di farlo
proponendo sovrapposizioni fra arte e vita e fra teatro ed esistenza, ma ancora più efficace è la sfida al
canone occidentale del teatro della cura, che sovverte tutti i ruoli per tornare ad agire pratiche e linguaggi
molto consueti nella nostra tradizione, tenendo però presente che in tale teatro non si tratta mai di
scegliere tra carne e spirito, tra iperuranio e mondo. In questo contesto si opera la riscoperta del soggetto
nella comunicazione; il senso si origina nella differenza, nella relazione, che è interiorizzazione della
comunicazione.

Il teatro della cura è un teatro che non intende nascondere la materialità del corpo in cui è inscritta, come
segno, la possibilità inevitabile della morte. Se il corpo è un segno, in ogni caso è in azione nel corpo un
processo di significazione che è sempre rappresentazione, messa in forma di comunicazione. Parlando del
concetto di cura, esso si illumina di senso proprio nel suo opposto, in quella condizione particolare
dell’esistenza umana che è la sofferenza, che è un provarsi del corpo nella sua concretezza; è nel venir
meno delle forze che la cura, che il teatro insegna e favorisce, si propone come garanzia di senso per
comprendere la propria e l’altrui sofferenza, è rimando continuo e infinito ad altro. Il teatro insegna ad
affrontare questo corpo che siamo e il corpo che gli altri sono, a partire da azioni, parole, pratiche,
sedimentate in un sapere secolare. Proprio quando l’essere si confronta con il destino del non-essere, il
teatro può aiutare a recuperare quel potere d’agire che è costitutivo dell’essere umano ed è la condizione
morale della libertà. Il teatro della cura coincide con la rivelazione del movimento della libertà umana, che
quando comincia un’azione crea un punto di contatto tra il mondo delle connessioni causali e il suo libero
porsi in azione come causa efficiente del proprio agire. Non si tratta, dunque, di curare con il teatro, quanto
piuttosto di aiutare chi si lascia coinvolgere in questa avventura a riprende in mano, anche se solo
inizialmente nell’ottica del “come se”, la propria libertà come potere di agire nel mondo per continuare a
vivere in compagnia del senso.

3.2. IL TEATRO SOCIALE E L’ANTROPOLOGIA Teatro sociale e antropologia si incontrano sui medesimi
oggetti di osservazione di lavoro, vale a dire sulle relazioni interpersonali, sulla comprensione che ciascuno
ha dell’altro, sulla struttura delle comunità e delle forme sociali di piccola scala, le loro azioni e gli
interscambi.

Il rapporto tra le due discipline è inaugurato dalle ricerche di Eugenio Barba, che fonda l’antropologia
teatrale, formalizzata dall’équipe dell’ISTA da lui fondata insieme a studiosi e artisti. Tale antropologia si
colloca nel territorio di confine dove – tra Otto e Novecento – taluni vettori energici dei loro pur diversi
itinerari di ricerca hanno condotto antropologi e teatranti ad addentrarsi lungo sentieri paralleli.
Perché e come ha origine la rappresentazione? Questa la domanda all’insegna di una ricerca dell’autentico.

Jerzy Grotowski sosteneva la necessità del ritorno del teatro alle sue matrici rituali e mitiche, del restauro
del teatro come evento rituale laico, presentato nella essenzialità dei suoi elementi irrinunciabili dell’attore
e dello spettatore. Inaugurata la sua ricerca nel 1959 con il Teatro-Laboratorium, a partire dagli anni
Settanta tende progressivamente ad eliminare ogni sorta di diaframma fra la rappresentazione e la vita, per
trovare un luogo dove sia possibile essere-in-comune tra più persone, in grado di guardarsi senza vergogna
rendendosi interamente accessibili. Alla fine degli anni Settanta rende pubblica la sua decisione di non fare
più spettacoli.

Eugenio Barba, allievo di Grotowski, col suo Odin Teatret riformula la pratica del baratto, come evento
festivo che mette in contatto la comunità teatrale con un territorio, che cerca un contatto, uno scambio,
una integrazione culturale con esso, senza rinunciare al lavoro estetico e alla pratica artistica.

L’antropologia teatrale si interroga su cosa faccia del teatro il luogo privilegiato di un’esperienza
totalizzante, destrutturante e altra nei confronti della realtà quotidiana, e cosa, a un livello più profondo, la
renda forza di integrazione e aggregazione, che diviene progetto sul mondo in grado di promuovere e
favorire il cambiamento. Il corpo dell’attore appare come la condizione radicale a partire dalla quale si
origini la rappresentazione stessa, il quale merita una rigorosa teorizzazione: il tentativo è quello di riuscire
a individuare quali principi tecnici, operativi e teorici e validi in un’ottica transculturale, definiscano un
corpo in situazione di rappresentazione.

Nella cultura occidentale manca un repertorio organico di consigli che possano orientare l’attore, il mimo, il
danzatore nel suo lavoro artistico e creativo; invece, la tradizione dei teatri orientali offre percorsi precisi e
molto dettagliati di iniziazione alle proprie forme altamente codificate.

Per l’antropologia teatrale si tratta di pensare a una base pedagogica comune alle due tradizioni.
Eugenio Barba suggerisce la separazione fra tecniche quotidiane del corpo e tecniche extra-quotidiane,
laddove le prime risultano inconsapevoli ma non naturali (poiché soggette a contesto socioculturale),
mentre le seconde concernono l’uomo posto in una situazione di rappresentazione e sono caratterizzate
dalla tensione ad allontanarsi dall’agire consueto. Al principio delle tecniche extra-quotidiane sta il livello
pre-espressivo, dove è collocata l’intenzionalità espressiva dell’azione prima ancora che questa diventi atto.
Questo livello pre-espressivo riguarda il momento in cui il corpo si organizza dal punto di vista fisiologico,
energetico, espressivo e totale, prima di trasformarsi in gesto, ed è comune a tutte le culture.

Le tecniche extra-quotidiane seguono tre principi fondamentali: la consapevolezza (l’attore è presente a sé


stesso in ogni gesto e movimento, lontano da ogni forma di automatismo), l’amplificazione (dilatazione di
un fenomeno bio-sociologico) e lo spreco di energia (sforzo finalizzato al mantenimento di un equilibrio tra
due forze contrapposte, una cinetica nello spazio e un’altra nel tempo). Accanto a questi principi,
l’antropologia teatrale ne individua altri, più propriamente operativi: l’alterazione dell’equilibrio (il corpo
dell’attore si manifesta in tutta la sua materialità attraverso la tensione muscolare provocata da situazioni
di disequilibrio), la ricerca dell’equivalenza (allontanamento dal realismo del gesto per elaborare un gesto
extraquotidiano equivalente), il principio delle opposizioni (messa in atto, per alcuni gesti, di una
contrapposizione delle direzioni dei movimenti e degli impulsi). Il corpo è così portato a un alto livello di
significazione, attraverso un processo connotativo di natura simbolica.

Nel contesto dell’antropologia teatrale, il testo teatrale è inteso come tessitura dello spettacolo, e la
drammaturgia come il lavoro sulle azioni, il quale si conforma su due principi: montaggio (pezzi del
comportamento dell’attore, scaturiti dalla pratica dell’improvvisazione e soggetti al restauro, vengono uniti
insieme) e restauro del comportamento (operazione di ricostruzione di nuove sequenze di azioni
indipendentemente dai sistemi originari che hanno prodotto quelle stesse azioni). Testo e drammaturgia
devono essere posti in un rapporto equilibrato, dove nessuno dei due prevalga sull’altro.

L’antropologia teatrale, a partire da una concezione olistica del corpo, cerca di superare le dicotomie
tipiche della cultura occidentale, abituata a separare il corpo fisico dalla componente spirituale dell’uomo.
Essendo l’attore un uomo in grado di dispiegare sulla scena tutte le sue potenzialità psicofisiche, educare
una persona al teatro, attraverso il possesso delle sue tecniche e la conoscenza dei suoi principi, permette
un arricchimento delle possibilità comunicative e ha come conseguenza l’empowerment del soggetto.
L’esperienza di un duro training attoriale porta al superamento del limite e delle inibizioni, alla distruzione
delle barriere e al conseguente aumento di quelle capacità fisiche e psichiche che normalmente non
vengono messe in gioco. Ciò appare fondamentale per la crescita della persona.

3.3. TEATRO SOCIALE E INTELIGENZA EMOTIVA Accanto a quella logico-razionale, valutabile in termini
quantitativi con la misurazione del QI, esisterebbero altri tipi di intelligenza (interpersonale, emotiva ecc.),
importanti per la gestione delle abilità, il potenziamento delle qualità intellettive, lo sviluppo della capacità
di adattamento e la comprensione dei propri sentimenti e di quelli altrui.

Le neuroscienze hanno individuato le basi anatomiche delle emozioni, rintracciando nelle strutture più
interne e primitive del nostro cervello il centro di raccolta delle stimolazioni ambientali. Condizioni di
pericolo o disagio stimolano reazioni diverse a seconda del sistema cerebrale considerato (il sistema
limbico, primitivo, predispone l’organismo alla fuga, alla paralisi o al combattimento; la corteccia invece,
evoluta, è in grado di produrre reazioni adeguate alla situazione). Spesso le misure messe in atto dal
sistema limbico provocano, però, una sorta di cortocircuito emozionale, che non permette un’adeguata
rielaborazione e quindi un corretto adattamento. A differenza del QI, l’intelligenza emotiva può essere
potenziata nel corso di tutta l’esistenza dell’individuo: un’alfabetizzazione ed educazione all’intelligenza
emotiva è dunque fondamentale per una sana vita psichica e una vita relazionale di qualità.

Il teatro educativo e sociale fa propri i principi delineati dallo psicologo Daniel Goleman e dalla sua scuola
di pensiero. Il teatro è infatti il luogo delle relazioni, dunque, un ottimo strumento diagnostico per capire le
dinamiche di gruppo e il tipo di comunicazione e di problemi che ognuno ha con gli altri. Nello spazio
protetto del teatro si rinnovano i riti quotidiani e nascono idee e progetti per il cambiamento non solo
dell’individuo, ma della stessa società.
3.4. TEATRO SOCIALE E SOCIETA’ Il teatro sociale e di comunità è in grado di ristabilire potentemente i
canali della comunicazione relazionale: esso stesso è, nella sua essenza, relazione, a tutti i livelli, da quello
personale a quello istituzionale, ed elabora sempre significati e valori sociali.

I meccanismi alla base di questo tipo di teatro possono essere letti nell’ottica dell’azione del dono, contro-
dono e contraccambio e danno vita a reti di relazioni che moltiplicano il valore del legame facendolo
diventare un patrimonio al quale si attinge quotidianamente. Il teatro sociale e di comunità contribuiscono
alla creazione del capitale sociale, ossia quella rete di relazioni sociali che si fondano sul riconoscimento
dell’identità e della dignità dell’altro e che portano a forme di reciprocità, solidarietà e fiducia.

Oggi la domanda di azione teatrale e di rappresentazione è molto forte e si basa fondamentalmente su


processi di mitizzazione che vogliono l’attore essere rappresentante di uno status a cui ambire, in quanto
garante di nuove possibilità di comunicazione, presupposto di grandi occasioni relazionali e dunque
possibilità di riscatto della propria inadeguatezza esistenziale.

Secondo il sociologo Erving Goffman, i rapporti sociali fra singoli soggetti o fra gruppi sono determinati da
procedimenti teatrali: ciascuno mette in scena di fronte agli altri la propria immagine sociale e le proprie
appartenenze socioculturali o gruppali, tuttavia, ciò che si mette in scena non è separabile da ciò che si è, in
quanto le due realtà coincidono. L’individuo o il gruppo si comporta consapevolmente come se fosse su un
palcoscenico dell’esistenza, sopra il quale spesso non si ha controllo di sé. Essere attore significa poter
avere quel controllo, in piena autonomia: scoprire sé stessi attraverso le possibilità che sono offerte
all’attore significa poter andare al di là dei ruoli e delle immagini sociali, per riconoscere quel plesso
unitario che è la nostra identità, che può essere colta nello sguardo dell’altro che ci riconosce. Si arriva alla
verità di sè stessi quando è un altro a rivelarla, quando incontriamo uno sguardo riconoscente nel
momento stesso in cui anche noi lo riconosciamo.

3.5. SE, L’ALTRO, L’ISTITUZIONE Nelle società arcaiche la comunità aiutava i suoi membri a compiere i
passaggi cruciali della parabola della vita; ad oggi la società occidentale è invece fondamentalmente basata
sull’individuo, il quale si ritrova solo a dover affrontare le proprie responsabilità esistenziali, lontano da
ritualità collettive. Una cultura deritualizzata, individualistica, estremamente relativistica, frammentata e
priva di punti di riferimento pone seri problemi ai soggetti nel loro percorso di individuazione: non esistono
più sentieri segnati da seguire per la costruzione della propria soggettività. L’identità è un processo di
conquista dell’autonomia a partire da modelli ricevuti, che ci fa compiere un itinerario di realizzazione del
Sé e della propria totalità. In questo cammino verso l’auto-realizzazione, l’individuo è spesso smarrito di
fronte a un’assenza di modelli consegnati dalla tradizione e fatica a entrare in relazione con i propri
desideri, aspirazioni, inclinazioni, affetti, esperienze ecc.

Il teatro sociale e di comunità ci rimette in contatto con noi stessi: è l’esperienza più significativa del
processo individuale di formazione, in cui sono fondamentali il controllo della dimensione del sé,
l’espressione delle emozioni e la capacità di relazione. Il teatro facilita la realizzazione del sé offrendo alle
persone e ai gruppi la possibilità di un nuovo protagonismo esistenziale, che si concretizza in drammaturgie
della narrazione. Le pratiche performative del teatro educativo, sociale e di comunità sono un efficace
strumento per aiutare la persona a tornare a essere protagonista della propria vita, in virtù della scoperta
della propria identità narrativa.

Dentro la communitas è l’altro a restituirmi la verità di me stesso, nella misura in cui io sono in grado di
accoglierlo nella sua verità e di restituirgliela. Il luogo della formazione dell’identità dei soggetti è
tradizionalmente la famiglia, ma ad oggi il centro di attrazione della relazione si è progressivamente
spostato sul rapporto amicale: da un lato quest’ultimo può essere asimmetrico, nel caso di un legame ad
esempio di discepolato, in cui uno sia in grado di condurre l’altro per mano verso la conoscenza di sé e della
realtà, dall’altro lato può essere simmetrico, nel caso l’amicizia sia tra pari. Nel laboratorio teatrale sono
presenti entrambi i tipi di relazione, verticale e orizzontale, ed entrambi soddisfano l’istanza profonda della
sollecitudine per l’altro, laddove per questa si intende un movimento del sé verso l’altro, in una relazione
che privilegia il faccia a faccia, il rapporto in presenza.

All’interno del gruppo amicale che un laboratorio teatrale in carcere può contribuire a creare, le relazioni
mettono in crisi le dinamiche di potere incrinando gli schemi precostituiti e proponendo nuove modalità di
interazione fra i soggetti coinvolti. Il teatro può infatti divenire un elemento di mediazione forte tra la
dimensione istituzionale e quella di relazione. Negli ospedali, invece, una mediazione in senso teatrale
attuata con grande efficacia terapeutica è la clownterapia, la terapia del riso applicata ai bambini affetti da
gravi malattie. L’ambito antropologico che dà vita a una interazione fra teatro e istituzione è la festa: il
carnevale, ad esempio, ha tradizionalmente la funzione di un ribaltamento dei rapporti gerarchici, sociali e
dei sistemi dei ruoli; in un momento di reale stravolgimento, la festa ha il potere di porre la società di
fronte a sé stessa, sollecitando l’acquisizione di una consapevolezza, oltre che chiedendo un
riconoscimento di esistenza e di valorizzazione delle classi più basse. In questo caso il teatro può diventare
anche azione politica.

3.6. I NUCLEI TEMATICI DELL’INTERVENTO TEATRALE NEL SOCIALE I nuclei tematici fondamentali che
caratterizzano l’intervento teatrale nel sociale sono le istituzioni, il territorio e l’azione.

Il teatro sociale non può prescindere dal rapporto con le istituzioni, con le quali imposta un progetto
comune per intervenire su un’emergenza. Chi fa teatro sociale mira a una relazione con queste, finalizzata
allo sviluppo e alla formazione: questo tipo di teatro, infatti, non ha alcun potere se non quello di provare a
portare gli individui a una relazione sana con l’altro e dunque con sé stessi.

La gestione di un progetto di questo tipo necessita di una équipe, nella quale la dialettica delle diverse
competenze e istanze deve trovare un punto di sintesi per orientare l’esperienza. Quando nell’équipe non è
presente un rapporto orizzontale e definito tra i membri possono sorgere ostacoli come il narcisismo del
conduttore (un singolo pretende una sorta di priorità decisionale prevaricante nei confronti degli altri) o la
finalizzazione snaturante (muta in corso d’opera le finalità del progetto senza un’attenta lettura collettiva
del contesto).

Per territorio, invece, si intende una porzione di spazio geografico, delimitata secondo criteri di natura
umana, in ragione del potere esercitato da un gruppo su di essa. Tale definizione dipende dall’angolatura di
osservazione e dai criteri che si scelgono per delimitarne lo spazio. L’azione teatrale trasforma lo spazio
vuoto e neutro della visione amministrativa in uno spazio libero, all’interno del quale creare relazioni di
riconoscimento e accettazione tra individui diversi e differenti, laddove per diversità si intende di tipo
geografico, mentre per differenza temporale.

La situazione che permette al teatro di lavorare su differenze e diversità, in un determinato territorio,


mirando all’armonizzazione delle variegate comunità è la festa, uno strumento che utilizza la dimensione
rituale, che mette in relazione tra loro culture anche molto distanti, che crea spazi per il cambiamento, la
trasformazione, l’aggregazione e la condivisione. Nella nostra società e nel nostro tempo, questa deve
essere concepita come un’occasione liberamente scelta per dare vita a nuove forme di celebrazione,
lontano dal rito obbligatorio delle culture arcaiche.

La natura dell’azione teatrale non è mai calata dall’alto, ma plasmata e rinnovata sempre in relazione ai
soggetti coinvolti nell’esperienza: per statuto vi è una ridefinizione continua nei termini metodologici e nei
limiti di intervento. La forma più tipica che assume l’azione di teatro sociale è quella del laboratorio,
all’interno del quale, guidato dal conduttore, il gruppo è messo a contatto con tecniche eterogenee, ma
tutte finalizzate alla messa in gioco del sé nella sua totalità psicofisica. Inizialmente il gruppo deve essere
chiuso, isolarsi dal tempo e dallo spazio quotidiano, per poter compiere un’esperienza rituale di passaggio.
Il gruppo teatrale si realizza e si struttura attraverso le fasi processuali della conduzione: il training,
l’improvvisazione, la narrazione ed eventualmente la rappresentazione spettacolare. Il training è il lavoro di
addestramento della persona nella sua totalità ed aiuta a conoscere i propri limiti e le proprie capacità
espressive. L’improvvisazione è il luogo dell’emergere della rappresentazione dei desideri, delle passioni e
dei vissuti personali e del gruppo, a partire da uno stimolo o da un suggerimento del conduttore stesso.

La drammaturgia del teatro sociale e di comunità non è un progetto a tavolino che vive di una propria
autonomia letteraria e di autosufficienza artistica, ma qualcosa destinato a esser agito da uno o più corpi in
uno spazio e in un tempo, che dunque variano di volta in volta. La scrittura all’interno del teatro sociale e di
comunità è una drammaturgia collettiva, che nasce nel farsi dell’esperienza teatrale e laboratoriale. Inoltre,
questa è un’operazione di mediazione comunicativa tra il gruppo e il pubblico: c’è una grande
responsabilità nel merito di un testo in cui il gruppo possa riconoscersi e in merito al modo in cui il pubblico
lo riceverà, pubblico che deve essere messo nella condizione di comprendere l’evento a cui prende parte.
In ultima istanza, la scrittura del teatro sociale e di comunità è scenica, una drammaturgia non solo di
parole ma già di scena.

La rappresentazione spettacolo, quando è prevista come momento del processo, può essere la messa in
scena teatrale di un montaggio di azioni nate dal lavoro di laboratorio, trasformate coerentemente in uno
spettacolo; può avere carattere pubblico, per soddisfare l’esigenza di una comunicazione esterna.

