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Libro: “Le psicoterapie” – Gabbard

Capitolo 1 - La psicoterapia psicodinamica: modelli teorici

L’approccio psicodinamico non è facilmente definibile perché è un termine generico che si applica
a una serie di strategie terapeutiche che si basano su una varietà di modelli teorici che, nonostante
le differenze, condividono molteplici fattori comuni.
La terapia psicodinamica si basa su alcuni assunti fondamentali come: la causalità psichico,
assunto secondo cui i problemi portati dai pazienti in terapia possono essere affrontati alla luce dei
pensieri e dei sentimenti che vi sono sottesi; i limiti della coscienza e l’influenza degli stati mentali
inconsci. L’individuo è spesso inconsapevole degli stati mentali inconsci e tale scelta è motivata dal
suo bisogno di sentirsi il più possibile al sicuro; le relazioni interpersonali, in particolare quelle di
attaccamento, hanno un ruolo centrale nell’organizzazione della personalità perché le
rappresentazioni mentali di queste intense esperienze relazionali si aggregano nel tempo
formando strutture mentali schematiche, che a loro volta modellano le aspettative interpersonali
e le rappresentazioni del Sé; la credenza che i desideri, gli affetti e le idee possono entrare in
conflitto tra loro e che i conflitti generano sofferenza psichica e possono minare il normale
sviluppo di capacità psicologiche fondamentali, riducendo la capacità della persona di gestire idee
incompatibili; l’attenzione posta alle difese psichiche, processi mentali che distorcono gli stati
mentali inconsci e riducono il loro potenziale di generare angoscia; i significati sono complessi e gli
stati mentali agiscono spesso al di fuori della consapevolezza della persona. Le teorie
psicodinamiche descrivono particolari costruzioni di esperienza che si ipotizzano alla base dei
problemi psicologici (per esempio, il senso di grandiosità e di autostima vulnerabile associati al
disturbo narcisistico di personalità). Inoltre i vari orientamenti psicodinamici individuano
molteplici significati "nascosti” nei medesimi comportamenti sintomatici; l’importanza della
relazione terapeutica; la validità della prospettiva evolutiva.
Questi assunti vengono accettati da tutte le teorie psicodinamiche, sebbene vi siano delle
differenze circa il modo di intenderle. Tutte le teorie si sono formate per colmare le lacune di una
particolare condizione descritta da altri modelli o per giustificare nuovi approcci teorici. Il grado di
accettazioni delle teorie è dipeso dalla loro utilità o adattabilità nella terapia pratica.
Per quanto tutte queste teorie si propongano di offrire modelli psicologici generali, la storia della
psicoanalisi invita alla cautela riguardo al rischio di accettarle come proposizioni definitive, poiché
è tipico dei modelli successivi evidenziare le lacune dei precedenti.
Qualunque teoria che pretenda di offrire descrizioni onnicomprensive non può essere accettata
come del tutto vera.
La prospettiva psicodinamica ha bisogno di molteplici teorie perché ognuna di esse coglie diverse
sfaccettature dell'approccio psicoterapeutico ai problemi umani. Un'attenta considerazione di
ciascuna di esse ci permette di acquisire una visione più completa della persona e del processo
clinico.

Sigmund Freud
È stato il primo a ricondurre il disturbo mentale alle esperienze infantili e alle vicissitudini del
processo evolutivo. Egli ha sostenuto di abbandonare la visione di innocenza idealizzata del
bambino in favore dell’immagine di una persona che lotta per controllare i suoi bisogni biologici e
per renderli accettabili ai genitori. Ogni comportamento va spiegato alla luce dell’incapacità
dell’apparato del bambino di affrontare in modo adeguato le pressioni che la sequenza di sviluppo
richiede. La psicopatologia, i sogni, i motti di spirito e i lapsus sono tutti considerati rivisitazioni di
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conflitti infantili irrisolti riguardo alla sessualità. Successivamente, Freud ha attribuito un peso
altrettanto determinante all'aggressività, intesa essenzialmente come un residuo non assimilabile
dello sviluppo normale e, quindi, come una possibile spiegazione del disturbo psicologico. Inoltre,
l’innovativo e solido modello strutturale della psiche proposto da Freud ha accordato un ruolo di
primo piano all’influenza dell'ambiente sociale nella teoria psicoanalitica.
A partire da Freud le teorie psicodinamiche si siano incentrate sui bambini e sulle esperienze
infantili: la psicopatologia è il risultato dello sviluppo ontogenetico - cioè la sequenza di stadi da
cui origina la nostra personalità - e i disturbi mentali sono spesso considerati residui disadattivi di
esperienze infantili o modi di funzionamento mentale "primitivi" da un punto di vista evolutivo.
Seguendo la tesi di Freud di un Sé costituito da una struttura tripartita che comprende Es, lo e
Super-io, si sviluppa la psicologia dell’Io la quale crede che all’origine di un disturbo ci sia
uno sviluppo deficitario dell’Io, cioè un fallimento dell’Io nel garantire un’interazione specifica fra
le istanze psichiche a livelli adeguati all’età. In sostanza l’Io regredisce e la regressione dell’Io è
all’origine della psicopatologia. Le nevrosi e le psicosi si sviluppano quando un impulso teso alla
gratificazione di una pulsione regredisce verso una precedente modalità di soddisfacimento
infantile. I sintomi rappresentano soluzioni di compromesso che riflettono ripetuti tentativi dell'Io
di ripristinare l'equilibrio fra istanze contrapposte costituite da realtà esterna, Super-io e
rappresentazioni pulsionali inaccettabili. La psicosi comporta una minaccia di completo
annientamento dell'lo. Un lo che riprende a funzionare a un livello caratteristico della prima
infanzia risulterà dominato da pensieri irrazionali, magici, e da impulsi che sfuggono al suo
controllo.
Tra le figure fondamentali nella storia della teoria strutturale vanno segnalati Heinz Hartmann, Erik
Erikson, René Spitz, Edith Jacobson, Jacob Arlow, Charles Brenner e Hans Loewald.

Hartmann
Ha introdotto il concetto fondamentale di cambiamento di funzione, secondo cui un
comportamento che origina in un certo punto dello sviluppo può in seguito assolvere una funzione
completamente diversa. Quindi, il persistere di un comportamento non dovrebbe essere
considerato una semplice ripetizione. Hartmann si discosta da Freud asserendo che l'Io evolve non
dall'Es, ma da una matrice indifferenziata dalla quale emergono anche Es e Super-io; l'lo resta
legato all'Es in un certo grado in quanto impiega energia pulsionale. Inoltre, egli concepisce lo
sviluppo come basato su un "ambiente mediamente prevedibile", in cui il genitore reale assume
un'importanza fondamentale.

Erikson
Elabora un modello di sviluppo esteso all'intero ciclo di vita. Ha descritto inoltre la sindrome della
diffusione dell’identità, vale a dire “l'assenza di continuità temporale dell'esperienza del Sé nei
contesti sociali”. Alla luce di questo concetto, Erikson ha ipotizzato che il principio organizzante del
Sé si basi non sull'eccitazione ma su relazioni e scambi interpersonali, ricondotti al problema dello
sviluppo di una fiducia di base in contrapposizione a un senso di sfiducia.

Spitz
Ha teorizzato una serie di trasformazioni nell'organizzazione psicologica, contraddistinte dalla
comparsa di nuovi comportamenti e nuove forme di espressione affettiva (gli organizzatori),
parallelamente alla riorganizzazione dei rapporti tra funzioni, che si legano in un'unità coesa. Egli è
stato inoltre fra i primi a riconoscere la fondamentale importanza dell’interazione fra madre e
bambino nell'accelerare lo sviluppo delle capacita innate di quest'ultimo.
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Edith Jacobson
Ha introdotto il concetto di stato di fusione primario fra le rappresentazioni del Sé e dell’oggetto,
a cui si devono le continue oscillazioni degli stati pulsionali primitivi fra il Sé e l’oggetto.

Loewald
Ha posto al centro dello sviluppo il concetto di esperienza integrativa. Il suo assunto
fondamentale è che l’attività mentale per natura relazionale (sia interattiva sia intersoggettiva).
Secondo Loewald, l'interiorizzazione (o apprendimento) rappresenta quindi il processo psicologico
fondamentale su cui si basa lo sviluppo. Egli ha inoltre spostato l'accento dalla struttura al
processo, proponendo una sottile revisione del modello strutturale classico fondata sui concetti di
interiorizzazione, comprensione e interpretazione.

Anna Freud
Elabora un modello evolutivo e sottolinea l'importanza dei metodi di osservazione; nella sua
visione dello sviluppo, il bambino scende a patti con conflitti prevedibili, deve cioè trovare un
compromesso fra diversi desideri, bisogni, percezioni, realtà fisiche e sociali, nonché relazioni
oggettuali.
La sua teoria si basa su quelle che definisce linee evolutive, una metafora che sottolinea la
continuità e il carattere cumulativo dello sviluppo infantile. Le linee principali proposte procedono
dalla dipendenza all'autonomia emotiva e alle relazioni adulte, dall'egocentrismo ai rapporti
sociali, dalla suzione al comportamento alimentare razionale, e dall'irresponsabilità alla
responsabilità nella cura del corpo. L’estensione dei legami di attaccamento dalle persone agli
oggetti, e il passaggio dall'irresponsabilità al senso di colpa. Per lei la psicopatologia deriva dalla
presenza di ampie discrepanze fra le linee o da notevoli ritardi rispetto al progresso normale lungo
una o più linee.
L'arresto o la regressione di una certa linea evolutiva può essere fonte di problemi.
Anna Freud ha inoltre disposto i disturbi narcisistici, delle relazioni oggettuali e del controllo sulle
tendenze aggressive e autodistruttive lungo uno spettro di deficit evolutivi.
Ella ha descritto anche lo sviluppo dei problemi di ansia nell'infanzia e ha proposto di distinguere
fra la paura di un certo aspetto del mondo esterno o angoscia obiettiva (per esempio, della
reazione dei genitori reali) e la paura del mondo interno (impulsi, desideri e sentimenti).

Margaret Mahler
Ha elaborato un vero e proprio modello dello sviluppo basato su osservazioni di bambini dai sei
mesi ai tre anni. Tale modello presenta il Sé e le relazioni oggettuali come elaborazioni delle
vicissitudini istintuali. Il suo interesse è rivolto, in particolare, al passaggio dall'unità di lo e non lo
alla separazione e individuazione finale. Il termine separazione, nel modello mahleriano, si
riferisce al distacco del bambino dalla fusione simbiotica con la madre, mentre l'individuazione
consiste in quelle conquiste che denotano l'assunzione da parte del bambino delle proprie
caratteristiche individuali.
Il modello evolutivo della Mahler prevede una fase di autismo normale nelle prime settimane di
vita, seguita da una fase simbiotica, dopo di che il processo di separazione-individuazione inizia
con la sottofase di differenziazione.
Dal nono al quindicesimo-diciottesimo mese di vita ha luogo la seconda sottofase di
individuazione (sperimentazione), seguita dalla sottofase di riavvicinamento (seconda metà del
secondo anno), durante la quale il bambino avverte il bisogno di stare con la madre. Infine, la

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quarta sottofase di separazione-individuazione consiste nel consolidamento dell’individualità, che
ha inizio con il terzo anno di vita.
La Mahler riteneva che i suoi studi consentissero ai clinici impegnati nel trattamento di soggetti
adulti ricostruzioni più accurate del periodo preverbale, rendendo quindi i pazienti più accessibili
agli interventi psicoterapeutici. Tuttavia, nonostante l’enorme influenza del modello mahleriano,
gli studi sistematici condotti sui bambini nelle prime fasi di vita hanno sollevato seri dubbi sui
concetti di autismo normale e di fusione Sé-oggetto. Ciò detto, resta comunque aperta la
possibilità che il modello evolutivo della Mahler si applichi al mondo psicologico del bambino: pur
essendo consapevole di se stesso e dell'oggetto come separati nella sfera fisica (corporea), egli
potrebbe presumere che gli stati psicologici si estendano oltre i confini fisici, come è sostenuto da
Fonagy. Analogamente, sebbene sia improbabile che vengano confermate le teorie mahleriane
sulla schizofrenia infantile basate sul concetto di fissazione evolutiva alla fase-simbiotica, i suoi
contributi più originali alla comprensione del disturbo borderline di personalità hanno avuto
un'influenza duratura. La sua visione di questi pazienti come fissati alla fase di riavvicinamento -
desiderosi di aggrapparsi all'altro ma timorosi di perdere il loro fragile senso del Sé, e desiderosi di
separarsi ma timorosi di allontanarsi dalla figura genitoriale - ha avuto importanti ricadute sul
piano teorico e clinico.

Joseph Sandler
Allievo di Anna Freud, ha avuto un ruolo influente nel rinnovamento della psicoanalisi, preparando
la sua integrazione con le scienze evolutive e promuovendo l'incontro fra psicologia dell'lo
americana e teoria delle relazioni oggettuali britannica. Sandler ha introdotto il modello del
mondo rappresentazionale, e ha anticipato la teoria degli schemi che da lì a poco avrebbe
dominato la psicologia sociale e cognitivo-comportamentale. Egli ha modificato profondamente la
teoria psicoanalitica della motivazione, sostituendo al concetto di energia psichica quello di stato
affettivo. Ha inoltre introdotto il concetto rivoluzionario di background di sicurezza, sostenendo
che lo scopo del'Io è quello di massimizzare la sicurezza più che evitare l'ansia. Le pulsioni sono
ancora presenti nel suo modello, ma la loro influenza si esplica non direttamente sul
comportamento, bensì attraverso il loro impatto sul mondo affettivo.
Per lui il paziente ricerca spesso la relazione con il terapeuta (e con chiunque altro) per realizzare
le proprie fantasie inconsce. In linea con questo principio, Sandler ha elaborato una nuova teoria
delle rappresentazioni oggettuali interne: ha differenziando le strutture ipotetiche più inconsce -
che per la psicoanalisi classica si sviluppano nelle prime fasi di vita e non hanno possibilità di
emergere direttamente nella coscienza – e che chiama inconscio passato – dall’inconscio
presente, simile all'inconscio freudiano (irrazionale, solo in parte soggetto al principio di realtà, ma
principalmente legato all'esperienza presente piuttosto che a quella passata; Il secondo sistema,
l'inconscio presente, adatta nel qui e ora i conflitti e le angosce attivati dal primo sistema, che
invece offre una rappresentazione più fedele del passato nel presente. Per Sandler è ravvisabile, in
ogni tipo di psicopatologia, una qualche forma di piacere legata all’esperienza di particolari stili di
funzionamento cognitivo e percettivo. Per esempio, l'ossessività, per quanto penosa possa essere,
nell'infanzia è legata anche al piacere.
Egli ha elaborato il concetto di identificazione proiettiva in maniera più sobria rispetto ad alcuni
esponenti della teoria kleiniana. Attraverso questo meccanismo, il paziente cerca di modificare e
controllare il comportamento dell'altro in modo che si conformi alla sua rappresentazione distorta,
fino al punto che l'altro può arrivare a mettere in atto le fantasie del paziente. La rappresentazione
dell'altro viene distorta dal meccanismo della proiezione, per cui, nell'esperienza del paziente,
l'altro ospita aspetti indesiderati della rappresentazione del Sé.

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La teoria delle relazioni oggettuali e il modello kleiniano-bioniano
La teoria delle relazioni oggettuali cerca di comprendere la psicopatologia in termini di
rappresentazioni mentali del Sé diadico e delle relazioni oggettuali, che sono radicate nelle
relazioni passate che da diadiche sono diventate triadiche e, in seguito, hanno incluso
rappresentazioni di svariate relazioni. Il crescente interesse per la relazione testimonia uno
spostamento di attenzione nella psicoanalisi dal conflitto intrapsichico a una prospettiva incentrata
sull'esperienza dello stare con gli altri, terapeuta incluso, durante il lavoro analitico.
La teoria delle relazioni oggettuali definisce l'Io in rapporto agli altri oggetti, sia interni che esterni;
viene quindi ipotizzato che la mente del bambino si formi inizialmente a partire dalle esperienze
precoci con la persona che si prende cura di lui, in una relazione che diventa sempre più complessa
con lo sviluppo. Queste prime relazioni oggettuali sono considerate all'origine di pattern che si
ripetono, e quindi si consolidano, nelle fasi di vita successive.
Una posizione di primo piano nelle teorie delle relazioni oggettuali è occupata dai contributi di
Melanie Klein e Wilfred Bion. La Klein affianca al modello strutturale un modello evolutivo basato
sulle relazioni oggettuali, soffermandosi più sulla vulnerabilità costituzionale che sul
comportamento del caregiver come determinante fondamentale del percorso evolutivo.
I contributi della Klein sulla posizione depressiva e schizoparanoide rappresentano il nucleo del
modello kleiniano-bioniano che, ispirandosi all'idea freudiana di un istinto autodistruttivo, postula
l'esistenza di due modalità di funzionamento mentale: la posizione schizoparanoide e la posizione
depressiva.
La posizione schizoparanoide è dominata dalla tendenza a separare tra oggetto buono
(idealizzato) e cattivo (persecutorio), mentre la posizione depressiva implica un riconoscimento
più maturo ed equilibrato della possibilità che gli aspetti positivi della persona possano coesistere
con quelli negativi, nonché del proprio ruolo nella distorsione irrealistica ed egocentrica del
mondo in componenti idealizzate e denigrate. La metafora kleiniana per questi due stati della
mente è costituita dalla rappresentazione della madre che, nella posizione schizoparanoide, è
scissa in una parte idealizzata e una persecutoria e, nella posizione depressiva, è invece percepita
come un'unica persona da cui originano le esperienze sia positive sia negative. Il riconoscimento
nella posizione depressiva - che l'oggetto buono (amato) e l'oggetto cattivo (odiato e temuto) sono
una sola cosa - suscita sensi di colpa e un'angoscia depressiva, mentre la posizione
schizoparanoide è caratterizzata da angosce persecutorie.
Un importante contributo del modello kleiniano-bioniano è rappresentato dal concetto di
identificazione proiettiva, secondo cui l'individuo proietta all'esterno parti dell'lo cercando di
mantenere il controllo su questi aspetti indesiderati, spesso mediante comportamenti
estremamente manipolativi nei confronti dell'oggetto (per esempio, facendo in modo che l'altro si
identifichi con le proiezioni). L'identificazione proiettiva, oltre che come meccanismo di difesa, può
essere considerata come un processo interpersonale in cui il Sé si disfa dei propri sentimenti
evocandoli nell'altro.
Le origini di questo processo vengono ravvisate nella prima infanzia. La Klein sosteneva che nei
bambini fossero presenti sin dalla nascita fantasie crudeli e sadiche non reattive a una frustrazione
ma legate alla capacità del genitore di mitigare l'influenza delle tendenze innate del bambino.
In sintesi, il modello psicopatologico kleiniano spiega il disturbo mentale alla luce delle due
posizioni descritte in precedenza. Una predominanza della posizione schizoparanoide è all'origine
del disturbo mentale, mentre una relativa stabilità della struttura depressiva è indice di salute
mentale. Negli stati psicotici, le angosce di persecuzione/annientamento sono intense al punto che
l'oggetto con il quale il paziente cerca di identificarsi proiettivamente viene reintroiettato (vale a
dire sperimentato come interno all'Io), generando la percezione delirante che la mente o il corpo
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siano sotto controllo esterno. I problemi nevrotici sono considerati conseguenze di un'angoscia
depressiva non risolta. Per esempio, la depressione insorge perché l'esperienza di perdita ricorda
alla persona il danno che sente di aver causato all'oggetto buono. La depressione diventa cronica
quando la persona non può sottrarsi alla paura di danneggiare l'oggetto amato e quindi deve
rimuovere tutta l'aggressività, generando un'incessante autopersecuzione.
La struttura caratteriale narcisistica è invece considerata una difesa contro l'invidia e la
dipendenza. Le relazioni del narcisista con gli altri sono profondamente distruttive, egli manipola
inesorabilmente gli altri dichiarando di non aver bisogno di loro.
Le concezioni della Klein hanno suscitato notevoli controversie e qualche malumore. È stata
criticata, in particolare, la sua tendenza ad attribuire capacità psicologiche mature a bambini molto
piccoli e la sua datazione della psicopatologia a età tanto precoci. Siccome l'osservazione degli
stati mentali nella prima infanzia è estremamente difficoltosa, è decisamente improbabile che si
riesca a confermare o meno l'esistenza di processi patogeni fondamentali in età precoce.

La scuola degli Indipendenti della psicoanalisi britannica: Fairbairn e Winnicot


La cosiddetta scuola degli Indipendenti della psicoanalisi britannica comprende diversi autori che
hanno lavorato separatamente e non hanno fondato scuole di seguaci. Faibairn e Winnicott ne
sono i principali esponenti.

Fairbairn
Sosteneva che esiste una pulsione fondamentale a creare relazioni oggettuali e che un
insufficiente grado di intimità con l'oggetto primario può produrre una scissione del Sé, ed è
proprio a partire dalla persistenza di idee incompatibili e dall'assenza di integrazione che si
originano i disturbi psicologici.
È la mancanza di riconoscimento dell'amore tra madre e bambino, e non una forma di distruttività
primaria, che alimenta nel bambino la convinzione che il suo odio abbia distrutto la
madre/oggetto.
Inoltre, ritiene che il trauma precoce venga incapsulato in ricordi che sono "congelati" o dissociati
dall'Io centrale o Sé funzionale della persona, una concezione di particolare rilevanza nella
comprensione dei disturbi di personalità narcisistici e borderline. Alla base di ogni patologia egli
ipotizza una reazione schizoide al trauma di non essere riconosciuti o amati.
I disturbi di personalità gravi dipenderebbero dall'aver avuto una "madre sufficientemente buona"
che in seguito scompare. La personalità schizoide secondo lui deriverebbe dalla sensazione, da
parte del bambino, che l'amore per la madre la stia distruggendo e quindi debba essere inibito
insieme a ogni forma d'intimità.

Winnicott
Introduce il concetto di holding, ossia la capacità di contenere gli stati mentali del bambino, che è
fondamentale per l'intimità e l'integrazione. Esso è trasmesso mediante il rispecchiamento che
non può né dovrebbe essere perfetto, bensì svolgere la propria funzione in modo sufficientemente
adeguato e consentire un'attività riparativa.
Sostiene pure che il bambino "evoca la madre" mediante l'uso di un oggetto fisico (per esempio,
una coperta), che è noto come oggetto transizionale.
Il Sé emerge in seguito a interazioni non invadenti con la madre, che alimenta l'illusione di essere
un prodotto dei gesti creativi del bambino e quindi di essere sotto il suo controllo.
Qualora la madre non riesca a contenere il bambino, si sviluppa un Falso Sé (compiacente) che ha
la funzione di proteggere il vero Sé.
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Secondo Winnicott, le personalità borderline si organizzano intorno a difese simili a quelle
impiegate dai pazienti psicotici, in quanto sono prive di un senso degli altri e sono soggette a
intensi attacchi di rabbia ogni volta che il loro senso di onnipotenza viene minacciato.
Winnicot considerava le influenze ambientali come una determinante dello sviluppo normale o
patologico, ma potrebbe averne sovrastimato l'importanza. Per esempio, l'esclusiva
preoccupazione di Winnicott per la relazione madre-bambino non è confermata dalla ricerca
empirica, che ha evidenziato come diversi altri fattori, in particolare le influenze genetiche,
abbiano un ruolo nel modellare la personalità del bambino. Anche l'assunto di Winnicott, secondo
il quale la relazione fra madre e bambino sarebbe all'origine di tutti i disturbi mentali più gravi e
contraddetto dall'accumularsi di prove empiriche che dimostrano il contributo dei fattori genetici
nell'associazione osservata fra deprivazione ambientale e sviluppo di una psicopatologia. Il
maggior problema nel modello di Winnicott, tuttavia, riguarda il tentativo di ricondurre gli stati
mentali dell’adulto alle esperienze infantili, aspetto che condivide con la tradizione britannica delle
relazioni oggettuali. Lo sviluppo umano è troppo complesso perché possa esservi un'associazione
diretta fra le esperienze infantili e la psicopatologia adulta.
Studi longitudinali condotti a partire dalla prima infanzia evidenziano, infatti, che l'organizzazione
di personalità tende a modificarsi nel corso dello sviluppo, a seconda delle influenze positive o
negative.

Heinz Kohut e la Psicologia del Sé


La psicologia del Sé deriva dal pensiero di Heinz Kohut. Inizialmente incentrata sui problemi del
narcisismo, ha ben presto preso in esame altri disturbi mentali, elaborando uno specifico
approccio terapeutico che pone in primo piano l'empatia.
Kohut ha sostenuto che lo sviluppo narcisistico procede lungo un percorso a sé stante, in cui i
genitori sono considerati oggetti-Sé (svolgono cioè particolari funzioni per il Sé).
Le risposte empatiche dell’oggetto-Sé rispecchiante permettono lo sviluppo dell'esibizionismo e
della grandiosità. Importante il ruolo assunto dalla frustrazione in quanto promuove la
modulazione graduale dell'onnipotenza soggettiva attraverso l'interiorizzazione trasmutante di
quest'oggetto-Sé rispecchiante, che a sua volta favorisce gradualmente il consolidamento del Sé
nucleare. Sempre per mezzo dell’interiorizzazione gli oggetti-Sé vengono idealizzati, promuovendo
lo sviluppo degli ideali.
Kohut nel tempo ha sottolineato che l’obiettivo è quello di raggiungere un Sé coeso e stabile nel
tempo. Quando ciò non avviene si costruisce un Sé vulnerabile, ossia un Sé che tipicamente ha
fatto esperienza di un oggetto-Sé incapace di sintonizzazione emotiva. Esso si volge, in maniera
difensiva, verso il piacere (pulsionale). L’autore considera l'angoscia l'esperienza nel Sé di un
difetto o di un'assenza di continuità.
È importante sottolineare che la psicologia del Sé è una teoria basata sul deficit. La carenza di
esperienze facilitanti è ritenuta all'origine di un deficit psichico primario, uno sviluppo inadeguato
del Sé. La paura di perdere il proprio senso di identità è alla base di ogni patologia. Le
classificazioni diagnostiche si riferiscono alle caratteristiche del Sé: la psicosi preclude un senso
coeso del Sé; i pazienti con disturbi di personalità hanno un Sè indebolito e vulnerabile a
frammentazioni temporanee, mentre la patologia nevrotica e associata a una struttura del Sé
rigida. La personalità narcisistica, invece, rappresenta un arresto evolutivo a uno stadio del Sé
grandioso o esibizionistico, che non riesce a essere neutralizzato da risposte di rispecchiamento
genitoriale adatte all'età, mentre il disturbo borderline di personalità deriva dall'incapacità di
appoggiarsi a oggetti-Sé capaci di confortare il Sè. La dipendenza da droghe, infine, è considerata
un modo per colmare un vuoto psichico.

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Molte ricerche confermano il ruolo centrale di un deficit dell'autostima nella genesi del disturbo
psichico. Gli psicologi del Sé hanno ricevuto conferme anche dall'identificazione dei cosiddetti
neuroni specchio nel cervello dei primati.
Il modello di Kohut è stato spesso criticato per la sua tendenza a colpevolizzare i genitori e, come il
modello di Winnicott, e discutibile per l'eccessiva importanza attribuita alle influenze ambientali,
soprattutto in considerazione del crescente numero di studi che evidenziano un'origine genetica di
alcuni tratti di personalità. Kohut è stato criticato non solo per la sua radicale revisione delle idee
psicoanalitiche, ma ancheper la sua tendenza a non riconoscere il lavoro di altri autori impegnati in
aree simili, come Winnicott e Loewald. Per tali ragioni, il modello della psicologia del Sé di Kohut è
stato in larga parte abbandonato.

Il modello strutturale delle relazioni oggettuali di Otto Kernberg


Introdotta principalmente da Otto Kernberg, la teoria strutturale delle relazioni oggettuali
propone una sintesi fra il modello kleiniano-bioniano e le versioni più recenti della teoria
strutturale.
Le strutture psichiche (Es, lo e Super-io) derivano da tre processi di interiorizzazione:
-introiezione, ovvero le interazioni fra il Sé e gli altri vengono interiorizzate nella loro totalità
insieme al relativo contesto affettivo;
- identificazione, ovvero basata sulla capacità di riconoscere la varietà dei ruoli che si manifestano
nelle interazioni con gli altri;
- identità dell'Io che esprime l'organizzazione complessiva delle introiezioni e o identificazioni.
Con lo sviluppo, per proteggersi dall'altro, l'Io in un primo momento separa le immagini buone da
quelle cattive in seguito, a partire dal terzo anno di vita, queste immagini si integrano in
rappresentazioni del Sé e dell'oggetto nella loro totalità. Il fallimento nell’integrazione di queste
immagini può dar luogo a una psicopatologia in cui la scissione, e non la rimozione, rappresenta il
principale meccanismo di difesa. Nella descrizione dello sviluppo del bambino dopo i tre anni, la
teoria e di Kernberg segue il modello strutturale dello sviluppo. Secondo Kernberg tutti i disturbi
originano dai primi stadi delle configurazioni diadiche Sè-oggetto, vale a dire prima che Sé e
oggetto emergano come unità integrate.
L'originalità dell'approccio di Kernberg alle nevrosi consiste nell'attenzione rivolta allo stato
mentale attuale del paziente più che all'origine dei conflitti patogeni e delle organizzazioni
strutturali predominanti.
Kernberg avanza previsioni sulla risposta al trattamento basandosi sulle diverse categorie
diagnostiche impiegate in psichiatria. Il contributo più originale e fecondo di Kernberg riguarda
proprio la comprensione dei disturbi di personalità. A livelli lievi di patologia caratteriale, l'Io è
poco organizzato e instabile, mentre il Super-io è rigido e sadico. Il paziente che si sente vittima di
critiche (da parte del terapeuta) può improvvisamente diventare a sua volta critico in modo
violento e irragionevole. A livelli gravi di patologia, la personalità è soggetta a una marcata
scissione o dissociazione primitiva delle relazioni oggettuali interiorizzate, con conseguente
assenza di integrazione delle rappresentazioni del Sé e dell'oggetto. L'individuo ripetutamente e
ininterrottamente costruisce relazioni del Sé e dell’oggetto idealizzate o persecutorie, generando
confusione e caos negli altri. I disturbi di personalità derivano dall'intensità degli impulsi distruttivi
e aggressivi e dalla relativa debolezza delle strutture dell'Io deputate a controllarli. Saggiamente,
Kernberg lascia aperta la questione se questa eccessiva aggressività sia innata o associata a un
ambiente precoce particolarmente ostile. L'approccio di Kernberg al trattamento del disturbo
borderline di personalità è basato sulla psicoterapia basata sul transfert, che ha solide basi
teoriche ed e ben tradotto in termini operativi.

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Il genio di Kernberg risiede nell'aver promosso l'incontro tra livello strutturale (o metapsicologico)
e fenomenologico. Per esempio, i segnali di idealizzazione, svalutazione o diniego (livello
fenomenologico in un paziente borderline esprimono anche il modo in cui le rappresentazioni
delle relazioni sono organizzate a livello intrapsichico (e quindi a livello strutturale), rivelando
l'assenza di meccanismi mentali più maturi. Inoltre, Kernberg si distacca dalla psicologia dell'Io
tradizionale rinunciando a interpretare il concetto di vulnerabilità dell'Io mediante spiegazioni
circolari. Per Kernberg, la vulnerabilità dell'Io esprime un processo di difesa attiva, che produce
organizzazioni scisse nell'Io che non possono reggere un contatto stretto con le rappresentazioni
dell'oggetto cattivo.
La teoria di Kernberg, non escludendo la presenza di fattori innati nello sviluppo, può adattarsi alla
recente scoperta di profonde influenze genetiche nel disturbo borderline di personalità.

L’approccio interpersonale-relazionale
Il cambiamento più radicale nella teoria psicoanalitica relazionale è rappresentato dalla più
recente diffusione della prospettiva interpersonale-relazionale, ispirata all’opera di Harry Sullivan.

Sullivan
Sosteneva che la psicoanalisi ignorava l’aspetto relativo alla relazionalità come caratteristica
fondamentale dell’umano e vedeva il conflitto mentale non come un prodotto dell’individuo ma
come una serie di segnali e valori contraddittori e conflittuali provenienti dall'ambiente. Per lui i
bisogni hanno un'origine interpersonale.
Sul piano terapeutico, nel tipo di terapia sostenuto da Sullivan il terapeuta è meno occupato a
impartire la conoscenza e più interessato a esplorare in modo attivo e partecipativo la natura e i
motivi alla base dei modelli di comportamento.
Il modello relazionale, il cui autore di primo piano è Mitchell, parte dall'assunto che la
soggettività sia interpersonale; la dimensione intersoggettiva prende il posto di quella intrapsichica
cara alla psicoanalisi. La mente umana è da lui rappresentata come una contraddizione in termini,
poiché la soggettività è invariabilmente radicata in una matrice intersoggettiva di legami
relazionali sulla quale s'innestano i significati personali anziché in pulsioni su base biologica.
Quindi, l’interno e l'esterno non sono due categorie discrete, ma sono anticipati e contenuti dal
campo dal campo interpersonale.
Tuttavia, il modello psicoanalitico relazionale non comprende una spiegazione specifica dello
sviluppo della relazionalità e a differenza della maggior parte delle altre teorie psicoanalitiche che
propongono una spiegazione delle sue origini e del suo sviluppo.
La teoria relazionale sostiene la tesi che, in assenza di un oggetto sensibile e ricettivo, il bambino
adempia precocemente a una funzione genitoriale mancante, ma è critica rispetto al modello
dell'arresto evolutivo. I teorici relazionali sostengono che, privilegiando le primissime fasi dello
sviluppo, rischiamo di sottovalutare gli attuali bisogni relazionali. La teoria relazionale, inoltre, si
colloca a metà strada tra Kohut e Kernberg nel riconoscere sia che il bambino ha bisogno
dell'illusione narcisistica di grandiosità (Kohut) sia che l’illusione narcisistica ha una funzione
difensiva (Kernberg).
Gli analisti relazionali, ispirandosi agli studi sulla prima infanzia soprattutto di Beebe e Lachmann,
hanno applicato il principio della regolazione diadica attesa alla situazione terapeutica. Terapeuta
e paziente presumibilmente creano uno stato diadico di coscienza attraverso la mutua regolazione
affettiva; ogni diade paziente-terapeuta è differente ma influenzerà gli scambi futuri di entrambe
le parti - tra di loro e con gli altri. La terapia promuove la reintegrazione e la riconfigurazione degli
stati di coscienza preesistenti nel paziente.

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Esistono convincenti prove evolutive che la psicopatologia sia legata a problemi relazionali e che la
presenza di relazioni interpersonali positive abbia un'influenza protettiva. Inoltre, l’approccio
interpersonale è quello che finora ha dimostrato meglio l'efficacia della psicoterapia
psicodinamica.
I terapeuti relazionali sono più interessati all’esperienza della relazione da parte del paziente che
alla comprensione in se stessa (rispetto ai terapeuti più orientato all’insight).

Le teorie psicoanalitiche degli schemi


La teoria psicoanalitica degli schemi più nota è quella di Daniel Stern (1985). Sebbene il suo
modello di sviluppo del Sé non preveda immediate applicazioni cliniche, esso è stato diffusamente
utilizzato nelle spiegazioni delle origini evolutive dei disturbi di personalità e delle nevrosi.
Stern ipotizza quattro fasi di sviluppo del Sé:
- 1) il Sé emergente, dalla nascita fino ai due mesi;
- 2) il Sé nucleare, tra i due e i sei mesi, caratterizzato da un nascente senso di agency e di
continuità temporale;
- 3) il Sé soggettivo, che si sviluppa tra i nove e i diciotto mesi, durante i quali viene conseguita la
capacità di condividere le intenzioni e sorge la consapevolezza delle emozioni dell'altro;
- 4) il Sé narrativo, segnato dalla comparsa del linguaggio.
Ogni stato di sviluppo del Sé condiziona quello successivo.
Stern ha coniato l'espressione momenti emergenti per indicare i momenti di integrazione
soggettiva di tutti gli aspetti dell'esperienza vissuta, che derivano da una varietà di
rappresentazioni schematiche (rappresentazioni di eventi, rappresentazioni semantiche, schemi
percettivi e rappresentazioni sensomotorie) in unione con le rappresentazioni delle forme del
sentire (pattern di attivazione che si dispiegano nel tempo) e degli involucri proto-narrativi che
forniscono un proto-intreccio di un evento caratterizzato da un agente, un'azione, un mezzo e un
contesto. Una volta combinati, questi elementi formano uno “schema-di-essere-con”. Le
distorsioni di questo schema di base predispongono alla psicopatologia. 
Il modello di Stern si accorda bene alle ricerche evolutive sulla prima infanzia, ma quando viene
applicato ai disturbi che si manifestano in fasi successive o in età adulta si mostra meno solido e, a
tratti, inverosimile. 

La teoria della mentalizzazione

Il concetto di mentalizzazione si riferisce alla capacità (o all'incapacità) della persona di concepire


gli stati mentali propri e altrui come spiegazioni del comportamento. Questa capacità è vista come
un indice dello sviluppo di un Sé agente.
L'approccio incentrato sulla mentalizzazione presuppone inoltre un principio evoluzionistico alla
base del sistema di attaccamento umano, in quanto la vicinanza di adulti premurosi al bambino gli
offre un'opportunità per lo sviluppo dell'intelligenza sociale e per la formazione dei significati. La
capacità innata di interpretazione psicologica, definita funzione interpretativa interpersonale, si
sviluppa grazie alle relazioni di attaccamento. A differenza del modello operativo interno la
funzione interpretativa interpersonale non codifica rappresentazioni di esperienze, in altre parole
non custodisce esperienze personali (vedi anche il concetto di schema-di-essere-con di Stern nel
paragrafo precedente); piuttosto, è un meccanismo di elaborazione e interpretazione delle nuove
esperienze interpersonali.
La funzione interpretativa interpersonale si sviluppa attraverso diversi processi emotivi e
meccanismi di controllo: (a) la definizione e la comprensione degli affetti; (b) la regolazione del

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livello di attivazione; (c) l'effortful control; (d) lo sviluppo della mentalizzazione o delle capacità di
lettura mentale vera e propria (indicata anche come funzione riflessiva). L'esperienza delle prime
relazioni di attaccamento aiuta il bambino a sviluppare questi processi che, in seguito, torneranno
utili in molti compiti fondamentali. L'assenza o la perturbazione di tale relazione può dar luogo a
configurazioni disadattive persistenti.

Capitolo 2. La psicoterapia psicodinamica: aspetti clinici


La psicoterapia psicodinamica è una forma di psicoterapia che si basa sui principi della
psicanalisi.
Tuttavia, la psicoterapia viene generalmente condotta con una frequenza dalle tre alle cinque
volte la settimana e con il paziente sul lettino. La seconda, invece, più comunemente su svolge una
o due volte la settimana, con il paziente seduto. Essa può essere a breve e a lungo termine. La
psicoterapia psicodinamica a breve termine comprende le terapie che durano meno di
ventiquattro sedute o sei mesi; la psicoterapia psicodinamica a lungo termine è una terapia che
prevede più di ventiquattro sedute o sei mesi.
La psicoterapia psicodinamica può essere definita come una terapia che rivolge una profonda
attenzione all’interazione terapeuta-paziente, che interpreta il transfert e la resistenza condotta
con tempi accuratamente definiti e inquadrate in un’elaborata valutazione del contributo del
terapeuta al campi bi-personale.

Il processo di valutazione
È un compito complesso valutare se un paziente è adatto a questa forma di psicoterapia.
Prima di tutto, per essere adatto alla terapia, il paziente deve essere curioso riguardo a se stesso;
motivato a comprendere i pattern inconsci che hanno generato tanta sofferenza nella sua vita;
essere disposto a collaborare con il terapeuta per arrivare a comprendere perché si fa del male o
ferisce persone che non vorrebbe ferire. Queste qualità sono spesso indicate con l’espressione
psychological mindedness. [CERCARE MEGLIO] Ossia, il paziente è in grado di rendersi conto delle
origini interne dei suoi problemi, anziché sentirsi semplicemente senza controllo.
Gli elementi di valutazione su cui si basa la psicoterapia psicodinamica sono i seguenti:
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-Diagnosi secondo il DSM-IV: tuttavia tale diagnosi non basta per stabilire se un paziente è adatto
alla terapia esplorativa;
- La capacità di collaborazione e di motivazione del paziente a collaborare attivamente con il
terapeuta nel perseguimento degli obiettivi;
-Meccanismi di difesa: servono a evitare che la persona diventi consapevole dei desideri sessuali o
aggressivi o dell’angoscia a essi connessa. Esse preservano l’autostima di fronte alla vergogna e
alla vulnerabilità narcisistica esternalizzando le minacce interne sugli altri. Le difese intervengono
anche nelle relazioni, rendendole più gestibili in quanto danno al paziente l’illusione di controllare
ciò che avviene nelle interazioni con le persone più importanti della sua vita.
La loro valutazione dà indicazioni al terapeuta psicodinamico su quanto sia prioritario il bisogno di
sostegno del paziente rispetto alla quantità di insight che è capace di sopportare;
-Capacità di mentalizzazione caratteristici: il terapeuta psicodinamico valuta la capacità del
paziente di comprendere che il proprio comportamento deriva da una serie di credenze,
sentimenti e punti di vinta che non coincidono necessariamente con quelli degli altri. La
mentalizzazione richiede la capacità di percepire cosa avviene nella mente dell’altro e di
rispondere di conseguenza. La capacità di essere sensibili a ciò che provano gli altri e di rendersi
conto che il proprio stato interno contribuisce al proprio comportamento è un elemento a favore
di un approccio più esplorativo o interpretativo nella conduzione della psicoterapia psicodinamica;
-Relazioni oggettuali: il terapeuta osserva il modo in cui i pattern relazionali che il paziente ha
acquisito nel corso della vita si ripresentano nella relazione con il terapeuta. Il trattamento
psicodinamico può incontrare più difficoltà con i pazienti che non hanno relazioni significative con
il mondo esterno. Anche i pazienti con relazioni molto caotiche possono rappresentare una sfida
per il terapeuta, che cerca di aiutare il paziente a riflettere sulle sue specifiche difficoltà nei
rapporti intimi, anziché limitarsi a reagire sul piano delle azioni;
-Punti di forza e di debolezza dell’Io: l'Io è l'organo esecutivo della psiche ed è implicato in
numerose funzioni di regolazione. Un individuo con un lo forte tende ad avere un buon controllo
degli impulsi e mostra la capacità di tollerare affetti come ansia, rabbia e dolore. Tra le altre risorse
dell'lo vi è la capacità di anticipare le conseguenze delle proprie azioni (capacità di giudizio) e di
portare avanti attività come la scuola o il lavoro di fronte agli ostacoli e alle avversità. I pazienti
con queste capacità dell'lo sono probabilmente capaci di tollerare la frustrazione e l'ansia legate
all'esplorazione degli abissi più oscuri della psiche, che sfuggono o combattono da tempo. Invece,
quelli con un Io debole, caratterizzato da impulsività, problemi nella capacità di giudizio e
nell'esame di realtà nonché scarsa capacità di tollerare gli stati affettivi, avranno minori
probabilità di resistere alle sollecitazioni della psicoterapia e possono anche abbandonarla dopo
poche sedute.

Conflitto intrapsichico e deficit evolutivi: Nella psicologia dell'Io classica, il conflitto intrapsichico
si ha quando una difesa si contrappone a un desiderio o a un impulso. L'Es può ricercare il piacere,
mentre il Super-io proibisce all'impulso di trovare gratificazione.
Nella teoria delle relazioni-oggettuali, il conflitto deriva dalla compresenza di disparati desideri o
impulsi legati a diverse rappresentazioni di se stessi e degli altri. Qualunque sia il modello cui ci
riferiamo, il conflitto interno è fonte di grande sofferenza e spesso rappresenta il motivo per cui ci
si rivolge alla terapia psicodinamica. Il conflitto è spesso inconscio e si manifesta attraverso un
sintomo, come per esempio un'inibizione nei rapporti lavorativi o sentimentali.
I deficit evolutivi possono dipendere invece da esperienze precoci di abuso, incuria o incapacità
genitoriale di rispondere empaticamente ai bisogni del bambino. La psicologia del Sé si basa sul
modello del deficit, ipotizzando, per esempio, l'assenza di risposte di rispecchiamento da parte dei
genitori o dei caregiver del bambino. Nei termini della teoria delle relazioni oggettuali di scuola
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britannica, la madre invade il Sé del bambino, per cui si crea un falso-Sé che ha la funzione di
proteggere il vero Sé (Winnicott, 1965). I pazienti con un livello di deficit maggiore possono
richiedere un maggior sostegno per tollerare l'insight, mentre quelli con problematiche più
orientate verso il conflitto intrapsichico possono rispondere più facilmente alle interpretazioni e
all'insight. Nella maggior parte dei casi vengono riportati livelli variabili di conflitto e di deficit
associati in modo unico e idiosincratico in base alla storia, alle vulnerabilità genetiche e alla
resilienza del paziente.

La formulazione biopsicosociale
La formulazione di ciò che si apprende del paziente all'inizio della psicoterapia psicodinamica
fornisce una mappa di partenza che può essere riscritta nelle tappe successive del viaggio. Tale
formulazione deve includere la conoscenza del contributo relativo della biologia, dei fattori
psicologici e delle influenze socioculturali. La terapia psicodinamica non può aver luogo in un
"vuoto" incentrato solo sull'intrapsichico e slegato da fattori come quelli genetici, le lesioni
cerebrali dovute a traumi, il background religioso e le particolari credenze culturali. La maggior
parte dei terapeuti redigeranno una breve formulazione o almeno si formeranno un'idea del
paziente all'inizio della terapia.
La formulazione biopsicosociale generalmente comprende tre aspetti principali: (1) una breve
descrizione del quadro clinico e delle tensioni che hanno portato il paziente al trattamento; (2) il
tentativo di integrare fattori biologici, intrapsichici e socioculturali in base al loro contributo
relativo ai problemi riportati; (3) una dichiarazione succinta sul trattamento e sulla prognosi in
base all'effetto combinato di tali fattori.

Gli obiettivi della psicoterapia psicodinamica


È necessario che paziente e terapeuta collaborino fin dall'inizio per concordare obiettivi realistici.
Una paziente potrebbe porsi l'obiettivo di sposarsi e avere un bambino, ma il terapeuta,
realisticamente, non può promettere che la psicoterapia raggiungerà questo scopo. Può essere
necessario riformulare l'obiettivo del trattamento nei termini di una comprensione dei conflitti
interni e interpersonali che possono interferire con il raggiungimento, da parte del paziente, di
relazioni mature e dell'esplorazione delle inibizioni che possono essere coinvolte nel desiderio di
voler diventare genitore. A volte occorre discutere a lungo sugli obiettivi prima che terapeuta e
paziente concordino sulla direzione che dovrà seguire la terapia. Inoltre, la terapia spesso segue
inaspettate deviazioni e sentieri tortuosi che richiedono una modificazione o un ripensamento
degli obiettivi terapeutici.
Gli obiettivi possono essere profondamente influenzati dall'orientamento teorico dello
psicoterapeuta dinamica:
- Ricerca della verità riguardo a se stessi;
- La risoluzione del conflitto: deriva dalla psicologia dell'Ilo e dal modello strutturale. Esplorando
impulsi, desideri e difese, i pazienti possono imparare a gestire i conflitti (anche se non è possibile
sradicarli completamente). La ricerca dell'autenticità e della verità riguardo a se stessi può avere
un ruolo centrale nella terapia psicodinamica, in riferimento all'opera di Winnicott;
- La psicologia del Sé cerca di promuovere nel paziente il ricorso a oggetti-Sé più adatti a
convalidare i propri bisogni. La maggior parte degli approcci terapeutici cerca di migliorare le
relazioni. La teoria delle relazioni oggettuali sostiene esplicitamente che il paziente debba
"rimpossessarsi" delle parti delle rappresentazioni del Sé o dell'oggetto proiettate sugli altri al fine
di raggiungere un senso più integrato del Sé e ricavare maggiore soddisfazione dalle relazioni;
- Miglioramento delle relazioni interpersonali come risultato di una maggiore comprensione
delle proprie relazioni oggettuali interne;
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- La ricerca o creazione di significato nella propria vita come risultato del diaologo terapeutico:
alcuni modelli, come la teoria relazionale (Mitchell, 1997), suggeriscono che il dialogo terapeutico
sia specificamente designato a scoprire significati inconsci e a creare nuovi significati attraverso gli
scambi fra paziente e terapeuta;
- Lo sviluppo della capacità di mentalizzazione: rappresenta un obiettivo fondamentale per le
terapie influenzate dalla teoria dell'attaccamento. Lo scopo è quello di promuovere il senso di
intersoggettività, anziché presumere che il proprio modo di pensare sia condiviso da chiunque
altro;
Un rischio sempre presente in ogni tipo di psicoterapia è la possibilità che  il terapeuta imponga i
propri obiettivi al paziente. Un principio fondamentale della terapia psicodinamica è che il
terapeuta rispetti l'autonomia del paziente anziché cercare di controllarne convinzioni, pensieri e
sentimenti. Quando si creano delle divergenze, gli obiettivi del paziente, se ragionevoli,
generalmente hanno la precedenza su quelli del terapeuta. Un'eccessiva enfasi sugli obiettivi può
inoltre attivare le resistenze del paziente. Molti pazienti possono aver bisogno, in una certa fase
della psicoterapia, di sentirsi liberi di esplorare il proprio Sé senza obiettivi prefissati.
Gli obiettivi della psicoterapia psicodinamica ci dicono che essa è meno improntata
all'eliminazione dei sintomi rispetto alle tecniche che derivano dalla teoria comportamentale,
come l'esposizione e la prevenzione delle risposte. Per quanto importante possa essere intervenire
sui sintomi bersaglio, va considerato l'obiettivo più  generale di promuovere un cambiamento più
fondamentale della personalità, intervenendo sulle vulnerabilità inerenti il carattere o la
personalità del paziente.
Spesso, nella terapia psicodinamica, l'intervento sugli elementi di vulnerabilità o sui conflitti interni
prende il nome di "cambiamento strutturale", ed è mirato alla promozione del funzionamento
globale e dell'esperienza soggettiva del paziente.

L’alleanza terapeutica
L'alleanza terapeutica rappresenta l’involucro nel quale si svolge la terapia  psicodinamica. Per
accertarsi che la terapia abbia un buon outcome, un bravo terapeuta deve prestare attenzione
all'alleanza terapeutica fin dall’inizio del trattamento. La ricerca ha ripetutamente dimostrato che
il ruolo della relazione terapeutica è più importante di ogni tecnica specifica nel produrre un
outcome terapeutico favorevole.
Gli aspetti comunemente legati a una buona alleanza terapeutica sono i seguenti: il paziente
sviluppa un legame di attaccamento con il terapeuta; il paziente sente che il terapeuta è d'aiuto;
ed entrambi avvertono un senso di mutua collaborazione nel  perseguimento di obiettivi
terapeutici comuni.
Pochi concetti della psicoterapia dinamica sono stati oggetto di studi rigorosi come l'alleanza
terapeutica. Numerose ricerche indicano che una solida alleanza terapeutica è positivamente
correlata al buon outcome del trattamento, che le valutazioni del paziente tendono a essere più
predittive di tale outcome rispetto a valutazioni compiute da altri, e che una precoce alleanza
terapeutica predice l'outcome in misura pari o maggiore alle rilevazioni successive.
Questi studi evidenziano che l'alleanza terapeutica si forma nelle prime fasi del trattamento, a
partire dalla prima seduta, e predice l'andamento successivo della terapia. Alcuni studi forniscono
indicazioni su cosa può fare il clinico nelle prime sedute per promuovere l'alleanza terapeutica.
Anzitutto, il terapeuta deve mostrarsi ricettivo nei confronti del paziente e trasmettergli fiducia,
calore e comprensione. L'alleanza terapeutica è promossa anche dall'esplorazione non giudicante
dell'andamento della seduta e di ciò che prova il paziente, come pure da un discorso che unisce
contenuti emotivi e cognitivi. Infine, può essere favorita dall'identificazione da parte del
terapeuta di nuovi temi clinici a livelli sempre più profondi di comprensione e insight.
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La strategia di base della psicoterapia dinamica, nelle fasi successive, consiste nel prestare
particolare attenzione alle rotture che si verificano nell'alleanza. Tali rotture sono in genere
definite come una sorta di interruzione o logorio del processo collaborativo fra terapeuta e
paziente, di ostacolo alla comunicazione fra i due o di deterioramento generale della qualità della
relazione. Le rotture possono comportare il ritiro del paziente dal dialogo terapeutico o una
risposta di irritazione o di accusa nei confronti della terapia o del terapeuta. È essenziale per il
terapeuta identificare queste rotture ed esplorarle a fondo, per evitare che il paziente interrompa
il trattamento senza aver elaborato le ragioni della rottura. I terapeuti che riescono a riconoscere il
loro contributo alle rotture, anziché attribuire la colpa al paziente, hanno maggiori probabilità di
riparare il danno all'alleanza. Le rotture dell'alleanza spesso aprono una finestra sulle
preoccupazioni inespresse circa la terapia, e rappresentano quindi una preziosa opportunità di
affrontare problematiche che possono avere un impatto negativo sul trattamento.

Gli interventi terapeutici


Anche se il dialogo terapeutico dovrebbe essere il più possibile spontaneo, è utile far riferimento a
un continuum di interventi mirati a promuovere il cambiamento terapeutico. Queste categorie non
coprono l'intera gamma di commenti del terapeuta, ma rappresentano degli utili indicatori
che possono aiutarlo ad adattare la tecnica alle necessità del paziente.
La psicoterapia dinamica si colloca lungo un continuum espressivo-supportive. Ciascun intervento
occupa una particolare posizione in tale continuum.

Interpretazione. Il termine espressivo è impiegato come sinonimo di esplorativo o interpretativo.


Pertanto, alla sinistra del continuum troviamo l'interpretazione, il commento più espressivo e
orientato all’insight nell’armamentario terapeutico.
L'intento è rendere il paziente consapevole di aspetti che sono attualmente  al di fuori della sua
consapevolezza. Le interpretazioni possono portare alla coscienza qualcosa che in precedenza era
inconscio, o mostrare un legame che era al di fuori della consapevolezza del paziente in modo da
produrre insight. Un esempio di interpretazione è il seguente:

TERAPEUTA: Sembra che lei contrasti i suoi progressi-perché si preoccupa che sua madre possa
essere invidiosa e rivalersi su di lei.

Come illustra quest'esempio, l'interpretazione normalmente consiste nello spiegare qualcosa al


paziente. Essa tende a essere meglio accolta quando è  presentata al paziente come provvisoria,
ossia come una possibilità anziché un'affermazione definitiva proveniente da una fonte oracolare
di conoscenza.

Osservazione. L'interpretazione consiste nella spiegazione di un legame fra una cosa e un'altra.


L'osservazione, invece, non suggerisce una connessione o la spiegazione di una motivazione
sottostante, ma si limita a richiamare l'attenzione del paziente su qualcosa che è al di fuori della
sua consapevolezza. Un esempio potrebbe essere un semplice commento come: "Ha notato che

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quasi sempre sbadiglia quando entra nello studio e mi saluta?". Le osservazioni spesso si
riferiscono a comunicazioni non verbali o agiti inconsci, che sono visibili al terapeuta, ma che il
paziente non riesce a notare.

Confrontazione. A differenza delle osservazioni, che si riferiscono a comportamenti al di fuori della


consapevolezza conscia del paziente, la confrontazione generalmente evidenzia qualcosa che
viene evitato ma di cui il paziente è consapevole.
La confrontazione può inoltre servire a stabilire dei limiti con i pazienti che  stanno forzando i
confini del setting terapeutico.

Chiarificazione. Buona parte del lavoro del terapeuta consiste nel chiarire che cosa cerca
di esprimere il paziente. I pazienti possono essere vaghi o incerti su ciò che provano o pensano, e il
terapeuta spesso cerca di riassumere o riformulare le loro parole in modo da chiarirle a entrambi.

Incoraggiamento a elaborare. Nel mezzo del continuum è situato l'intervento noto come
incoraggiamento a elaborare. È teso a stimolare ulteriori commenti da parte del paziente. Il
principio delle libere associazioni, che deriva dalla psicoanalisi, si applica anche alla terapia
psicodinamica. I terapeuti fanno il possibile per incoraggiare i pazienti a riportare senza censure e
liberamente ciò che passa loro per la mente. Pertanto, un intervento frequente è: "Vorrei saperne
di più". A volte il terapeuta interrompe il paziente quando sente che non è stato detto tutto: "Sono
certo che la reazione emotiva non si limita a ciò che mi ha riportato finora. Potrebbe dirmi
qualcosa di più?". Generalmente, questo tipo di intervento prevede un finale aperto, ma può
anche essere diretto a qualcosa di specifico: "Vorrei sapere qualcosa in più del padre di sua madre.
Non ne abbiamo parlato molto".

Validazione empatica. Spesso i pazienti hanno avuto, nel corso della loro infanzia, genitori che
hanno invalidato o negato i loro vissuti interiori, e sono quindi stati costretti a portare una
maschera (ovvero, sviluppare un falso Sé) nel loro ambiente familiare. Il terapeuta può essere di
grande aiuto quando conferma al paziente che ha diritto di provare certi sentimenti e che la sua
risposta è giustificata da ciò che gli è accaduto. Questo genere di intervento può applicarsi anche
alla situazione qui e ora: "Ha tutte le ragioni per essere diffidente nei miei confronti, considerate le
sue esperienze passate con le figure che detengono una qualche autorità”.

Interventi psicoeducativi. Avvicinandosi all'estremo supportivo del continuum, la psicoterapia


assume una valenza più pedagogica. La psicoterapia dinamica ha sempre un valore  didattico, in
quanto aiuta i pazienti a imparare su se stessi cercando di esprimere la natura dei loro problemi. A
volte i pazienti richiedono specificamente  informazioni sulla natura dei loro disturbi, sugli obiettivi
della psicoterapia o sui suoi limiti. Per esempio, il terapeuta potrebbe spiegare il motivo per cui
non può accettare donazioni da parte di un paziente.

Consigli ed elogi. Gli interventi più supportivi nella psicoterapia dinamica sono quelli che lodano
esplicitamente il paziente per specifici comportamenti o commenti, o  consigliano una particolare
linea d'azione. I pazienti che attraversano un momento di crisi possono aver bisogno di consigli
specifici come: "Dovrebbe chiedere aiuto a un'associazione di difesa delle donne anziché rischiare
la vita restando con suo marito". Questo intervento si è reso necessario dopo che una paziente
che veniva regolarmente percossa dal marito si era vista puntare contro una pistola. Gli elogi
possono promuovere l'alleanza terapeutica e aiutare il paziente a sentire che sta partecipando in
modo efficace alla terapia. Un tipico commento di elogio è: "Penso che lei abbia avuto al riguardo
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un'intuizione molto importante alla quale non avevo pensato". L'elogio spesso consiste in
affermazioni in cui il terapeuta esprime stima al paziente.

Anche se la maggior parte dei commenti del terapeuta può essere categorizzata lungo il
continuum espressivo-supportivo descritto in questo capitolo, i  terapeuti dovrebbero pensare al
tempo trascorso con il paziente come a una  forma di dialogo caratterizzata da spontaneità e
sensibilità. I terapeuti che si limitano a seguire i principi tecnici come se fosse un requisito della
terapia potrebbero perdere il paziente, apparendo rigidi e organizzati. Un bravo  terapeuta
psicodinamico dovrebbe avere un atteggiamento flessibile, e dovrebbe adattare il trattamento al
paziente, non il contrario. Il terapeuta deve sapersi spostare flessibilmente lungo gli interventi di
questo continuum in base ai bisogni del paziente e non applicarli rigidamente.

Il transfert
Esso può essere semplicemente definito come il trasferimento sul terapeuta di  pensieri e
sentimenti associati a una figura del passato del paziente. Il transfert è spesso un fenomeno
inconscio, almeno inizialmente, e il paziente è sconcertato dal proprio comportamento, che reputa
insensato se riferito al terapeuta in quanto persona reale. Mentre la definizione
originaria assumeva che una sorta di "calco" originato nell'inconscio del paziente si sovrapponesse
alla persona del terapeuta senza particolari modifiche, oggi  l'opinione prevalente è che il
comportamento reale del terapeuta influenzi sempre l'esperienza che il paziente fa di lui. Quindi,
il transfert riguardante il terapeuta si basa in parte su caratteristiche reali e  in parte su figure
provenienti dal passato del paziente - una combinazione  di vecchie e nuove relazioni.
Un errore dei terapeuti inesperti può essere quello di concentrarsi troppo  presto sul transfert.
Come principio generale, si dovrebbe rimandare l'interpretazione del transfert finché non diventa
resistenza e raggiunge la consapevolezza del paziente. In altre parole, se tutto procede
ragionevolmente bene, non vi è ragione di interpretare il transfert. Se invece, per esempio, il
paziente manifesta sentimenti erotizzati o estremamente negativi, che possono ostacolare
l'andamento della terapia, allora può essere  essenziale interpretarlo. Molti terapeuti considerano
il trattamento incentrato sul transfert come più esplorativo rispetto alla terapia orientata sulle
relazioni extratransferali. Nella terapia supportiva, l'interpretazione del transfert può essere
ridotta al minimo, per quanto implicitamente presente nel terapeuta per aiutarlo nella
comprensione del paziente.

I terapeuti psicodinamici ritengono che i pazienti ricreino le loro situazioni familiari in seduta, oltre
che nelle relazioni significative al di fuori della terapia. Uno strumento utile in questo caso è
l’inpretazione del transfert, un processo teso a spiegare al paziente che ciò che  accade nella
relazione terapeutica è simile a che ciò accade al di fuori della terapia. Molti pazienti si sentono
mortificati e "colti sul fatto" quando il terapeuta interpreta questo tipo di ripetizione, per cui è
necessario ricorrere alle interpretazioni transferali con giudizio.
Il transfert si manifesta in molti modi. I sogni, per esempio, possono rivelare sentimenti nei
confronti del terapeuta che altrimenti non entrerebbero  a far parte del processo. I pazienti
possono parlare di un altro medico o terapeuta in termini molto emotivi per proiettare altrove
sentimenti legati al transfert. Oppure, una paziente che nutre sentimenti erotici nei confronti  del
terapeuta può lasciarsi coinvolgere in un rapporto erotico con qualcuno che glielo ricorda.
Nel corso della psicoterapia, possono attivarsi diverse tipologie di trarsfert. Nell'attuale dibattito in
ambito psicoanalitico e psicodinamico, il transfert non è riferito a una sola persona, ma esistono
transfert multipli legati ai genitori, ai fratelli e ad altre figure significative. Inoltre, alcuni
pazienti mostrano una resistenza nei confronti del transfert , che impedisce loro di lavorare nella
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relazione transferale o di diventare consapevoli dei propri sentimenti  nei confronti del terapeuta;
in questi casi, il terapeuta dovrà limitarsi  a interpretare il significato delle relazioni esterne alla
terapia fino a quando i pazienti non si sentiranno abbastanza a loro agio nel portare materiale
all'interno della relazione terapeutica. Altri pazienti possono ricavare beneficio dalla psicoterapia
senza che il transfert emerga mai in prime piano.
Pertanto, è necessario adattare a ogni particolare paziente la tipologia d'intervento e la quantità di
lavoro dedicata al transfert.

Il comtrotransfert
Il significato originario del termine controtransfert, nella descrizione di Freud, si riferisce al
transfert dell'analista nei confronti del paziente. In altre parole, il paziente può ricordare al
terapeuta qualcuno del suo passato, e quindi il terapeuta inizia a trattare il paziente come se fosse
quella persona.
Col tempo, questa concezione del controtransfert si è ampliata fino a includere la risposta emotiva
complessiva del terapeuta nei confronti del paziente. Oggi viene riconosciuto che il controtransfert
è creato congiuntamente e, oltre a riguardare le relazioni del passato del terapeuta, comprende i
sentimenti suscitati nel terapeuta dal comportamento del paziente. La parte di controtransfert
indotta dał paziente è generalmente indicata come identifcazione proiettiva. Questo processo
comprende due passaggi: (1) una rappresentazione del Sé o dell'oggetto interna al paziente viene
negata proiettivamente trasferendola inconsciamente su qualcun altro e; (2) chi proietta
esercita una pressione interna che spinge l'altro a sperimentare o a identificarsi inconsciamente
con quanto viene proiettato. Si potrebbe notare che il primo passaggio rappresenta una
particolare forma di transfert, mentre il secondo consiste in una reazione controtransferale.  Nel
contesto psicoterapeutico, si verifica un terzo passaggio: (3) il contenitore della proiezione, il
terapeuta, accoglie e tollera lo stato affettivo e la proiezione della rappresentazione del Sé o
dell'oggetto associata a esso finché il paziente non sarà in grado di "riappropriarsi" di quanto è
stato proiettato. In tal senso, l'identificazione proiettiva può essere considerata non solo un
meccanismo di difesa intrapsichico, ma anche una forma di comunicazione interpersonale.
L'identificazione proiettiva spesso è avvertita come impellente. Il terapeuta può sentirsi come se
una forza aliena si stesse impadronendo di lui, obbligandolo ad agire (enactment) il ruolo imposto
dal paziente. Questa condizione, a ogni modo, può avere un'utilità terapeutica, in quanto il
terapeuta sta facendo esperienza di qualcosa che lo accomuna ad altre persone significative nella
vita del paziente.
Alcuni terapeuti possono utilizzare il controtransfert per interpretare qualcosa di importante per il
paziente. Per esempio, il terapeuta può dire: "Ho notato che mi sento un po' frustrato perché
continuo a farle domande per cercare di capire che cosa pensa o prova, ma lei mi dice assai poco.
È un po’ quello che succede spesso a lei con suo marito". Evidenziando il processo interpersonale,
il terapeuta può aiutare il paziente a riflettere sul suo ruolo attivo nel creare una situazione che
può essere spiacevole o problematica nei rapporti esterni alla terapia.
Il terapeuta può rivelare il proprio controtransfert per promuovere il progresso  terapeutico del
paziente. Questo tipo di self-disclosure deve essere usato  con giudizio, in quanto la rivelazione di
alcuni sentimenti controtransterali può avere effetti deleteri sul processo terapeutico.
Sentimenti controtransferali positivi possono essere presenti senza che il terapeuta ne sia a
conoscenza. Una considerazione positiva verso il paziente può essere confusa con un
atteggiamento premuroso che facilita la terapia.
Tuttavia, anche i sentimenti positivi possono complicare il controtransfert.
Il terapeuta può essere restio ad affrontare con il paziente il tema dell’aggressività e altri problemi
per non "agitare le acque" e attirarsi il risentimento del paziente. In modo simile, il bisogno di
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salvare il paziente può impedire a quest'ultimo di sviluppare la capacità di far leva sulle proprie
forze nella gestione dei problemi.

La resistenza 
I pazienti inconsciamente si oppongono agli sforzi del terapeuta di promuovere l'insight e il
cambiamento terapeutico. Le resistenze mostrate nel corso della terapia sono espressione dei
meccanismi di difesa del paziente, che lo preservano da emozioni spiacevoli o dolorose.
La resistenza può esprimersi in forma verbale. Può consistere in un'ammissione cosciente di non
voler seguire la strada indicata  dal terapeuta, ma può anche manifestarsi come la difficoltà ad
arrivare puntuali, o la preferenza per argomenti di discussione che appaiono irrilevanti ai fini
terapeutici. I terapeuti psicodinamici considerano le resistenze una preziosa fonte di informazioni
sul paziente, spesso in rapporto a un oggetto interno che rappresenta una figura profondamente
significativa nel passato del paziente, trasferita nella relazione presente con il terapeuta.
Al riguardo, molte resistenze rappresentano resistenze transferali. Il paziente può opporsi agli
sforzi del terapeuta a causa di pensieri o sentimenti  inconsci nei suoi confronti, basati su figure del
proprio passato. Il paziente può sentirsi deriso per le sue rivelazioni o criticato per le sue
debolezze. Un bravo terapeuta psicodinamico non affronta direttamente la resistenza cercando di
"sradicarla dal paziente, ma si sforza di comprenderne  le ragioni, incoraggiando il paziente a
riflettere su cosa lo rende tanto oppositivo e perché.
Quando il paziente riporta di non sapere cosa dire o non riesce a rivelare certi aspetti di sé, il
terapeuta generalmente non affronta direttamente ciò che viene nascosto, ma cerca di analizzare
la resistenza prima del contenuto. Anziché invitare il paziente a parlare di ciò che non riesce a
esprimere può chiedere: "Ha qualche idea su che cosa la preoccupa al punto da impedirle di
parlarmi di questo?", eventualmente aggiungendo: "Come immagina che potrei reagire se mi
rivelasse il suo segreto?"
Un'altra forma di resistenza si ha quando gli acting out si sostituiscono  alle parole. I pazienti spesso
manifestano ripetutamente nelle azioni ciò che non riescono a ricordare; compito del terapeuta è
studiare attentamente i loro agiti non verbali per comprenderne il significato.
La psicologia del Sé ha una concezione più positiva delle resistenze, che  assumono un significato di
difese del Sè. I terapeuti di quest’orientamento  ritengono che occorra comprendere e rispettare il
bisogno del paziente di difendersi anziché metterlo in discussione. La maggior parte dei terapeutici
generalmente condivide questa posizione, visto che, affrontando direttamente le resistenze,
raramente si riesce a risolverle.
La maggior parte delle difese sono radicate nel carattere, per cui molti pazienti manifestano
resistenze caratteriali. Per esempio, un paziente con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità,
caratterizzato da difese quali l'isolamento dell'affetto, la formazione reattiva e
l'intellettualizzazione, contrasterà la terapia intellettualizzando e riportando il contrario di quel
che sente. L'elaborazione delle resistenze radicate nella personalità è al centro della psicoterapia
psicodinamica, in quanto l'analisi sistematica di tali resistenze può aprire una finestra sui pattern
relazionali caratteristici e le angosce sottostanti che attivano le difese.

L’elaborazione e le strategie terapeutiche 


I pattern caratteristici legati alle difese e alle relazioni oggettuali interne emergono più volte in
diversi contesti, e vengono ripetutamente chiariti, affrontati, osservati e interpretati. Evidenziando
i pattern ripetitivi che si manifestano nel transfert e nelle relazioni con il mondo esterno, e la loro
origine nelle relazioni infantili, il terapeuta aiuta il paziente a riconoscere gradualmente il suo
contributo alle situazioni che si creano nella sua vita. Pertanto, uno dei risultati dell'elaborazione

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è quello di promuovere il senso di agency del paziente, consentendogli di sentirsi protagonista
della propria vita. L'elaborazione consiste in buona parte  nell'analisi sistematica delle fantasie
consce e inconsce riportate dal paziente, e dei temi ricorrenti nei suoi sogni.
Alcune strategie possono contribuire a promuovere un processo di elaborazione efficace:
- L'esplorazione del tema relazionale conflittuale centrale (Core Conflictual Relationship Theme,
CCRT nella formulazione di Luborsky), può contribuire a migliorare le capacità di auto-
osservazione e conoscenza di sé del paziente. Il CCRT consiste in una fantasia relazionale
ricorrente, che comprende un desiderio del paziente, una risposta immaginaria o reale da parte di
un altro significativo, e la corrispondente risposta del Sé. La risposta del Sé include non solo
comportamenti e azioni, ma anche sentimenti e stati del Sé che non possono essere espressi. Il
terapeuta ricava il CCRT dall'ascolto delle narrazioni del paziente su avvenimenti esterni alla
terapia. Spesso il CCRT è rivelato dall'esplorazione dettagliata delle aspettative e delle delusioni del
paziente;
- Un'altra strategia utile consiste nel prestare attenzione agli stati affetivi del paziente e fare
interventi che facilitino l'espressione emotiva;
- Un'altra tecnica consiste nel formulare un'interpretazione sotto forma di chiarificazione, in
modo da amplificare lo stato affettivo del paziente;
- Un'ulteriore strategia consiste nel promuovere la mentalizzazione aiutando i pazienti a vedere le
situazioni da altri punti di vista. Goldberg sottolinea la necessità di spostarsi, durante il processo di
elaborazione, da una prospettiva in prima persona a una in terza persona. È necessario che il
terapeuta confermi l'esperienza vissuta in prima persona dal paziente cercando allo stesso tempo
di aiutarlo a guardare alla propria esperienza dall'esterno, secondo una prospettiva in terza
persona. Con tatto e prudenza il terapeuta può riformulare dal proprio punto di vista le esperienze
del paziente, in modo che egli inizi gradualmente a riconoscere punti di vista alternativi.
Il terapeuta può promuovere la mentalizzazione richiamando l'attenzione sullo stato mentale del
paziente, anche quando questi non è consapevole della natura di tale stato. Se, per esempio, il
paziente stringe i pugni, il terapeuta può osservare che sembra arrabbiato, spiegando in che
modo la rabbia può influenzare il suo modo di percepire. Oppure, dopo un comportamento
impulsivo, il terapeuta può chiedere al paziente che cosa ha scatenato quel comportamento. Per
migliorare la capacità di mentalizzazione del paziente, infine, un'altra tecnica utile consiste
nell'aiutarlo a ‘focalizzarsi sulla mente del terapeuta.

La conclusione della terapia 


La terapia può terminare in modi molto diversi, spesso condizionati da considerazioni pratiche
come problemi finanziari, trasferimenti del paziente o del terapeuta, o un'impasse del
trattamento. Uno dei vantaggi dello stabilire obiettivi all'inizio della terapia (e in seguito) è che
paziente e terapeuta possono valutare  insieme il progresso del trattamento, valutando quanti
obiettivi sono stati raggiunti e in che misura.
Il terapeuta dovrebbe evitare di idealizzare, a livello controtransferale, la  conclusione del
trattamento, aspettandosi un risultato perfetto. In realtà, uno dei principali scopi della terapia
consiste nell'aiutare il paziente a interiorizzare il processo di indagine promesso dalla terapia in
modo da proseguire nell'opera da solo. 
Quando i pazienti sono decisamente intenzionati a terminare la terapia  per qualunque ragione,
serve a poco che il terapeuta insista perché continuino. La psicoterapia psicodinamica non si basa
sulla coercizione. I pazienti dovrebbero venire in seduta perché lo vogliono, non perché si sentono
obbligati. È molto meglio lasciar andare il paziente con l'idea che "la porta è sempre aperta", in
modo che possa ritornare quando ne avverta il bisogno.

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Molti pazienti ritornano periodicamente per qualche seduta o per un prolungamento della terapia,
in base alle nuove difficoltà che si presentano nelle loro vite. Altri-pazienti restano tali per tutta la
vita" e incontrano il terapeuta ogni sei mesi circa per mantenere stabili i loro progressi. Nel follow-
up del Menninger Psychotherapy Research Project, Wallerstein (1986) ha osservato che alcuni
pazienti compivano progressi a condizione che non venisse loro prospettata la conclusione del
trattamento. Il continuo legame con il terapeuta mostrava di avere un effetto positivo che andava
oltre il bisogno di dipendenza del paziente.
Le modalità di conclusione della terapia sono molteplici e spesso inaspettate:
- Mutuo accordo fra terapeuta e paziente rispetto al raggiungimento degli obiettivi;
- Conclusione programmata in anticipo dopo un certo numero di sedute;
- Conclusione obbliga dovuta al fatto che o il terapeuta o il paziente si trasferiscono o chi paga per
il paziente interrompe il pagamento;
- Conclusione decisa unilateralmente in seguito al fatto che il terapeuta o il paziente ritengono
inutile continuare il trattamento;
- Fallimento del tentativo di porre fine alla terapia, che porta a uno stato di “paziente a vita”;
- Definizione di un termine come strategia terapeutica;
Ma soprattutto, le modalità di conclusione vanno adattate ai singoli casi.

Capitolo 3. La psicoterapia psicodinamica breve: aspetti tecnici


Tutte le psicoterapie brevi derivano dalla psicoanalisi.
I seguaci di Freud hanno introdotto formalmente e specificato gli elementi fondamentali della
terapia breve: un ruolo più attivo del terapeuta, la definizione di un limite alla durata del
trattamento e/o al numero di sedute, un focus terapeutico circoscritto e criteri di selezione dei
pazienti più restrittivi
Definiamo la psicoterapia dinamica breve (Brief Psychodynamic Psychoterapy, BPP) una terapia
che dura meno di sei mesi o comprende meno di ventiquattro sedute. 

Le terapie psicodinamiche brevi: aspetti in comune 


Gli obiettivi della BPP consistono nel sollievo dai sintomi che causano sofferenza, nella risoluzione
dei conflitti fondamentali e, in alcuni casi, in un intervento sulla patologia caratteriale.
Le caratteristiche che accomunano le diverse forme di BPP sono:
- l’attenzione ad una rapida formazione dell’alleanza;
- l’utilizzo di una terapia focalizzata su un problema circoscritto;
- una maggiore attività del terapeuta;
- la richiesta una maggiore capacità di tollerare le separazioni da parte del paziente;
- il trattamento di pazienti caratterizzati da relazioni oggettuali adeguate;
- il trattamento dei disturbi meno gravi;
- il focus sul qui e ora.

Mentre, invece, la psicoterapia psicodinamica a lungo termine pone particolare attenzione ad un


graduale sviluppo dell’alleanza; è focalizzata sullle diverse problematiche; richiede una moderata
attività del terapeuta; è rivolta a quei pazienti che mostrano una capacità variabile di tollerare le

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separazioni, con relazioni oggettuali da insufficienti ad adeguate e che presentano disturbi più
gravi; il focus è sul rapporto fra presente e passato.

Elementi strutturali
Ogni forma di BPP condivide i seguenti elementi strutturali:
-Coinvolgimento: Rapida formazione di un'alleanza terapeutica e traduzione dei problemi riportati
in obiettivi fondamentali.
-Discrepanza: Sviluppo di nuove capacità, conoscenze ed esperienze nel paziente, che mettano in
discussione gli schemi del passato e facilitino una nuova consapevolezza e condotta.
-Consolidamento: Sperimentazione dei nuovi schemi in vari contesti, accompagnata da feedback,
per consentire la loro interiorizzazione e prevenire ricadute.

Caratteristiche riferite al paziente: intervista iniziale e selezione dei pazienti 


Viene condotta una valutazione psichiatrica e psicodinamica completa, al fine di selezionare solo
quei pazienti che possono trarre beneficio da questo tipo di trattamento, cioè pazienti che
presentano una diagnosi di depressione lieve o moderata, Ansia (PTSD, ansia sociale, attacchi di
panico), di Disturbi somatoformi, Disturbi del comportamento alimentare e Disturbo da
dipendenza da oppiacei. Diverse caratteristiche relative al paziente  sono state individuate come
essenziali nell'indicazione di una BPP. Queste includono una motivazione al trattamento, la
capacità di identificare problemi circoscritti, la presenza di relazioni oggettuali di buon livello
(nel presente e nel passato), la capacità di formare rapidamente un'alleanza terapeutica e la
capacità di tollerare le separazioni.

Focus circoscritto sul problema


Dopo aver condotto una valutazione accurata, il terapeuta traduce i problemi presentati dal
paziente in una formulazione psicoanalitica, i cui temi principali si concentrano intorno a conflitti
basati su pulsioni, impulsi, difese, pattern relazionali, desideri e altre situazioni conflittuali di
carattere generale. 
Il problema identificato come centrale viene presentato al paziente, insieme a un contratto
terapeutico orientato alla sua elaborazione. Questo punto rappresenta una delle variabili più
importanti nello sviluppo dell'alleanza terapeutica. Se il paziente non è d'accordo sul problema
identificato, è importante che questo sia riesaminato, riformulato e presentato nuovamente al
paziente perché lo riconsideri.
Poiché la terapia è a tempo determinato, ci si concentra sul raggiungimento  di uno o due obiettivi
ragionevoli. Obiettivi specifici potrebbero consistere  nella risoluzione dei sintomi o
nell'elaborazione delle relazioni conflittuali (ma con un limitato cambiamento di personalità).

Ruolo più attivo del terapeuta è tecniche utilizzate 


Una variabile fondamentale relativa al terapeuta, che distingue la BPP dalla psicoterapia
psicodinamica, è il livello di attività del terapeuta. Considerato che la BPP dura in genere
quattro/sei mesi-o anche meno, è essenziale che il  terapeuta abbia un ruolo attivo e promuova la
produzione di materiale nel corso della seduta. Dal momento che il problema bersaglio viene
presentato al paziente nella seduta iniziale, le sedute successive si focalizzano solo su quel
problema e sulla sua elaborazione.
Le particolari tecniche utilizzate dipendono dal modello terapeutico adottato. L’uso del transfert e
del controtransfert, la chiarificazione, l’interpretazione, l’uso di suggerimenti o consigli e la
conclusione della terapia sono le tecniche comuni a tutte le forme di terapia breve. Per quanto la
conclusione della terapia breve sia spesso definita dalla durata (per esempio, sei mesi) o dal
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numero di sedute (per esempio, ventiquattro), la terapia si conclude effettivamente solo nel
momento in cui il problema bersaglio è stato risolto e le nuove capacità psicologiche apprese
sono state interiorizzate, in modo che possano essere facilmente estese a una serie di altre
situazioni.

Specifiche forme di psicoterapia psicodinamica breve 


Possono essere identificati tre modelli principali il modello pulsionale-strutturale, il modello
relazionale e il modello integrato:

-Il modello pulsionale-strutturale. La BPP è stata formalmente introdotta negli anni Sessanta, nelle
diverse versioni proposte da autori come Davanloo, Malan e Sifneos, tutte ispirate al modello
putsionale-strutturale freudiano. I pazienti con disturbi dell'adattamento e forme meno gravi di
disturbo d'ansia, depressivo o di personalità, sono considerati possibili candidati a questo tipo di
terapia.
Malan e Sifneos escludono i pazienti con disturbi più gravi, mentre Davanloo include una gamma
più ampia di pazienti. Malan ha aggiunto altri criteri di esclusione, tra i quali (a) difficoltà a formare
un'alleanza dovuta a gravi problematiche depressive o transfert deficitari, (b) difese molto rigide,
(c) scarsa motivazione e (d) problemi caratteriali complessi e profondamente radicati. Secondo
Malan, l'obiettivo della terapia consiste nel risolvere un solo conflitto (o comunque un numero
limitato di conflitti). Tale conflitto, in genere, riguarda sentimenti o impulsi inaccettabili verso una
persona che ha un ruolo significativo nella vita del paziente; sentimenti che generano angoscia,
dalla quale il paziente si difende mobilitando una serie di meccanismi.
L'approccio di Malan identifica due tradizionali triangoli psicoanalitici di insight - il triangolo dei
conflitti e il triangolo delle persone - che aiutano a comprendere il problema e orientano il
trattamento. L'obiettivo principale è quello di stabilire una connessione fra i pattern evidenziati
nel triangolo dei conflitti (che comprende ansia, difese e impulsi o sentimenti) e una persona
individuata nel triangolo delle persone (che comprende il terapeuta, una persona appartenente al
passato del paziente e una con cui è attualmente in relazione), fino a quando tutte e tre le persone
non sono collegate. Il terapeuta si sposta da un triangolo all'altro offrendo chiarimenti sui pattern
relazionali più significativi. Malan è attento all’intero fronte del conflitto e, mediante accurate
interpretazioni, "smonta" le difese finché il conflitto non è elaborato.
Nella sua psicoterapia breve ansia-provocante (Short-Term Anxiety-Provoking Psychotherapy,
STAPP) Sifnees (1992, 2004) sottolinea l'importanza di presentare al paziente il problema
fondamentale su cui si focalizza l'intervento psicodinamico, che in genere riguarda conflitti edipici
o problematiche legate alla separazione e alla perdita. Adottando una tecnica di confrontazione
ansia-provocante, Sifneos affronta gli impulsi, i sentimenti, le difese e le resistenze del paziente,
con particolare attenzione al transfert. Nonostante lo stile di confronto diretto, Sifneos è attento
all'alleanza terapeutica e cerca di fornire al paziente un'esperienza emotiva correttiva. Quando
il paziente dimostra di aver compreso chiaramente le proprie difficoltà e manifesta segnali di
cambiamento nel comportamento, la terapia si avvia verso la conclusione.
Davanloo, da parte sua, stabilisce se il paziente è adatto alla terapia in una "terapia di prova" (trial
therapy) iniziale, che dura una o più ore, in cui cerca di "sbloccare l'inconscio" del paziente.
Sviluppa rapidamente un'alleanza terapeutica positiva e sistematica con il paziente contro il suo
disturbo, in modo da rendere quest'ultimo egodistonico. Si concentra quindi sul problema
principale adottando uno stile di confronto diretto, che mette sistematicamente in discussione le
difese del paziente e porta rapidamente alla luce ogni resistenza. Anche Davanloo utilizza i
triangoli psicoanalitici di insight e analizza direttamente il transfert ma, diversamente da altri
autori, non si attiene rigidamente alla regola di lavorare su un triangolo prima di passare all'altro.

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Egli elabora il triangolo delle persone spostandosi dal transfert alle relazioni presenti e passate.
Sottolinea l'importanza di fornire sostegno ed empatia nonostante lo stile di confronto diretto,
ritenendo in tal modo di favorire l'apertura del paziente, che consente di riportare alla coscienza
ed elaborare sentimenti e conflitti inconfessati. Una salda alleanza terapeutica è essenziale
quando si adotta la tecnica di confrontazione, e non tutti i pazienti sono in grado di reggere questo
particolare approccio. I criteri di inclusione di Davanloo consentono di selezionare pazienti con
disturbi più gravi e una patologia caratteriale più marcata rispetto ad altre forme di terapia breve.
Per favorire l'attivazione dell'inconscio, Davanloo pratica la "terapia a blocchi" (block therapy), che
consiste in sedute di cinque/sette ore al giorno, in blocchi di tre giorni consecutivi. Questi blocchi
si ripetono a uno/tre mesi di distanza.
L'approccio pulsionale-strutturale alla BPP si focalizza dunque sui conflitti fondamentali descritti in
origine da Freud, a partire dai quali Davanloo, Malan e Sineos hanno elaborato diverse forme di
terapia breve. 

Il modello relazionale 
Tra gli autori che hanno sviluppato forme di terapia psicodinamica breve ispirate al modello
relazionale vanno citati Strupp, Binder e Luborsky.
Strupp e colleghi (1997) hanno proposto un modello interpersonale incentrato sui modelli
disadattivi ciclici (CMP) considerati come comportamenti disfunzionali che si ripetono nel paziente
e che inducono comportamenti altrettanto negativi negli altri. Il modo in cui tali modelli si
manifestano nel transfert rappresenta il focus del trattamento, che sottolinea l'importanza del qui
e ora e delle dinamiche interpersonali emerse nella seduta.
La psicoterapia dinamica a tempo definito (Time-Limited Dynamic Psychotherapy, TLDP) è stata
ideata da Strupp e Binder (1984) e ulteriormente elaborata da Levenson (1995). Come in altre
forme di psicoterapia relazionale breve, viene attribuita minore importanza all'interpretazione e
all'insight, a vantaggio di quanto si può apprendere dall’ “esperienza" maturata nel corso della
seduta. La relazione terapeutica è considerata essenziale alla risoluzione dei modelli interattivi
disfunzionali, e il transfert è visto come il modo in cui il paziente percepisce il terapeuta in base
alle esperienze reali che ha vissuto in passato. In modo simile, il controtransfert è concepito come
la risposta naturale del terapeuta al processo interpersonale messo in moto dal paziente. Secondo
la TLDP, alcune esperienze del passato generano modelli relazionali disadattivi, che sono rinforzati
nel presente dal coinvolgimento del paziente in interazioni altrettanto disadattive. Questi modelli
vengono riattivati nella relazione terapeutica. La terapia quindi, cerca di aiutare il paziente a
elaborare queste dinamiche insieme al terapeuta, in modo che ciò che è stato appreso possa
essere trasferito alle relazioni nel mondo esterno. A tale scopo, il terapeuta si propone di offrire
una nuova esperienza relazionale al paziente. In presenza di diversi modelli relazionali disadattivi,
è importante concentrarsi su quello che crea maggiori difficoltà.
L'approccio relazionale più studiato resta tuttavia quello del tema relazionale conflittuale centrale
(CCRT) di Luborsky. In questo modello, Luborsky si propone di operazionalizzare il transfert,
dimostrando che i problemi interpersonali possono essere considerati in base a tre componenti:
desiderio, risposta degli altri e risposta del Sé.
Queste componenti rappresentano il nucleo conflittuale interpersonale nel mondo reale del
paziente e nella relazione transferale, sul quale si focalizza il trattamento. Luborsky e Mark (1991)
hanno identificato una serie di tecniche fondamentali adattate al metodo del CCRT, che possono
essere divise in tecniche supportive ed espressive. Le tecniche supportive promuovono lo sviluppo
di un'alleanza terapeutica positiva e includono la trasmissione al paziente di un senso di
accettazione, speranza, incoraggiamento, rispetto e calore umano. Le tecniche espressive si
soffermano invece sull'ascolto dei pattern relazionali, sulla successiva formulazione ed esposizione
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del CCRT al paziente come aspetto centrale del trattamento, e sulla spiegazione del legame fra
CCRT e i problemi da lui riportati.
Le tecniche utilizzate in seduta accordano particolare rilievo al presente, alle relazioni attuali,
inclusa la relazione terapeutica, e al processo interpersonale che ha luogo fra paziente e terapeuta
come strumento per comprendere le difficoltà relazionali presenti e passate del paziente. Anche
se l'interpretazione del transfert è importante, si ritiene che il terapeuta debba offrire un'
“esperienza emotiva correttiva" al paziente, che gli permetta di sentirsi al sicuro e di esplorare i
problemi che lo mettono in difficoltà. In confronto al modello pulsionale-strutturale, il modello
relazionale accorda minore rilievo all'insight e all'interpretazione e confrontazione di pulsioni e
difese.
È anche evidente il diverso atteggiamento terapeutico del clinico, che è molto più partecipativo. Le
narrazioni del paziente sulle sue relazioni passate e presenti sono accettate per come appaiono,
anziché essere interpretate alla luce delle fantasie edipiche.

Il modello integrato
Mann ha ideato un modello integrato di psicoterapia dinamica breve che include concetti sia del
modello pulsionale-strutturale sia di quello relazionale. Adottando una prospettiva evolutiva, egli
considera il processo di separazione-individuazione come il tema principale della terapia breve. Il
suo modello identifica quattro conflitti universali incentrati sulla gestione della perdita: 1)
dipendenza vs indipendenza, (2) attività vs passività, (3) sviluppo vs perdita dell'autostima, e (4)
lutto differito vs irrisolto. Dopo aver individuato il problema bersaglio, Mann presta particolare
attenzione ai bisogni legati all'autostima del paziente e all'alleanza terapeutica. Egli cerca di
placare l'ansia del paziente (invece di provocarla affrontando le sue difese e resistenze),
analogamente al modello relazionale e diversamente da quello pulsionale-conflittuale. Possono
accedere a questo tipo di terapia i pazienti che riportano una delle seguenti problematiche:
- disturbi dell'adattamento;
-ansia reattiva;
-strutture caratteriali disadattate di tipo isterico, depressivo o ossessivo
-pattern relazionali insoddisfacenti;
-problemi nelle relazioni interpersonali;
-problemi lavorativi;
-problemi nelle transizioni che si presentano nel corso della vita.
Il paziente dovrebbe avere un lo sufficientemente forte, essere in grado di partecipare alla
relazione terapeutica e riuscire a sopportare le perdite.
Il terapeuta che segue l'approccio integrato di Mann è molto attivo, particolarmente nelle prime
sedute, visto che la terapia dura solo dodici sedute.
Nelle prime sedute egli fa leva sulle proprie capacità di ascolto e di conferma empatica per creare
un ambiente terapeutico supportivo che faciliti un atteggiamento di apertura nel paziente. Nelle
fasi successive della terapia, il terapeuta affronta la delusione suscitata nel paziente dalla breve
durata del trattamento e dall'impossibilità di rispondere a tutti i suoi problemi. Il terapeuta si
confronta garbatamente con il paziente e offre chiarimenti e interpretazioni sui temi principali. In
prossimità della conclusione, viene posta crescente attenzione alle problematiche legate alla
separazione, e vengono fornite interpretazioni di transfert riferite al presente e al passato. Mann
accorda quindi al terapeuta funzioni di oggetto-Sé tese a rinforzare l'autostima e il senso  di
controllo sul tema conflittuale.

Conclusioni

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Lo sviluppo della psicoterapia dinamica breve ha seguito un percorso simile a quello della terapia
psicodinamica a lungo termine, caratterizzato da modelli pulsionali-strutturali ispirati alla
psicoanalisi classica, modelli relazionali derivati dalla teoria delle relazioni oggettuali di scuola
britannica e modelli integrati riconducibili alle teorie psicodinamiche più recenti. Sebbene questi
approcci presentino sfumature diverse, essi hanno in comune: (a) l'attenzione per la relazione
terapeutica, (b) il ruolo attivo del terapeuta, (c) la definizione di un problema definito ma
circoscritto, (d) criteri restrittivi di inclusione dei pazienti, e (e) un limite alla durata della
terapia e/o al numero di sedute.
Le recenti rassegne degli studi randomizzati controllati dimostrano l'utilità della psicoterapia
dinamica breve in un ampio numero di disturbi mentali, con progressi mantenuti fino a quattro
anni. È necessario approfondire se la BPP possa essere utilizzata in modo sinergico e integrato con
queste terapie e/o con il trattamento farmacologico per ottenere risultati più incisivi. 

Capitolo 4: la psicoterapia psicodinamica applicata al trattamento di


specifici disturbi: dati sull’efficacia e indicazioni
La ricerca empirica sull'outcome ha un ruolo essenziale nella psicoterapia psicoanalitica o
psicodinamica.

La medicina evidence-based e i trattamenti supportati empiricamente 


Gli RCT sono gli studi di efficacia sperimentale (efficacy) e sono considerati lo standard di
riferimento nella dimostrazione dell'efficacia di un trattamento. In tal senso, solo gli RCT possono
fornire il livello maggiore di evidenza. Essi vengono condotti in condizioni sperimentali controllate,
che consentono al ricercatore di controllare sistematicamente le variabili estranee al trattamento
che possono influenzarne l'outcome. L'aspetto che caratterizza lo RCT è l'assegnazione casuale
("random") dei soggetti alle diverse condizioni del trattamento. La randomizzazione è considerata
indispensabile al fine di assicurare che le differenze esistenti a priori tra i soggetti siano equamente
distribuite. Lo scopo della randomizzazione consiste nell'attribuire gli effetti osservati
esclusivamente alla terapia applicata. Pertanto, tale tecnica è impiegata per assicurare la validità
interna dello studio.
Gabbard e colleghi hanno descritto varie tipologie di RCT in grado di offrire diversi livelli di prove
di efficacia. Il test di efficacia più rigoroso consiste nel confrontare trattamenti alternativi
controllando i fattori terapeutici specifici e aspecifici. Inoltre, questo confronto fornisce esplicite
informazioni sui relativi benefici dei trattamenti confrontati. I trattamenti che risultano superiori
agli altri vengono valutati come più efficaci. La seconda tipologia di RCT, in ordine di rigore
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metodologico, secondo Gabbard e colleghi, è quella in cui il trattamento è confrontato con un
placebo psicologico. Poi vi sono i confronti con i trattamenti di routine (Treatment As Usual,
TAU), che alcuni considerano terzi nella gerarchia, che possono permettere verifiche più
rigorose degli studi controllati con placebo, in quanto consentono di controllare sia  i fattori
comuni (per esempio, il livello di attenzione) sia gli effetti legati al  trattamento di routine. Un
inconveniente di quest’ultima tipologia di studi è che il trattamento di routine è spesso definito in
maniera imprecisa e differisce da uno studio all'altro. In un particolare studio, per esempio, il esso
può consistere in una psicoterapia ambulatoriale di routine in un contesto clinico; in un altro, può
coincidere con il solo trattamento psicofarmacologico; e in un altro ancora includere forme di
counseling o altre tipologie di intervento sanitario. La quarta forma di RCT, in ordine di rigore
metodologico, impiega soggetti di controllo in una lista di attesa. Tuttavia, in questo tipo di studio
non è chiaro se l'effetto osservato nel gruppo sottoposto al trattamento sia da attribuire a fattori
terapeutici specifici o aspecifici. Il livello successivo di evidenza è fornito dagli studi aperti
prospettici, seguiti dalle serie di casi e, infine, dai report su casi clinici.
La posizione esclusiva dell'RCT nella ricerca in psicoterapia, tuttavia, è stata  recentemente messa
in discussione. Viene criticata, in particolare, l'applicazione allo studio della psicoterapia di una
metodologia derivata dalla ricerca farmacologica. Nella ricerca in psicoterapia, le caratteristiche
distintive dell'RCT - come la randomizzazione, il riferimento a manuali sul trattamento, il focus su
uno specifico disturbo mentale e la frequente esclusione di pazienti con prognosi sfavorevoli -
sollevano la questione se tale metodologia sia sufficientemente rappresentativa della realtà
clinica. Inoltre, la metodologia dell'RCT, basata sull'impiego di manuali sul trattamento e su
condizioni controllate randomizzate, è difficilmente applicabile alla psicoterapia a lungo termine,
che può durare anche diversi anni. Un altro aspetto discutibile dei trattamenti supportati
empiricamente è dato dal rilievo accordato ai disturbi e ai sintomi e non sull’individuo. Il principale
motivo di questo limite risiede nel fatto che la psicoterapia non è un farmaco che funziona allo
stesso modo in diverse condizioni. L'outcome della psicoterapia può essere influenzato da fattori
difficilmente quantificabili, riconducibili al rapporto fra terapeuta e paziente. Pertanto, non è
chiaro se la metodologia mutuata dalla ricerca farmacologica sia applicabile agli studi sui
trattamenti psicoterapeutici dei disturbi mentali, quanto meno se si cerca di prevedere l'efficacia
di un trattamento nella pratica clinica (effectiveness). Dopo tutto, lo RCT ha una funzione limitata
perché sono uno strumento imperfetto; c’è chi sostiene che i loro risultati vanno considerati come
una parte del ciclo della ricerca.
A differenza dell'RCT, poi ci sono gli studi naturalistici (studi di efficacia clinica, effectiveness),
studi che sono condotti nelle condizioni della pratica professionale quotidiana. I loro risultati sono
quindi più rappresentativi della realtà clinica in rapporto a pazienti, terapeuti e trattamenti (hanno
maggiore validità esterna). Gli studi di efficacia clinica non possono controllare i fattori che
influenzano l'outcome del trattamento nella stessa misura degli RCT (che hanno maggiore
validità interna). D'altra parte, la validità interna degli studi di efficacia clinica può  essere
incrementata dal ricorso a disegni quasi-sperimentali che utilizzano  metodi diversi dalla
randomizzazione per escludere spiegazioni alternative dei risultati.
Paradossalmente, gli studi naturalistici non sono accettati (per esempio, dall'American
Psychological Association) come metodi per dimostrare l’efficacia di una terapia. Il principale
argomento contro gli studi naturalistici fa leva sulle minacce alla validità interna,
cioè sull'impossibilità di controllare i fattori estranei alla terapia che ne influenzano l'outcome. 
In base a queste considerazioni, gli studi di efficacia sperimentale (efficacy) -gli RCT- andrebbero
distinti da quelli di efficacia clinica (effectiveness) – gli studi naturalistici- in quanto  affrontano
diversi interrogativi di ricerca: gli RCT esaminano l'efficacia di un  trattamento in condizioni
sperimentali controllate, mentre gli studi di efficacia clinica ne verificano la validità in condizioni
27
cliniche. Al riguardo, il concetto di terapie supportate empiricamente andrebbe distinto dalla
metodologia dell'RCT. Gli RCT e gli studi di efficacia clinica non dovrebbero essere considerati
incompatibili, ma complementari.
Dobbiamo inoltre distinguere i termini efficacy, effectiveness ed efficiency.
L'efficacy è l’efficacia sperimentale, ossia è la capacità di un intervento di produrre gli effetti
benefici desiderati, valutata attraverso studi sperimentali, in condizioni che consentono il controllo
della maggior parte -idealmente di tutte- delle variabili in causa; l’effectiveness è la capacità di un
intervento di produrre gli effetti benefici desiderati nei trattamenti terapeutici correnti;
L'efficiency riguarda il rapporto costi-benefici.

Prove a sostegno dell’efficacia sperimentale della psicoterapia psicodinamica nel


trattamento di specifici disturbi mentali 

Depressione maggiore. I dati riportati dagli studi sull’efficacia della psicoterapia psicodinamica
a breve termine hanno riscontrato che essa è efficacia nella riduzione dei sintomi depressivi; i
risultati si sono dimostrati stabili anche negli studi di follow-up.
Maina e colleghi (2005) hanno condotto uno studio controllato randomizzato su un numero
limitato di soggetti, esaminando l'efficacia della psicoterapia psicodinamica breve (STPP) e della
terapia supportiva breve nel trattamento delle forme di depressione minore (disturbo distimico,
disturbo depressivo non altrimenti specificato, o disturbo dell'adattamento con umore depresso).
Al termine della terapia, entrambi i trattamenti hanno dato risultati maggiori rispetto alla
condizione rappresentata dalla lista di attesa.
Al follow-up condotto a distanza di sei mesi, la psicoterapia psicodinamica breve è risultata
superiore alla terapia supportiva breve.

Lutto patologico. In due RCT condotti da McCallum e Piper (1990) e Piper e colleghi (2001) è
stata studiata la terapia di gruppo psicodinamica a breve termine applicata al trattamento dei
postumi o delle complicanze del lutto. Nel primo studio, la terapia di gruppo psicodinamica a breve
termine ha dato risultati significativamente maggiori rispetto alla condizione rappresentata
dalla lista d'attesa (McCallum, Piper, 1990). Nel secondo studio, è stata evidenziata un'interazione
significativa fra la qualità delle relazioni oggettuali dei  pazienti e il successo delle diverse forme di
terapia nel favorire la remissione di diversi tipi di sintomi. Per quanto riguarda i sintomi legati al
lutto, i pazienti con relazioni oggettuali di buon livello hanno ottenuto maggiori  progressi con la
terapia interpretativa, mentre quelli con relazioni oggettuali  deficitarie hanno ricavato maggiori
benefici dalla terapia supportiva. Rispetto ai sintomi generali, la terapia interpretativa è stata
significativamente più efficace, sul piano clinico, di quella supportiva (Piper et al., 2001).

Disturbi d’ansia. Per quanto riguarda il disturbo di panico la STPP è più efficace del rilassamento
applicato.
In quanto alla fobia sociale, il trattamento psicodinamico di gruppo a breve termine è risultato
superiore, per quanto riguarda la fobia sociale, all'impiego, come controllo, di un placebo
credibile. La LTPP si è dimostrata altrettanto efficace della CBT nel trattamento della fobia sociale
generalizzata (Bögels et al., 2003). In uno studio controllato randomizzato sul disturbo d'ansia
generalizzato, la STPP e la terapia supportiva sono risultate ugualmente efficaci in rapporto a
misure continue del livello d'ansia, mentre la STPP è risultata significativamente superiore in
termini di tassi di remissione sintomatica.
STPP e CBT si sono dimostrate ugualmente efficaci riguardo alla principale misura di outcome;
tuttavia, in alcune misure di outcome secondarie, la CBT è apparsa superiore.
28
Il quinto RCT sulla psicoterapia psicodinamica dei disturbi d'ansia è uno  studio sul disturbo post-
traumatico da stress. Brom e colleghi (1989) hanno confrontato gli effetti di STPP,
terapia comportamentale (desensibilizzazione) e ipnoterapia su pazienti con PTSD.
Tutti questi trattamenti si sono dimostrati ugualmente efficaci e hanno dato risultati maggiori
rispetto alla condizione di assenza di trattamento rappresentata da un gruppo di controllo in lista
d'attesa. I risultati della STPP non solo si sono mantenuti stabili, ma sono persino migliorati nel
follow-up a distanza di tre mesi. 

Disturbi somatomorfi. Nell'RCT condotto da Guthrie e colleghi (1991), pazienti affetti da sindrome


del colon irritabile che non avevano risposto al trattamento medico standard nei precedenti sei
mesi, hanno seguito una STPP in aggiunta al trattamento medico di routine . Questo approccio è
stato comparato al ricorso esclusivo al trattamento medico standard. La STPP risultava efficace in
due terzi dei pazienti. In un altro RCT, la STPP è risultata significativamente più efficace delle cure
di routine e altrettanto efficace  dei farmaci (paroxetina) nel trattamento della sindrome del colon
irritabile di grado severo (Creed et al., 2003). Nel periodo di follow-up, tuttavia, la STPP - a
differenza della paroxetina - è risultata associata a una significativa riduzione della spesa sanitaria
in confronto al trattamento di routine. In un RCT condotto da Hamilton e colleghi (2000), la STPP
veniva confrontata con la terapia supportiva nel trattamento di pazienti con dispepsia  funzionale
cronica e non rispondente alle cure farmacologiche convenzionali. Al termine del trattamento, la
STPP è risultata significativamente superiore alla terapia supportiva e gli effetti si sono mantenuti
stabili al follow-up a distanza di dodici mesi. Monsen e Monsen (2000) hanno sottoposto pazienti
con dolore cronico a una delle seguenti condizioni di trattamento: psicoterapia psicodinamica di
trentatré sedute, assenza di trattamento o trattamento di routine. La psicoterapia psicodinamica
ha ottenuto risultati significativamente superiori nelle misure relative a dolore, sintomi psichiatrici,
problemi interpersonali e consapevolezza degli affetti. I risultati si sono mantenuti stabili o sono
persino migliorati al follow-up a dodici mesi. La psicoterapia psicodinamica può essere pertanto
raccomandata nel trattamento dei disturbi somatoformi.

Disturbi alimentari 
Bulimia nervosa. Miglioramenti significativi e stabili al riguardo sono stati registrati da Fairburn e
colleghi (1986, 1995) e Garner e colleghi (1993). Rispetto alle principali misure specifiche del
disturbo (episodi bulimici, vomito autoindotto), la STPP e risultata efficace quanto la CBT (Fairburn
et al., 1986, 1995; Garner et al., 1993). Per altri specifici indici psicopatologici, la CBT è risultata
superiore alla STPP (Fairburn et al., 1986). Tuttavia, in un follow-up dello studio di Fairburn
e colleghi del 1986, condotto a distanza di diversi anni, entrambe le forme di terapia si sono
dimostrate ugualmente efficaci e in parte  superiori a una forma di terapia comportamentale
(Fairburn et al., 1995).
Sono pertanto necessari ulteriori studi a lungo termine per valutare l'efficacia della STPP nel
trattamento della bulimia nervosa. In un altro RCT, la STPP è risultata significativamente superiore
sia al trattamento di routine (counseling nutrizionale) sia alla terapia cognitiva ( Bachar et al.,
1999), in riferimento sia a  pazienti con bulimia nervosa sia a un campione con forme miste di
bulimia e anoressia nervosa.

Anoressia nervosa. È molto limitato il numero di trattamenti dell'anoressia nervosa supportati


empiricamente, a orientamento psicodinamico o cognitivista (Fairburn, 2005). In un RCT condotto
da Gowers e colleghi (1994), la STPP associata a quattro sedute di counseling nutrizionale ha
prodotto miglioramenti significativi in pazienti con anoressia nervosa.

29
I cambiamenti nel peso e nell'indice di massa corporea sono stati significativamente maggiori
rispetto a un gruppo di controllo (pazienti sottoposti a trattamento di routine). Dare e colleghi
(2001) hanno confrontato psicoterapia psicodinamica (durata media di 24.9 sedute), terapia
cognitivo-analitica, terapia familiare e trattamento di routine nel trattamento di pazienti con
anoressia nervosa.
La psicoterapia psicodinamica ha prodotto miglioramenti significativi nella sintomatologia e,
insieme alla terapia familiare, significativamente maggiori rispetto al trattamento di routine in
rapporto all'aumento di peso. I progressi sono stati tuttavia modesti (diversi pazienti erano ancora
sottopeso al follow-up). Il trattamento dell'anoressia nervosa resta quindi estremamente
difficoltoso e necessita di modelli terapeutici più efficaci.

Disturbi correlati a sostanze. Woody e colleghi (1983, 1990) hanno studiato gli effetti della STPP e
della CBT associate a una forma specifica di counseling rivolta ai tossicodipendenti (drug
counseling), in confronto al ricorso esclusivo al counseling, nel  trattamento della dipendenza da
oppiacei. La STPP associata al counseling ha prodotto miglioramenti significativi nelle misure
relative ai sintomi correlati all'abuso di sostanze e nei sintomi psichiatrici in generale.
Nel follow-up a sette mesi, la STPP e la CBI sono risultate ugualmente efficaci, ed entrambe
superiori al solo counseling. Anche in un altro RCT (Woody et al., 1995), una psicoterapia
psicodinamica di ventisei sedute associata al counseling si è dimostrata superiore al solo
counseling nel trattamento della dipendenza da oppiacei. La maggior parte dei progressi promossi
dalla terapia psicodinamica si sono mantenuti stabili anche nel follow-up a distanza di sei mesi.
Nell'RCT condotto da Crits-Christoph e colleghi (1999, 2001), una psicoterapia psicodinamica
individuale di durata inferiore a trentasei sedute è  stata associata a ventiquattro sedute di
counseling di gruppo nel trattamento della dipendenza da cocaina. Il trattamento combinato ha
prodotto miglioramenti significativi ed è risultato altrettanto efficace della CBT associata al
counseling di gruppo. Tuttavia, né la CBT associata al counseling di gruppo né la psicoterapia
psicodinamica associata al counseling di gruppo si sono dimostrati più efficaci del solo counseling
di gruppo. Inoltre, il counseling individuale è risultato significativamente superiore a entrambe le
forme di terapia in rapporto alle misure relative all'abuso di droghe. Per quanto riguarda, invece,
le variabili di outcome psicologiche e sociali, tutti i trattamenti sono risultati ugualmente efficaci
(Crits-Christoph et al., 1999, 2001).
L'RCT condotto da Sandahl e colleghi (1998) ha posto a confronto STPP e CBT nel trattamento
dell'alcolismo: la STPP ha ottenuto progressi significativi nelle misure relative all'alcolismo, che si
sono mantenuti stabili nel follow-up a quindici mesi. La STPP è risultata significativamente
superiore alla CBT in rapporto al numero di giorni di astinenza e al miglioramento dei sintomi
psichiatrici generali.

Disturbi di personalità 
Disturbo borderline di personalità. Nell'RCT condotto da Munroe-Blum e Marziali (1995), la STPP
ha ottenuto progressi significativi nelle misure relative ai sintomi associati al disturbo borderline, ai
sintomi psichiatrici in generale e alla depressione, ed è risultata altrettanto efficace della terapia
interpersonale di gruppo. Bateman e Fonagy (1999, 2001) hanno condotto uno studio sul
trattamento psicoanalitico, in regime di parziale ricovero ospedaliero, di pazienti con disturbo
borderline di personalità. A differenza del gruppo di controllo, il gruppo sottoposto al trattamento
seguiva una psicoterapia individuale e di gruppo. Il trattamento durava come massimo diciotto
mesi e consisteva in una LTPP definita dai criteri riportati nella presente rassegna. La psicoterapia
psicodinamica a lungo termine (LTPP) si è dimostrata significativamente superiore al trattamento
psichiatrico di routine, sia al termine della terapia sia al follow-up a diciotto mesi . Giesen-Bloo e

30
colleghi (2006) hanno confrontato la variante di LTPP basata sul modello di Kernberg (psicoterapia
centrata sul transfert, Transference-Focused Psychotherapy, TFP; Clarkin et al., 1999b) con la
terapia focalizzata sugli schemi (Schema-Focused Therapy, SFT), una forma di CBT. Il trattamento
durava tre anni e prevedeva due sedute alla settimana. Gli autori hanno riportato miglioramenti
significativi dal punto di vista statistico e clinico in entrambi i trattamenti. La terapia focalizzata
sugli schemi è risultata tuttavia superiore alla psicoterapia centrata sul trasfert in diverse misure di
outcome. Inoltre, alla TFP si associava un rischio di dropout significativamente maggiore. Questo
studio, tuttavia, presenta seri limiti metodologici. Le scale relative al grado di
"competenza” richiesto al terapeuta prevedevano un punteggio di cut-off identico (pari a 60) per
entrambi i trattamenti. Secondo i dati pubblicati dagli autori (GilIsen-Bloo et al., 2006), il livello
medio di competenza per applicare il metodo della SFT era pari a 85.7, mentre per la psicoterapia
centrata sul trasfert era riportato un valore pari a 65.6. Mentre il livello di competenza previsto
per la terapia focalizzata sugli schemi era di molto superiore al cut-off, il livello di competenza
richiesto per la psicoterapia centrata sul trasfert lo era solo di poco; vi era pertanto un'evidente
disparità nei criteri di selezione dei terapeuti nei due trattamenti, per cui i risultati dello studio
sono opinabili, il diverso grado di competenza, infatti, non è stato preso in considerazione dagli
autori nell'analisi e nella discussione dei risultati. Questo studio solleva quindi seri dubbi su un
possibile effetto di allegiance dei ricercatori (Luborsky et al., 1999).
Un altro RCT (Clarkin et al.,2007; Levy et al., 2006) ha confrontato psicoterapia psicodinamica
(TFP), terapia dialettico-comportamentale (Dialectical Behaviour Therapy, DBT) e psicoterapia
supportiva psicodinamica (Supportive Psychotherapy, SPT). Tutte e tre le terapie hanno prodotto
un significativo miglioramento, per quanto la TFP hanno mostrato di avere conseguito risultati non
dimostrati dalla terapia dialettico-comportamentale o dalla psicoterapia supportiva psicodinamica.
I partecipanti che seguivano una TFP avevano maggiori probabilità di migliorare la qualità del
proprio attaccamento, passando da una classificazione di "attaccamento insicuro" a una di
“attaccamento sicuro". Hanno mostrato inoltre progressi significativamente maggiori nella
capacità di mentalizzazione e nella coerenza narrativa in confronto agli altri due gruppi. La
psicoterapia psicodinamica è risultata associata a un significativo miglioramento in dieci su dodici
variabili relative a sei aree sintomatiche; le variabili soggette a miglioramento nella SPT e nella DBT
sono state, invece, rispettivamente sei e cinque. Solo la TFP ha prodotto cambiamenti significativi
nel livello di impulsività, irritabilità e aggressività verbale e fisica. 
Le tendenze suicide si sono ridotte in ugual misura con la TEP e con la DBT.
Una meta-analisi sugli effetti della psicoterapia psicodinamica e della CBT  sui disturbi di
personalità ha evidenziato maggiori effect size associati alla  prima non solo riguardo ai sintomi in
comorbilità, ma anche al disturbo di  personalità principale (Leichsenring, Leibing, 2003). Ciò
valeva tanto per i disturbi di personalità in generale, quanto per il disturbo borderline di
personalità in particolare.

Disturbi di personalità del gruppo C. L'RCT condotto da Svartberg e colleghi (2004) ha confrontato


una psicoterapia psicodinamica di quaranta sedute con una CBT. Entrambe hanno promosso
progressi significativi nei pazienti con disturbi di personalità del gruppo C (DSM-IV; APA,  1994),
cioè disturbo di personalità evitante, compulsivo o dipendente. Il miglioramento è risultato
misurato in termini di riduzione dei sintomi, dei problemi interpersonali e del nucleo di personalità
patologico. I risultati si sono mantenuti stabili al follow-up, a distanza di ventiquattro mesi.
Non sono emerse differenze significative nel grado di efficacia fra psicoterapia psicodinamica e
CBT.
Muran e colleghi (2005) hanno confrontato terapia-psicodinamica, terapia relazionale breve e CBT
nel trattamento dei disturbi di-personalità del  gruppo C e disturbi di personalità non altrimenti
31
specificati. I trattamenti duravano trenta sedute. In relazione alle variazioni medie delle misure
di outcome, non sono emerse differenze significative fra i tre trattamenti, sia al termine sia al
follow-up. Inoltre, non sono emerse differenze significative nella sintomatologia clinica, nei
problemi interpersonali, nelle caratteristiche dei disturbi di personalità o nei problemi bersaglio
del trattamento secondo la valutazione del terapeuta. Al termine, la CBT e la terapia relazionale
breve sono risultate superiori alla psicoterapia psicodinamica in una sola misura di outcome: i
problemi bersaglio del trattamento secondo la valutazione del paziente stesso. Questa differenza,
tuttavia, non persisteva al follow-up a distanza di sei mesi. Riguardo alla percentuale di pazienti
che hanno dimostrato cambiamenti, non sono emerse differenze significative, sia al termine sia al
follow-up, eccetto in un confronto: al termine, la CBT ha dato risultati maggiori rispetto alla STPP
nell'Inventory of Interpersonal Problems (L.M. Horowitz et al., 2000). Anche in questo caso, la
differenza si annullava al follow-up. Pertanto, sono emerse solo alcune differenze significative fra i
tre trattamenti, che non perduravano al follow-up.
Il disturbo di personalità evitante è tra i disturbi di personalità del gruppo C menzionati in
precedenza. In un recente RCT, Emmelkamp e colleghi (2006) hanno confrontato CBT, STPP e
assenza di trattamento (lista di attesa) nel trattamento del disturbo evitante di personalità. Gli
autori riportano che la CBT è risultata più efficace della STPP e dell'assenza di trattamento.
Tuttavia, questo studio presenta diversi limiti metodologici (Leichsenring, Leibing, 2006) e il
disegno della ricerca, le analisi-statistiche e la modalità di esposizione dei risultati sollevano seri
dubbi circa un possibile effetto di allegiance dei ricercatori (Luborsky et al., 1999).

L’efficacia clinica della psicoterapia psicodinamica a lungo termine in pazienti con


disturbi mentali complessi: prove a sostegno dagli studi naturalistici quasi-
sperimentali 
La metodologia dell'RCT non si adatta bene a una psicoterapia che dura diversi anni. Per queste
forme di terapia a lungo termine, gli studi sull'efficacia clinica (effectiveness) o studi naturalistici
rappresentano la metodologia di ricerca più appropriata. Il National Institute of Mental Health
(NIMH) ha specificamente richiamato alla necessità di un maggior numero di ricerche sull’efficacia
clinica.

Confronti pre-post fra effect size


In riferimento a LTPP che durano diversi anni, diversi studi di efficacia clinica basati su misure di
outcome attendibili e valide hanno mostrato che la LTPP, nel confronto pre-post o pre-follow-up,
produce ampi effect size, secondo la definizione data da Cohen. Alcuni di questi studi includono
gruppi di controllo o di confronto, mentre altri riportano solo gli effect size pre-post o pre-follow-
up. Gli effect size si riferiscono a sintomi, problemi interpersonali, adattamento sociale, numero di
giorni di ospedalizzazione e altri criteri di outcome. 

Studi quasi-sperimentali: confronti con gruppi di controllo 


Come accennato in precedenza, la validità interna degli studi di efficacia clinica può essere
promossa dal ricorso a disegni quasi-sperimentali. Per definizione, gli studi quasi-sperimentali non
prevedono un'assegnazione casuale, ma fanno leva su altri principi per dimostrare che le
spiegazioni alternative sull'effetto osservato non sono plausibili. Agli studi di efficacia clinica si
applicano criteri differenti da quelli citati in precedenza.
I criteri stabiliti dall'American Psychelogical Association Task Force on  Promotion and
Dissemination of Psyehological Procedures richiedono che un  trattamento dimostri di (a) essere
superiore a una condizione di controllo (placebo o assenza di trattamento) o (b) essere efficace
almeno quanto un trattamento già noto. Negli studi quasi-sperimentali più rigorosi, la LTPP ha
32
mostrato di soddisfare uno o entrambi i criteri. Gli studi condotti includevano gruppi di controllo la
cui compatibilità rispetto al gruppo LTPP era assicurata mediante appaiamento, stratificazione o
controllo statistico delle differenze iniziali. In tutti questi studi, la LTPP è risultata
significativamente superiore alla rispettiva condizione di controllo. I risultati possono essere così
sintetizzati:
- La LTPP ha prodotto effect size significativamente maggiori rispetto ai  gruppi di controllo (nessun
trattamento o in quantità minore).
- La LTPP è risultata significativamente più efficace delle forme più brevi  di psicoterapia
psicodinamica.
- La LTPP è risultata significativamente più efficace delle forme più brevi di  psicoterapia
psicodinamica rispetto alla variabile di risultato - ovvero i  cambiamenti strutturali della
personalità-per la quale è prevedibile una superiorità della LTPP.
- I risultati si riferiscono al trattamento di pazienti con più di una diagnosi.

La relazione fra processo e outcome: i meccanismi di cambiamento 


Gli studi descritti in precedenza sono focalizzati sull'outcome della psicoterapia psicodinamica più
che sulle variabili relative al processo. Gli studi sul processo psicoterapeutico ci aiutano a
comprendere i meccanismi di cambiamento promossi dalla terapia psicodinamica. I risultati
possono essere così sintetizzati:
1. Alcuni studi indicano che l'outcome della psicoterapia psicodinamica è associato alle tecniche
psicoterapeutiche utilizzate e alla competenza del terapeuta: tra i fattori che consentono di
prevedere l'outcome della STPP e della psicoterapia psicodinamica  a medio termine sono elencati
l'accuratezza delle interpretazioni, l'aderenza degli interventi del  terapeuta al "programma" e un
uso competente di tecniche espressive (ma non supportive).
2. Esistono prove di un'interazione fra tecnica, outcome e variabili relative  al paziente: la
frequenza delle interpretazioni di transfert, nella STPP, sembra associata a un outcome negativo e
a una debole alleanza quando le relazioni oggettuali del paziente sono  giudicate deficitarie, e più
aumenta la frequenza delle interpretazioni più è negativo l'outcome e compromessa l'alleanza.
Benché nella STPP, i pazienti con buone relazioni oggettuali possano beneficiare  di livelli bassi o
moderati di interpretazioni di transfert, i risultati fanno  ritenere che anch'essi non traggano
beneficio da alti livelli di questo tipo  di interpretazioni. Invece, in uno studio sulla LTPP, i pazienti
con relazioni oggettuali deficitarie hanno conseguito risultati migliori laddove la terapia prevedeva
interpretazioni di transfert. A differenza della LTPP, la STPP sembra necessitare, per i pazienti con
relazioni oggettuali deficitarie, di tecniche differenti.
3. Per quanto riguarda l’alleanza terapeutica, in alcuni studi è indicata come un modesto
predittore dell'outcome del trattamento. L'accuratezza delle interpretazioni è risultata
significativamente correlata all'alleanza terapeutica nelle terapie a medio termine. Pertanto,
l'accuratezza delle interpretazioni può esercitare il suo influsso, tra l’altro, promuovendo l'alleanza
terapeutica.
4. Per quanto riguarda le variabili di processo relative al paziente, variazioni nel focus della
psicoterapia psicodinamica sono risultate correlate a  modificazioni della sintomatologia.
5. Riguardo alle caratteristiche del paziente, le seguenti variabili sono risultate associate a un
outcome positivo della STPP: alta motivazione, attese  realistiche, focus circoscritto, relazioni
oggettuali di buon livello e assenza di disturbi di personalità. Invece, nella LTPP, la presenza di un
disturbo di personalità, di un disturbo mentale grave all'inizio del trattamento, di un disturbo
cronico o di aspettative meno ottimistiche non sembrano avere potere predittivo.

33
Le ricerche future avranno il compito di individuare le forme di psicoterapia psicodinamica e le
tipologie di disturbo mentale per le quali sono valide le associazioni riguardanti i meccanismi di
cambiamento. 
La questione se i "diversi" modelli di psicoterapia psicodinamica differiscano  empiricamente è
aperta a ulteriori ricerche. Per rispondere a questa domanda è necessario condurre studi empirici
che analizzino sedute terapeutiche reali, correlando variabili di processo e outcome. Attraverso
questo tipo di ricerca e possibile identificare su basi empiriche i processi di cambiamento.

Indicazioni della psicoterapia psicodinamica a breve e lungo termine 


Secondo i risultati degli studi presentati sopra, gli RCT dimostrano che tanto la STPP quanto la LTPP
rappresentano trattamenti efficaci per i seguenti disturbi mentali: disturbi depressivi; disturbi
d'ansia; disturbi somatoformi; disturbi alimentari; disturbi correlati a sostanze; disturbo borderline
di personalità; disturbi di personalità del gruppo C.
Limitatamente alla STPP, le seguenti caratteristiche relative al paziente hanno un'influenza positiva
sull'outcome del trattamento: alta motivazione; attese realistiche; focus circoscritto;
relazioni oggettuali di buon livello; assenza di un disturbo di personalità.
Queste variabili non sembrano invece correlate all'outcome della LTPP. Secondo questi risultati, la
LTPP sembra essere più adatta ai pazienti con disturbi più gravi.
La stessa regola sembra applicarsi alle interpretazioni di transfert: l'uso frequente di
interpretazioni di transfert non è utile con i pazienti con relazioni oggettuali di basso livello
sottoposti a STPP, ma può esserlo nella LTPP.
Secondo uno studio riportato da Kopta e colleghi (1994), in cui 854 pazienti in psicoterapia
ambulatoriale hanno compilato all'inizio dello studio e durante il trattamento delle checklist
relative ai sintomi, circa il 50% dei pazienti con problemi in fase acuta hanno conseguito progressi
clinici significativi dopo due sedute di psicoterapia; la percentuale è salita al 70% dopo ventuno
sedute e al 75% dopo ventinove sedute. Per quanto riguarda i pazienti con problemi cronici, gli
autori hanno evidenziato nel 50% dei casi progressi clinici significativi dopo undici sedute,
percentuale che è salita al 70% dopo ventuno sedute e al 75% dopo più di cinquantadue sedute. 
Per i pazienti con problemi di natura caratteriale (cioè con disturbi di personalità), i dati di Kopta e
colleghi (1994) indicano che sono necessarie più di cinquantadue sedute perché la metà dei
pazienti mostri progressi significativi sul piano clinico, ma mancano indicazioni esatte su quante
sedute occorrano per superare il tasso di risposta del 50%.
Perry e colleghi (1999) hanno stimato la durata teorica del trattamento affinché un paziente con
disturbo di personalità non soddisfi più i criteri per una diagnosi di questo tipo (cioè perché
guarisca). Analizzando i dati disponibili, hanno stimato che metà dei pazienti con disturbi di
personalità guariscono in 1.3 anni, o 92 sedute, e che tre quarti guariscono in 2.2 anni o circa 216
sedute. Secondo questi dati, la maggioranza dei pazienti con sintomatologia acuta ricava
significativo beneficio dalla STPP, mentre i pazienti con problemi cronici e disturbi della personalità
necessitano di una psicoterapia a lungo termine; questo tipo di pazienti, infatti, non ottiene
sufficienti risultati con i trattamenti a breve termine. In particolare, i pazienti con disturbi di
personalità più gravi sembrano aver bisogno di un trattamento della durata di due o più anni.
Questi dati sono in linea con l'esperienza clinica, per esempio nel trattamento  dei disturbi
narcisistico o borderline di personalità.
Occorrono ulteriori studi per determinare per quali pazienti le terapie  a breve termine sono
sufficienti e per quali, invece, sono necessari trattamenti di maggiore durata.