Il cardine di ogni azione di teatro sociale è il conduttore. Quest’ultimo deve possedere una competenza
specificamente teatrale e un’altra di tipo relazionale, in quanto deve operare un lavoro di identificazione
con il gruppo e al tempo stesso di presa di distanza da questo: è per il bene del gruppo stesso che sceglie a
seconda delle necessità di porsi all’interno dell’esperienza o di osservarla da un luogo ravvicinato ma
esterno. La sua è un’azione contemporaneamente teatrale e sociale, e questo va tenuto sempre a mente.

3.7. TEATRO E INTERCULTURA Alterità e identità sono due concetti che in questo discorso si pongono come
poli di una dialettica, che trova il suo punto di sintesi nell’immagine della coralità.

Le diverse culture si ritrovano oggi sempre più strette nella morsa della convivenza che forza
l’appiattimento e l’omologazione dei tessuti collettivi e comunitari: una spesso ossessiva volontà di
integrazione si risolve solo in una serie di accostamenti voluti dall’alto, che non sempre sono efficace
risposta a un’istanza reale. È solo nel riconoscimento dell’irriducibilità dell’uno all’altro, pur nella comune
radice ontologica, che può avvenire l’incontro. Dunque, dalla differenza di identità che genera alterità si
passa al coro di identità che genera comunità. Infatti, il luogo di questo incontro è la coralità festiva
dell’azione teatrale, un coro che aggrega, compone, armonizza: è il luogo dove l’irrelato può diventare
relazione comunitaria di pluralità identitarie, che rafforzano sé stesse attraverso l’incontro pacifico con
differenze e diversità. La nuova festa del teatro, luogo dove si possa essere accolti, riconosciuti, accettati
per quell’identità che non può che essere sé stessa; festa che è fonte di reale integrazione, di comprensione
e di nuove relazioni.

CAPITOLO QUATTRO

LE TECNICHE

4.1. INTRODUZIONE Il teatro educativo e sociale utilizza una molteplicità di tecniche e metodologie
mutuate tanto dall’ambito teatrale quanto dall’ambito più propriamente terapeutico, maturate nel corso
del Novecento: il portato antropologico del teatro è coniugato così con le acquisizioni delle discipline socio-
pedagogiche, psicologiche e psicoterapeutiche.

4.2. IL GIOCO Il gioco è un utile strumento intermedio fra la dimensione rituale e quella più propriamente
spettacolare; quando si gioca si sta su una soglia il cui passaggio, a differenza del rito (che ha carattere
obbligatorio), è reversibile e frutto di una scelta libera. Il gioco condivide, infatti, con il teatro quel tratto
che Turner chiama liminoide, e si colloca tra la coscienza della realtà e il mondo creato dall’immaginario.
Il gioco è puro quando nasce spontaneo nel soggetto, come ad esempio nei bambini per i quali è un bisogno
primario insopprimibile che deve essere soddisfatto, mentre si dice indotto o stimolato quando è proposto
come materiale di lavoro all’interno del laboratorio teatrale.

4.3. LA NARRAZIONE La voce è un’emanazione corporea e nella narrazione è tutt’uno con la performance.
In epoca preindustriale, la narrazione era un momento di forte coinvolgimento entro la vita di una
comunità o di un gruppo, che si riconosceva interna a un universo “familiare”: i suoi obiettivi erano il
consolidamento dei legami interni alla comunità e la formazione dell’identità collettiva e di conseguenza di
quella individuale. Il teatro di narrazione degli anni Sessanta trae origine da queste forme tradizionali per
declinarsi in altro modo: diviene momento di convocazione sociale attorno a temi politici, all’interno di una
proposta utopica di nuova società e di un intervento etico e politico dell’attore in prima persona. Negli anni
Novanta la narrazione si rivolge a una comunità più ristretta, diventando occasione di incontro entro gruppi
e comunità più circoscritte, puntando a cambiamenti e sensibilizzazioni anche di piccola portata, dunque
lavorando principalmente per un consolidamento/recupero del senso civico.

Un esempio può essere Marco Paolini che, partito dalla personale esigenza civica di raccontare la verità
sulla catastrofe del Vajont del 1963, ha inizialmente lavorato su materiali ideologicamente connotati,
svolgendo in seguito una ricerca storica e documentaria durata anni, per creare un monologo. Questo testo
è stato proposto da Paolini a comunità ben identificate: per anni, tutti i venerdì (giorno della catastrofe), è
andato in una realtà sociale diversa, da solo, a portare questo spettacolo, in una situazione di vicinanza
simile a quella del normale rapporto interpersonale. Nel teatro di narrazione è la particolare presenza
dell’attore/narratore a stabilire col pubblico una comunicazione che ad ogni nuova performance, accresce,
mutandola gradatamente, la stessa scrittura scenico-drammaturgica.

All’epoca dell’animazione teatrale si parlava di alienazione dell’individuo, oggi si parla di una


frammentazione del soggetto, causata dalla moltiplicazione degli stimoli, dalla velocizzazione
dell’informazione e dalla virtualizzazione dei rapporti: l’identità dell’uomo postmoderno è concepita come
una serie di individualità non riconducibili a un’unità del soggetto; oggi si tende ad affermare che l’uomo
non è uno, ma l’esito di una negoziazione momentanea di identità tra loro diverse, dunque in assenza della
persona è chiaro che sia difficile trovare anche una comunità cui appartenere, in quanto l’altro diviene
inafferrabile nella relazione, uno del quale avere paura, perché può essere tutto e il contrario di tutto.

Il teatro di narrazione riconvoca l’uomo nella sua totalità, riporta la relazione al centro della vita degli
individui.

4.4. IL TEATRO DELL’OPPRESSO Al centro c’è la condivisione fisica di azioni ed emozioni, la riattivazione di
tutti i sensi attraverso lo scambio di messaggi tra corpi fisici in movimento nello spazio. Il tipo di conoscenza
postulata dal TdO è esperienziale e si verifica all’interno di un regime di reciproco apprendimento.

Il TdO nasce alla fine degli anni Cinquanta in Brasile, da un’idea di Augusto Boal, che aveva portato già in
Sud-America il metodo Stanislavskij. Molto sensibile ai problemi sociali di un paese pieno di contraddizioni
come il Brasile, in cui le condizioni di oppressione e disuguaglianza sono particolarmente gravi, viaggia
attraverso i luoghi di maggiore ingiustizia sociale per predicare la rivoluzione, utilizzando una forma di
teatro politico agit-prop (agitazione e propaganda). Nel suo lavoro non tiene però conto della difficoltà
delle persone che lo ascoltano a condividere le coordinate minime della convenzione teatrale, che dunque
spesso fraintendono o seguono alla lettera. Boal comprende così come i suoi attori non fossero realmente
solidali a questo pubblico (secondo l’accezione di Che Guevara), in quanto non correvano assolutamente i
suoi stessi rischi. Così lui e la sua compagnia smettono di viaggiare per il paese a insegnare
paternalisticamente alla gente cosa doveva fare per liberarsi dalle proprie oppressioni e iniziano invece a
elaborare nuove forme di drammaturgia sociale. Dopo i due colpi di stato degli anni Sessanta il Teatro
Arena dove lavoravano viene chiuso e Boal è costretto a vivere in semi-clandestinità fuori dal Brasile: in
questo momento sperimenta nuove tecniche, tra cui la drammaturgia simultanea, dalla quale nascerà il
Teatro Forum. Gli attori, in questa pratica, mettono in scena delle situazioni problematiche e conflittuali ben
riconoscibili da quel pubblico chiamato di spett-attori; nel momento in cui il protagonista deve compiere
una scelta la messinscena si interrompe e si interpella il pubblico circa le possibili soluzioni della vicenda; il
pubblico interagisce, consiglia, propone gesti e battute, ricercando nel proprio patrimonio culturale e
umano gli strumenti adatti al superamento del problema. Spesso si aveva il coinvolgimento diretto sulla
scena di uno o più spett-attori. Il Teatro Forum nasce sulla scia di queste sperimentazioni: è una forma
teatrale che funziona come un grande specchio, nel quale le persone possono da un lato osservare meglio
la realtà conflittuale nella quale si trovano, prendendo meglio coscienza del proprio problema, dall’altra
contribuire a operare una trasformazione delle loro emozioni per imparare a reagire in modo adeguato. È il
luogo in cui idee, strategie ed energie possono diventare patrimonio comune e collettivo: ne scaturisce un
arricchimento sia a livello della persona sia a livello dei gruppi, che apprendono in modo naturale e ludico
ad affrontare con maggiore consapevolezza i problemi della vita reale. Il Jolly è la figura del conduttore, il
quale evita e bandisce ogni atteggiamento giudicante rispetto alle soluzioni che entrano in gioco, è un
ascoltatore, uno che facilita la comunicazione.

Il Teatro Invisibile invece nasce dalla vera e propria necessità di fare un teatro politico che fosse invisibile al
regime e in grado si sfuggire alla censura. L’obiettivo di questo teatro è operare all’interno della realtà per
trasformarla, coinvolgendo gli spettatori in una rappresentazione del tutto inconsapevole. Per tutto il
tempo dell’azione teatrale, i partecipanti rimangono infatti nella convinzione di vivere un’esperienza
esistenziale concreta: in qualche caso gli attori rivelano, alla fine dell’azione, il gioco della finzione, ma in
altri casi abbandonano la scena senza aver palesato la loro posizione, lasciando aperto il dibattito. L’attore
si prepara a incarnare un personaggio in una situazione priva di ogni tipo di protezione.

Volgendo poi lo sguardo all’Europa, Boal constata che l’oppressione vissuta dal cittadino europeo è
un’oppressione di carattere antropologico e psicologico, non sociale o economico, dipendente tra l’altro più
dall’oppresso che dall’oppressore. L’oppressione è dunque dentro di noi, se non abbiamo ancora raggiunto
un grado di autoconsapevolezza tale da riconoscere che siamo liberi. La formula teatrale Le Flic dans la tete
nasce per presentare al pubblico situazioni di oppressione interiorizzate, laddove il processo di graduale
oggettivazione delle proprie ansie e paure assume in questo teatro un valore di grande efficacia
terapeutica. È il soggetto, infatti, che, nel lavoro laboratoriale o assembleare, deve individuare una figura di
oppressore a lui familiare, portandolo fuori da sé, interpretando alternativamente la parte dell’oppressore
e quella dell’oppresso, poi dovendo proiettare su un alter-ego questo oppressore. La situazione oppositiva
così creata permette ai soggetti di sperimentare nuove possibilità esistenziali.

4.5. LO PSICODRAMMA MORENIANO Jacob Levi Moreno, dopo aver cominciato a studiare Filosofia nel
1910, passa alla Facoltà di Medicina, presso la quale consegue la laurea nel 1917, conducendo
autonomamente studi di psichiatria e psicologia. Egli critica a Freud la situazione concreta in cui avviene la
sua seduta, dove le due corporeità in gioco sono annullate e ricondotte al solo flatus vocis: per lui non è
possibile arrivare a una totale comprensione dell’altro passando unicamente attraverso la parola.

Moreno intuisce che è possibile trovare una risoluzione ai problemi psicologici della persona, inserendo la
relazione in uno scenario più ampio della vita reale e usando l’azione come strumento d’indagine, essendo
il gesto del paziente portatore di vissuti emotivi oltre che di facoltà logiche. Incomincia a elaborare così un
sistema a partire dalla nozione di incontro: il gruppo è il luogo dell’incontro, è il referente ontologico
dell’esperienza esistenziale dell’unione perfetta fra i soggetti. Costruisce così a seguire una nuova disciplina
psico-sociologica: la sociometria, la quale ha per oggetto lo studio matematico delle caratteristiche
psicologiche delle persone e l’indagine metodica sullo sviluppo e sull’organizzazione dei gruppi, attraverso
la somministrazione di quattro tipi di test. Per Moreno una collettività è fondata su una serie di relazioni,
che si stabiliscono tra i suoi componenti secondo una forza che può essere attrattiva o repulsiva. I giochi di
forza interni ad una comunità creano reti sociometriche, oggetto di studio appunto della sociometria.

Dallo studio dei gruppi Moreno passa poi all’elaborazione del suo teatro, in seguito alle riflessioni scaturite
da due esperienze particolari: l’aspirante suicida e Barbara.

1) Di fronte a un paziente che gli confida la propria volontà di suicidarsi, Moreno adotta un atteggiamento
di apertura totale nei suoi confronti, di accoglienza incondizionata e ascolto, calandosi nei suoi panni,
tentando di comprendere le sue ragioni; finché non gli chiede di rendere concreta attraverso il racconto la
sua volontà. Pensare la propria morte, analizzando concretamente i mezzi per procurarsela, distoglie il
paziente dal suo proposito, che sembra essere ora pago. Così Moreno deduce che la richiesta di un paziente
può essere anche socialmente inaccettabile o assurda, ma non deve essere mai rifiutata a priori.

2) Durante l’esperimento del Teatro della Spontaneità da lui condotto a Vienna all’inizio degli anni Venti,
Barbara si distingue come una persona timida nella vita quotidiana, impacciata, anche con il marito, con cui
pubblicamente intrattiene un rapporto formale, mentre nell’intimità tale rapporto diviene aggressivo e
moralmente eccepibile per l’epoca. La rivelazione della “doppia” condotta della ragazza avviene durante
una scena nella quale la stessa interpreta con inaspettata abilità e credibilità il personaggio di una
prostituta. Moreno da questo episodio trae la conclusione che la messa in scena di una parte di sé ritenuta
inconfessabile ha per il soggetto un grande valore catartico (liberatorio) e per ciò stesso terapeutico.

Il testo di Moreno, Il teatro della spontaneità racchiude le sue riflessioni di quegli anni, che hanno come
punti cardine il fatto che tutto ciò che accade nella vita possa diventare materia per la rappresentazione,
che si possa fare teatro senza necessariamente avere preoccupazioni estetiche e che non esista divisione
tra pubblico e attore, poiché parte della stessa comunità.

Sono questi gli anni in cui concepisce l’idea di un teatro terapeutico, che prelude all’elaborazione compiuta
del teatro psicodrammatico. Si tratta di una forma finalizzata a educare e a liberare la spontaneità del
soggetto, affinché sia in grado, prima sulla scena e poi nella vita, di agire in modo tale da rispondere al
proprio bisogno interiore, di improvvisare nel qui e ora. Nel teatro l’individuo oggettiva le proprie paure, in
una sorta di reviviscenza che aiuta la persona a liberarsi del suo problema.

<<Breve vocabolario>>

Atomo sociale: unità sociale minima non divisibile; insieme minimo di rapporti che si sviluppa intorno a un
soggetto e che soddisfa il suo bisogno di espansione affettiva.

Tele: energia emozionale misurabile e catalogabile come positiva (tele attrattivo) o negativa (tele
repulsivo); forza innata che tiene i gruppi uniti; empatia intrinsecamente bidirezionale; investimento
affettivo ed emotivo del soggetto di natura multidirezionale all’interno della rete di relazioni instaurate
dall’individuo.

Conserve culturali: modelli di comportamento cristallizzato, linguaggi acquisiti e sistemi simbolici


stereotipati, che opprimono la creatività del soggetto; incrostazioni sociali e personali.

Ruolo: rappresentazione cui ognuno di noi è chiamato più volte nel corso della sua vita.

La fase di riscaldamento dello Psicodramma consente di recuperare modalità di espressione e di


comunicazione più spontanee ed efficaci. “Scaldare” la spontaneità aiuta a superare ansie, stereotipi e a
raggiungere la capacità di tele in rete, vale a dire una comprensione e una partecipazione profonde e
reciproche della dimensione affettiva.

Lo Psicodramma è una tecnica teatrale terapeutica che ha lo scopo di rimuovere, attraverso un’esperienza
laboratoriale di gruppo, le barriere che impediscono al soggetto di realizzarsi, intervenendo con gli
strumenti propri del teatro e della psicologia sul sintomo per rimuoverlo e sulla patologia per affrontarla e
curarla. Esistono due tipi di intervento: il trattamento aperto e quello chiuso. Il primo viene organizzato
dove sia richiesta una terapia a un gruppo determinato, dunque in cui i soggetti mantengono una sorta di
relazione osmotica con l’ambiente di appartenenza. Il secondo è organizzato in luoghi specifici predisposti
da Moreno, dove gli elementi del mondo e della realtà esterna vengono posti rigorosamente al di fuori.

Lo Psicodramma si basa su cinque elementi costitutivi, sempre presenti in tutte le fasi della seduta.

- La Scena: un luogo in cui, grazie ai mezzi psicodrammatici, sono inscenate tutte le situazioni e i ruoli
che il mondo produce e può produrre; (nel caso in cui si tratti di un trattamento chiuso) si tratta di
uno spazio globalmente circolare ampio e aperto al centro, con una sorta di skenè più elevata alle
spalle e una tribuna frontale; la scena psicodrammatica ha la funzione di agevolare il
coinvolgimento del soggetto nell’azione, attraverso la ricostruzione di alcuni elementi riconducibili
alla situazione reale cui si fa riferimento.
- Il Soggetto/Protagonista: a questo non viene chiesto di rappresentare un personaggio altro da sé,
ma di essere sè stesso sulla scena, e a questo scopo deve essere riscaldata la sua spontaneità, per
permettergli di comunicare in modo espressivo e di relazionarsi con gli altri con maggior libertà. Il
protagonista è chiamato a mettere in scena i suoi conflitti attraverso episodi di vita passata, eventi
possibili, desideri, secondo due principi terapeutici: partecipazione (si stabilisce una relazione con
gli oggetti e i membri sulla scena) e realizzazione (ciò che viene evocato sulla scena è portato a
realtà). Così il protagonista ha la possibilità di seguire quello che Moreno chiama il copione della
vita, in una situazione protetta e laboratoriale.
- Il Direttore: punto di riferimento imprescindibile nello sviluppo del processo complessivo; garante
della realizzazione del progetto, al contempo terapeutico e teatrale, sul piano operativo; terapeuta;
regista dell’azione teatrale che si sviluppa durante la seduta; tutore del confine tra il mondo
esterno e la situazione psicodrammatica.
- Gli Io Ausiliari: attori secondari inseriti nell’azione per assumere il ruolo di oggetti, persone e
concetti in base all’esigenza del Protagonista, ma anche per essere sè stessi se occorre (proporre
soluzioni al problema); estensioni del Direttore; analisti sociali che sfruttano la partecipazione
diretta per osservare le dinamiche terapeutiche dall’interno; questi possono essere non soltanto
membri del gruppo, ma anche elementi di un’équipe terapeutica ad hoc.
- L’Uditorio: seduti sulla scalinata a essi deputata, si comportano come un pubblico non passivo, ma
attivamente partecipante; rappresentante della doxa e del senso comune, occasione di confronto e
di interlocuzione per il Protagonista.

Una seduta psicodrammatica va dai novanta minuti alle quattro ore e varia a seconda dei casi ed è divisa da
Moreno in tre fasi.

- Il riscaldamento (worming up): è la parte iniziale di ogni seduta, che ha lo scopo di introdurre i
partecipanti nel clima del laboratorio e di aiutarli a liberare la propria spontaneità, a far emergere le
potenzialità espressive e relazionali, finalizzate alla costituzione di un tele di gruppo. Il primo momento di
riscaldamento ha come destinatario il gruppo totale, il secondo è rivolto al Protagonista, che, dopo essere
stato individuato, deve essere aiutato a guadagnare un alto livello di coinvolgimento per la messa in scena.
- La fase centrale dello psicodramma è invece la rappresentazione, dove il Protagonista mette in scena i
conflitti e i drammi che gli appartengono, su una pedana predisposta allo scopo. Si procede al
riscaldamento al ruolo (qui è utile la tecnica dell’intervista), finalizzato alla raccolta di tutte le informazioni
necessarie per la messa in scena dei nodi problematici del Protagonista. Poi si procede concretamente alla
ambientazione scenica, con l’aiuto degli Io Ausiliari e con la raccolta degli oggetti necessari. Il limite
spaziale è molto importante ed è in base a questo che il gruppo si dispone secondo il proprio ruolo.
Il Protagonista mette così in scena sè stesso, costruendo progressivamente azioni e testo verbale senza
alcuna costrizione o imposizione, in un processo naturale di messa in gioco di sé nel qui e ora della
rappresentazione. Fra le molte tecniche possibili è interessante sottolineare le seguenti: l’inversione del
ruolo (inedita versione di sé) e il doppio (rapporto di adesione o contrapposizione).

-L’ultima fase è quella della partecipazione dell’Uditorio, nella quale il gruppo è invitato a esprimere il
proprio vissuto in relazione a quanto ha avuto luogo nel corso dell’intero processo. Il gruppo si ricompatta
attraverso la messa in comune di sentimenti ed emozioni. Il giudizio è bandito.