Conclusione 

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Sono attualmente disponibili trentuno RCT a dimostrazione dell'efficacia della psicoterapia
psicodinamica nel trattamento di diversi disturbi mentali. In questi studi, la psicoterapia
psicodinamica è risultata (a) più efficace rispetto al placebo, alla terapia supportiva o al
trattamento di routine, o (b) altrettanto efficace della CBT. Questi risultati sono in linea con le
meta-analisi più recenti sulla psicoterapia  psicodinamica, in cui questa risulta superiore al
trattamento di routine o all’assenza di trattamento (gruppi di controllo in lista d'attesa) e
ugualmente efficace in confronto ad altre psicoterapie. E sempre in base a tali risultati, può essere
dimostrato che non esistono differenze nell'efficacia della psicoterapia psicodinamica in confronto
alla sola CBT. Non sono infatti emerse differenze significative fra psicoterapia psicodinamica e
CBT in merito a problemi bersaglio, sintomi psichiatrici in generale e adattamento sociale, sia alla
fine del trattamento sia al follow-up. In questa meta-analisi, la psicoterapia psicodinamica ha
ottenuto elevati effect size riguardo a problemi bersaglio, problemi psichiatrici in generale e
adattamento sociale. Questi effetti sono risultati stabili al follow-up e, in alcuni casi, il
miglioramento si è incrementato.
D'altra parte, è importante ricordare che per alcuni disturbi mentali non  è stato condotto alcun
RCT sulla psicoterapia psicodinamica, per esempio  per i disturbi dissociativi e alcune forme
specifiche di disturbo di personalità (per esempio, narcisistico).
Riguardo ai pazienti con PTSD, benché un RCT abbia indicato l’efficacia  della STPP, occorrono
ulteriori studi in quest’area. Per quanto riguarda infine il trattamento di bambini e adolescenti,
esistono attualmente solo pochi studi randomizzati controllati a riprova dell’efficacia di
specifiche terapie psicodinamiche nel trattamento di particolari disturbi mentali, per cui è
necessario condurre al più presto ulteriori ricerche in proposito.
Diversi studi di efficacia clinica riportati in questo capitolo hanno dimostrato che la LTPP può
produrre ampi effect size pre-post e dare risultati maggiori rispetto alla condizione di trattamento
assente o ridotto e a terapie più brevi. Questi studi sono stati condotti su pazienti con
diverse diagnosi in comorbilità, per cui occorreranno ulteriori studi per esaminare l'efficacia
sperimentale e clinica della LTPP nel trattamento di diversi disturbi mentali presenti
contemporaneamente.
I risultati di questa rassegna indicano la necessità di ulteriori ricerche  sull'efficacia della
psicoterapia psicodinamica nel trattamento di specifici disturbi mentali, che dovrebbero includere
non solo variabili di outcome ma indagare anche i meccanismi attivi di cambiamento mobilitati
dalla psicoterapia psicodinamica per ciascun disturbo. Dovrebbero, al riguardo, essere  impiegate
misure specificamente adattate alla psicoterapia psicodinamica. In molti degli studi descritti in
questo capitolo, la psicoterapia psicodinamica e la CBT sono risultate ugualmente efficaci.
Pertanto, le ricerche future dovranno indagare i fattori specifici e comuni che caratterizzano la
psicoterapia psicodinamica, la CBT e altre forme di psicoterapia (per esempio, la terapia
interpersonale). Dovranno inoltre accertare se alcuni progressi vengano  ottenuti solo attraverso la
psicoterapia psicodinamica, cioè se un trattamento che persegue obiettivi ambiziosi abbia un
"valore aggiunto". Inoltre, dovranno essere condotti studi di efficacia clinica per determinare in
che misura i vari metodi terapeutici che si sono dimostrati efficaci nelle condizioni  sperimentali
dell’ RCT lo siano anche nella realtà clinica.

35
Capitolo 5: La psicoterapia psicodinamica associata ai farmaci
Nella seconda metà del xx secolo, molti clinici di orientamento pscoanalitico sostenevano che i
farmaci soffocassero in qualche modo conflitti e stati d'animo importanti, rendendo la psicoanalisi
e la psicoterapia meno efficaci. Un'altra preoccupazione era che l'impiego di farmaci avrebbe
suscitato nel paziente la sensazione di essere molto malato, indebolendone l 'Io e rendendolo
meno adatto alla psicoanalisi o alla psicoterapia. Alcuni terapeuti ritenevano inoltre che l'uso di
farmaci avrebbe ridotto alcuni sintomi iniziali ma favorito la comparsa di nuovi sintomi. La
possibilità di una conclusione prematura del trattamento dovuta a un'immediata riduzione dei
sintomi rappresentava un altro punto controverso. Gli analisti sostenevano che, per quanto
efficaci fossero i farmaci, non avrebbero mai permesso di affrontare  il nucleo conflittuale e i
problemi caratteriali della persona. Altri erano preoccupati che gli analizzandi percepissero la
prescrizione dei farmaci come la dimostrazione della loro incapacità di rispondere al trattamento,
soprattutto quando ciò avveniva a trattamento in corso.
Già nel 1974, la ricerca ha dimostrato che la terapia combinata non è dannosa per il paziente.  
36
Il pregiudizio sui farmaci permane negli Stati Uniti e nel resto del mondo. 

La falsa contrapposizione fra biologia e psicologia


Sebbene l'associazione fra psicoterapia e farmaci nel trattamento dei pazienti con disturbi mentali
sia molto diffusa, molti clinici continuano a concepire il rapporto fra mente e cervello in modo
rigido, sostenendo che i farmaci dovrebbero essere utilizzati per curare i disturbi cerebrali, mentre
per il trattamento dei disturbi mentali sarebbe più indicata la psicoterapia. Il persistere di questa
dicotomia ha, sfortunatamente, reso un pessimo servizio ai nostri pazienti. Negli ultimi quindici
anni, alcuni importanti studi hanno chiarito che la psicoterapia può modificare la struttura e il
funzionamento cerebrale con la stessa efficacia e spesso con le stesse modalità della terapia
farmacologica, come pure sottolineano i benefici dell'associazione fra psicoterapia e farmaci.
Il riconoscimento delle basi neurobiologiche della psicoterapia è stato ulteriormente promosso da
alcune ricerche secondo cui, nei confronti "testa a  testa", le psicoterapie producono effetti
paragonabili a quelli del trattamento farmacologico. 

I benefici dell’associazione fra psicologia e farmaci 


La farmacoterapia può ridurre sintomi come l'ansia e la depressione, permettendo al paziente di
percepire, comprendere ed esprimere meglio i propri sentimenti, desideri e comportamenti nel
corso del trattamento psicoterapeutico. L'associazione fra psicoterapia e farmaci produce altri
potenziali benefici:
- I farmaci possono aumentare il senso di sicurezza del paziente nella relazione con il clinico,
consentendogli di esprimere più liberamente le proprie difficoltà emotive.
- Riducendo la sintomatologia acuta, i farmaci possono migliorare l'autostima del paziente,
diminuendo la passività e il senso di impotenza.
- I farmaci possono fornire al paziente risorse psicologiche supplementari (per esempio,
migliorando la concentrazione e la memoria) che rendono più efficace la psicoterapia.
- I farmaci possono rafforzare la relazione fra clinico e paziente e, in alcuni casi, ridurre il
pregiudizio associato alla psicoterapia.
- I farmaci possono aumentare non solo la probabilità di una risposta alla psicoterapia ma anche la
rapidità e la portata di tale risposta.
- Le reazioni emotive sugli effetti collaterali dei farmaci forniscono preziose informazioni su alcuni
aspetti riguardanti la personalità e le esperienze emotive del paziente, spesso estranei alla sua
consapevolezza, e possono contribuire a chiarire le caratteristiche del transfert e del
controtransfert.
- La risposta emotiva del paziente nei confronti dei farmaci spesso fornisce indicazioni sulle sue
tendenze autodistruttive oltre che sui conflitti legati alla realizzazione e al successo.
- Quando è necessario interrompere il trattamento, i farmaci possono rappresentare un
importante anello di congiunzione con la relazione terapeutica.
Anche l'associazione della psicoterapia a una farmacoterapia in corso può  produrre significativi
benefici:
- Posto che alcuni pazienti rispondono alla sola psicoterapia o alla sola farmacoterapia, un
outcome favorevole è più probabile quando vengono impiegate entrambe.
- La psicoterapia aumenta l’osservanza delle prescrizioni mediche.
- La psicoterapia migliora l'adattamento e la capacità di affrontare i problemi.
- La psicoterapia riduce la probabilità che i sintomi si ripresentino, anche nei disturbi più gravi.
- La psicoterapia riduce i tassi di recidiva in caso di assunzione discontinua dei farmaci, in quanto
spesso i progressi ottenuti con la psicoterapia si mantengono stabili nel tempo.

37
- L'associazione fra psicoterapia e farmacoterapia migliora il funzionamento sociale a lungo
termine.
- La psicoterapia associata ai farmaci produce risposte più rapide e una maggiore soddisfazione del
paziente.
- La psicoterapia e la farmacoterapia possono associarsi a minori costi sanitari, diretti e indiretti.
- La psicoterapia unita ai farmaci può ridurre i tassi di dropout dal trattamento.
- Il trattamento sequenziale o scalare può rappresentare un'opzione nella pianificazione della
terapia in cui, per esempio, i farmaci vengono impiegati nella fase acuta della depressione
maggiore, mentre la psicoterapia è utilizzata nella fase successiva per prevenire ricadute e
migliorare la qualità della vita intervenendo sui sintomi residui.

I possibili svantaggi della terapia combinata 


L'associazione fra psicoterapia e farmacoterapia presenta pochi  svantaggi. Anche se i dati sono
molto limitati, alcuni autori hanno espresso delle perplessità sull'impiego dei farmaci nel
trattamento del disturbo di panico. Marks e colleghi (1993) hanno rilevato che l'assunzione di
ansiolitici (benzodiazepine) può influenzare negativamente l'outcome della psicoterapia. I pazienti
che hanno ricevuto una terapia combinata hanno mostrato tassi di ricaduta maggiori rispetto a
quelli che hanno seguito la sola psicoterapia. Analogamente, Barlow e colleghi (2000) hanno
osservato che, nel trattamento del disturbo di panico, la sola CBT ha ottenuto migliori risultati a
lungo termine della CBT associata a imipramina. In uno studio più recente (Westra et al., 2002), in
cui pazienti con attacchi di panico e agorafobia sono stati sottoposti a una CBT di gruppo con o
senza benzodiazepine, l'associazione fra psicoterapia di gruppo e benzodiazepine ha conseguito
risultati più limitati della sola psicoterapia di gruppo.
Alcuni clinici sostengono che il trattamento dei disturbi d'ansia, come il disturbo post-traumatico
da stress, richieda un certo livello di sofferenza per sostenere la motivazione e l'elaborazione degli
eventi traumatici, e mettono in guardia contro l'impiego di farmaci che sedino il paziente e
interferiscano con questo processo. Dal loro punto di vista, il processo di guarigione dei pazienti
traumatizzati si compie attraverso la riproposizione, all'interno della psicoterapia, di vissuti
estremamente penosi.

Gli aspetti economici del trattamento integrato


Il termine impiegato attualmente negli Stati Uniti per indicare un trattamento che prevede il
ricorso congiunto alla psicoterapia e ai farmaci è trattamento integrato. Se lo psichiatra, o un altro
medico, si limita a gestire solo i farmaci e il paziente segue una psicoterapia con un
altro professionista, si parla invece di trattamento combinato, disgiunto o in collaborazione. La
diffusione del trattamento disgiunto (split treatment) si deve soprattutto alle pressioni delle
compagnie assicurative, che lo considerano una soluzione meno costosa - un'opinione che
sembrerebbe confermata da alcuni studi preliminari. Tuttavia non vi sono prove che sia anche
l'approccio più efficace. 
A causa della politica di contenimento dei costi delle compagnie assicurative, risulta che
moltipazienti ricevono un trattamento terapeutico disgiunto.

Psicoterapia psicoanalitica e farmaterapia: una rassegna della letteratura 


Tra gli studi che hanno esaminato l'associazione fra psicoterapia psicoanalitica e farmacoterapia,
va ricordata la meta-analisi condotta più di trent'anni fa da Luborsky e colleghi, in cui è stata
confrontata l'efficacia di diverse forme di terapia psicodinamica con o senza il supporto dei
farmaci.

38
Gli autori hanno rilevato che tutte le terapie sono apparse ugualmente efficaci, ma hanno
riportato anche prove convincenti che la terapia combinata è superiore alla psicoterapia o dalla
farmacoterapia prese singolarmente. Le ricerche condotte dopo questa meta-analisi sono
presentate nelle pagine seguenti.
La maggior parte degli studi sulla terapia  combinata si è occupata del trattamento della
depressione mediante la CBT o la terapia interpersonale. Un'eccezione è rappresentata dallo
studio controllato randomizzato di Burnand e colleghi (2002), in cui settantaquattro  pazienti
ambulatoriali con un episodio acuto di depressione maggiore sono  stati trattati con i soli farmaci
(clomipramina) o con una terapia combinata a orientamento psicodinamico. Sono stati registrati
sensibili miglioramenti in entrambi i gruppi, ma i soggetti sottoposti a terapia combinata hanno
presentato minori tassi di insuccesso del trattamento, un miglior adattamento al mondo del lavoro
al termine della terapia, un miglior funzionamento globale e minori tassi di ospedalizzazione. La
terapia combinata costituita da psicoterapia psicodinamica e clomipramina si è inoltre associata a
minori costi diretti e indiretti (questi ultimi misurati in base al numero di assenze dal lavoro). Il
risparmio sui costi del trattamento combinato è ammontato a 2311 dollari per paziente.
Uno studio olandese ha confrontato l'associazione fra psicoterapia supportiva psicodinamica breve
(sedici sedute) e farmaci, con la sola farmacoterapia nel trattamento della depressione maggiore
(de Jonghe et al., 2001). A distanza di ventiquattro mesi, i soggetti che avevano ricevuto la terapia
combinata riportavano un tasso medio di guarigione del 59.2%, in confronto al 40.7% del gruppo
che assumeva solo farmaci. Gli autori riportano inoltre che i pazienti che avevano ricevuto la
psicoterapia associata ai farmaci avevano trovato il trattamento decisamente più accettabile,
erano stati meno propensi a interrompere il trattamento e avevano mostrato maggiori probabilità
di guarigione.
Kool e colleghi (2003) hanno condotto ulteriori analisi sui dati emersi  da questo studio, riportando
che la terapia combinata e risultata superiore  alla sola farmacoterapia solo per i pazienti in cui era
presente un disturbo di personalità in comorbilità. Nei pazienti con la sola diagnosi di depressione,
la terapia combinata non si è infatti dimostrata superiore. Questo dato è significativo se si
considera che, come risulta sempre più chiaramente dagli studi finora condotti, il trattamento dei
disturbi affettivi è più difficoltoso quando non si affronta anche il disturbo di personalità presente
in comorbilità.

Alleanza, aderenza al trattamento (compliance) e significato attribuito ai farmaci 


È un assioma clinico che i pazienti attribuiscano un significato psicologico all'impiego dei farmaci,
anche se non ne sono consapevoli. I vissuti spesso riflettono il modo in cui i pazienti vedono se
stessi, oltre alle loro speranze e paure riguardo al medico.
Ma come comunemente reagiscono emotivamente i pazienti nei confronti dello psichiatra nel
trattamento integrato?
In termini positivi, essi riconoscono che lo psichiatra o il terapeuta riconoscono davvero la sua
sofferenza, che è interessato a ciò che prova, che egli offre sostegno e aiuto nella situazione
terapeutica; sente pure che lo psichiatra/terapeutica è fiducioso riguardo alla remissione dei
sintomi; apprezzano le sue competenze; condividono il suo approccio farmacologico e le modalità
di prescrizione dei farmaci.
In termini negativi, sentono che i propri mettono a disagio lo psichiatra/psicoerapeuta e che
quest’ultimo sia poco interessato a ciò che provano o che cerchino di controllarli. Possono sentire
anche che egli cerca di sminuire i loro problemi o che abbia scarse competenze cliniche o che sia
arrabbiato perché non riesce a farsi prescrivere i farmaci da lui che ritiene necessari.
E come, invece, comunemente reagiscono nei confronti dei farmaci nel trattamento integrato?

39
In termini positivi, si sentono sollevati perché ritengono di ricevere la terapia corretta; riconoscono
la validità e l’efficacia della terapia; apprezzano il piano terapeutico integrato.
In termini negativi, ritengono che i farmaci mettano in mostra le loro debolezze; temono che i
farmaci siano tossici o che si basino su una suggestione nociva; sono confusi o risentiti perché non
riescono a comprendere quale parte del trattamento è efficacie.

Motivi della mancata aderenza al trattamento farmacologico 


Ricercatori americani e canadesi hanno indagato i motivi per cui i pazienti interrompono le terapie
prescritte.
Le ragioni dell'interruzione del trattamento includono: (a) la convinzione che i trattamenti nel
campo della salute mentale siano inefficaci, (b) l'imbarazzo legato alla richiesta d'aiuto, e (c)
l’offerta della sola psicoterapia o della sola farmacoterapia al posto di una terapia combinata. In
breve, la presenza di pregiudizi diffusi sugli interventi relativi alla salute mentale e sui farmaci  è un
fattore che non va trascurato.

Come migliorare l’aderenza del paziente al trattamento farmacologico 


Come dovrebbe gestire il clinico l’inizio è la prosecuzione del trattamento farmacologico? Il clinico
dovrebbe sapere che lo sviluppo di una relazione empatica e non giudicante, ovvero  di un'alleanza
terapeutica, rappresenta il più potente predittore dell'outcome del trattamento,
indipendentemente dalla modalità terapeutica adottata.
Un principio ugualmente valido è che il buon outcome della farmacoterapia è  intrinsecamente
legato alla capacità del clinico di stabilire una salda  relazione farmacoterapeutica.

Orientamenti clinici nell’applicazione della farmacoterapia


Questi elencati sono alcuni orientamenti di base nell’uso dei farmaci:
- Nell'anamnesi classica, il clinico è tenuto a indagare il grado di soddisfazione del paziente nel
corso di precedenti relazioni terapeutiche rispetto  all'alleanza terapeutica generale e alle
esperienze con i farmaci.
- Il clinico deve spiegare chiaramente al paziente che tutti gli effetti dei farmaci e le reazioni a essi
meritano di essere presi in considerazione e spesso forniscono preziose informazioni nel corso del
trattamento. Analogamente, le reazioni del paziente a variazioni della terapia
farmacologica, indipendentemente dalla causa, sono spesso di grande importanza.
- A causa della complessità del trattamento, il clinico dovrebbe affrontare i problemi relativi alla
somministrazione di farmaci con regolarità. È  importante decidere se affrontare l'argomento dei
farmaci all'inizio o alla fine della  seduta. Entrambi gli approcci hanno i loro vantaggi. Quando si
discute dei farmaci all'inizio della seduta, può emergere del materiale che riflette importanti
aspetti della relazione terapeutica. Alcuni clinici preferiscono invece parlarne alla fine, per non
influenzare i contenuti e lo svolgimento della seduta. Tuttavia secondo alcuni, si darebbe minore
spazio all'esplorazione di temi importanti. Altri ancora sostengono che la questione dei farmaci
andrebbe affrontata quando viene sollevata dal paziente.
I terapeuti meno esperti spesso iniziano a parlare dei farmaci per evitare argomenti imbarazzanti
oppure quando la terapia minaccia di sfuggire al loro controllo.
- Il clinico dovrebbe chiedere abitualmente al paziente quali fantasie o timori nutre nei confronti
dei farmaci che assume, per esplorare il possibile  significato di questi ultimi e del trattamento in
generale. Discutere delle prescrizioni mediche, dei possibili effetti collaterali e dei vantaggi legati
all'assunzione di uno o più farmaci offre nuove opportunità di esplorazione e spesso può portare
alla luce temi importanti. 

40
- Il clinico dovrebbe prestare attenzione alle domande poste dal paziente circa eventuali modifiche
della terapia farmacologica.
- Una grossa sfida per lo psichiatra che conduce un trattamento integrato consiste nell'imparare a
portare avanti due compiti clinici senza soluzione di continuità, prescrivendo farmaci durante lo
svolgimento della psicoterapia. Naturalmente, lo psichiatra deve continuamente richiedere
informazioni sugli effetti dei farmaci, ma deve anche avere una visione più globale del processo
terapeutico.
- Il clinico dovrebbe considerare i vantaggi del trattamento integrato rispetto a quello disgiunto. 
- Con i pazienti con organizzazioni di personalità "primitive" (per esempio, disturbi borderline e
narcisistici di personalità) - che tendono a polarizzare le relazioni terapeutiche, spesso indulgono in
comportamenti autolesionistici e, nei casi più gravi, possono richiedere il ricovero ospedaliero -
alcuni psichiatri ritengono che il trattamento integrato sia più  utile di quello disgiunto.
- Il clinico dovrebbe prevedere come affrontare un'eventuale riacutizzazione dei sintomi al termine
di un trattamento andato a buon fine, non  dando per scontato che la prescrizione di altri farmaci
sia la soluzione migliore. 

Il trattamento disgiunto
Vantaggi del trattamento disgiunto
Sono diversi i fattori che hanno portato a una  significativa diffusione dei trattamenti disgiunti (split
treatment). Tra questi:
- Maggiori incentivi economici per i medici a causa delle basse percentuali di rimborso per gli
psichiatri che esercitano la psicoterapia.
- Minore possibilità di scelta fra diverse opzioni di cura nel sistema sanitario privato [statunitense].
- Riduzione del numero di psichiatri "convenzionati" con le compagnie assicurative.
- Numero adeguato di psicologi, assistenti sociali e counselors.
- Ridimensionamento del training psicoterapeutico in molti programmi di  tirocinio in psichiatria.
- Crescente numero di ricerche a sostegno dell'efficacia sperimentale e clinica del trattamento
disgiunto.
- Limitata disponibilità della copertura assicurativa per i trattamenti nel  campo della salute
mentale.
I sostenitori del trattamento disgiunto ritengono che esso promuova il talento di più di un
professionista nel campo della salute mentale e costituisca quindi un approccio più globale e
probabilmente più elaborato. Alcuni ritengono, sia pure in assenza di prove a sostegno
sufficientemente numerose, che sia meno costoso e permetta a un maggior numero di pazienti di
accedere alle cure. Altri argomentano che il trattamento disgiunto dia ai pazienti maggiori
possibilità di essere seguiti da clinici di origine etnica simile. Nei casi più difficili, il trattamento
disgiunto può garantire un maggior supporto emotivo ai clinici, proteggendoli da relazioni
terapeutiche troppo intense e gravose. È anche possibile che promuova l’aggiornamento
professionale, favorendo lo scambio e l'apprendimento reciproco fra professionisti. Ciò è
particolarmente vero quando l'esperienza terapeutica collaborativa (cioè disgiunta) consente di
approfondire le dinamiche e le paure del paziente, e di giungere a una migliore comprensione
clinica dei suoi problemi. Inoltre una farmacoterapia efficace può chiarire allo psicoterapeuta le
basi biologiche di alcuni disturbi e dimostrare l'utilità dei farmaci nel miglioramento di sintomi
bersaglio nelle aree dell'impulsività, della labilità affettiva e dei deficit cognitivi e percettivi. Un
altro vantaggio del trattamento disgiunto, consiste nello stemperare le risposte transferali più
intense, rendendole più accessibili rispetto al trattamento integrato. E anche ipotizzabile che il
trattamento in collaborazione possa limitare la tendenza  del paziente a dilungarsi sulla questione
dei farmaci, evitando di affrontare i problemi psicologici.
41
Svantaggi del trattamento disgiunto 
Un tipico inconveniente del trattamento disgiunto è che non è sempre possibile, per un clinico,
accertarsi delle credenziali e dell'abilità professionale  del collega. In alcuni casi, i due professionisti
possono non conoscersi. Le preoccupazioni sull'affidabilità del collega in circostanze come questa
possono essere deleterie. Indubbiamente, il paziente percepisce questa tensione e, nelle menti più
vulnerabili, ciò può favorire una scissione. Altri pazienti, che in passato hanno assistito a conflitti
significativi fra i genitori, possono cercare di neutralizzare la tensione fra i clinici adottando
l'atteggiamento di pacificazione ed eccessiva ossequiosità del passato.
Il problema di gran lunga più frequente nel trattamento disgiunto è tuttavia l'insufficiente
comunicazione fra colleghi. Questa mancanza di comunicazione ha generalmente un impatto
negativo sull'esperienza del paziente e può assumere diverse forme, per esempio:
- La prescrizione di un farmaco da parte di un medico che ignora ciò che accade nel corso della
psicoterapia con il collega.
- La decisione unilaterale di dare inizio a un trattamento farmacologico da parte del medico, per
placare la propria ansia o un'altra emozione negativa nei confronti del paziente, causata dalla
preoccupazione che la psicoterapia non sia d'aiuto o dal presupposto che il paziente sia
incapace di sostenere le frustrazioni indotte dalla psicoterapia.
- Il vago accenno, da parte del terapeuta inviante, al fatto che i farmaci prescritti dal collega
vanifichino il precedente lavoro clinico.
- L'incapacità di uno dei terapeuti di riconoscere l'impatto dei propri sentimenti competitivi verso il
collega, che può provocare una scissione nel paziente. Un elemento di questa tensione può essere
l'invidia nei confronti di una remunerazione diversa per i servizi forniti.
- Le preoccupazioni di uno o entrambi i curanti circa le questioni legali riguardanti il paziente.
- L'incapacità di riconoscere che il paziente sta fornendo informazioni contraddittorie ai due
curanti. In un paziente con gravi problemi caratteriali, si tratta di una difficoltà che spesso
compromette gravemente la terapia.
- Il tentativo, da parte dello psicofarmacologo, di curare ogni sintomo del paziente anche quando
non è necessario, in base a una visione rigidamente ateoretica del trattamento.

Principi di un trattamento disgiunto efficace: promuovere la comunicazione nella


psicoterapia psicoanalitica 
Il riconoscimento e l'accettazione dei sentimenti transferali all'interno della diade terapeutica
rappresenta un compito fondamentale, benché a volte non semplice, della psicoterapia
psicoanalitica. Questo compito si complica enormemente in presenza di due clinici verso i quali il
paziente sviluppa distinte reazioni transferali. Si consideri inoltre che il paziente sta assumendo
farmaci, verso i quali può nutrire forti resistenze consce o inconsce. A questa relazione terapeutica
vanno aggiunti i corrispondenti controtransfert di ciascun clinico. Non è difficile immaginare che
l'esperienza terapeutica di ogni partecipante può complicarsi e diventare confusa.
Possono essere ricavati alcuni importanti principi di una collaborazione efficace:
- Si deve optare per il trattamento in collaborazione solo in circostanze particolari e dopo attenta
valutazione.
- I professionisti coinvolti devono incontrarsi per discutere i motivi del consulto, nel caso non
abbiano mai collaborato in passato. Una volta stabilita una proficua collaborazione, su principi
condivisi da entrambi, le successive comunicazioni possono avvenire telefonicamente o per
iscritto.

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- Lo psichiatra e lo psicofarmacologo devono accordarsi sulle responsabilità e i confini della loro
collaborazione. Lo psicofarmacologo è solo un consulente o ci si attende che visiti regolarmente il
paziente?
- La riservatezza deve essere rispettata con il paziente da entrambi i clinici. Allo stesso modo, in
presenza di tendenze suicide o omicide nel paziente, essi devono poter comunicare liberamente
su questi temi.
- Entrambe le parti devono accordarsi sulla gestione degli effetti collaterali dei medicinali e del loro
impatto sulla psicoterapia e sull'aderenza al trattamento.
-I clinici devono accordarsi sulla frequenza delle comunicazioni.
- Entrambe le parti devono sollecitare il consenso informato del paziente nonché l'assolvimento
delle pratiche assicurative [negli Stati Uniti]
- Il paziente non deve mai essere usato per riferire informazioni che i professionisti intendono
scambiarsi tra loro.
- Talvolta, la richiesta di un trattamento disgiunto per un paziente problematico può celare il
desiderio, da parte del clinico, di interrompere il trattamento o abbandonare il caso. 
- Quando è necessario interrompere il trattamento, le decisioni sulla sua conclusione e
sull'eventuale follow-up devono essere prese insieme e spiegate al paziente da entrambi i clinici.
- Il passaggio a un nuovo psicofarmacologo rischia di avere effetti negativi
sul paziente. 
- Se il paziente non riesce a stabilire una relazione terapeutica con uno dei clinici, entrambi sono
tenuti a favorire un cambiamento in tal senso. Una collaborazione efficace si basa sulla
disponibilità di entrambi a identificare gli intoppi della terapia e a richiedere insieme un consulto.

I professionisti coinvolti devono inoltre considerare i seguenti punti prima dell'inizio del
trattamento:
- In caso di necessità, quale dei due deve parlare ai familiari del paziente, e in che modo?
- Come verrà gestita la copertura assicurativa in assenza di uno o di entrambi i clinici?
- In che modo verranno affrontati eventuali problemi con l’assicurazione del paziente?
- Come verranno gestiti eventuali crisi o ricoveri ospedalieri e da chi?

Che cos’è la psicoterapia dinamica (Cap. 1 – Colli)


Le caratteristiche della psicoterapia dinamica
La psicoterapia psicodinamica nasce dalla psicoanalisi e con essa condivide l’attenzione alle
dinamiche di trasfert e controtransfert; l’accento sui significati consci attivi nel qui e ora della
relazione; l’importanza dell’analisi sistematica della struttura di personalità del paziente; il
43
riconoscimento dell’impatto delle prime relazioni sulla psicopatologia e sulla relazione terapeutica.
Gli interventi utilizzati nelle psicoterapie psicodinamiche sono i seguenti:
- Focus sugli affetti e sulle espressioni delle emozioni;
- Focus sull’evitamento di pensieri e sentimenti fonte di angoscia;
- Identificazione di temi e pattern relazionali ricorrenti (trasfert);
- Focus sullo sviluppo e discussione delle esperienze passate;
- Focus sulle relazioni interpersonali;
- Focus sulla relazione terapeutica;
- Elaborazione delle fantasie e delle libere associazioni.
È un trattamento che presta particolare attenzione alle interazioni tra paziente e terapeuta e ai
contributi del terapeuta alla co-costruzione della relazione, alle interpretazioni del transfert e delle
resistenze.
In aggiunta a ciò, molto importante è la sensibilità e la curiosità dei terapeuti psicodinamici verso i
loro pazienti, nonché il rispetto per la sua soggettività.

Psicoterapia psicodinamica e psicoanalisi


La differenza tra psicanalisi e psicoterapia psicodinamica può essere espressa collocando tali
trattamenti lungo il continuum supportivo-espressivo. Su una polarità espressiva si collocano i
trattamenti psicoanalitici caratterizzati da un setting a elevata frequenze delle sedute, un
atteggiamento dell’analista orientato all’astinenza e alla neutralità, l’uso privilegiato delle
interpretazioni, una particolare attenzione alla resistenza, al transfert e all’utilizzo del
controtransfert ai fini della comprensione del paziente. Su una polarità supportiva si trovano
invece i trattamenti che si caratterizzano per una bassa frequenza (generalmente una seduta a
settimana), l’utilizzo di interventi del terapeuta, quali consigli diretti e identificazione empatica,
con un focus importante sulle problematiche attuali. La psicoterapia dinamica generalmente viene
collocata più o meno nel mezzo rispetto a queste due polarità.
Un altro modo di affrontare le differenze tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica (psicoterapia
psicodinamica) è quello di distinguere i fattori estrinseci (o formali) e i criteri intrinseci (o
funzionali).
I criteri estrinseci fanno riferimento al numero delle sedute settimanali (nei trattamenti analitici il
numero delle sedute va dai tre ai cinque giorni a settimana, da una a tre nelle psicoterapie
dinamiche), l’utilizzo del lettino o l’applicazione a una popolazione clinica target che possiamo
genericamente definire di pazienti nevrotici.
I criteri intrinseci, invece, sono tutti quegli aspetti che fanno parte direttamente della teoria della
tecnica, quali l’interpretazione del transfert, delle resistenze, la neutralità dell’analista, ecc.
La psicoterapia psicodinamica mantiene la psicoanalisi come teoria generale ma presenta
modificazioni formali come la riduzione della frequenza delle sedute, il setting vis-à-vis e il ricorso
meno sistematico all’interpretazione.

Teorie dell’azione terapeutica (cap. 2 – Colli)

1. Che cos’è l’azione terapeutica?


Quando parliamo di azione terapeutica ci riferiamo ai processi e fattori responsabili del
cambiamento che avviene in terapia.
Nel corso degli anni sono stati proposti numerosi modelli dell'azione terapeutica perché vi era un
disaccordo tra i clinici circa un costrutto così centrale e questo ha avuto delle conseguenze
importanti dal punto di vista dell'intervento clinico, della formazione e della ricerca.
44
La definizione di questo concetto dipende dallo specifico modello teorico che l’analista adotta.
Riferendosi a questo termine, alcuni autori utilizzano termini differenti ma sembrano parlare del
medesimo fenomeno, altri pur utilizzando lo stesso termine fanno riferimento a differenti
significati.
Quando parliamo di azione terapeutica non possiamo non prendere in considerazione la
riflessione sulla psicopatologia e sugli obiettivi del trattamento perché la concezione di questo
fenomeno varia
a seconda di come si definiscono la natura della psicopatologia e gli obiettivi terapeutici
fondamentali.
Dobbiamo considerare le teorie dell'azione terapeutica come un prodotto  emergente dall'
incontro tra i clinici/teorici e determinate popolazioni cliniche. Esistono tante azioni terapeutiche
quanti sono i pazienti e questo perché l'azione terapeutica rappresenta un  prodotto emergente
del rapporto unico tra il clinico e la sofferenza dei pazienti.
Nel corso del tempo i fattori implicati nell’azione terapeutica, comprendenti gli interventi tecnici
come le interpretazioni, si sono allargati fino a comprendere i fattori relazionali quali l’alleanza
terapeutica, la negoziazione del clima relazionale e la partecipazione emotiva dell’analista. Questo
cambiamento è stato introdotto da Leowald, il quale aveva notato che il processo di cambiamento
è attivato non solo dalle capacità tecniche dell'analista, ma dal fatto che egli stesso si rende
disponibile allo sviluppo di una nuova relazione d'oggetto tra il paziente e l'analista.
A lungo le teorie dell'azione terapeutica hanno fatto riferimento più o meno implicitamente a
modelli causali di tipo lineare, secondo i quali vi è una diretta e lineare interconnessione tra le
azioni del terapeuta e le risposte del paziente. Di contro, alcuni teorici contemporanei, soprattutto
di orientamento postmoderno e con forti influenze europee, riprendendo il pensiero originario di
Freud, hanno ripensato l'azione terapeutica in termini di complessità e di processi non lineari.

1.1. Obiettivi dei trattamenti psicodinamici 


Parlare di azione terapeutica implica il confrontarsi con gli obiettivi del trattamento, che
differiscono a seconda dei vari modelli psicodinamici presi in esame.
In generale potremmo affermare che tutti gli approcci terapeutici, psicodinamici e non,
condividono degli obiettivi generali, quali il sollievo dal dolore.
Gabbard ha provato a individuare i principali obiettivi delle terapie psicodinamiche.
a) Risoluzione del conflitto inconscio, che non può mai essere eliminato completamente, ma può
essere risolto tramite una formazione di compromesso, più efficace e adattiva rispetto al sintomo.
b) Ricerca della conoscenza di Sé, che dovrebbe portare il paziente a una maggiore
consapevolezza della sua vera natura per poter vivere più autenticamente, distinguendo il suo
vero Sé dal falso Sé.
c) Maggiore comprensione delle proprie relazioni oggettuali interne, per migliorare la capacità di
instaurare relazioni interpersonali più soddisfacentid) Nascita di significato, che può essere già
presente da tempo nell'inconscio, da cui viene scoperto e fatto emergere, oppure creato da un
lavoro congiunto nel dialogo terapeutico, cui partecipano attivamente tanto il terapeuta quanto il
paziente.
e) Miglioramento della funzione riflessiva, per permettere al paziente di avere una distinzione più
nitida tra rappresentazione interna dell'altro e oggetto reale, per far sì che sviluppi una maggiore
consapevolezza della distinzione del mondo interno proprio e dell'altro, nella comprensione
dell'intersoggettività e del comportamento altrui, che non è casuale, ma conseguenza di credenze,
motivazioni, sentimenti e conflitti.

2. Tecniche terapeutiche 
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Sono due i processi che si attivano nel corso di una terapia psicodinamica: i processi tecnici,  che
fanno riferimento ai compiti che paziente e terapeuta hanno nelle terapie dinamiche, e i processi
relazionali, che hanno come veicolo principale la relazione terapeutica. Entrambi possono essere
legati a degli obiettivi primari, cioè quegli obiettivi direttamente riconducibili al fattore in esame, e
a obiettivi secondari, che, seppur non esplicitamente ricollegabili al fattore, ne risultano
intrinsecamente connessi.
I processi tecnici includono: a) i tipi d'intervento messi in atto dal terapeuta; b) le libere
associazioni del paziente; c) l'attenzione liberamente fluttuante dell'analista.
Interventi del terapeuta: fanno riferimento all’ l'interpretazione, riconosciuta come un elemento
centrale nelle terapie di tipo psicodinamico.
Mediante l'interpretazione i terapeuti aiutano i propri pazienti a reintegrare quegli aspetti
dell'esperienza, principalmente gli affetti, disconosciuti o dissociati, ma anche a divenire
consapevoli delle difese messe in atto verso questi affetti e delle modalità di relazione
interpersonale che tendono ad attivarsi automaticamente. 
Libera associazione: introdotta da Freud, egli incoraggia il paziente a dire tutto ciò che gli passava
per la mente. I pazienti sono incoraggiati a sospendere la propria funzione autocritica e a
verbalizzare fantasie, immagini, emozioni che sembrano affiorare alla coscienza. Egli credeva che
l'allentamento della censura favorisca l'emergere dei derivati dell'inconscio, che saranno poi
sottoposti a interpretazione.
Secondo Gabbard e Westen la libera associazione è utile per due ragioni: la prima è che essa offre
la possibilità di vedere le difese in azione e osservare le circostanze nelle quali emerge la
resistenza (quando il paziente non è in grado di associare liberamente); la seconda è che consente
al paziente e all'analista di tracciare una mappa delle reti associative inconsce del paziente e di
esplorarle. In altre parole, potremmo dire che le libere associazioni offrono la possibilità di
aggirare, almeno in parte, il funzionamento conscio e controllante e di far emergere dei possibili
nuovi significati rispetto alle tematiche portate in seduta.
Attenzione liberamente fluttuante e ascolto analitico: tale tecnica prevede che nell'ascolto
analitico si tenga «lontano dalla propria attenzione qualsiasi influsso della coscienza e ci si
abbandoni completamente alla propria memoria inconscia oppure in termini puramente tecnici si
stia ad ascoltare e non ci si preoccupi di tenere a mente alcunché» (Freud).
In altre parole, questa regola tecnica indica una disposizione interna dell'analista durante le sedute
e prevede che egli lasci entrare dentro di sé gli stimoli provenienti dal paziente senza fare
attenzione particolare ad alcuno di essi, sospendendo il giudizio cosciente e il ragionamento su
questi stimoli, osservando l'andamento e le configurazioni di tutto quello che gli viene in mente.
Questo tipo di ascolto, così difficile da descrivere a parole, rappresenta però un punto
fondamentale di collegamento tra le libere associazioni del paziente e gli interventi del terapeuta.
In quest'ottica, infatti, il particolare ascolto delle associazioni del paziente suggerito da Freud
permetterebbe all'analista di individuare possibili significati, che vanno oltre quelli manifesti, e
conseguentemente di focalizzarsi nei suoi interventi su aspetti di cui il paziente non è consapevole.
Questo ascolto si basa proprio sull'utilizzo da parte dell'analista del suo mondo interno. 
3. I processi relazionali 
Nel corso degli anni ha assunto sempre maggiore importanza il ruolo attribuito alla relazione
terapeutica rispetto al processo analitico. Questa componente era stata a lungo bistrattata in
ambito psicoanalitico e relegata nell'ampio contenitore della suggestione, che
tanto aveva preoccupato Freud.
Negli ultimi anni è venuta meno la netta demarcazione fra fattori che promuovono l'insight
attraverso elementi tecnici (l’interpretazione soprattutto)  e il cambiamento ottenuto attraverso
fattori relazionali, poiché è stato riconosciuto come queste due dimensioni del processo
46
terapeutico tendano a operare in maniera sinergica e assumere un rilievo differente a seconda
dei pazienti. 
La relazione terapeutica e gli interventi del terapeuta sembrano in generale favorire il
cambiamento a livello della conoscenza relazionale implicita del paziente. Questa conoscenza, che
opera al di fuori dell'attenzione focale e della consapevolezza, regola le aspettative implicite di
ogni essere umano nell'interazione con l’altro.
All'interno del processo terapeutico, questa conoscenza viene continuamente negoziata attraverso
momenti in cui il terapeuta, più o meno marcatamente, risponde in modo sintonizzato o meno a
questi modelli relazionali. Il punto centrale è che perché avvenga un cambiamento in questa
conoscenza relazionale non è sufficiente che paziente e terapeuta "parlino di questi modelli, e
quindi che l'elaborazione avvenga attraverso la conoscenza dichiarativa, bensì è necessario che il
cambiamento avvenga attraverso una conoscenza procedurale, legata al "come se ne parla”.
Questo processo di cambiamento non è lineare ma avviene in particolari momenti della
terapia, non prevedibili, chiamati momenti ora (Stern, 2004). In questi momenti, la dimensione
intersoggettiva dell'incontro tra paziente e terapeuta è cambiata all'improvviso o rischia di
cambiare. In altre parole, sono momenti in cui implicitamente viene richiesto ai partecipanti se
restare o meno nell'abituale cornice di comportamento. Un momento ora che viene compreso da
entrambi i partecipanti e colto dal punto di vista terapeutico (soprattutto dal terapeuta) viene
chiamato momento d'incontro. In questi momenti, paziente e terapeuta si incontrano nelle loro
soggettività al di là dei loro ruoli.
Oltre a questo cambiamento nella conoscenza relazionale implicita, quando  parliamo di fattori
relazionali implicati nell'azione terapeutica della psicoanalisi e possibile individuare alcuni aspetti
sui quali la relazione agisce direttamente:
a) Nuova relazione: la relazione terapeutica può determinare un cambiamento nel paziente grazie
al fatto che essa si presenta come una nuova e differente relazione rispetto alle figure del passato.
In quest'ottica, la relazione terapeutica svolge la funzione di esperienza emozionale correttiva.
b) Interiorizzazione delle funzioni terapeutiche in termini di regolazione affettiva: Un secondo
modo in cui la relazione può contribuire al cambiamento è mediante l'interiorizzazione della
funzione di regolatore emotivo che il terapeuta può svolgere o, per dirla in altre parole, per il
processo di rêverie e contenimento che il terapeuta può offrire. 
c) Interiorizzazione della funzionalità superegoica del terapeuta. Una terza modalità per cui la
relazione può essere terapeutica si ha quando vengono interiorizzati gli atteggiamenti affettivi e
non giudicanti del terapeuta verso esperienze che il paziente altrimenti avrebbe giudicato degne di
vergogna o di colpa. 
d) Interiorizzazione dell'atteggiamento mentalizzante del terapeuta. Una quarta modalità che
può rendere la relazione uno strumento attivo di cambiamento è rappresentata
dall'interiorizzazione delle strategie consce e inconsce di riflessione su di sé - vale a dire, quando il
paziente gradualmente diventa l'analista di sé stesso. In termini più attuali potremmo dire che a
livello implicito ed esplicito il paziente interiorizza la funzione di promotore della mentalizzazione
svolta dal terapeuta. 

Capitolo 3: La ricerca empirica in psicoanalisi psicoterapia dinamica


(Colli)

1. Problematiche metodologiche 
Vi sono diverse problematiche metodologiche trasversali alla ricerca dell’outcome, ma
particolarmente rilevanti per la ricerca empirica in ambito psicodinamico. La metodologia di
47
ricerca della medicina evidence-based prevede che, affinché un trattamento sia considerato
supportato empiricamente (e dunque inserito nella lista degli Empirically Supported Treatments o
EST), la sua efficacia debba essere dimostrata in studi randomizzati controllati (Randomized
Clinical Trials - RCT). Secondo il movimento degli EST, gli RCT rappresentano il gold standard
metodologico della verifica empirica e si caratterizzano per l'assegnazione casuale
(randomizzazione) dei soggetti a due gruppi distinti, uno sperimentale (che riceverà il trattamento
di cui si vuole dimostrare l'efficacia) e uno di controllo.
Sebbene gli intenti del movimento degli EST siano ineccepibili, l'approccio metodologico appare
alquanto criticabile a causa di alcuni degli assunti che ne sono alla base  e che vengono di seguito
indicati.
a) I processi psicologici sono altamente malleabili e modificabili in tempi brevi. La maggior parte
dei trattamenti validati attraverso gli RCT sono di breve durata, generalmente tra le sei e le sedici
sedute. In quest’ottica si assume che tali trattamenti possano modificare, in un lasso di tempo
ridotto, processi psicopatologici che hanno impiegato anni per strutturarsi. Ciò  è stato tuttavia
disconfermato dalla letteratura empirica, che ha dimostrato come i processi psicologici si
caratterizzino per un lento tasso di cambiamento.
b) La maggior parte dei pazienti ha un solo problema principale o può essere trattata come se
così fosse. La letteratura empirica ha evidenziato nel tempo come la comorbilità sia la norma più
che l’eccezione: la maggior parte dei disturbi clinici si presenta assieme ad altre manifestazioni
psicopatologiche, con percentuali che vanno dal 5o% al-90%. Questo implica che circa i due terzi
dei pazienti che richiedono un trattamento cioè gli stessi pazienti che si ritrovano più
frequentemente nella pratica clinica quotidiana vengono esclusi dagli studi di efficacia in quanto
presentano comorbilità.
c) I sintomi psicologici possono essere compresi e trattati prescindendo dalle disposizioni di
personalità. Numerose ricerche hanno mostrato  che la sintomatologia clinica deve essere studiata
in rapporto del soggetto, che influisce sia sulla risposta ai trattamenti sia sull'esito della terapia.
d) Gli RCT sono il gold standard per la valutazione dell'efficacia terapeutica. Questo assunto
implica anche che gli elementi di un trattamento  efficace siano manualizzati in modo che i singoli
interventi possano essere messi in relazione di causalità rispetto all'esito del trattamento. Non è
difficile comprendere come questo sia un punto particolarmente problematico per  le psicoterapie
psicodinamiche che, proprio in virtù delle loro caratteristiche intrinseche, difficilmente possono
essere manualizzate.
e) A inizio trattamento i pazienti desiderano (e sono in grado di) riferire i motivi della loro
sofferenza. Nella realtà della pratica clinica i pazienti  spesso non sono pienamente consapevoli
delle loro problematiche (si pensi ai tratti egosintonici della personalità), e in molti casi non
desiderano riferire fin da subito i motivi della loro sofferenza.
f) Gli elementi di un trattamento efficace sono dissociabili e cumulabili tra loro. Ciò implica che
nel caso un paziente presenti più manifestazioni psicopatologiche, queste debbano essere trattate
separatamente e in modo seriale. Per esempio, un paziente che abbia una sintomatologia
alimentare con un disturbo correlato a sostanze in comorbidità, dovrà essere trattato prima
per uno dei due disturbi (per esempio, il disturbo del comportamento alimentare) con il relativo
trattamento empiricamente validato di riferimento, e solo una volta risolta la sintomatologia
alimentare potrà essere trattato per il disturbo correlato a sostanze.
Appare evidente la difficoltà ad applicare tali assunti e con essi  l'approccio metodologico degli EST
ai trattamenti psicodinamici, in particolare quelli a lungo termine. 
Fonagy individua due principali difficoltà legate alla valutazione dell'efficacia dei trattamenti
psicodinamici.

48
1. Difficoltà di ordine filosofico. Come possiamo stabilire e misurare quale  sia un buon esito di un
trattamento? Il trattamento psicoanalitico è rivolto  a stati mentali interni e complessi, che sono
però spesso ridotti a misure più semplici e facilmente valutabili, quali per esempio la depressione,
l'ansia o la sintomatologia globale. Anche qualora si trovassero misure più valide,  alcuni dei criteri
considerati dalla psicoanalisi come indicatori di un buon esito  (per esempio, la qualità della vita, il
senso etico, un senso di realizzazione personale, l’autenticità)  risultano essere intrinsecamente
non misurabili.
2. Difficoltà etiche. Gli RCT pongono difficoltà etiche rispetto alla selezione dei pazienti, al
consenso, alla randomizzazione e alla prosecuzione del  trattamento una volta che lo studio si è
concluso; inoltre, richiedono che il clinico sia allo stesso tempo terapeuta e scienziato, e che i
pazienti siano allo stesso tempo malati e soggetti di ricerca. Si raccomanda ai clinici di raggiungere
il cosiddetto “equilibrio terapeutico”, che implica l’essere genuinamente in dubbio rispetto alle
potenzialità curative dei modelli di trattamento studiati, ma tale atteggiamento è realmente
possibile?
Alcuni autori hanno scelto di verificare l'efficacia dei trattamenti dinamici secondo le regole degli
EST. Altri, pur assumendo una posizione critica rispetto al movimento degli EST, non hanno
rinunciato al tentativo di verificare empiricamente i trattamenti analitici e hanno proposto
metodologie e approcci alternativi più vicini ai principi ispiratori della psicoanalisi. Ne sono
testimonianza, l’utilizzo di disegni di ricerca naturalistici e single case e infine lo studio di
trattamenti a lunga durata ed elevata frequenza. 

2. L’efficacia delle psicoterapie dinamiche 


Negli ultimi anni vi è stato un incremento dell'interesse verso la ricerca empirica in ambito
psicodinamico. Va notato uno sbilanciamento verso gli studi sui trattamenti a breve termine
rispetto al numero di studi sui trattamenti a lungo termine. Dimostrare l'efficacia di un
trattamento psicodinamico a breve termine non significa tout court avere dimostrato l'efficacia
della psicoterapia psicodinamica a lungo termine. 
2.1. Efficacia generale 
La tecnica della metanalisi è un metodo statistico che permette di sintetizzare i risultati di più
ricerche sul medesimo argomento attraverso il calcolo di un indice di misura comune, l’effect size.
L'effect size è il rapporto tra la differenza tra le medie dei gruppi e la deviazione standard.  Esso
indica le differenze tra i gruppi secondo la deviazione standard in una distribuzione normale. 
I risultati delle metanalisi condotte finora sulla psicoterapia psicodinamica a breve e lungo termine
hanno portato ad almeno una delle seguenti conclusioni.
- La psicoterapia psicodinamica produce outcome non differenti rispetto  ad altre forme di
trattamento.
- Vi sono piccole differenze (in termini di effect-size) a favore dei trattamenti psicodinamici rispetto
ad altre forme di trattamento.
- Vi sono piccole differenze a favore di trattamenti alternativi sia per  differenti disturbi, sia nello
specifico, per la depressione (in  cui è stata riscontrata una piccola differenza a conclusione del
trattamento, che tuttavia non si manteneva al follow-up).
- La psicoterapia dinamica supera in maniera significativa i trattamenti  praticati nei gruppi di
controllo.
- La psicoterapia psicodinamica e i trattamenti psicoanalitici sembrano raggiungere  dei
cambiamenti in modo meno rapido  rispetto a trattamenti brevi. Al tempo stesso però, i
trattamenti a lungo termine e psicoanalitici  risultano più efficaci nel lungo periodo, a tre e cinque
anni, con valori di effect size crescenti nel tempo. In altre parole, i trattamenti a lungo termine
sembrano avere una sorta di azione "a lento rilascio" che mette in moto un processo interno di
49
riflessione su sé stessi che continua nel tempo e che determinerebbe nel paziente un
cambiamento strutturale, qualitativamente differente rispetto ad altre forme di trattamento.
In generale, la ricerca empirica supporta l’uso della psicoterapia psicodinamica per la depressione,
che può essere considerata un’alternativa valida al trattamento farmacologico. Per quanto
riguarda i disturbi d’ansia poche ricerche hanno finora indagato l'efficacia della
psicoterapia psicodinamica.
Rispetto a tali disturbi, le metanalisi hanno evidenziato come i trattamenti dinamici siano
significativamente più efficaci rispetto ai controlli in lista d'attesa per ansia e fobia sociale, con
valori di ES da moderati a elevati, ma che in linea generale non vi siano differenze significative
rispetto ad altre forme di trattamento. Tuttavia va considerato che in questi studi vi sono
differenze molto marcate nella valutazione dell'outcome unite a criticità metodologiche e
diagnostiche: vengono infatti accumunate sotto l'etichetta "disturbi d'ansia" manifestazioni
psicopatologiche talvolta diverse tra loro e risulta quindi problematico trarre delle conclusioni
definitive su dati a disposizione.

3. Alcune questioni generali 


Molti degli studi sull'efficacia della psicoterapia, soprattutto se condotti facendo riferimento agli
EST, valutano i trattamenti come se fossero dei "pacchetti”. Questa metodologia di verifica si basa
sull' assunto implicito che ciò che i terapeuti fanno nei trattamenti studiati corrisponda a ciò
che dovrebbero fare secondo i manuali di riferimento. In generale, la ricerca ha dimostrato che
anche in condizioni controllate i diversi trattamenti, seppur appartenenti ad approcci differenti,
possono condividere importanti elementi del processo terapeutico. In altre parole, nella pratica
clinica i fattori terapeutici di uno specifico trattamento potrebbero non corrispondere agli assunti
teorici del modello terapeutico di riferimento. Per questo motivo, gli RCT che valutano un
trattamento in quanto pacchetto non necessariamente forniscono in supporto empirico alle
premesse teoriche che sono alla base dei singoli interventi messi in atto. 
Diversi studi hanno messo in luce come ciò che i terapeuti fanno spesso si discosta dai principi
d'intervento dei loro modelli di riferimento, e cosa ancora più importante che i terapeuti
più efficaci, siano essi dinamici o cognitivisti, sono quelli che mettono in atto maggiormente
tecniche di tipo psicodinamico. Altri studi hanno dimostrato una correlazione tra metodi
psicodinamici e outcome positivi, a prescindere dal fatto che i ricercatori identificassero
esplicitamente tali metodi come psicodinamici: questo suggerisce come gli esiti positivi raggiunti
da altre forme di trattamento siano determinati dal grado in cui tali terapie utilizzano tecniche
dinamiche>>.
Un'altra criticità importante degli studi sull'efficacia delle psicoterapie riguarda la lunghezza dei
trattamenti psicoanalitici, ritenuti eccessivamente dispendiosi rispetto a trattamenti brevi, che
possono raggiungere i medesimi benefici in tempi decisamente inferiori. Infatti, per problematiche
economiche, di pianificazione delle ricerche nonché metodologiche questi trattamenti
difficilmente possono essere inclusi in studi RCT, che tendono quindi a validare esclusivamente
trattamenti a breve termine.
Data la scarsità di studi di efficacia sui trattamenti a lungo termine, può essere  utile provare a far
luce sul problema della durata dei trattamenti in psicoterapia dinamica prendendo in
considerazione i risultati ai quali sono giunte le ricerche che hanno indagato il rapporto dose-
effetto in psicoterapia. Alcuni studi naturalistici, per esempio, hanno individuato una relazione
dose-effetto migliore nei trattamenti della durata di almeno uno o due anni (rispetto a trattamenti
più brevi. Questi lavori hanno dimostrato che, sebbene sia possibile ottenere significative riduzioni
sintomatologiche in tempi brevi (indicativamente tra le quattro e le sedici sedute), per poter

50
raggiungere un ritorno al funzionamento ottimale, soprattutto in termini di personalità, sono
necessari tempi maggiori, di almeno due anni.
Altri studi hanno indicato inoltre come la median effective dose, ovvero la quantità di terapia
necessaria per produrre un cambiamento significativo almeno nel  50% di una popolazione clinica
sottoposta a trattamento, nel caso di manifestazioni psicopatologiche rilevanti, quali depressione
o disturbi di personalità, raramente possa essere inferiore alle cento sedute. Altri ambiti di ricerca
hanno confermato questo dato. Si pensi, per esempio, a studi nell'ambito delle neuroscienze
cognitive, che hanno dimostrato come le reti associative alla base dell'esperienza individuale
tendano a caratterizzarsi per una elevata resistenza al cambiamento.
Altri lavori che hanno indagato anche il problema della cost effectiveness ( efficacia dei costi)
suggeriscono come i trattamenti a lunga durata,  sebbene inizialmente appaiano maggiormente
dispendiosi, nel lungo periodo determinano una riduzione da parte dei pazienti dell'utilizzo delle
strutture sanitarie, che consente di recuperare la maggiore spesa iniziale. Tali dati sono confermati
anche da altri studi, che hanno mostrato una riduzione significativa della spesa sanitaria
e dell'accesso ai servizi, oltre a una maggiore produttività lavorativa, nel caso di trattamenti
psicoanalitici a lungo termine. Molti pazienti rischiano così di ricevere un trattamento a breve
termine, ottenendo nel breve periodo una riduzione sintomatologica ma mantenendo una forte
vulnerabilità al disturbo con le conseguenti difficoltà nel lavoro, nella produttività e un ricordo
maggiore ai servizi sanitari, e determinando un relativo incremento delle spese. 

4. Uno sguardo d’insieme 


Riassumendo, diversi RCT dimostrano come la psicoterapia psicodinamica a breve e lungo termine
sia efficace nel trattamento di diversi disturbi, nello specifico: disturbi depressivi, disturbi d'ansia,
disturbi somatoformi, disturbi alimentari, disturbi correlati a sostanze, disturbo borderline di
personalità, disturbi di personalità del cluster C.
Probabilmente gioca un ruolo centrale nella  determinazione e nell'interpretazione dei risultati la
preferenza teorica del ricercatore, come dimostrato dagli studi sull'allegiance.
L’allegiance si riferisce a un bias nei risultati degli studi pubblicati legato alle preferenze e alla
fedeltà di un ricercatore rispetto a un determinato modello di trattamento. Si manifesta per
esempio attraverso una tendenza ad agire inconsapevolmente, secondo una logica di conferma
delle proprie aspettative piuttosto che di falsificazione.
L'inclusione della psicoterapia all'interno di una logica di medicina evidence-based ha dato
sicuramente un forte impulso al confronto tra modelli  basati sui dati e non piuttosto su convinzioni
di tipo teorico, ma al tempo stesso sembra aver rinforzato  una forma di conservatorismo che non
ha favorito i processi di integrazione e dialogo orientati alla scoperta scientifica.
Diverse combinazioni di tecniche terapeutiche sono state accettate come pacchetti empiricamente
supportati; tuttavia, questa metodologia di verifica empirica ha portato a una scarsa
considerazione del valore delle singole componenti all'interno del trattamento preso in esame.
Questi pacchetti psicoterapeutici si evolvono in relazione ad un sistema diagnostico non adeguato:
il DSM ha mostrato nel tempo criticità importanti, di conseguenza qualsiasi modello
terapeutico che si basi su questo tipo di diagnosi presenta problematiche significative già
all’origine. Come suggeriscono i dati provenienti da studi naturalistici, una percentuale che varia
tra un terzo e metà dei pazienti che richiedono un trattamento psicoterapeutico viene esclusa da
studi di validazione dei trattamenti poiché non rientra nelle categorie diagnostiche proposte dal
DSM. Sarebbe perciò utile seguire un percorso che ci consenta di comprendere la differenza tra un
approccio basato su una tassonomia di patologie o disturbi delle funzioni mentali e una
«tassonomia di persone» nell’ottica di individuare una "psicoterapia su misura" per persone
"reali".
51
Capitolo 4: Basi neuroscientifiche per la psicologia dinamica (Colli)

1. Un approccio integrato
Un approccio integrato tra psicologia dinamica e neuroscienze è utile perché consente di far
dialogare i vari approcci e costruire le basi dei concetti fondamentali comuni agli approcci; perché
offre una lettura somatica dei sintomi e del cambiamento ai pazienti; perché mette in discussione
le idee con minori fondamenta empiriche; infine, può portare a meglio comprendere le opere degli
autori classici della psicologia dinamica, in primis di Freud.

2. Risultati empirici 

2.1. Memoria e plasticità neuronale: una prospettiva psicodinamica 


Una svolta concettuale importante nell'introdurre il concetto di plasticità cerebrale e nel sancire il
connubio naturale tra la psicologia dinamica e le neuroscienze è da attribuirsi alle scoperte del
fisiologo Eric Kandel, il ha stilato cinque principi consequenziali, considerati da molti autori
i capisaldi nel processo di integrazione tra psicologia dinamica e neuroscienze: 
1. tutti i processi mentali sottendono processi cerebrali;
2. i geni e i loro prodotti (i neurotrasmettitori in particolare) esercitano un'azione significativa sul
comportamento;
3. la sola genetica non può spiegare tutta la variabilità individuale in un disturbo mentale;
4. modificazioni dell'espressione genica indotte dall'apprendimento producono a loro volta
modificazioni negli schemi di connessione neuronale;
5. nella misura in cui la psicoterapia è efficace e produce cambiamenti di lunga durata nel
comportamento, è presumibile che ciò avvenga nel processo di apprendimento che modifica
l'espressione genica, agendo sull’efficacia delle connessioni sinaptiche, riscrivendo così i percorsi
anatomici cerebrali.
In recenti studi Cristina Alberini ha descritto come segue la dinamicità delle tracce mnesiche con
un linguaggio in grado di fungere da ponte tra il lessico neuroscientifico e quello psicodinamico. La
memoria a lungo termine richiede per il suo consolidamento una fase iniziale legata al
potenziamento a lungo termine. In questa fase di consolidamento, le tracce dei ricordi
sono "fragili" e soggette a influenze esterne. Una volta che si sono stabilmente consolidate,
tuttavia, le antiche memorie possono nuovamente tornare "labili", ovvero permeabili a nuove
informazioni e associazioni, attraverso un processo di "ritorno alla consapevolezza”. È proprio
relativamente alla labilità e al riconsolidamento delle memorie che la scienziata ha delineato un
parallelismo interessante tra biologia e psicoanalisi, attraverso il modello di inconscio freudiano. In
estrema sintesi, le libere associazioni sarebbero il metodo elettivo per favorire il
processo biologico in grado di rendere nuovamente labili le memorie consolidate, sorpassandole
resistenze dovute alla rimozione. Tale processo si attuerebbe attraverso un meccanismo
retroattivo a carico dell'area dorsolaterale del lobo frontale, che ha una funzione tipicamente
inibitoria sulle aree del lobo temporale, in particolare quelle ippocampali. In altre parole
l'approccio terapeutico psicodinamico, in particolare quello psicoanalitico, sarebbe quello che
offre gli strumenti più idonei per eludere la censura, dando una nuova possibilità di organizzazione
ai ricordi inelaborati e/o rimossi.