4.6. IL TEATRO D’IMPRESA Nell’organizzazione del lavoro, molte acquisizioni della psicologia sociale e
dell’antropologia culturale sono state fatte proprie da tempo dal mondo aziendale: migliore è la qualità
della vita del lavoratore, migliore sarà la sua prestazione lavorativa. Un teatro delle origini,
antropologicamente orientato, è stato rimesso al centro della prassi scenica a partire dagli anni Sessanta,
ma dagli anni Ottanta è stato oggetto di attenzione anche da parte del mondo dell’economia e dell’impresa.

Nella maggior parte dei casi in cui si è visto l’uso del teatro in azienda si è trattato di interventi dall’alto, che
hanno prodotto corsi di formazione aziendale per dirigenti, impostati come piccole rappresentazioni
teatrali. Non si tratta di esperienze teatrali proprie, ma di un armamentario a uso della formazione del
personale dell’azienda, fondato su tutte quelle metafore che il teatro è in grado di produrre e di cui
discipline come la sociologia e la psicologia si sono da tempo appropriate.

È possibile, però, immaginare anche un tipo di teatro dentro l’azienda che provenga dal basso. Che
potrebbe rappresentare un’occasione di reale empowerment sia personale sia comunitario, nascendo
come esigenza dei lavoratori stessi, come necessità di una comunicazione più intensa e più viva che possa
dar vita ad una vera e propria communitas.

4.7. LA DRAMMATERAPIA La Dramma-terapia è una tecnica di teatro sociale e terapeutico che nasce in
Inghilterra, dove è riconosciuta ufficialmente dal servizio sanitario nazionale come un regolare trattamento
psichiatrico.

Fra Otto e Novecento cambia completamente la concezione della follia, non più ritenuta unicamente una
patologia, ma un’esperienza esistenziale che nasce dalla coscienza tragica della vita. La pazzia diviene
dunque un sistema di adattamento alla realtà, soltanto diverso da quello proprio della ragione.

Se guardiamo alle categorie tragico e comico, queste sono due categorie morali, cioè due modalità di
rapporto del soggetto con le domande fondamentali dell’esistenza. Si tratta di due modalità di coscienza,
due processi intenzionali portatori di quell’istanza drammatica che è alla base di ogni forma teatrale.

La coscienza del tragico è in diretta dipendenza con la domanda esistenziale di senso che scaturisce
dall’esperienza della necessità: la coscienza della morte, e dunque la condizione umana stessa, può
apparire assurda e gettare il soggetto nella prostrazione, mettendone a repentaglio l’integrità psichica e la
capacità di decisione esistenziale. L’individuo può dunque ritrovarsi a rinunciare, a sfociare nella follia e nel
fatalismo, oppure a ricercare un senso che possa aiutarlo a sopportare il peso della necessità. La necessità
diviene, nella trasposizione drammatica, la fatalità del limite, nel quale l’eroe si trova e il quale coincide
anche con l’antagonista dell’eroe. La situazione tragica, che è situazione di fatalità, mette l’eroe di fronte a
un bivio: la hùbris è ciò che spinge l’uomo a superare i propri limiti, di fatto infrangendo le regole. L’eroe
non è mai una figura completamente negativa, infatti sbaglia per un errore di valutazione; è un capro
espiatorio che con la sua morte sancisce la fine di una condizione passata e la nascita di una nuova. Nello
spazio protetto del rito il gruppo sperimenta la morte in maniera indolore: la morte cura la morte, inscritta
in un sistema di simboli che la rende un passo positivo di rinascita. Parliamo di catarsi: potere terapeutico e
razionalizzante nei confronti di un vissuto rischioso; strategia di superamento della crisi; l’uditorio accetta la
norma e interiorizza la trasgressione come una possibilità attuale.
L’altra faccia della medaglia esistenziale è il comico, modalità della coscienza che dà origine a forme
dionisiache, carnevalesche e festive, oltre che drammatiche. Al pari del tragico, è un meccanismo di
attribuzione di senso allo scacco dell’esistenza, con la differenza che la trasgressione non avviene sul piano
della sfida impossibile all’ordine e al cosmo, che vengono poi ricostituiti per mezzo del sacrificio dell’eroe e
della purificazione dell’uditorio. Nel comico si ha una trasgressione per contrapposizione di un mondo
ideale (festivo) a un mondo istituzionale (rigido). Anche la catarsi comica si configura come esorcismo del
male e della morte; il comico è dunque lo slancio vitalistico che riprogetta il presente in una dimensione
utopica proiettandolo nell’ideale. Emblema della comicità è la maschera e di fronte a questa la prima
percezione è quella dell’avvertimento del contrario, al quale subentra, in un secondo momento, il
sentimento del contrario, che porta a interrogarsi sul senso della deformazione percettiva. Lo spettatore,
nel teatro comico, sa qualcosa che il protagonista non sa, e questo determina la possibilità del doppio senso
e dello spiazzamento.

A questo punto torniamo alla follia, che può dunque essere vista come una risorsa privilegiata nei confronti
delle questioni fondamentali dell’esistenza. Si ha così una riabilitazione della malattia mentale nel corso del
Novecento, come un interlocutore degno di rispetto tanto quanto la parte considerata sana. Per la
Dramma-terapia, il teatro si dimostra un potente strumento di conoscenza, che può riuscire a introdurre
nel disagio psichico il germe del cambiamento, grazie alla sua follia organizzata e razionale: l’attore, infatti,
nonostante la molteplicità dei suoi ruoli e l’essere portatore di due identità o più contemporaneamente,
non perde mai i confini del Sé.

Il setting della Dramma-terapia è il laboratorio teatrale, dove il corpo costituisce il medium espressivo
privilegiato, soprattutto nella riorganizzazione dello spazio simbolico del paziente grave. La Dramma-terapia
è una forma di terapia psicologica che utilizza tutte le arti performative all’interno della relazione
terapeutica: storie, miti, testi drammatici, marionette, maschere e improvvisazione sono alcuni degli
esempi della gamma di interventi artistici che un Dramma-terapista può utilizzare. Questi permetteranno
all’utente di esplorare esperienze di vita difficili attraverso un approccio indiretto. La funzione della figura
del conduttore sarà quella del facilitatore, che lavora in prevalenza col gruppo, senza trascurare al
contempo il singolo individuo, a partire non tanto dal sintomo (come nello Psicodramma), ma dalla
valorizzazione e dalla educazione di tutte le risorse sane del paziente.

La seduta dramma-terapeutica può essere divisa in cinque fasi:

- Riscaldamento, cioè presa di coscienza da parte del soggetto delle proprie potenzialità e delle possibilità
di relazione con gli altri, attraverso tecniche incentrate soprattutto sul movimento del corpo nello spazio;
- Focalizzazione, cioè messa a fuoco dei temi da trattare;
- Attività centrale/drammatizzazione: esplorazione di nuovi comportamenti e perfezionamento della
propria espressività;

- Chiusura e deruolizzazione: ritorno alla dimensione del reale con un incremento della consapevolezza;
- Completamento: uscita del gruppo dallo spazio scenico e laboratoriale, attraverso strumenti di
verbalizzazione e di restituzione comunitaria (o stratagemmi di carattere rituale e simbolico).

Nella Dramma-terapia non si cerca di procurare una catarsi emotiva, ma di provocare nel paziente un
incremento di conoscenze su di sé, sulla realtà e sulle modalità di affrontarla, per il miglioramento della
qualità della sua vita. La Dramma-terapia punta verso un’idea di salute mentale e benessere che non è
assorbimento unilaterale di punti di vista e comportamenti socialmente condivisi, ma conciliazione e
accettazione della convivenza, in quanto solo attraverso il processo feriale della relazione tra sé e l’altro
diventa possibile l’evento festivo dell’incontro tra uomo e mondo.

4.8. IL PLAAYBACK THEATRE L’attore e regista Jonathan Fox, influenzato dallo psicodramma moreniano e
dalle culture rituali e dalle società preletterarie incontrate nel suo viaggio in Nepal, nel 1975 crea il Playback
theatre. Questo è costituito da una compagnia che a partire dai drammi di vita reale raccontati dal pubblico
in modo volontario dà vita a un teatro d’improvvisazione, in un setting teatrale semplice, attingendo a un
armamentario scenico e costumistico elementare, posto a vista sullo sfondo.

Utilizzato in situazioni di cambiamento sociale, facilita i processi di ricostruzione della memoria collettiva,
attiva il confronto su temi sociali e politici, consente la prevenzione del disagio in determinati contesti e può
coadiuvare progetti di promozione della salute e azioni di formazione in contesti aziendali.

4.9. LA DANZATERAPIA Il corpo è lo strumento primario del soggetto per la conoscenza di sé e del mondo e
per la comunicazione interpersonale; i precedenti più prossimi alla moderna concezione educativa e
terapeutica della danza vanno ricercati nelle rivoluzioni antropologiche, artistiche e culturali avvenute in
Europa e Stati Uniti fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX.

Fra le prime a individuare nel movimento corporeo un’esperienza di educazione e di trasformazione


soggettiva, Isadora Duncan alla fine del secolo propone una nuova concezione della danza che non è solo
espressione di sé ma che si manifesta ed esprime tenendo conto dell’ambiente che la circonda, composto
dall’insieme della natura, della cultura e della società che caratterizzano un’epoca.

Non molti anni dopo Martha Graham prende a considerare la danza come una manifestazione della vita,
legando il movimento al naturale flusso della respirazione, alla contrazione e al rilassamento muscolare.
Il corpo diviene un plesso unitario significante, legato alla terra, da cui trae energia e potenza.

Il vero padre ispiratore della Danzaterapia è Rudolf Laban, il quale assimila la concezione dell’esperienza
performativa come evento estetico e contemporaneamente atto etico. Da un lato conduce una ricerca
sull’aiuto che la danza può dare all’espressione personale dell’individuo attraverso un movimento del corpo
libero e naturale; dall’altro è interessato alla dimensione comunitaria dell’evento coreico, considerato il
momento di incontro di uomini liberati. Laban viene elaborando una precisa filosofia della danza, alla
ricerca delle regole interne al movimento nel tempo e nello spazio: autonoma anche rispetto alla musica,
essa si sviluppa in relazione ai ritmi naturali del corpo e alle motivazioni profonde dello spirito, esigendo dai
suoi cultori una perfetta conoscenza di sé.

Nel secondo dopoguerra, Marian Chance, influenzata dal lavoro di Jung, ritiene corpo e mente correlati:
comincia a organizzare una tecnica terapeutica che fa largo uso della relazione di movimento, di esercizi di
corporeità attiva, di espressione e comunicazione simbolica e di attività ritmiche. Dopo aver frequentato la
Washington School of Psychiatry, nel 1960 dà vita a un programma di formazione per terapeuti di danza a
New York e nel 1966 fonda l’American Dance Therapy Association.

Trudi Schoop, invece, partendo dal presupposto teorico che attraverso le tecniche della danza moderna sia
possibile esprimere la dimensione interiore del soggetto, sostiene che lavorando attivamente sul corpo sia
altrettanto possibile influire sulla psiche. Le terapie attuate attraverso l’arte, afferma, sono efficaci perché
valorizzano aspetti ancora integri e presenti nella persona. Propone tecniche diverse a seconda della
patologia, un processo di lavoro lento e graduale che parte dal corpo per arrivare all’emozione.

Mary Stark Whitehouse, avvalendosi della particolare modalità di lavoro da lei individuata come
Movimento autentico, sottopone al trattamento della danzaterapia soprattutto soggetti affetti da lievi
nevrosi e con un io abbastanza integrato, mentre ritiene inadatta la pratica a patologie psichiche più gravi.

Ci si muove tenendo gli occhi chiusi, alla presenza del testimone-terapeuta, il cui compito è di contenere e
di interpretare con il proprio movimento l’esperienza dell’altro. Il lavoro è integrato successivamente da
una elaborazione verbale dei vissuti.

Le tecniche contemporanee più utilizzate nell’ambito della danzaterapia sono tre.


- L’Expression Primitive: è un metodo di lavoro coreico introdotto dal danzatore Herns Duplan il cui fine è
offrire, attraverso la pratica artistica, un risveglio, una crescita personale e collettiva dei soggetti. Si basa sul
ritmo e utilizza diverse categorie di movimento: primitivo (inconscio), abituale, tecnico e creativo
(movimento primitivo e tecnico insieme in una forma trasformata).
- La Danzamovimentoterapia (DMT) si basa sull’essere al contempo un’attività corporea, un linguaggio del
corpo e un’arte. Viene infatti definita una tecnica a mediazione motoria, a mediazione corporea e a
mediazione artistica. La DMT è una disciplina che si orienta a facilitare e promuovere l’integrazione fisica,
emotiva, cognitiva e psicosociale dell’individuo, nonché a migliorare la qualità della vita della persona.
Questa è rappresentata da diverse scuole di pensiero e da altrettante metodologie:

- DMT espressivo – creativa a orientamento psicoanalitico


- DMT a orientamento espressivo (psicodinamica e relazionale)
- DMT integrata (DMTI)
- DMT in chiave simbolica
- DMT a ordinamento gestaltico

La DMT promuove anzitutto il piacere funzionale, aiutando i soggetti a recuperare la capacità di percepire le
sensazioni piacevoli provenienti dal corpo. L’unità psicomotoria può essere raggiunta attraverso un lavoro
di ristrutturazione dello schema corporeo, presupposto per una progressiva integrazione tra motricità ed
emozione (lavoro sul corpo significante). Obiettivo importante è inoltre la comprensione della propria
immagine corporea e il raggiungimento di una consolidata stima di sé: questo è agevolato dalla struttura
dialogica e relazionale di ogni tecnica DMT, in cui sono sempre implicati dialetticamente i soggetti, il
conduttore e il gruppo.

- La Danzaterapia di Maria Fux insegna che la danza non può essere ridotta a tecnica, ma deve
essere un metodo e un’esperienza sempre in continua evoluzione: danzare ha l’obiettivo primario
di portare all’esterno qualcosa che si genera all’interno, per comunicare con la realtà circostante e
incontrare la vita. Il ritmo interno è il portatore del significato del movimento, indicatore di
esistenza e veicolo di stati emozionali. La musica costituisce uno degli stimoli centrali all’interno del
processo di lavoro. Per la Fux il processo di lavoro ha profondamente un significato terapeutico che
non necessariamente ha a che fare con la terapia vera e propria, ma sicuramente ha a che fare con
la prevenzione della malattia.

CAPITOLO QUINTO
COMUNITA’ E DRAMMATURGIA

COMUNITA’: UN CONCETTO, MOLTI SIGNIFICATI

5.1. INTRODUZIONE Il concetto di comunità è un concetto problematico. Sta comunemente a designare un


gruppo di persone che hanno comuni origini, idee, interessi o consuetudini di vita, tuttavia è stato declinato
e utilizzato in modo diverso a seconda del contesto disciplinare in cui è stato inserito. Si tratta di un
concetto polisemico, dunque, il quale però, in estrema sintesi, possiamo dire sia utilizzato soprattutto come
espressione di un modo di “stare nella società” caratterizzato da unità, coesione e integrazione sociale,
connotato da un agire volto al raggiungimento di finalità condivise, con forti legami sociali.

5.2. DALLA <<COMUNITA’>> ALLA <<COMUNITA’ LOCALE>> Secondo Aristotele, la polis rappresenta la
forma di comunità più alta, in quanto forma i suoi membri intellettualmente e moralmente attraverso la
partecipazione alla vita pubblica, e in quanto la convivenza in essa è data dal solo desiderio di vivere bene,
e non di perseguire fini economici personali. Tommaso ribadisce poi che non possa esserci felicità per
l’uomo all’infuori di una compartecipazione collettiva. Marsilio profila una comunità di uomini liberi il cui
fine è la dignità della vita. Il tema della comunità diventa centrale a cavallo tra XIX e XX secolo, quando la
rivoluzione industriale stempera i legami sociali che componevano il tessuto sociale dei piccoli paesi rurali,
e muta le tradizionali forme di convivenza a causa della nuova gestione dei tempi e dei luoghi, data dai
nuovi ritmi produttivi. Ciononostante, resta vivo e presente un bisogno di comunità.

Émile Durkheim ritiene che la società moderna non possa funzionare senza dimensione cooperativa:
teorizza la solidarietà meccanica (tipica di società semplici) e la solidarietà organica, come forme sociali che
si succedono. Georg Simmel evidenzia come la rottura delle relazioni comunitarie tradizionali comporti la
creazione di comunità di scopo (come le associazioni). Ferdinand Tonnies, invece, distingue la Comunità
dalla Società, laddove la prima è intesa come vita reale e organica, mentre la seconda come un prodotto
meccanico dell’utilitarismo: comunità quindi come depositaria di rapporti umani basati sulla comprensione,
come espressione di un modo di sentire comune e reciproco, contrapposta alla società. I due modelli non si
escludono però a vicenda. Max Weber distingue, invece, tra associazione e comunità, laddove la prima si ha
quando interviene un legame di interessi motivato razionalmente, mentre la seconda si ha in presenza di un
agire fondato su una sentita appartenenza comune. Le relazioni sociali hanno in genere i caratteri sia di
comunità sia di associazione. Dunque, l’idea di comunità così come espressa richiama un’interdipendenza
dei sistemi relazionali, e la presenza di una forte omogeneità di norme e valori e di un forte senso
dell’ingroup rispetto all’outgroup.

Il concetto di comunità locale ha a che fare con la comunità di luogo di Tonnies e designa un tipo di
collettività i cui membri condividono un’area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere.
La corrente di pensiero chiamata Scuola di Chicago, studiando i fenomeni sociali americani nella prima
metà nell’Ottocento, ha teorizzato che il concetto di comunità prefiguri il radicamento sul territorio, la
presenza di un’organizzazione sociale e l’interdipendenza tra i membri: la condivisione di un territorio
costituisce la base di una vita comune: unità che vivono simbioticamente nello stesso habitat.

5.3. LA COMUNITA’ NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE

Il dibattito attuale sul tema della globalizzazione è molto acceso. Ci si interroga su quanto e come sia giusto
aprirsi nei confronti delle tradizioni altrui, rischiando di perdere l’autenticità delle proprie. La condizione
umana e sociale del nostro tempo è di per sé contraddittoria, in quanto l’agire individuale e collettivo
appare oscillare tra due poli, che vanno dal concetto di comunità (ristretta) al concetto di massa.

La globalizzazione coinvolge aspetti tecnologici, economici e politici, ma anche antropologici e psicologici.


Due problematiche sono fondamentali: la prima riguarda i confini, in quanto ad oggi gli individui sono
inseriti in reti di relazioni che attraversano i confini della comunità locale; la seconda riguarda la
dimensione, in quanto ogni comunità locale deve essere programmaticamente considerata oggi una società
locale, indipendentemente dalla sua grandezza. Dunque, se è vero che anche una piccola comunità è
attraversata da relazioni societarie che la legano al resto del mondo, è altrettanto vero che piccole
comunità continuano a essere luogo di interazioni significative.

La corrente di pensiero dei communitarians considera che non esiste un soggetto capace di vivere al di fuori
della comunità, dunque non potrà mai sentirsi completamente indipendente da questa. Il concetto di
comunità utilizzato dai communitarians sembrerebbe, però, essere quello di una comunità locale chiusa,
difensiva, che nega la differenza all’interno dei soggetti stessi e tra i soggetti altri.

Amerio proporre un’idea di comunità, invece, considerandone diverse dimensioni. La comunità locale
costituisce il contesto concreto all’interno del quale assumono forme specifiche sia legami sociali e relazioni
interpersonali, sia aspetti problematici, ma anche risorse e potenzialità. La relazione interpersonale è
intrinseca al concetto di comunità intesa come elemento in grado di permettere la conservazione del
tessuto sociale, di accrescere il capitale sociale, di contribuire a sviluppare forme di convivenza e di civiltà.
La dimensione relazionale acquista inoltre significato nella partecipazione, intesa come possibilità di
costruire mondi possibili, di prendere decisioni e di assumersi responsabilità condivise attraverso il dialogo
e lo scambio con l’altro. La comunità che si profila oggi non è, sicuramente, una comunità così coesa come
vorrebbe taluno, ma è vivificata da un tessuto forte di relazioni.

Non è, forse, così sicura come vorrebbero altri: ma lo sviluppo attivo dei suoi cittadini può aiutarla
nell’accettare quel tanto di insicurezza che è oggi indispensabile per non chiudersi al cambiamento.

COMUNITA’ E APPARTENENZE ATTRAVERSO LE NARRAZIONI

È pur sempre in una certa città, in un certo quartiere che i soggetti vivono la loro quotidianità, in uno
scambio continuo tra il proprio mondo interiore e l’esterno. Nonostante l’affermazione dell’idea di villaggio
globale e la presenza di un sistema mondiale, l’idea di una comunità territoriale non sembra sorpassata. Un
senso di comunità e di appartenenza al territorio può essere sviluppato attraverso implementazioni di spazi
liberi, di incontro e confronto faccia a faccia: contribuire alla costruzione di tali luoghi è un’azione di
empowerment, laddove se si adotta la definizione di Rappaport questa concerne per definizione coloro che
sono esclusi dalla maggioranza.

Bruner distingue una cognizione narrativa da una cognizione paradigmatica, laddove la prima si propone la
ricostruzione di un evento, di una storia, considerando il suo contesto e focalizzandosi sulla comprensione
dell’azione umana, mentre la seconda formula ipotesi che devono essere verificate per la formulazione
successiva di leggi. I metodi narrativi costituiscono un utile strumento per esplorare i rapporti sociali e
relazionali tra individuo, comunità e società. Ad essi corrispondono le storie personali, le narrative di
comunità e le narrative culturali: le prime si riferiscono a racconti personali della vita del singolo; le seconde
sono racconti storici della vita di una particolare comunità accessibili ai membri della comunità stessa; le
terze sono su persone, luoghi e cose che hanno una linea narrativa coerente e un contenuto tematico che
attraversa i soggetti e i contesti e sono trasmesse attraverso media e conversazioni.

Attraverso la narrazione si dà voce ai significati, ai valori di riferimento, e si ha il coinvolgimento degli


aspetti emozionali. Così si forniscono al soggetto strumenti di riflessione su di sé e sugli altri, in grado di
stimolare le relazioni a livello della comunità. Le narrazioni di comunità possono essere, inoltre, materiale
creativo su cui intervenire con altri linguaggi artistico-espressivi. Le diverse forme espressive possono
assumere il ruolo di custodi della memoria sociale e, di riflesso, della sua identità, andando anche a
influenzare un senso di comunità.
Non dire la nostra esperienza significa non ricordare e dunque non essere in grado di utilizzarla per
adattarci ai cambiamenti ambientali. Nell’epoca della globalizzazione i luoghi devono recuperare significato
attraverso il loro collegamento a eventi, personali e collettivi, devono tornare a parlare di sé e dei loro
abitanti, per questo è necessario che le persone si riapproprino dei loro spazi e inizino a narrarli.

5.5. I PRESUPPOSTI DELL’INTERVENTO SOCIALE

I cittadini sono considerati attivi portatori di risorse, dotati di un sapere non sempre espresso. Dunque, un
intervento sociale che voglia essere efficace e coerente non deve imporsi sulla comunità. L’operatore si fa
mediatore di comunità, connettore di risorse, e deve prestare molta attenzione a considerare i soggetti con
cui lavora esseri sociali inseriti in contesti specifici da comprendere nella loro totalità e complessità,
attraverso un meticoloso lavoro di ricerca. Questi principi sono alla base di una metodologia che prende il
nome di ricerca-azione.

5.6. KURT LEWIN E LA RICERCA-AZIONE

La ricerca-azione viene introdotta negli anni Quaranta da Kurt Lewin, psicologo sociale che, attraverso la
sua teoria del campo, dichiara che vi sia una stretta interrelazione tra i fattori (psicologici e fisici, interni ed
esterni) che intervengono in una situazione hic et nunc. La sua ricerca scientifica si allarga poi allo studio dei
fenomeni umani e sociali.

Sviluppa così l’esperimento sul campo, il quale prevede che lo sperimentatore manipoli certe condizioni (in
natura) per cogliere le relazioni tra i diversi elementi che compongono quella situazione nel momento dato.
Propone così un metodo per produrre un cambiamento controllato, utilizzando gli strumenti dell’indagine
scientifica a servizio del contesto naturale. La ricerca-azione viene condotta necessariamente in gruppo
(luogo psicosociale per eccellenza; strumento in grado di facilitare il cambiamento), composto da persone
che vivono direttamente i problemi oggetto dell’indagine. Essa viene concepita come un processo ciclico di
indagine che comprende diagnosi (di una situazione problematica), pianificazione (delle diverse fasi
dell’azione), implementazione e valutazione dei risultati.

Dunque, la prima fase del processo è la costituzione del gruppo (condizione sine qua non), che
implementerà le fasi della ricerca; segue l’intervento, cioè la realizzazione di azioni volte al cambiamento.
Quanto alle valutazioni finali, Lewin rileva l’importanza di individuare dei parametri oggettivi per valutare i
risultati dell’intervento, per verificare inequivocabilmente l’efficacia del proprio lavoro.

5.6.1. LA RICERCA-AZIONE DOPO LEWIN

La morte precoce ha impedito a Lewin di produrre una teoria sistematica, lasciando così il campo aperto ad
altri studi che continuassero i propri e ad altre interpretazioni: l’assenza di linee guida chiare ha fatto sì che
la ricerca-azione uscisse dal suo ambito originario della psicologia sociale. Nel panorama scientifico attuale,
la ricerca-azione si riferisce infatti a uno spettro di attività che si focalizzano su molteplici aspetti tra cui:
ricerca, pianificazione, teorizzazione, apprendimento e sviluppo. Si tratta di una ricerca con finalità sia
pratiche che teoriche, quindi il contributo di coloro che conoscono e vivono direttamente la situazione
problematica è fondamentale: a differenza della scienza convenzionale, che vuole i soggetti della ricerca
lontani dal territorio di studio, nella ricerca-azione sono previste frequenti forme di partecipazione.

Nonostante i diversi impieghi di questa, la ricerca-azione può dirsi una forma di ricerca che genera
conoscenza allo scopo esplicito di intraprendere un’azione per promuovere il cambiamento sociale e
l’analisi sociale. Questa è un processo cogenerativo attraverso cui i ricercatori e i membri di organizzazioni
locali, di comunità, di gruppi sociali collaborano alla ricerca, alla comprensione e alla soluzione dei
problemi, che sono legati a un contesto specifico e sono problemi di vita reali. È un processo sociale in cui le
diverse conoscenze (locali, professionali ecc) delle persone coinvolte e le loro stesse peculiarità e diversità
costituiscono le basi per costruire altra conoscenza, arricchire il processo della ricerca-azione, costruire
nuovi significati, e promuovere il cambiamento sociale.

5.6.2. LA RICERCA PARTECIPANTE: L’INTERVENTO CON LA COMUNITA’

Coloro che promuovono la ricerca-azione partecipante ritengono che le persone abbiano un diritto
universale di partecipare alla produzione della conoscenza, considerata come un processo che permette e
facilita la trasformazione personale e sociale. L’intervento si propone di favorire i processi di trasformazione
della struttura sociale coinvolgendo, nella ricerca di una soluzione ai problemi sociali, le stesse persone che
sono oggetto di oppressione, assegnando loro il pieno controllo sull’intervento. Il ricercatore assume un
ruolo attivo di collaborazione con i soggetti, rifiutando l’idea che la generazione della conoscenza debba
essere apolitica e libera dai valori: la stessa scelta di intraprendere un processo di ricerca partecipante è
una scelta politico-ideologica chiaramente schierata. La ricerca partecipante risale agli anni Settanta e i suoi
primi lavori, applicati nell’ambito dell’educazione degli adulti, dello sviluppo agricolo e delle riforme
economiche, furono influenzati dal lavoro di Paolo Freire. Secondo Freire, l’educatore e lo studente sono
entrambi partecipanti attivi nella formazione del processo educativo o di ricerca.

Il primo passo nel processo di ricerca è portare le persone a valutare collettivamente la propria comunità
per determinare quale ambito sociale necessiti, più di altri, di essere analizzato. Poi si ricercano i metodi per
ottenere informazioni pertinenti relative al problema individuato. Dopo la raccolta di dati e l’analisi di
questi, vengono decisi i passi per risolvere il problema. Segue una fase incentrata sul processo di
educazione. La principale forma di educazione avviene attraverso il metodo dialogico, in base al quale la
gente apprende comunicando e risolvendo i problemi insieme.

Un altro aspetto cruciale è lo sviluppo di una consapevolezza critica, che metta le persone nella condizione
di pensare al loro mondo in modo critico, cogliendo il collegamento tra i propri problemi personali e la
struttura sociale più ampia. Paul Freire ipotizza l’esistenza di un processo che definisce la dottrina della
colpa personale, che porti le persone ad attribuire la propria posizione minoritaria all’incapacità personale.
Il processo di disindottrinamento proposto dalla ricerca vuole smascherare tali miti diffusi dall’ideologia
dominante. L’obiettivo a cui mira, insomma, la ricerca partecipante è l’empowerment di comunità, che
designa il controllo come capacità di poter intervenire sulle decisioni, la consapevolezza critica di come
funzionano le strutture di potere e dei processi decisionali e la partecipazione come strumento per ottenere
i risultati previsti. Si tratta di far sì che la comunità diventi competente, sia da un punto di vista politico sia
da un punto di vista sociale e relazionale: comunità dunque basata sulla riflessione critica, ma anche sul
rispetto reciproco, sulla attività di cura e sulla partecipazione.

5.7. RIFLESSIONI ED ELEMENTI DI CRITICITA’. L’OPERATORE SOCIALE COME MODERATORE

La cosiddetta cultura della differenza è una sfida, sia culturale sia politica. Non è infatti sempre facile
costruire consensi, non sempre il confronto e lo scambio portano immediatamente alla costruzione di
mondi condivisi e condivisibili; non è facile educare i gruppi e le comunità a una cultura della differenza,
poiché è noto quanto la presenza del diverso venga percepita come una minaccia della propria identità e
specificità. Il conflitto, d’altronde, è insito nei rapporti umani; non è la sua esistenza che costituisce un
problema, ma la sua gestione. Questo fa parte della vita e senza di esso non ci sarebbe alcuna crescita e
alcun cambiamento sociale. Tanto più è percepita come debole e vulnerabile la propria identità, sia
individuale sia sociale, tanto più ci saranno resistenze a modificare i propri schemi per lasciare spazio al
diverso, al nuovo.

Solo la costruzione di legami affidabili e giusti può spingere le persone a desiderare soluzioni cooperative
nella gestione delle diversità e degli interessi contrastanti e a perseguirle con tenacia. Il mediatore di
comunità assumerebbe qui un ruolo nella composizione dei conflitti: svolgerebbe una funzione di
connessione di parti frammentate o isolate che non sono state in grado di costruire un progetto comune o
che non hanno trovato un luogo dove gestire la conflittualità. Essa può risolversi, ad esempio, attraverso
strategie come quella di trasformazione del conflitto dal piano delle emozioni a quello della cognizione, o
come quella di mutare la percezione del gruppo esterno in base alle possibilità che l’incontro con questo
può offrire.

Come ci insegna Lewin “la democrazia deve essere appresa”, dunque in alcuni casi può essere necessario
sospendere e posticipare l’intervento per dare priorità all’educazione alla partecipazione, preparando le
persone a un approccio democratico e partecipato ai problemi, nel caso in cui la partecipazione stessa
possa innescare forme di conflitto. Non è da ignorare il fatto però che non tutti i conflitti siano negoziabili o
risolvibili, e in questi casi si tratterebbe di conviverci.

CAPITOLO SESTO

DONO, CONTRODONO E CONTRACCAMBIO. IL TEATRO SOCIALE E DI COMUNITA’ TRA ECONOMIA DI


RELAZIONE E CAPITALE SOCIALE

6.1. PREMESSA: IL TEATRO DI COMUNITA’

Il lavoro di Teatro Sociale e di Comunità ha per protagonista la comunità: il progetto viene generalmente
attuato da un’équipe interdisciplinare con competenze sia in ambito teatrale che psico-sociale e prevede
tempi lunghi di realizzazione. Le scelte prese durante il percorso sono finalizzate a riconoscere e valorizzare
in ogni passaggio progettuale la varietà del sistema relazionale: in un processo di Teatro di Comunità si
lavora sempre con il contesto in cui i destinatari sono inseriti, poiché così facendo è possibile ottenere una
modificazione delle condizioni di vita, valorizzandone la molteplicità delle risorse. Il Teatro Sociale e di
Comunità opera in un’ottica di intervento sistemico, ricollocando la realtà incontrata al centro di un tessuto
comunitario. Ogni disagio come ogni risorsa da valorizzare sono fortemente dipendenti – o derivanti – dal
contesto al quale fa riferimento ciascun individuo. Adam Smith definisce che sia possibile trovare un punto
di unione tra relazione sociale ed economia, dunque proviamo a vedere cosa succede se si prova a far
dialogare le teorie della Sociologia Economica con la metodologia del Teatro Sociale e di Comunità.

6.2. IL CONTRATTO RENDE LIBERI OVVERO ADAM SMITH E LA NASCITA DI UN MODELLO RELAZIONALE
RAZIONALE

L’incontro tra individui è da sempre stato considerato un problema da gestire attraverso la mediazione.
L’incontro del sé con l’altro mette entrambi gli individui in una situazione di pericolo, in quanto l’altro può
rivelarsi un’esperienza negativa per il singolo, e in quanto si possono instaurare delle dinamiche di
dipendenza e di potere spiacevoli. Dunque, nelle società premoderne era accettata l’idea di un Assoluto
come mediatore, così che la relazione tra i due individui non fosse diretta (lo stato d’animo e non solo del
sé non dipendeva dalla sola relazione con l’altro, ma dall’Assoluto); nella società aristotelica questa
funzione veniva mantenuta dalla polis, in quanto l’individuo non esisteva di per sé, ma in quanto
appartenente a un’entità superiore.
La società moderna perde l’Assoluto e si pone la questione della mancanza di una mediazione nel rapporto
tra individui: in ambito economico si rende necessario il superamento del munus, cioè della relazione
economica fondata sul dono, il quale creava relazioni obbligate, nel bene e nel male. Se Machiavelli, in
un’epoca che egli percepisce di grande decadenza morale e umana, risolve il rapporto tra individui con la
mediazione del Principe e se Hobbes propone un super Stato, Adam Smith, padre pensatore dell’economia
moderna, individua nel mercato un mediatore capace di restituire un equilibrio alla relazione tra individui: il
contratto.

Come abbiamo già detto, le relazioni tra individui dirette nascondono rapporti di potere,
indipendentemente dall’eventuale benevolenza che possano contenere: la relazione di benevolenza, o di
dono, non è auspicabile all’interno di una macrosocietà, in quanto crea reciproca dipendenza, infatti può
sussistere soltanto all’interno del nucleo familiare. Sul paradigma del dono si può fondare solo una società
intesa come communitas. Ciò che propone Adam Smith è lo scambio attraverso il contratto, il Mercato,
come strumento in grado di restituire dignità al servo e ricollocare nell’equilibrio il rapporto tra forze che
entrano in gioco al momento dell’incontro tra due: il Mercato può essere preso a riferimento perché è
un’entità che si autoregola attraverso le leggi della domanda e dell’offerta e del libero scambio tra individui.
Le relazioni di mercato consentono allora a ciascuno di soddisfare i propri bisogni al di là della benevolenza
di chi gli sta dinanzi.

Il contratto diventa a livello sociale un buon sostituto del dono, in quanto in rapporti non familiari
l’individuo è sempre tendente a un atteggiamento di prevaricazione nei confronti dell’altro. Il timore da cui
nasce la teoria di Smith, infatti, è proprio il disequilibrio che nasce da un’asimmetria di potere.

La scommessa del Teatro Sociale e di Comunità è quella di ristabilire quella relazione tra eguali, senza un
mediatore Altro, attraverso la gratuità degli scambi di relazione, dove il concetto di rete prende il posto di
quello di mercato e lo strumento del contratto viene sostituito dalla relazione di dono. Il teatro è incontro e
ovunque è il luogo del teatro, cioè del fare quell’azione di incontro tra persone che costruisce un senso di
appartenenza comune, che ci lega e insieme ci rende liberi.

6.3. COSTRUIRE LE BASI PER UN LAVORO DI COMUNITA’: SOCIETA’, DONO E CAPITALE SOCIALE

6.3.1. COMUNITA’ ED EMPOWERMENT

L’empowerment è letteralmente quell’azione di acquisizione di potere da parte di individui, gruppi e


comunità che si declina come consapevolezza e sviluppo delle risorse individuali e di gruppo presenti su un
territorio; questo processo alimenta la percezione di una possibilità di trasformazione e miglioramento ed
evita, in un’azione progettuale, l’attivazione di “delega all’esperto” da parte della comunità, che altrimenti
svilupperebbe una condizione di dipendenza esterna.

Il carattere di comunità connessa allo spazio abitativo è entrato in crisi con la costituzione contemporanea
della metropoli fondata su una regola insediativa astratta: si è perso il luogo, cioè quello spazio
simbolicamente carico di un’identità territoriale che si fa segno di una comunità, assumendo una funzione
rappresentativa e quindi teatrale. Si è parlato a proposito di comunità di luogo, proprio come insieme di
soggetti uniti da un contesto territoriale caratterizzato da un rapporto esclusivo con l’esterno, da identità
condivisa e senso di appartenenza, che sviluppano rapporti di reciproca solidarietà. Diviene urgente ora il
recupero del luogo come veicolo di comunicazione sociale, di una promozione di relazioni di scambio e di
identificazione con il proprio ambiente; la perdita di identità del territorio porta il cittadino stesso a
smarrire anche la capacità di riconoscere gli spazi della città come segni storici e identitari della comunità.

Uno dei compiti del Teatro di Comunità è proporre l’attività di empowerment territoriale e di recupero di
uno sguardo capace di leggere la realtà in modo simbolico. Il Teatro Sociale ha tra i suoi obiettivi il buon
vivere delle comunità, in relazione a una dimensione etica, alla ricerca di una giustezza e qualità delle
relazioni quotidiane e alla possibilità di vivere la cultura anche in occasioni sociali.

Parliamo di vivere bene e non di benessere perché l’economista Tibor Scitovsky nel 1976, osservando come
la popolazione mondiale nonostante la crescita economica fosse sempre più infelice, ha messo in luce
l’esistenza di due diversi generi di beni - di comfort e di creatività – osservando come i primi non
generassero felicità duratura e richiedessero un costo di attivazione basso, e come i secondi, invece,
necessitassero di un alto livello di investimento personale ma fossero in grado di procurare una felicità
profonda e più consapevole. Dunque, il termine benessere risulta piuttosto ambiguo. Inoltre, è interessante
notare che secondo l’OMS il termine salute si definisca come stato di benessere completo: fisico, psichico e
sociale.

6.3.2. DONO, SOCIALITA’ E AZIONE SIMBOLICA

Marcel Mauss propone la tesi secondo la quale alla base della relazione di scambio e contratto si nasconda
l’antica pratica del dono. Quest’ultimo è descritto come un atto apparentemente volontario e gratuito, che
in realtà si rivela obbligatorio, vincolante e insieme capace di costruire forti relazioni. Sulla triplice azione
del dono, controdono e contraccambio molte società, infatti, hanno fondato il proprio statuto.

Il dono non si configura come atto gratuito: chiunque faccia un dono si aspetta un contraccambio dalla
controparte, che deve avere pari valore del primo dono, a cui segue un ulteriore indebitamento. Bisogna
sottolineare che parlando di dono non ci riferiamo soltanto a oggetti; originariamente venivano donate
anche persone – esempi contemporanei del dono sono il volontariato, la donazione di sangue e organi, le
azioni cooperative, cioè la messa a disposizione gratuita di competenze e risorse di ogni tipo –.

Oggi il meccanismo del dono si fonda su una scommessa, cioè su quel sistema di relazioni tra persone che
permette di sperare fiducia e fedeltà reciproche e attraverso le quali si possono raggiungere obiettivi
personali e collettivi. Un dono non potrà mai essere ricambiato fino in fondo, poiché il piano simbolico di un
oggetto non è traducibile né riproducibile in senso quantificativo, quindi il legame di reciprocità non si
estingue mai, dando vita a una spirale di relazioni sociali. Quando si parla di risorse disponibili all’interno
della rete di relazioni sociali, alle quali ogni singolo individuo può accedere come patrimonio individuale e
collettivo, si può parlare di capitale sociale.