2.2. I sistemi operativi emozionali 


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Nel paradigma delle neuroscienze affettive ogni emozione di base è caratterizzata da un insieme di
risposte fisiologiche biologicamente determinate: i sistemi operativi emozionali, che sono il
desiderio, la rabbia, la paura, la sofferenza, l’amore, il gioco e la bramosia sessuale. Essi sono stati
teorizzati e descritti da Jaak Panksepp (1998) e hanno rappresentato un’ulteriore svolta cruciale
nella prospettiva dell'integrazione tra psicologia dinamica e neuroscienze. Si tratta di sette sistemi
che agiscono come centrali operative che organizzano in modo flessibile l'insieme delle varie
risposte emotive specifiche. Ciascuno di essi è caratterizzato da attivazioni metaboliche di
specifiche aree cerebrali. Le aree celebrali coinvolte nei sistemi operativi emozionali sono le
strutture sottocorticali mediali (ipotalamo, grigio periacqueduttale, collicoli superiori, le regioni
locomotorie mesencefaliche, l’area preottica, il talamo dorsomediale e i nuclei sottocorticali) e le
strutture corticali mediali (corteccia prefrontale dorsomediale, corteccia prefrontale
centromediale, cingolo anteriore e cingolo subgenuale).

2.3. La dissociazione e la teoria polivagale


Le strutture sottocorticali mediali sembrano essere invece coinvolte direttamente
nell'elaborazione di un Sé consapevole. Si tratta di aree che si sono rivelate attive, in vari contesti
sperimentali, al momento specifico della presentazione di stimoli riferiti al Sé (volti,
movimenti, azioni, aggettivi di tratto, ricordi.
I pazienti con disturbo borderline di personalità, categoria diagnostica caratterizzata da scissione
del Sé, hanno, invece, mostrato una ridotta attivazione delle strutture corticali mediali rispetto agli
individui non clinici (Enzi et al., 2013).
Il correlato neurale del Sé viene quindi genericamente associato all'attivazione delle strutture
corticali mediali e in stretto contatto morfofunzionale con le strutture sottocorticali mediali, e
non sembra poter essere associato a un'area cerebrale circoscritta. Tale evidenza sembra in linea
anche con le posizioni teoriche di Mitchell in quanto confermerebbe l'idea di un Sé parallelamente
multiplo e integro, ovvero una funzione sopraordinata in grado di organizzare tutte le funzioni
riferite alla persona stessa.
Se il caregiver, nelle fasi iniziali dello sviluppo evolutivo non è tuttavia in grado di modulare nel
bambino gli esiti affettivi di una rottura relativa all'attaccamento e alla dissociazione difensiva
attuata per proteggere la relazione d'attaccamento, di fatto permette che lo stato traumatico
relazionale diventi duraturo, compromettendo lo sviluppo psicobiologico del bambino stesso, e
quindi di un Sé coeso e stabile. Tali esiti trovano riscontro anche nei processi cerebrali.
L'uso preponderante della dissociazione difensiva si associa a una compromissione dell'abilità di
percepire ed elaborare le emozioni (soprattutto quelle negative), processo tipicamente a carico
dell'emisfero destro. Una mente traumatizzata equivałe quindi a un cervello esposto all'effetto
prolungato e contemporaneo di cortisolo e adrenalina, caratterizzato da aspetti disfunzionali
soprattutto a carico dell'emisfero destro. Tali molecole, se rilasciate all'unisono e non in modo
consequenziale inibiscono nel lungo termine la neurogenesi e la plasticità neuronale in genere. La
possibilità che si cronicizzi una disregolazione a carico del sistema nervoso autonomo,
principalmente regolato dall'emisfero destro, risulta infatti elevata negli individui che hanno
vissuto un trauma relazionale importante.
Importante anche la teoria polivagale, introdotta da Porges (1997), che ha ulteriormente
chiarito come funzionalmente si concretizzi la disregolazione psicofisiologica nell'organismo
umano e animale in genere quando viene traumatizzato. Essa mira a spiegare le reazioni dell'uomo
in situazioni di pericolo. L'attivazione immediata del sistema di difesa genera una risposta che non
è mediata dalle zone corticali, dalle funzioni superiori, ma che si sviluppa nella parte
evolutivamente più antica del cervello, il tronco encefalico.

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2.4. Empatia e mentalizzazione: dai meccanismi mirror alla sintonizzazione in psicoterapia
Il fenomeno dell’empatia può essere visto come consto da una dimensione affettiva e una
dimensione cognitiva. La dimensione puramente affettiva consiste in processi rapidissimi, e
sintetizzabili nell'affermazione lapidaria "Sento ciò che senti" (neurologicamente parlando, ci
riferiamo ai neuroni specchio). Per dimensione cognitiva dell'empatia si suole invece intendere
l'"assunzione di prospettiva", concetto sostanzialmente analogo a quello di mentalizzazione.

2.4.1. Il correlato neurale dell'empatia affettiva e della mentalizzazione 


La scoperta dei neuroni specchio è dovuta al gruppo condotto dal professor Rizzolatti
dell'Università di Parma.
Sono gruppi di neuroni che oltre ad attivarsi al momento dell'esecuzione di un’azione compiuta in
prima persona, si attivavano anche osservando la medesima azione compiuta da altri. Il cervello si
comporta come se stesse davvero compiendo l’azione che vede, ma non attiva l'apparato
muscolo-scheletrico per porla concretamente in atto.
Importante è sottolineare, da un punto di vista neurale, come non sia l'azione tout court, ma
l'obiettivo dell'azione stessa ciò che elicita l'attivazione dei neuroni mirror.
Il funzionamento mirror, oltre a essere considerato da molti autori il mediatore neurale
dell'empatia grazie alla comprensione intimamente "mimata" dell'esperienza altrui, è stato
definito il sostrato neurobiologico di molti fenomeni relazionali coinvolti direttamente e
indirettamente con il funzionamento empatico, quali il processo attraverso il quale si attua
l'imitazione neonatale del caregiver nei primi mesi di vita, la comprensione delle emozioni
dall'espressione del volto, l'apprendimento e lo sviluppo del linguaggio. Alla disfunzionalità del
mirroring sarebbero attribuibili alcuni disturbi mentali gravi come l'autismo e la schizofrenia, nei
quali un alterato funzionamento delle capacità empatiche, soprattutto affettive, costituisce una
caratteristica
centrale.
Il professor Vittorio Gallese, del gruppo di Parma, ha sviluppato riflessioni di ampio respiro sul
fenomeno mirror in chiave psicoanalitica e lo ha introdotto nel modello di una teoria interazionista
del significato. Il funzionamento mirror è da lui interpretato come una sorta di correlato neurale
della "consonanza intenzionale”, ovvero della significazione condivisa dei comportamenti
sensomotori, che prende corpo nello spazio intersoggettivo e che sarebbe la nostra prima fonte,
inconsapevole e immediata, di comprensione del comportamento altrui. In particolare, lo
scienziato ipotizza come la simulazione incarnata e la consonanza intenzionale, supportate al
fenomeno mirror, di natura inconscia, si attivino massimamente nel setting psicoanalitico,
mediando anche il meccanismo dell’identificaziome proiettiva e i processi transferali  e
controtransferali. 
Un esempio che evidenzia la connessione tra teoria psicodinamica e neuroscienze per quanto
riguarda la mentalizzazione è il caso del trauma psicologico. È noto come lo sviluppo di una
mentalizzazione efficace, abilità che si sviluppa durante il percorso evolutivo individuale, implica
un legame intrinseco con un attaccamento sicuro. Il trauma può attivare il sistema
dell'attaccamento nel suo funzionamento relativo al sistema operativo emozionale del panico, e
può inibire i comportamenti esplorativi, mediati dal sistema operativo emozionale della ricerca,
dopaminergico.
La dopamina ha una funzionalità che si esprime massimamente nelle aree anteriori del cervello, in
particolare quelle orbitofrontale, che possono divenire pertanto disfunzionali se il trauma è
avvenuto in modo cumulativo nelle prime fasi dello sviluppo, determinando così alterazioni nelle
aree deputate a mediare il processo di mentalizzazione.

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2.4.2. Empatia e psicoterapia: prove di efficacia dal punto di vista delle neuroscienze 
L'empatia si è rivelata una componente efficace tanto quanto l'interpretazione nel trattamento
psicoanalitico.
Si stanno attualmente delineando nell'ambito della ricerca in psicoterapia risultati incoraggianti,
ottenuti grazie alla rilevazione simultanea degli indici psicofisiologici del sistema nervoso
autonomo del paziente e dello psicoterapeuta in interazione.
È stata infatti evidenziata l'associazione tra empatia percepita dal paziente e sincronizzazione nei
livelli di conduttanza nella diade relazionale, introducendo un elemento chiarificatore: i terapeuti
con una formazione dinamicamente orientata hanno mostrato una sintonizzazione
psicofisiologca ed empatica maggiore rispetto agli psicologi senza percorso di formazione in
psicoterapia.
Le ricerche sulla psicoterapia e sull'empatia suggeriscono quindi che la relazione stessa tra
paziente e terapeuta abbia una sua propria biologia, quindi anche questa relazione può essere
caratterizzata da marker biologici che possono, se individuati, avere un ruolo nel processo e
nell'esito della psicoterapia. Il trattamento basato sulla mentalizzazione per i pazienti borderline è
un buon esempio di come il cambiamento possa essere descritto anche sotto forma di
modificazioni morfofunzionali cerebrali.

2.4.3. Il correlato neurale del cambiamento in psicoterapia


I primi studi volti all'indagine del correlato neurale del cambiamento in psieoterapia sono sorti
in ambito cognitivo-comportamentale.
Nello scenario psicodinamico, le acquisizioni scientifiche in questo contesto sono molto più
recenti, e quindi ancora molto esigue. Anna Buchheim dell'Università di Ulm, e collaboratori
(2013) hanno monitorato con fMRI con cadenza mensile per un anno, le modificazioni cerebrali di
una paziente con diagnosi di distimia e tratti narcisistici nel corso di un trattamento psicoanalitico.
In particolare è stato osservare un riequilibrio dell’attivazione del cingolo anteriore e della
corteccia prefrontale mediale dopo quindici mesi di psicoterapia psicodinamica. Tale cambiamento
ha rivelato una forte associazione con la progressiva remissione sintomatołogica riportata dai
pazienti. Modificazioni funzionali sono inoltre emerse a carico dell'amigdala e dell'ippocampo di
destra, in linea con l'idea dell'acquisizione di una migliore regolazione emozionale e di gestione dei
ricordi di natura emotiva (l’attivazione pretrattamento di queste strutture risultava infatti anomala
ed esagerata rispetto agli individui non clinici).
In sintesi, i dati emersi dalle poche ma estremamente incisive ricerche condotte nell'ambito delle
modificazioni dell'assetto morfologico del sistema nervoso a seguito della psicoterapia, in
particolare psicodinamicamente orientate, suggeriscono l'idea che ai cambiamenti psicologici ed
esistenziali dei pazienti trattati si associno modificazioni neurali del funzionamento di aree
cerebrali profonde e antiche filogeneticamente e ontogeneticamente, coerentemente associate
allo specifico tipo di sofferenza e di disturbo dei pazienti trattati.
Le prospettive future sono decisamente incoraggianti, e suggeriscono anche l’idea che
l'individuazione dei biomarker in psicoterapia sia possibile e potrebbe trovare un proprio spazio
all'interno di quella corrente di ricerca che lavora per individuare le tracce dei cambiamenti
cerebrali indotti dalla psicoterapia.
Siamo di fronte all'interessante possibilità che man mano che si perfezioneranno le tecniche di
imaging cerebrale, queste tecniche saranno utili per monitorare il progresso della psicoterapia.

55
La valutazione psicodinamica del paziente (capitolo 5 – Colli)
 
Dal punto di vista psicodinamco i clinici intendono la valutazione psicodiagnostica come qualcosa
che va oltre l’identificazione della patologia adottata dalla valutazione biomedica, dal momento
che non fornisce indicazioni ai clinici rispetto alla comprensione dei meccanismi alla base della
psicopatologia del paziente e quindi ai fini del trattamento.
Se invece con diagnosi si intende in un'accezione assai più estesa un processo d'interpretazione
dei dati raccolti, e di organizzazione delle inferenze sui meccanismi di funzionamento mentale,
essa può avere un ruolo rilevante all'interno di un approccio psicodinamico .
Un altro punto sollevato dai detrattori della diagnosi in ambito psicodinamico riguarda la sua
"staticità", in antitesi al fatto che i pazienti nel corso del trattamento si "trasformano", mostrando
aspetti diversi della propria personalità.
È esperienza clinica comune che durante i primi colloqui i clinici si possano fare un'idea del
paziente, provvedere a un inquadramento generale, per poi scoprire nel corso del trattamento che
ciò che era stato interpretato in un modo appare in realtà diversamente. La diagnosi non si
esaurisce nei primi colloqui, poiché proprio grazie all'interazione con il paziente nel corso
del trattamento che possono emergere delle modalità di funzionamento che inizialmente erano
solo ipotizzabili o non riconoscibili.
Questa problematica ci conduce direttamente a un altro concetto, ossia a quello di diagnosi
attraverso il processo, che rappresenta uno dei contributi  più rilevanti che le teorie
psicodinamiche hanno fornito alla diagnosi. Diversi autori hanno infatti posto l'accento sulla
possibilità di diagnosticare la struttura di un paziente e/o il suo livello di funzionamento  mentale
anche attraverso l'analisi delle caratteristiche del processo terapeutico attivato dal paziente.
Un'ultima questione rispetto al difficile rapporto tra diagnosi e psicoterapia che non ha favorito un
processo di sistematizzazione della nosografia.
Diverse concezioni e interpretazioni del funzionamento mentale portano inevitabilmente a porre
maggiore attenzione a fenomeni diversi durante la fase di assessment, ma soprattutto  a formulare
le problematiche del paziente in modo diverso: per esempio, un clinico che utilizzi come
riferimento la teoria freudiana, maggiormente interessata a problematiche relative a conflitti
edipici irrisolti, tenderà a porre attenzione ad alcuni aspetti del comportamento del paziente
(conflitti edipici e di natura sessuale) diversi rispetto a un clinico che utilizzi come lente
interpretativa la teoria delle relazioni oggettuali, maggiormente interessata a conflitti preedipici e
a conflitti inerenti la relazione di dipendenza con le figure genitoriali.

1. Idoneità al trattamento e tailoring dell’intervento 


Nel corso dei colloqui di valutazione il clinico deve indagare almeno tre questioni principali:
l’idoneità del paziente a un trattamento di tipo psicodinamico; la modalità di funzionamento del
paziente e la possibilità di ritagliare su misura il trattamento rispetto al funzionamento del
paziente; la propria disponibilità come terapeuta a cimentarsi con le problematiche portate dal
paziente. Il clinico in particolare deve riflettere su due quesiti principali.
1. È probabile che i sintomi del paziente rispondano a una terapia psicodinamica a lungo termine?
2. Il paziente presenta le caratteristiche psicologiche che lo rendono adatto a un approccio
psicodinamico (per esempio, curiosità per il mondo interiore, mentalità psicologica ecc.)?

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Non sembra del tutto semplice rispondere a queste domande, considerando i risultati della ricerca
empirica. Sebbene sia aumentato il numero di ricerche volte a esplorare questa prospettiva, le
indicazioni per una psicoterapia psicodinamica a lungo termine non sono rigorosamente definite.
In generale possiamo affermare che c'è un ampio consenso sul fatto che psicoanalisi o psicoterapia
psicodinamica a lungo termine possono avere effetti positivi su pazienti con un'organizzazione
nevrotica del carattere e disturbi di personalità del cluster C (ossessivo-compulsivo, evitante,
dipendente).
Costituiscono inoltre indicazioni per l'impiego di una psicoterapia psicodinamica a lungo termine
tre disturbi di personalità del cluster B: narcisistico, borderline e istrionico, che raramente
rispondono a terapie brevi. La psicoterapia dinamica trova infine sua applicazione anche nel
trattamento dei disturbi depressivi.
È possibile infatti adattare il proprio approccio al paziente lungo un continuum  che va da un polo
esplorativo/espressivo (in cui lo scopo degli interventi è quello di permettere il raggiungimento di
un maggiore insight nel paziente) a un polo più supportivo (in cui lo scopo degli interventi e di
rafforzare le difese del paziente. Secondo Gabbard vi sono delle caratteristiche del paziente che
dovrebbero orientare verso un trattamento più espressivo o supportivo.
La psicoterapia dinamica esplorativa è adatta per i pazienti che presentano un’organizzazione
nevrotica di personalità, una forte motivazione alla comprensione di sé, un significativo grado di
sofferenza, una buona tolleranza alla frustrazione, la mentalità psicologica (insight) e la capacità di
pensare in termini di analogie e metafore.
Mentre, invece, la psicoterapia dinamica supportiva è adatta per i pazienti che presentano
un’organizzazione borderline di personalità, una grave crisi esistenziale, difficoltà a instaurare una
relazione di fiducia con il terapeuta, una scarsa tolleranza alla frustrazione e all’ansia, una ridotta
capacità di auto-osservazione e un basso livello intellettivo ed eccessiva concretezza.
È importante osservare che non tutti però concordano con queste indicazioni, in particolare
quando ci riferiamo a pazienti dello spettro borderline.
Criteri in parte similari a quelli proposti da Gabbard possono essere applicati al fine di valutare la
possibilità di utilizzare una psicoterapia dinamica breve oppure a lungo termine. Una psicoterapia
dinamica a lungo termine va preferita rispetto a una a breve termine, in particolare nei casi in cui
il paziente presenti un livello di sviluppo oggettuale basso, problematiche non circoscritte, in cui
siano presenti problematiche subcliniche e cliniche rilevanti tali da rendere difficoltosa la
formazione di una alleanza terapeutica stabile con il terapeuta. Essa si focalizza su una graduale
formazione dell’alleanza, sulla presenza di diverse problematiche, sulla moderata attività del
terapeuta, su relazioni oggettuali da insufficienti ad adeguate, sui disturbi più gravi e sul rapporto
tra presente e passato.
Mentre, invece, la psicoterapia psicodinamica a breve termine si focalizza sulla rapida formazione
dell’alleanza, su un problema circoscritto, sulla maggiore attività del terapeuta, su relazioni
oggettuali adeguate, su disturbi meno gravi e sul qui e ora.
Un'altra dimensione da considerare, al fine di orientare il trattamento rispetto alla modalità di
funzionamento del paziente, è rappresentata dalla valutazione della personalità secondo la
classificazione di Blatt in personalità anaclitica, nella quale si evidenzia uno sbilanciamento nei
confronti della “relazionalità”, e in personalità introiettiva, dove si osserva uno sbilanciamento
verso la "definizione di sé”.
L’importanza dei criteri proposti da Blatt risiede nel fatto che il tailoring del trattamento viene
svincolato dalla gravità/livello di funzionamento della personalità, come per esempio propone
Gabbard, e rivolto invece alla tipologia di funzionamento del paziente.
Horwitz e colleghi (1996) hanno individuato tre fattori principali da tenere in considerazione al fine
di un lavoro espressivo: i fattori dello sviluppo, dell'Io e della relazione.
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Tra i fattori dello sviluppo costituiscono importanti controindicazioni:
- la presenza di traumi infantili caratterizzati soprattutto da separazioni ripetitive e massicce nella
fase di separazione-individuazione;
- la presenza nella storia dell’individuo di abuso, soprattutto di tipo incestuale;
- problematiche neurologiche presenti nello sviluppo.
Tra i fattori dell'Io ritroviamo invece:
- la motivazione al cambiamento;
- la capacità di lavorare nello spazio analitico. Per lavorare analiticamente è necessaria la capacità
di creare e mantenere uno spazio analitico in cui si manifesti in modo continuo una dialettica tra
fantasia e realtà. Quando i pazienti si fissano troppo sulla realtà della propria esperienza, lo spazio
analitico si contrae o sparisce e l'esplorazione del mondo interno del paziente diviene limitata;
- il controllo degli impulsi e degli affetti: i pazienti che hanno difficoltà nel controllo degli impulsi e
che facilmente passano all'azione superando la componente riflessiva difficilmente risultano
idonei a un trattamento di tipo espresssivo;
- la propensione all'esteriorizzazione: i pazienti più inclini a proiettare o a esteriorizzare la fonte
dell'angoscia e dei conflitti sono meno inclini a esplorare il proprio mondo interiore. In particolare,
diversi autori hanno messo in luce le difficoltà derivanti dall’utilizzare tecniche interpretative con
pazienti caratterizzati da meccanismi di difesa paranoidi e proiettivi, sollecitando la necessità di un
approccio più lento e inizialmente meno confrontativo;
- la mentalità psicologica: con questa variabile si fa riferimento alla capacità dei pazienti di
alternare l'esperire i sentimenti e il riflettere su di essi. Tale dimensione può essere considerata
una conseguenza di altre variabili, quali un basso livello di vulnerabilità narcisistica, un buon
controllo degli impulsi e la tendenza a interiorizzare anziché esteriorizzare.
Tra i fattori della relazione abbiamo:
-vulnerabilità narcisistica: quasi tutti gli autori mettono in luce l’importanza della vulnerabilità
narcisistica nella modifica o nella limitazione del lavoro espressivo. Gli interventi altamente
espressivi possono avere un effetto iatrogeno nel qui e ora della relazione, poiché vengono vissuti
più come delle critiche e disconferme che come dei tentativi del clinico di aiutare il paziente;
- transfert speculare o idealizzante: la caratterizzazione da parte di Kohut di transfert narcisistici
necessita di un lavoro lento e meno intensivo;
- controdipendenza: pazienti con una marcata tendenza a meccanismi fobici e controdipendenti
possono mal tollerare un accento altamente espressivo degli interventi;
- bisogni di attaccamento simbiotici: anche se i pazienti più bisognosi di un attaccamento di tipo
simbiotico possono essere più capaci di comunicare in modo aperto il bisogno di relazione, non
necessariamente rispondono in maniera apprezzabile agli sforzi interpretativi;
- transfert sadico o erotizzato: sebbene diversi autori consiglino un atteggiamento lento con i
pazienti borderline e che sia rischioso un elevato tasso di espressività nelle fasi iniziali o almeno
fino a che non si sia stabilita un'alleanza terapeutica, essi suggeriscono invece di intervenire
precocemente nel caso di transfert erotizzati o sadici, al fine di contenere la distruttività del
paziente.
I criteri sopra elencati non costituiscono una rigida indicazione rispetto all'intero trattamento,
bensì delle controindicazioni in relazione a un utilizzo di tecniche maggiormente
espressive/esplorative in fasi del trattamento in cui la fiducia e l'alleanza terapeutica non
costituiscono una solida base tra paziente e terapeuta. È importante pensare che l'alleanza e la
collaborazione possono fluttuare nel corso del trattamento cosi come all'interno delle stesse
sedute, e quindi l'utilizzo di interventi maggiormente espressivi non appare del tutto "precluso",
ma attuabile in fasi del trattamento o momenti delle sedute in cui il funzionamento del paziente

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nelle sue componenti di regolazione emotiva, capacità di riflessione e mentalizzazione e di fiducia
nella relazione risultano più elevati.

2. I colloqui di valutazione psicodinamica 


I primi colloqui hanno l'obiettivo di valutare l'idoneità del paziente al trattamento, di giungere a
una formulazione del caso e di stabilire accordi rispetto a regole del setting e della terapia. 
La tecnica del colloquio è specifica e peculiare, differente dalle sedute di psicoterapia per un
maggiore utilizzo di incoraggiamenti a  elaborare e cenni di ascolto al paziente. L’utilizzo
dell’interpretazione non è generalmente tipico nella fase di colloquio, bensì del processo
terapeutico vero e proprio che avrà luogo in seguito.
Secondo alcuni autori è invece possibile far uso anche di elementi interpretativi nelle fasi iniziali al
fine di: a) oltrepassare momenti di resistenza nel colloquio e permettere che il paziente continui la
sua comunicazione; b) porre in evidenza, attraverso interpretazioni anticipatorie,
problematiche emergenti dalle narrative del paziente, che potrebbero minacciare il
futuro svolgimento del trattamento, quali la tendenza del paziente a fuggire dalle relazioni in
momenti di disaccordo o viceversa di grande intimità; c) testare la capacità di insight del paziente
e la sua modalità di risposta a interventi più espressivi.
I colloqui di valutazione possono essere definiti prendendo in considerazione tre polarità in parte
interrelate.
- Strutturazione/non associativo vs non strutturazione/associativo. All'estremo della
strutturazione vi è l'utilizzo da parte del clinico di interviste semistrutturate, quale l'intervista
clinico-diagnostica, o di colloqui in cui il clinico cerca di seguire una traccia al fine di raccogliere
informazioni amnestiche in maniera sistematica. Nel caso di colloqui non strutturati, il clinico si
limita ad aprire il dialogo e lasciare l'organizzazione del colloquio al paziente. 
Il vantaggio di una maggiore strutturazione del colloquio è quello di favorire un’indagine
sistematica di diverse aree del funzionamento del paziente e della sua storia. Al contrario, il
vantaggio di una ridotta strutturazione risiede nella possibilità di vedere come le dinamiche
caratterizzanti del paziente tendono ad attivarsi di fronte a una situazione che può generare ansia
(come quella di un colloquio) e di avere accesso a dei processi inconsci del paziente che
potrebbero emergere con maggiore difficoltà attraverso un'intervista più strutturata e meno
associativa.
- Profondità dell'esplorazione vs superficialità. Alcuni clinici sembrano prediligere fin dai primi
colloqui un'elevata profondità dell'esplorazione, mentre altri, al contrario, sembrano più a favore
di una bassa esplorazione. Dal punto di vista clinico, la possibilità di esplorare alcune tematiche in
profondità, ammessa la disponibilità del paziente, contribuisce alla costruzione della formulazione
del caso, ma al tempo stesso espone il paziente a un’eccessiva stimolazione. In questo caso, il
terapeuta potrebbe correre il rischio di ritrovarsi a dover fronteggiare fin da subito un livello di
attivazione emotiva notevole con il paziente, senza però conoscerlo veramente, e quindi avere
meno per poterlo aiutare. È importante osservare come la letteratura sia concorde nel suggerire
una strategia di cautela da parte del clinico, per valutare quanto andare a fondo con il paziente nei
primi colloqui attraverso interventi più interpretativi. Va segnalato, però, che una componente
interpretativa potrebbe avere la funzione di "prova", la cosiddetta interpretazione di prova che
permette al clinico di vedere dal vivo la reale capacità del paziente di utilizzare gli interventi del
terapeuta e quindi fornire importanti indicazioni al clinico in modo da sintonizzarsi sulle capacità
attuali del paziente.

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- Esperienza vs spiegazione. Un problema comune a tutti i terapeuti psicodinamici è spiegare al
paziente in che cosa consiste la terapia dinamica. Secondo una modalità classica, i colloqui
psicodinamici tendono a essere caratterizzati anche da una componente esplicativa: il clinico, per
esempio, spiega al paziente che cosa sono le libere associazioni, come funziona il trattamento ecc.
Secondo altri invece, fin dai primi colloqui, si può coinvolgere il paziente nell'esperienza di cosa
sia fare una psicoterapia dinamica. Questo non va inteso necessariamente come uno
sbilanciamento da parte del clinico su una componente interpretativa, ma come il tentativo del
clinico di segnalare al paziente il proprio interesse verso alcuni fenomeni che potrebbero essere
intesi come segnali di movimenti inconsci del paziente (per esempio, lapsus, atti mancati,
comportamento non verbale, qui e ora dell'incontro).
Altri autori si sono concentrati sull'individuazione, dal punto di vista empirico, delle modalità di
conduzione dei primi colloqui, che possono favorire lo stabilirsi di una buona alleanza terapeutica
ed essere predittivi di un buon esito dei trattamenti.
Queste ricerche, che suggeriscono l'importanza di esplorare insieme al paziente le sue aspettative
rispetto al trattamento, soprattutto quelle negative che incidono maggiormente rispetto alla
possibilità dei pazienti di ritornare dopo il primo colloquio. 
Un'altra caratteristica dei primi colloqui, associata a un miglior esito dei trattamenti, è
rappresentata dalla preparazione del paziente al suo ruolo che produce migliori risultati rispetto
all'assenza di una formazione adeguata.
Altro punto centrale, confermato dalle ricerche empiriche, è costituito dalla negoziazione e dal
consenso tra paziente e terapeuta rispetto agli obiettivi del trattamento. Inoltre, la capacità del
terapeuta di identificare obiettivi chiari e di concordarli con il paziente favorisce l'inizio del
trattamento e il ritorno del paziente alla seduta successiva. Questo appare ancor più evidente se si
pensa che la maggior parte dei pazienti interrompe il trattamento dopo la prima seduta.

3. La valutazione della personalità: presente, sviluppo, qui e ora 


Un punto cardine di qualsiasi valutazione psicodinamica risiede nella comprensione e descrizione
della struttura di personalità del paziente. Tale rilevanza è una diretta conseguenza di un assunto
centrale della teoria della psicopatologia dinamica che riguarda la centralità della soggettività del
paziente rispetto alla sofferenza psichica e in particolare alla comprensione della sintomatologia
come un prodotto emergente della personalità.
Una moderna concezione della personalità deve includere cinque elementi fondamentali, che
devono essere presi in considerazione nella valutazione: 1. temperamento: inteso come insieme
delle componenti biologiche alla base della personalità; 2. rappresentazioni Sé-altro e stati affettivi
collegati; 3. stile difensivo; 4. coesione dell'identità; 5. stile cognitivo.
All'interno di una completa valutazione psicodinamica non può mancare  l'esplorazione legata a
tematiche di sviluppo e strutturazione delle problematiche presentate dal paziente. Da questo
punto di vista, il clinico valuterà come la persona ha affrontato le principali tappe di sviluppo, dalla
prima infanzia all'adolescenza, con particolare attenzione alle prime separazioni dalle figure
genitoriali e in generale alle modalità di costruzione e rottura dei legami affettivi. Altre
dimensioni rilevanti riguardano la sintomatologia e in particolare la sua strutturazione (quando è
comparsa, da quanto tempo dura, in relazione a cosa), e infine le modalità d'invio (È stato inviato
da un collega? Da un parente? Da un ex paziente?).
Speciale considerazione deve essere rivolta all' indagine di eventuali trattamenti precedenti, e in
particolare all'esplorazione, insieme al paziente, del clima interpersonale che si era creato con il
terapeuta precedente e le eventuali motivazioni che hanno portato al dropout. Tale esplorazione
permetterà molto probabilmente di far emergere o comunque rendere manifesti più
precocemente dei pattern relazionali maladattivi, ma anche trasmettere l'idea al paziente che le
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problematiche relazionali che possono presentarsi nel trattamento non vanno intese tout court
come un indice di fallimento, bensì come una tematica centrale sulla quale lavorare al fine del
cambiamento terapeutico.
Poiché l'assessment si svolge all'interno di un contesto interpersonale e la personalità si manifesta
nelle situazioni interpersonali, l'incontro clinico di valutazione rappresenta una delle fonti
informative principali delle modalità relazionali del paziente. Sicuramente le dinamiche relazionali,
circoscrivibili euristicamente all'interno di concetti quali transfert, controtransfert, alleanza
terapeutica svolgono un ruolo fondamentale non solo nel corso della terapia, ma anche nelle fasi
iniziali di assessment. Comprendere la dimensione relazionale del paziente, inclusa quella attiva
nella relazione con il terapeuta, significa costruire delle ipotesi su come il paziente sperimenta e
gestisce le sue relazioni, ossia descrivere i suoi modelli relazionali prevalenti. La comprensione di
tali modelli permette di: a valutare il cambiamento del paziente dal punto di vista relazionale, e
non solo intrapsichico; b) prevedere situazioni d'impasse o di rottura dell'alleanza terapeutica; c)
orientare il clinico nella scelta del tipo di relazione indicata a seconda del tipo di paziente.
Uno degli aspetti più trascurati del processo diagnostico è proprio l'esperienza soggettiva che il
clinico fa della relazione con il paziente.
Concetti come controtransfert concordante e complementare (Racker, 1957), controtransfert
oggettivo (Winnicott, 1949), identificazione proiettiva (Ogden, 1979) e responsività di ruolo
(Sandler, 1976) suggeriscono la possibilità che i sentimenti sperimentati dal terapeuta durante i
colloqui siano uno strumento di comprensione utile e particolarmente sensibile delle dinamiche
interne del paziente.
Nel Manuale diagnostico psicodinamico, l'Asse P prevede una descrizione orientativa dei possibili
sentimenti controtransterali, che emergono con pazienti con specifici stili/disturbi di personalità.
In fase di assessment e di formulazione del caso, una sistematica analisi dell’esperienza soggettiva
del terapeuta permetterà infatti:
a) una più fine comprensione delle dinamiche interne del paziente;
b) una maggiore comprensione delle proprie risposte interne "acute”, altrimenti difficilmente
spiegabili e comprensibili, che potrebbero risultare di ostacolo e trasformarsi in esperienze
"croniche" nel futuro della relazione;
c) una più motivata comprensione delle risposte e dei comportamenti degli altri significativi del
paziente, poiché le emozioni sperimentate dal terapeuta spesso sono generalizzabili ad altre
persone nella vita del paziente.

4. Livello di organizzazione della personalità 


Uno dei compiti che il clinico deve assolvere durante i colloqui di valutazione, al fine di orientare
l'intervento terapeutico, è quello di stabilire il livello di organizzazione della personalità del
paziente. Gli approcci diagnostici psicodinamici, infatti, si pongono come obiettivo non solo di
distinguere e descrivere le diverse tipologie di disturbi di personalità (evitante, narcsistico ecc.),
ponendo enfasi sulle caratteristiche specifiche distintive di ogni   tipologia di personalità, ma anche
di valutare a quale livello di organizzazione della personalità, nevrotica, borderline o psicotica si
colloca il paziente. Uno dei modelli di diagnosi strutturale più conosciuti e anche più facilmente
applicabili è quello proposto da Kernberg. Tale modello è stato poi integrato e modificato da
autori successivi, come la McWilliams. La diagnosi strutturale permette l'elaborazione di un profilo
delle diverse organizzazioni di personalità, che facilita la diagnosi differenziale e l'elaborazione di
indicazioni prognostiche e terapeutiche affidabili. Le organizzazioni di personalità ipotizzate da
Kernberg sono tre: psicotica, borderline e nevrotica.
Tre sono gli assi organizzatori che devono essere presi in considerazione al  fine di valutare il livello
di organizzazione della personalità: 1. diffusione vs  integrazione dell’identità; 2. meccanismi di
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difesa primitivi vs meccanismi di  difesa maturi; 3. esame di realtà . Kernberg ha individuato tre
criteri aggiuntivi utili per l'identificazione delle strutture borderline: livello d'integrazione del
Super-lo, presenza di manifestazioni di aggressività primitiva e presenza di manifestazioni
aspecifiche di forza vs debolezza dell'lo (tolleranza dell'angoscia, controllo degli impulsi e capacità
di sublimazione). A questi sono stati aggiunti altri criteri, elaborati da diversi autori: tra essi
ricordiamo in particolare la capacità di autoosservazione, la natura dei conflitti primari centrali, le
tipologie di transfert e controtransfert, la capacità di mentalizzazione che tendono a instaurarsi
durante il trattamento. Il livello di organizzazione della personalità è ritenuto un importante
indicatore rispetto alla prognosi e la risposta al trattamento, molto più che il tipo  di personalità.
Un'altra importante caratteristica di  un approccio diagnostico di questo tipo,  è rappresentato dalla
completa indipendenza tra il livello di organizzazione di personalità e la tipologia di personalità.
Sebbene nel modello originario di Kernberg questo non sia vero poiché alcuni specifici tipi di
personalità erano associati a determinati livelli di funzionamento della personalità, diversi autori
psicodinamici attuali sono oggi propensi a ritenere l'indipendenza tra la tipologia di personalità e il
livello di funzionamento.

4.1 il manuale diagnostico psicodinamico (PDM-2)


IL Manuale diagnostico psicodinamico riflette lo sforzo di articolare una diagnosi psicodinamica
capace di colmare il divario tra la complessità clinica e la necessità di una validità empirica e
metodologica. 
Il PDM si propone di integrare la conoscenza nomotetica e la comprensione  idiografica in vista di
una formulazione clinica del caso e della pianificazione  di un trattamento davvero basato sulle
caratteristiche del paziente. 
Il manuale si descrive come una "tassonomia di-individui" piuttosto che come una “tassonomia di
malattie” e si propone di descrivere «che cosa una persona è non cosa una persona ha.

5. Strumenti di valutazione psicodinamica


Un punto centrale all'interno della valutazione psicodinamica è rappresentato dai test e dagli
strumenti di valutazione impiegati come ausilio ai fini valutativi. 
Con l'accezione "psicodinamico ci si riferisce agli strumenti di  valutazione che permettono di
valutare quelle dimensioni psicopatologiche e/o di personalità ritenute fondamentali  ai fini di una
comprensione psicodinamica del paziente.
La scelta degli strumenti per un assessment di tipo psicodinamico ha importanti riflessi anche
rispetto alle valutazioni dell'esito, non solo ai fini clinici ma anche di ricerca. La valutazione
dell'esito, infatti, richiede l'utilizzo di strumenti che siano sensibili ai cambiamenti che un
determinato tipo di psicoterapia può produrre. La maggior parte degli strumenti creati in
ambito psicometrico ha posto grande enfasi sulla valutazione della sintomatologia.
inoltre, altre dimensioni, quali il funzionamento difensivo, la mentalizzazione, lo stile di
attaccamento, le relazioni oggettuali, sembrano altresì importanti rispetto a un approccio
psicodinamico che possa fornire poi indicazioni utili rispetto al funzionamento del paziente,
restituendo quindi al clinico una diagnosi funzionale più che descrittiva.
Un valido esempio a questo proposito è la Shedler Westen Assessment Procedture-200.
Un'altra dimensione peculiare della valutazione psicodinamica è rappresentata dal funzionamento
difensivo del paziente. Tra i vari strumenti in questo ambito la Defense Mechanisms Rating Scale.
Per la valutazione dei modelli operativi interni e lo stato della mente rispetto all'attaccamento,
sicuramente l'Adult Attachment Interview rappresenta lo strumento elettivo. Tale strumento è
un'intervista semistrutturata sulla storia d'attaccamento del paziente, la cui codifica permette per
l'appunto la valutazione dello stato della mente relativo all'attaccamento nell'adulto.

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Una valutazione della capacità riflessiva può essere ottenuta utilizzando la Reflective Functioning
Scale.
Infine la Psychodynamic Functioning Scales fornisce una misura del funzionamento globale
dell'individuo. 

Il transfert (Cap 6 – Colli)

1. La teoria freudiana 
All'interno della relazione terapeutica questo fenomeno si traduce nel trasferimento da parte del
paziente, sulla figura del medico di impulsi, vissuti e sentimenti che appartengono a relazioni
significative del passato. Nella teoria freudiana questi vissuti appaiono irreali rispetto alla
situazione attuale, si caratterizzano cioè per una distorsione della percezione della reale relazione
con il terapeuta. Tali sentimenti sono derivati dall'attività dell'inconscio e si prestano alle
distorsioni e trasformazioni di tale sistema.
L'origine delle dinamiche transferali andrebbe ricercata in modelli e cliché  che sono la risultante di
due componenti: la disposizione innata e le esperienze dei primi anni di vita
Freud scoprì prima con il caso di Anna O. e poi con il caso di Dora che durante il trattamento
analitico i pazienti rivivono una serie di esperienze come se fossero derivate dalla relazione attuale
con l'analista e non dalle esperienze passate del paziente. Secondo lui il transfert è una ristampa di
relazioni del passato e che è ubiquitario rispetto alle relazioni e non compare durante il
trattamento analitico in modo più intenso che fuori di esso.  Freud sembra così suggerire l'idea che
l'analisi sia un elemento che favorisce l'attivazione nel paziente di qualche cosa che c'è già,  il
transfert per l'appunto, ma che non sia in alcun modo responsabile della  sua creazione, né della
forma che assumerà nel corso del trattamento.
Un altro punto centrale nella teorizzazione freudiana del transfert è rappresentato dallo stretto
rapporto tra quest'ultimo e la resistenza. Viene posto quindi un collegamento tra un processo
intrapsichico, la rimozione, e un processo relazionale, il transfert: quanto più il lavoro associativo e
interpretativo favorisce l'emergere di materiale inconscio e conflittuale, tanto più il paziente
attraverso la rimozione cercherà di evitare tale materiale operando un transfert sul terapeuta.
Ne consegue che i momenti di maggiore attivazione transferale non sono solo i momenti di
maggior resistenza, ma rappresentano anche possibilità di comprensione delle dinamiche nucleari
del paziente. Perciò possiamo dire che il transfert rappresenta un ostacolo ma anche il miglior
alleato per la psicoanalisi.
Freud teorizza l'esistenza di due forme di transfert, il transfert positivo e quello negativo,
suddividendo ulteriormente il primo in transfert sublimato/irreprensibile ed erotico. Il transfert
negativo e quello erotico agiscono al servizio della resistenza, mentre il transfert sublimato o
irreprensibile rappresenta un potente alleato rispetto al trattamento analitico, poiché si configura
come un'area dell'Io del paziente libera da conflitti e capace quindi di allearsi al terapeuta ai fini
del cambiamento. Il concetto di transfert positivo irreprensibile costituirà in seguito il punto di
partenza per diverse teorizzazioni sul costrutto di alleanza terapeutica. 
Un altro punto cardine della teorizzazione freudiana è rappresentato dal concetto di “ nevrosi di
traslazione”. Secondo Freud, infatti, il paziente è indotto a ripetere il contenuto rimosso nella
forma di un'esperienza attuale anziché a ricordarlo come parte del proprio passato. Queste
riproduzioni hanno luogo nella sfera della traslazione, vale a dire del rapporto con il medico. Se il

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trattamento ha raggiunto questo stadio la <<vecchia nevrosi viene sostituita da una nevrosi di
traslazione>> (Freud)
L'autore suggerisce dunque che le particolari caratteristiche del transfert di un paziente derivano
dagli aspetti specifici della sua nevrosi e che durante il trattamento è necessario che la normale
nevrosi sia sostituita da una "nevrosi di traslazione" dalla quale il paziente può essere guarito
mediante il lavoro terapeutico. 

2. Sviluppi successivi e controversie 


Nel corso degli anni il transfert ha assunto una centralità sempre maggiore  rispetto al processo di
cura. Tale passaggio è dovuto in parte all'importanza attribuita da Strachey (1934) al cambiamento
terapeutico ottenuto tramite le interpretazioni di transfert, in parte alle formulazioni della scuola
kleiniana, che hanno posto l'accento sul ruolo delle esperienze infantili più precoci e sulla
centralità della madre come oggetto di proiezioni da parte del bambino e ridefinito il costrutto in
termini di situazione totale.
La crescente centralità del transfert si è accompagnata a un ampliamento della sua stessa
definizione, pur rimanendo ben radicata l'idea di transfert come ripetizione del passato e
percezione distorta. Il transfert non rappresenta quindi unicamente la riproposizione di sentimenti
e pensieri del passato, ma anche di forme di difesa, di pensiero e atteggiamenti, derivati non solo
dal rapporto con la figura materna, ma anche con altre figure significative nello sviluppo
dell’individuo. 
L'ampliamento maggiore del concetto di transfert viene dagli autori post-kleiniani i quali hanno
posto maggiore enfasi sulle dinamiche attive nel qui e ora della seduta.  
Si fa l’idea che tutto ciò che avviene nell'analisi è transfert, ed è il prodotto dell'esternalizzazione,
tramite il meccanismo dell'identificazione proiettiva, delle relazioni oggettuali del paziente
all'interno della relazione terapeutica.
Questo approccio porta con sé due conseguenze: a) una maggiore attenzione all'esperienza
controtransferale del terapeuta; b: una maggiore enfasi sull’hic et nunc dell'interazione.
L'accento viene posto sulla capacità dell'analista di metabolizzare e restituire in maniera "pensata"
attraverso l'analisi dei propri vissuti controtransferali, gli elementi scissi proiettati dal paziente. 
Nel corso degli ultimi vent'anni diversi autori hanno  sottolineato come il transfert e le sue forme
siano anche il prodotto della relazione attuale con l'analista e con il suo modo di intervenire, e non
solo lo spostamento da parte del paziente di sentimenti del passato sulla persona del terapeuta.
Questo cambiamento di prospettiva è dovuto al riconoscimento che l’analista non è uno
spettatore passivo all’interno della situazione analitica e che la percezione che il paziente ha del
terapeuta non può essere relegata unicamente al campo della distorsione ma che invece
rappresenta uno dei possibili punti di vista sulla relazione stessa.
Quindi, si riconosce il principio che il terapeuta influenza il transfert.
Questi cambiamenti teorici fanno riferimento a una rilettura della relazione terapeutica come un
campo bipersonale.
Un'ulteriore chiave di lettura rispetto alla dimensione transferale viene  fornita dalla teoria
dell'attaccamento. Secondo questo modello teorico, il transfert rappresenterebbe il derivato
dell'attivazione di modelli operativi interni (MOI) del paziente nella relazione con il terapeuta, che
rappresenterà dunque una nuova figura di attaccamento. La relazione
terapeutica, caratterizzandosi per un'asimmetria tra paziente e terapeuta rispetto alla dimensione
della dipendenza, è una relazione in cui il sistema di attaccamento  è particolarmente sollecitato. La

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sollecitazione del sistema d'attaccamento favorirà l'emergere dei MOI del paziente, che a loro
volta organizzeranno i vissuti nella relazione con il terapeuta e regoleranno le aspettative riguardo
a essa. Le particolari caratteristiche del transfert del paziente saranno quindi determinate dai
modelli operativi interni e dai pattern di attaccamento del paziente. 
Un'importante conseguenza rispetto all'interpretazione dei fenomeni transferali, alla luce della
teoria dell'attaccamento, risiede nel fatto che, come suggerito da Bowlby, i sentimenti provati dal
paziente nei confronti del terapeuta non rappresentano la ripetizione di qualche cosa che ha
caratterizzato lo sviluppo infantile, bensì la richiesta del paziente di fare esperienza di qualche cosa
che è mancato nella relazione d'attaccamento.
Riassumendo sinteticamente gli sviluppi nella concettualizzazione del transfert possiamo
suddividere le teorie del transfert in due macrocorrenti: una storica, in cui prevale la concezione
del transfert come riedizione del passato, e una modernista, in cui il transfert viene interpretato
anche in virtù delle caratteristiche reali della relazione con il terapeuta.

3. Forme del transfert


Nella pratica clinica è possibile rintracciare diverse forme di transfert.
3.1. Amore e odio nel transfert
Già nel 1914, Freud aveva descritto l'attivazione nelle sue pazienti di una forma di amore di
transfert, attraverso il quale la paziente che si sottoponeva al trattamento si dichiarava innamorata
del suo analista. 
Nel corso degli anni, tuttavia, diversi autori hanno messo in luce l'esistenza di almeno due forme
particolari di transfert riconducibile a sentimenti di tipo erotico/amoroso: a) un transfert
propriamente detto erotico, del tutto somigliante all'amore di transfert descritto da Freud, di
minore intensità, che tende a favorire il processo terapeutico e che può essere riconosciuto
dal paziente nel suo carattere di irrealizzabilità; b)  un transfert erotizzato, che si caratterizza per
un’elevata intensità, uno sviluppo tendenzialmente precoce e  repentino, e per la difficoltà da
parte del paziente ad accettare l'impossibilità di una sua realizzazione.
Questi pazienti insistono inequivocabilmente nel volere che l'analista si comporti nei loro confronti
come un genitore. Un'altra caratteristica che differenzia queste due forme  di transfert riguarda la
vergogna: nel transfert amoroso/erotico te fantasie  sessuali sono generalmente tenute segrete e,
quando esplicitate, il tutto avviene attraverso un graduale processo di svelamento, mascherato da
imbarazzo.
Nel transfert erotizzato, invece, il paziente «grida che vuole che la sua fantasia diventi realtà.  
Nel transfert erotizzato i sentimenti tendono a essere assolutamente egosintonici e la pervasività
dell’investimento erotico è tale che il fluire delle fantasie erotiche può continuare durante tutta la
giornata o venire spostato su situazioni al di fuori dell'analisi; inoltre, attraverso la proiezione e il
diniego i pazienti possono ipotizzare che l'analista in verità li ami.
Queste due tipologie di transfert sembrano essere sostenute da una diversa
conflittualità nucleare. Nel caso del transfert erotico, l'origine dello stesso è  riconducibile a
dinamiche di tipo edipico, alla riedizione di sentimenti sperimentati nell'infanzia rispetto calla
figura genitoriale del sesso opposto. Nel  caso del transfert erotizzato, invece, la conflittualità è
riconducibile a un periodo evolutivo precedente, di carattere preedipico, caratterizzato da vissuti
di una fase in cui lo sviluppo del soggetto è ancora ampiamente influenzato da  dinamiche di tipo
binario, la relazione madre-bambino per esempio. A conferma, non di rado al di sotto di questo
tipo di esperienza transferale si può rintracciare il desiderio di essere vissuto come speciale e unico
da parte del proprio genitore/analista.
All'origine di questi due tipi di transfert è possibile anche rintracciare il diverso ruolo svolto da
esperienze di tipo traumatico. Blum (1973) evidenzia infatti il ruolo patogenetico della seduzione e
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del trauma nel transfert erotizzato. Questa manifestazione transferale, oltre a essere presente in
pazienti abusati sessualmente, compare anche in pazienti nella cui storia è possibile rintracciare
una dimensione familiare sessualizzata e incestuale.
Bolognini (1994) tratta, oltre al transfert erotico ed erotizzato, due importanti manifestazioni
transferali: il transfert amoroso e il transfert amorevole.
Il transfert amoroso rappresenta quella forma di transfert altamente conflittuale in cui i
sentimenti e le fantasie amorose del paziente si  scontrano con una serie di sentimenti di pericolo e
fantasie distruttive complementari, che si oppongono alla loro comparsa, comunicabilità e
simbolica vivibilità nel corso del trattamento. Il transfert amoroso si compone di due parti, una
nevrotica, che rappresenta l'involucro difensivo-resistenziale originato da paure e colpe, che tenta
di imbrigliare l'altra componente del transfert amoroso, ovvero quella capacità sana di amare, che
nel volersi manifestare lotta con le angosce di inadeguatezza, di separazione e di perdita, con le
residue colpe edipiche e più in generale con le paure connesse all'approfondimento della relazione
con l'oggetto. 
Il transfert amoroso è difficilmente trattabile, poiché spesso i pazienti se ne vergognano e
considerano inaccettabile l'idea di una situazione in cui i sentimenti provati sono a senso unico.
Questi pazienti, inoltre, sperimentano paure legate all'idea di lasciarsi andare a un sentimento
amoroso, che spesso nasce da una precoce disillusione edipica per cui il bambino, i cui sogni
di fare coppia con il genitore adorato vengono bruscamente frustrati, non vuole più rischiare di
essere ricondotto a questa esperienza.
Il transfert amorevole rappresenta invece la trasposizione in analisi di una  relazione oggettuale
interna bonificata, riconoscitiva e liberamente apprezzata nei confronti dell'oggetto, rispettosa
della realtà e dei limiti. 
Un tema complementare rispetto alle manifestazioni transferali amorose ed  erotizzate è quello
dell'odio nel transfert, forse la forma di transfert più difficile da sopportare per l'analista. L'odio
nel transfert non è una manifestazione monolitica ma può assumere diverse connotazioni,
variando di intensità a seconda della forza dell'Io, delle relazioni oggettuali del paziente e della
fase dell'analisi. Gabbard propone che vi siano due macrocategorie di odio  nel transfert. Una
prima variante, più benigna, implica da parte del paziente  il riconoscimento dell'odio quale
distorsione che va analizzata: i sentimenti negativi sono egodistonici, il paziente riesce a costruire
un'alleanza con il terapeuta con l'obiettivo di comprendere i sentimenti piuttosto che agirli.
Nella variante maligna, questa qualità "come se" dei sentimenti viene meno e il  paziente non
percepisce la distorsione: il terapeuta non è percepito come  se fosse una figura del passato della
vita del paziente, ma piuttosto come un individuo realmente malvagio che merita di essere odiato.
In questo caso non si stabilisce un'alleanza e la comprensione del vissuto del paziente è vista come
irrilevante. In linea generałe si può dire che la forma benigna dell'odio di  transfert, come la sua
controparte erotica, è caratteristica di pazienti con una  organizzazione di personalità nevrotica,
mentre la variante maligna, come parte erotizzata, si riscontra maggiormente in pazienti
borderline.

3.2. Transfert psicotico e borderline


Alcune delle forme di transfert erotizzato descritte, soprattutto quelle più intense, potrebbero in
realtà essere incluse all'interno di quello che gli autori sono soliti definire come  transfert
psicotico. 
Altri autori hanno utilizzato il termine  psicosi di transfert che andrebbe riservato unicamente a
quei pazienti in cui la struttura del carattere sia di  tipo nevrotico, i quali incorrono
temporaneamente in reazioni così intense da poter assumere un carattere psicotico. Questi tipi di
transfert, sebbene intensi e altamente distorti, sono identificabili e riconducibili a dinamiche  della
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relazione madre-bambino e sembrano essere riscontrabili prevalentemente in pazienti con
organizzazioni di personalità di tipo borderline. I transfert borderline si caratterizzano non solo per
un'elevata intensità, ma anche per la presentazione all'interno della relazione terapeutica di
distinti pattern di relazione oggetto-Sé che tendono ad alternarsi caoticamente anche all'interno
della stessa seduta.
Alcune caratteristiche dei transfert di tipo borderline, quali l'intensità, la velocità di formazione e
l'egosintonicità possono essere spiegate anche in termini di problematiche nella mentalizzazione,
spesso presenti in pazienti con gravi disturbi della personalità. In particolare, la relazione
terapeutica con questi pazienti si caratterizzerà per la difficoltà nel paziente di comprendere la
natura "come se" dell'esperienza transferale, come avviene invece nel caso delle nevrosi. Questi
pazienti vivranno esclusivamente come reale la proiezione del mondo interno sull'analista e non
riusciranno a tollerare l'ambiguità legata ai diversi livelli di realtà che caratterizzano la relazione. In
altre parole, se il paziente sentirà un sentimento d'abbandono, esso sarà vissuto e interpretato
come la prova che il terapeuta è trascurante nei suoi confronti. In questi momenti, spesso
caratterizzati da una modalità di funzionamento della mente che Fonagy chiama dell'equivalenza
psichica, ciò che il paziente sente dentro spiega la realtà esterna, e quindi anche i comportamenti
dell'analista saranno interpretati in funzione degli stessi sentimenti provati dal paziente.
3.3. Transfert narcisistici e transfert oggetto-Sè 
Secondo Freud (191oa; 1914b) le nevrosi narcisistiche potevano essere distinte dalle altre forme di
nevrosi per l'assenza del transfert, o meglio della sua analizzabilità.
Dobbiamo sicuramente a Kohut il contributo più sistematico rispetto alle dinamiche transferali che
si attivano in pazienti con struttura narcisistica del carattere. 
L’autore ha individuato tre manifestazioni del transfert che tendono a presentarsi con questi
pazienti, definite transfert speculare, idealizzante e gemellare.
1. Nel transfert speculare il paziente attiva nella relazione terapeutica un bisogno di relazione con
l'oggetto-Sé riflettente e tenta di ottenere risposte  di conferma e approvazione da parte
dell'oggetto-Sé terapeuta, arrivando ad assumere atteggiamenti grandiosi ed esibizionistici a
questo fine. Questa manitestazione transferale è messa da Kohut in relazione con i fallimenti
empatici genitoriali nell'infanzia, che non permettono al bambino di ricevere approvazione per
quello che fa e causano un arresto evolutivo a un "Sé grandioso arcaico" ed esibizionistico che si
riattiva nel transfert.
2. Nel transfert idealizzante il paziente esprime un bisogno complementare rispetto al transfert
speculare e tenta di soddisfare tale bisogno di relazione  con l'oggetto-Sé idealizzando l'analista,
che viene percepito come il genitore potente dalla presenza consolatoria e riparatrice, le cui
qualità positive vengono esagerate ed enfatizzate. Un transfert di questo tipo è considerato da
Kohut espressione di un arresto dello sviluppo a una "imago parentale idealizzata", in cui il
genitore è vissuto come grandioso e il bambino si sente impotente se ne è distante.
3. Nel transfert gemellare il paziente tende a ricercare esperienze di similarità  e gemellarità con il
terapeuta. Questa tipologia di transfert esprime un bisogno  del paziente di entrare in relazione
con un oggetto narcisistico profondamente affine, un oggetto-Sé compensatorio che viene
investito narcisisticamente.
Kohut sostiene che il compito del terapeuta non è quello di frustrare questi bisogni, per esempio
interpretandoli in termini di difese, ma di accettarli in quanto tali e di corrispondere
empaticamente a essi per permettere al Sè di svilupparsi. Questo perché non si tratterebbe di
desideri conflittuali, ma di bisogni legittimi del paziente che non hanno conosciuto sviluppo
nell'infanzia.

4. Il contributo della ricerca empirica alla teoria del transfert


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Nel corso degli ultimi trent 'anni l'interesse per il transfert ha conosciuto ampia diffusione anche
all'interno della ricerca in psicoterapia. Tale approccio  al costrutto, fino ad allora studiato
esclusivamente dal punto di vista teorico e clinico, ha permesso di:
a) verificare empiricamente alcuni degli assunti teorici che ne sono alla  base, quale l'idea che il
transfert sia la riproposizione di modelli relazionali  dell'infanzia;
b) descrivere in maniera sistematica le diverse forme che il transfert può assumere nella pratica
clinica;
c) indagare il rapporto tra differenti forme di transfert e problematiche psicopatologiche, in
particolare la relazione tra transfert e disturbi di personalità.  
La ricerca empirica sul costrutto si è ben presto caratterizzata per un proliferare di strumenti di
valutazione e sistemi di giudizio clinico guidato per la  sua misurazione. Uno degli strumenti più
conosciuti e che maggiormente ha contribuito a una verifica e sistematizzazione del concetto di
transfert è il Core Conflictual Relationship Theme (CCRT: Luborsky, 1977).
Il CCRT è un sistema di valutazione di materiale narrativo, generalmente trascrizioni di sedute di
psicoterapia o di colloqui clinici, che permette di individuare i temi relazionali conflittuali
prevalenti della persona. Secondo questo metodo, il transfert può essere scisso in tre componenti
principali:
1. i desideri, i bisogni e le intenzioni del paziente verso un'altra persona; 2. le risposte dell'altro; 3.
le risposte del Sé. Tali componenti sono rintracciabili all'interno di narrazioni di episodi relazionali,
cioè parti delle sedute che si presentano come momenti di esplicita narrazione di episodi in cui il
paziente interagisce con altre persone, con il Sé o con il terapeuta. Attraverso un'analisi
sistematica di numerose sedute di psicoterapia, gli autori hanno proposto la costruzione di una
lista di categorie standard rispetto alle tre componenti del transfert. Tale elenco, che non ha
pretese di esaustività, ha però il pregio di permettere l'utilizzo di un linguaggio magari
meno evocativo rispetto ad altri contributi psicoanalitici ma sicuramente più facilmente
condivisibile tra i clinici, al fine di compiere una formulazione delle dinamiche relazionali prevalenti
di un paziente.
Grazie alle categorie dei CCRT è possibile formulare, in un linguaggio condivisibile e standardizzato,
i modelli relazionali conflittuali centrali di un paziente, individuando i desideri prevalenti, la
risposta attesa dagli altri e la risposta del Sé.
Questa formulazione può permettere al terapeuta di indirizzare meglio e in maniera più puntuale il
proprio lavoro interpretativo, oltre che consentirgli di riconoscere più facilmente l'attivarsi di
questi modelli relazionali del paziente all'interno della relazione terapeutica: concezione del
transfert più contemporanea e allargata ai diversi sentimenti che un paziente può provare
all'interno della relazione terapeutica. 
Secondo una concezione del transfert più contemporanea e allargata ai diversi sentimenti che un
paziente può provare all’interno della relazione con il terapeuta, altri autori hanno cercato di
individuare le diverse tipologie di transfert che si possono presentare nel corso dei colloqui clinici,
e la loro relazione con la personalità dei pazienti, attraverso il Psychotherapy Relationship
Questionnaire, uno strumento clinician report particolarmente agile ed economico. 

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Il controtransfert (Cap. 7 - Colli)
Secondo Kernberg è possibile suddividere i numerosi contributi sul controtransfert in due
approcci: l'approccio classico, detto anche “ristretto", e l'approccio contemporaneo, detto anche
"allargato. In una prospettiva classica (Freud) il controtransfert è definito come l'insieme delle
reazioni inconsce dell'analista al transfert del paziente. Tali reazioni, che derivano dai conflitti
nevrotici irrisolti dell'analista attivati dal transfert del paziente, devono essere padroneggiate,
poiché possono provocare delle macchie cieche o delle distorsioni nella percezione dell'analista
del materiale associativo del paziente. La posizione contemporanea o allargata  vede invece il
controtransfert come l'insieme di tutte le reazioni  emotive consce e inconsce dell'analista
determinate dal paziente, ma anche dai bisogni reali, oltre che  nevrotici, dell'analista stesso.
Questi vissuti non devono essere intesi come un ostacolo al processo terapeutico, bensì come uno
strumento utile alla comprensione delle dinamiche e problematiche del paziente.
Con la svolta relazionale degli anni Ottanta, emerge una nuova concettualizzazione del costrutto,
quella relazionale intersoggettiva, secondo la quale il controtransfert è considerato come il
prodotto inevitabile dell'interazione tra paziente e terapeuta, invece di una semplice interferenza
che deriva da conflitti pulsionali infantili dell'analista, nonché come una "joint creation" tra
analista e paziente.

1. Il controtransfert: dall’approccio classico a quello contemporaneo 


Freud ribadisce che le emozioni dell'analista determinano macchie cieche nella percezione
analitica, difficoltà legate al passaggio delle percezioni inconsce alla coscienza. Egli segnala il
pericolo di cedere alla tentazione di proiettare all'esterno qualche caratteristica della
propria personalità e sviluppa l'idea che l'analista deve proporsi di mostrare il meno possibile della
propria vita privata al paziente. 
Freud vede la mente dell'analista come uno strumento, il cui funzionamento efficace può essere
impedito dal controtransfert. E bene sottolineare che secondo l'autore il fatto che l'analista abbia
sentimenti nei confronti dei pazienti o conflitti da loro suscitati non costituisce di per sé
controtransfert.