Attraverso il dono, o lo scambio, si possono costruire legami, come abbiamo già detto, e appunto per
questo in economia possiamo definire la presenza di tre tipi di valore: valore d’uso, valore di scambio e
valore di legame. Il concetto di dono, dunque, ricolloca l’uomo al centro della società globale, proprio per la
sua proprietà di costruire intenzionalmente socialità. Dunque, si può dire che la comunità stessa non nasca
dall’interesse contrattuale e dallo scambio, ma dal dono, dalla relazione diretta tra pari, che si colloca sul
piano materiale e simbolico. Dall’etimologia stessa di symbolon, vediamo i simboli stessi come un’alleanza,
condivisi attraverso degli atti sociali come riti e performance. Alain Caillé afferma che il dono nasca dal
desiderio degli uomini di creare relazioni, e dà a questo atto fondante il nome di terzo paradigma, o
paradigma del dono, il quale fa capo a una regola originaria simbolica di solidarietà che trascende gli
individui e dà vita a un sistema sociale di rete attraverso l’intreccio di scambi.

L’azione teatrale stessa – onomatopea del dono – coincide con questo terzo paradigma: il teatro ha infatti
la potenzialità di creare significati condivisi per chi assiste. Si tratta della partecipazione a uno sguardo sul
mondo, che riattiva una relazione di alleanza e solidarietà tra i partecipanti. La relazione che si stabilisce tra
il teatro e chi vi assiste e partecipa è una relazione di dono. Il paradigma del dono – ossia quell’idea
secondo la quale gli uomini sono spontaneamente solidali tra loro e in grado di fare rete – fonda il metodo
del Teatro di Comunità. Se il dono è una forma di relazione sociale primaria e se ha un valore sia reale che
simbolico, in un lavoro di comunità bisogna tenere conto sia dell’azione socioaffettiva sia di quella
simbolica: nel primo caso parliamo di empowerment territoriale, nel secondo parliamo di una costruzione
della comunità attraverso processi e linguaggi di rappresentazione che diano la possibilità di pensare e
pensarsi in modo diverso. Questo secondo elemento legato al simbolo è fondamentale e, se assorbito, si
può parlare di competenza simbolica, estremamente efficace per la conoscenza di sé e per una strategia di
sguardo sulla propria realtà. L’atto teatrale e il lavoro di empowerment territoriale allora non sono due
processi separati o consequenziali, ma azioni biunivoche che generano un’esperienza di comunità
attraverso una doppia competenza: simbolico e sociale.

6.3.3. EMPOWERMENT TERRITORIALE: CAPITALE SOCIALE, LAVORO DI RETE E SOSTENIBILITA’


ECONOMICA

I meccanismi alla base del fare Teatro di Comunità possono essere letti nell’ottica dell’azione del dono,
controdono e contraccambio e danno vita a reti di relazioni che moltiplicano il valore del legame facendolo
diventare un patrimonio al quale attingere quotidianamente. L’idea della relazione come risorsa diviene un
concetto base della teoria della sociologia economica intorno agli anni Novanta. Secondo James Coleman
ciascun individuo gestisce un capitale fisico (risorse materiali), un capitale umano (risorse e competenze
individuali) e un capitale sociale (rete di relazioni familiari e sociali che portano a forme di reciprocità,
solidarietà e fiducia). Quest’ultimo è in parte ereditato e in parte costruito nel corso della vita
dell’individuo; nella maggior parte dei casi non è il frutto di una precisa intenzionalità; si delinea come un
dato situazionale e dinamico, quindi idoneo alla creazione di una visione capace di cogliere il cambiamento.
Alessandro Pizzorno distingue il capitale sociale di solidarietà (basato su legami di fiducia stretti, legami forti
fondati sul reciproco affetto) dal capitale sociale di reciprocità (basato su legami deboli che non riguardato
la rete stretta di relazioni che fa capo all’individuo).

Il dono è un’azione che costruisce capitale sociale di reciprocità, in quanto fonda una relazione su un
reciproco aiuto e mette in campo un fenomeno di riconoscimento reciproco tra persone.
Nel Teatro di Comunità l’attivazione di questo capitale è veicolo per la costruzione di un’identità collettiva e
per un aumento di empowerment sociale sul territorio. Il capitale sociale è una base di lavoro utile in tali
contesti, in quanto è una forma della relazione che favorisce la connessione sociale e valorizza i legami
deboli, in un processo di riconoscimento reciproco che predispone al cambiamento. In questo contesto
lavorativo si può parlare in termini economici, in quanto la valorizzazione del capitale sociale permette di
raggiungere un duplice obiettivo: l’ottimizzazione delle risorse finanziarie investite nel progetto, la
sostenibilità economica del lavoro di comunità. Il lavoro di rete e di formazione sul territorio permette di
trasformare un capitale finanziario in capitale sociale aumentando e moltiplicando il valore di legame e
quindi il valore economico complessivo del progetto.

I progetti di Teatro Sociale e di Comunità avviano un processo di presa in carico della comunità da parte del
territorio, promuovendo l’attivazione di un meccanismo sociologico ed economico virtuoso, attraverso un
percorso di formazione degli utenti. I professionisti del teatro sociale hanno come fine ultimo la propria
scomparsa: ci si pone l’obiettivo di rendere indipendente la comunità sul piano dell’attivazione di nuovi
percorsi interni. La formazione e l’empowerment delle risorse già esistenti rende possibile la riduzione del
numero dei professionisti esterni al territorio, con un conseguente abbattimento dei costi, nel tempo.

La comunità che incontriamo è sempre una comunità già competente, che vive nel progetto una
riappropriazione delle proprie risorse, dunque è necessario saper ottimizzare le reti di relazioni territoriali
per sviluppare i processi di reciprocità e solidarietà.

6.3.4. TEORIA DELLE RETI

La teoria piccolo mondo afferma che ogni persona sul pianeta è collegata a un’altra attraverso una
concatenazione di relazioni non molto vasta; ad esempio, per connettere un qualsiasi abitante della terra
con il presidente degli USA sarebbe sufficiente una catena composta circa da sei intermediari. La teoria,
detta dei sei gradi di separazione, permetterebbe di mettere facilmente in contatto non solo le persone ma
anche le comunità locali. Un piccolo mondo è una rete all’interno della quale notizie, racconti, informazioni,
relazioni si propagano a velocità maggiore.

Negli anni Settanta il sociologo Mark Granovetter provò ad approfondire tale teoria distinguendo tra legami
forti e legami deboli. Mostrò che i legami veramente indispensabili, quelli che formano dei ponti sociali tra
realtà differenti e che sono insostituibili, sono appunto i legami deboli. In ambito matematico si sono
occupati delle relazioni piccolo mondo due ricercatori, Duncan Watts e Steve Strogatz, che hanno
dimostrato come ogni rete che si costituisca casualmente e per accumulazione e sovrapposizione sia
composta da uno schema complesso costituito da ordine e disordine. Il grafo che risulta dallo schema può
essere descritto come una serie di relazioni locali collegate tra loro da legami forti e connesse ulteriormente
da un incrocio di ponti sociali costituiti da legami deboli: questi tengono in piedi la rete, che senza sarebbe
frammentata in tanti piccoli gruppi che non comunicano tra loro.

Il territorio in cui opera il Teatro Sociale può essere rappresentato come uno di questi grafi, comprendente
al suo interno gruppi di legami forti collegati tra loro da legami deboli. Sono questi semplici legami, a volte
occasionali e apparentemente superficiali, a essere centrali nel lavoro di costruzione comunitaria, in quanto
costituiscono la vera rete potenziale sul territorio. Nella pratica teatrale in questi territori si può constatare
come alcuni attori gestiscano una fitta rete fatta sia di legami forti sia di legami deboli: questi sono
considerati leader di comunità ed in un processo di Teatro Sociale costituiscono una forte risorsa di rete
anche per l’équipe di lavoro, essendo potenzialmente dei referenti di comunità. In questo contesto si punta
all’ottimizzazione della comunicazione nella rete, dunque investendo le proprie energie nella creazione
principalmente di legami deboli, i quali non sono necessariamente superficiali, ma possono rivelarsi di
qualità: un legame di qualità è un rapporto che costruisce significati condivisi e quindi genera relazioni di
civiltà; tali significati possono nascere dalla condivisione di un obiettivo, dalla partecipazione a un ideale, da
un comune senso di appartenenza. Il lavoro di rete moltiplica il canale sociale in quanto, se condotto con
metodo, aumenta esponenzialmente e migliora la qualità della rete di relazioni di comunità.

6.4. RICOSTRUIRE SIGNIFICATI CONDIVISI PER LA COMUNITA’: IL TEATRO

6.4.1. IL TEATRO COME AZIONE DI TRASFORMAZIONE

Nell’edizione della Biennale d’Arte di Venezia del 2009 Aleksandra Mir, artista statunitense di origine
polacca, ha presentato un allestimento dal titolo VENEZIA (all places contain all others). L’artista ha
stampato un milione di cartoline rappresentanti una serie di vie d’acqua da tutto il mondo; nessuna di
queste immagini riprende un luogo di Venezia, ma tutte contengono un elemento legato all’acqua che
nell’immaginario comune richiama la storica città, dunque il lavoro agisce sul piano dell’immaginario
comune e dell’identità stessa della città. L’opera della Mir è la messa in pratica in ambito artistico delle
teorie di Erving Goffman: secondo lui, che legge la vita e le relazioni in termini di metafora drammaturgica e
teatrale, l’oggetto del cerimoniale di ogni vivere civile è il sé (self), che viene presentato dall’individuo sotto
una “giusta luce”, a seconda di come l’Io voglia presentarsi ed essere conosciuto. Così il self è creato dal
nulla attraverso un rituale ed è frutto di una situazione sociale, effetto drammaturgico di una scena
rappresentata.

Per Goffman non esiste nell’individuo un Io psicologico che costituisce la verità della persona e che si
nasconde dietro diverse maschere, ma il self è formato dalla somma di tutte le rappresentazioni che
l’individuo dà di sé agli altri e dal modo in cui queste vengono percepite: nella determinazione e formazione
della propria identità l’Io non basta a sè stesso, ma necessita della relazione.

Nel corso del Novecento si è andata affermando la volontà di un ritorno alle origini verso la funzione sociale
del teatro, per la capacità di tessitura dei rapporti umani e di costruzione della persona. Maestri come
Stanislavskij, Mejerchol’d, Artaud e Copeu lavorano fin dai primi decenni del secolo per riportare la pratica
teatrale alla sua funzione simbolica e rituale: il teatro si definisce sempre di più come luogo di
sperimentazione e veicolo di trasformazione per l’individuo e per la comunità. Nell’ambito della ricerca
teorica Richard Schechner allarga il concetto di teatro a una molteplicità di attività performative e conia il
termine actual per descrivere l’evento teatrale ricollocandolo nell’hic et nunc a cui radicalmente
appartiene. Schechener, in un contesto storico postmoderno caratterizzato dalla mancanza di rituali di
passaggio condivisi di tipo arcaico, riconosce nell’evento teatrale la possibilità di una funzione rituale
liminoide di trasformazione.

Il concetto di teatro come rituale liminoide è poi concepito e sviluppato da Victor Turner (prima parte del
libro): egli colloca il teatro a fianco del concetto di comunità, attribuendogli una funzione di ritessitura
sociale, capace di contrastare l’atomizzazione di una società individualistica. Con Turner si gettano le basi
teoriche per un Teatro di Comunità. Nella finzione autentica del teatro e nell’elemento dell’infinitamente
possibile della categoria del “come se” possiamo agire noi stessi secondo differenti forme ma anche
guardarci attraverso l’azione mimetica di chi ci sta di fronte. Il Teatro di Comunità richiama fortemente la
questione del pubblico, riflettendo su come il teatro possa essere esperienza vivificante e trasformativa
anche per chi vi assiste in quanto spettatore; esso, come forma d’arte e veicolo di trasformazione, adotta il
principio secondo cui i procedimenti di lavorazione del materiale devono provenire dalle caratteristiche del
materiale stesso. La comunicazione ha l’obiettivo di fare di un pubblico una rete di persone in sintonia su un
tema, al di fuori del tempo circoscritto e autoreferenziale di festival, rassegne ecc. Il teatro edificio non ha
più senso civile nella città, perché essa oggi non è più un territorio comunitario capace di conferire a quello
spazio teatrale lo statuto di luogo.

Oggi il teatro ha bisogno di recuperare la capacità di essere un luogo, questa necessità si incontra con
quella dei territori di recuperare il proprio spazio del vivere. Il Teatro di Comunità è un teatro dei luoghi,
dove lo spettatore incontra l’evento in uno spazio denso di significato. Lo sviluppo di una dimensione
teatrale, che fornisca una competenza di autorappresentazione, costituisce di per sé una risorsa economica
di trasformazione per la comunità.

6.4.2. L’INTERVISTA E LA PRESENZA

Il lavoro dell’intervista, gestito dal professionista del teatro sociale con competenze teatrali e relazionali, è
utilizzato come strumento per avvicinarsi alle persone, costruire un dialogo e raccogliere dati rispetto
all’attualità dei contesti incontrati. Il racconto diviene per entrambi gli interlocutori una possibilità che
agisce sulla percezione della propria esperienza, del proprio ruolo e della propria condizione.

Interessante è un discorso sulla pratica della presenza, dell’esercizio del qui e ora. A partire dal lavoro di
Stanislavskij e Copeau fino a Brook e Grotowski, il lavoro dell’attore si definisce sempre più come una
disciplina rigorosa che prevede l’esplorazione di sé, la ricerca e la sperimentazione nella pratica dello stare
al mondo. Barba inserisce la consapevolezza o presenza come uno dei principi teatrali interculturali
fondamentali in ogni forma performativa. Questo perché il nostro cervello, lavorando per la propria
conservazione, tende spontaneamente a compiere azioni automatiche e ordinarie, lontane dal rischio;
mentre il lavoro sulla presenza porta a uno stato di benessere psicofisico, tanto da essere utilizzato anche in
ambito clinico e psichiatrico (mindfulness), in quanto attiva le zone della corteccia prefrontale, preposta alla
gestione delle relazioni sociali e morali dell’individuo e ci permette di attivare un processo empatico.

L’intervista integra la narrazione di sé con la pratica della presenza attraverso una competenza teatrale e
drammaturgica: ha una finalità generale (l’attivazione di un benessere psicofisico) e un livello di ricerca
teatrale specifica (l’indagine sul piano rappresentativo e simbolico). L’intervista può essere utilizzata nel
processo creativo del gruppo e la messa in azione teatrale di un tratto di biografia permette due importanti
passaggi: il narratore prende ancora più consapevolezza di ciò che dice, mentre la comunità accoglie la
narrazione riconoscendola come parte della propria memoria.
Il culmine dell’incontro è il momento in cui l’identità viene narrata, resa visibile e interpretata attraverso tre
possibili livelli teatrali: il piano drammaturgico testuale (epica, scena, personaggi), il piano di allestimento
della drammaturgia (scenografia), il piano archetipico e mitico (creazioni simboliche, analogie). La capacità
di saper riconoscere nel reale il suo piano metaforico e simbolico e tradurlo in immagini attraverso simboli,
miti, archetipi, è ciò che abbiamo perso e che ci permetterebbe di riconnettere l’esperienza del nostro
presente con un livello umano universale. Si ritorna a sé stessi in un contesto di comunità, affrontando temi
che portino a una purificazione dell’animo, a partire da una presa di contatto con una condizione profonda
dell’esistenza, provando un sentimento autentico del vivere.

6.5. UN ESEMPIO DI FORMAT DI COMUNITA’: IL PROGETTO <<LO SPLENDORE DELLE ETA’>>

6.5.1. PREMESSA: FORMAT FESTIVO E DRAMMATURGIA DI COMUNITA’

Operiamo sin da subito una distinzione tra la drammaturgia di comunità, che è sempre esito di un processo,
e il format festivo/schema vuoto di azioni teatrali, che può collocarsi in qualsiasi momento del percorso.
Lo schema vuoto di azioni teatrali è stato inventato da Giuliano Scabia nel contesto dell’animazione teatrale
e consiste in un canovaccio di azioni aperte, caratterizzate da un macrotema o da un personaggio mitico. La
drammaturgia di comunità è costituita da una componente rituale universalmente riconoscibile e da una
drammaturgia di testi, canti ecc. legata al contesto della rappresentazione: i luoghi della rappresentazione
hanno sempre un’identità precisa, un significato di per sé. Anche nel caso in cui la drammaturgia di
comunità sia inserita in un contesto festivo, mantiene un linguaggio più rituale, lavorando sulla soglia, tra
elementi universalmente riconoscibili e tempo protetto.

6.5.2. IL PUPAZZO DI PAGLIA E IL MINESTRONE Il format festivo Il Pupazzo di Paglia e il Minestrone nasce
nel contesto del progetto teatrale Lo Splendore delle età, promosso dal Centro Regionale Universitario per
il Teatro, e rivolto ad anziani, operatori sociali e delle Residenze Sanitarie per Anziani, studenti universitari e
cittadini. Obiettivo alla base del progetto è il superamento dello sguardo che legge la vecchiaia come una
malattia da contenere, separare e intrattenere con attività e passatempi occupazionali: l’ampio spazio di
libertà e tempo lasciato all’anziano, lontano dall’ottica feriale dell’impiego lavorativo quotidiano, vuole
essere valorizzato.

Nel caso dello Splendore delle età l’esperienza del format di comunità si incontra con il lavoro del baratto
dell’Odin Teatret. Il baratto nel progetto incontra l’evento Il Minestrone: nel territorio delle Vallette,
quartiere popolare costruito intorno al carcere di Torino alla fine degli anni Cinquanta, una parata di
quartiere (musicisti, clown, studenti, bambini ecc.) bussa di porta in porta per chiedere una verdura
qualsiasi per preparare un grande minestrone di comunità che verrà distribuito durante la festa di
quartiere, a cui è invitato chiunque doni anche solo un ortaggio. Il lavoro di raccolta contribuisce alla
creazione di una rete territoriale in quanto mette in contatto, su un’azione primaria archetipica, individui,
gruppi e comunità. I tempi e le azioni che accompagnano la parata sono dettati dal capitano del coro e a
capo della parata viene portato un enorme pupazzo di paglia, elemento di matrice contadina e popolare.
Parliamo di una modalità di azione preordinata, di un caos programmato: la realizzazione della parata è
occasione per un lavoro di processo durato quattro mesi, in cui l’équipe di conduzione stabilisce il percorso
della parata e attiva un processo di comunicazione e sensibilizzazione dell’attività rivolto al quartiere.

Non è l’evento teatrale a generare comunità e a promuovere azioni di empowerment territoriale, ma è


attraverso il lavoro progettuale di comunità che si crea l’azione festiva.

6.6. CONCLUSIONI: GUARDARE ALLE ORIGINI, OLTREPASSARE I CONFINI Sviluppare, attraverso un sistema
strutturato di azioni, la dimensione relazionale interpersonale e la dimensione di reti di relazioni che
caratterizza un sistema comunitario, diventa oggi una risorsa concreta e necessaria nella nostra
contemporaneità. Fare “come si faceva una volta”, valorizzare una dimensione locale di comunità, con la
coscienza storica e le conoscenze scientifiche e tecnologiche di oggi.
Il teatro può riportare alla luce sentimenti perduti come la fiducia e la fratellanza, ricreando quel senso di
identità collettiva che già promuove la condivisione di risorse. Fare comunità oggi è un dovere etico e ormai
una necessità vitale. Una comunità che incontra e crea il proprio teatro è una comunità in grado di attivare
percorsi di sviluppo autonomi.

CAPITOLO SETTIMO

DRAMMATURGIA E TEATRO SOCIALE. FONDAMENTI STORICI E LINEE METODOLOGICHE DELLA SCRITTURA


SCENICA NEL LAVORO TEATRALE DI COMUNITA’ (Ghiglione)

7.1. INTRODUZIONE La drammaturgia fa riferimento a una competenza e un ruolo specifici.


Questa crea le condizioni perché la comunità possa compiere delle azioni di espressione e comunicazione,
raccoglie e sviluppa i diversi linguaggi e le diverse esperienze, ne coglie la specificità teatrale, li mette in
contatto con l’orizzonte simbolico e storico collettivo, per poi comporli in un’azione di rappresentazione.

A partire dalla seconda metà del Novecento è possibile parlare di drammaturgia come arte della creazione,
selezione e composizione di azioni teatrali e di un ruolo, quello drammaturgico, che viene assunto di volta
in volta da diverse figure della creazione teatrale.