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Affinché una risposta nell'analista sia definita come controtransfert, per Freud, essa
deve costituire una resistenza al lavoro analitico. Attraverso l’autoanalisi, il terapeuta può
diventare consapevole dell'esistenza di emozioni e reazioni controtransferali, e questo
rappresenta un invito a compiere uno sforzo per riconoscerne la natura ed eliminarne le
conseguenze avverse. Molti autori contemporanei di Freud, tranne rare eccezioni, in particolare
Ferenczi, hanno considerato il controtransfert come qualche cosa di indesiderabile e  d'intralcio,
non salutare e da controllare.
A partire dagli anni Cinquanta si assiste a un cambiamento nella concettualizzazione del
controtransfert, che inizia a essere considerato non più esclusivamente un ostacolo  bensì un
potente strumento di comprensione per il clinico. Tale svolta è dovuta a diversi fattori, tra i quali:
a) l’applicazione del trattamento analitico a pazienti gravi (psicotici e con gravi disturbi di
personalita); b) il diffondersi dei trattamenti di bambini; c) l'evoluzione del concetto di
identificazione proiettiva da meccanismo di difesa intrapsichico a meccanismo comunicativo. Il
trattamento di pazienti gravi e dei bambini suggeriva che le reazioni emotive dell'analista non
fossero in questi casi un'eventualità ma fenomeni assai frequenti e che le risposte dei terapeuti
derivassero da un particolare meccanismo di difesa e di comunicazione, l'identificazione proiettiva,
che permetteva la trasmissione di elementi psichici dalla mente del paziente a quella dell'analista.
In questo contesto, Winnicott è uno dei primi autori a fornire una descrizione del controtransfert
che, sebbene molto vicina a una posizione classica introduce degli elementi di novità rispetto a
essa, facendo riferimento a una componente del controtransfert che rappresenta una risposta
oggettiva alla personalità del paziente. Nello specifico, Winnicott individua tre componenti del
controtransfert che sono particolarmente evidenti nel lavoro con pazienti gravi:
1. sentimenti di controtransfert "anormali”, che si basano su rapporti e identificazioni che
l'analista ha rimosso e che ripropone all'interno della relazione analitica. Tali sentimenti
costituiscono un ostacolo e sono il segnale della necessità per l'analista di un ulteriore periodo di
analisi; 
2. le identificazioni e le tendenze che riguardano le esperienze e lo sviluppo personali di
quell'analista; tali caratteristiche andranno a costituire il setting positivo per il lavoro analitico e
renderanno il suo lavoro qualitativamente diverso da quello di qualsiasi altro analista;
3. il controtransfert oggettivo che rappresenta la risposta dell'analista alla personalità reale e al
comportamento del paziente.
Una prima affermazione esplicita del valore positivo del controtransfert venne però dalla Heimann
(1950), secondo cui l'analista deve essere in grado di  sopportare i sentimenti che vengono suscitati
in lui, invece di consentirne la carica per subordinarli al compito analitico di funzionare come
specchio riflettente del paziente. Il presupposto fondamentale dell'autrice è che l'inconscio
dell'analista possa essere utilizzato per comprendere quello del paziente  poiché le reazioni
emotive suscitate dal paziente «sono molto più vicine al  nocciolo del problema di quanto non sia il
suo ragionare>>. Per la Heimann deve usare le sue risposte emotive per comprendere l'inconscio
del paziente.
Sebbene l'orientamento teorico dell'autrice fosse strettamente kleiniano, la Heimann non ha
legato esplicitamente la sua teorizzazione al concetto di identificazione proiettiva. Questo legame
viene invece stabilito da Racker per il quale il controtransfert dell'analista può essere visto come
una risposta alle identificazioni proiettive del paziente e propone di distinguere due tipologie di
risposte controtransferali: il controtransfert concordante e il controtransfert complementare.
Il contrtrasnsfert concordante avviene quando l'analista si identifica con la rappresentazione del
Sé presente in quel momento nella fantasia del paziente. Il controtransfert complementare
avviene quando l'analista si identifica con la rappresentazione oggettuale presente nella fantasia
transferale del paziente. In altre parole, nel controtransfert concordante sentimenti,
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pensieri, fantasie dell'analista coincidono con quelli presenti in quel momento nel  paziente,
mentre nel controtransfert complementare i vissuti dell'analista rispecchiano in maniera
complementare i vissuti del paziente (per esempio, la  paura che il terapeuta può provare
nell'interazione con un paziente paranoico  e ostile può rappresentare il vissuto rimosso dal
paziente stesso).
Un altro contributo rilevante alla trasformazione nella concettualizzazione del controtransfert è
rappresentato dal concetto di responsività di ruolo di Sandler (1976), secondo il quale la
compartecipazione dell’analista alla creazione delle dinamiche interpersonali attive nella relazione
terapeutica è un fenomeno fisiologico, poiché il paziente tende a imporre una
modalità d'interazione, una tipologia di relazione tra lui e l'analista e il terapeuta risponderà
secondo queste modalità, attraverso una forma di responsività di ruolo.

1.1. L'identificazione proiettiva e la sua evoluzione 


Un ruolo centrale nella concettualizzazione allargata del controtransfert è svolto dal
meccanismo dell'identificazione proiettiva. Il concetto è stato introdotto dalla Klein, che la
descrive come una fantasia intrapsichica che emerge nei primi mesi di vita del bambino, in cui
parti indesiderate della personalità vengono scisse, proiettate sulla madre al fine di poter essere
controllate. Il concetto si è trasformato a partire da Bion, che ne completa
l'evoluzione, immaginandola non tanto come un meccanismo di difesa ma come meccanismo di
comunicazione tra madre e bambino, trasformandolo da strumento  evacuativo a modalità
comunicativa. L'autore ripropone il concetto evidenziando come esso rappresenti un evento
interpersonale, in cui colui che proietta, attraverso un'interazione interpersonale reale con colui
che riceve l'identificazione proiettiva, esercita una pressione, tesa a far sì che l'altro esperisca se
stesso e si comporti in accordo con la fantasia proiettata: l'identificazione proiettiva non è
solamente una fantasia, ma la manipolazione di una persona da parte di un'altra; pertanto è una
interazione interpersonale (Bion, 1973). Ogden la definisce come un fenomeno reale in cui colui
che proietta ha la fantasia inconscia di  liberarsi di una parte di sé non desiderata, inclusi i propri
oggetti interni, di depositarla in un'altra persona e infine di recuperare una versione modificata  di
ciò che era stato espulso. A partire da questa definizione l'autore articola la sua descrizione
trifasica del meccanismo.
-Prima fase: presenza del desiderio inconscio di sbarazzarsi di aspetti di sé, inclusi i propri oggetti
interni, perché minacciano di distruggere il Sé o perché rischiano di essere attaccati da altri aspetti
del Sé e devono essere custoditi all'interno di una persona capace di proteggerli.
-Seconda fase: colui che proietta esercita una pressione sul ricevente affinché senta e si comporti
in modo corrispondente alla fantasia proiettiva inconscia. Ogden parla di una pressione reale e
ritiene che, affinché possa verificarsi l'identificazione proiettiva, debba esistere un rapporto
interpersonale tra chi proietta e chi riceve.
- Terza fase: si parla di reinternalizzazione, in quanto la parte prima proiettata verrebbe ora
reintroiettata. In questa fase, il ricevente sperimenta sé stesso nel modo in cui è ritratto nella
fantasia proiettiva. Se è in grado di contenere le proiezioni e trattarle in modo diverso da colui che
proietta, può restituirle trasformate e pronte per la reinternalizzazione. Viene preso a modello il
“contenitore” di Bion che con la sua rêverie trasforma i contenuti proiettati dal paziente. In questo
modo, il processo di reinteriorizzazione offre al proiettante l’occasione per scoprire nuovi modi di
trattare sentimenti che prima desiderava ripudiare. 
Cosi formulata, l'identificazione proiettiva assolve più funzioni:
- come difesa serve a creare un senso di distanza psicologica da aspetti indesiderati e spesso
terrorizzanti del Sé;

71
- come modalità di comunicazione consente di ricevere comprensione da parte del ricevente che,
attraverso la pressione interpersonale, sperimenta un complesso di sentimenti simili a quelli di
colui che proietta; 
- come tipo di relazione oggettuale permette di rapportarsi con un oggetto che viene vissuto come
parzialmente separato, quindi capace di contenere le parti proiettate, e contemporaneamente
come sufficientemente indifferenziato, alimentando l'illusione che sperimenti allo stesso modo i
sentimenti del proiettante;
- come direzione verso il cambiamento psicologico, è un processo mediante il quale sentimenti,
simili a quelli contro cui si sta lottando, vengono trasformati da un'altra persona e resi pronti in
forma alterata, per la reinteriorizzazione.

2. Comtrotransfert e teoria intersoggettiva 


Un cambiamento significativo nella concettualizzazione del controtransfert si ha con il passaggio
da una psicologia unipersonale a una bipersonale. La rilettura in chiave bipersonale della relazione
terapeutica ha determinato una radicale riconsiderazione del ruolo dell'analista, che non può più
essere considerato come un partecipante neutrale e oggettivo e diviene un coautore, insieme al
paziente, delle dinamiche presenti all'interno della relazione terapeutica. L'approccio relazionale e
intersoggettivo considera la relazione paziente-analista come qualcosa che si stabilisce e si
ristabilisce continuamente, grazie a un'influenza mutua e continuativa nella quale i partecipanti
all'interazione si influenzano e sono influenzati sistematicamente l'uno dall'altro. L'incontro delle
due soggettività determina la creazione di uno spazio  terzo, definito da Ogden terzo analitico
intersoggettivo, che è il risultato dello scambio negli stati di réverie dell'analista e dell'analizzato.
Secondo Ogden il processo analitico «implica la parziale consegna della propria individualità
separata a un terzo soggetto, che non è né l'analista né il paziente, bensì una terza soggettività
generata inconsciamente dalla coppia analitica>» (Ogden, 1997, trad. it. p. 10). Non esistono un
analista, un analizzando e un processo analitico al di fuori di esso: il "terzo" è il prodotto della
tensione dialettica tra le soggettività dei partecipanti e corrisponde a un'esperienza in
continua evoluzione. Secondo la prospettiva del terzo analitico intersoggettivo in terapia non è più
possibile distinguere, veniva suggerito da una prospettiva classica prima e allargata poi, i contributi
separati di paziente e terapeuta alla relazione.
Uno dei termini più utilizzati per cercare di descrivere la reciproca influenza tra paziente e
terapeuta è il termine enactment di cui non esiste una definizione univoca. Genericamente
parlando, con enactment si intendono <<quelle situazioni in cui l'analista si accorge che o lui
stesso o il paziente mettono in atto una particolare modalità di comportamento, in rapporto a
particolari circostanze transferali-controtransferali>» (Filippini, Ponsi, 1993, p. 504). Il termine
enactment: a) mette in evidenza l'aspetto interattivo (o bipersonale) di una situazione; b) descrive
interazioni paziente-analista i cui meccanismi causali sono inconsci per entrambi; c)
identifica quegli episodi in cui la resistenza di transfert del paziente interagisce con quella
dell'analista; d) è un termine che descrive un comportamento della coppia, ovvero una
comunicazione che si svolge contemporaneamente, e continuamente, nelle due direzioni, dall'uno
all'altro: e) comprende sia comunicazioni verbali che non verbali. Potremmo dire che rispetto
all'enactment in letteratura si possono distinguere due posizioni: una ristretta e una allargata.
Secondo una posizione ristretta, l'enactment è un evento, un episodio acuto che emerge nella
relazione terapeutica, che segnala una collusione/aggancio tra le dinamiche di transfert-
controtransfert e che però può costituire un'occasione importante per comprendere il mondo
interno del paziente.
Secondo una posizione allargata, più vicina alle teorie intersoggettive e relazionali, gli enactment
sono fenomeni ordinari e ubiquitari della relazione paziente-analista, poiché la dimensione
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dell'azione (3) o di interazione è parte intrinseca del processo analitico. L'enactment in questa
prospettiva assume una centralità assoluta rispetto al processo trasformativo, poiché è
l’elaborazione interpretativa dell'azione a favorire il cambiamento del paziente.
Bisogna differenziare l’enactment, che descrive una fenomenologia clinica, e l’identificazione
proiettiva, che descrive un meccanismo psichico e anche nelle sue definizioni più relazionali,
continua a trasmettere l'idea che sia il paziente a dare l'avvio all'azione, proiettando sul terapeuta
qualche cosa, a differenza dell'enactment, dove l'accento è sulla co-creazione.

3. Fenomenologia del comtrotransfert 


Nel corso del tempo diversi autori hanno descritto molteplici aspetti e tipologie di risposte
controtransferali. 
Una classificazione ampiamente diffusa e utilizzata nella descrizione delle risposte
controtransferali, soprattutto secondo un approccio classico, prevede la sua distinzione in risposte
controtransferali di evitamento e risposte controtransferali caratterizzate da una distorsione nella
percezione dell'analista.
Le risposte controtransferali di evitamento includono tutte quelle situazioni in cui il terapeuta
evita inconsapevolmente l'approfondimento di alcune tematiche che emergono nel materiale
associativo del paziente. Per esempio, un terapeuta può provare imbarazzo rispetto ai sentimenti
erotici che la paziente prova nei suoi confronti, e di conseguenza evitare un’esplorazione di  tali
sentimenti. 
Il comportamento di evitamento non va inteso unicamente come il tentativo del terapeuta di
evitare qualche cosa che è temuto, ma può essere messo in atto anche rispetto a manifestazioni
transferali del paziente che gratificano il narcisismo del terapeuta: per esempio, un terapeuta può
inconsapevolmente evitare l'esplorazione dei sentimenti erotici provati da una paziente perché
gratificato da essi. Il controtransfert derivato dalla percezione distorta , invece, descrive
maggiormente situazioni in cui il terapeuta "non vede" o per l'appunto distorce dei contenuti
portati dal paziente: per esempio, un terapeuta può non percepire gli aspetti manipolatori sottesi
a un transfert di tipo dipendente di una paziente.
Le risposte controtransferali possono essere classificate anche in manifestazioni acute e croniche.
Le manifestazioni acute si presentano in circostanze specifiche e con pazienti specifici . Per
esempio un analista manifesta un certo fastidio e una voglia di liberarsi di un paziente, che poco
prima ha espresso tendenze omosessuali, tendenze che l'analista non è in grado di affrontare in sé
stesso. In questo caso il paziente è lo specchio di qualcosa di intollerabile. Le manifestazioni
croniche sono invece espressione di un generale problema caratteriale dell'analista che tende a
ripetersi nel tempo, per cui un'analisi estensiva può rappresentare l'unica soluzione . Per
esempio, l'aggressività inconscia può far sì che l'analista sia troppo conciliante e incapace di essere
rigido quando necessario.
Le esperienze controtransferali possono distinguersi anche in pensieri di CT e posizioni di CT.
I pensieri di controtransfert sono fenomeni mentali (emozioni, ricordi, collegamenti) che
compaiono nella mente dell'analista  e hanno carattere transitorio. Questi pensieri possono non
essere direttamente riconducibili al materiale presentato dal paziente, ma possono
essere utilizzati dal terapeuta al fine di comprendere in modo più approfondito e quindi
interpretare il materiale associativo del paziente. Le posizioni di controtransfert, invece,
includono l'insieme di risposte emotive e atteggiamenti che un terapeuta può provare nel corso
del trattamento e che si caratterizzano per essere  persistenti e duraturi, delle disposizioni
abbastanza stabili nei confronti di un paziente derivate probabilmente dall'aggancio del transfert
del paziente a conflitti irrisolti del terapeuta.

73
Racker (1953) distingue nel controtranstet le identificazioni dell'analista con gli impulsi e con i
meccanismi di difesa del paziente, che egli chiama controtransfert concordante, da quelle con gli
oggetti interni (secondo la terminologia kleiniana; vale a dire con il Super-lo infantile) che il
paziente proietta sull'analista, e che egli chiama controtransfert complementare.
Il concetto di CT concordante sembra sovrapporsi a quello di empatia, mentre quello di CT
complementare si riferisce al ruolo che l'analista assume, sollecitato dal paziente, e che porta
quasi inevitabilmente a entrare in una situazione senza via d'uscita, in cui la risposta del terapeuta
è reciproca o complementare rispetto ai sentimenti provati dal paziente. La consapevolezza di
quanto avviene può tuttavia servire al terapeuta come indizio per la comprensione di ciò che
accade nel qui e ora e per poter interpretare. 
Secondo altri autori è possibile distinguere tre differenti tipologie di risposte controtransferali: 1. Il
controtransfert oggettivo-razionale, che riflette una posizione distaccata, non partecipativa; 2. il
controtransfert reattivo, che riflette una posizione difensiva di origine inconscia rispetto all'ansia
suscitata da conflitti non risolti; 3. Il controtransfert riflessivo, che riflette un atteggiamento
consapevole, partecipativo, con funzioni interpretative. Van Wagoner e colleghi (1991) hanno
identificato cinque componenti fondamentali dell'esperienza controtransferale:
- self-insight ("consapevolezza di sé che indica il grado di consapevolezza dei propri sentimenti e di
comprensione delle loro origini;
- empathic ability (abilità empatica), che comprende l'empatia affettiva, ossia la capacità di
mettersi temporaneamente nei panni dell'altro e di comprenderne l'esperienza emotiva, e
l'empatia diagnostica, ovvero la comprensione intellettuale dell'esperienza dell'altro;
- self-integration ("integrazione del Sé"), che riguarda la salute mentale del terapeuta e la
presenza di un'identità stabile. Include la capacità di differenziare il Sé dagli altri, come quella di
lasciare da parte i propri bisogni per mettersi al servizio del paziente;
- anxiety management ("gestione dell'ansia"), che valuta la misura in cui il terapeuta è in grado di
gestire la propria ansia genera situazione analitica; 
- concettualizing ability ("abilità alla concettualizzazione"), che si riferisce al grado in cui
il terapeuta possiede la capacità di elaborare concetti esplicativi e una cornice teorica di
riferimento per favorire la comprensione e l'interpretazione del paziente.

L’alleanza terapeutica nella psicoterapia dinamica (Capitolo 8 - Colli)

1. Dal transfert positivo irreprensibile alle rotture e riparazioni dell’alleanza


terapeutica 
Per ripercorrere l'evoluzione del costrutto di alleanza terapeutica possiamo suddividerne lo
sviluppo storico in tre periodi. 

1.1. Prima fase 


Sebbene il termine "alleanza terapeutica" sia stato introdotto ufficialmente per la prima volta nel
lessico psicoanalitico da Elizabeth Zetzel nel 1995, è possibile rintracciare riferimenti embrionali al
concetto già in Freud. Egli, infatti, senza mai utilizzare il termine alleanza terapeutica, fin  dagli
Studi sull'isteria sottolinea l'importanza dell'atteggiamento collaborativo del paziente , pur
ribadendo la centralità dei fenomeni transferali. In Dinamica della traslazione compare per
la prima volta il concetto di "transfert positivo irreprensibile", per certi aspetti riconducibile a
quello di alleanza terapeutica. 
L'idea di un'alleanza tra analista e una parte dell'Io del paziente contro le forze istintuali sembra
derivata da Richard Sterba (1934), il quale, prendendo le  mosse dalla teoria strutturale, illustra il

74
concetto di alleanza a partire dall'osservazione di una "scissione" dell'lo del paziente in una parte
rivolta verso la realtà che collabora con l'analista e in una parte oppositiva che comprende
gli impulsi dell'Es, le difese dell'lo e le richieste del Super-Io. La parte collaborante dell'lo, quella
razionale, si unisce al terapeuta nell'intento di esplorare l'inconscio, formando una dimensione che
Sterba chiama "alleanza dell'Io".
Secondo Zetzel, l'alleanza terapeutica è il risultato di un'alleanza  tra l'lo osservante del paziente,
che si identifica gradualmente con l'analista nell'analizzare e modificare le difese patologiche che
l'lo ha innalzato contro le situazioni di pericolo interno, e l'analista stesso. Questa alleanza si basa
su una relazione oggettuale reale e si fonda sulla capacità del paziente di instaurare un rapporto
"uno a uno”, capacità che viene appresa nelle prime relazioni con la madre. Zetzel propone infatti
un'idea dell'alleanza costruita sul modello della relazione madre-bambino, dove l'analista assume
una posizione simile a quella di una mamma che si adatta ai bisogni del bambino e, attraverso
interventi verbali appropriati, aiuta a stabilire l'alleanza terapeutica. Il compito dell'analista è
quello di rispondere al paziente con una modalità intuitiva e adattiva, in modo da favorire la
mobilizzazione di quelle caratteristiche dell'Io indispensabili all'alleanza.
Zetzel mette in luce l'influenza che l'analista stesso e le sue caratteristiche possono avere
sull'alleanza terapeutica: difatti, sostiene che l'analista entra nel processo analitico come persona
reale e non solo come un oggetto di traslazione. Si tratta di un riconoscimento esplicito della
natura interattiva e bipersonale dell'alleanza terapeutica: non solo il paziente si allea con il
terapeuta, ma anche l'analista deve allearsi con il paziente, rimanendo un oggetto che permetta -
al paziente- una continua e positiva identificazione
Un'altra pietra miliare nell'evoluzione del concetto di alleanza è l'articolo di Ralph Greenson
(1965), The Working Alliance and the Transference Neuroses nel quale l'autore introduce
l'espressione alleanza di lavoro per sottolineare  la capacità del paziente di lavorare
intenzionalmente durante il trattamento. In linea con Sterba, Greenson ritiene che l’alleanza si
stabilisce tra lo razionale del paziente e lo analizzante dell'analista, e il mezzo che la rende
possibile è la parziale identificazione del paziente con l'atteggiamento analitico e riflessivo
dell'analista. 
Greenson, come Zetzel, riconosce che l'alleanza di lavoro può essere compresa nei fenomeni della
traslazione, ma a differenza di Zetzel parla anche di un “rapporto reale" che si stabilisce nel corso
dell'analisi. Con questo termine si riferisce agli aspetti sani, realistici e maturi che caratterizzano la
relazione tra paziente e terapeuta, considerandoli come persone reali e non nella loro veste di
analista e analizzando. In sintesi, per Greenson (1965) esistono tre livelli  di relazione: il transfert,
l'alleanza di lavoro e la relazione reale. Le reazioni  transferali e l'alleanza di lavoro sono,
clinicamente, i due tipi più importarnti di rapporti oggettuali che si verificano nella situazione
analitica. Nel corso dell'analisi, si stabilisce anche un rapporto reale, a cui l'autore attribuisce due
significati:
1. reale come realistico, orientato realisticamente (in contrapposizione al termine "transfert" che
indica un rapporto deformato e irreale);
2. reale come genuino, autentico (in opposizione ad artificioso, forzato o falso).
È questa duplice definizione di reale che ci aiuta a cogliere le differenze tra transfert, alleanza di
lavoro e relazione reale tra analista e paziente. Le reazioni di transfert, anche se vissute in modo
genuino e sincero, sono irreali e inappropriate. L'alleanza di lavoro è realistica e appropriata, ma
allo stesso tempo è un artificio della situazione terapeutica. Il rapporto reale è invece genuino e
autentico.
I tre modi della relazione analitica (transfert, alleanza di lavoro, relazione  reale) sono tra loro
collegati e si influenzano a vicenda, ma è importante che  l'analista sappia esaminarli
separatamente. 
75
1.2. Seconda fase 
A partire dal 1970 circa, il costrutto di alleanza terapeutica si allontana dall'ambito strettamente
psicoanalitico per muoversi in una direzione più transteorica. In questo periodo si assiste a
un'operazionalizzazione del costrutto e al proliferare di strumenti di valutazione dell'alleanza
terapeutica che ne hanno favorito l'applicazione empirica in numerosi studi. L'alleanza viene
dunque riconosciuta come un fattore comune e trasversale a tutti gli approcci di trattamento; essa
rappresenta probabilmente il costrutto più studiato nella ricerca in psicoterapia.
Anticipando i contributi di Safran e Muran sui processi di rottura e riparazione dell'alleanza
terapeutica, Bordin è uno dei primi autori a mettere in risalto la natura dinamica (in opposizione a
statica) del costrutto, sottolineando come l’alleanza non sia qualche cosa che c'è o non c'è, ma
qualche cosa che va costruita e negoziata.
Un altro contributo rilevante in ambito psicodinamico è quello fornito da Lester Luborsky, che
distingue due tipi di “alleanza d'aiuto”.
- Alleanza di tipo 1: il terapeuta fornisce aiuto al paziente e il paziente riceve  questo aiuto in modo
"passivo". Per esempio, il paziente può affermare “Sento che lei può aiutarmi" oppure "Sento che
lei mi capisce. In questa fase, il paziente ha fiducia nel terapeuta che vede come una potente fonte
di aiuto; il terapeuta, da parte sua, si fa promotore di una relazione affettuosa, incoraggiante e
accurata.
-Alleanza di tipo 2: è basata sulla consapevolezza che entrambi, paziente e analista, sono
impegnati in un lavoro comune sui problemi del paziente,  condividono la responsabilità del
raggiungimento degli obiettivi del trattamento, e sono uniti dal sentimento dell'"essere-insieme".
Per esempio, il paziente può dire: "Stiamo lavorando bene insieme” oppure "Sento che ora sono
più capace di comprendere i miei stati emotivi proprio come abbiamo sempre fatto qui insieme".
I due tipi di alleanza individuati da Luborsky si presentano in modo sequenziale durante il processo
terapeutico. Egli è uno dei primi autori a suggerire la possibilità di diverse tipologie d'alleanza, che
legge in termini processuali sostenendo la possibilità di un loro cambiamento nel corso
del trattamento.

1.3. Terza fase 


A partire dagli anni Novanta si è sviluppato un maggiore interesse verso gli aspetti processuali
dell'alleanza, le sue modalità di costruzione, le specifiche tecniche utili al suo mantenimento. 
Al tempo stesso, l'attenzione dei ricercatori si è rivolta a quei pazienti che più di altri mettono in
crisi una concettualizzazione "all'antica" dell'alleanza: quelli con disturbi gravi di personalità. In
questi casi l'alleanza prerequisito del trattamento e criterio a sostegno dell'analizzabilità, diventa
un obiettivo stesso del trattamento. È proprio in questo periodo che Safran e Muran danno inizio a
quello che si rivelerà uno dei filoni più prolifici delle ricerche sull'alleanza: lo studio dei processi di
rottura e riparazione. Gli autori ridefiniscono l'alleanza come un processo continuo di
negoziazione intersoggettiva tra paziente e terapeuta, caratterizzato dall’inevitabile  presenza di
momenti di deterioramento nella qualità dell'alleanza (rotture) e di momenti in cui tale tensione
viene risolta favorevolmente (riparazioni). Le rotture dell'alleanza possono essere raggruppate in
due grandi tipologie: "ritiro" e "confrontazione". I diversi tipi rottura rappresentano differenti
modalità di gestione da parte del paziente di due motivazioni fondamentali che sono alla base del
processo di negoziazione intersoggettiva: il bisogno di autonomia e "agentività" (agency) e quello
di "relazionalità" (relatedness).
È importante osservare come la concettualizzazione dell'alleanza si sposti da  un modello
"razionale" (dove l'enfasi è posta sul grado di accordo tra paziente e terapeuta rispetto agli

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obiettivi e ai compiti del trattamento) a un modello "relazionale" (dove il paziente negozia, in
modo esplicito e implicito, il proprio accordo con il terapeuta).
Come abbiamo visto, il dibattito teorico e la riflessione clinica intorno all'alleanza terapeutica si
possono collocare al crocevia tra costrutti limitrofi riconducibili alla relazione tra paziente e
terapeuta. 
Parlare di alleanza terapeutica comporta inevitabilmente il riferimento a costrutti limitrofi quali il
transfert, il controtransfert, la relazione reale, l'attaccamento, l'empatia, che, nel loro insieme,
rappresentano le dimensioni costitutive della relazione tra paziente e terapeuta. La difficoltà nel
tracciare una linea di demarcazione tra transfert e alleanza terapeutica, da una parte, e alleanza e
relazione reale, dall'altra, dipende dal rapporto complesso che intercorre tra queste tre
componenti della relazione terapeutica. Esse, infatti, a livello processuale tendono a interagire,
sovrapporsi e influenzarsi mutuamente. È sempre l’alleanza terapeutica che fornisce il contesto
necessario all’analisi di transfert e controtransfert.

2. Rotture e riparazioni dell’alleanza terapeutica 


Quando parliamo di "rottura dell'alleanza" ci troviamo di fronte a un concetto molto sfuggente. Da
una parte, sono stati usati termini differenti quali "impasse" (Hill et al, 1996), "fraintendimenti"
(Rhodes et al., 1994), "enactment (Filippini, Ponsi, 1993) resistenza", che descrivono dal punto di
vista fenomenologico processi del tutto simili a quelli di rottura dell'alleanza di Safran e Muran.
Una definizione particolarmente chiara vede nella rottura dell'alleanza una difficoltà o una
fluttuazione nella qualità dell'alleanza tra terapeuta e paziente, qualità che è funzione del grado di
accordo tra terapeuta e paziente riguardo a obiettivi e compiti della terapia e che è mediata
dalla qualità del legame relazionale tra terapeuta e paziente. In questa definizione cogliamo
l'influenza del modello relazionale e bipersonale, in quanto l'accordo tra paziente e terapeuta
rispetto a compiti e obiettivi è derivato dalla qualità del legame. Secondo questa prospettiva,
insomma, qualsiasi disaccordo tra paziente e terapeuta rispetto ai compiti e agli obiettivi del
trattamento sarà sempre il segnale di una problematica del legame. Questo modello è basato
su una definizione del processo terapeutico, delle impasse e delle resistenze alla luce di una
psicologia bipersonale. In quest’ottica, tutti i blocchi manifesti nel processo terapeutico devono
essere compresi come funzione dell'interazione tra paziente e terapeuta.
A partire da una prospettiva relazionale e interpersonale, la resistenza è interpretata sia come la
manifestazione del carattere e delle difese del paziente, sia come il prodotto del contesto
interpersonale in cui essa si manifesta.
Parallelamente, i contributi negativi del terapeuta alla relazione  sono visti non solo come la
manifestazione di una non corretta applicazione di principi tecnici d'intervento o il risultato di
risposte controtransferali riconducibili a problematiche irrisolte del terapeuta, ma anche come il
prodotto della matrice interpersonale in cui vengono messi in atto. Questa è la principale
caratteristica teorica che differenzia una "vecchia" concettualizzazione  della resistenza del
paziente, letta in termini monopersonali, dal costrutto  bipersonale di rotture e riparazioni
dell'alleanza terapeutica.
Un altro importante aspetto della nuova concettualizzazione di alleanza  riguarda lo spostamento
dell'attenzione clinica dal contenuto della negoziazione al processo di negoziazione stesso. Se
adottiamo il punto di vista razionale, possiamo vedere una rottura o una caduta nel processo di
collaborazione quando, per esempio, un paziente è in disaccordo riguardo a un  compito della
terapia (per esempio, "Non penso che sia importante per me parlare della mia infanzia"). Al
contrario, se adottiamo la prospettiva relazionale, il contenuto della comunicazione (il disaccordo)
è meno importante del modo con cui il paziente comunica il disaccordo e negozia con  il terapeuta.
Secondo un approccio razionale, possiamo considerare come segno di collaborazione un paziente
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che è sempre d'accordo con il terapeuta mentre, da un punto di vista relazionale, tale accordo può
essere interpretato come un segno di acquiescenza. La comunicazione da parte del paziente del
proprio disaccordo può essere interpretata come un tentativo del paziente di negoziare i propri
bisogni piuttosto che come un segno di debolezza dell'alleanza. Il punto di vista razionale,
caratteristico della terapia cognitiva standard e della psicologia psicoanalitica dell'Io, ha le sue
radici nella psicologia monopersonale e si basa sull'assunto implicito che il terapeuta detiene la
verità e i momenti di impasse derivano dalla resistenza del paziente ad accettare ciò che il
terapeuta propone. Da un punto di vista relazionale, invece, l'alleanza altro non è che un continuo
processo di negoziazione intersoggettiva, dove gli oggetti della negoziazione sono i bisogni di
agency e la relazionalità del paziente.
Il contributo di Safran e Muran rappresenta un ottimo esempio di integrazione tra teoria clinica,
pratica clinica e verifica empirica. Attraverso l'utilizzo di strumenti di misurazione basati sull'analisi
di trascrizioni e videoregistrazioni di sedute essi hanno proposto una classificazione delle rotture,
distinguendo tra rotture di confrontazione e rotture di ritiro.
Le rotture di confrontazione sono comunicazioni dirette ed esplicite da  parte del paziente,
caratterizzate da ostilità, critica o rifiuto nei confronti di  qualche aspetto del processo terapeutico
o del terapeuta (per esempio, quando il paziente attacca verbalmente il terapeuta, si lamenta per
la mancanza di progressi significativi in terapia, attacca aspetti del setting e così via). Le rotture di
ritiro, invece, sono caratterizzate da una modalità indiretta di comunicazione e si esprimono con
un disinvestimento da parte del paziente  (sono esempio di queste rotture il distanziamento
affettivo, l’intellettualizzazione, le risposte tangenziali). Secondo Safran e Muran, le rotture da
ritiro e da confronto riflettono i diversi modi del paziente di sostenere la tensione tra le opposte
necessità di agentività e relazionalità. Nelle rotture da ritiro, i pazienti  cercano la relazione a spese
del bisogno di agentività, mentre in quelle da confronto negoziano il conflitto favorendo la
necessità di agentivitá o di definizione di sé. Sulla base del modello di Safran e Muran, Colli e
Lingiardi hanno ideato e costruito la Collaborative Interactions Scale (cıs), uno strumento applicato
ai trascritti di sedute in grado di valutare i processi di rottura e riparazione dell'alleanza
terapeutica.
Pur esplicitando il ruolo del terapeuta nel processo di gestione delle rotture,  Safran e Muran non
considerano il processo di riparazione come un'impresa  unilaterale: «Essa include sempre la
volontà del paziente di partecipare a un processo di esplorazione collaborativa riguardo la natura
della matrice interpersonale. In qualche modo il paziente deve essere anche motivato e capace
di superare l'enactment per iniziare un’esplorazione di cosa sta accadendo [qui e ora] nella
relazione terapeutica (Safran, Muran).
Nel corso del processo terapeutico possono emergere entrambi i tipi di rottura  oppure un
momento di impasse può portare all'espressione di rotture sia  di ritiro sia di confrontazione.
Safran e Muran hanno elaborato due modelli  processuali per la risoluzione delle rotture
dell'alleanza: uno per quelle di ritiro (modello W, withdrawal) e l'altro per quelle di confrontazione
(modello C, confrontation). Lo scopo di questi due modelli non è solo riparare e  rafforzare
l'alleanza, ma anche aiutare il paziente a sviluppare una maggiore  comprensione delle modalità
che utilizza per interpretare gli eventi e di come  questi schemi influenzino le sue relazioni con gli
altri.
Nel modello W di risoluzione, il paziente tende a manifestare le problematiche attraverso un
marker di ritiro, che può essere letto come l'espressione indiretta di un desiderio nascosto, I
processi di rottura dell'alleanza, infatti, possono essere interpretati come l'attivazione da parte del
paziente di una risposta del Sè che anticipa la risposta negativa dell'altro a un desiderio  nascosto.
Per esempio, un paziente potrebbe desiderare di esprimere un'opinione che appare in contrasto
con un intervento del terapeuta (desiderio nascosto), ma allo stesso tempo potrebbe temere che il
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terapeuta possa essere critico e non comprensivo nei suoi confronti (risposta attesa dall'altro);
allora tende a parlare di cose futili e cambiare continuamente discorso (risposta del Sé) al fine di
evitare la risposta attesa. L’obbiettivo del terapeuta in questo caso è far accedere il paziente ai
propri bisogni nascosti, in modo da riuscire a manifestarli attraverso l'assertività, che può essere
descritta come l'espressione del desiderio nascosto.
Il modello C di risoluzione si differenzia dal modello W per il fatto  che le problematiche di alleanza
vengono manifestate attraverso un marker  di confrontazione, che rappresenta l'espressione
mascherata della vulnerabilità del paziente (per esempio, un paziente potrebbe aggredire
verbalmente il terapeuta svalutandolo, ma in realtà provare sentimenti di abbandono in vista della
separazione per le vacanze). In questo caso il compito del terapeuta è aiutare il paziente a
prendere coscienza ed esprimere la sua vulnerabilità.

Resistenza, rotture e riparazioni, negoziazione intersoggettiva (cap. 9 -


Colli)

Quando parliamo di resistenza, secondo una prospettiva classica, facciamo riferimento a quei
processi che ostacolano il progredire della terapia e, in particolar modo, l'elaborazione da parte
del paziente di contenuti rimossi.
Lo sviluppo nella concettualizzazione del costrutto di resistenza è strettamente connesso al
passaggio da una psicologia monopersonale a una bipersonale, con un conseguente spostamento
del luogo e dell'origine della resistenza dal mondo intrapsichico del paziente a quello
intersoggettivo della relazione tra paziente e terapeuta.
Al tempo stesso gli sviluppi nella concettualizzazione dell'alleanza terapeutica, grazie soprattutto al
contributo della ricerca empirica, hanno portato a rileggere questa componente della relazione
come il prodotto emergente di un continuo processo di negoziazione intersoggettiva tra paziente e
terapeuta, caratterizzato da arresti (rotture) e avanzamenti (riparazioni) del processo terapeutico.
Nel corso degli anni la concettualizzazione è cambiata in modo abbastanza radicale e tali
trasformazioni hanno riguardato a) una diversa concezione delle fonti e delle motivazioni
sottostanti la resistenza; b) una ridefinizione del costrutto in un’ottica bipersonale; c) una
modificazione del concetto di resistenza, vista non soltanto come un ostacolo al processo, ma
anche come importante strumento al servizio del trattamento.

79
1. Dalla resistenza ai processi di negoziazione intersoggettiva 
Secondo una prospettiva classica la resistenza veniva considerata una forma di opposizione al
lavoro analitico derivata da forze intrapsichiche. Freud distingue cinque principali tipi di resistenza.
- La resistenza di rimozione rappresenta la manifestazione clinica del  bisogno del paziente di
difendersi da impulsi, ricordi e sentimenti  che, se emergessero, potrebbero provocare uno stato
doloroso. 
-  La resistenza di transfert funziona in modo simile alla resistenza di rimozione, con la differenza
che quella di transfert riflette la lotta da parte del paziente rispetto a impulsi infantili emersi in
maniera diretta o modificata in relazione alla figura dell'analista. In altre parole, la situazione
analitica favorisce l'emergere di impulsi e sentimenti del passato trasferiti sula figura attuale del
terapeuta, e la resistenza interviene sempre attraverso il processo della rimozione, non
permettendo al paziente di ricollegare tali sentimenti a ricordi del passato ma intendendoli come
unicamente emergenti dalla relazione con l'analista. Essa comprende sia il rifiuto da parte del
paziente di comunicare pensieri ed emozioni riguardanti l'analista, sia l'accesso da parte  del
paziente a pensieri transferali inconsci dai quali si difende. 
- Nella resistenza da vantaggio secondario , la resistenza trae origine da vantaggi e gratificazioni
che il paziente otterrebbe per il fatto di essere malato: accudimento, compatimento, attenzioni
ecc. Questo tipo di resistenza può anche derivare dal soddisfacimento di un bisogno inconscio del
paziente di essere punito e da tendenze masochistiche.
- La resistenza dell'Es è determinata dalla resistenza che i moti pulsionali oppongono a ogni
mutamento della loro modalità di espressione. Un processo pulsionale che ha seguito per anni una
determinata strada e deve percorrere una nuova via che gli viene aperta opporrà resistenza.
- La resistenza del Super-lo è la resistenza che origina dal senso di colpa  o dal bisogno di punizione
del paziente. Considerata da Freud come la più difficile da affrontare, tale resistenza poteva
assumere anche le forme della reazione terapeutica negativa. Secondo Freud il senso di colpa
inconscio che alimenterebbe la reazione terapeutica negativa avrebbe alle sue basi
una componente masochistica inconscia importante. Tale espressione veniva usata da Freud in
due accezioni: da una parte, la reazione terapeutica negativa per descrivere un particolare
fenomeno, secondo il quale il paziente improvvisamente peggiorava a seguito di un'esperienza di
miglioramento; dall'altra, la reazione terapeutica negativa come meccanismo psicologico
attraverso il quale il paziente poteva peggiorare o comunque perdurare nel suo stato di malattia al
fine di controllare un senso di colpa inconscio rispetto al miglioramento.
Secondo Freud la resistenza era intimamente connessa all'intera gamma dei meccanismi di difesa
che «contro i pericoli del passato ritornano nella cura sotto forma di resistenze contro-la
guarigione. Ciò significa che la guarigione stessa è trattata dall'lo alla stregua di un nuovo pericolo»
(Freud)

1.1. Fonti e origini della resistenza


Freud aveva inteso principalmente la resistenza come derivante da forze intrapsichiche e aveva
solo in parte accennato alla possibilità che le diverse forme della resistenza fossero  strettamente
connesse alle problematiche psicopatołogiche, descrivendo per esempio, come particolari
distorsioni nelle libere associazioni fossero caratteristiche dei pazienti con nevrosi ossessiva. In
seguito fu Anna Freud a esplicitare come le resistenze riflettessero il funzionamento difensivo del
paziente. Un'attenta analisi delle difese attivate nel corso delle  sedute aveva quindi l'obiettivo di
comprendere il funzionamento abituale dell'individuo.
Altri contributi postfreudiani hanno chiarito come la fonte della resistenza  potesse essere
rappresentata anche dal rischio di perdere persone significative per il paziente, come conseguenza
del miglioramento e del cambiamento terapeutico. 
80
I maggiori cambiamenti nella concettualizzazione delle motivazioni alla base  della resistenza pero
riguardano l'inclusione di fattori narcisistici e identitari del paziente.
Fairbairn prima e Guntrip poi hanno messo in luce come la resistenza fosse derivata dal timore
dell'emergere di bisogni di dipendenza e di difesa da sentimenti di vergogna e umiliazione derivati
dalla dipendenza stessa.
Kohut più di altri ha aperto una nuova era nella concettualizzazione delle resistenze, andando a
concepirle come dei tentativi messi in atto dal paziente al fine di proteggere il proprio  Sé non
tanto da derivati pulsionali ma dal rischio del ripetersi di esperienze  traumatiche: le persone
vivono nella paura di essere ritraumatizzate da oggetti cattivi e le resistenze apparirebbero come il
risultato di un fallimento empatico dell'analista rispetto ai bisogni di oggetto-Sé del paziente. 
Altri autori hanno ripensato la resistenza riconoscendo in essa il tentativo  del paziente di
conservare una struttura d'identità e mantenere un senso di  sicurezza: secondo Erik Erikson la
resistenza è sempre una difesa dell'identità, poiché è espressione della paura del paziente che
l'analista, a causa della sua particolare personalità possa inavvertitamente o deliberatamente
distruggere il nucleo indebolito dell'identità del paziente, imponendogli invece la propria
(identità).
Su questa scia Philip Bromberg propone di vedere la resistenza come il segnale degli «sforzi del
paziente di giungere a un nuovo significato senza che vi sia uno sconvolgimento della
continuità di Sé durante la transizione; rappresenta quindi una tensione dialettica tra realtà non
ancora soggette all'esperienza autoriflessiva. 

1.2. Il luogo della resistenza 


Secondo una prospettiva classica si credeva che la resistenza fosse del paziente e non anche
determinata dall’analista stesso.
Seguendo questo cambio di prospettiva, per Schafer la resistenza del paziente va strettamente
connessa al concetto di controtransfert: la resistenza è quell'insieme di comportamenti che
suscitano un controtransfert di tipo negativo nel terapeuta e quindi al posto dell'analisi
della resistenza dovremmo tener conto dell'analisi del controtransfert insieme  all'analisi del
transfert e delle operazioni difensive. Queste idee della mutualità nella costruzione della
resistenza erano già state anticipate dai contributi di Ferenczi, il quale aveva ipotizzato che la
resistenza del paziente fosse determinata anche dell’analista  stesso: viene qui fornita una visione
del paziente non solo come colui che proietta sul terapeuta il proprio transfert, ma anche come
colui che a livello inconscio e preriflessivo coglie i movimenti interni del terapeuta e si  relaziona a
essi.
Sempre su questa scia Safran e Muran suggeriscono di definire le rotture dell'alleanza come
derivanti tanto dal paziente quanto dall'analista il quale partecipa alla strutturazione e al
mantenimento della resistenza a livello inconscio. Le resistenze del paziente appaiono quindi come
il prodotto emergente di una matrice relazionale. Secondo questa prospettiva, ogni cosa  detta dal
paziente e dal terapeuta è intrinsecamente connessa e derivata dalla  relazione attuale che i due
partecipanti stanno creando.
Questo rovesciamento di prospettiva ha delle conseguenze anche dal punto di vista tecnico.
L'oggetto dell'intervento non è più il paziente o l'analista e il suo controtransfert (come gli
approcci kleiniani), ma il processo terapeutico co-costruito dai due partecipanti.
Tale cambiamento di prospettiva ha trovato ampia conferma in diverse ricerche empiriche, che
hanno messo in luce sia come il terapeuta possa contribuire anche negativamente al processo
terapeutico, attraverso interventi che sembrano rappresentare delle controresistenze/difese nei
confronti del paziente, sia che paziente e terapeuta tendono a creare inconsapevolmente delle

81
strutture d'interazione non collaborative che devono essere risolte ai fini del cambiamento
terapeutico. 

1.3. Resistenza come ostacolo e occasione di cambiamento 


Secondo Paul Gray la difficoltà da parte degli analisti a considerare  la resistenza un'occasione di
comprensione più che un ostacolo al processo terapeutico è dovuta a tre fattori: 1. il fascino dei
significati nascosti esercitato sui terapeuti, che sposta inevitabilmente il centro dell'interesse verso
ciò che viene difeso piuttosto che al processo di resistenza: 2. l'istintiva sensazione  dei terapeuti
che i pazienti possono "ingannarli", contesto che tende poi a  far provare ai terapeuti sentimenti di
rabbia; 3. il desiderio del terapeuta di  trovarsi nella posizione dell'esperto in grado di
comprendere quanto accade nell'inconscio del paziente.
In un'ottica kohutiana la resistenza, vista come il prodotto di un fallimento empatico da parte del
terapeuta, viene intesa come un utile strumento di  comprensione dei bisogni di oggetto-Sé del
paziente. 
Tale cambiamento di prospettiva è ben esemplificato da Stolorow e dai suoi collaboratori, i quai
ritengono che i momenti di impasse e di resistenza rappresentano una via per comprendere le
problematiche del paziente e devono essere intesi come delle finestre relazionali sul mondo
intrapsichico del paziente.
Una posizione ancora più radicale rispetto alla resistenza e ai processi di rottura dell'alleanza tra
paziente e terapeuta è fornita da Bromberg, secondo cui il processo di rotture, collisioni tra
paziente e terapeuta, oltre che essere assolutamente fisiologico, rappresenta una delle essenze
principali del cambiamento terapeutico poiché gli sforzi ripetuti dell'analista di alleviare il disagio
del paziente devono fallire per permettere all'analista di conoscere l'esperienza del paziente per
quello che è.
Ma conoscere non è abbastanza: l’irreparabile deve essere in qualche modo riparato e l'unico
modo in cui il passato come presente può essere riparato e all'interno di una relazione che ripeta i
fallimenti del passato ma che in qualche modo non si limiti a questo. Qualche cosa di nuovo deve
avvenire (Bromberg).
Tale approccio è confermato anche dalle ricerche dell'Infant Research che  ben hanno messo in
luce come non sia la sintonia affettiva tra bambino e caregiver il fattore saliente che conduce a un
normale sviluppo, ma al contrario la riparazione degli errori interattivi (Tronick, Weinberg, 1997).
Come messo in luce da Kernberg rispetto alle posizioni sul controtransfert, le teorie di riferimento
influenzano anche la qualità della relazione terapeutica: in altre parole, se un terapeuta crede, in
accordo con Reich, che la resistenza sia segnale di ostinazione e cocciutaggine, è probabile che la
sua capacità di sintonizzazione e ascolto del paziente ne risenta, assumendo un atteggiamento nei
confronti della resistenza come di qualche cosa da sconfiggere, oltrepassare, smantellare. Al
contrario, se la teoria di riferimento prevede che la resistenza rappresenti il tentativo di
un individuo di costituirsi come soggetto, di proteggersi rispetto alla riproposizione di esperienze
traumatiche o ancora il tentativo di mantenere un senso di integrità dell'identità, l'atteggiamento
del terapeuta sarà inevitabilmente più orientato a un ascolto meno sospettoso e più rispettoso.

2. Fenomenologia e tassonomia della resistenza e dei processi di rottura


dell’alleanza terapeutica
Quando parliamo di resistenze e di processi di rottura dell'alleanza terapeutica facciamo
riferimento a un'ampia fenomenologia clinica di comportamenti, modalità di interazione e
difensive del paziente, quali il saltare le sedute, evitare l’approfondimento di una tematica,
rimanere a lungo in silenzio ecc.
Diversi autori hanno tentato di descrivere e classificare questa complessa  fenomenologia.
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Helene Deutsch (1939) ha proposto una triplice classificazione delle forme  di resistenza in:
a) resistenze intellettuali o intellettualizzanti;
b) resistenze di transfert;
c) resistenze come bisogno del paziente di difendersi dal ricordo di materiale infantile.
L'autrice si è occupata in particolare della prima forma di resistenza osservando che alcuni pazienti
tentano di sostituire all'esperienza analitica la  comprensione intellettuale e notando come tale
modalità fosse molto caratteristica di soggetti dotati intellettualmente, ossessivi o comunque
caratterizzati da processi di isolamento rispetto all'affetto.
Secondo Edward Glover (1955), invece, è possibile distinguere le resistenze  in ovvie e discrete. Le
resistenze ovvie comprendono l'interruzione del trattamento,  il mancato rispetto degli
appuntamenti, il rifiuto automatico degli interventi  del terapeuta. Le resistenze discrete, invece, si
nascondono sotto un'apparente adesione da parte del paziente alle esigenze della situazione
analitica. Tali resistenze si possono manifestare nella forma dell'accordo da parte del paziente con
qualsiasi affermazione dell'analista, con la presentazione del materiale (per esempio sogni) per il
quale il paziente crede che l'analista abbia particolare interesse. 
Ralph Greenson (1967) ha invece identificato cinque tipi di resistenza: 1.  l'opposizione
all'espressione di affetti dolorosi, presente quando la verbalizzazione  non porta a una maggiore
consapevolezza emotiva; 2. l’opposizione al ricordo di materiale significativo, quando la resistenza
si traduce in un fallimento di condivisione di informazioni; 3. l' opposizione al terapeuta, che può
assumere la forma di una risposta contraria alle sue richieste o ai suoi  interventi: 4. l'opposizione
al cambiamento, in cui la paura o la minaccia del cambiamento, la ricerca di sicurezza, i guadagni
secondari mantengono il paziente bloccato in modelli familiari disadattivi; 5. l' opposizione
all'insight, che è evidente quando il paziente sta andando nella direzione di una  gratificazione
rapida e superficiale.
In relazione al rapporto tra resistenza e carattere, altri autori come Merton Gill hanno distinto tra
resistenze egodistoniche, che possono essere riconosciute dal paziente  stesso come un'intrusione
e come un ostacolo rispetto al processo terapeutico, e resistenze egosintoniche, che sono viste
dał paziente come reazioni appropriate alla situazione analitica.
Sempre Merton Gill ha proposto di classificare le resistenze in resistenza alla presa di
coscienza del transfert e in resistenza alla risoluzione del transfert . Nel primo caso il paziente,
attraverso allusioni e discorsi riferiti ad altre relazioni, comunica  indirettamente dei sentimenti che
sono in realtà rivolti alla figura dell’analista. Nel secondo caso, invece, il paziente comunica dei
sentimenti nei confronti del terapeuta, ma la resistenza è operata nei confronti del collegamento
tra questi sentimenti e quelli originari sperimentati con le figure di riferimento.
Se concettualizziamo la resistenza e i processi di rottura dell'alleanza come  co-costruiti, possiamo
descrivere la fenomenologia dei processi di rottura  dell'alleanza e di resistenza manifestati dal
terapeuta all'interno del dialogo  clinico (Safran, Muran). Da questo punto di vista, tutte le
manifestazioni di resistenza del terapeuta hanno origine dall'esperienza che il terapeuta fa nella
relazione con il paziente (controtransfert), sono frutto della matrice relazionale co-creata dai
partecipanti e quindi sono riconducibili a processi non direttamente osservabili. 
I segnali di rottura del terapeuta nel loro insieme rimandano a forme di evitamento linguistico
(cambiare discorso, non esplorare una tematica importante ecc.), di distanziamento affettivo
(intellettualizzare, utilizzare un gergo tecnico, ironizzare in momenti di intensa attivazione del
paziente ecc.), a sentimenti negativi comunicati al paziente (ostilità, competizione, critiche,
svalutazione ecc.), a una mancanza di chiarezza e comprensibilità (comunicazioni troppo lunghe o
difficili da comprendere, espressioni eccessivamente enigmatiche o complesse ecc.).

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Questi marker di rottura non devono essere necessariamente intesi come degli errori, ma possono
essere valutati anche come indicatori in grado di informare il terapeuta delle dinamiche attive nel
qui e ora della seduta e dell'esperienza controtransferale.
Così come i processi di resistenza del paziente possono essere intesi come  delle finestre relazionali
sul mondo del paziente, cosi le resistenze del terapeuta possono essere intese come delle finestre
sul mondo interno del paziente, del terapeuta e sul processo terapeutico.

3. Uno sguardo d’insieme 


Se ragionare sull'azione terapeutica significa inevitabilmente ragionare anche sul concetto di
resistenza, allora questo vuol dire che le diverse teorie della resistenza sono strettamente
interconnesse ai differenti modelli di azione terapeutica. Quindi, per esempio, se l’obiettivo della
terapia è considerato quello di rendere conscio l'inconscio, inevitabilmente la resistenza dovrà
essere considerata come una difesa dall'insight (Rangell, 1983). Allo stesso tempo, se uno degli
obiettivi della terapia è la possibilità di fare esperienze di oggetti-Sé coesivi nella relazione con
l'analista, la resistenza diverrà segnale di fallimenti in questo tipo di esperienze (Kohut, 1984).
Le diverse teorie dell'azione terapeutica si sono ispirate più o  meno esplicitamente a diverse
tipologie di pazienti, alcuni caratterizzati maggiormente da problematiche a livello di conflitto
nevrotico, in cui il meccanismo della rimozione sembra svolgere un ruolo centrale, altri
caratterizzati invece da problematiche di tipo narcisistico, nella strutturazione dell’identità e con
problematiche ravvisabili nel rapporto di differenziazione con l'oggetto.
Le diverse concezioni di resistenza di conseguenza, non sono inconciliabili ma devono essere
rapportate rispetto alla psicopatologia che le produce: in altre parole, in strutture nevrotiche la
resistenza avrà probabilmente maggiormente il significato di una difesa da parte del paziente
rispetto all'emergere di contenuti conflittuali; nel caso di strutture di personalità narcisistiche o
borderline, invece, la resistenza avrà il significato di tentativi estremi da parte del paziente di
mantenere un'identità e di proteggersi dalla vergogna e dai suoi effetti destrutturanti.
Secondo questa prospettiva potremmo immaginare che laddove la rimozione sia il nucleo centrale
della psicopatologia, la resistenza sarà più facilmente interpretabile secondo una logica classica,
mentre nel caso in cui il paziente presenta una psicopatologia in cui prevale una
dimensione scissionale e dissociativa, la resistenza sarà meglio concettualizzabile in termini di co-
costruzione tra paziente e terapeuta, oltre che come il tentativo di proteggere il Sé e di far
esperire al terapeuta parti dissociate o aliene dell’esperienza, al fine di poterne entrare in contatto
attraverso l'esperienza del terapeuta.
Gli interventi del terapeuta (Cap.10 - Colli)

1. Tipologie di interventi del terapeuta in psicoterapia dinamica


Tra questi, Horacio Etchegoyen (1986) ha distinto quattro principali insiemi di interventi che un
terapeuta può utilizzare in ambito psicodinamico: 1.  gli interventi per influire sul paziente, 2. gli
interventi per raccogliere informazioni; 3. gli interventi per offrire informazioni: 4. gli interventi
che rappresentano delle modificazioni rispetto ai parametri standard della tecnica.
1. Gli interventi per influire sul paziente hanno l'obiettivo di intervenire in maniera diretta e
concreta sul comportamento del paziente. All'interno di questo gruppo sono inclusi gli interventi
di sostegno, che hanno l'obiettivo di dare al paziente stabilità e sicurezza e rappresentano le
attività del terapeuta volte ad allentare l'ansia oltre che a favorire e rinforzare la relazione
con l'altro, interventi in cui il terapeuta tende a rappresentare un oggetto buono.
2. Gli interventi per raccogliere informazioni includono:
- la domanda: il terapeuta chiede qualche cosa al paziente;

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- la segnalazione o l'osservazione: il terapeuta circoscrive un'arca di osservazione e richiama
l'attenzione su una questione/problematica con l'obiettivo di ottenere dal paziente più
informazioni;
- la confrontazione: l'analista mostra al paziente due elementi contrapposti con l'obiettivo di
presentargli un dilemma o una contraddizione.
3. Tra gli interventi che hanno l'obiettivo di fornire informazioni troviamo:
- l'informazione stessa: il terapeuta dice al paziente qualche cosa che quest' ultimo non sa.
- la chiarificazione: il terapeuta illumina l'individuo su qualche cosa che egli conosce solo
indistintamente (la non conoscenza non riguarda, come invece accade nell'informazione, la realtà
esterna, ma è rivolta alla realtà interna e personale dell'individuo);
- l'interpretazione: il terapeuta si riferisce sempre a qualche cosa di personale dell'individuo e che
l'individuo stesso ignora.
Etchegoyen distingue gli interventi che informano sulla realtà esterna dall'interpretazione, che
informa sulla realtà interna, e non considera dunque come interpretazioni quegli interventi che un
terapeuta può fare rispetto all’ambiente dell’individuo (per esempio quando il terapeuta fornisce
un’interpretazione relativa al comportamento di un familiare del paziente).
4. L'ultimo raggruppamento di interventi a disposizione del terapeuta psicodinamico è costituito
dalle modificazioni dei parametri di tecnica. Tale espressione si ispira alla concettualizzazione di
Eissler (1953), secondo il quale, con alcuni pazienti e in particolari momenti della terapia in cui l'lo
del paziente non può sostenere la situazione analitica standard, il terapeuta può modificare alcuni
aspetti della sua tecnica (per esempio frequenza delle sedute, posizione vis-á-vis ecc.). Tale
modificazione però: a) deve essere messa in atto solo quando la tecnica di base è risultata
inefficace; b) deve essere attuata il minimo indispensabile; c) deve condurre alla sua auto-
eliminazione.
Un altro modo di classificare le tecniche terapeutiche, adoperato da Gabbard prevede la loro
collocazione lungo un continuum che va da un polo espressivo a uno supportivo.
Quanto più un intervento è vicino al polo supportivo tanto più sarà volto a rafforzare le difese del
paziente; viceversa, gli interventi più vicini al polo espressivo si caratterizzeranno per una
maggiore messa in discussione del funzionamento difensivo e saranno volti a individuare significati
nascosti dietro le libere associazioni del paziente.
Un'altra tassonomia degli interventi psicodinamici, nata nel contesto dei working parties della
Federazione europea di psicoanalisi (FEP), raggruppa le attività del terapeuta in sei tipołogie.
1. Interventi volti a mantenere un setting. Essi hanno lo scopo di mantenere le condizioni di base
del setting stabilite a inizio trattamento con il contratto terapeutico, conservando la situazione
analitica adeguata agli scopi terapeutici.
2. Interventi che aggiungono elementi discorsivi allo scopo di facilitare il processo inconscio.
Mirano a incoraggiare le libere associazioni e i collegamenti spontanei da parte del paziente, in
cui spesso il terapeuta sottintende altri significati (per esempio, il terapeuta ripete l'ultima parola
detta dal paziente con una certa enfasi).
3 Domande, chiarificazioni e riformulazioni. Questi interventi mirano a rendere consci alcuni temi
del materiale psichico del paziente. Vengono qui raccolti interventi del terapeuta del tipo "A cosa
sta pensando?" oppure riformulazioni "Quindi mi sta dicendo che...”.
4. Interventi intesi a disegnare il qui e ora emotivo e fantastico dello scambio con l'analista.
Questo gruppo include gli interventi del terapeuta che si focalizzano sulla dimensione transferale
(interpretazione di transfert).
5. Costruzioni finalizzate a fornire significati elaborati ai fatti clinici.
6. Reazioni improvvise ed eccessive che non è possibile mettere in relazione con il metodo o lo
stile abituale dell'analista. Questo insieme raccoglie gli interventi che non appartengono al
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bagaglio tecnico dell'analista e che sembrano più rappresentare delle reazioni di quest 'ultimo alla
particolare situazione terapeutica.
Un aspetto da tenere in considerazione nel descrivere le attività del terapeuta riguarda la
dimensione psichica del paziente cui l'intervento si rivolge. in generale un intervento del terapeuta
può essere rivolto a uno o più dei seguenti aspetti.
- La relazione terapeutica e il qui e ora; 
- Le altre relazioni;
- I meccanismi di difesa;
- Le resistenze;
- Le credenze patogene;
- Gli effetti;
- Le dinamiche e la storia di sviluppo.
Un particolare oggetto degli interventi prevede che le interpretazioni debbano essere rivolte
anche al modo in cui il paziente ha reagito a un precedente intervento del terapeuta. 
Sistematizzare gli interventi del terapeuta prendendo in considerazione il contenuto psichico al
quale si rivolgono può aiutare a differenziare meglio le tipologie di comunicazioni dell'analista che,
seppur uguali per forma (per esempio l'interpretazione), si differenziano per il contenuto (per
esempio un'interpretazione indirizzata alle difese si differenzia da una di transfert) e che secondo
le indicazioni di Gabbard o del gruppo di lavoro della FEP andrebbero rubricate sotto la medesima
categoria A questo proposito è utile ricordare l'importante lavoro di sistematizzazione svolto da
Merton Gill (1954; 1982), il quale ha distinto le interpretazioni di transfert dalle interpretazioni
che non fanno alcun esplicito riferimento al transfert. All'interno della categoria "interpretazioni di
transfert” si possono distinguere le seguenti tipologie di interpretazioni.
1. Interpretazioni alla presa di coscienza del transfert.
2. Interpretazioni della resistenza alla risoluzione del transfert, che si suddividono a loro volta in:
a) interpretazioni di transfert nel qui e ora: "Lei crede che mi senta a disagio a causa del desiderio
omosessuale che prova nei miei confronti";
b) interpretazioni transferali genetiche: "La sua idea che io la critichi sempre ci riporta a quello che
secondo lei era l'atteggiamento di suo padre nei suoi confronti".
Riguardo le interpretazioni che non fanno alcun esplicito riferimento al transfert, distingue invece
due classi.
1. Interpretazioni contemporanee, volte unicamente a un'altra relazione interpersonale del
paziente: "Deve aver sentito gelosia quando sua moglie gliel'ha detto".
2. Interpretazioni genetiche, che si riferiscono a una situazione extratransferale legata allo
sviluppo: "Forse quando è nato suo fratello lei ha temuto che sua madre non la amasse più".

2. Interventi e livelli di funzionamento 


Ogni qualvolta si affronta il tema degli interventi del terapeuta ci si deve confrontare con delle
questioni tecniche che riguardano il quando, il come e il cosa dire. Tali questioni assumono
particolare rilevanza nel momento in cui lavoriamo con pazienti con disturbi di personalità e
problematiche identitarie, pazienti spesso gravemente traumatizzati e con significative
difficoltà nella mentalizzazione. 
In letteratura esistono almeno tre approcci tecnici. Secondo un ristretto numero di autori, il
trattamento psicoanalitico standard può essere applicato anche a pazienti di tipo borderline.
Alcuni ritengono che tale approccio possa essere applicato a tutto il range di pazienti dello spettro
borderline. Altri autori ritengono invece che il trattamento standard possa essere applicato con
successo esclusivamente a una ristretta porzione di pazienti borderline, caratterizzati da un miglior
funzionamento.
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Una posizione rilevante è quella di Kernberg, che propone un uso sistematico e precoce
dell'interpretazione di transfert all'interno di un setting che  prevede regole e limiti ben definiti, al
fine di poter gestire tutti quei momenti  in cui l'impulsività del paziente potrebbe mettere a rischio
il trattamento stesso.  
La maggior parte degli autori, anche coloro i quali hanno sostenuto un trattamento altamente
espressivo con pazienti borderline, ritengono, in disaccordo  con Kernberg, che un lavoro
interpretativo precoce, e un maggior orientamento allo svelamento di significati inconsci profondi,
sia inutile se non addirittura dannoso con questa tipologia di pazienti, e che sia richiesta invece
una prima fase che faccia ampio utilizzo di tecniche supportive, al fine di stabilire  una solida
alleanza con il terapeuta.
Nel complesso panorama contemporaneo, è possibile rintracciare alcune linee generali e comuni.
Molti autori riconoscono l'assoluta rilevanza del livello procedurale dell'incontro clinico rispetto a
quello dichiarativo nel trattamento, soprattutto nel caso di pazienti borderline. Il valore degli
interventi risiede dunque nel loro configurarsi come momenti di riconoscimento tra  paziente e
terapeuta.
I diversi approcci tecnici sopra esposti possono essere ricondotti a differenti  livelli dell'intervento
del terapeuta. Secondo la Alvarez (2012), per esempio, è possibile distinguere tre livelli
d'intervento: esplicativo, descrittivo e livello degli interventi di richiamo/vivificanti. Questi
interventi richiedono differenti processi psicologici, corrispondenti a tre differenti stati della
mente, per essere usati terapeuticamente dal paziente:
- Il livello esplicativo include interventi riconducibili all'interpretazione in  senso freudiano o
kleiniano, il cui obiettivo è quello di fornire al paziente un significato alternativo. Le interpretazioni
rivolte a qualche cosa che è stato rimosso (Freud) o scisso e proiettato (Klein) hanno l'obiettivo
di sostituire un significato con un altro, il conscio con l'inconscio, il disconosciuto col riappropriato,
e tendono a rispondere alla domanda "Perché?” Questi interventi per essere utilizzati
terapeuticamente richiedono che il paziente non si trovi in uno stato della mente di tipo
psicopatico, borderline o psicotico e implicano la capacità di pensare "a doppio binario
(Bruner, 1968) o, in altri termini, di avere una "visione binoculare" (Bion) e aver raggiunto un
livello di sviluppo psichico che consenta di lavorare simbolicamente.
- Il livello descrittivo si basa sul presupposto che alcune identificazioni del  paziente abbiano lo
scopo di comunicare l'esperienza al terapeuta piuttosto  che di difendersi da essa. Ciò si traduce in
un atteggiamento dell'analista più contenitivo e meno interpretativo; gli interventi avranno
dunque l'obiettivo di riconoscere l'esperienza affettiva in corso e di ampliare i significati nella
comunicazione piuttosto che delinearli (e limitarli) con interpretazioni più strutturate o sature, al
fine di supplire alla "incapacità di farsi domande" (Alvarez, 2012, trad.). Questi interventi tendono
a rispondere alla domanda "Che cosa? e   andrebbero usati con pazienti che si trovano nell'area
borderline, che hanno difficoltà ad accedere a una visione binoculare e che intendono
prevalentemente la realtà secondo la loro prospettiva soggettiva e in termini concreti.
- Nel terzo livello si collocano gli interventi di richiamo/vivificanti, e sono interventi che hanno lo
scopo di segnalare al paziente l'esistenza di un'esperienza. Sono interventi che non
collocano/attribuiscono uno stato a qualcuno dei partecipanti (paziente o terapeuta), ma ne
segnalano l'esistenza nel campo intersoggettivo. Al livello degli interventi di richiamo/vivificanti la
situazione del paziente non è nemmeno di un lo debole o deficitario, né sembra di trovarsi
all'interno di una dimensione di attaccamento traumatico, quanto piuttosto nella dimensione di
"mancanza di attaccamento" (Alvarez, 2012; TAB. 2).
Quando si parla di "livello di funzionamento" del paziente a proposito del tailoring dell'intervento,
va precisato che si deve tenere in considerazione sia  un livello di funzionamento di tratto,
tendenzialmente stabile nel tempo, che caratterizza il funzionamento di un individuo ed è
87
riconducibile a delle categorie diagnostiche (per esempio, livello di personalità nevrotico,
borderline ad alto funzionamento, borderline a basso funzionamento e psicotico), sia  un livello di
funzionamento di stato, caratterizzato da mutabilità e  oscillazioni anche nel corso della stessa
seduta, riconducibile al concetto di  stato della mente. Considerare il funzionamento di un
individuo tenendo a mente questi due aspetti permette di diversificare le domande da un punto  di
vista tecnico. Non ci chiederemo più che livello d'intervento tenere con  un paziente borderline, ma
che livello d'intervento adottare con un paziente borderline che in quel momento della seduta è in
uno stato della mente di tipo psicotico, piuttosto che di tipo nevrotico. Questa differenziazione  si
basa sull'assunto che anche pazienti gravi possono in alcuni momenti di  una seduta lavorare a
livelli di funzionamento più elevati e quindi accogliere interventi più complessi (Steiner, 1993).
Da una prospettiva diversa, ancorata alla ricerca empirica, altri autori, tra i quali Despland hanno
proposto di individuare il livello d'intervento adeguato rapportando il  grado di espressività degli
interventi del terapeuta al livello di funzionamento difensivo del paziente (adjustment ratio;
Despland et al., 2001). Secondo gli autori l'adjustment ratio ottimale si ottiene quando il livello
medio di espressività degli interventi del terapeuta durante  una seduta è pari al corrispondente
livello di funzionamento difensivo medio del paziente: per esempio, con pazienti che funzionano
mediamente secondo delle difese di tipo narcisistico, il grado medio dell'espressività degli
interventi del terapeuta si dovrebbe collocare attorno al livello della chiarificazione.
Le ricerche empiriche però hanno fornito dati discordanti rispetto all 'adjustment ratio ottimale:
alcune suggeriscono che al fine di rafforzare l'alleanza terapeutica sia preferibile un livello di
espressività lievemente più basso rispetto a quello suggerito da Despland, mentre altre
suggeriscono come un livello d'intervento lievemente al di sopra del funzionamento difensivo del
paziente si associ a cambiamenti  nella seduta e nel corso del trattamento al funzionamento
globale del paziente stesso. In altre parole, i dati sembrano suggerire che il livello ottimale
dell'intervento del terapeuta rapportato al funzionamento del paziente occupi un range che va da
interventi lievemente al di sotto del funzionamento difensivo medio, che sembrano maggiormente
incidere sull'alleanza terapeutica, a interventi che si collocano al livello difensivo del paziente o
appena al di sopra di esso e che sembrano agire maggiormente sugli aspetti strutturali. Il rapporto
tra interventi e funzionamento del paziente, quindi, può essere forse meglio compreso prendendo
a prestito il concetto di zona di sviluppo prossimale (Vygotskij, 1973), intesa come la distanza tra il
livello di sviluppo attuale e il livello di sviluppo potenziale del paziente. Secondo questa prospettiva
l'espressività degli interventi dovrà cadere all'interno di questa zona, al fine di poter generare un
cambiamento terapeutico. Potranno così essere differenziati interventi più vicini rispetto allo stato
attuale dell’Io del paziente e interventi più vicini allo stato potenziale. Interventi che andranno
oltre questi due limiti potranno non avere effetti o addirittura avere un effetto iatrogeno.

3. L’interpretazione: una breve storia 


Il termine ha assunto differenti significati nel corso del tempo e si è via via profondamente
modificato rispetto alla definizione originaria di Freud. 
Ritornando alle origini del suo uso in psicoanalisi, Freud ha utilizzato il termine Deutung,
considerato più come sinonimo di spiegazione e chiarificazione,  e con esso non si limitava a
indicare ciò che il terapeuta diceva al paziente  ma includeva anche ciò che l'analista aveva
compreso ma che non necessariamente era stato oggetto di comunicazione.  Viene considerata lo
strumento che mette in luce le modalità del conflitto difensivo ed è rivolta al desiderio che viene
espresso in ogni produzione dell’inconscio.
Va segnalato che lo stesso Freud aveva espresso dubbi sulla pertinenza del  termine scelto da lui e
da Breuer, poiché rimandava eccessivamente all'idea che vi fosse un significato univoco dietro le
associazioni dei pazienti. È in questo contesto che Freud inizia  a preferire il termine costruzione,
88
più aderente al compito dell'analista di  costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che
di esso sono rimaste.
Secondo Freud l'interpretazione si riferisce generalmente a un singolo elemento del materiale,
come un atto mancato, un sogno o una libera associazione, mentre con il termine costruzione
tende a descrivere degli interventi che comprendono un frammento più ampio della vita del
paziente. 
Sicuramente uno dei capisaldi della letteratura rispetto all'interpretazione è rappresentato dal
lavoro di Strachey (1934) sull'azione terapeutica della psicoanalisi, secondo cui il meccanismo
terapeutico fondamentale della psicoanalisi risiede nell' interpretazione di transfert, che viene
definita "mutativa" in quanto capace di modificare la struttura e il funzionamento del paziente.
Nel corso del trattamento deve infatti avvenire una forma di incorporazione del Super-lo del
terapeuta e una conseguente trasformazione del Super-lo del paziente. Ciò avviene anche grazie al
setting, all’interpretazione e all’atteggiamento dell’analista. Ma il processo di trasformazione può
avvenire. Solo grazie all'interpretazione mutativa, la quale si articola in due fasi. Nella prima il
paziente diviene cosciente di una pulsione attraverso il riconoscimento di uno stato di
tensione: tale consapevolezza avviene generalmente in seguito all'interpretazione delle difese, che
ha l'obiettivo di mobilitare l'angoscia del paziente. Nella seconda fase, invece, attraverso
l'interpretazione di transfert, l'analista cerca di aiutare il paziente a divenire consapevole del fatto
che i suoi impulsi, apparentemente diretti verso l’analista, in realtà sono indirizzati a un oggetto
arcaico fantastico e non reale. 
Sebbene il lavoro di Strachey abbia costituito una pietra miliare nella
concettualizzazione dell'interpretazione, sono stati in realtà la Klein, Anna  Freud e Winnicott a
gettare i semi di gran parte delle teorie e controversie successive.
Lo stile interpretativo proposto dalla scuola kleiniana, influenzato in gran parte dal lavoro con i
bambini, si configura soprattutto in opposizione ai contributi di Anna Freud prima e della
psicoanalisi dell'lo poi, e contempla:
a) un utilizzo precoce e frequente delle interpretazioni di transfert con conseguente grande
attenzione al qui e ora della relazione terapeutica;
b) un focus sulle disposizioni emotive negative del paziente nei confronti  dell'analisi e dell'analista;
c) l'utilizzo esclusivo dello strumento interpretativo al fine di contenere e  modulare I’angoscia del
paziente;
d) l'impiego di interpretazioni rivolte all'effetto che l'interpretazione  precedente aveva avuto sul
paziente: la Klein, infatti, interpretava prima  la fantasia messa in atto e poi l'ansia che questa
interpretazione produceva nell'individuo. 
L'interpretazione dell'analista non è una ricostruzione del passato, ma un continuo commento
della fantasia dinamica attuale. L'obiettivo dell’interpretazione passa dalla ricostruzione a un
costante commento rispetto all'interazione, dal passato al presente e dall'esterno all'interno della
relazione analitica.
La logica temporale freudiana, per cui il presente era un veicolo per comprendere il passato, viene
invertita: nella Klein, il passato diviene un veicolo per comprendere il presente. Il contributo di
Anna Freud rappresenta la naturale continuazione di alcuni degli ultimi sviluppi della teoria
freudiana.
Anna Freud, a differenza della Klein, rifiuta una concezione estensiva del transfert e riconosce la
possibilità di porzioni dell'lo del paziente libere da  conflitti alle quali allearsi ai fini della cura. Lo
strumento interpretativo, che viene proposto con minor frequenza e maggior cautela rispetto al
modello kleiniano, viene indirizzato maggiormente alle difese e alle resistenze del  paziente. Il
compito dell'analista è di riconoscere innanzitutto il meccanismo di difesa. Fatto questo, egli ha
compiuto una parte dell'analisi dell'Io. Suo compito successivo è di demolire l'opera di questo
89
sistema difensivo, e cioè scoprire e reintegrare il rimosso,  rettificare gli spostamenti e riportare nel
suo vero contesto ciò che è stato isolato).
Le interpretazioni, diversamente dal modello kleiniano, che predilige interventi profondi, devono
essere il più possibile vicine all'esperienza del paziente e devono partire dagli strati più superficiali
e spiegare la struttura delle difese
La funzione dell'interpretazione con Winnicott si sposta dalla sfera della conoscenza a quella  del
legame: l'interpretazione viene riletta alla luce dei fenomeni transizionali  ed esprime una
partecipazione collaborativa oltre che un contenuto, poiché <<non  è l'accuratezza
dell'interpretazione, quanto la volontà dell'analista di aiutarlo, la sua capacità di identificarsi con il
paziente>» a essere importante (Winnicot).
Per Winnicott gli interventi del terapeuta sono assimilabili ai segni grafici che l'analista può fare nel
gioco bilaterale e mutuo dello scarabocchio con i bambini. Secondo questo modello,
l'interpretazione e il disegno congiunto sono un prodotto emergente dallo spazio transizionale. Lo
spazio transizionale è da intendersi come spazio creativo in cui il terapeuta dà al paziente la
possibilità di esprimersi creativamente e non qualche cosa che va dal terapeuta al paziente.
L'interpretazione, intesa come qualche cosa che viene data dall’analista, può infatti facilmente
assumere i connotati di un'intrusione. Winnicott suggerisce dunque a ogni terapeuta «di dare
spazio alla capacità del paziente di giocare, cioè di essere creativo  nel lavoro analitico. La creazione
del paziente può essere in verità facilmente rubata dal terapeuta che ne sa troppo» (Winnicot.
Emerge fortemente la differenza con il modello kleiniano: Winnicott propone un lavoro in cui
l'interpretazione è meno assidua, tanto da raccomandare <<a ogni terapeuta di dare spazio alla
capacità del paziente di giocare, cioè di essere creativo nel lavoro analitico>> anche attraverso un
astenersi per lunghi periodi dalle interpretazioni, che verrà ricompensato quando <<la paziente
fa lei l'interpretazione, forse un'ora o due più tardi>>.

3.1. Sviluppi successivi 


Mentre nella tecnica classica le interpretazioni vertevano sulla decodifica del testo delle libere
associazioni dell'analizzando, Betty Joseph (1999) ha sostenuto l'idea che le
interpretazioni dovessero rivolgersi al processo terapeutico, cioè al clima emotivo presente  tra
analizzando e analista. Secondo lei il clinico ci si deve concentrare sulla natura della relazione
oggettuale vissuta nella stanza d’analisi e quindi su ciò che è vissuto nel transfert.
Le teorizzazioni di Ogden (1997) e Ferro (1999) hanno significativamente contribuito al
cambiamento nel modo di interpretare, favorendo uno stile  che viene definito "meno saturo". Con
questa espressione si è soliti identificare quegli interventi del terapeuta che non definiscono in
modo completo il significato delle comunicazioni del paziente. Questo stile si basa
sulla concettualizzazione bioniana del funzionamento psichico, la quale prevede che l'attività del
pensare, quando non è presente una sofferenza patologica, si caratterizzi per creare legami
continui e flessibili tra i pensieri che emergono. Gli interventi insaturi dell'analista nascono con
l'esigenza di creare legami tra questi pensieri e d'altra parte di favorire il medesimo processo
mentale nel paziente.
Un ruolo fondamentale in questa prospettiva interpretativa viene svolto dal doppio registro
contenitore/contenuto.
In quest 'ottica, il termine "contenitore” definisce un processo intersoggettivo all'interno del quale
deve essere mantenuto un equilibrio tra contenuto e contenitore stesso, tra Sé e l’altro, tra senso
compiuto e indefinito. Tale processo, e con esso la funzione di contenimento, rimane vivo grazie
agli interventi insaturi del terapeuta, che lasciano uno spazio, una possibilità di legame “altra" al
paziente.

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L'interpretazione non deve dunque avere l'obiettivo di dare un senso al paziente, bensì di allargare
i possibili significati di senso. 
Uno dei contributi più originali proviene da Christopher Bollas, il quale ha posto l'accento
sull'esperienza dell'interpretazione ancor più che sulla conoscenza derivante da essa.
L'esperienza che propone Bollas è derivata anche da quella che egli chiama  "dialettica della
differenza" che si esprime attraverso il fatto che l'analista è  incoraggiato, in alcune circostanze (per
esempio momenti di impasse o con pazienti gravi), a utilizzare in maniera espressiva il proprio
controtransfert: per esempio, condividendo con il paziente il modo in cui è arrivato a compiere
una determinata interpretazione o le proprie associazioni al fine di facilitare il processo associativo
del paziente stesso. Tale autosvelamento appare la naturale conseguenza dell'idea di Bollas di
sofferenza psichica, che si basa anche sull'impossibilità di un individuo di alternare in maniera
dialettica un rapporto con il proprio Sé come soggetto e oggetto. In altre parole, se l'obiettivo del
processo analitico deve essere quello di far entrare in relazione due soggetti all'interno della
stanza d'analisi, questo richiede che il terapeuta debba mostrarsi anche come soggetto e non solo
come oggetto di proiezioni.
Nella sua teorizzazione sul processo analitico Bollas (2013) critica aspramente la teoria della
tecnica kleiniana, centrata esclusivamente su interpretazioni nel qui e ora. Secondo lui
l'interpretazione di transfert, così come concettualizzata nel modello kleiniano, non sarebbe uno
strumento terapeutico bensì una resistenza dell'analista al processo di libere associazioni del
paziente. Un'interpretazione sistematica del transfert, nel continuo riferimento alla situazione
analitica andrebbe a limitare il range dei possibili significati inconsci delle comunicazioni e delle
libere associazioni del paziente, determinando una chiusura dell'esplorazione e risultando in una
forma di resistenza sistematica messa in atto dal terapeuta. 

3.2. La posizione relazionale 


Con il passaggio da una prospettiva monopersonale a una bipersonale e la  crescente influenza di
autori di matrice relazionale, interpersonale e intersoggettiva, lo statuto dell'interpretazione è
andato incontro a una profonda rivisitazione teorica. 
La rilettura della relazione terapeutica in termini intersoggettivi determina  delle importanti
conseguenze nella modalità di concepire gli interventi del  terapeuta. Tale prospettiva vede gli
interventi del terapeuta come un prodotto emergente del campo interpersonale e in quanto tale
non può essere predetto. Essi non possono essere considerati forniti da una  posizione neutrale, in
quanto saranno essi stessi sia il prodotto dell'influenza  del paziente sull'analista che espressione
della soggettività dell'analista.
L'asimmetria nella relazione terapeutica viene riconosciuta ma chiaramente distinta dalla
dimensione di mutualità dell'esperienza. L'asimmetria è una dimensione che riguarda la similarità
o differenza tra paziente e analista rispetto ai loro ruoli e funzioni all'interno della situazione
analitica, mentre la mutualità è una dimensione che si riferisce alla reciprocità dell'interazione e
dell'esperienza. Ritenere che gli interventi siano anche espressione della soggettività del terapeuta
non vuol dire negare l'asimmetria della relazione di cura, bensì riconoscere la mutua influenza tra i
partecipanti all'interazione.
Secondo tale prospettiva, gli interventi del terapeuta devono essere considerati sia per il loro
contenuto ma anche dal punto di vista pragmatico  e procedurale, poiché si configurano come degli
atti relazionali complessi. Essi assumono un valore che va ben oltre il  loro contenuto e
rappresentano il processo mediante il quale gli analisti si collocano e si ricollocano dal punto di
vista interpersonale in relazione ai loro pazienti.
Il collocarsi e ricollocarsi continuo e reciproco di paziente e terapeuta può essere inteso come un
processo di negoziazione tra i due partecipanti. 
91
La prospettiva relazionale si concentra sull’interpretazione intesa in termini di esperienza sia del
paziente che del terapeuta e sulla continua negoziazione di questa esperienza all’interno
dell’esperienza intersoggettiva dei due nel qui e ora della relazione.

3.3. Intersoggettività e ascolto analitico 


L'attenzione a una dimensione intersoggettiva dell'esperienza ha contribuito a incrementare la
sensibilità dei terapeuti rispetto al delicato rapporto tra interventi e strutturazione identitaria dei
pazienti. Numerosi autori, a partire da prospettive teoriche diverse suggeriscono l'idea che quando
diciamo qualche cosa ai pazienti stiamo implicitamente proponendo delle definizioni rispetto alla
loro identità: le interpretazioni possono essere lette anche come tentativi di costruire il Sé del
paziente piuttosto che di scoprirlo e rispecchiarlo.
La finalità degli interventi del terapeuta si sposta così da conoscere attraverso l'interpretazione e
fare esperienza del processo interpretativo  al sopravvivere come soggetto in relazione a un  altro
soggetto. Il compito del terapeuta attraverso i suoi interventi è di mantenere vivo il  paradosso (per
es. soggetto/oggetto, autonomia/dipendenza, spiegare/fare esperienza), la tensione dialettica, al
fine di permettere al paziente di fare un’esperienza autentica e vitale e di sopravvivere come
soggetto nella relazione. La sopravvivenza è un processo interpersonale.
Dobbiamo chiederci allora quando e perché il terapeuta si allontana da questo processo, quando
non sopravvive. La non sopravvivenza dell'analista si, manifesta generalmente attraverso
interpretazioni "sature”, "dogmatiche", interpretazioni "propaganda" come le definiva Winnicott,
interpretazioni in cui il terapeuta "sa del mondo interno del paziente', che lasciano al paziente solo
la possibilità di accettarle o rifiutarle (Winnicott).
La non sopravvivenza è il risultato di un ascolto da parte del terapeuta che non riesce a fare
affidamento sulla sua “capacità negativa”, come sostiene Bion. Egli utilizza questa espressione per
riferirsi allo stato mentale che lo psicoanalista dovrebbe raggiungere per venire in contatto con la
verità emotiva sconosciuta di quel momento. L'analista dovrebbe essere in grado di stare in
un'attesa che non sia carica di aspettative, ma nemmeno passiva: è un'attesa ricettiva ai diversi
livelli di comunicazione verbali e non verbali, consci e inconsci, del paziente e personali.

4. Self-discolosure
Una questione importante riguarda la definizione del termine "self-disclosure”, che può essere
usato in una sua versione allargata per indicare l'insieme  delle comunicazioni (verbali e non) del
terapeuta che rivelano qualche cosa  relativamente alla sua persona. Altri autori preferiscono  una
definizione più ristretta, che esclude le self-disclosure non verbali (per  esempio indossare una fede
nuziale), ma anche le selfdisclosure relative al qui  e ora, in cui il terapeuta rivela la propria
esperienza della relazione con il paziente, che nella letteratura più recente, soprattutto empirica,
sono ricollegabili al concetto di "immediacy".
Secondo Colli è utile a fini didattici escludere dal concetto tutti gli aspetti non espliciti della
comunicazione, che sembrano avere funzioni, conseguenze e caratteristiche diverse dalle
comunicazioni esplicite, e considerare come self-discolosure qualsiasi espressione verbale,
volontaria o meno, inerente a sentimenti o informazioni riguardanti il terapeuta.
All’interno di questa definizione è possibile distinguere le self-disclosure in:
- autobiografiche, che fanno riferimento a tutte quelle comunicazioni del  terapeuta rispetto alla
propria vita (età, relazioni affettive, esperienze del passato, hobby, preferenze, orientamento
ecc.);
- controtransferali (dette anche self-disclosure legate all'immediacy) nelle quali il terapeuta
comunica al paziente i propri vissuti rispetto alla relazione  terapeutica, le proprie libere
associazioni ecc.
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Tra le self-disclosure controtransferali possiamo includere le seguenti:
- Self-disclosure in cui il terapeuta comunica uno stato affettivo riferito al  paziente: "Spesso con lei
mi sento come se camminassi sulle uova”. 
- Comunicazioni su uno stato affettivo generale non direttamente riferito  al terapeuta. Per
esempio, alla domanda diretta del paziente il terapeuta risponde: "Si, oggi sono un po' stanco".
- Self-disclosure rispetto alle proprie libere associazioni: "Prima le ho detto quella cosa perché
nella mia mente si è messa insieme l'immagine di lei bambino e quello che mi ha raccontato
appena è entrato in seduta”.
- Self-disclosure rispetto a errori commessi: "Adesso che mi dice queste cose mi viene da pensare
che quello che le ho detto prima era una vera e propria scemenza”.
- Self-disclosure rispetto a propri conflitti, che Hoffman (1992) definisce interventi "voglio dirle X
ma ho paura di Y": "A volte vorrei dirle come la penso e provare a darle un punto di vista
differente sulle cose che racconta e penso che questo potrebbe aiutarla, ma al tempo stesso temo
che lei possa risentirsene e ritirarsi”.
Per quanto riguarda l’utilità, molti detrattori sostengono che in generale questi interventi possono
inibire l'espressione del transfert o comunque distogliere l'attenzione da una sua elaborazione : un
terapeuta che risponde alla domanda del paziente se sia stanco o meno può in qualche modo
spostare l'attenzione dałl'analisi della dimensione transferale ("Come vive il fatto che le sembro
stanco?") Le self disclosure, inoltre, complicano ulteriormente il quadro analitico, rendendo
ancora più difficoltose per il terapeuta poter riconoscere gli elementi transferali del paziente: se il
transfert è distorsione della realtà, includere nel campo le comunicazioni personali del terapeuta
può rendere ancor più difficoltoso distinguere la distorsione dalla realtà interpersonale.
Pazienti adesivi, con evidenti problematiche nella capacità di riconoscere i propri stati interni e
uno sbilanciamento verso l'altro, possono chiedere con insistenza al terapeuta cosa egli pensa, ma
rispondere, tuttavia, potrebbe alimentare questa configurazione patologica e allontanare
l'esplorazione del mondo interno del paziente.
Al tempo stesso, però, il non rispondere o negare delle evidenze può favorire una situazione
caricaturale della scena analitica e andare a inficiare la scarsa sicurezza che molti pazienti hanno
rispetto alla capacità percettiva della mente propria e altrui, favorendo un processo di
invalidazione caratteristico per esempio dei pazienti borderline. Alcune self-disclosure di tipo
autobiografico (per esempio comunicare al paziente un comune interesse) possono avere
un'importante influenza sul senso di condivisione del paziente, soprattutto qualora lo stesso abbia
una personalità di tipo schizoide, che difficilmente lo fa sentire come appartenente al mondo
delle relazioni.
Le self-disclosure centrate sui processi associativi del terapeuta possono  mostrare dal vivo al
paziente un processo creativo, un modo di usare la  mente che in molti è "congelato". Al tempo
stesso, questo mostrarsi come soggetti e oggetti stimola una dialettica della differenza all'interno
del processo terapeutico. Questa posizione potrebbe però essere interpretabile come il frutto del
narcisismo del terapeuta e del suo bisogno di  essere al centro del processo terapeutico,
comunicando i processi mentali, le immagini o gli stati affettivi che l'hanno condotto a quella
specifica interpretazione.
Un altro tipo di self-disclosure riguarda quei casi in cui il terapeuta ammette un errore,  riconosce
le proprie difficoltà rispetto alla comprensione del paziente oppure  esplicitamente dice di non
essere più in accordo con qualche cosa che aveva  affermato: in generale questi interventi aiutano
il paziente a vedere il terapeuta come un essere umano, a ridurre in sé la sensazione di sentirsi
l'unico sbagliato e dotato di conflitti, può. trasmettere inoltre un grande senso di libertà rispetto
alla possibilità di sbagliare.

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Un altro punto spesso dibattuto è rappresentato dalla spontaneità o meno delle self-disclosure.
Alcuni sostengono che non possono in alcun modo essere tecnicizzate e che quindi sono utili solo
quelle spontanee e non quelle che il terapeuta volontariamente comunica al paziente: altri autori
invece, pur riconoscendo l'importanza delle self-disclosoure volontarie tanto da stilare una serie di
principi al loro utilizzo, riconoscono che anche le self-disclosure non volontarie possono essere
utili. Da questo punto di vista l'argomento assai complesso, poiché prende in causa il problema
di quanto sia realmente libero il terapeuta e quanto la comunicazione di una self-disclosoure sia
riconducibile a un'espressione di volontà da parte del terapeuta. Partendo dal presupposto che
ogni comunicazione è un atto, e che paziente e terapeuta partecipano attivamente alla costruzione
di una trama narrativa, tutte le self-disclosure sono un prodotto di questa matrice e definirne
alcune come "volontarie" appare problematico. Possiamo tuttavia distinguere tra self-disclosure in
cui la dimensione di controllo da parte del terapeuta è assai ridotta, che fanno riferimento a
informazioni che escono dalla bocca del terapeuta, e self disclosure in cui il controllo volontario da
parte del terapeuta è maggiore, nelle quali il terapeuta sembra dire "adesso rivelo questa
informazione al paziente".
Una self-disclosure non volontaria avrà il pregio di suonare più autentica agli occhi dei pazienti,
generalmente molto sensibili rispetto al fatto che ciò che viene detto loro sia espressione di un
dovere professionale, una questione tecnica. 

L’interpretazione dei sogni (Cap 11 - Colli)

1. Freud e il sogno come “via regia” per l’inconscio 


È soprattutto grazie alla comprensione del sogno che Freud può definire il funzionamento psichico
come basato su due diversi processi, il processo primario e il processo secondario. Il processo
primario è un funzionamento psichico caratterizzato dalla libera circolazione
dell'energia, dall'assenza di contraddizione e da fenomeni per cui le rappresentazioni e il loro
valore psichico possono essere scambiati, mescolati o condensati. Sono questi gli aspetti peculiari
dell'inconscio, cui fa da contraltare il processo secondario, tipico del funzionamento cosciente,
caratterizzato da pensiero vigile, attenzione, ragionamento, contraddizione, giudizio. Il processo
primario di pensiero è soggetto al principio di piacere, che mira al soddisfacimento immediato

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attraverso l'abbassamento della tensione, mentre il processo secondario segue il principio di
realtà, che mira a rinviare tale soddisfacimento in funzione dell'adattamento alla realtà esterna.
Freud mostra come nel sogno siano molto più osservabili i fenomeni del processo primario di
pensiero e quindi il rapporto tra funzionamento inconscio e funzionamento conscio della mente. I
sogni rappresentano la «via regia che porta alla conoscenza dell'inconscio nella vita
psichica (Freud) e sono portatori di un significato da svelare.
Il sogno sancisce - insieme alle libere associazioni - l’abbandono dell’ipnosi e la nascita della
psicoanalisi. il passaggio dall’ipnosi al sogno risulta fondamentale per permettere una reale
comunicazione tra il conscio e l’inconscio, che rappresentano due diversi di funzionare della
mente.

1.1. Il motore del sogno: l’appagamenti del desiderio 


Per Freud il sogno è l'appagamento mascherato di un desiderio represso, rimosso. Questa è la sua
prima funzione.
Durante lo stato di sonno all’apparato psichico si presentano delle spinte, cioè dei moti di
desiderio, tuttavia la loro abilità durante il sonno è più ridotta che nella vita diurna e per tale
ragione i moti di desiderio si traducono immagini e non in azioni motorie. Se non prendessero tale
via, secondo il dormiente accumulerebbe una tale tensione da richiedere un'azione motoria e si
sveglierebbe. Da ciò deriva la seconda funzione del  sogno, cioè quella di preservare la
continuazione del sonno.
Il desiderio inconscio, rimosso - che durante il sonno viene rappresentato con la formazione di
immagini - segue il principio del piacere. Così a livello conscio, anche a livello inconscio i desideri
subiscono l’effetto della censura, la quale opera per mascherare e rendere in qualche modo
accettabile la raffigurazione onirica di tali desideri inconsci.
La differenza tra lo stato di veglia e quello di sonno risiede nella minor forza della censura onirica
rispetto ai meccanismi di difesa della veglia e, quindi, nella maggiore raffigurabilità del processo
primario di pensiero, cioè dell'inconscio.
I desideri rimossi hanno spesso la propria origine nell’infanzia del soggetto e vengono rimossi per
la loro natura sessuale incompatibile con la coscienza, per cui spesso il desiderio rimosso risulta
essere un desiderio sessuale infantile.

1.2. La formazione del sogno: la regressione e il lavoro onirico


Freud definisce regressione il movimento che crea le condizioni del sogno, cioè un movimento che
dal polo motorio (azione) torna indietro (regredisce) al polo  percettivo (immagine). La regressione
è dunque il processo che, a causa della  riduzione di stimoli sensomotori della condizione di sonno,
consente la formazione di immagini. Vi sono tre tipi di regressione: regressione topica, cioè dalla
parola all'immagine; regressione temporale, cioè da aspetti psichici attuali a quelli più antichi;
regressione formale, cioè da espressioni più evolute a espressioni più primitive.
Freud spiega ulteriormente il processo di formazione delle immagini oniriche sostenendo che il
desiderio che ritorna al polo percettivo viene allucinato e (ricordiamo che l'allucinazione è una
percezione in assenza dell’oggetto-stimolo). In altri termini, l'immagine onirica è un'allucinazione
del desiderio che garantisce la realtà del suo appagamento. Egli sottolinea come il contenuto delle
immagini del sogno non venga pensato (pensiero verbale), ma trasformato in una <<somma di
immagini sensoriali e di scene visive>> (Freud, 1899).
Se l'appagamento allucinatorio del desiderio è mascherato dalla censura, al fine di renderlo
tollerabile alla coscienza, ne desumiamo che la scena onirica manifesta mascheri qualcosa di
sottostante. Infatti Freud distingue un contenuto manifesto del sogno da un contenuto latente e
definisce lavoro onirico il processo che consente la trasformazione del secondo  nel primo. Ciò vuol
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dire che il lavoro onirico è il processo di camuffamento del desiderio originario, inconscio, atto a
renderlo tollerabile alla coscienza. Il sogno manifesto è ciò che il sognatore ricorda, il sogno
latente è ciò che può essere interpretato. In ultima analisi, il sogno è una formazione di
compromesso, cioè una scena psichica che si forma per "mettere insieme" sia le
spinte dell'inconscio sia le regole della coscienza . Freud sostiene che anche il sintomo
psicopatologico è una formazione di compromesso fra istanze inconsce e consce, ma potremmo
dire che la differenza risiede nel fatto che il sogno possiede una sorta di maggiore libertà di
espressione dell’inconscio.

1.3. La formazione della scena del sogno: raffigurabilità, condensazione, spostamento, simboli
La scena del sogno è una formazione di compromesso e Freud descrive i principi attraverso i quali
tale scena si costituisce. In primo luogo si pone la questione della raffigurabilità visto che la
struttura del sogno è data da immagini sensoriali (l'elemento allucinatorio). La raffigurabilità è il
processo di base del lavoro onirico che segue la via inversa (regressione) rispetto a quella che
porta all’azione motoria. 
Freud sottolinea che a questo livello del processo non esistono nessi logici tra i vari elementi della
scena, poiché le connessioni logiche riguardano il pensiero verbale ma non quello sensoriale: la
negazione, i rapporti causali e la contraddizione non sono raffigurabili.
I pensieri, tradotti in immagini, coesistono uno accanto all'altro oppure vengono trattati da
particolari meccanismi. Il primo è la condensazione, meccanismo grazie al quale due o più
rappresentazioni vengono condensate in una (per esempio, l'immagine di una persona ignota che
è un condensato di caratteristiche di persone note). Il secondo meccanismo è lo spostamento,
attraverso cui una carica affettiva viene spostata dalla rappresentazione a cui era originariamente
legata a un'altra rappresentazione di minore rilevanza (per esempio, la rabbia nei confronti della
propria madre viene spostata sull'immagine di una estranea che è stata scortese). Infine, il terzo
fenomeno è la presentazione per simboli, in cui una rappresentazione rimanda a
un'altra rappresentazione secondo un rapporto di analogia formale (per esempio, un aereo che
atterra in una galleria che simboleggia una penetrazione sessuale).
Il funzionamento simultaneo di tutti questi meccanismi conferisce quindi  forma agli elementi della
scena onirica.

1.4. L'elaborazione secondaria e il racconto del sogno


L’elaborazione secondaria è il processo che crea nessi e completa la scena del sogno;
interconnette le immagini del sogno, che prima non erano fra loro interconesse da collegamenti
logici. Il punto centrale è che a qualunque immagine arrivi alla coscienza deve essere attribuito un
qualche significato, per cui questa elaborazione è secondaria rispetto al processo di formazione del
sogno e al lavoro onirico e segue le regole del processo secondario.
Il racconto del sogno da parte del sognatore determina un'ulteriore trasformazione della scena.
Spesso, durante il racconto di un sogno, il soggetto ricorda altri particolari della scena che non
aveva rammentato al risveglio, determinando quindi una continua, ulteriore trasformazione della
scena stessa. il sogno ricordato e raccontato dal sognatore rappresenta il sogno a partire dal quale
si lavora in psicoanalisi e in psicoterapia dinamica.

1.5. Rappresentazioni e affetti: un'eccezione all'appagamento del desiderio?


Il destino delle rappresentazioni, delle immagini raffigurate che costituiscono il sogno, è mobile e
variegato: esse sono continuamente spostate, condensate o usate come simboli. Tuttavia le
rappresentazioni vengono sempre legate  a degli affetti che le qualificano (per esempio, l'immagine
di un tramonto può evocare affetti piacevoli o spiacevoli). Freud sostiene che il destino degli affetti
96
è meno mobile rispetto a quello delle rappresentazioni. L'affetto può rimanere inalterato, essere
trasformato nel suo contrario oppure trasformarsi in angoscia.
Quest'ultimo è il meccanismo alla base dei sogni d'angoscia, nei quali una spinta sessuale
inaccettabile per la coscienza si trasforma appunto in angoscia. Anche i sogni di punizione sono
riconducibili al desiderio, «il desiderio cioè di una punizione inflitta al sognatore per un moto di
desiderio illecito, rimosso» (Freud, 1899).
Attraverso queste due tipologie di sogni, Freud tenta di mostrare quanto il contenuto onirico
manifesto possa essere distante dal contenuto latente e contemporaneamente di sostenere la sua
teoria dell'appagamento di desiderio.
Ciò che invece pone un problema a Freud sono i sogni traumatici, cioè quei sogni in cui il soggetto
rivive nel sogno un trauma subito, riproducendo una scena onirica sempre uguale e penosa. Pur
essendo l'esperienza traumatica un'esperienza non contenibile dalla mente e altamente
spiacevole, essa viene raffigurata nel sogno. Come può il sogno essere anche in questi casi
l'appagamento di un desiderio?
Il sogno traumatico risponderebbe non più al principio di piacere, ma alla coazione a ripetere, un
principio al di là del principio di piacere (teorizzato nel 1920) il cui scopo è di tentare di scaricare
una tensione incontenibile.

1.6. L’uso del sogno un trattamento: l’interpretazione 


Il lavoro interpretativo segue il percorso inverso rispetto a quello del  lavoro onirico. Esso si basa
anzitutto sul fatto che il sogno è interpretabile  all'interno della situazione clinica, sulla base delle
conoscenze che il clinico possiede sul paziente. D'altronde, se il sogno è l'appagamento di un
desiderio, esso può essere svelato solo a partire dalla storia e dalle caratteristiche del sognatore.
Un ruolo fondamentale è giocato dagli elementi infantili connessi alla storia del paziente, poiché i
desideri inconsci rimossi o repressi hanno spesso a che fare, secondo  Freud, con desideri sessuali
infantili non ritenuti accettabili dalla coscienza.
Oltre alla conoscenza che l'analista ha del suo paziente, altri elementi utili all'interpretazione sono
i residui diurni, cioè quelle esperienze recenti che  hanno preceduto il sogno e le fonti somatiche,
ossia quegli stimoli fisici che possono avere un ruolo nella formazione del sogno , che spesso
vengono utilizzate per costruirne la scena manifesta.
Tenendo conto di questi aspetti (conoscenza del paziente, sessualità infantile,  residui diurni, fonti
somatiche), il sogno può essere interpretato a partire dalle associazioni del paziente. Il sogno non
può essere interpretato dal clinico dopo il racconto, ma occorre sollecitare e seguire i pensieri che
vengono alla mente del sognatore. Questo aspetto è strettamente connesso al metodo delle libere
associazioni ed è ciò che consente di accedere ai derivati inconsci del paziente.
Nel metodo freudiano occorre seguire i percorsi mentali dell'analizzando e fornirgli
l'interpretazione con attenzione e prudenza, preferibilmente solo quando quest’ultimo si trovi
talmente vicino al significato da dover fare un breve passo per impadronirsene egli stesso. 

2. Il sogno negli sviluppi postfreudiani


2.1. Il sogno e il sognare: M. Masud khan
Khan propone una distinzione tra processo del sogno e spazio onirico.
Il processo del sogno è il soddisfacimento del desiderio attraverso immagini  sensoriali. Esso
articola impulsi e conflitti inconsci ed è una capacità dell'attività mentale in stato di sonno. Lo
spazio onirico, invece, è lo spazio in cui il sogno si effettua, cioè lo spazio in cui ha  luogo
l'esperienza del sogno.
Questi due aspetti sono distinti poiché il processo del sogno può realizzarsi  senza che vi sia uno
spazio onirico atto ad accoglierlo, senza cioè che il sognatore possa fare un'esperienza soggettiva
97
del proprio sogno. Il sogno c'è stato e basta, ma non è vissuto come proprio e il soggetto non sa
che farsene, se non raccontarlo: esiste un sogno raccontato ma non esiste un sogno sognato.
Perché vi sia esperienza soggettiva del sognare è essenziale che si costituisca uno spazio onirico.
Khan propone dunque una differenza fra il significato del sogno e l'esperienza del sognare,
sostenendo che il compito dell'interpretazione dei sogni, nel trattamento, sia quello di ricercare
non solo il significato del sogno ma anche l'esperienza che il soggetto fa del sogno.
Vediamo qui un notevole allargamento dell'ottica freudiana, legato a sua volta all'ampliamento del
modello teorico di riferimento. Lo spazio onirico, infatti, può formarsi solo se si è costituito uno
spazio interno adeguato, che a sua volta è possibile se l'infante ha avuto una relazione primaria
con un ambiente adeguato. Se questo è venuto a mancare, non si strutturano lo spazio  onirico e
l'uso soggettivo e personale dei sogni.
Cogliere questi aspetti nel lavoro clinico diventa fondamentale, poiché consente di comprendere il
livello di funzionamento mentale del paziente: non  è il sogno in quanto tale a essere rivelatore ma
la capacità che il sognatore ha di utilizzarlo, poiché se questa capacità è deficitaria plausibilmente
lo sarà anche lo spazio privato del Sé.
L'esperienza del sognare è una forma di autoesperienza soggettiva che amplia  l'esperienza del Sé
attraverso il processo primario.
Se con Freud il sogno diventa una via privilegiata per svelare i desideri e i conflitti inconsci, con
Khan il sogno diventa anche una via di conoscenza  dell'esperienza mentale del soggetto. Lo spazio
onirico, che consente di fare esperienza del processo onirico, argina la possibilità di agire
l'inconscio nella realtà esterna. Il sogno e il sognare assumono decisamente una terza e
importantissima funzione, che si aggiunge alle due freudiane: una funzione di elaborazione
mentale dell'esperienza, che entra prepotentemente in scena nello strutturare il rapporto del
soggetto con sé stesso e con la realtà esterna.

2.2. La funzione onirica della mente: Wilfred R. Bion 


Secondo Bion la differenziazione tra inconscio e conscio (in ottica freudiana tra processo primario
e secondario) avviene quando gli elementi percettivo-sensoriali, definiti elementi beta, vengono
trasformati in elementi alfa, elementi di base dei pensieri. La funzione che adempie a
questo processo di trasformazione è definita funzione alfa. È la funzione alfa a istituire quella
"barriera di contatto" che determina la separazione tra inconscio e conscio ed è una funzione
attiva sia nel sonno che nella veglia: tutti i pensieri, anche i pensieri del sogno, si formano
attraverso lo stesso processo. Pertanto i pensieri onirici sono una funzione sia del sonno che della
veglia ed è possibile parlare di uno stato onirico della veglia.
Vediamo come anche per Bion il sogno svolga una funzione di elaborazione dell'esperienza, ma
esso rappresenta una funzione particolare all'interno del funzionamento mentale generale: nel
sonno l'attività della censura meno rigida e la riduzione di stimoli sensoriali determina immagini
con caratteristiche sensoriali marcate (simili all'allucinazione), mentre nella veglia, in cui le difese
sono più forti e gli stimoli sensoriali e motori aperti, le immagini mantengono un carattere virtuale
più netto ed evidente. Il processo, come dicevamo, è assolutamente lo stesso.
Ecco che i confini tra questi diversi tipi di funzionamento divengono quindi meno netti; lo stato
onirico della veglia diventa una condizione mentale che favorisce il trattamento, una condizione
mentale che può essere sviluppata dalla coppia al lavoro.
Il sogno non è più un testo con un significato da svelare, ma una manifestazione particolare del
processo attraverso cui prendono forma dei pensieri in  attesa di ulteriori trasformazioni. Così
come la madre svolge per l'infante una funzione di rêverie, cioè di trasformazione degli elementi
beta in elementi alfa, così il processo onirico - del sonno e della veglia - favorisce questo  processo
di trasformazione. Dunque la capacità di sognare preserva la personalità da uno stato virtualmente
98
psicotico, poiché realizza il processo di passaggio dall'inconscio al conscio senza che gli elementi
del primo invadano il secondo, determinando un cortocircuito nei processi di trasformazione
degli elementi sensoriali.
Queste trasformazioni riguardano i pensieri, che per Bion sono sempre strettamente embricati con
l'emozione, e pertanto il sogno è un processo elaborativo che tenta di sciogliere ciò che è bloccato,
in un certo senso di risolvere un particolare problema che si pone alla mente. Esso è una
modalità di costruzione del pensiero e può rappresentare un momento trasformativo  dello
sviluppo mentale, una nuova rappresentazione di sé, della propria pulsionalità, della propria
strutturazione e della propria relazionalità.  
In conclusione, possiamo dire che con Bion il sogno va al di là di un fenomeno mentale specifico
che adempie a delle funzioni e diventa parte del processo di costruzione di ciò che chiamiamo
mente.

2.3. Sogno e stato del Sé: Heinz Kohut 


Kohut sostiene che il sogno svolge una funzione di elaborazione dell'esperienza di sé . Egli
afferma che esistono due tipi di sogni: quelli che esprimono desideri e conflitti latenti  verbalizzabili
e quelli che tentano, attraverso le immagini, di fissare le tensioni non verbali di stati traumatici. I
sogni di questo secondo tipo vengono  definiti come sogni sullo stato del Sé . Secondo Kohut: i sogni
di questo secondo tipo raffigurano la paura del sognatore di fronte ad un aumento incontrollabile
della tensione o la sua paura della dissoluzione del Sé. L'atto stesso di raffigurare queste
vicissitudini nel sogno costituisce un tentativo di controllare il pericolo psicologico coprendo
processi indefiniti e spaventosi con immagini visive definite.
Il sogno sarebbe dunque un tentativo di padroneggiare, attraverso la raffigurazione, delle tensioni
altrimenti insostenibili per la coesione di sé.
Tuttavia Kohut (1984) va oltre questa concezione, affermando l'idea che esistano sogni sullo stato
del Sé che non hanno a che fare col pericolo di frammentazione ma con esperienze positive, di
forza e coesione del Sé. L'esperienza  onirica assume quindi la funzione di rappresentare gli stati
del Sé e, attraverso tale attività rappresentativa, può svolgere un'ulteriore funzione di
modulazione degli stati del Sé sia per mantenerne l'organizzazione che per generarne  di nuovi. In
altri termini, l'autore sostiene la tesi secondo cui l'attività onirica  svolga una funzione organizzativa
del processo di realizzazione del Sé.
Sul piano del lavoro terapeutico il sogno ha che fare con l’esperienza di base della relazione con
l’analista, cioè il sogno ha una funzione relazionale ed esso raffigura le angosce e i vissuti del
soggetto relativi all’esperienza che egli fa di sé stesso. il contenuto manifesto assume valore
perché il sé tende sempre a esprimersi. Le immagini del sogno vanno lette come metafore e non
come camuffamenti e devono essere comprese più che tradotte.

2. Concettualizzazioni contemporanee 
Thomas Ogden, sviluppa il pensiero di Winnicot e Bion e offre una  teorizzazione sul sogno che
assume come capisaldi sia il concetto di spazio potenziale  di Winnicott che quello di pensiero
onirico della veglia di Bion. Lo  spazio potenziale viene inteso come un terzo spazio che si forma
nella relazione fra due individui, all'interno del quale si realizza il processo di individuazione.
La relazione analitica, secondo Ogden, favorisce lo sviluppo di questo spazio potenziale, che in
analisi egli definisce come terzo analitico intersoggettivo. Se il clinico sarà capace di supportare il
paziente nel riconoscimento di questa ulteriore dimensione della relazione, lo aiuterà a vivere
l'esperienza del sognare come un'esperienza trasformativa di sé. In tal senso il sognare, che è un
fenomeno sia del sonno che della veglia, rappresenta la possibilità di trasformare in esperienza
psichica ciò che il soggetto ha vissuto senza poterlo elaborare. La psicoanalisi diventa l'arte di
99
"sognare sogni non sognati”, cioè di aiutare il paziente a vivere quelle esperienze  di sé che non è
stato in grado di esperire, attraverso la funzione onirica della mente dell'analista, cioè la rêverie. 
James Fosshage (1997), seguendo Kohut, avanza l’idea che il sogno abbia come funzione lo
sviluppo, la regolazione e la reintegrazione dei processi dell’organizzazione psichica. I sogni
proseguirebbero il lavoro di elaborazione che avviene nello stato di veglia, volto alla risoluzione
dei conflitti intrapsichici. In. questo senso, secondo lui, l'attività onirica può portare a una
riorganizzazione creativa, alla soluzione di conflitti, alla capacità di  risolvere problemi. Il sogno,
assume una funzione evolutiva che possiamo definire come l'emergere di nuove configurazioni del
Sé. Tale funzione evolutiva si affianca a una funzione regolativa, che si riferisce alla  modulazione e
conservazione dell'organizzazione psicologica in corso.
Antonino Ferro (2000), rielaborando soprattutto il pensiero di Bion, propone uno sviluppo del
concetto del sogno come fenomeno sia del sonno che della veglia. Il processo onirico è sempre in
corso, si sviluppa e si orienta all'interno di una vicenda relazionale di base e dà continuamente
segno della sua presenza in analisi attraverso le comunicazioni del paziente . Tali comunicazioni
sono derivati narrativi degli elementi alfa, immagini visive narrate dal paziente o suggerite dalla
réverie del clinico, che consentono di sviluppare  una narrazione condivisa che libera l'esperienza
emotiva prevalente in ogni  momento della seduta, "in tempo reale” consentendo al paziente di
elaborare ciò che non poteva essere pensato ed emotivamente vissuto. 
Lucio Russo, rielaborando soprattutto il pensiero di Freud e Khan, propone l'idea dei due sogni.
Esisterebbero due livelli del sogno: - il primo è  il sogno come testo da decifrare, il sogno
raccontato attraverso una funzione narrativa, legato al linguaggio, inevitabile e necessario
strumento sia del racconto onirico che della sua interpretazione; il secondo è l'impensato
del sogno, cioè lo spazio onirico, la soggettività sognante che è fuori dal testo del sogno e può
essere intuito, a volte, dalle sue lacune. Russo riunisce l'idea freudiana che esista un ombelico del
sogno, un punto d'origine inconoscibile della funzione onirica e l'idea di Khan di
un'esperienza soggettiva del sogno, una funzione elaborativa dell'esperienza di sé. Entrambi i livelli
del sogno devono far parte del lavoro analitico, perché durante  la seduta l'analista riceve dal
racconto del sogno due messaggi diversi contemporaneamente, che egli deve articolare nell'
interpretazione. Le lacune e i vuoti del racconto, infatti, non vanno letti come resistenze, ma come
tentativi del sognatore di prendere contatto con l'esperienza del sognare. Esse offrono
l'opportunità di aiutare il paziente ad articolare i significati inconsci del sogno con l'autoesperienza
di sé non integrata (impensata), per favorire un processo di integrazione. 

3. La ricerca empirica sul sogno 


La ricerca empirica sul sogno segue da vicino la complessità dei modelli neurofisiologici, cognitivi e
psicoanalitici dell'organizzazione, del processo e del contenuto onirico. Questi tre livelli, nei vari
protocolli di ricerca, sono variamente articolati tra di loro e rappresentano, in questo momento, il
corpus della ricerca neuroscientifica sul sogno.
All'interno della specificità di ogni singolo dominio - neurofisiologia, neuropsicologia e psicoanalisi
- le ricerche di neurofisiologia si sono concentrate sull'organizzazione del sonno non-REM (sonno a
onde lente) e REM (Rapid Eye Movement), poiché l'attività onirica è presente in entrambe le
fasi, mentre le altre due discipline hanno trovato ampie sinergie nello studio del processo e del
contenuto del sogno. Queste, infatti, condividono una visione di massima che potremmo
racchiudere nella definizione del sogno come processo del pensiero atto a elaborare informazioni.
Le informazioni processate provengono sia dai sistemi percettivi che da vari registri di memorie
(procedurali, autobiografiche, affettive-emozionali) che si rendono disponibili per la ricodifica
onirica e la loro figurazione, attraverso l'attivazione di molti circuiti neuronali, corticali e
sottocorticali.
100
Il sogno entra a far parte di un ampio sistema di monitoraggio delle informazioni, costituendo
parte integrante dell'organizzazione (e dell'omeostasi) dell'attività mentale. 
Possiamo concludere aggiungendo che attualmente la ricerca empirica sul sogno è maggiormente
orientata verso ipotesi riguardanti la fonte motivazionale del sogno (Reward System), il suo
legame con la nosografia e la predicibilità dell'evoluzione clinica. Molto rappresentate sono quindi
le ricerche associate all'analisi qualitativa e quantitativa del contenuto del sogno all'interno di uno
specifico quadro clinico, le quali forniscono interessanti parametri di valutazione dell'andamento
delle psicoterapie.

La psicoterapia in adolescenza (cap.15 - Colli)

L'adolescenza è un processo trasformativo che traghetta la mente verso l'età adulta e ha come suo
tratto distintivo quello di essere un momento di crisi, di passaggio, di "turmoil" (agitazione), un
periodo durante il quale il soggetto vive una "crisi di identità". 
Tra gli autori psicodinamici che hanno contribuito alla conoscenza di questa fase di vita notiamo
Peter Blos, Eglè e Moses Laufer e Winnicot.

101
1. Modelli psicodinamici della comprensione del processo adolescenziale 
La psicoterapia degli adolescenti solleva problemi sia di ordine teorico che  tecnico legati
all'impatto che il suo svolgimento determina sul processo  adolescenziale stesso. Proprio in questo
periodo evolutivo vengono riattivati contemporaneamente conflitti arcaici, edipici e attuali che
hanno una diretta ripercussione sul tipo di relazione e sulla dinamica transferale che l'adolescente
stabilisce con il proprio terapeuta. La contemporanea presenza di modalità di funzionamento
psichico proprie dell'infanzia e processi nuovi, come il pensiero astratto, insieme alla pressione
biologica del corpo e l'accentuata impulsività che ne scaturisce, impongono delle riflessioni su
quanto una psicoterapia debba saper bilanciare elementi regressivi e progettualità di sviluppo.
Un'ulteriore condizione è la presenza di tematiche narcisistiche che richiedono al terapeuta
il compito di porsi come una figura nuova, un adulto differente dal genitore, altrimenti gli elementi
persecutori dominano la scena. Per l'adolescente, gli adulti sono meri detentori di una struttura di
potere e di controllo, non dei depositari di conoscenze e capacità, acquisiti per esperienza, che
sono disposti a condividere. Il terapeuta per posizione duplice di conduttore e di adulto
rischia costantemente di essere attaccato e abbandonato, perché vissuto in modo invadente e
persecutorio. L'intervento clinico per l'adolescente deve costituire prima di tutto la formazione di
una relazione terapeutica efficace all’interno della quale riprodurre ed elaborare le diverse
conflittualità emergenti. Molti autori condividono un punto rilevante, ossia quanto sia
determinante nella conduzione di una psicoterapia con un adolescente il rapporto che il terapeuta
ha con la sua esperienza adolescenziale e con gli aspetti residuali di essa.
Vi sono due principali direttrici che raggruppano diversi modelli teorici  dell'adolescenza: una
riguarda le teorie che studiano questa epoca della vita  come un processo con fasi specifiche e una
peculiare linearità ontogenetica;  l'altra raggruppa le teorie che si focalizzano sulla comprensione
della crisi evolutiva e sugli stravolgimenti fisici e psichici che essa determina. Nel primo caso
l'adolescenza rappresenta un processo che implica diversi compiti  che devono essere realizzati per
passare all'età adulta, accedere alla stabilità delle relazioni d'oggetto e alla possibilità di diventare
a propria volta genitori; nel secondo caso, dove l'accento è sull'interpretazione
dell'adolescenza come periodo critico, la distinzione tra manifestazioni proprie di questa fase e i
disturbi permanenti è difficile. In entrambe le prospettive, tuttavia, la peculiarità  l'eccezionalità e
la variabilità che contraddistingue l’adolescenza rappresenta l'elemento condiviso da tutti gli
autori.

1.1. Un primo modello interpretativo del processo di transizione adolescenziale 


Tra i primi autori a dare una definizione di un modello metapsicologico complesso e organico
dell'adolescenza, definendola come processo di transizione, vi è Peter Blos. Egli sostiene che il
principale risultato del processo adolescenziale sia l’organizzazione e la strutturazione del proprio
carattere, attraverso il raggiungimento di rappresentazioni stabili  del Sé e dell'oggetto,
l'elaborazione del proprio ideale dell'Io e la definizione  di una identità sessuale adeguata. Il
processo di transizione da lui descritto ripercorre il processo di separazione-individuazione,
descritto dalla Mahler, che si riattualizza a partire dallo sviluppo puberale. Secondo la Mahler
questa fase si concludeva con la capacità del bambino di aver strutturato la costanza d'oggetto.
Secondo Blos, l'adolescente è costretto a sperimentare nuovamente una fase  analoga, attraverso
la quale potrà compiere il difficile processo di interiorizzazione delle figure genitoriali, per poi
riuscire a separarsene al fine di poter sviluppare una propria autenticità e soggettività, potendo
così rivolgersi a oggetti  esterni all'ambiente familiare . Questo secondo momento di separazione-
individuazione rende necessario un mutamento che fornisca la struttura psichica adeguata alla
maturazione fisica che è già in fase di attuazione. Il lavoro di separazione-individuazione si sviluppa
102
lungo tutto il periodo adolescenziale, durante il quale si compie e si stabilizza l'organizzazione della
personalità. In sostanza, il lavoro dell'adolescenza consisterebbe nella separazione dagli oggetti
d'amore infantili e nella maturazione delle funzioni dell'Io. Tale processo sarebbe possibile
solo attraverso una riorganizzazione interna delle istanze psichiche e dei legami tra loro, mediante
un complesso processo di adattamento che vede coinvolti i meccanismi difensivi e la
strutturazione di nuove istanze psichiche, come  l'ideale dell'Io, in grado di definire dei tratti
fondamentali del carattere.
Tale processo evolutivo, secondo Blos, è suddiviso in specifiche sottofasi: la preadolescenza; la
prima adolescenza; l’adolescenza vera e propria; la tarda adolescenza; la postadolescenza.

1.2. Breakdown evolutivo e la necessità di sviluppo in adolescenza 


Per Eglé e Moses Laufer il processo adolescenziale verte sostanzialmente su tre compiti evolutivi:
1. il cambiamento nelle relazioni con gli oggetti adulti;
2. il cambiamento nelle relazioni con il gruppo di coetanei;
3. il cambiamento nella relazione con il proprio corpo nel contesto dello  stabilirsi dell'identità
sessuale.
Nel loro modello essi ritengono che la crisi che si verifica nell’adolescenza è  sempre collegata a un
disturbo nel processo di stabilizzazione dell'identità  sessuale e nella relazione conflittuale che I'Io
stabilisce con il proprio corpo sessuato. Si tratta delle conflittualità legate ai fantasmi infantili è dei
conflitti masturbatori, definiti come fantasia masturbatoria centrale. La fantasia masturbatoria
centrale è costituita dalle fantasie  che includono i vari soddisfacimenti di tipo regressivo
preedipici, relativi alle spinte pulsionali dirette verso il corpo della madre, verso le principali
identificazioni sessuali, nonché verso il nucleo dell'immagine corporea.
Gli autori considerano la crisi adolescenziale come l'episodio conclusivo della separazione dal
corpo materno. L'individuo rinuncia progressivamente all'idea di un soddisfacimento dei bisogni
libidici da parte della madre, appagamento che avviene grazie alla fantasia nella masturbazione.
Questa consiste in un'attività autoerotica che aiuta a raggiungere il predominio genitale.
L'adolescenza viene quindi rappresentata dai Laufer come età cerniera, dove  le fantasie
masturbatorie riattivano soddisfacimenti di tipo regressivo e che  se rimangono eccessivamente
vive e attive possono ostacolare lo sviluppo. La  fantasia masturbatoria centrale viene considerata
un fenomeno universale, che di per sé non ha nulla di patologico; così, durante l’infanzia e il
periodo di latenza il suo contenuto, pur potendo rimanere inconscio, traspare in forma
contraffatta nei sogni a occhi aperti o nelle fantasie che accompagnano la masturbazione, nei
giochi o nelle attività di finzione. Diviene invece una complessa prova evolutiva sperimentare
queste fantasie in uno scenario in cui  la maturità fisica dei genitali esaspera ogni cosa e soprattutto
l'organizzazione difensiva viene sottoposta a una forte tensione. Al termine della pubertà,
tale fantasia assume un carattere coatto, ossia diventa forte il bisogno di viverla  all'esterno nelle
relazioni oggettuali e nelle proprie esperienze sessuali; tale  vissuto può spaventare
profondamente l'adolescente con molte conseguenze  che, se gravi, possono rientrare in ciò che è
stato proposto sotto il termine di breakdown evolutivo.
La patologia adolescenziale, secondo gli autori, deriverebbe da un breakdown, una rottura nella
continuità della rappresentazione del Sé, una vera  e propria minaccia di rottura psicotica che
mette a rischio l'integrazione di  un'immagine del corpo fisicamente maturo all'interno della
rappresentazione di sé, esprimendosi in un rifiuto inconscio del corpo sessuato stesso. Le pulsioni
aggressive si intensificano e si rivolgono contro il corpo sessuato stesso, ma anche contro il nuovo
rapporto con gli oggetti interni che la trasformazione adolescenziale implica. 
Il compito principale del terapeuta è quello di mirare alla comprensione della  causa del
breakdown, al fine di rimettere in moto il processo evolutivo di integrazione del corpo
103
sessualmente maturo, consentendo all'adolescente di rivivere la "frattura” all'interno della
relazione terapeutica. I Laufer ritengono  che la valutazione dell'esordio del breakdown sia un
elemento da considerare nella valutazione diagnostica e prognostica dell'adolescente ;
sottolineano, infatti, che prima esso appare, più grave potrebbe esserne l'impatto, mentre se
avviene nelle ultime fasi dell'adolescenza l'organizzazione difensiva può consentire al ragazzo di
trovare risposte alternative ai desideri incestuosi. 