7.2. LA DRAMMATURGIA NEL TEATRO DEL NOVECENTO: UNA RIFONDAZIONE DELLO STATUTO, DEI RUOLI
E DELLE PRASSI

Nel Novecento, istanze di rifondazione antropologica, linguistica, sociopolitica investirono l’intero statuto
del teatro del secolo XIX: dall’attore all’autore, dal testo alla scena, dall’edificio alla partecipazione del
pubblico, dalla dimensione estetica a quella rituale. Maestri pedagoghi, gruppi, movimenti, singoli artisti
sono protagonisti di una trasformazione radicale dell’arte della rappresentazione, che muove i primi passi
tra Otto e Novecento proprio dalla messa in discussione del ruolo dell’attore, del testo e della
subordinazione della messa in scena alla scrittura. La fondazione della drammaturgia contemporanea e
dell’apparato metodologico avviene lungo i due assi storici della crisi del teatro come testo (nel teatro di
rappresentazione) e l’allargamento della nozione stessa di teatro alle aree della ritualità festiva.

7.2.1. LA DRAMMATURGIA NEL TEATRO DELLA RAPPRESENTAZIONE

Il teatro della rappresentazione è il teatro che si identifica con la produzione dello spettacolo (diversamente
dal teatro della presenza). In questo tipo di teatro il termine drammaturgia indica il processo che dà vita
appunto alla performance finale e la performance stessa. Il termine è infatti storicamente ambivalente,
facente riferimento tanto al testo quanto all’azione.

Nel Cinquecento la drammaturgia viene codificata come la scrittura verbale di un testo teatrale, in un
contesto culturale in cui si stava passando da cultura orale a cultura verbale scritta, dunque si ha il
prevalere di una drammaturgia grafo-centrica; lo spettatore è posto a debita distanza dalla scena, deve
tenere una condotta silenziosa e contemplativa; si parla di autore teatrale come professionista
appartenente al mondo delle lettere; l’operazione di allestimento o messinscena è distinta e autonoma
dalla scrittura e prevede un’illustrazione del testo, non una sua interpretazione. Il testo drammatico ha
tuttavia insita in sé l’intenzionalità rappresentativa, in quanto è scritto per essere agito: il fatto che alcuni
drammaturghi fossero anche uomini di lettere non ha forse consentito di riconoscere fino in fondo la
specificità di una creazione drammaturgica fondata sul segno-azione e non sul segno-parola.

Tra Otto e Novecento, la scena diviene lo spazio tematico in cui nulla veramente accade, dove la crisi del
soggetto, la sua inerzia si oggettivano. Nasce il dramma moderno con Ibsen, Cechov e Strindberg, ma è con
l’opera di Bertolt Brecht che, per la prima volta, la scena determina in modo del tutto nuovo la scrittura
testuale. Siamo agli albori di quella che verrà poi chiamata scrittura scenica, ossia un modello di teatro che
si sviluppa dalla messa in crisi del testo e dell’autore. Nel teatro delle avanguardie storiche di inizio secolo,
la decostruzione della priorità del testo drammatico è radicale: la scena è un sistema di segni, non un
sistema di trasposizione di segni, e tra i segni sono quelli visivi a risultare più efficaci per l’esplorazione della
complessità antropologica e sociale. Artaud apre la ricerca teatrale nella direzione di un linguaggio
sensibile, che parli ai sensi, che evochi il sommerso e sia in grado di contagiare attraverso i suoi segni. I
Meininger propongono un nuovo ruolo degli elementi scenografici nella costruzione del senso dello
spettacolo; così nel teatro di regia la messa in scena diviene un’operazione creativa, critica e consapevole
compiuta da un soggetto professionista, dove la scrittura scenica è uno degli elementi linguistici
determinanti alla definizione dell’insieme. Con le teorie di Craig e di Appia il lavoro sulla scena, con
particolare attenzione agli aspetti visivi, viene a qualificare il progetto teatrale.

Il Novecento segna in modo definitivo il passaggio da una drammaturgia grafocentrica a una drammaturgia
sceno-centrica. La scrittura scenica viene descritta come una strategia operativa: parlare di scrittura scenica
anziché di dimensione scenica del teatro, vuol dire centrare l’attenzione sulla natura operativa che della
scrittura è propria.

Gli spettacoli sono costruiti sempre più con segni non verbali e attraverso processi di creazione centrati
sull’attore e sulle interazioni creative dell’ensemble, che sono essi stessi un atto di scrittura in senso
semiotico, di costruzione cioè di un discorso, di un sistema di segni. Anche nei casi in cui ci si basi su un
testo drammatico, lo spettacolo non si pone mai né come trasposizione scenica del testo né come
interpretazione e rilettura critica. Sull’altro versante, comincia a farsi strada una nozione rituale del teatro
che rifonda la cultura teatrale sulla nozione del fare e declina la drammaturgia nei termini di un lavoro per
azioni fisiche.

È in questo ambito che si ha l’avvento del teatro-laboratorio, la nascita di un soggetto plurimo che è il
gruppo, la comparsa di una nuova dinamica relazionale, la pratica del training e la creazione per
improvvisazione. È il nuovo teatro: dell’happening, dei gruppi come il Living Theatre, di Carmelo Bene,
Grotowski e Barba. Poi il teatro della Postavanguardia, il teatro di Bob Wilson, rinnova quel rapporto con il
testo drammaturgico letterario che era stato esiliato dalle pratiche di teatro: tra la fine degli anni Ottanta e
i primi anni Novanta si parla di una sorta di ritorno al testo. Il testo entra come materia da esplorare e
mettere in gioco all’interno di un processo di scrittura, agito nell’improvvisazione e nella creazione fisica
dell’attore. La ricerca prende diverse direzioni: va verso la struttura narrativa e vede nascere un genere
teatrale, quello del teatro narrazione; va verso le categorie drammatiche classiche provando a scomporle;
va verso la verbalità in termini specifici, portando le parole in territori lontani dal quotidiano.

La scrittura diviene parte del processo di creazione, ricerca e ideazione; in ordine con la priorità del fare
sull’interpretare. Questa nuova forma di drammaturgia si afferma insieme alla comparsa della figura del
dramaturg. Già presente nel teatro tedesco con funzioni di consulente letterario del direttore artistico o del
regista, assume una nuova identità in Italia e Francia. Le modalità di presenza e di intervento del dramaturg
nel processo creativo variano a seconda del progetto e del tipo di operazione drammaturgica messa in atto.
La sua principale competenza è l’attenzione, come osservazione-integrazione del complesso sistema di
relazioni in atto durante un processo creativo e, in un’ottica del tutto nuova, il suo compito fondamentale è
quello di garantire l’efficacia del binomio espressione/comunicazione dell’atto teatrale. Il dramaturg
introduce, cioè, la scrittura virtuale dello spettatore, essendo in grado di vivere la scrittura dal punto di vista
di questo. La sua creatività è nell’ordine della maieutica e non in quella della paternità.
Con il dramaturg si fonda la categoria dell’autorialità non più sulla proprietà ma sulla relazione: è nella
capacità di mettere in relazione che ci si fa autori.

Durante gli anni Novanta al binomio regista/dramaturg si sostituisce la figura del regista drammaturgo, e la
contemporaneità ci pone di fronte a una molteplicità di progetti e forme drammaturgiche. La nozione di
drammaturgia è diventata centrale nel definire l’identità di un teatro che si cerca oltre le convenzioni sia
classiche che novecentesche, oltre a un’urgenza comune a diverse esperienze di un rinnovato rapporto
creativo con la comunità. Enzo Toma, Armando Punzo, Pippo Delbono, Antonio Viganò, Denis Gaita, Claudio
Misculin e altri stanno proseguendo infatti una ricerca teatrale tra e con coloro che vivono ai margini della
norma, che ha aperto nuovi territori alla drammaturgia. Il loro lavoro si colloca sul confine tra esigenze e
responsabilità della cura, ed estetica. La presenza di una persona con disagi in scena è un segno teatrale
complesso e, in questa ricerca di una contiguità estrema con la vita, c’è forse il bisogno di uscire dai confini
di un teatro autoreferenziale tanto nella sua antropologia e sociologia quanto nei suoi linguaggi. Dunque,
un desiderio di mondo è quello che ha attraversato nei primi anni Novanta una parte del teatro, per portare
sulla scena non la vita quotidiana a cui siamo abituati, ma proprio quella parte di mondo che non vogliamo
vedere, che scandalizza, che è nascosta.

Il regista-drammaturgo conduce il gruppo nell’esperienza della ricerca dei simboli durante la fase delle
prove; la sua funzione principale, in questa fase, è quella di osservare attentamente la proposta autoriale
degli attori. Si avvia così un processo di scrittura scenica al termine del quale inizia la fase drammaturgica di
montaggio dei materiali segnici nati durante l’improvvisazione. Questi spettacoli parlano di chi agisce in
scena, della sua condizione di persona al margine, oppure trattano di miti e storie che mettono a tema e in
figura alcuni aspetti della condizione e della vita degli emarginati. Più che a personaggi ci troviamo di fronte
a figure aperte, simboli drammatici a cui l’autenticità dei portatori di handicap o dei malati psichiatrici o dei
detenuti dà sostanza. L’intenzionalità comunicativa è forte: si parla di progetti rivolti a, fatti per chi sta
seduto oltre la scena. Musica. Danza. Parole. E soprattutto corpi. Quello che più colpisce in questi spettacoli
sono i corpi perché è nel corpo il segno della diversità di queste persone. Sono corpi costituiti dagli eventi
della vita che vi ha lasciato dentro le sue ferite, corpi drammatici, corpi margine, corpi in cui è inscritta la
crisi, che raccontano i mutamenti drammatici che appartengono alla vita e insieme li fanno accadere lì nella
relazione con gli oggetti, la musica, le parole e gli altri corpi.

7.2.2. DAL TEATRO ALLA TEATRALITA’: LA DRAMMATURGIA OLTRE LO SPETTACOLO La storia del teatro
del Novecento è segnata da due grandi rivoluzioni. La prima vede la crisi del testo drammatico a favore di
una scrittura scenica e un’apertura nei confronti della realtà e delle condizioni di marginalità. La seconda
vede la messa in discussione dello statuto stesso della rappresentazione come esperienza di separazione
dal reale: si adotta il metodo dell’improvvisazione in spazi aperti, per riportare l’arte a contatto con la
realtà, cogliendo e sfruttando tutto ciò che irrompe nel qui e ora della performance.

In origine ci sono John Cage, Merce Cunningham e i primi happening rivoluzionari con danza, musica, azioni
teatrali e l’interazione con l’imprevisto del qui e ora dell’incontro con un luogo e un pubblico. Niente
struttura, niente testo, ma elementi drammaturgici in azione in una situazione aperta. Nasce la
drammaturgia performativa, dove il processo della rappresentazione è un processo aperto; il ruolo del
drammaturgo tende a scomparire e si occulta quello dell’attore; mentre il ruolo dello spettatore tende a
convergere verso la possibilità di autorappresentarsi, di non essere più esterno, dipendente o marginale.

Prendono forma i viaggi in territori lontani e vicini, tesi all’incontro con culture diverse per ricercare
elementi comuni attraverso le pratiche teatrali; l’attività teatrale si fonde con la militanza politica e l’azione
sociale alla fine degli anni Sessanta; inizia quella forma nota come Teatro vagante, con la finalità di
risvegliare la creatività popolare e quotidiana. Spettacolo e processo creativo si avvicinano sempre di più
fino a coincidere.

Il teatro si dilata nella teatralità, la scena nella performance: dalle diverse esperienze vengono alla nuova
drammaturgia prospettive e modalità di lavoro altrettanto innovative quanto quelle evidenziate dal
rinnovarsi della scena, come la contaminazione linguistica tra alto e basso, l’uso di una simbologia iconica
che rimandi sia ai miti collettivi sia alla quotidianità, il mito stesso.

Tempo e spazio, ritmo e spettatore, risultano quattro elementi significativi ai fini del lavoro drammaturgico
nel teatro sociale. La scelta di dove e quando accada l’azione teatrale (in mancanza di un tempo e un luogo
deputato) diviene una scelta drammaturgica. Lo spazio assume significati diversi come il luogo dell’incontro
tra attore e spettatore, come momento di fruizione del luogo extra-quotidiano. Lo stesso si può dire del
tempo. Il ritmo, invece, è il risultato di un duplice lavoro: la fedeltà all’immediatezza, alla spontaneità
dell’intrecciarsi fra teatro e realtà, e la selezione degli elementi dispersivi, confusi, che finiscono per
indebolire il senso dell’esperienza. Infine, lo spettatore: il teatro accade mentre si fa, e lo spettatore agisce
un proprio ruolo attoriale e autoriale.

7.3. DRAMMATURGIA E TEATRO SOCIALE

7.3.1. IL PROGETTO COME DRAMMATURGIA

Finalizzato a fare dell’esperienza artistica un’esperienza di cambiamento individuale e collettivo, il lavoro di


teatro sociale è costituito da un processo complesso e lungo: progettazione, mappatura della comunità,
definizione del programma d’intervento, fase di processo (es. laboratorio), fase performativa di
comunicazione del processo (spettacolo), verifica e riprogettazione. Un progetto di teatro sociale lavora in
tutte le sue fasi con la costruzione di performance sociali e ogni azione del progetto è già un’azione di
rappresentazione, in quanto espressione di un’intenzionalità comunicativa, di relazioni e di simboli.

7.3.2. LA DRAMMATURGIA NEL LABORATORIO DI TEATRO SOCIALE La creazione teatrale, fondata sulla
prassi del laboratorio, nasce storicamente con la drammaturgia scenocentrica dei gruppi degli anni
Sessanta e con la fondazione metodologica del lavoro di Grotowski. Il modello generale del laboratorio di
teatro sociale si sviluppa su tre percorsi: il training psicofisico, il training relazionale e l’esplorazione
drammaturgica. Non è sempre semplice, però, il coinvolgimento dell’intera comunità nei processi di
partecipazione, soprattutto in contesti periferici dove questa mostra con maggior evidenza la propria crisi.
Appare necessario trovare, dunque, forme teatrali che consentano alla comunità, come sistema articolato e
complesso di soggetti e di relazioni, di andare in scena.

Il teatro sociale consente ad una comunità, oltre che ai membri che la compongono, di affermare la propria
presenza, la propria identità, di riconoscersi come individui e di riconoscersi come un gruppo, come un noi.
Non si tratta solo di un “io esisto”, ma anche di un “ti vedo”; si tratta di corpi che testimoniano di sé di
fronte ad altri corpi, in una comunicazione diretta e immediata, dove lo sguardo dell’altro è ineludibile. È
un’azione politica e la rappresentazione di sé è il principale narrato di questo tipo di teatro, che va incontro
alla necessità profonda del non professionista di rivelare e affermare la propria identità. Cercare di
condurre il lavoro, invece, verso la neutralità attoriale del partecipante (come se si trattasse di un attore
professionista), sarebbe una richiesta inefficace, l’imposizione di una espressività che non gli appartiene.

Tutti i grandi pedagoghi sanno che il teatro è una pratica del tempo, è un viaggio che consente, attraverso la
tecnica, esplorazioni importanti di sé, purché disposte lungo un asse evolutivo dell’esperienza. Con la
consapevolezza del tempo, dunque, il conduttore propone ai partecipanti esperienze per-formative, in
un’ottica pedagogica, e non prestazioni, in un’ottica registica.

Saper vedere la teatralità è una competenza drammaturgica fondamentale per il lavoro di conduttore di
teatro sociale, ma di fatto si è culturalmente poco allenati a vedere, in un contesto in cui il proprio sguardo
è educato ad essere utilitaristico, interpretativo e ideologico. Lo sguardo del drammaturgo è l’opposto, è
uno sguardo vuoto, aperto, che richiede un’intimità fatta di tempo, gratuità e curiosità per il mistero.
Simone Weil l’avrebbe chiamata attenzione; i grandi maestri come Peter Brook parlano di ascolto. È
consapevolezza di un limite, desiderio dell'altro e attesa. A una cultura dell’esserci – appropriazione – si
contrappone una cultura dello stare – stupore. Alla performatività la poesia.

Nel segno artistico vi è una pluralità di significati. È l’opacità, la resistenza del segno a dire, a creare un
movimento di ricerca di senso. Il segno è qui e ora, ma ci parla di un altrove. Il teatro è anche per questo
l’arte più vicina alla vita: irriducibile a un solo significato, stratificata in significati secondo principi plurimi
(logici tanto quanto paradossali). Si parla di dimensione drammatica del segno e del linguaggio, in quanto la
stessa evidenza di questi testimonia una parte celata.

Saper vedere teatralmente, dunque cogliendo l’evidenza quanto l’ombra, richiede talento, sensibilità,
tecnica e allenamento. L’osservazione consente al conduttore da un lato di conoscere le persone con cui
lavora, dall’altro permette di cogliere le competenze espressive e comunicative, oltre che il linguaggio e il
mondo simbolico della persona e del gruppo. È solo a partire dal dato concreto di come parla teatralmente
e di come vive, sente, immagina un attore che è possibile fare teatro. Questa è la grande acquisizione del
teatro del Novecento: al centro della scena non c’è un tecnico, ma un uomo.

Il campo drammaturgico è lo spazio della ricerca teatrale intorno al “che cosa” di cui si parla. Nel caso di un
processo di lavoro aperto il campo viene delimitato attraverso l’esplorazione teatrale che il gruppo fa
interagendo con le proposte del conduttore. In processi aperti, la drammaturgia collettiva è solitamente
segnata da una forte connotazione autobiografica: si va così definendo uno scenario (sorta di testo guida)
che diviene uno strumento di lavoro, di ulteriore esplorazione. Quando, invece, si ha un tema che
predefinisce il campo drammaturgico, questo si può declinare sotto forma di una condizione o situazione,
oppure attraverso una forma di testo già strutturata. Il conduttore deve conoscere questo tema, per
comprendere se possa essere efficace e adatto all’esperienza del gruppo stesso. È sempre utile che il
conduttore dunque porti avanti una propria ricerca drammaturgica personale sul tema: affinché possano
emergere i patrimoni personali e collettivi del gruppo, il conduttore deve saper entrare in contatto
innanzitutto con il proprio patrimonio e nutrirlo.

Il conduttore deve saper tenere in contatto il mondo del gruppo col mondo esterno nel modo giusto, senza
far cortocircuitare i segni, le emozioni ecc. della comunità con cui stia lavorando, comprendendo fino a che
punto sia giusto immettere nell’esperienza elementi non concepiti all’interno dell’esperienza stessa. Si deve
tentare di fare in modo che il laboratorio di teatro sociale non sia un luogo narcisistico di conferma dei
propri stereotipi culturali e una cassa di risonanza della comunicazione quotidiana di quella comunità.

7.3.3. LA DRAMMATURGIA DELL’EVENTO SPETTACOLO Lo spettacolo è un momento fondamentale del


lavoro di teatro sociale che lo differenzia rispetto, per esempio, alle pratiche di teatroterapia o di
animazione; nell’esperienza della realizzazione dello spettacolo, il gruppo si apre all’esterno e sposta la
dialettica interna fuori di sé.

Accade talvolta, però, che si verifichi invece una frattura tra la fase laboratoriale e la preparazione dello
spettacolo, tanto da richiedere l’annullamento della performance conclusiva. Può accadere, infatti, che
l’uno diventi lo spazio della libertà e l’altro quello della costrizione. In alcuni casi l’intero laboratorio può
assumere le sembianze di una preparazione alla rappresentazione finale.

Appare evidente come la capacità di stare in ascolto crei le condizioni di uno sguardo attivo che sappia
rispettare la creatività dell’attore e del gruppo e governarla in una ricerca consapevole della verità teatrale
e umana che si stia manifestando. Questa competenza maieutica è imprescindibile, in quanto la finalità
estetica del progetto è fortemente coniugata a quella etico-sociale, dunque non si può dare cambiamento
senza intenzionalità e soggettività delle scelte e delle azioni da parte dei partecipanti.

Lo sguardo attivo del conduttore ha dunque la responsabilità di riconoscere la qualità comunicativa di


un’azione teatrale, di riconoscere quale azione sociale sia fondamento e esito dell’azione teatrale, per
trovare il giusto linguaggio, adatto a far sì che quel gruppo parli effettivamente alla comunità, o meglio, che
la comunità, nel suo complesso, si parli attraverso il teatro.

7.3,4 LA COSTRUZIONE DELLO SPETTACOLO A conclusione della fase di laboratorio ci si ritrova pieni di
materiali drammaturgici, frammenti di esperienza teatrale attorno a un tema, a una condizione, a un testo,
i quali devono essere selezionati e composti. Il conduttore interviene a questo punto per costruire la forma
più efficace di rappresentazione rispetto a quanto emerso in termini di espressione e intenzione.