1.3. L’influenza dell’ambiente primario, le memorie implicite e gli stati della mente nello
sviluppo adolescenziale
Diversi autori pongono lo sguardo sulla maturazione e interiorizzazione di relazioni oggettuali
efficaci. Tra coloro che mettono al centro il ruolo delle relazioni d'oggetto nella costituzione e
risoluzione delle conflittualità adolescenziali vi è Winnicott, che non si limita allo studio
dell'adolescenza in sé, ma indaga circa la relazione tra le problematiche adolescenziali e l'ambiente
di sostegno. Egli osserva infatti che molte delle difficoltà degli  adolescenti dipendono da
"insufficienze ambientali", dove l'ambiente è inteso nella sua accezione più generica: società,
autorità e istituzioni che hanno a che fare con ragazzi e ragazze a questa età, genitori, famiglia.
Secondo Winnicott, l'adolescente si ritrova, come il bambino, ad affrontare un forte  senso di
isolamento, che riesce a superare nel momento della sua costituzione  come individuo distinto,
cioè capace di formare rapporti con oggetti a lui esterni e al di fuori della sua sfera di controllo
onnipotente. In tal senso si mette in evidenza l'importanza del tema della separazione dalle figure
genitoriali e le vicende depressive legate a tale processo. 
Il contesto è quindi chiamato ad accettare la crisi depressiva dell'adolescente, intesa appunto
come distacco dagli oggetti primari e sopportazione di  non sentirsi ancora reali, come una fase di
sviluppo attraverso un processo naturale di crescita. Il ruolo terapeutico è di accompagnare questo
processo evolutivo nell'idea che la migliore cura dell'adolescenza sia il passare del  tempo,
riuscendo a sopportare che gli adolescenti transitino per un certo periodo attraverso una fase in
cui si sentono futili e non hanno ancora trovato  se stessi. Per Winnicott ci si trova quindi in una
fase di transizione, in cui si oscilla tra la capacità di reggere la depressione del non sentirsi ancora
reali e compiuti e l'uso dell'aggressività e degli acting-out, che hanno una
funzione apparentemente e temporaneamente integrativa e autoaffermativa.
Gli approcci teorici più recenti, sempre del gruppo indipendente britannico cercano di integrare
il processo adolescenziale nell'interazione individuo-ambiente, alla luce delle  ricerche scientifiche
dell'Infant Research, delle neuroscienze e delle scienze  cognitive. Queste teorie mettono al centro
il ruolo della memoria procedurale, dove si depositano i derivati esperienziali della ritualità
familiare, veicolata dalle interazioni quotidiane tra il figlio e la famiglia attraverso cui il soggetto
apprende ad adattarsi al proprio contesto. Il modo in cui l'ambiente primario ha risposto alle cure
del bambino si depositerà nella mente procedurale del bambino prima e dell'adolescente poi,
strutturando le modalità di gestione delle relazioni intime. Questa scoperta ha permesso di
comprendere meglio come ogni soggetto sia il risultato di interazioni multiple e di quanto la
costruzione del mondo interno sia dipendente dai depositi esperienziali con il contesto primario di
riferimento. In questa prospettiva, diventano centrali due processi di maturazione che
determinano il buon esito del processo adolescenziale. 
1. Il passaggio al pensiero delle operazioni formali e la comprensione interpersonale.
2. Il processo di separazione dalle figure genitoriali e dalle loro rappresentazioni interne.
In altre parole, i disturbi dell'affettività adolescenziale possono essere pensati  in termini di
un'inadeguata consolidazione della capacità simbolica. Secondo  Fonagy e Target l'aumento della
complessità cognitiva è ciò che può guidare, ma anche deviare, il raggiungimento
della separazione. Tale conquista obbliga l'adolescente a integrare pensieri sempre  più numerosi e
104
complessi riguardo ai propri e gli altrui sentimenti e motivazioni. Come conseguenza di ciò vi è una
ipersensibilità agli stati mentali che può sopraffare la capacità dell'adolescente nell'affrontare sia i
pensieri che i sentimenti. Questo può portare a un breakdown apparentemente critico
nella capacità di mentalizzare, al ritiro dal mondo sociale e all’ intensificazione di ansia e agiti. La
misura in cui questi cambiamenti portano a delle difficoltà  a lungo termine può dipendere non
solamente dalla solidità delle strutture psichiche dell'adolescente, ma anche dalla capacità
dell'ambiente di supportare l'indebolimento della funzione di mentalizzazione nell'adolescente.

3. La ricerca clinica a sostegno della clinica in adolescenza 


Gli studi sull'adolescenza sono aumentati notevolmente negli ultimi decenni. I lavori empirici
hanno infatti fornito alcune risposte che avallano le ipotesi teoriche descritte  in precedenza. Dati
scientifici ormai assodati riguardano: l'identificazione  di momenti e sottofasi del processo
adolescenziale così come evidenziati da Blos (1979); le differenti manifestazioni comportamentali
tra ragazzi e ragazze durante il processo di sviluppo e del turmoil adolescenziale. La ricerca
sull'adolescenza avvalora l'ipotesi che la presenza di sintomi in  adolescenti normali non indica
l'instaurarsi di una possibile patologia. In  altre parole, il turmoil adolescenziale è condizione
necessaria per il processo evolutivo, ma non sufficiente a connotare tale processo come
psicopatologico. I dati, inoltre, confermano che questa fase del ciclo vitale sia specificatamente
orientata alla ristrutturazione dell'identità personale e che il risultato della trasformazione sia la
costruzione di specifiche strategie individuali per divenire adulti e soggetti unici. Per esempio,
riprendendo Blos, Winnicott, Fonagy e Target, i comportamenti trasgressivi degli adolescenti
giocano un ruolo fondativo nella costruzione di un'identità adulta; infrangere le regołe morali o
sociali rappresenta uno strumento con cui il giovane si mette alla prova, sfida l'autorità, elemento
questo che gli consente di poter affermare la propria identità. È importante sottolineare come in
adolescenza, assieme ai comportamenti aggressivi e devianti, si presentino spesso stati depressivi
(come sosteneva Winnicott) che svolgono anch'essi il ruolo di meccanismi di difesa, proteggendo il
giovane da un completo investimento nella realtà e da un confronto con i suoi aspetti
più contraddittori. 
Inoltre, tali studi evidenziano che le trasformazioni più rilevanti interessano regioni e sistemi
cerebrali che svolgono un ruolo chiave nella regolazione del comportamento, delle emozioni e
nella valutazione del pericolo implicate nella corteccia prefrontale e nel sistema  libico. I
cambiamenti che si riscontrano agiscono proprio nella fase di arousal e  nelle spinte motivazionali,
indotti principalmente dalla maturazione puberale, invadendo cosi le capacità di regolazione
emotiva. Anche gli studi neurocognitivi sembrano confermare una difficile integrazione fra le
aree connesse al funzionamento emotivo, come l'amigdala e il sistema limbico,  fortemente
attivate dalla pubertà, e le aree coinvolte negli aspetti cognitivi che maturano più tardivamente.
Questo elemento sembra a sostegno dell'ipotesi di Fonagy e Target, secondo la quale
l'adolescenza comporterebbe un momento di disregolazione che ha effetti sui processi di
mentalizzazione. Solo alla fine dell'adolescenza questa integrazione può finalmente realizzarsi con
un maggior controllo da parte della corteccia prefrontale.
Il tema di cosa sia normale o patologico in questo periodo dello  sviluppo continua a essere il punto
critico sul quale ragionare. Le ricerche sottolineano sia la natura strettamente organica ed
evolutiva del processo, sia che gli aspetti dissociativi di funzionamento cognitivo-affettivo
sono funzionali allo sviluppo, ma il punto sul quale porre il discrimine è delicato. L'importanza di
rilevare fattori di rischio adolescenziali, così come monitorare situazioni potenzialmente critiche, è
fondamentale per interventi psicoterapeutici precoci e con migliori prognosi. Come si è visto, non
si può considerare patologica una reazione di rabbia o dei conflitti che emergono nelle relazioni
con gli altri. Questi stessi comportamenti possono attivare strategie difensive dissociative,
105
meccanismi che tuttavia consentono di salvaguardare il senso di continuità e di integrità del sé,
dove quindi il confine tra patologia e normalità rimane una questione nodale. Infatti una
sottovalutazione di sintomi e meccanismi difensivi in adolescenza può inficiare l'esito prognostico
del processo di sviluppo. Nei disturbi post-traumatici da stress questa tematica si accentua
notevolmente. L'adolescenza può presentare una fenomenologia simile a quella del DPTS, tanto
che i ragazzi si trovano a fronteggiare incessanti cambiamenti sia psichici che somatici, molteplici
rotture e numerosi paradossi. Pertanto, non è facile capire se un agente traumatico abbia
innescato un vero e proprio DPTS oppure se si è in presenza di manifestazioni tipiche, seppure
accentuate, dell'adolescenza. I risultati degli studi confermano l'ipotesi che la dissociazione
rappresenti un importante fattore di mediazione tra l'evento traumatico e la comparsa di disturbi
psicopatologici, quindi di fatto è un meccanismo di difesa protettivo dell'Io del ragazzo. Di fronte a
esperienze traumatiche gravi, la dissociazione può costituire una risposta conservativa che
consente di tollerare la paura, il dolore, i sentimenti di impotenza e la rabbia.
Rispetto al ruolo potenziale di un intervento psicoterapeutico, i dati di ricerca si esprimono in
senso positivo. Per esempio, si è valutato come l'impatto di esperienze traumatiche non condivise
abbia una potenzialità patogena maggiore rispetto a quello di esperienze condivise. In altre parole,
la condivisione con il gruppo dei pari, il supporto familiare, la psicoterapia svolgono un ruolo
protettivo importante nei confronti delle esperienze traumatiche e favoriscono lo sviluppo della
capacità di modulare il livello di arousal e l'acquisizione di un senso di sicurezza. in adolescenza,
infatti, la possibilità di rivelare il trauma e di ricevere sostegno dalla famiglia e dalla
società rappresenta un importante fattore protettivo rispetto alle influenze negative esercitate
dall'evento traumatico.
In conclusione, le ricerche sottolineano la delicatezza del monitoraggio e della prevenzione dei
giovani in questa fascia d’età. 

Fondamenti teorici della terapia cognitiva (Capitolo 6 - Gabbard)

Origine della terapia cognitiva


La terapia cognitiva ha avuto origine dall'insoddisfazione nei confronti delle rigidità della terapia
comportamentale e degli aspetti più tradizionali della psicoterapia psicoanalitica che dominavano
la prima metà degli anni Settanta. I terapeuti orientati a un approccio empirico erano insoddisfatti
a causa delle difficoltà nel definire operativamente e sostenere empiricamente molte delle
tematiche principali della psicoanalisi. L'approccio comportamentista era anch'esso
106
insoddisfacente nel trattamento di alcuni fra i più comuni disturbi psichiatrici come la depressione
maggiore, i disturbi di panico, il disturbo d'ansia generalizzato (GAD) molti aspetti centrali
del modello comportamentista non erano confermati da alcun sostegno sperimentale.

Assunti di base della terapia cognitiva


Gli assunti di base della terapia cognitiva sono i seguenti:
1) L’elaborazione delle informazioni e la rappresentazione del significato sono funzioni essenziali
per l’essere umano al fine del suo trattamento e della sua sopravvivenza;
2) Una funzione di base del sistema di elaborazione delle informazioni è la costruzione personale
della realtà. Le costruzioni interpretative influenzano direttamente le risposte comportamentali e
fisiologiche in modo positivo o in modo negativo;
3) L’elaborazione dell’informazione serve a guidare gli aspetti emotivi, comportamentali e fisici
dell’esperienza umana;
4) L’interazione tra il registro sensoriale determinato dallo stimolo (bottom-up) e i processi
semantici di ordine superiore (top-down) è evidente nel funzionamento cognitivo;
5) le strutture deputate all’attribuzione di significato del sistema di elaborazione delle informazioni
sono caratterizzate da differenti soglie di attivazione;
6) Il disagio psicologico è caratterizzato da un’eccessiva o scarsa attivazione di specifiche strutture
di significato (per esempio, credenze e tendenze comportamentali);
7) La modificazione delle strutture deputate all’attribuzione di significato risulta determinante
all’interno del processo di cambiamento della persona.

Riassumendo, le rappresentazioni cognitive consistenti in pensieri, interpretazioni, credenze e


comportamenti possono essere monitorate, valutate e modificate perché si insiste sulla capacità di
plasticità della cognizione e quindi il cambiamento a livello cognitivo può avere un'influenza
significativa sul funzionamento emotivo e comportamentale. Il cambiamento di condizioni
disadattive, di strategie di elaborazione e strutture di attribuzione di significati è di cruciale
importanza per la remissione dei disturbi psichiatrici e psicologici.
Secondo il modello cognitivista, il disturbo patologico del pensiero, delle emozioni e dell'umore è
caratterizzato da un bias all'interno del sistema  di elaborazione dell'informazione e ciò produce
un'attivazione eccessiva o deficitaria di particolari strutture o schemi di significato. Quindi, i
pensieri, le immagini e le interpretazioni distorte che  caratterizzano i disturbi psichiatrici e che
provocano disagio sono il prodotto finale di un sistema di  elaborazione dell'informazione distorto
nelle strutture e nei processi attivati durante i periodi di disagio emotivo.
Ma ciò che porta all’insorgenza e alla patogenesi dei disturbi psicologici non è solo il
funzionamento cognitivo disfunzionale ma anche i diversi fattori genetici, biologici sociali e
comportamentali. Inoltre, è bene ricordare che l'elaborazione distorta dell'informazione all'interno
di un quadro psicopatologico non è  un generale deficit cognitivo, quanto piuttosto una
caratteristica altamente specifica delle preoccupazioni individuali riferite al disturbo.  

L'obiettivo della terapia cognitiva è quello di regolare questo bias  all’interno del sistema di
elaborazione dell'informazione smorzando la valenza eccessiva di schemi negativi o disfunzionali
(per esempio, credenze e modi d'agire) e rinforzando l'accesso a modelli di pensiero più adattivi .

Concetti chiave della teoria cognitiva


Kendall e Ingram (1989) proposero una tassonomia per classificare i diversi  costrutti utilizzati dalle
teorie cognitive per descrivere la psicopatologia:

107
- Struttura cognitiva: racchiude concetti che si riferiscono all’immagazzinamento o
all’organizzazione dell’informazione (per es. schemi, rappresentazioni di significato e reti
semantiche).
- Proposizioni cognitive: racchiude concetti che si focalizzano sul contenuto dell’informazione
archiviata nelle strutture mnestiche (per esempio idee, credenze e comportamenti).
- Operazioni cognitive: riguardano processi responsabili del funzionamento del sistema di
elaborazione dell’informazione (per esempio, attenzione selettiva, codifica, recupero).
- Prodotti cognitivi: sono il risultato finale del processo di elaborazione dell’informazione (per
esempio, pensieri automatici, immagini mentali, appraisal o interpretazioni).
Il modello cognitivo offre una prospettiva sulla psicopatologia sia a livello descrittivo sia a livello di
vulnerabilità individuale (A.T. Beck, 1987).
Al livello descrittivo della concettualizzazione, il modello cognitivo ritrae l'organizzazione e la
funzione delle diverse strutture, processi e prodotti cognitivi che caratterizzano il funzionamento
cognitivo durante gli episodi sintomatici acuti. Due ipotesi ritenute particolarmente rilevanti a
questo livello descrittivo sono la specificità del contenuto cognitivo e il primato cognitivo (D.A.
Clark et al., 1999):
1. Ipotesi della specificità del contenuto cognitivo: ciascun disturbo psichiatrico o psicologico ha
un suo distintivo profilo cognitivo riguardante determinati contenuti o temi all'interno dei pensieri,
delle immagini, delle credenze e delle valutazioni disfunzionali che vanno a definire il disturbo.
2. Ipotesi del primato cognitivo: i pensieri e le credenze disadattive hanno un'influenza diretta sui
sintomi comportamentali, emotivi, somatici e motivazionali dei disturbi psicopatołogici.
Le differenze individuali sono viste in termini di una sottostante vulnerabilità cognitiva, la quale
rimane latente e inattiva finché non viene attivata da un'esperienza significativa. Il modello
cognitivo assume la prospettiva "diatesi-stress" secondo la quale determinati schemi centrali
disadattivi, risultato di esperienze negative infantili, restano inattivi finché non vengono stimolati
da un evento di vita corrispondente (A.T. Beck, 1987). Per esempio un soggetto predisposto alla
depressione potrebbe avere uno schema centrale del sé fondato sull'abbandono e sul rifiuto, che
rimane latente fin quando non viene attivato da un evento, come per esempio la minaccia della
perdita di una relazione importante. Una volta che questi schemi disadattivi vengono attivati, essi
tendono a dominare il processo di elaborazione dell'informazione conducendo ai ben noti sintomi
della depressione.

Strutture cognitive (schemi) disadattivi 


Gli schemi sono stabili rappresentazioni interne semantiche di stimoli, idee o  esperienze che
organizzano e integrano le nuove informazioni in maniera significativa e che determinano il modo
in cui i fenomeni vengono percepiti e concettualizzati. Essi orientano la selezione, la codifica,
l'organizzazione, la conservazione e il recupero delle informazioni. Il loro contenuto è evidente
nelle convinzioni, nei comportamenti e nelle credenze della persona.
Ci sono differenti tipi di contenuto degli schemi. Al livello di base troviamo gli schemi semplici che
rappresentano la conoscenza del singolo oggetto o idea (il significato di "sedia", "scarpa" ecc.) Al
livello successivo troviamo le convinzioni intermedie, che consistono in regole, assunti e
comportamenti usati per giudicare e orientare noi stessi e le nostre interpretazioni delle altre
persone e delle esperienze personali.
Esempi di convinzioni intermedie potrebbero essere "Devo lavorare più duramente degli altri per
avere successo", "E importante garantirsi la sicurezza per evitare ogni rischio", "Non ci si può
fidare della gente" e così via.
Una classe speciale delle convinzioni intermedie è data dalla regola condizionale che assume la
forma di "Se.. allora".
108
L'ultimo tipo di contenuto degli schemi è costituito dalle convinzioni nucleari. Queste
convinzioni, spesso disarticolate, sono il contenuto degli schemi più importanti e affondano le loro
radici nella prima età dello sviluppo. Le convinzioni nucleari sono credenze globali, rigide, assolute
e ipergeneralizzate riguardanti se stessi, gli altri e il mondo personale, e hanno un potente effetto
su come noi percepiamo noi stessi e il contesto che ci circonda. Esempi di credenze nucleari sono
"io non sono amabile" "sono debole e inaiutabile", "io sono incompetente".

Errori cognitivi
Gli errori cognitivi più comuni riscontrati in pazienti con disturbi psichiatrici sono:
-L’inferenza arbitraria: che consiste nel giungere a una certa conclusione in assenza di prove o
quando la prova è contraria alla conclusione.
- l’astrazione selettiva: consiste nel concentrarsi su un dettaglio fuori dal contesto e ignorare altre
più importanti caratteristiche della situazione.
- L’ipergeneralizzazione: concsiste nel giungere a una conclusione sulla base di uno o più incidenti
isolati.
- Il pensiero dicotomico: è la tendenza a classificare l’esperienza in una o due categorie estreme,
ignorando variazioni più moderate.
- La personalizzazione: è la tendenza a mettere in relazione eventi esterni con se stessi.
- La sopravalutaziune: è l’esagerare o il minimizzare il significato o sottovalutazione o la portata di
un evento.

Immagini e pensieri automatici negativi 

Aaron T. Beck pensava che le immagini i pensieri automatici negativi fossero il prodotto di un
sistema distorto di analisi dell'informazione di particolare importanza nella comprensione della
disfunzione cognitiva nelle situazioni cliniche. Egli notò che tendono a essere specifici a seconda
delle preoccupazioni del momento, e sono atti mentali involontari altamente plausibili rispetto allo
stato affettivo del momento o alle disposizioni personali. Nonostante i pensieri
automatici potrebbero non essere immediatamente evidenti all'individuo, con l'addestramento il
paziente può imparare ad accedere a questo materiale cognitivo. 
Immagini e pensieri automatici costituiscono l'oggetto primario dell’intervento cognitivo. La
correzione del sistema distorto di elaborazione dell'informazione e la modificazione degli schemi
disfunzionali sottostanti avvengono quando i terapeuti aiutano ripetutamente il paziente a
identificare e ristrutturare immagini e pensieri disadattivi associati all'esperienza personale. 

Strategie compensatorie
Judith Beck (1995) ha introdotto l'espressione " strategie compensatorie" per riferirsi alle risposte
comportamentali messe in atto per fronteggiare le  proprie credenze nucleari disfunzionali. Per
esempio, un paziente con una convinzione nucleare del tipo "non sono amabile" potrebbe
comportarsi con gli altri in modo compiacente, cercando in tutti i modi di guadagnarsi il loro
favore. Una persona che crede "io non sono molto intelligente" potrebbe prepararsi strenuamente
a un incarico di lavoro in modo da compensare i deficit percepiti nelle proprie abilità intellettive.
L'identificazione e la modificazione delle strategie compensatorie e delle credenze è
un'importante componente della terapia cognitiva, specialmente nel trattamento dei pazienti che
presentano un disturbo di Asse II.

Teoria cognitiva di disturbi clinici specifici


109
Depressione maggiore e distimia
In origine, il modello cognitivo fu sviluppato a partire dalla depressione, ma negli anni è stato
significativamente approfondito ed elaborato.
Secondo questo modello la base cognitiva della depressione maggiore e della distimia sarebbe la
stessa, sebbene l'attivazione degli stili di pensiero depressogeni siano molto più gravi e
generalizzati nella depressione maggiore. Sia nella depressione maggiore sia nella distimia, il tema
dominante è la percezione di una perdita o di una deprivazione delle proprie risorse di valore.
Aaron T. Beck (1967) conio il termine triade cognitiva per riferirsi alla negatività pervasiva della
visione del Sé, del mondo personale dell'individuo e del futuro, elementi caratteristici degli episodi
depressivi. La triade cognitiva negativa è evidente nei pensieri automatici, nelle convinzioni e negli
assunti delle persone depresse.
Gli schemi disfunzionali che vengono attivati nella depressione influenzano primariamente una
valutazione negativa del Sé. 
Nella depressione due insiemi di preoccupazioni sono di particolare importanza: quelli che hanno
a che fare con le relazioni sociali e quelli che si focalizzano sulla capacità di controllo e sul
raggiungimento degli obiettivi. Α.Τ. Beck (1983, 1987) propose due organizzazioni
schematiche (cioè, disposizioni cognitive della personalità) che potrebbero rendere  una persona
suscettibile alla depressione: la sociotropia e l'autonomia. Una persona altamente sociotropica
possiede una costellazione di convinzioni centrate sul raggiungimento del valore personale
attraverso la ricezione di amore e accettazione da parte degli altri, mentre una persona altamente
autonoma ha schemi di sé che si focalizzano sulla realizzazione del valore di sé attraverso il
controllo, il padroneggiamento e il raggiungimento del successo. Il modello cognitivo inoltre
propone che le persone sociotropiche siano maggiormente vulnerabili alla depressione quando
sperimentano life events che coinvolgono la perdita di risorse sociali, e che i soggetti autonomi
siano più a rischio di depressione quando sperimentano un evento che riguarda il fallimento del
raggiungimento di qualcosa di significativo connesso al valore personale.
Inoltre, studi sperimentali sull'elaborazione dell'informazione hanno mostrato che la depressione
è caratterizzata dai seguenti elementi (D.A. Clark et al., 1999):
- recupero distorto di materiale negativo riferito a sé;
- codifica selettiva del materiale negativo riferito a sé;
- percezione distorta di feedback negativi;
- tendenza ad attribuzioni causali negative:
- aspettative negative rispetto al futuro.
Tre questioni rimangono irrisolte:
1) se la disfunzione cognitiva nella depressione rifletta primariamente un'elaborazione eccessiva di
informazioni negative autoriferite, oppure un'elaborazione ridotta del materiale positivo;
2) fino a che punto la distorsione cognitiva nella depressione riguardi un meccanismo cognitivo
preconscio e automatico piuttosto che conscio;
3) se la disfunzione cognitiva sia una causa o una conseguenza della depressione.

Disturbo bipolare 
Il disturbo bipolare è condizionato da life events, sia negativi sia positivi.
I pazienti con un disturbo bipolare in remissione hanno una memoria
autobiografica ipergeneralizzata, al pari di individui con depressione unipolare (Mansell, Lam,
2004). I soggetti vulnerabili a episodi maniacali ricordano maggiormente elementi positivi, ma
anche molti fattori negativi, il che porta a pensare a una memoria polarizzata in entrambi i sensi e
ipergeneralizzata. Per certi versi, i pazienti bipolari mostrano una propensione a sopravalutare gli
110
aspetti positivi del presente quanto una sopravalutazione degli eventi negativi contenuti nella
memoria. Questi risultati possono offrire qualche sostegno all'ipotesi di una difesa maniacale:
l’attenzione esplicita posta sulla positività nella mania potrebbe essere una strategia difensiva di
padroneggiamento per compensare le esplicite distorsioni negative anch'esse presenti. 

Disturbi d'ansia
Aaron Beck e colleghi (1985) hanno teorizzato che bias selettivi nell'elaborazione dell'informazione
conducono i soggetti predisposti all'ansia a percepire alcune situazioni interne o esterne come
minacciose, e a percepire se stessi come incapaci di fronteggiare queste minacce in modo efficace.
I soggetti affetti da ansia patologica percepiscono la minaccia dove gli altri non lo fanno, sono
incapaci di valutare le sicurezze in modo adeguato e rinforzano la loro ansia attraverso
comportamenti di fuga e di evitamento. Il fatto che vi siano alcuni costrutti cognitivi chiave comuni
a diversi disturbi d'ansia specifici dimostra che esiste una sottostante vulnerabilità cognitiva che
predispone all'ansia; questi costrutti includono:
- anxiety sensitivity (sensibilità all'ansia), cioè paura del significato e delle conseguenze di sintomi
collegati all'ansia;
- rimuginazioni patologiche
- fusione azione-pensiero (convinzione che pensieri e comportamenti abbiano degli effetti
reciproci ed equivalenti;
- intolleranza dell'incertezza.

Disturbi di panico
Secondo la teoria cognitiva, gli elementi che caratterizzano il disturbo di panico sono un'elevata
ansia anticipatoria, la tendenza a interpretare erroneamente determinate sensazioni corporee in
maniera catastrofica, eccessiva attenzione alle percezioni corporee, la dipendenza da fuga ed
evitamento, e altre misure di ricerca di sicurezza volte a ridurre l'ansia e la minaccia associate al
panico.
Diversi errori cognitivi come per esempio gli errori nel ragionamento  emozionale e
l'ipergeneralizzazione, conducono a frequenti e acuti episodi di apprensione o ansia anticipatoria,
e i soggetti con una propensione al panico spesso rifuggono o evitano tutte quelle situazioni che
prevedono la possibilità di sperimentare i sintomi di un attacco di panico. Se l'evitamento non è
possibile, essi metteranno in atto dei comportamenti di ricerca di sicurezza come la compagnia di
qualcuno o l'assunzione di ansiolitici; questi comportamenti possono rinforzare le cognizioni
terrificanti perché privano i soggetti della possibilità di scoprire che la catastrofe che essi
anticipano non accadrà.

Fobia sociale
Il modello cognitivo propone che i soggetti affetti da fobia sociale siano irragionevolmente
intimoriti dal fatto di poter diventare oggetto di attenzione da parte degli altri. Essi temono di agire
in modo goffo, di essere valutati negativamente dagli altri o di essere criticati per il loro aspetto
fisico o per le loro performance sociali. Temono che le manifestazioni fisiche dell'ansia (arrossire,
sudare, tremare) possano risultare evidenti agli altri, e tutto ciò è fonte di umiliazione.
I soggetti socialmente ansiosi tengono eccessivamente in considerazione gli standard delle loro
performance sociali e sono convinti che anche gli altri abbiano le loro stesse esagerate aspettative.
Essi presentano delle credenze disfunzionali riguardo alla probabilità di conseguenze negative
associate alle loro performance sociali. (La gente mi giudicherà negativamente), cosi come
convinzioni negative rispetto al loro Sé sociale ("Sono noioso" o "Sono una persona socialmente
inadeguata").
111
Le persone socialmente ansiose formano una rappresentazione dello schema di sé sulla
convinzione di come gli altri li percepiscono,  e ciò conduce a un'eccessiva elaborazione di sé come
oggetto sociale. 
Anche quando assistono alle reazioni degli altri, questi soggetti mostrano  un bias di elaborazione
selettiva nei confronti delle informazioni di contenuto negativo, le quali vanno a rinforzare le
credenze nucleari negative riguardo a loro stessi.
L'attivazione degli schemi nella fobia sociale riguarda spesso un'elaborazione sia anticipatoria sia a
posteriori dominata da una valutazione negativa  di sé e la focalizzazione sui feedback negativi
percepiti da parte degli astanti. 

Disturbi d’ansia generalizzato 


La rimuginazione patologica è la caratteristica centrale del disturbo d'ansia  generalizzato (GAD):
Quando gli schemi legati alla minaccia si innescano, i soggetti mettono in atto un automatico bias
di elaborazione delle informazioni maggiormente minacciose. La rimuginazione è vista come una
risposta cognitiva cosciente e deliberata nei confronti di una minaccia futura e generalizzata.
Questo eccessivo affidamento alla rimuginazione aumenta la possibilità di sperimentare
conseguenze negative proprio per il suo carattere di incontrollabilità. L'attivazione di convinzioni
negative riguardo alla pericolosità e all'incontrollabilità della rimuginazione aumenta l'ansia e il
senso di minaccia, portando l'individuo a mettere in atto strategie di coping controproducenti
come la soppressione del pensiero o la ricerca di rassicurazioni.

Disturbo ossessivo compulsivo 


La nozione centrale nel modello cognitivo dell'OCD  è che le ossessioni derivano da una valutazione
difettosa di immagini, pensieri o impulsi involontari, minacciosi e intrusivi.
Nella patogenesi delle ossessioni sono state individuate come determinanti diverse valutazioni
distorte:
- Eccessivo senso di responsabilità: considerare se stessi come centrali nella possibilità di prevenire
risultati negativi di eventi su cui in genere non si ritiene di poter avere controllo o comunque
responsabilità.
- Sovrastima della minaccia: un'esagerata valutazione della probabilità e gravità del danno.
- Sovrastima del pensiero: valutare un pensiero come altamente significativo sulla base del suo
semplice manifestarsi.
- Controllo eccessivo: sopravalutazione del bisogno di esercitare un controllo completo su un
pensiero.
- Intolleranza dell'incertezza: necessità di assoluta certezza di un determinato risultato.
- Perfezionismo: intolleranza dell'errore o di qualunque deviazione rispetto alla soluzione ideale.
- Fusione pensiero-azione: convinzione che la semplice presenza di un pensiero aumenta la
probabilità di risultati disastrosi.
Queste valutazioni distorte vengono considerate i prodotti di corrispondenti convinzioni
preesistenti o di schemi che costituiscono un'incrementata vulnerabilità cognitiva all'OCD. 

Disturbo post-traumatico da stress


Un modello cognitivo per il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) che unifichi le diverse
informazioni provenienti da diversi modelli teorici è stato proposto da Ehlers e Clark (2000). La
caratteristica centrale di questo modello è che le considerazioni negative riferite a un evento, le
sue conseguenze o la natura del trauma sulla memoria, conducono la persona a sperimentare un
senso di perenne minaccia. Questo senso di minaccia, che prende forma nel rivivere l'esperienza
dell'evento e nell'iperattivazione dei sintomi del PTSD, conduce a una serie di strategie
112
compensatorie di evitamento o di ottundimento che vengono messe in atto nel tentativo di
controllare i sintomi. Come negli altri disturbi d'ansia, le strategie compensatorie favoriscono
i sintomi del PTSD piuttosto che diminuirli, e in questo caso esse impediscono  il cambiamento delle
memorie dell'evento traumatico, le considerazioni su di esso e le sue implicazioni. Il PTSD si
distingue tra i disturbi d'ansia poiché l'ansia anticipatoria è collegata a un evento realmente
accaduto. L'ansia che i pazienti affetti da PTSD sperimentano può essere dovuta all'elevata
frequenza del recupero involontario e intrusivo dell'esperienza traumatica che avviene perché i
pazienti non l'hanno adeguatamente elaborata. Altri teorici notano che la discrepanza tra le
informazioni collegate al trauma e le convinzioni riguardo a se  stessi e al mondo antecedenti
l'esperienza traumatica, sono il fulcro della distorsione nel processo di elaborazione
dell'informazione tipica del PTSD.

Ansia per la salute (health anxiety)


Le persone con un elevato livello di health anxiety dimostrano una valutazione esagerata dei rischi
e dei pericoli connessi alla salute e della vulnerabilità alla malattia.
I dati mostrano consistentemente che le persone con un'elevata health anxiety tendono a
interpretare in maniera distorta le sensazioni provenienti dal proprio corpo, considerano ogni
sintomo fisico come un segno di malattia e ritengono di avere una scarsa capacità di recupero dalla
malattia. 

Schizofrenia e disturbi psicotici 


Il modello cognitivo dei deliri e delle allucinazioni insiste sulla continuità con il funzionamento
"normale", suggerisce che una significativa proporzione della popolazione non clinica sperimenta
questi fenomeni, e afferma che una vulnerabilità di tipo diatesi-stress soggiace ai disturbi psicotici.
Deliri e allucinazioni possono avere la funzione di fornire gratificazioni soggettive, come per
esempio rafforzare l'autostima oppure offrire la sensazione di sentirsi importanti (come nel delirio
di grandezza). Per esempio, un giovane uomo riteneva che lo spamming erotico che riceveva nella
sua e-mail fosse diretto solo a lui, e ciò gli dava la sensazione di essere desiderato da tutte le
donne del mondo. 
Molte distorsioni dei pensieri automatici, caratteristiche delle persone ansiose e depresse,
vengono esacerbate nelle psicosi- per esempio, lettura della mente, personalizzazione,
etichettatura e pensiero catastrofico. È importante sottolineare che il bias confirmatorio nel
pensiero - insieme all'uso che i pazienti psicotici fanno dell'evitamento e del ritiro come strategie
di sicurezza - può contribuire a stabilizzare anche il sistema di credenze più  distorto. Il modello
cognitivo suggerisce inoltre che i pazienti psicotici considerano le loro immagini o pensieri deliranti
come fatti reali o come fattori predittivi di esiti specifici. Il concetto della fusione pensiero-azione è
applicabile ai disturbi psicotici nei quali i pensieri sono considerati alla stregua di realtà fattuali.
Essi considerano i pensieri intrusivi come personalmente rilevanti e li vivono come se venisse loro
richiesto di rispondere in qualche modo. Pazienti con deliri paranoidi mostrano inoltre una
tendenza all'attribuzione esterna: "Gli altri mi stanno facendo questo" piuttosto che "E colpa mia".

Disturbi di personalità e schemi specifici 


Gli schemi dei disturbi di personalità sono ipergeneralizzati, inflessibili,  imperativi e resistenti al
cambiamento. 
Ogni disturbo di personalità può essere descritto tanto in termini di strutture di convinzioni quanto
in termini di un insieme di strategie ipersviluppate o sottosviluppate. Gli schemi di personalità
influenzano l'attenzione, la rievocazione e la valenza riferita alle informazioni. 

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Ogni disturbo di personalità è caratterizzato da convinzioni condizionali che provengono dalle
convinzioni nucleari.

Tecniche della terapia cognitivo-comportamentale (Cap. 7 - Gabbard)

Metodi generali della terapia cognitivo-comportamentale

La relazione terapeutica
La relazione terapeutica nella CBT è caratterizzata da un elevato livello di collaborazione tra
paziente e terapeuta e da un'impronta empirica del lavoro terapeutico. A.T. Beck e colleghi (1979)
hanno definito empirismo collaborativo questo tipo di relazione terapeutica e i metodi utilizzati
per aumentarla consistono nel lavorare insieme come una squadra investigativa; nel promuovere

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variabili essenziali aspecifiche del terapeuta (per esempio, calore umano); incoraggiare
l’automonitoraggio e l’autoaiuto; mettere a punto un’accurata valutazione della validità delle
cognizioni e dell’efficacia dei comportamenti; sviluppare strategie di coping per lacune reali e
deficit effettivi; fornire e richiedere feedback; essere responsivi alle differenze e alle tematiche
socioculturali; personalizzare l’intervento terapeutico, ricorrere in modo appropriato allo humor.
Questi sono tutti elementi necessari per promuovere una solida alleanza terapeutica.

Strutturazione delle sedute di terapia cognitiva


Una delle più importanti tecniche della CBT riguarda la pianificazione della terapia. All'inizio di
ogni seduta, terapeuta e paziente lavorano in collaborazione per delineare una breve lista di
argomenti, solitamente da due a quattro tematiche, da affrontare. È consigliabile strutturare
tale pianificazione in modo che: 1) si possa gestire il tutto all'interno del tempo previsto dalla
seduta, 2) controllare il materiale delle sedute precedenti, 3) ritagliarsi del tempo per controllare i
compiti della seduta precedente e assegnarne di nuovi, e 4) includere specifiche tematiche
altamente rilevanti per il paziente senza che esse siano troppo astratte o generiche. La
pianificazione della seduta facilita il problem solving e mantiene il focus della terapia sugli
argomenti più salienti. Inoltre può contrastare il senso di impotenza segmentando i problemi che il
paziente fa più fatica ad affrontare in frazioni più gestibili.
Un’altra tecnica consiste nel richiedere e fornire dei feedback all'interno di ogni seduta per
indirizzare il corso della terapia, al fine di costruire strutture portanti nell'ambito della terapia che
facilitino l'apprendimento, e propongono un dialogo che esamini e corregga i malintesi sul
contenuto e lo sviluppo della terapia. 
I terapeuti cognitivo-comportamentali utilizzano la ricapitolazione per aumentare la
comprensione che il paziente ha di diversi aspetti della seduta. Per esempio, ai pazienti viene
spesso chiesto di ricapitolare gli elementi chiave della seduta oppure di spiegare che cosa sia stato
colto di uno specifico intervento. Nel caso informazioni importanti non vengano ricordate o il
paziente mostri qualche difficoltà nella ricapitolazione, i terapeuti devono saper sostenere i
pazienti nel corso di questo processo. L'uso delle tecniche standard cognitivo-comportamentali tra
e nelle sedute fornisce ulteriori elementi strutturali alla terapia. Esempi riguardano la
programmazione delle attività, l'assegnazione di compiti graduali e l'uso del diario per
registrare la modificazione dei pensieri. Questi interventi, o altri di natura simile, forniscono un
metodo chiaro e comprensibile per la riduzione dei sintomi e il cambiamento del comportamento,
L'uso ripetuto di procedure come la registrazione, l'etichettatura e la modificazione dei pensieri
automatici aiuta a mantenere un filo conduttore tra le sedute, specialmente quando tali
procedure, inserite all'interno della seduta, vengono successivamente assegnate come compiti a
casa.

Intervento psicoeducativo
Uno dei principi della CBT è l'affidarsi all’ intervento psicoeducativo come modalità di
insegnamento ai pazienti di competenze e concetti di base. Il processo educativo durante la seduta
si mostra particolarmente efficace se viene tessuto all'interno del lavoro terapeutico su recenti
situazioni emotivamente rilevanti, e se fornisce una reale dimostrazione  della validità dei principi
della CBT. Per esempio, un uomo d'affari di 55 anni affetto da depressione e problemi di gestione
della collera racconta in seconda seduta di sentirsi molto in colpa per essere "esploso" con la sua
assistente in quella stessa giornata. Il terapeuta approfitta dell'opportunità per educare il paziente
nel dettagliare l'evento attivante; nell'identificare specifici pensieri automatici; e nel definire le
emozioni provate in quella situazione. In questo primo tentativo di addestrare il paziente al
modello di base della CBT, il terapeuta costruisce un diagramma che rappresenti la relazione tra gli
115
eventi, le cognizioni e le emozioni e successivamente usa questo diagramma per spiegare la
natura dei pensieri automatici. Dal momento che la situazione è molto importante per il paziente e
gli suscita intense emozioni, la lezione appresa durante lo scambio terapeutico sarà probabilmente
ricordata e messa in pratica.
Diversi metodi educativi possono essere assegnati come compiti da svolgere a casa. Manuali di
autoaiuto e opuscoli vengono attivamente utilizzati nella CBT. 
I programmi per computer della CBT sono risorse psicoeducative  particolarmente valide perché
migliorano l'efficacia del trattamento agendo  come "assistenti" del terapeuta. La CBT computer-
assistita può rinforzare l'apprendimento del paziente, approfondire la sua capacità di
comprensione dei principi della CBT, e promuovere l'uso di metodi di autoaiuto. Wright e colleghi
(1995, 2002, 2004, 2005) hanno introdotto una forma multimediale di terapia cognitiva computer-
assistita, pensata per essere facilmente accessibile all'utente e costruita su misura per un'ampia
gamma di persone, comprese quelle prive di esperienza con computer e tastiere. Questo
programma (Good Days Ahead: The Multimedia Program for Cognitive Therapy) usa un formato
DVD-ROM e contiene una vasta quantità di materiale video e audio in aggiunta a esercizi interattivi
di autoaiuto.
La ricerca su questo programma ha mostrato un ottimo grado di accettazione da parte dei pazienti
e una sostanziale efficacia nella riduzione dei sintomi della depressione (Wright et al., 2002,
2005). 

Formulazione del caso


La formulazione del caso viene utilizzata come una sorta di mappa della terapia. La storia
personale del paziente viene vista attraverso l’ottica della teoria cognitivo-comportamentale per
selezionare i metodi specifici che meglio  corrispondono ai suoi problemi, sintomi, potenzialità e
risorse. L'Academy of Cognitive Therapy raccomanda che la concettualizzazione del caso includa i
seguenti punti:
1) Una presentazione degli aspetti più salienti della storia e dello stato mentale.
2) Almeno tre esempi dettagliati, provenienti dalla vita del paziente, della relazione tra eventi,
pensieri automatici, emozioni e comportamenti.
3) Identificazione degli schemi più importanti.
4) Un elenco dei punti di forza.
5) Un'ipotesi di lavoro che intrecci tutte le informazioni dal punto 1 al 4 con le teorie cognitivo-
comportamentali che maggiormente si adattano alla diagnosi e ai sintomi del paziente.
6) Un piano di trattamento basato sull'ipotesi di lavoro.

Tecniche cognitive
Gli interventi cognitivi usati nella CBT sono progettati prima per identificare  e poi per modificare il
pensiero disfunzionale a due livelli principali dell'elaborazione cognitiva: pensieri automatici e
convinzioni nucleari (schemi). 

Tecniche di identificazione dei pensieri automatici

- Scoperta guidata. La scoperta guidata è una delle tecniche più frequentemente utilizzate
nell'intento di aiutare i pazienti ad articolare i pensieri automatici all'interno della seduta. Questo
procedimento riguarda una cauta evocazione, esplorazione e interrogazione del pensiero del
paziente. Invece di cercare di confutare  un'idea del paziente o convincerlo ad adottare un'idea
116
alternativa, i terapeuti pongono domande secondo uno stile socratico per incoraggiare il
paziente a espandere la sua prospettiva e renderlo partecipe in modo attivo del processo di
apprendimento.

- Riconoscimento dei cambiamenti d'umore. Uno dei modi più efficaci per insegnare ai pazienti
come identificare i pensieri automatici è quello di trovare un esempio tratto dalla vita reale in
cui tali pensieri influenzano le loro risposte emotive. Un cambiamento dell'umore durante la
seduta può essere un momento opportuno per il terapeuta per  facilitare l'identificazione dei
pensieri automatici. Quando il terapeuta osserva il manifestarsi di una forte emozione come la
tristezza, l'ansia o la rabbia, può chiedere al paziente di descrivere i pensieri che hanno
attraversato la sua mente giusto poco prima del cambiamento di umore. Durante il periodo di
attivazione affettiva, i pensieri automatici e gli schemi possono essere estremamente chiari e
accessibili. Quindi i terapeuti devono approfittare dei cambiamenti d'umore che accadono
spontaneamente durante la seduta e possono rivolgere al paziente una serie di domande in grado
di produrre risposte emotivamente intense.

- Imagery e role-playing. L’imagery e il role-playing sono due metodi per far emergere i contenuti
del pensiero quando le domande dirette non hanno successo (o lo hanno solo parzialmente) nel
rivelare il pensiero automatico sottostante. Con alcuni pazienti, questa procedura può essere
introdotta semplicemente domandando di immaginare se stessi in una situazione passata
particolarmente problematica o emotivamente intensa e di descrivere i pensieri che hanno avuto.
Altri pazienti necessitano di domande facilitanti per poter "vedere" la scena. Il terapeuta può
chiedere di descrivere dettagliatamente il contesto. Quando e dove si è verificato l'evento? Cosa è
accaduto immediatamente prima? Come sono apparsi i protagonisti della scena?
Qual è stata la caratteristica principale del contesto? Queste domande rendono la scena viva nella
mente del paziente e facilitano il recupero delle risposte cognitive in quella situazione.
Gli obiettivi del role-playing sono simili. Con questa procedura il terapeuta pone una serie di
domande nel tentativo di comprendere situazioni  disturbanti in contesti interpersonali o sociali.
Con il consenso del paziente  il terapeuta assume il ruolo dell'altro all'interno della scena mentale,
e facilità la recitazione congiunta di un insieme di possibili risposte. Se necessario, i ruoli possono
essere invertiti per richiamare meglio i pensieri automatici significativi.

- Checklist dei pensieri automatici. La checklist dei pensieri fornisce un altro metodo per aiutare i
pazienti a identificare le cognizioni disfunzionali. Possono anche essere utilizzati dei
programmi informatici per addestrare i pazienti a sviluppare liste personalizzate di pensieri
automatici negativi e di altri tipi di cognizione.

- Registrazione dei pensieri. Sebbene i pazienti possano registrare i loro pensieri in diversi modi, i
più cominciano utilizzando la tecnica delle due colonne (“Situazione” e “Pensiero automatico”). È
richiesto al paziente di descrivere una situazione nella prima colonna e di riportare nella seconda
le emozioni associate a quella situazione. In alternativa, un'esercitazione a tre colonne può
includere una descrizione della situazione, una lista dei pensieri automatici e una lista di emozioni
a essi associate.
La registrazione dei pensieri aiuta il paziente a riconoscere gli effetti dei pensieri automatici
sottostanti e a comprendere come il modello di base della CBT (per esempio, la relazione tra
situazioni, pensieri, emozioni e comportamenti) possa essere applicato alle sue esperienze.

Modificazione dei pensieri automatici


117
In generale, non esiste alcuna netta distinzione tra i processi di elicitazione e di modificazione dei
pensieri automatici. Non appena i pazienti cominciano a riconoscere la natura del loro pensiero
disfunzionale, tendono a diventare più obiettivi nel giudicare il reale valore dei loro pensieri
automatici, e di conseguenza cominciano a rivedere le proprie distorsioni cognitive.
In ogni caso sono necessarie tecniche addizionali per promuovere il cambiamento dei pensieri
automatici.

- Esame delle prove. L'esame delle prove è una tecnica nella quale paziente e terapeuta esplorano
in modo collaborativo le prove pro e contro uno specifico pensiero o una  convinzione distorta. Il
terapeuta, man mano che si procede con l'esercizio, scrive il pensiero o la convinzione in cima a un
foglio e traccia due colonne che riguardano le "prove a favore" e le "prove a sfavore" di tale
pensiero o. convinzione. Quindi il paziente viene guidato in una esplorazione metodica e gli viene
chiesto di scrivere ogni elemento di prova. Alla fine di questa procedura le prove a favore della
convinzione vengono stimate e quantificate (per esempio 30%), e così le prove contrarie
(per esempio 70%). Spesso l'esame delle prove di schemi o pensieri automatici  disadattivi
consente di identificare errori cognitivi. Solitamente l'esame delle prove contrarie suscita una
riformulazione delle cognizioni disfunzionali e favorisce uno stile di pensiero più razionale.

- Applicazione delle tecniche di riattribuzione. I terapeuti cognitivo-comportamentali utilizzano


diversi tipi di procedure di riattribuzione: intervento psicoeducativo sui processi di
attribuzione, domande in stile socratico che stimolino la riattribuzione, scale e grafici
per riconoscere e rinforzare attribuzioni alternative, e assegnazione di compiti a  casa per testare
l'accuratezza delle attribuzioni. Scopo base di questo lavoro  è aiutare il paziente a operare
attribuzioni ragionevoli riguardo ai life events, evitando che si colpevolizzi inutilmente o
eccessivamente, che dia troppo peso agli eventi negativi o che sviluppi un senso di immutabilità
della propria vita. Gli errori effettivi ed eventi negativi vengono identificati e incoraggiata
un'attribuzione di significato equilibrata.

- Identificazione degli errori cognitivi. A.T. Beck e altri hanno delineato sei categorie principali di
errori cognitivi: 1) astrazione selettiva, 2) inferenza arbitraria, 3) pensiero assolutistico (dicotomico
ovvero tutto-o-nulla), 4) esagerare o minimizzare, 5) personalizzazione, e 6) pensiero catastrofico.
Astrazione selettiva: è un errore cognitivo consistente nell’arrivare alle conclusioni basandosi solo
su una piccola porzione dei dati disponibili;
Inferenza arbitraria: è un errore cognitivo consistente nell’arrivare alle conclusioni senza
sufficienti prove a sostegno o nonostante la presenza di controprove;
Pensiero assolutistico (tutto-o-nulla): è un errore cognitivo consistente nel categorizzare se stessi
o le esperienze personali all’interno di rigide dicotomie (per esempio, tutto buono o tutto cattivo,
tutto perfetto o tutto disastroso, successo totale o totale fallimento;
Esagerare o minimizzare: è un errore cognitivo consistente nell’ipervalutare o sottovalutare il
significato di una caratteristica personale, di un evento di vita o di una possibilità futura;
Personalizzazione: è un errore cognitivo consistente nel collegare gli accadimenti esterni a se
stessi (per esempio colpevolizzarsi, assumersi le responsabilità, criticarsi) sebbene non sussistano,
o solo in forma lieve, tali associazioni;
Pensiero catastrofico: è un errore cognitivo consistente nel predire il peggior risultato possibile
ignorando altre più probabili possibilità.
Ai pazienti viene insegnato ad individuare i propri caratteristici errori cognitivi e li aiutarno a
modificare i pensieri automatici.

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- Registrazione del cambiamento dei pensieri. La registrazione del cambiamento dei pensieri aiuta
i pazienti a 1) osservare e riconoscere i pensieri automatici, 2) applicare dei metodi per modificare
i pensieri distorti, e 3) riconoscere i risultati positivi a livello di emozioni e nei loro comportamenti
che risultano dal cambiamento nel loro modo di pensare.
La registrazione del cambiamento del pensiero prevede una  tabella composta da cinque colonne
con le seguenti intestazioni: situazione, pensieri automatici, emozioni, risposte razionali ed esito.
I pazienti dapprima utilizzano le prime due colonne per scrivere un evento, i pensieri automatici a
esso associato, e il grado (per esempio da 0 a 100%) di convinzione rispetto a questi pensieri. La
terza colonna viene usata per identificare l'emozione specifica connessa a ciascun pensiero
automatico e il livello o grado di ogni emozione (0-100%). La quarta colonna serve a registrare
le alternative razionali ai pensieri distorti. Questo passo è un elemento cruciale nell’uso della
registrazione del cambiamento dei pensieri poiché stimola i pazienti a valutarne la validità.
Possono essere utilizzati diversi metodi per modificare i pensieri automatici in modo da stabilire
una lista di pensieri razionali alternativi come la tecnica di identificazione degli errori cognitivi,
l'esame delle prove e l'applicazione della. La quinta colonna (esito) viene utilizzata per registrare
ogni cambiamento verificatosi come risultato della rassegna e modificazione dei pensieri
automatici.
Sebbene l'uso della registrazione del cambiamento dei pensieri conduca solitamente a sviluppare
un insieme di cognizioni più adattive e a una riduzione delle emozioni dolorose, a volte i primi
pensieri automatici si rivelano adeguati. In tali situazioni, il terapeuta aiuta il paziente ad assumere
un approccio orientato al problem solving, in aggiunta allo sviluppo di un piano d'azione finalizzato
a gestire meglio l'evento stressante o disturbante.

- Identificazione degli schemi. Il processo di identificazione e modificazione degli schemi è di solito


più difficile rispetto alla registrazione del cambiamento dei pensieri in quanto queste convinzioni
nucleari sono maggiormente incapsulate, possono essere distanti dalla consapevolezza del
paziente, e solitamente si sono rinforzate nel  corso degli anni. Due metodi utili sono la tecnica
della freccia discendente e l'identificazione dei pattern ricorrenti di pensieri automatici.
La tecnica della freccia discendente è una potente metodologia cognitiva volta ad aiutare il
paziente a scoprire le convinzioni nucleari negative (gli schemi nucleari). Il terapeuta pone una
serie di domande mirate a esporre livelli sempre più profondi di riflessione. Le domande
inizialmente sono rivolte ai pensieri automatici che vengono identificati attorno all'evento
attivante. Il terapeuta che deduce la presenza di uno schema sottostante rivolge una serie di
domande concatenate che si basa sulla supposizione che le convinzioni distorte possano di fatto
essere vere.
La maggior parte delle domande viene posta in questo modo: "Se questo pensiero fosse vero, cosa
ci direbbe di lei (o degli altri o del futuro)?". Questa tipologia di domande va posta nel modo più
collaborativo e supportivo.
- L’identificazione dei pattern ricorrenti dei pensieri automatici è una tecnica che il paziente
acquisisce gradualmente e che può essere usata come un’attività specifica della seduta o come
compito da svolgere a casa nell'intervallo fra le sedute. Buone fonti di materiale per queste
ricerche possono essere un lavoro precedente eseguito con la registrazione del cambiamento dei
pensieri, l'esame delle prove, o altri esercizi scritti della CBT. Una volta identificato un pattern, ai
pazienti viene chiesto se i pensieri hanno un tema particolare che possa indicare una convinzione
nucleare sottostante.

- Uso della checklist degli schemi. L'uso di una checklist aiuta i pazienti a riconoscere schemi che
altrimenti potrebbero restare ignorati. Questo tipo di esercizio può essere particolarmente utile
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nell'identificazione di convinzioni nucleari sane o positive che vengono oscurate da depressione,
ansia, o altri sintomi di disturbi mentali. Il riconoscimento di schemi adattivi fornisce delle buone
basi per l'aumento dell'autostima e dell'autoefficacia. 

Modificazione degli schemi


Gli interventi tipicamente usati per la modificazione degli schemi includono l'esame delle prove la
generazione di alternative, l'uso della ripetizione cognitiva e la lista costi-benefici. Dopo che uno
schema è stato identificato, il terapeuta può chiedere al paziente di usare la procedura
della doppia colonna, che viene usata per stimolare il dubbio riguardo alla validità dello schema e
portare il paziente a dare delle spiegazioni alternative.
L'intervento dell'esame delle prove viene spesso combinato con un altro  passo volto alla
modificazione dello schema ovvero la produzione di alternative. Il terapeuta utilizza un metodo di
indagine di tipo socratico e altre tecniche della  CBT come l'imagery e il role-playing per aiutare il
paziente a riconoscere schemi potenzialmente alternativi. Viene incoraggiato un atteggiamento di
tipo brainstorming. Piuttosto che cercare di assicurarsi che uno schema modificato sia del tutto
adattivo, il terapeuta solitamente suggerisce che i pazienti cerchino di generare una varietà di
schemi modificati senza considerare inizialmente la loro attuabilità o validità. Questo approccio
stimola la creatività e incoraggia il paziente a uscire da schemi rigidi e ripetitivi. Una volta che sono
state generate e discusse le alternative, la terapia passa all'esame delle potenziali conseguenze
che seguono al cambiamento degli atteggiamenti di base. La ripetizione cognitiva può essere
usata all'interno della seduta per vagliare la modificazione di uno schema. Possono inoltre essere
assegnati compiti a casa, al fine di sperimentare in vivo lo schema rivisto. Solitamente
il cambiamento di uno specifico comportamento, correlato con lo schema rivisto, ha bisogno di
essere messo in pratica ripetutamente prima che le credenze nucleari modificate siano
completamente incorporate e messe in atto.
In aggiunta a queste tecniche, i pazienti possono essere addestrati a compilare una lista dei costi-
benefici di uno schema. Questa procedura ha lo scopo di portare alla consapevolezza le
motivazioni interne che portano i pazienti ad accettare pienamente uno schema più adattativo.
Una volta che rischi e benefici sono chiari, il paziente può scegliere di mantenere lo schema
oppure di rimpiazzarlo con uno più adattivo.  Stendere una lista dei costi-benefici può aiutare il
paziente a valutare l'intera gamma degli effetti di uno schema e spesso incoraggia le modificazioni
che possono rendere lo schema sia più adattivo sia meno dannoso. 

Metodi comportamentali per i sintomi della depressione e dell’ansia 

Attivazione del comportamento


L'attivazione del comportamento è una tecnica con cui i pazienti vengono assistiti nella
modificazione di pattern di inattività, anedonia, procrastinazione e ritiro sociale.  
Per i pazienti che si trovano nelle prime fasi di una terapia e sono altamente sintomatici,
l'attivazione comportamentale può riguardare la scelta di un  compito o di un'attività che hanno
evitato, ma che potrebbe stimolare l’aumento  di attività ed energia. Esempi riguardano il prendere
l'impegno di fare una passeggiata di 20 minuti due volte alla settimana, accettare di cucinare un
pasto nella prossima settimana, o accettare un invito da un amico per andare al cinema. Attività
più richiedenti possono essere usate per l’attivazione  comportamentale in fasi più avanzate della
terapia o con i pazienti che presentano meno sintomi. 
La collaborazione nella scelta dell'attività è fondamentale per una buona riuscita dell'esercizio.
Quando possibile, i pazienti dovrebbero assumere un ruolo guida nella selezione dell'obiettivo
dell'intervento e dare un'onesta valutazione delle loro  capacità rispetto al completamento del
120
compito assegnato. I terapeuti spesso possono aumentare le possibilità di un buon risultato
aiutando i pazienti a identificare i possibili ostacoli al completamento del compito.  

Pianificazione delle attività


La pianificazione delle attività è frequentemente utilizzata nella CBT quando i pazienti hanno un
basso livello di energia e soffrono di anedonia. Si tratta di un caposaldo nel trattamento della
depressione, ma può essere anche utile in ogni condizione clinica in cui i pazienti hanno difficoltà a
organizzare il loro tempo. La pianificazione delle attività comprende una valutazione delle  attività
del paziente (attraverso la quale gli viene richiesto una valutazione da 0 a 10 di quell’attività).
L’obiettivo è aumentare la capacità di padronanza e il piacere.
Tipicamente, i pazienti vengono invitati a impegnarsi in un'attività durante la seduta terapeutica e
istruiti su come completarla.
Esempi di attività svolte recentemente possono essere utilizzati per mettere in risalto la relazione
tra la partecipazione alle attività e l'esperienza del paziente riguardo alla sua capacità di
padronanza e il livello di gradimento percepito. Per esempio, un uomo gravemente depresso
aveva affermato di non essere più in grado di gioire di nulla. Eppure, quando gli fu chiesto di dare
una valutazione dell'esperienza di assistere a una partita di pallone del figlio, riporta un grado di
piacere pari a 6 e un grado di padronanza pari a 7. Per alcuni pazienti, una settimana densa di
attività programmate può rivelarsi un compito fruttuoso. 
Dopo aver raccolto i programmi delle attività di base con gli annessi punteggi di capacità di
padronanza e piacere, il terapeuta può aiutare il paziente  a organizzare un piano giornaliero per
aumentare tali sensazioni. Il paziente può cercare di aumentare le attività che hanno totalizzato un
punteggio maggiore di padronanza e piacere, anche effettuando un brainstorming su ciò che può
stimolare attività produttive da aggiungere al piano settimanale. Vengono discussi problemi o
mancanze nella capacità di padronanza o di gradimento, e vengono formulate strategie indirizzate
a questi problemi. Un altro argomento di discussione fruttuoso può essere la capacità di gestire il
tempo del paziente.
La revisione di un programma di attività può offrire molte opportunità per identificare i pensieri
negativi, le distorsioni cognitive, o qualunque schema possa contribuire alle manifestazioni
comportamentali di depressione o ansia. 

Assegnazione di attività graduali


L'assegnazione di attività graduali riguarda lo scomporre attività apparentemente troppo gravose
in parti più gestibili. L'assegnazione di attività graduali può richiedere un'analisi cognitiva del
compito per identificare le distorsioni che precedono l'avvio del piano comportamentale. Spesso
sono necessarie diverse ripetizioni del procedimento in modo che il paziente e il terapeuta
possano lavorare insieme per rendere praticabile ogni sua parte. Il piano dovrebbe cominciare con
piccoli compiti e indirizzarsi gradualmente verso altri più consistenti e complicati. I pazienti
possono avere bisogno di consigli su come portare a termine le varie tappe assegnate.

Addestramento al rilassamento
Le tecniche di rilassamento vengono comunemente utilizzate per trattare  i sintomi dell'ansia,
specialmente in quei pazienti che presentano tensioni muscolari. Un metodo frequentemente
utilizzato è il rilassamento progressivo. In questo approccio il paziente viene istruito a rilassare
sistematicamente dei gruppi muscolari in tutto il corpo, uno alla volta. Questa tecnica può essere
combinata con l'imagery, la meditazione o le tecniche di respirazione. Durante il rilassamento il
paziente può riferire l'emergere di pensieri che potranno essere indagati successivamente. Le

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tecniche di rilassamento possono essere insegnate e messe in pratica all'interno delle sedute e
utilizzate dal paziente tra una seduta e l'altra.

Esposizione e prevenzione della risposta


Essendo l'evitamento una delle caratteristiche centrali dei disturbi d'ansia, le tecniche di
esposizione sono un elemento essenziale della CBT per queste condizioni mentali. Solitamente i
metodi di esposizione vengono proposti  in forma graduale, così che il paziente possa inizialmente
fronteggiare lo stimolo che gli provoca minori livelli di ansia, e progressivamente sperimentare
stimoli più ansiogeni. Con la collaborazione del paziente, viene stabilita una gerarchia di passi
multipli di esposizione agli stimoli. Spesso viene usata una scala da 0 a 100 per misurare la quota
d'ansia associata a ogni passo successivo. L'esposizione può essere messa in atto in vivo, oppure
mediante l'uso dell'imagery. Sono inoltre disponibili dei programmi di realtà virtuale per la
simulazione di situazioni ansiogene (per esempio, simulatori di volo per l'ansia di volare, di ricordi
traumatici in caso di PTSD, di situazioni sociali per l'ansia sociale) da attuare nello studio del
terapeuta.