La selezione degli elementi raccolti durante il percorso laboratoriale è un’operazione delicata, che richiede
sensibilità, equilibrio e attenzione, per raggiungere il motore profondo dell’esperienza, il cuore stesso.
Quest’ultimo ha a che fare con le finalità del progetto, le dichiarazioni esplicite dei partecipanti, ma anche
con tutti i vissuti che sono stati mobilitati e soprattutto con la trasformazione che è accaduta. Se nelle prove
c’è stata esperienza creativa, vuol dire che si è prodotto anche un cambiamento, nei corpi e nelle relazioni:
questo cambiamento è il cuore dello spettacolo, il criterio guida per la selezione dei materiali.

Il lavoro con i non professionisti richiede una maggiore professionalità, nonché diverse accortezze: deve
essere un’esperienza democratica e paritaria, dunque per tutti deve esserci la possibilità di avere un ruolo,
e le loro azioni teatrali devono essere efficaci a stabilire una comunicazione con il pubblico. Questo, però,
non è un pubblico generico e anonimo, anzi, è l’insieme dei soggetti che formano la comunità in cui si
colloca lo stesso lavoro teatrale, è dunque uno spettatore che ti conosce.

Inoltre, poiché la forma non è più culturalmente data, a seguito di tutte le esperienze teatrali
novecentesche che hanno smontato le diverse nozioni di dramma e spettacolo, si tratta di sceglierla. La
scelta può essere un fatto di cultura teatrale del conduttore e del gruppo, oppure dipendere da una serie di
vincoli esterni: si può parlare ad esempio di un teatro da guardare (distanza netta tra scena e platea) e di un
teatro da agire (spettatore in piedi invitato a fare alcune azioni). Ciò che è importante sottolineare è
appunto la capacità di mobilitazione profonda che la forma produce nello spettatore, e nella relazione
spettatore-attore. La scelta della forma è sempre l’esito di una molteplicità di fattori, tra cui i materiali
espressi dal gruppo, la poetica del conduttore, le risorse materiali e tecniche, le competenze attoriali e
quelle spettatoriali.

Il teatro sociale si fonda su una autorialità degli attori e sulla esplorazione espressiva e creativa della
relazione tra persona e materia, dunque un teatro che consideri il testo come portatore dei sensi di cui
l’attore si fa interprete è un modello di drammaturgia che non ha senso nel teatro sociale.

La composizione dei materiali drammaturgici è una scrittura che lavora lungo l’asse della temporalità e
quello della spazialità. Anche quando mantiene una tensione narrativa, la linearità drammatica procede per
ellissi, focalizzazioni, sinestesie ed è costituita da una successione di quadri-situazioni. Il loro accostamento,
ovvero il montaggio, è determinato dal tipo di esperienza che si vuole produrre nello spettatore: il ritmo del
montaggio produce il dramma. È l’esperienza percettiva stessa che funziona attraverso un montaggio di
elementi.

Porsi drammaturgicamente nei confronti dello spettacolo significa lavorare perché ogni segno sia una scelta
linguistica, che avviene a partire dal contatto con la concretezza di persone che si conoscono, sia gli attori
sia gli spettatori.

Nel teatro sociale la ricerca di una dimensione verbale autentica è uno degli specifici del lavoro
drammaturgico e se il percorso è stato efficace sul piano dell’esperienza psicosociale anche la verbalità sarà
segnata da una dimensione di maggiore fisicità. Tutto il lavoro sul piano del linguaggio verbale è quello di
ritessere un vocabolario e una sintassi incarnata nell’identità di chi parla. Sono molte le strade per
reincarnare il linguaggio verbale e restituirgli la sua valenza poetica: lavorare sugli idioletti delle singole
comunità, sul dialetto, oppure andare a riprendere esperienze di parole come il linguaggio biblico o quello
epico-popolare. Il teatro sociale offre uno spazio radicale in cui verificare che la parola teatrale non è mai
un luogo pacificato di rappresentazione della realtà, ma il luogo di massima tensione tra la necessità di
comunicare e la densità drammatica dell’esperienza umana.
Nel teatro sociale lo spettacolo è quasi sempre un evento, inscritto nell’area della ritualità. La scelta del
luogo e del tempo non possono dunque essere casuali: fare uno spettacolo in un certo luogo, in un certo
tempo, significa agire attraverso il teatro dell’esperienza storica della collettività con un’intenzionalità
precisa da parte del gruppo. Il teatro si inscrive così nell’area della nuova ritualità contemporanea, come
momento festivo nella quotidianità dei luoghi e dei tempi, dove la festa è nell’ordine di una frattura, di una
sospensione, di un sovvertimento profondo della visione, in cui un mondo altro è mostrato come possibile.
In tale epifania la bellezza si fa civiltà.

7.4. CONCLUSIONI In un momento storico in cui molto teatro ha perso contatto sia con l’esperienza delle
persone che con le forme della loro comunicazione, il teatro sociale può rinnovare il legame tra arte e reale,
tra comunità e teatro, riaprendo una ricerca artistica a partire da concreti universi relazionali ed espressivi,
e dove è possibile riconoscere e rimettere in azione la tensione utopica dell’arte.

Si va in una direzione di una maternità generativa di processi creativi fondati sulla valorizzazione delle
relazioni e delle competenze individuali, e ci si allontana dall’idea di una paternità univoca e autoritaria
della creazione.

Il drammaturgo accompagna in un viaggio, che è anche il suo viaggio, una comunità alla scoperta, alla
trasformazione e all’invenzione dei propri linguaggi e del proprio immaginario. Al drammaturgo è
necessario un ampio patrimonio culturale e un profondo patrimonio di umanità; egli sa che la
rappresentazione teatrale rende presente la vita in una densità retorica che è la via del teatro alla
conoscenza stessa della vita. Da ciò può accadere che l’artigianato si faccia arte e il teatro poesia.

CAPITOLO OTTAVO

LA DANZA EDUCATIVA E DI COMUNITA’. CENNI STORICI E METODOLOGICI (Fabris)

8.1. RIFLESSIONI PER UNA FONDAZIONE DELLA DISCIPLINA Gli Studi di danza abbracciano il campo delle
scienze sociali per formulare nuove leggi operative che possano essere utili a interpretare criticamente i
processi storici e per proporre soluzioni alle istanze attuali. L’ambito di ricerca di chi scrive si muove dalle
teorie del teatro sociale e di comunità sviluppate all’Università Cattolica di Milano da Mario Apollonio e
messe in pratica dal laboratorio milanese di Sisto Dalla Palma. Nella prospettiva culturale di Apollonio i
principi di base del teatro sono l’autore, l’attore e il coro nel loro dialogo circolare che fonda il processo
creativo. Il coro dà origine all’autore perché possa rivelare la verità attraverso un processo di mediazione.
Entro tale processo la vita di ognuno riacquista valore e ciascuno può così rispecchiarsi nell’immaginario
dell’autore, che a sua volta restituisce un progetto utopico alla comunità, in un’azione di rigenerazione
comune: il teatro, la danza.

Nella contemporaneità la condivisione di territori sempre più abitati ha moltiplicato le difficoltà di


convivenza, mentre le nuove tecnologie dei social network hanno costruito corpi virtualmente in
comunicazione fra loro, ma poveri di esperienze immediate con l’altro da sé. Il diritto alla danza per tutti si
configura oggi come un’istanza di rielaborazione della propria storia di vita insieme con gli altri, per essere
protagonisti della scena quotidiana. Attraverso tecniche diverse i corpi individuali si armonizzano nella
danza e rendono visibile quella sincronizzazione, quotidianamente invisibile, che è alla base di ogni
esperienza di comunicazione.

Il corpo come prima forma di esperienza dell’essere al mondo costituisce il punto di avvio di ogni
conoscenza; il corpo danzante, dunque, viene indagato come oggetto culturale, decifrabile in base
all’interpretazione di codici e convenzioni attraverso i quali agisce. È importante rilevare come ogni sistema
di training permetta di realizzare azioni fisiche socialmente e culturalmente determinate.

Negli studi di teatro sociale si possono rintracciare le linee guida per una metodologia della danza educativa
e di comunità. Si tratta di incrementare nell’operatore la consapevolezza di agire in una società complessa,
dove il lavoro con i corpi delle persone implica delle relazioni di potere che si muovono tra la condivisione e
l’imposizione creativa.

8.2. LA DANZA EDUCATIVA

Sul territorio parcellizzato della danza italiana, solo l’Accademia Nazionale di Danza di Roma è riconosciuta
dal MIUR quale ente per la formazione degli insegnanti di danza.

Franca Zagatti ha avviato un processo di democratizzazione nella fruizione della danza, progettando
interventi educativi nella realtà scolastica, perno della crescita democratica della persona nella società, fino
ad arrivare all’istituzione della figura professionale del danzeducatore e nel 2001 alla costituzione
dell’Associazione Nazionale Danza Educazione Scuola, poi ridenominata Danza Educazione Società.
La danza educativa sembra poter dare forma a un percorso scolastico di esperienze significative per il
bambino di oggi e la persona di domani, in un progetto volto a creare una diversa qualità della vita.

Rudolf Laban, attraverso le sue ricerche, scopre come il movimento sia uno strumento di conoscenza
inalienabile di sé stessi, del mondo che ci circonda e della possibilità di relazione con gli altri. Infatti, a
partire dagli interrogativi posti all’inizio del Novecento dalle madri e dai padri della danza moderna, si fa
strada un’idea olistica di uomo, considerato un’unità psicofisica in azione. Il discorso della danza come
educazione si inserisce nel più ampio contesto della discussione sul valore e la funzione delle arti all’interno
della scuola.

Nella riflessione anglosassone si raggiunge la certezza che l’arte sia una modalità di comprensione e
interpretazione dell’esperienza, e non soltanto una modalità di espressione. Nel contesto italiano, nel
tentativo di svecchiare una scuola ancora molto elitaria, Franca Zagatti sostiene che la danza e il suo essere
esperienza artistico-espressiva siano efficaci in un processo operativo di apprendimento estetico, e non
come percorso disciplinare finalizzato al raggiungimento di particolari capacità tecniche. Possiamo definire
la danza educativa come quel particolare tipo di danza riferibile al contesto scolastico, finalizzata alla
formazione della persona globalmente intesa e in particolare alla consapevolezza espressiva del bambino.

Le radici della danza educativa affondano nella pedagogia attiva di John Dewey e nella sua concezione di
learning by doing: il discente viene guidato attraverso un procedimento di risoluzione dei problemi, che non
prevedono un modello da imitare, ma delle ipotesi di movimento da verificare. Il modello è l’art model di
Jacqueline Smith-Autard, che distingue le tre fasi del processo di apprendimento in creating, performing,
appreciating: il bambino può attraversare rispettivamente il momento esplosivo, esecutivo e analitico.
Sono stati Margaret H’Doubler – attivando nel 1917 un corso per insegnanti di danza all’Università di
Madison nel Wisconsin – e Rudolf Laban – fondando a Londra, nel secondo dopoguerra, il centro di
formazione, oggi università, Trinity Laban Conservatoire of Music and Dance – a fornire un riconoscimento
scientifico alla disciplina della danza educativa.

Franca Zagatti ha individuato quattro parametri di danza per il contesto scolastico:

1) corpo: osservare che cosa si stia muovendo, percepire lo schema corporeo e l’anatomia;

2) spazio: osservare dove ci si stia muovendo, quanto spazio si stia utilizzando, quali siano le direzioni prese,
quali percorsi e tracce vengano disegnate attraverso le tre dimensioni;

3) dinamica: riconoscere le qualità e l’energia del movimento rispetto alla percezione dell’impulso interiore,
dunque identificarne il peso, il flusso, il tempo e lo spazio;

4) relazioni: che possono stabilire le parti del corpo tra loro, le persone tra loro o con gli oggetti.

I punti da seguire in un percorso di danza educativa sono l’individuazione della necessità dei discenti, e
delle conseguenti finalità del processo, la scelta del numero di incontri, della fascia d’età coinvolta, degli
strumenti di valutazione, e in fine la suddivisione per fasi: questa è fondamentale per rendere ogni incontro
uno spazio protetto, un tempo altro rispetto alla quotidianità scolastica. Qualora gli spazi dovessero essere
gli stessi delle normali lezioni, bisognerà riqualificare il luogo con un rito di passaggio.

La danza educativa organizza i propri laboratori, infatti, con un’accoglienza iniziale, che serve per salutarsi e
creare un clima positivo, oltre che per comprendere lo stato di partenza dei bambini coinvolti; poi ci si
dedica a un riscaldamento corporeo complessivo, che permetta ai bambini di attraversare i tre livelli di
spazio (sdraiati, seduti e in piedi); poi c’è la fase dell’esplorazione, per individuare l’obiettivo del movimento
attraverso stimoli verbali, tattili, visivi e sonori; quarta fase è la composizione che permette di cooperare
alla costruzione di una coreografia; infine, la fase della conclusione, può prevedere l’osservazione fra gruppi
di quanto emerso nella composizione.

L’esperienza di danza dovrebbe costruire per tutti un momento di libera espressione organizzata, dove
ognuno possa riconoscere con fiducia le proprie capacità, sentirsi parte di un gruppo con un obiettivo
comune. Nel contesto istituzionale attuale il ruolo del conduttore assume i contorni del mediatore artistico
che attraverso il saper fare, il saper far fare e il saper essere si pone come obiettivo la condivisione della
danza. Il danzeducatore è, infatti, una figura professionale che promuove un linguaggio artistico ed
espressivo del corpo attento al benessere psicofisico della persona.

8.3. LA DANZA DI COMUNITA’ La danza di comunità si definisce come forma di intervento artistico nel
sociale per rispondere all’urgenza di un diffuso disagio, dovuto alla tensione fra il desiderio di conquistare
uno spazio individuale e quello di appartenere a un gruppo, in una società in cui le comunicazioni si
rendono sempre più impersonali. L’operatore di danza di comunità è un artista-pedagogo con una forte
sensibilità etica, sociale e politica, disponibile a incontrare l’altro fino in fondo, conoscendone la
provenienza e la storia, a lasciarsi coinvolgere emotivamente, e a rifondare la simbologia del gesto e del
movimento a seconda delle necessità. È un facilitator, in quanto agevola la conoscenza di danza e crea
situazioni e atmosfere che favoriscono la comunicazione.

La metodologia della Community Dance si avvale di strumenti elaborati nel contesto culturale britannico a
partire dagli anni Settanta, sulla base delle ricerche di rifondazione della comunità attraverso la danza
creativa teorizzata da Rudolf Laban. Non solo la Gran Bretagna sostiene però progetti educativi e sociali con
una politica finalizzata alla diffusione della pratica della danza nelle scuole e nelle comunità. Anche l’Italia si
è ritrovata a realizzare un connubio linguistico tra danzatori e persone comuni e un intenso ciclo di pratiche
volte alla creazione, attraverso un processo di costruzione di comunità: parliamo di professionisti come
Franca Zagatti, Luisa Cuttini, Virgilio Sieni e altri. Un progetto pilota in particolare di formazione-intervento
di Community Dance ha segnato il radicamento della metodologia anglosassone nel territorio torinese:
Co.dance. Abitare corpi. Abitare luoghi (2012). 25 giovani performer tra i 20 e i 29 anni che, attraverso un
lavoro di creatività ed espressione con il corpo e la performance, hanno raccontato gli spazi della
quotidianità, i luoghi di crescita, d’incontro e di vita.

Questi giovani si sono congiunti poi con la comunità tutta, coinvolgendo una settantina di persone dai 3 agli
80 anni di età, professionisti e non, dando vita ad uno spettacolo dal nome Dimore, con la direzione
artistica di Luca Silvestrini. Si ha avuto un vero e proprio processo di creazione comunitaria, realizzato
attraverso interviste ai partecipanti, selezione di musiche adeguate, registrazione di rumori domestici per
costruire una drammaturgia che raccontasse l’immigrazione meridionale nel dopoguerra, il desiderio di
famiglia, i ricordi della casa d’infanzia, la gioia di cercare casa, la paura della guerra, la comunità in festa.

La danza così diviene manifestazione di sé e condivisione creativa che porta a sentirsi parte di un tutto.
I partecipanti di Dimore hanno avuto occasione di essere se stesi nello scambio democratico, di scoprirsi,
identificandosi in un cammino comune. La danza di comunità, come la danza educativa, utilizza il modello
metodologico della danza come arte elaborato da Jacqueline Smith-Autard sulle tre fasi dell’apprendimento
(fare, creare, osservare). Attraverso i processi di creazione danzata accadono epifanie di sé a sè stessi,
rivelazioni di sé alla comunità, si svelano nuovi sguardi possibili e si aprono nuove possibilità di
riconoscimento personale e sociale, nasce dunque un nuovo spirito di solidarietà.

CAPITOLO NONO

EVANESCENZE CREATIVE E POSSIBILITA’ TRASFORMATIVE. ELEMENTI DI DANZATERAPIA E QUESTIONI


EPISTEMOLOGICHE

9.1. LA RAPPRESENTAZIONE: INQUADRAMENTO STORICO Storicamente, il legame tra danza e terapia ha


radici molto lontane, quasi ancestrali: rimanda agli albori dell’umanità, ad antichi riti nei quali la danza era
utilizzata come mezzo di guarigione. Lo sviluppo successivo della danza nella storia della cultura occidentale
ha privilegiato un’evoluzione tecnico-formale che ha raggiungo il suo culmine nella codificazione della
danza classica di fine Ottocento. È merito di grandi ricercatori e danzatori di fine Ottocento e inizio
Novecento, aver scardinato l’egemonia del balletto classico riportando l’attenzione sul vissuto emotivo del
danzatore e sulla sua esplorazione personale, quali sostrati necessari e fondanti della creazione artistica:
questi portarono in primo piano le possibilità espressive, comunicative e relazionali del corpo, il legame tra
dimensione emozionale e corporea. In questa svolta culturale si situa l’origine tanto della danza moderna
quanto della danzaterapia come pratica clinica.

Le proposte delle pioniere della danzaterapia – Schoop, Chace, Whitehouse – suppongono tutte un legame
tra il corpo-movimento e le istanze inconsce e rilevano le possibilità terapeutiche nel fare laboratoriale più
che nell’esecuzione di una danza. Da queste prime esperienze di metà Novecento, la danzaterapia si è
sviluppata nel mondo occidentale avviando una pluralità di studi che hanno intrecciato la formazione
artistica con le teorizzazioni desunte da altre aree, quali la psicologia del profondo, la bioenergetica ecc.
In linea di massima si possono rilevare tre principali filoni, dei quali forniremo una sintetica descrizione: il
metodo Fux, l’Expression Primitive, la Dance-Therapy.

9.2. PRINCIPALI ORIENTAMENTI DANZATERAPEUTICI ED ELEMENTI DI DANZATERAPIA Secondo Maria Fux


la danza è terapeutica in quanto può produrre dei cambiamenti attraverso la possibilità di esprimersi, la
liberazione della creatività individuale e la relazione con sé, con lo spazio e con gli altri. Talvolta tale
metodo è risultato, però, troppo aleatorio e affidato alla sensibilità del danza-terapeuta. L’Expression
Primitive è un approccio al movimento che mira a cogliere l’ordine soggiacente, la struttura profonda della
danza e del movimento stesso, l’universalità delle regole che governano il gesto umano. Gli elementi
fondamentali della tecnica rimandano a una concezione ciclica della vita che abbraccia una dimensione
universale, stabilendo un legame tra microcosmo e macrocosmo, tra umano e divino.

L’approccio di Duplan, ideatore del metodo, è infatti un approccio di tipo antropologico e considera la
persona in modo globale; ha come obiettivi quello di promuovere autonomia, senso di responsabilità e
individuazione della specificità del soggetto a partire dal riconoscimento preliminare dell’appartenenza a
un’essenza collettiva; lavora nella direzione del risveglio sensoriale e dell’integrazione psicocorporea,
privilegiando il linguaggio corporeo e ostacolando i processi di interpretazione e di pensiero in tempo reale,
grazie all’incalzare del ritmo e alla ripetitività. L’Expression Primitive non è nata come pratica
danzaterapeutica, ma la sua applicazione in campo clinico si è rivelata particolarmente fertile.

France Schott-Billman ha inquadrato il lavoro di Duplan in un’ampia ricerca etnologica e in un’analisi


psicoanalitica, identificandolo come meccanismo dell’efficacia simbolica, in grado di articolare in nuove
rappresentazioni le simbolizzazioni errate nell’immagine di sé o delle pulsioni: attraverso tale metodo si ha
il trasferimento degli impulsi sulle immagini archetipali messe in gioco. Vincenzo Bellia ha teorizzato,
invece, che il metodo attualizzi sempre nuovi riti di passaggio sul piano esistenziale, evolutivo e relazionale
giocando sulla dialettica fra struttura ed esplorazione.
La Dance-Therapy di origine americana si è affermata in Italia soprattutto grazie alla scuola Art Therapy
Italiana (ATI) e alle attività di Paola de Vera d’Aragona. L’ATI fa riferimento a diverse matrici teoriche: le
riflessioni sul parallelismo tra processo creativo e processo terapeutico elaborate da Arthur Robbins, lo
studio del movimento di Laban, il sistema Laban-Kestenberg, il Movimento Autentico della Whitehouse, la
teoria delle relazioni oggettuali. L’impostazione generale di ATI ha indicato spesso una matrice
psicoterapeutica, tuttavia l’atteggiamento della scuola in alcuni casi è più cauto e si parla di iter a carattere
psicoterapeutico per quanto riguarda la formazione, e di setting terapeutico, in cui l’uso di modalità
espressive e la relazione terapeutica sono i principali fattori di un processo creativo di individuazione, per
quanto riguarda la specifica danzaterapia.

Il confronto e lo scambio tra le varie scuole di danzaterapia ha consentito una fertile contaminazione e una
circolazione delle varie acquisizioni specifiche: tra queste è possibile ritrovare elementi largamente
condivisi, come l’idea della danza come un’organizzazione basata su opposti, in grado di mettere in gioco
continuamente delle polarità fondamentali per la strutturazione psico-cognitiva dell’essere umano.
La danzaterapia, in quanto attività corporea e relazionale, può intervenire su schemi patologici e contattare
le parti sane della persona spesso racchiuse nei nuclei primordiali.

9.3. QUESTIONI EPISTEMOLOGICHE, PROBLEMATICHE APERTE È possibile procedere a una fondazione che
integri i vari approcci solo se si mantiene come punto di vista privilegiato la specificità della danza con le
sue proprie caratteristiche. Naturalmente un danza-terapeuta deve avere anche cognizioni psicologiche che
lo rendano ben consapevole della delicatezza dei meccanismi coinvolti nei nuclei del disagio psichico,
relazionale ed esistenziale, ma la strutturazione del setting non può non tenere conto del campo linguistico
specifico dell’intervento. Il tema della valutazione è uno dei nodi più problematici della danzaterapia.

Dal momento che gli esseri umani nascono da processi simultanei che si verificano a più livelli, è
fondamentale chiarire il livello di osservazione da adottare, al fine di sviluppare una comprensione più
complessa e a più livelli. Gli strumenti utilizzati in danzaterapia, sia da un punto di vista progettuale che
valutativo, dovrebbero essere attinenti ai paradigmi della danza, per evitare il fraintendimento con la
psicoterapia. Infatti, nella danzaterapia la danza non è il pretesto per una terapia verbale, bensì il testo
stesso della cura. L’APID (Associazione Professionale Italiana Danzamovimentoterapia) riferisce la specificità
della danzamovimentoterapia al linguaggio del movimento corporeo e della danza e al processo creativo
quali principali modalità di valutazione e di intervento all’interno di processi interpersonali finalizzati alla
positiva evoluzione della persona, dove al linguaggio corporeo sono riconosciute valenze rappresentative,
comunicative e simboliche.

Di fatto, queste linee programmatiche però risultano difficili da declinare nella realtà, così accade di
imbattersi in interventi di DMT che risultino poco attinenti ai paradigmi coreutici. Un’interessante proposta
operativa, basata sulla centralità del linguaggio coreutico nella DMT, ci viene da Bellia che delinea un
diagramma di campo concepito come strumento atto a visualizzare la multidimensionalità e la multifocalità
dell’esperienza. L’ipotesi di Bellia sottolinea giustamente e approfondisce la dimensione comunicativa
relazionale specifica della danza, anche se lascia in disparte la dimensione artistica. Tutto sommato c’è
ancora molta strada da fare in questo campo.

9.4. IPOTESI FONDATIVA Le componenti della danza (corpo, movimento, spazio, tempo) sono strettamente
correlate le une alle altre e trovano il loro corretto significato coreutico a partire dal corpo, laddove il corpo
che danza è “il corpo vivente”, il corpo centro di irradiazione simbolica, portatore di infiniti significati.
Il corpo soggettivo è un punto zero determinato in una particolare visione prospettica e collocazione
temporale, ma contemporaneamente è aperto alla possibilità di trascendimento di tale prospettiva.
Il corpo come apertura consente l’esistenza di un mondo col quale si relaziona e dal quale viene modificato.
Attività percettiva, azione, spazio, tempo, emozioni e bisogni, finiscono per fondersi e rendersi possibili sul
corpo stesso, in una dimensione ontologica di apertura al mondo. La soggettività corporea è precisamente
quella che emerge nel fenomeno coreutico: il corpo che danza opera una trasfigurazione del mondo
attraverso la messa in forma di alternanze ritmiche e dell’uso dello spazio, così da operare una
trasposizione in uno spaziotempo che non è più esattamente lo stesso di quello della vita pratica.

Le dimensioni specifiche della danza sono tre: espressiva – emersione degli stati emotivi e affettivi
memorizzati nel corpo – comunicativa – realizzazione della dimensione relazione originaria con tutte le sue
implicazioni – artistica – elaborazione in base alla quale l’espressione e la comunicazione non avvengono
secondo modi naturali, ma nel linguaggio disciplinato che appartiene all’arte –. La dimensione artistica fa
riferimento, dunque, a un percorso di elaborazione e le possibilità terapeutiche delle arti-terapie risiedono
proprio nel passaggio dalla comunicazione diretta delle emozioni alla comunicazione simbolica.
La rielaborazione artistica consente di prendere distacco dall’esperienza emotiva, di paragonarla ad altre
situazioni e di inserirla in un nuovo quadro interpretativo. Quanto alla danza, sono proprio i meccanismi
artistici che, in quanto elaborativi e trasformativi, possono caratterizzare la danzaterapia differenziandola
sul piano procedurale dalla psicoterapia. Alla danza in quanto arte, al di là del risultato estetico, compete
un processo di elaborazione, dove la ricerca formale non è un fatto esteriore ma un correlato simbolico
dell’espressione, la trasfigurazione metaforica della tensione emotiva, l’organizzazione spazio-temporale
ricercata e voluta dal gesto emergente.

Nella danza, l’uomo si ritrova a essere una sorta di metafora incarnata. In quest’ottica la danza trova una
sua valenza terapeutica nelle possibilità che offre al soggetto di vivere concretamente la realizzazione
simbolica delle istanze progettuali, oltre che la rilettura dell’esistente basata su meccanismi sublimatori. A
livello espressivo, l’uomo risponde al bisogno personale di trovare uno sfogo motorio a urgenze emotive,
indipendentemente dalla relazione con gli altri; a livello comunicativo, vede la possibilità di manifestare al
mondo la propria esperienza affettiva; a livello artistico, opera una trasformazione dei vissuti disturbanti e
sposta l’attenzione sul processo immaginativo quale luogo del possibile. La danza, allora, si presta alla
terapia perché può essere rivelatrice di vissuti, stati affettivi, dimensioni esistenziali e al contempo
produttrice di senso, attraverso la manifestazione corporea elaborata con processi artistici.

Il sistema Laban-Bartenieff, elaborato da Laban e la sua collaboratrice, può fornire gli elementi idonei a
ipotizzare percorsi danzaterapeutici realmente attinenti ai paradigmi della danza e può porsi come quadro
orientativo, fondativo e pragmatico della DMT. Questo è un sistema di comprensione del movimento che
ne analizza le singole componenti, individuando gli aspetti funzionali, espressivi e simbolici del movimento,
e indicando gli elementi atti a stimolare processi creativi coreutici non solo espressivi. Il sistema Laban-
Bartenieff promuove un movimento organico, integrato e pienamente vissuto che riscopra la possibilità di
attingere alle più profonde risorse vitali insite nell’esistenza. Tale sistema rileva innanzitutto quattro Temi
Maggiori che investono il movimento nella sua globalità: interno-esterno, stabilità-mobilità, sforzo-
recupero, funzionalità-espressività; questi poli tematici si integrano continuamente. L’analisi del
movimento è organizzata in categorie: corpo (movimento dal punto di vista meccanico, organico ed
evolutivo), spazio (come emanazione del corpo), qualità (tipo di energia e di dinamismo), forma (aspetto
plastico 3d del corpo), motif, fraseggio (punteggiatura della frase motoria).

9.5. CONCLUSIONI Le possibilità terapeutiche della danza si fondano prima di tutto sulla possibilità di
questa arte di esprimere in forma paradigmatica lo statuto ontologico dell’uomo. La conoscenza
approfondita della danza è una condizione necessaria ma non sufficiente per fare terapia. Quando si
intende contattare e intervenire su nuclei patologici occorre non solo conoscere bene, ma anche saper
orientare consapevolmente, le valenze terapeutiche insite nella danza: occorre cioè una specifica modalità
di conduzione, nei confronti degli utenti e nei confronti delle dinamiche relazionali. Gli elementi
imprescindibili per il processo di DMT sono: strutturazione del setting, organizzazione di fasi sia all’interno
della seduta che rispetto all’intero processo, differenziazione tra vari stili di conduzione funzionali a
situazioni e obiettivi precisi, specificità del controtransfert somatico.
CAPITOLO DECIMO

IL GIOCO CON I SUONI: MORFOLOGIA DEL GESTO MUSICALE IN UNA PROSPETTIVA SOCIO-EDUCATIVA

10.1. INTRODUZIONE Domandiamoci che cosa accada nella testa e nelle membra dell’individuo mentre è in
atto un evento sonoro-musicale. Il ritmo-suono partecipato ci riconduce ai vissuti corali, alla danza, ai riti
iniziatici e magici dell’orchestrazione, dell’accordo tra strumenti, del dirigere, dell’essere diretti.
La condivisione dell’esperienza attua così la trasfigurazione dell’individualità in gruppalità, ma non compie il
sortilegio di sciogliere le differenze. La ricerca dei fondamenti universali della musica rappresenta un
problema antico: dalla convinzione che la musica costituisse un unicum indivisibile si è passati, attraverso
dispute accese e appassionate, alla consapevolezza dell’esistenza di culture musicali altre, di una realtà
musicale plurima.

Osservando e analizzando le pratiche musicali, Francois Delalande ha messo a punto il concetto di condotta
musicale, individuandone tre: la ricerca di un piacere sensomotorio; un investimento simbolico dell’oggetto
musicale messo in relazione con un vissuto; una soddisfazione intellettuale per via del gioco di regole
implicito. Secondo Delalande, queste tre dimensioni o condotte musicali, essendo riscontrabili in tutte le
culture e in tutte le età dell’uomo, rappresentano caratteristiche generali.

Tre aspetti sembrano rilevanti: il primo è rappresentato dalla complessa nozione di gioco con i suoni; il
secondo riguarda la forte interrelazione che emerge tra la componente musicale e quella di altri linguaggi
artistici; il terzo si riferisce al tema dell’handicap. A proposito di quest’ultimo, l’osservazione di specifiche
condotte musicali agite da soggetti con particolari difficoltà può aggiungere preziosi elementi alla
discussione sugli universali in musica.

10.2. LE CONDOTTE MUSICALI E LA FUNZIONE DEL GESTO Jean Piaget aveva individuato tre tipi di gioco –
senso-motorio, simbolico e di regole – e Delalande, attraverso i suoi studi si ritrova a utilizzarli. Delalande,
infatti, considerando sia i tre tipi di gioco di Piaget sia la produzione sonora del bambino fra i 3 e i 6 anni, ha
registrato la comparsa spontanea e successiva di condotte musicali prima collegate a un piacere
sensomotorio, a livello gestuale, tattile come pure uditivo, poi simbolico, in cui il suono ben rappresenta
personaggi, situazioni ecc. e, infine, combinatorio, dove prevale un gusto per la regola identificabile come
una soddisfazione intellettuale.

Il pensiero di Piaget risulta imperniato sulla teoria degli stadi dello sviluppo mentale: l’accesso a un nuovo
stadio si traduce in una forma radicalmente nuova di organizzazione dei processi cognitivi. Dunque, anche
le tre forme di gioco infantile si manifestano nel bambino gradualmente, secondo Piaget. Delalande, invece,
osservando le condotte musicali del bambino, supera l’idea di una successione e di un ordine rigido delle
tre fasi, teorizzando una possibile compresenza dei diversi piani. Inoltre, egli riconsidera i concetti di
reazione circolare e di equilibrio tra assimilazione e accomodamento: per mezzo di osservazione diretta del
fenomeno nota come nel bambino il gesto acquisito (volto alla produzione di suono) si modificherà per
conformarsi alla situazione, assimilando il gesto ritenuto “giusto” dopo vari tentativi “ingiusti”, e
accomodandosi sulle proprietà dell’oggetto sonoro, una volta comprese. Delalande, con questo, vuole
evidenziare l’analogia fra alcuni processi caratteristici dell’esperienza sonoro-musicale del bambino e quelli
dell’adulto musicista: il piacere dell’esplorazione sensomotoria nel bambino equivale al contatto sensoriale
denso di sensualità tra musicista e strumento; la soddisfazione del bambino per la difficoltà superata (gioco
di esercizio) equivale al piacere del musicista che nell’esercizio tecnico si sente eccellere in qualcosa di
complesso.

La prima esperienza vissuta che abbiamo della forma dei suoni, del modo in cui si evolvono nel tempo, del
loro modello, deriva da una sperimentazione gestuale replicata, attuata spesso occasionalmente attraverso
la pratica quotidiana. Ciò porta all’interiorizzazione di un personale ed esclusivo corredo sonoro. La forma
del suono è l’immagine sonora di un gesto: produrre suoni significa associare un movimento del corpo
preciso a una figura sonora. Il gesto si colloca in una posizione intermediaria, dunque, tra il pensiero del
musicista e il suono prodotto, operando una sorta di transfert di energia. Il gesto che “si carica di musica”
abita e si invera in uno spazio ludico suggestivo: il gioco con i suoni.

10.3. DENTRO IL GIOCO CON I SUONI Iniziamo col distinguere tra ambito sonoro e ambito musicale, in
quanto il primo rappresenta il fenomeno soprattutto fisico-acustico vocale o strumentale, ma non musicale
in se stesso. La sfera musicale, infatti, ha insita in sé l’intenzionalità del gesto sonoro e un criterio di
relazione, non solo tra i suoi, ma tra i suoni e il soggetto. Il prodotto musicale nasce dalla percezione che il
giocatore ha dell’insieme del gioco e dalla sua capacità e necessità di disporre, in un certo ordine coerente,
gli elementi sonori. Il gioco musicale può essere senza dubbio compreso nella categoria della composizione.
Dunque, gioco sonoro e gioco musicale si rivelano non come fasi scisse o alternative, ma come due piani di
una identità realtà, compresenti e intercomunicanti nel fare del soggetto. Il gioco sonoro si delinea, per il
bambino come per l’adulto, come l’incipit, la fase dei preliminari incantatori indispensabili affinché il
meccanismo del gioco si inneschi: infatti, risulta evidente come il congegno d’avvio del gioco con i suoi
origini da una seduzione sonora improvvisa e abbagliante, la quale innesca un meccanismo di
ripetizione/riproduzione che procura piacere, che innesca a sua volta un processo di comparazione con i
suoni della memoria, ma anche di improvvisazionecomposizione.

10.4. IL GESTO VOCALE E STRUMENTALE NEL PROCESSO DI SVILUPPO DEL GIOCO SONORO-ANALISI E
INTERPRETAZIONI

10.4.1. STORIA DI UNA STORIA: BIONDETTA BIONDO’ Il compositore torinese Sergio Liberovici, in
occasione di un evento culturale, ha presentato una relazione, ricca di materiali e di stimoli, riguardo un
soliloquio, borbottato, cantato, recitato ecc. dalla figlia di quattro anni e un mese Caterina. Il frammento è
stato registrato all’insaputa della bambina e Liberovici ha tentato di rielaborare questo variegato materiale
per poi allestire ciò che egli stesso definisce una Ministoria da dire, cantare e suonare, penetrando nelle
maglie creative dell’espressione vocale infantile.

In tutte le sue possibilità espressive la voce circola tra gli eventi, era con funzione primaria, da protagonista,
ora invece agendo sul fondo, osservando quasi dall’alto i personaggi: la voce cantata richiama l’attenzione,
avvisa degli eventi che stanno per accadere, l’attenzione è come sospesa mentre realtà e fantasia si
rincorrono, l’azione ludica è accompagnata da una colonna sonora ecc. La ministoria nasce ed evolve
congiunta a un caleidoscopico scencario, ora stimolata da fatti imprevisti ora per lo sviluppo indotto da
associazioni mentali. Il gioco musicale si autoalimenta attingendo a ricordi, immagini, depositi culturali ecc.
Quello di Caterina è un monologo privato, nel quale sembra quasi essere in trance; fuori di sé, non in sé,
oltre sé. L’altro da sé della bambina recita, mentre il sé guarda.

Il gioco dei suoni è un recinto immaginifico, delimitato dal tempo e dallo spazio ludico, una finestra sul
mondo del “tutto è possibile”: il suono narra, recita, danza, mima, si fa realtà, muove isole di intelligenza
creativa. In questa condizione di versatilità intravediamo il suo alto potenziale educativo.

10.4.2. IL LUPO E…IL PIANOFORTE Fernando è un adolescente con diagnosi di tetraparesi spastica, che
“vive” dunque su una sedia a rotelle, in uno stato di continua tensione del corpo, e in una condizione
ansiogena che lo porta a una costante apprensione psicologica, una copiosa sudorazione delle mani e
un’atipica forma di ossessività verbale. Il ragazzo spesso parla a se stesso con frasi che evidentemente ha in
testa, poiché dette da adulti significativi, imbastendo una sorta di recita di cui sembra consapevole, e nella
quale rivela la propria potenzialità espressiva.

In un incontro con il proprio educatore musicale Fernando, caduto con le mani sul pianoforte e ottenuto un
suono grave, dà inizio a una storia dalla trama semplice, che segue con i gesti e con il suono. Ripete il gesto
dapprima ottenuto casualmente, questa volta con tutta l’intenzione di farlo, a simboleggiare la presenza del
lupo. Poi via via sperimenta il volume del suono graduando l’energia del gesto, fino a suonare un solo tasto,
con delicatezza, per annunciare la scomparsa del lupo. Egli mette in scena una pièce minimalista quale
appare evidente l’apporto sinergico di più discipline artistiche. È totalmente immerso nella rete di un gioco
che si regge su di uno straordinario potere seduttivo. Ancora una volta il gioco del suono, il gioco musicale,
risultano piacevoli in quanto sfide: per un’esistenza provata, segnata nel fisico, comprendere che il proprio
corpo è ancora sede di potenzialità insospettate, scoprirsi Fernando capace di dosare, veicolare energia, è
forse un segno, l’opportunità di un riscatto.

Possiamo parlare del concetto di musicalità, che è lontano dalla tecnica complesso della Musica.
Questo è un elemento vitale costitutivo presente comunque in ogni individuo, ingrediente essenziale della
storia personale di ciascuno. Ogni individuo, anche disabile, è un contenitore di suoni. La musicalità è
l’essere musicale; essa esprime e riflette dunque questo complesso mondo sonoro intimo, modellato dalle
scelte, dai bisogni, dai gusti custoditi in ogni soggettività, potenzialmente pronto a manifestarsi solo che il
contenitore possa schiudersi. Ognuno è sicuramente portatore di una propria storia e cultura, ovviamente
anche musicale, che si interrelaziona con il sistema culturale in cui vive, compreso il sistema musicale.

10.5. QUASI UNA CONCLUSIONE

Le situazioni ludiche prese in considerazione hanno evidenziato con molta chiarezza quanto sia
coinvolgente l’impatto tra l’essere umano e il mondo dei suoni. Se l’origine della musica è da ricercarsi nel
corpo umano, parimenti anche la danza denota la stessa radice. Una sorgente comune che si estende anche
al teatro, poiché il suolo della danza, lo spazio coreico, sta alla base egualmente del fatto teatrale. Ma il
gioco, in particolare quello infantile, è anche teatro allo stato puro.

Il gioco con i suoni, una volta messo in moto, cattura in maniera completa l’attenzione della persona
orientandola sul suono e sulle sue componenti. L’incontro tra suono e persona avviene in uno spazio
creativo, in un ambiente che risuona perché l’essenza umana stessa è stratificazione sonora, ed è in questo
spazio, in cui decisive saranno la sensibilità e l’abilità di intervento dell’educatore musicale, che
individuiamo l’origine di ogni attività terapeutico-musicale.

Potrebbero piacerti anche