Metodi di terapia cognitivo-comportamentale per disturbi specifici 

Schizofrenia 
L’intervento psicoeducativo e la “logica della normalizzazione” sono elementi  chiave degli stadi
iniziali della CBT per la schizofrenia (Kingdon, Turkington, 1991, 2005). Una parte del processo si
basa sul chiedere al paziente quale spiegazione si dia dei sintomi. Spesso le risposte riflettono
convinzioni disfunzionali e quindi offrono opportunità utili per la rieducazione e la  riduzione degli
aspetti più penalizzanti della malattia. 
La logica della normalizzazione può essere un fulcro di spunti per aiutare i pazienti a comprendere
la loro malattia in modo più chiaro e razionale  (Kingdon, Turkington, 1991, 2005). Il terapeuta
cognitivo-comportamentale spiega che esperienze come la paranoia o il sentire delle voci sono
molto comuni e possono essere provocate dalla mancanza di sonno, da deprivazione sensoriale,
da condizioni mediche o da altre fonti di stress. La discussione può condurre alla presentazione di
un modello stress-vulnerabilità ai  sintomi. Lo scopo di questo procedimento è aiutare i pazienti a
sviluppare una concettualizzazione basata su tre elementi chiave: 1) i sintomi psicotici  possono
verificarsi in un'ampia gamma di persone e per questo essere parte  di un'esperienza "normale": 2)
lo stress può interagire con una vulnerabilità biologica e produrre o peggiorare i sintomi; 3) i
problemi possono essere ridotti o risolti imparando a padroneggiare i sintomi e a gestire lo stress.
Se questa concettualizzazione viene compresa e accettata, il lavoro terapeutico, riferito alla
riduzione dei deliri e delle allucinazioni e alla remissione dei sintomi negativi, avrà maggiori
probabilità di successo.
La CBT per il trattamento dei deliri si affida in primo luogo all'uso del dialogo socratico e alla
scoperta guidata per aiutare gradualmente i pazienti a vedere i problemi in una prospettiva
differente. Esaminare le prove può essere una tecnica specifica abbastanza utile. 
Dopo aver esaminato le prove all'interno della seduta, si dovrebbero assegnare dei compiti a casa
per verificare la convinzione oppure ottenere ulteriori informazioni. È importante che il terapeuta
mantenga un atteggiamento empirico durante l'attuazione  di questo lavoro. Invece di persuadere
il paziente ad abbandonare un delirio, il terapeuta lavora con il paziente come una squadra
investigativa. Insieme esplorano le prove nel tentativo di giungere alla conclusione più razionale.
L’intervento su questi pazienti è volto prevede un’esposizione graduale ai problemi.
Il lavoro terapeutico sulle allucinazioni riguarda inoltre la produzione di  liste di comportamenti che
possono sia aggravare sia ridurre l'intensità del  sintomo. Per esempio, una paziente ha constatato
122
che le "voci" erano più frequenti dopo una deprivazione di sonno, dopo discussioni con i genitori, e
dopo aver passato troppo tempo da sola senza praticare alcun'attività. Al contrario, ascoltare
musica rilassante, stare con un'amica, dipingere, e andare a mangiare fuori potevano ridurre le
allucinazioni. Possono essere messi in atto dei piani comportamentali per fronteggiare le influenze
negative e per identificare più frequentemente dei metodi di coping. Se i pazienti hanno difficoltà
nel trovare dei modi per ridurre le allucinazioni, può risultare utile fornir loro una lista di strategie
comunemente usate.
Gli interventi cognitivi e comportamentali per i sintomi negativi sono meno diretti rispetto alle
tecniche per i sintomi positivi. Kingdon e Turkington (2005) raccomandano un approccio cauto per
i sintomi negativi. Invece di spingere aggressivamente i pazienti a rompere gli schemi
comportamentali di isolamento sociale o apatia, i terapeuti devono costruire gradualmente
la relazione terapeutica e sostenere i pazienti a raggiungere i loro obiettivi di  cambiamento, anche
se questi obiettivi sono piuttosto modesti. Quando i pazienti sono pronti a iniziare un
cambiamento dei sintomi negativi, i terapeuti possono suggerire delle tecniche come
l'assegnazione di compiti graduali per aiutarli a compiere i primi passi verso il miglioramento.

Disturbi alimentari 

La CBT si è rivelata efficace per la bulimia e il  binge-eating. La terapia cognitiva per queste
patologie si focalizza sulle convinzioni disadattive riguardo ał cibo, al peso, all’immagine corporea
e al valore di sé, e sui comportamenti disfunzionali associati. Il piano di trattamento solitamente
comincia con interventi comportamentali volti alla normalizzazione del  comportamento
alimentare, per poi passare a interventi di tipo cognitivo orientati verso le convinzioni sottostanti e
disadattive, e infine concludersi con una strategia di prevenzione delle ricadute.

Automonitoraggio e pianificazione dei pasti


Nella prima fase del trattamento, i pazienti creano una scheda di automonitoraggio che usano per
registrare tutto ciò che mangiano e ogni sintomo  associato al disturbo alimentare. I pazienti
riportano l'ora e il contenuto del pasto, dove è stato consumato e il tipo di pasto (uno spuntino,
un'abbuffata o un pasto completo). Riportano inoltre se si tratta di un pasto pianificato o non
pianificato, e se è associato a condotte di eliminazione, uso di lassativi esercizio fisico, nonché i
sentimenti e i pensieri associati.
Una prescrizione collaborativa del pasto può essere utilizzata per quei  pazienti che hanno bisogno
di maggior sostegno. La prescrizione alimentare è un piano scritto, assai dettagliato, che istruisce
i pazienti su quando mangiare, specificando i cibi da consumare, dove debba essere consumato il
pasto e la sua durata. Esso libera temporaneamente il comportamento alimentare da ogni
processo decisionale. La pianificazione del pasto può essere gradualmente implementata con lo
scopo iniziale di distanziare i pasti durante la giornata, allungando la durata dei pasti e mangiando
cibi che il paziente considera sicuri. Una volta che gli stadi iniziali della pianificazione dei pasti
vengono padroneggiati dal paziente, il terapeuta e il paziente possono decidere di aumentare la
quantità di cibo da mangiare e la gamma di alimenti da consumare.

Ristrutturazione cognitiva
I pazienti con disturbi alimentari hanno spesso una scarsa autostima e dedicano una considerevole
quantità di tempo a tracciare un bilancio giornaliero dei successi e dei fallimenti. La tecnica di
decentramento può essere usata per rivedere l'approccio del paziente nei confronti del proprio
valore e dell'esigenza di perfezione. Il decentramento comporta domandare ai pazienti se
considerano gli altri meno degni di stima qualora commettano degli errori o non raggiungano
123
determinate prestazioni in un particolare giorno. Considererebbero il terapeuta "un perdente", o
degno di minore stima se tardasse di cinque minuti l'inizio della seduta? 

Disturbo bipolare
Nei disturbi bipolari la CBT pone particolare attenzione ad aiutare i pazienti  ad apprendere come
monitorare efficacemente i sintomi, identificare i potenziali eventi in grado di causare ricadute, e
sviluppare competenze che possono arrestare l'escalation verso la depressione o la mania.
Dal momento che i pazienti con questo disturbo spesso minimizzano il significato dei sintomi di
ipomania o mania, e possono negare completamente di avere un problema, la fase di apertura del
trattamento riguarda spesso lo sviluppo di una relazione efficace e di interventi psicoeducativi . 
Spesso vengono utilizzati grafici riferiti all'oscillazione dell'umore come strumenti per
incrementare la consapevolezza del paziente. Un altro utile metodo suggerito da Basco e Rush
(2005) consiste in un foglio di lavoro di sintesi dei sintomi. Questo esercizio aiuta il paziente  a
identificare i segnali precoci di un incombente cambiamento di umore, in aggiunta ai segnali più
pronunciati di episodi completi di depressione o mania. 
Altri usuali obiettivi della CBT per gli interventi sui disturbi bipolari riguardano: 1) disturbi del
sonno; 2) scarsa adesione alla cura farmacologica; 3) distorsioni cognitive e pensieri automatici
nella mania; 4) stress; e 5) assenza di una routine quotidiana. I metodi della CBT per l'insonnia si
sono rivelati abbastanza efficaci (Edinger et al., 2001; Sivertsen et al., 2006) e vengono
quotidianamente utilizzati nel trattamento di disturbi bipolari (Basco, Rush, 2005). L'aderenza alla
cura farmacologica viene promossa grazie all'uso di sistemi di promemoria comportamentali ed
elicitando e modificando le condotte disfunzionali riguardo all'assunzione di farmaci. I terapeuti
possono aiutare i pazienti a identificare gli ostacoli all'aderenza alla cura farmacologica e
progettare insieme a loro dei piani per superare queste barriere. Per quanto riguarda pensieri
automatici ed errori cognitivi nell’ipomania o mania, la CBT può utilizzare interventi standard
come la registrazione dei cambiamenti di pensiero e l'esame delle prove. In ogni caso, il focus
riguarda le cognizioni distorte in senso favorevole, la sottostima del rischio e l’esternalizzazione
delle proprie responsabilità.
Nella CBT, i terapeuti devono indagare le abitudini relative al sonno e gli orari di risveglio, l'orario
dei pasti, la programmazione del lavoro, e altre attività che definiscono il programma giornaliero
del paziente. Nel caso vengano notate delle significative irregolarità nel programma giornaliero, è
importante che si attuino dei cambiamenti per ridurre questa variabilità. I metodi della CBT per i
disturbi bipolari possono includere un lavoro di costruzione di competenze per il
padroneggiamento dello stress. Per esempio, l'addestramento al rilassamento, esercizi di
respirazione, o tecniche di imagery possono essere applicati per ridurre la tensione; la
pianificazione di eventi piacevoli può essere utilizzata per fornire distrazioni salutari da situazioni
stressanti; o possono essere messi in atto degli sforzi per aumentare la capacità di problem
solving.

Psicoterapia interpersonale individuale


Introduzione 

124
La psicoterapia interpersonale ha cominciato a prendere forma a cavallo tra gli anni Sessanta e
Settanta negli Stati Uniti per iniziativa dello psichiatra Gerald L. Klerman, che pensò bene, nelle
patologie depressive, di affiancare agli antidepressivi un aiuto psicologico.
Ha messo quindi a punto una psicoterapia breve, di facile applicazione, con obiettivi limitati
(migliorare i problemi interpersonali dei pazienti depressi) ma verificabili nell'arco di 8 settimane,
che era il periodo previsto per la valutazione dei farmaci.
Questo disegno di ricerca è stato realizzato per la prima volta nell'ambito di uno studio messo a
punto per valutare l'effetto preventivo, dopo la fase acuta, del prolungamento della terapia
farmacologica antidepressiva sulle recidive (Klerman et al., 1974).
Il dato che indicava un'efficacia significativa dell'apporto psicologico sulla dimensione relazionale e
sociale delle pazienti studiate ha fornito lo spunto alla progressiva messa a punto della
psicoterapia interpersonale individuale che, a seguito di numerose ricerche, fu inserita nel ristretto
novero degli empirically supported treatments (EST) alla fine degli anni Ottanta e, in  seguito, nelle
linee guida ufficiali per la depressione americane e inglesi, fatto che implicava anche la
rimborsabilità della terapia da parte delle compagnie di assicurazione americane.  
Inoltre, a fianco degli studi sulla depressione, sono state sviluppate numerose ricerche controllate
su questa forma di psicoterapia riguardanti indicazioni cliniche disparate che hanno portato a un
notevole ampliamento delle applicazioni terapeutiche, viste comunque come impiego della
medesima tecnica. 
Due fattori, che emergono facilmente scorrendo la letteratura, riguardano la scarsa diffusione di
questa psicoterapia sia negli USA sia altrove e l'assoluta prevalenza di lavori di ricerca rispetto a
quelli riguardanti la pratica clinica. La psicoterapia interpersonale individuale è attualmente la
psicoterapia più studiata, con oltre 150 studi di efficacia teorica e pratica. Nonostante  ciò non è
molto diffusa né usata. Gran parte dei clinici e degli accademici sa  che esiste, ma conosce ben
poco della sua struttura e della sua applicazione. Infatti, la letteratura riguardante il suo impiego
nel reale mondo dei pazienti appare molto scarsa.
L’origine e l’applicazione solo accademica di questa psicoterapia ha portato a scegliere casistiche
troppo selettive e, soprattutto, a "strangolare" la sua utilizzazione pratica con riferimenti ai
manuali e protocolli di ricerca troppo rigidi.
Ne deriverebbe anche l'eccessiva attenzione alle modifiche della sintomatologia (specificamente
riferita alla nosografia DSM-IV) a scapito di altri aspetti del paziente e la rinuncia imposta ai
terapeuti di utilizzare l’esperienza e il giudizio clinico a favore di un approccio sufficientemente
individualizzato.
Autori come Stuart temono che la richiesta di fidelizzazione e adesione piena che la psicoterapia
interpersonale individuale richiede, dia a questa forma di questa psicoterapia un’immagine troppo
casta e ortodossa che allontana i possibili terapeuti interessati.
Anche la sua diffusione in Italia sembra scarsa, sia come applicazione pratica sia come possibilità di
training. Essa viene criticata nel nostro territorio per essere riduttiva e schematica, nata da un
manuale ipersemplificato, per essere insegnata meccanicamente in fretta a operatori non
competenti in ambito psicoterapico e per essere sperimentata nell’Istituto Nazionale per la Salute
Mentale (NIHM).

Parte IV: Psicoterapia supportiva individuale

125
Introduzione 
La psicoterapia supportiva ha un’identità incerta e i suoi confini sono molto vaghi. È molto diffusa
nella pratica clinica e per questo motivo abbastanza conosciuta ma è poco diffusa a livello di
ricerca.
Gli scopi della psicoterapia supportiva sono definiti  da una sorta di triangolo i cui vertici sono il
recupero o il miglioramento  di: a) autostima (senso di efficacia, fiducia in se stessi, speranza); b)
funzionamento psicologico (le funzioni dell'lo di esame di realtà, relazioni oggettuali,  meccanismi
cdi difesa, regolazione emotiva ecc.); c) capacità adattive (comportamenti finalizzati a rendere
efficace il funzionamento psicosociale). Come si può notare questa definizione essi ha molti aspetti
di sovrapposizione con la psicoterapia dinamica di tipo espressivo. Tuttavia, nella
psicoterapia supportiva l'accento viene posto non sulla tecnica terapeutica ma sugli
scopi dell'intervento, nel senso di ottimizzare l'armamentario terapeutico disponibile da parte del
terapeuta (le competenze tecniche, ma soprattutto la capacità di costruire l’alleanza terapeutica),
al fine di massimizzare tutti quei fattori che stanno alla base di un maggior benessere psicologico
del paziente.
Gli studi sull'efficacia della psicoterapia supportiva possono essere molto scarsi o tantissimi a
seconda che la si veda come approccio psicoterapeutico o come submodello specifico. In quanto
approccio terapeutico, e infatti pressoché impossibile valutare l’efficacia della psicoterapia
supportiva proprio perché è un ingrediente implicito non solo all'interno dei vari modelli
terapeutici utilizzati nei trial ma anche in forme broadband di intervento psicologico, compreso il
counseling e verosimilmente anche nelle varie forme di interventi placebo. Come submodello
specifico, ha mostrato in alcuni studi di essere abbastanza efficace, da sola o in associazione con
farmaci.
Il dibattito sulla psicoterapia supportiva in Italia, almeno in ambito analitico, condivide con quello
internazionale la critica alla rigida separazione del modello supportivo da quello espressivo. 
Riprendendo la differenziazione di Kernberg tra psicoanalisi, psicoterapia psicoanalitica e
psicoterapia supportiva, Migone ritiene sia impossibile distinguere le forme di psicoterapia
analitica in base alla differenza di tecniche di trattamento. Per esempio, per uno “psicoterapeuta
dinamico supportivo” non ha senso astenersi dall'analizzare il transfert, se necessario;
analogamente, per uno "psicoanalista", non ha senso analizzare forzatamente il transfert se inutile
o dannoso. 
Vi è una consapevolezza diffusa fra clinici e ricercatori  che la psicoterapia supportiva: 
- si basa largamente su ingredienti aspecifici e comuni alle psicoterapie, risultando meno
interessante e meno produttivo il tentativo di una sua formalizzazione in senso stretto come
(sub)modello specifico;
- potrebbe essere indicata in linea di massima per le forme più gravi di psicopatologia, almeno in
un'ottica psicodinamica;
- più frequentemente si alterna con atteggiamenti esplorativi nel corso di  un trattamento con lo
stesso paziente in rapporto a specifici bisogni del paziente e fasi del trattamento;
- presuppone comunque un ruolo proattivo sia del paziente sia del terapeuta nel favorire le
massime condizioni di benessere psicologico possibili in relazione alle condizioni cliniche e
individuali di ingresso.

126
Fondamenti teorici della psicoterapia supportiva (Cap. 14 - Gabbard)
I presupposti teorici della psicoterapia supportiva si basano su una varietà di approcci tra cui
quello psicoanalitico, quello cognitivo-comportamentale e le teorie dell'apprendimento.
Gli psicoterapeuti devono essere in grado di integrare i vari approcci teorici in una psicoterapia
coesa e ben strutturata, che deve basarsi su bisogni specifici del paziente.

Il continuum psicopatologia-psicoterapia
Un concetto importante per comprendere le indicazioni alla psicoterapia supportiva e la sua
relazione con la psicoterapia espressiva ed esplorativa è il continuum psicopatologia-psicoterapia.
Il funzionamento di ogni individuo è collocabile lungo un continuum psicopatologico o di
salute/malattia, a seconda del livello di psicopatologia, delle capacità di adattamento, del concetto
di sé e delle capacità di relazionarsi agli altri. Il continuum si estende dai pazienti più compromessi
agli individui più sani. Gli individui che si collocano sul lato sano del continuum tendono a
funzionare adeguatamente, ad avere buone relazioni interpersonali, a condurre vite produttive
e sono in grado di trarre piacere da un'ampia gamma di attività in maniera relativamente libera da
conflitti. Al centro del continuum si collocano i pazienti il cui adattamento e comportamento sono
instabili e che mostrano i significativi problemi nel mantenere un funzionamento coerente e
relazioni stabili.
La collocazione degli individui su questo continuum è associata alla diagnosi. Pazienti con
schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo borderline di personalità generalmente sono collocabili
sul polo più compromesso del continuum. Individui con migliore adattamento, come i pazienti con
disturbi di personalità di cluster C, distimia e disturbi dell'adattamento, sono generalmente
collocabili sul polo più sano del continuum. Per quanto la diagnosi possa fornire un'indicazione
generale per collocare ogni individuo lungo il  continuum, la sua posizione effettiva dipenderà dal
suo grado di psicopatologia e dal suo livello di adattamento.
Abbinare la tecnica psicoterapeutica alla posizione del paziente lungo il continuum salute-malattia
riveste un'importanza cruciale. Sul lato sinistro del continuum si collocano gli approcci supportivi
finalizzati alla costruzione di una struttura psicologica, di stabilità, di autostima, di un  senso coeso
di sé e di migliori relazioni interpersonali in pazienti più gravi.
Sul lato più sano del continuum si collocano invece le terapie espressive che di solito fanno ricorso
a un modello interpersonale/conflittuale. Il concetto di terapia espressiva è stato utilizzato
come termine comprensivo di una varietà di approcci finalizzati al cambiamento della personalità
attraverso l'analisi della relazione tra paziente e terapeuta e lo sviluppo di insight relativamente a
sentimenti, pensieri, bisogni e conflitti in precedenza non riconosciuti, a seguito dei quali il
paziente cerca di risolvere coscientemente e integrare meglio tali conflitti. In realtà molti pazienti
non sono collocabili su nessuno dei due poli del continuum, presentandosi con problemi sia
strutturali sia conflittuali, e richiedono pertanto un trattamento  supportivo-espressivo. Infatti,
anche le terapie più esplorative includono alcune componenti supportive e le terapie supportive
possono integrare elementi di terapia esplorativa.

Teoria psicoanalitica
La teoria psicoanalitica si estende dalla tradizionale teoria pulsione-conflitto, alla psicologia dell'Io,
alla teoria delle relazioni oggettuali, alla teoria del Sé e ai modelli
interpersonali/relazionali. Modelli che si focalizzano meno sul conflitto e sulle pulsioni possono

127
avere maggiore potere esplicativo per pazienti con profili psicopatologici più gravi e di fatto sono
quelli che trovano maggiore applicazione nella psicoterapia supportiva.

Psicologia dell'lo
La psicologia dell’Io ci fornisce una chiave di lettura per i pazienti con una significativa
compromissione del proprio funzionamento. L’approccio strutturale che essa utilizza cerca di
cogliere le caratteristiche relativamente fisse della personalità e dei sintomi di un individuo, che
sono quindi comprese in un contesto funzionale. In generale, più grave è il disturbo a carico delle
funzioni dell’Io, più risulta indicata l’adozione di un approccio più supportivo.

Rapporto con la realtà


L'esame di realtà, il senso di realtà e l'adattamento alla realtà sono componenti centrali del
rapporto con il reale. L'esame di realtà descrive la capacità di un individuo di valutare il reale.
L'esame di realtà è compromesso in presenza di giudizi erronei ed è grossolanamente disturbato in
pazienti con deliri e allucinazioni. Le compromissioni dell'esame di realtà indicano significativi
problemi strutturali e dovrebbero orientare il clinico verso un approccio terapeutico più
supportivo, finalizzato ad aiutare direttamente il paziente  a sottoporre a verifica la propria visione
della realtà. Il senso di realtà si riferisce alla capacità di un individuo di distinguere sé dall'altro ed
è generalmente indicativo di un'immagine corporea stabile e coesa. Problemi in quest'area
rendono generalmente indicato un approccio più supportivo. L'adattamento alla realtà
descrive come un individuo funziona nel mondo e nella vita di tutti i giorni, in aree quali il lavoro,
la scuola, le interazioni sociali e le relazioni.
Pazienti con una compromissione nel rapporto con la realtà richiedono  un approccio supportivo
che generalmente non include l'esplorazione di sogni  e fantasie e un'analisi in profondità di eventi
relativi al loro passato. I pazienti con un profilo psicopatologico più grave hanno generalmente
bisogno di un approccio basato sulla realtà, con enfasi posta sul funzionamento  attuale e sulla vita
quotidiana.

Relazioni oggettuali
La valutazione delle relazioni oggettuali si basa sulla capacità dell'individuo di relazionarsi in modo
stabile e significativo con individui importanti della sua vita. Questa capacità include la capacità di
formare relazioni intime, di tollerare la separazione e la perdita, e di mantenersi indipendenti e
autonomi.
Essa implica anche il senso di sé, la conoscenza di cosa è dentro di sé e cosa è fuori di sé, e l'abilità
di costruire un'immagine di sé stabile e coesa, senza sminuire o iperidealizzare sé o gli altri. I
pazienti con una significativa compromissione nelle relazioni interpersonali, come relazioni
caotiche, isolamento sociale, bisogni narcisistici o  altamente dipendenti, e/o compromissione nel
senso di sé, di solito richiedono un approccio supportivo.

Affetti, controllo degli impulsi e difese 


L'incapacità di un individuo di fare esperienza di un'ampia gamma di affetti in profondità e di
differenziare gli stati affettivi è generalmente indicativa della necessità di un approccio supportivo
che fornisca un aiuto concreto in quest'area.
La capacità di controllare gli impulsi e modulare gli affetti in maniera adattiva è indicativa di una
struttura difensiva con un buon funzionamento.
Questa capacità implica l'abilità di posticipare la gratificazione e tollerare la frustrazione. Quando il
controllo degli impulsi è compromesso, l'individuo può mettere in atto comportamenti

128
socialmente inaccettabili come aggredire qualcuno verbalmente o fisicamente o essere
irragionevolmente pretenzioso.
Le difese mediano tra i desideri, i bisogni, i sentimenti di un individuo e le proibizioni sia interne sia
imposte dal mondo esterno.
Difese primitive, scarso controllo degli impulsi, grave instabilità affettiva e affettività appiattita
sono indicatori di deficit strutturali e suggeriscono la necessità di un approccio più supportivo.
Il processo esplorativo nella psicoterapia espressiva include l'analisi e l'esplorazione di affetti,
impulsi e difese per i pazienti che sono in grado di tollerare l'esplorazione in profondità di queste
aree. Per i pazienti con un profilo psicopatologico più grave, l'esplorazione degli affetti, degli
impulsi e delle difese sarebbe dirompente e ansiogena. Nella psicoterapia supportiva, le difese, in
particolare quelle adattive, sono rafforzate allo scopo di promuovere la stabilità e un
funzionamento adattivo.     

Processi di pensiero
L'incapacità di pensare in maniera chiara, logica e astratta è un buon indicatore di grave
psicopatologia e quindi l'approccio più indicato è di tipo supportivo.
Capacità adattive compromesse e un funzionamento interpersonale povero sono spesso il risultato
di pensieri automatici e schemi negativi di sé, che potrebbero richiedere di essere affrontati in una
psicoterapia supportiva

Funzioni autonome
La percezione, l’intenzionalità, l'intelligenza, il linguaggio, lo sviluppo motorio sono funzioni
autonome che si ritiene si sviluppino in modo libero da  conflitti. Queste funzioni possono essere
compromesse in pazienti con gravi psicopatologie, e ciò è indicativo del fatto che un approccio
supportivo può essere più appropriato di uno espressivo o esplorativo.

Funzioni di sintesi
La capacità di un individuo di organizzare se stesso e il mondo in modo produttivo per costruire un
tutto o una gestalt coesi è un indicatore delle funzioni di sintesi. Queste funzioni implicano
l'integrazione delle altre funzioni dell’Io e la loro organizzazione in modo tale che l'individuo possa
funzionare in maniera integrata.

Coscienza, valori morali, ideali


La coscienza, i valori morali e gli ideali derivano dall'interiorizzazione di  aspetti delle figure
parentali e delle consuetudini sociali e sono considerati  funzioni superegoiche. Una grave
compromissione di queste funzioni può interferire con la relazione paziente-terapeuta. 
Le funzioni egoiche o psicologiche possono essere usate come base per una formulazione del caso
che riassuma i punti di forza e i deficit del paziente. 

Teorie delle relazioni oggettuali 


La teoria delle relazioni oggettuali sostiene che i bambini sono orientati verso le persone reali e
alla ricerca di relazioni gratificanti. Molti individui assorbono alcuni tratti patologici dei loro
genitori per mantenere un legame con essi. Questi prototipi di relazioni passate, che sono presenti
nelle relazioni oggettuali interiorizzate, entrano in gioco nella relazione terapeutica. Per il
paziente, abbandonare i vecchi pattern connessi ad affetti dolorosi può condurre all'isolamento e
all'abbandono. Il paziente deve essere in grado di fare esperienza del terapeuta in maniera nuova
e più positiva.

129
Il terapeuta deve essere in grado di riparare le rotture nell'alleanza terapeutica. Il processo di
riparazione è correlato al concetto di ciò che Alexander e French (1946) hanno chiamato
"esperienza emotiva correttiva". L'esperienza emotiva correttiva ha luogo quando il paziente
all'interno della relazione paziente-terapeuta, è esposto a situazioni emozionali che nel passato
non è stato in grado di gestire o che hanno avuto per lui una valenza traumatica. L'atteggiamento
del terapeuta è diverso da quello della persona autoritaria del passato e quindi concede al
paziente di affrontare più e più volte in circostanze più favorevoli quelle situazioni emozionali un
tempo vissute come non tollerabili e di gestirle in maniera diversa dal passato. In pratica un
obbiettivo fondamentale del terapeuta di questo orientamento è fornire al paziente
l’opportunità di fare esperienza di un tipo differente di relazione che contrasta  con le esperienze
del passato vissute con altri significativi. Basti pensare al concetto di holding di Winnicot o i
contributi teorici di Bowlby e Fairbairn.
Il terapeuta non reagisce e non affronta la rabbia e la mancanza di fiducia del paziente  ma
piuttosto risponde in maniera accettante ed empatica, fornendo un'esperienza emotiva correttiva.
Mantenere una relazione di transfert positiva è cruciale, altrimenti, il paziente non  può acquisire il
senso di sicurezza. Inoltre, il terapeuta si concentra sulla situazione attuale e non esplora
implicazioni simboliche o transferali.

Psicologia del Sé 


Quando la responsività empatica dei genitori nei confronti del bambino risulta ripetutamente
distorta o inappropriata, possono verificarsi problemi nello sviluppo del Sé. Secondo Kohut, il
terapeuta fornisce a questo tipo di paziente un nuovo tipo di esperienza, cioè una posizione
empatica/introspettiva.
L'obiettivo dell'approccio psicoanalitico di Kohut è promuovere lo sviluppo del paziente attraverso
una comprensione accurata ed empatica dei suoi  bisogni e l'interpretazione di tali-bisogni al
paziente stesso. Tuttavia, inevitabilmente, il terapeuta si ritroverà a fallire nel rispondere
costantemente ai bisogni del paziente. Nella psicoterapia supportiva il terapeuta non sottopone a
interpretazione i bisogni del paziente, ma piuttosto riconosce tali fallimenti nel rispondere ai
bisogni del paziente e opera per ristabilire l’alleanza  paziente-terapeuta usando tecniche
supportive. Le riparazioni a questo tipo di rotture nell'alleanza conducono a un rafforzamento
delle strutture del Sé e a un'interiorizzazione, da parte del paziente, delle qualità  positive del
terapeuta. 

La relazione terapeutica 
La relazione terapeutica può essere suddivisa in tre componenti: la configurazione di
transfert/controtransfert, la relazione reale e l'alleanza terapeutica. Il transfert e la relazione reale
giocano un ruolo in ogni transazione entro la relazione terapeutica. In certi momenti il transfert
può essere più importante, mentre in altri momenti può predominare la relazione reale. La
psicoterapia espressiva pone maggiore enfasi sul transfert, mentre la psicoterapia supportiva  e
cognitivo-comportamentale focalizzano maggiormente sulla relazione reale.
La relazione reale esiste nel qui e ora dell'interazione terapeutica tra paziente e terapeuta, che
comprende un apprezzamento genuino dell'uno per l'altro senza le distorsioni che sono
caratteristiche del transfert. La relazione reale include le speranze e le aspettative di aiuto, cura,
comprensione e amore del paziente, come anche le interazioni quotidiane che hanno luogo a
livello sociale tra gli individui.
Nella psicoterapia supportiva la relazione reale costituisce la componente essenziale, mentre le
implicazioni di transfert sono ridotte al minimo. Allo stesso tempo, il terapeuta è attento al
transfert ma generalmente non lo esplora a meno che non sia negativo. Il transfert negativo deve
130
essere discusso con il paziente perché può compromettere la psicoterapia e spesso
esita nell'abbandono del trattamento da parte del paziente.
Il controtransfert include la relazione reale, che consiste nelle reazioni che la maggior parte delle
persone avrebbe nei confronti del paziente, determinate dalle interazioni momento per momento
nella relazione terapeutica. In questo senso, il controtransfert può  essere visto come un costrutto
transazionale, influenzato da ciò che il terapeuta porta nella situazione come anche da ciò che il
paziente proietta. Le reazioni controtransferali di cui il terapeuta è consapevole possono costituire
potenti strumenti per comprendere ed empatizzare con il paziente. L'uso dell'empatia e
importante per promuovere la consapevolezza del controtransfert.
Le capacità empatiche di sentire e comprendere in maniera accurata ciò di cui il paziente sta
facendo esperienza permetteranno al terapeuta di prestare attenzione alle reazioni
controtransferali. 
Per quanto riguarda l’alleanza terapeutica,
il legame affettivo tra paziente e terapeuta, il loro accordo sugli obiettivi e il ruolo della terapia, la
capacità del paziente di compiere il lavoro terapeutico, la relazionalità e il coinvolgimento
empatico del terapeuta sono tutte componenti dell’alleanza importanti per la psicoterapia
supportiva.
Nella psicoterapia supportiva le rotture dell'alleanza si verificano con  minore frequenza rispetto
alla psicoterapia espressiva perché, nella psicoterapia supportiva, l'alleanza non è minacciata da
pericolose confrontazioni o interpretazioni che possono accrescere l'ansia del paziente. Quando
l'alleanza è minacciata nella terapia supportiva, il ricorso a misure supportive dovrebbe essere
considerato l'approccio di prima scelta per riparare l'alleanza. Il terapeuta affronta la rottura in
maniera pratica, entro il contesto della situazione attuale,  prima di esaminare eventuali
implicazioni di transfert. 

Terapia cognitivo-comportamentale
Le tecniche cognitivo-comportamentali sono una componente indispensabile della psicoterapia
supportiva.
Nella psicoterapia supportiva il processo terapeutico implica identificare e mettere alla prova i
pensieri automatici e sottoporli a verifica empirica. Ai pazienti viene insegnato a monitorare i
pensieri automatici, testare la loro validità e sviluppare modalità di pensiero alternative. La
riformulazione (reframing) è un'altra tecnica cognitiva spesso utilizzata per correggere  le
distorsioni cognitive.

Teoria dell'apprendimento

Concetti di base
Molti degli interventi terapeutici adottati nella psicoterapia supportiva possono essere concepiti
come forme di insegnamento, un processo tramite il quale si impartiscono conoscenze. La codifica
delle informazioni ricevute dal terapeuta costituisce l’altra metà del processo terapeutico.
La psicoterapia può essere considerata una forma controllata di apprendimento (Etkin et al.,
2005), attraverso l'acquisizione di una combinazione di capacità e conoscenze. La teoria
dell'apprendimento ha trovato applicazione primariamente nell'educazione degli adulti e gli studi
in quest'area hanno focalizzato l’attenzione su come intensificare l'apprendimento. 
L'apprendimento non si realizza come un semplice processo di registrazione. L'apprendimento
richiede piuttosto un'elaborazione attiva durante  la seduta psicoterapeutica attraverso un
processo interpretativo nel quale le  nuove informazioni sono immagazzinate stabilendo relazioni
131
con ciò che già si conosce. Le nuove informazioni sono immagazzinate in base al loro significato, ad
associazioni e a relazioni con conoscenze pre-esistenti. In questa prospettiva, è importante per il
terapeuta promuovere un'elaborazione efficace durante le sedute di psicoterapia usando le
tecniche di interpretazione, elaborazione e generazione.  È importante notare che
l'interpretazione, quale tecnica derivata dalla teoria dell'apprendimento, non è sovrapponibile
all’interpretazione classica della psicoterapia dinamica, ma rappresenta piuttosto un collegamento
con conoscenze pregresse.

Strategie
Alleanza terapeutica
La relazione paziente-terapeuta (studente-docente) deve essere mantenuta a un livello positivo.
Nel caso di minacce all'alleanza paziente-terapeuta, le rotture e i fraintendimenti devono essere
riparati. Un'esperienza positiva di apprendimento ha luogo nel contesto di una relazione
supportiva in cui il paziente può essere messo alla prova  e ha come risultato un incremento
dell'apprendimento.
I pazienti devono comprendere che l'apprendimento può implicare la necessità di assumersi dei
rischi nell'abbracciare l'incertezza e il cambiamento, e  ciò richiede spesso che il terapeuta offra
rassicurazione e aiuto. I pazienti dovrebbero essere coinvolti in una pianificazione congiunta con il
terapeuta nel fissare, in maniera collaborativa, obiettivi e scopi rilevanti. Quando i pazienti
prendono parte attiva nel definire i propri obiettivi e scopi, la motivazione risulta rafforzata ed essi
avranno maggiore controllo sul proprio apprendimento . All'opposto, un ambiente minaccioso può
inibire l'apprendimento.

Standard e aspettative
In un approccio alla psicoterapia supportiva guidato dalla teoria dell'apprendimento, i pazienti
sono visti come partecipanti attivi di un processo educativo. In alcuni momenti, essi possono
sentirsi incerti o confusi e possono  commettere errori che richiedono il supporto e la
rassicurazione del terapeuta. I pazienti dovrebbero comprendere che l'apprendimento costituisce
una parte importante della terapia supportiva e che possono essere necessari una preparazione
preliminare e compiti a casa per intensificare il processo di apprendimento.

Identificazione delle risorse


I pazienti dovrebbero essere incoraggiati a identificare risorse e a escogitare strategie per far uso
delle proprie risorse con l'obiettivo di raggiungere i  propri scopi. Le risorse includono biblioteche,
informazioni raccolte attraverso Internet, libri, giornali, video e così via. Allo stesso tempo i
pazienti dovrebbero essere coinvolti nella valutazione del loro apprendimento, con  lo scopo di
promuovere capacità di riflessione critica. Inoltre, i pazienti dovrebbero essere incoraggiati  a
utilizzare il processo di autovalutazione per essere d'aiuto nell'identificare i propri punti di forza,
debolezze e problemi.

Tecniche
Le tecniche utilizzate per promuovere l’apprendimento e l’elaborazione elle informazioni sono la
generazione, l’elaborazione, l’interleaving e il collegamento con conoscenze pregresse.
Uno degli approcci più significativi per promuovere l'apprendimento è l’ elaborazione efficace.
L'elaborazione delle informazioni implica un'interpretazione che sia focalizzata e accurata,
accompagnata da un'elaborazione completa. L'informazione che può essere interpretata (cioè
132
collegata), attraverso associazioni, con la conoscenza pregressa, sarà più facile da apprendere
dełl'informazione non interpretata.
II processing elaborativo prevede che l’informazione sia pensata in molti modi differenti e messa in
relazione ad altre informazioni già note. In aggiunta all'interpretazione e all'elaborazione, la
generazione e l'interleaving sono altre importanti componenti del processo di apprendimento
(Richland et al.,2005). La generazione è definita come la produzione di informazioni
durante l'apprendimento piuttosto che il ricevere passivamente tali informazioni da  un insegnante
o un terapeuta. L’ interleaving è il metodo di apprendere due o più set di informazioni in modo
tale che le istruzioni e il focus si alternino tra i due set. Esso è quindi in contrasto con
l'apprendimento in cui ci si focalizza su ogni set di informazioni separatamente. Nella psicoterapia
supportiva queste tecniche possono essere utilizzate ponendo domande finalizzate  ad aiutare il
paziente a pensare ai suoi problemi in molti modi differenti  senza fornire risposte. Il paziente è
incoraggiato a impegnarsi nell'elaborazione delle informazioni in collaborazione con il terapeuta.
La riflessione critica è il processo attraverso il quale il paziente mette in discussione e quindi
rimpiazza o corregge un assunto. Questo attraverso la tecnica de reframing. Vengono cioè
generate prospettive alternative a partire da idee, azioni, e forme di ragionamento che in
precedenza erano date per scontate. La psicoterapia supportiva e altri approcci psicoterapeutici
fanno uso del reframing e cercano di fornire ai pazienti modalità alternative di pensare
relativamente al mondo, al relazionarsi agli altri e all'affrontare i problemi.

Conclusioni
La psicoterapia supportiva è un approccio ampiamente definito con una vasta gamma di
applicazioni che fa ricorso a strategie dirette, intese a produrre un miglioramento sintomatologico,
a mantenere, restaurare o incrementare l'autostima, le funzioni dell'Io e le capacità di
adattamento. I presupposti teorici della psicoterapia supportiva si basano su una varietà di
approcci tra cui quello psicoanalitico, quello cognitivo-comportamentale e le teorie
dell'apprendimento. Il concetto di continuum psicopatologico, che si estende dalla malattia alla
salute, abbinato a un continuum psicoterapico che va dalla psicoterapia supportiva a quella
espressiva ed esplorativa, è utile per identificare l'approccio terapeutico più adatto ai bisogni del
paziente. Con molta probabilità, la maggior parte dei pazienti cadrà nel-mezzo del continuum
e trarrà beneficio da un approccio che combina-psicoterapia espressiva e supportiva. L'approccio
supportivo beneficia dell’approccio accettante ed empatico del terapeuta e della sua attenzione a
mantenere una relazione paziente-terapeuta o alleanza terapeutica positiva. Inoltre, combinare e
integrare gli approcci derivanti dalla teoria cognitivo-comportamentale e dalla
teoria dell'apprendimento può potenziare la pratica della psicoterapia supportiva.

133
Tecniche della psicoterapia supportiva individuale (Cap. 15 - Gabbard)
La psicoterapia supportiva individuale utilizza strategie dirette volte a sviluppare l’autostima, il
funzionamento dell’Io e abilità adattive grazie agli interventi del terapeuta. Ciò vuol dire che gli
obiettivi della terapia non sono il risultato dell’accresciuto insight del paziente (come lo è invece
nei trattamenti espressivi) e le difese non vengono affrontate diversamente, a meno che non siano
eccessivamente disadattive, in quel caso il terapeuta agisce con interventi mirati a espandere la
consapevolezza.
Due i tipi di tecniche utilizzate: tecniche contestuali e tecniche tattiche. Le tecniche contestuali
sono utilizzate in tutte le terapie supportive con tutti i pazienti e costituiscono quindi le
fondamenta del trattamento. Le tecniche tattiche sono risposte del terapeuta basate sul
contenuto della comunicazione attuale, sulle caratteristiche e sugli scopi del paziente, e sugli
obiettivi del terapeuta. 

Tecniche contestuali

- Adottare uno stile conversazionale. Adottare uno stile conversazionale è consono ai fini degli
obiettivi di un trattamento supportivo. Il terapeuta ha il compito di mantenersi sulla stessa linea
del paziente rispetto al discorso che il paziente elicita. Il razionale alla base del suo utilizzo è il fatto
che richiama le comuni interazioni sociali e quindi tende a non evocare ansie come quelle che
emergono quando il terapeuta assume una posizione più astinente, esplorativa, nel contesto di un
trattamento espressivo. Egli tende a essere più attivo che nelle terapie espressive tradizionali.
A volte il terapeuta farà commenti di collegamento semplicemente per mantenere il normale
fluire della conversazione, dal momento che i silenzi imbarazzanti possono comportare l'emergere
di ansie nel paziente. In altri momenti, prima di rispondere, attenderà con interesse e
partecipazione che il paziente termini di formulare i propri pensieri o che sia riuscite a dominare
uno stato affettivo intenso. Concludere le frasi del paziente alle volte si rivela essere necessario,
ma va fatto con empatia e rispetto.
È esclusa la libera associazione. Inoltre, interrompere un discorso troppo velocemente non è un
intervento supportivo. Alle volte il paziente si dilunga su un racconto per ridurre la tensione
emotiva.
Tuttavia, a meno che non emerga che il paziente stia traendo un qualche beneficio dal dilungarsi
nel racconto, è necessario, trascorso un po' di tempo, ridirigerlo in modo tale da ricondurre il
trattamento nella direzione di migliorare il funzionamento dell'Io e le capacità adattive. Il
terapeuta dovrebbe trovare un modo empatico di mantenere viva la conversazione senza apparire
critico.

134
- Salvaguardare la cornice del trattamento. La terapia supportiva si struttura all’interno di una
cornice terapeutica strutturata, prevedibile e affidabile. L’ambiente è un ambiente di holding offre
nutrimento, relazionalità, feedback strutturanti e rispecchiamento per l’Io in via di sviluppo del
paziente.
La creazione di un ambiente di holding riduce l’ansia e offre stabilità e struttura.
La cornice esclude la neutralità tecnica e l’astinenza. Il terapeuta tecnicamente neutrale si
mantiene alla stessa distanza dall'Io, dall'Es e dal Super-io del paziente. Al contrario, nella
psicoterapia supportiva, il terapeuta non è tecnicamente neutrale perché egli è un sostenitore
attivo del funzionamento dell'Io del paziente e della sua autostima. E poiché il terapeuta non si
affida alla neutralità tecnica, egli deve essere consapevole dei rischi di agire sentimenti
controtransferali o promuovere comportamenti regressivi.
Il terapeuta supportivo deve inoltre bilanciare la necessità di mantenere l'integrità della cornice
terapeutica con il giudizio clinico, benché talvolta possa essere opportuna una maggiore
flessibilità.
La cornice terapeutica include anche gli interventi del terapeuta rivolti a una potenziale frattura
nell'alleanza terapeutica.
Per segnalare la fine di una seduta, l’intervento espressivo classico è quello di usare espressioni del
tipo "Il nostro tempo per oggi è finito". Questa modalità può essere percepita come troppo brusca
e poco supportiva da un paziente in terapia supportiva, in particolare da un paziente che si trovi in
uno stato di crisi o per il quale un'anticipazione del fatto che la seduta sta volgendo al termine
potrebbe essere più utile per utilizzare al meglio il tempo rimanente. Il clinico anticipa
l'approssimarsi del termine della seduta e fornisce chiari segnali al paziente indicando il tempo
rimanente, come anche fa affermazioni riepilogative o tira le somme della seduta.

- Essere un bravo genitore. Affinché si incrementi l’individuazione e l’autonomia del paziente, il


terapeuta affronta l’immaturità del paziente assumendo il ruolo di mentore e rassicurandolo. In
altri momenti è opportuno che si tiri indietro e osservare il paziente compiere le sue scelte e
affrontare le naturali conseguenze che ne derivano.

- Focalizzare le relazioni reali. Paziente e terapeuta collaborano per comprendere i


pattern interpersonali del paziente allo scopo di scoprire cosa possa essere cambiato, non per
scoprire le ragioni dell'esistenza di certi comportamenti o sentimenti che dovrebbero essere
cambiati. Il terapeuta mantiene il focus sulle relazioni nel qui e ora e fa collegamenti con le figure
genetiche solo quando è funzionale a descrivere un pattern disadattivo attuale in forma pratica e
razionalizzata o se il paziente sta dimostrando un reale insight e sta intraprendendo un processo
più espressivo.

Tecniche tattiche

Si utilizzano le tecniche tattiche allo scopo di costruire l’alleanza terapeutica, costruire l’autostima,
rafforzare le funzioni dell’Io e sviluppare le competenze.

Costruzione dell’alleanza 

- Esprimere interesse. È importante che il terapeuta trasmetta al paziente il messaggio che lui è
importante e interessante (anche al fine di migliorare la sua autostima). Dimenticare dettagli

135
dell’esperienza del paziente o ricordarli in modo sbagliato e li rivela accidentalmente al paziente
significa non comportarsi in modo supportivo.

- Esprimere empatia. Esprimere empatia fornisce un senso di riconoscimento e connessione,


rafforza il sé e influenza i legami affettivi inconsci. Quando se ne presenta l’opportunità il
terapeuta dovrebbe fornire feedback nella forma di condividere la propria esperienza emotiva
interiore per corroborare quella del paziente (per esempio "Deve essersi sentito umiliato quando
l'hanno trattata in quel modo").

- Esprimere comprensione. Rendere noto al paziente che si comprende ciò che sta comunicando
supporta l'esperienza del paziente di essere "in sincronia" con il terapeuta. 

- Riparare le rotture dell’alleanza. Per riparare l’alleanza terapeutica o per evitare che si incrini il
terapeuta può spostare la discussione sulla relazione terapeutica quando un problema non può
essere risolto, oppure può modificare le percezioni distorte del paziente utilizzando la
chiarificazione e la confrontazione, ma non la discussione.
Se le strategie indirette per affrontare il transfert negativo o le impasse terapeutiche falliscono, si
rende necessaria una discussione più esplicita sulla relazione. Il terapeuta può usare tecniche
espressive solo nella misura in cui sono necessarie ad affrontare un transfert negativo.
Un’altra strategia è dare una forma accettabile e supportiva a ciò che il paziente percepisce come
una critica, o offrire anticipare preventivamente le difficoltà.

- Self-discolosure.
Il modo migliore di proporre la self-disclosure è attraverso un processo in cui il terapeuta rivela
qualcosa di sé offrendosi come modello di comportamento corretto - per esempio, cercando la
soluzione a un problema in maniera collaborativa, comportandosi in modo risoluto e
compassionevole durante una crisi, mostrando pazienza e forza emotiva, dimostrando flessibilità
quando necessario, esercitando al tempo stesso saggezza e umiltà, e insegnando al paziente,
quando possibile, come emulare queste qualità.

- Commenti di sostegno. Non è sempre possibile continuare il discorso con affermazioni sulle
capacità di adattamento del paziente e sulla sua autostima, per cui è necessario fare commenti di
collegamento o ritornare su questioni importanti rifocalizzando l'attenzione del paziente in
maniera supportiva. 

Costruzione della stima di sé 

- Lodi. La lode è una chiarificazione che rafforza l'autostima accrescendo la consapevolezza del
paziente relativamente ai propri successi. Tuttavia, affinché la lode possa essere efficace, essa
deve essere basata su dati obiettivi, ossia ancorata alla comprensione che il terapeuta ha dei valori
e dell'esperienza del paziente. 

- Rassicurazione. La rassicurazione funziona al meglio quando è basata su dati obiettivi o su un


principio generale. Solitamente non è bene rassicurare senza una conoscenza della vita e delle
aspettative del paziente. Analogamente, sarebbe necessario permettere innanzitutto al paziente di
dare voce alle proprie preoccupazioni prima di cercare di rassicurarlo, in caso contrario tale
rassicurazione verrà percepita come vuota o aspecifica rispetto ai bisogni del paziente stesso.

136
La normalizzazione è una particolare forma di rassicurazione che si basa sul paragone con altri che
il paziente ritiene plausibilmente normali o "comuni". Il messaggio del terapeuta che "anche gli
altri lo fanno" ha la funzione di normalizzare permettendo di ristrutturare le credenze del
paziente sulle proprie e altrui esperienze e comportamenti.
Nel corso della normalizzazione, i commenti del terapeuta devono avere un bersaglio, devono
essere specifici e di aiuto. I commenti vuoti, per quanto accurati non sono supportivi.

- Incoraggiamento. Quando i pazienti sono scoraggiati dalla presenza di ostacoli esterni


insormontabili, o dalle loro incapacità, è possibile fornire incoraggiamento assistendolo nel
procedere un passo alla volta.

- Esortazione. L'esortazione è una forma più insistente di incoraggiamento in cui il clinico pressa o
incita il paziente a raggiungere un obiettivo. Tipicamente questo tipo di intervento viene applicato
con pazienti più compromessi, che, per quanto riluttanti, dispongono di buone probabilità di poter
raggiungere l'obiettivo.

- Ispirazione. Il fine dell'ispirazione è dare supporto all'autostima e all'autoefficacia del paziente


attraverso l'autotrascendenza, un'esperienza potentemente validante.
Tuttavia, come tecnica della psicoterapia supportiva, essa è di difficile applicazione ed è raramente
utilizzata dal momento che richiede una situazione in cui il terapeuta abbia l'opportunità sia di
autotrascendersi sia di comunicare la sua esperienza autentica o quella di un altro, in modo che il
paziente possa percepirla come edificante. L'ispirazione va oltre la rassicurazione e
l'incoraggiamento perché in questo stato altamente motivante, la paura del paziente e il suo
bisogno di procedere a piccoli passi vengono surclassati. Quando si è ispirati si osserva un
incremento della motivazione al comportamento di autorealizzazione.

Rafforzamento del funzionamento dell’Io.

- Interventi finalizzati alla riduzione dell’ansia. Nel trattamento supportivo, l'ansia è generalmente
attenuata attraverso strategie dirette, a eccezione dei casi in cui il terapeuta intenzionalmente
vuole ottenerne una stima (per esempio, attraverso l'esposizione diretta) o lavora su specifiche
capacità per aiutare il paziente ad affrontare gli stress in maniera più adattiva.

- Strutturare l'ambiente. Per i pazienti più gravi da un punto di vista psicopatologico o che
funzionano a un livello relativamente basso, il terapeuta opera per incrementare il livello di
strutturazione disponibile al paziente attraverso interventi terapeutici e contatti con l'ambiente del
paziente. Questi possono includere contatti con chi gestisce il piano terapeutico del paziente,
membri della famiglia, datori di lavoro e così via. 

- Mantenere un ambiente protetto.

- Fissare i limiti. Ciò può accadere quando il paziente si comporta in modo disfunzionale, nel senso
che non rispetta le regole della terapia.

- Identificare in maniera esplicita l'argomento di discussione. Rispetto alla libera associazione,


che provoca ansia, la definizione di un "ordine del giorno" dà al paziente un argomento strutturato
su cui focalizzarsi e riduce l'ansia mettendo il paziente nella posizione di accettare o rifiutare di
affrontare l'argomento.
137
- Modulare gli affetti. La modulazione degli affetti si riferisce a come le persone gestiscono gli stati
emotivi: quelli propri e le risposte agli stati affettivi altrui o a una situazione carica emotivamente.
Quando i pazienti presentano un deficit in quest'area del funzionamento dell'lo, possono
rispondere in maniera sproporzionata alla situazione per esempio in modo eccessivamente
intenso, eccessivamente coartato, disforico o comunque disadattivo.
Acquisire competenza nella modulazione degli affetti migliora l'autostima; quindi, nel contesto di
una buona alleanza terapeutica, il terapeuta focalizzerà l'attenzione del paziente su come
contenere al meglio gli affetti e interverrà con modalità che aiutino il paziente a sviluppare la sua
capacità di regolazione affettiva. Inoltre, imparare a gestire i propri stati emotivi contribuisce a
migliorare il senso di autoefficacia.

- Supportare le difese. Le difese non sono generalmente oggetto di confrontazione a meno che
non siano chiaramente o minaccino la cornice terapeutica. Le difese adattive come la rimozione, la
razionalizzazione, l'intellettualizzazione e la formazione reattiva sono generalmente
e specificamente rinforzate.

- Universalizzare. Piuttosto che proporre un commento personale al paziente - un approccio che


potrebbe essere accolto come un attacco o una critica - il terapeuta supportivo può mascherare il
proprio commento in un'osservazione impersonale.

- Dare un nome al problema. Identificare e dare un nome al problema aiuta il paziente a


concettualizzarlo e quindi a meglio comprenderlo e affrontarlo.

- Razionalizzare. La razionalizzazione permette al paziente di spiegare atteggiamenti, credenze e


comportamenti inaccettabili in modo da renderli tollerabili. Quando il terapeuta propone un
commento razionalizzante, egli puntella un modello difensivo più sano che si rivela adattivo dal
momento che aiuta il paziente ad affrontare le situazioni che minacciano la sua autostima. Viene
utilizzato il reframing, una strategia di razionalizzazione in cui il terapeuta, a partire dalle stesse
informazioni, offre al paziente un diverso punto di vista con l'effetto deliberato di interferire con le
credenze disadattive del paziente sui suoi pensieri o sul suo comportamento.
La minimizzazione è un’altra tecnica utilizzata che consiste nel rimpiazzare il diniego degli affetti
del paziente con la minimizzazione, allo scopo di rendere l'affetto più palatabile per il paziente e
quindi accettabile: "Quindi-c'era un po' di risentimento?"

Interventi finalizzati a espandere la consapevolezza 

- Chiarificazione. Attraverso la chiarificazione il terapeuta mette in luce i pattern disfunzionali del


paziente riformulando, riassumendo, parafrasando o riorganizzando le affermazioni del paziente.

- Humour. Talvolta avvolgere una chiarificazione in un velo d'ironia addolcisce il potenziale


impatto negativo sull'autostima dovuto alla scoperta che, con le proprie azioni, il paziente si sta
mettendo i bastoni tra le ruote.

- Confrontazione. La confrontazione è un intervento che porta alla consapevolezza del paziente


qualcosa che egli sta evitando o allontanando dalla consapevolezza, oppure un pattern disadattivo
di comportamento non riconosciuto.

138
Il terapeuta colloca il suo utilizzo egli la colloca in uno specifico contesto e fornisce un preciso
razionale (per esempio, incrementare le capacità di adattamento), assicurandosi che il paziente
comprenda appieno l'intento del terapeuta. "Sto portando questo aspetto alla sua consapevolezza
cosicché la prossima volta che ha una discussione con suo padre e si arrabbia con lui, lei possa
affrontare la situazione in maniera più competente." Interventi come questo sono particolarmente
utili nel lavoro con un paziente con difese più primitive.
Focalizzare troppo precocemente sulla confrontazione può impedire al paziente di giungere al
nocciolo della questione, ma lasciarlo libero di parlare può evitare il contesto adattivo. È quindi
necessario proporre un intervento basato su dati concreti e centrato sugli obiettivi del paziente e
sui fini della psicoterapia supportiva.
Fornire un suggerimento indiretto o impersonale è una tecnica confrontativa che non ingaggia le
difese in maniera diretta con lo scopo di aumentare la consapevolezza. Piuttosto che formulare
una domanda cui il paziente è obbligato a rispondere (come per esempio "È arrabbiato?"), è
possibile includerla nel normale flusso della conversazione:
PAZIENTE: E quindi mi ha detto che gli è dispiaciuto me la fossi presa perché non è venuto a
prendermi, ma non me la sono affatto presa. Talvolta è proprio un idiota! [alzando la voce e con
molta enfasi]
TERAPEUTA: Quando le persone alzano la voce spesso è perché sono arrabbiate. [Bypassa le difese
evitando di generare ansia.]

- Interpretazione. Le interpretazioni possono essere offerte in una grande varietà di


configurazioni più supportive. Possono talvolta essere proposti collegamenti anche con le figure
genetiche ma attendere che il paziente sia alle prese con l’affetto o l'impulso battere il ferro finché
è caldo riduce la probabilità di generare ansia. È possibile anche strutturare un'interpretazione
rimuovendo o attenuando alcuni elementi chiave per ridurre il suo potenziale ansiogeno o
disforico.
Un tipo di interpretazione è l’interpretazione intellettualizzata, che ignora gli specifici referenti
dinamici, le implicazioni di transfert e la comunicazione non verbale, e fornisce una logica per
collegare fenomeni dei quali il paziente ha già consapevolezza. Nessuna connessione viene
proposta con supposte fantasie o meccanismi inconsci.
Un altro tipo è l’interpretazione inesatta L'interpretazione inesatta, che protegge il paziente fragile
offrendo una spiegazione a impulsi e comportamenti che, per quanto non totalmente veritiera
rispetto alle sue paure infantili, appare comunque plausibile. Si tratta di un processo analogo a
quello che Langs (1973) chiamerebbe "interpretazione verso l'alto" in cui, allo scopo di ridurre
l'ansia e dare supporto alle funzioni dell'Io, si cerca di ricollegare affetti e impulsi conflittuali a un
conflitto più maturo (ed egosintonico) o triadico, piuttosto che all'effettivo conflitto pre-edipico o
diadico.
Un altro ancora è l’Interpretazione incompleta, un intervento formulato entro la cornice della
psicoterapia supportiva, esclude dall’interpretazione i riferimenti genetici e generalizza il
contenuto con lo scopo di ridurre l'ansia aumentando al contempo la consapevolezza del paziente
del materiale evitato.
PAZIENTE: Fissano le riunioni a orari scomodi per me, quindi di solito mi presento con qualche
minuto di ritardo. Il mio capo si irrita un po' ad aspettarmi ma non succede nulla.
TERAPEUTA: Quindi arrivare abitualmente con alcuni minuti di ritardo alle riunioni è per lei un
modo di far capire che lei si risente a conformarsi alle attese degli altri quando queste non
tengono conto delle sue esigenze, che lei può fare le cose a modo suo e avere un certo controllo.
[Crea una connessione con i sentimenti di rabbia, da supporto allautostima, contrappone il
comportamento del paziente alle aspettative del mondo reale.]
139
Costruzione di abilità

L'intento della costruzione di abilità è di impartire conoscenze fattuali o procedurali di cui il


paziente può fare uso per migliorare il proprio funzionamento adattivo.

-Dare consigli.

- Insegnare.
Inoltre, insegnare è l'ambito in cui è possibile fornire al paziente principi che può interiorizzare in
modo da poter essere in grado di prendere decisioni o esprimere giudizi in maniera più adattiva.
Insegnare principi si rivela solitamente una tattica più potente rispetto all'impartire consigli
relativamente a un dato problema, perché i principi sono più facilmente generalizzati e usati, in
maniera adattiva, nel tempo e in diverse situazioni.

- Offrire un modello di comportamento adattivo. Il terapeuta il terapeuta deve costantemente


mostrare al paziente un pensiero e un comportamento adattivo, razionale e organizzato. Il
terapeuta in quanto essere umano può commettere degli errori. La sua capacità di affrontare
queste cadute con onestà, grazia, umiltà e resilienza può impartire un importante messaggio
al paziente e offrire un modello di carattere più flessibile e adattivo sul piano interpersonale con
cui il paziente può identificarsi.

- Anticipare le difficoltà (anticipatory guidance). Anticipare preventivamente le difficoltà che


potranno emergere nell'eseguire un compito o prendere una decisione, permette al paziente di
considerare quali problemi possono insorgere e predisporre anticipatamente adeguate strategie di
coping. Lavorare in anticipo su un compito può contribuire a ridurre l'ansia prestazionale o quella
legata alla presa di decisione.
Nelle sedute finali, in vista dell'imminente conclusione del trattamento, anticipare le future
difficoltà può giocare un ruolo rilevante. Il terapeuta, oltre a passare in rassegna i progressi
compiuti, può fare ricorso all'anticipatory guidance per mettere in evidenza degli aspetti da
esplorare in futuro. Inoltre, poiché tipicamente i pazienti sperimentano un'ampia gamma di
sentimenti rispetto alla fine del trattamento, e sul terapeuta dopo la fine del trattamento, è utile
aiutare il paziente ad anticipare il modo in cui potrà gestirli.

- Ridirezionare. Consiste nell’allontanare il paziente da affetti dolorosi attraverso l’identificazione


di alternative più adattive come intensificare un’attività piacevole o abbandonarsi a ricordi positivi.

- Promuovere l'autonomia. Al paziente è permesso dipendere dal terapeuta solo nella misura in
cui ne abbia effettivamente necessità, come dipenderebbe da un buon genitore o da un mentore.
Il terapeuta fissa dei limiti quando appropriato e, all'occorrenza, trasmette il messaggio che il
paziente è in grado di portare a termine un compito in maniera autonoma.

140
Parte V: Terapia di gruppo, familiare e di coppia

Teoria e pratica clinica negli approcci sistemico-familiari (Cap. 18 -


Gabbard)

L'orientamento sistemico-familiare
L'orientamento sistemico-familiare è caratterizzato dalla visione della famiglia come sistema
transazionale, e presuppone che gli eventi stressanti e i  problemi di un singolo membro
influenzino l'intera famiglia come unità funzionale con effetti che si estendono a tutti i membri e
alle loro relazioni. I problemi individuali sono valutati nel contesto del sistema familiare e sono
considerati problemi relazionali familiari.
La pratica della terapia familiare si fonda sull'orientamento biopsicosociale, che prende in
considerazione la complessa relazione tra individuo, famiglia e contesto sociale. Prende cioè in
considerazione le influenze che vanno oltre la famiglia che nel corso della vita modellano il
funzionamento sia individuale sia familiare.
L’orientamento sistemico-familiare si basa sulla prospettiva multigenerazionale, ossia sul fatto che
lo sviluppo individuale e familiare coevolvono lungo il corso della vita e attraverso le generazioni.
Gli interventi sistemico-familiare mirano a modificare i modelli disfunzionali e hanno l'obiettivo di
stimolare le risorse familiari e di rafforzare sia il funzionamento individuale. I clinici di questo
orientamento valutano in che modo i membri della famiglia possono contribuire alle situazioni
problematiche e in che modo ne sono influenzati.
I membri della famiglia si influenzano reciprocamente e ogni azione è anche una reazione. Per
esempio così la risposta eccessivamente dura di una madre al baccano del proprio bambino
può esacerbare il comportamento fuori controllo di quest'ultimo.
Nell’osservare una sequenza di interazioni si individuano i modelli ripetitivi che coinvolgono alcuni
membri della famiglia. Sebbene i processi possano essere circolari (ossia a ogni azione segue una
conseguenza o una reazione) non tutti i partecipanti hanno pari poteri o importanza.
È importante che i clinici prendano una posizione neutrale o non colpevolizzante e che non
etichettino la famiglia sulla base della diagnosi di un singolo membro.
Non si dovrebbe presumere, inoltre che il familiare svolga un ruolo causale nei sintomi di un
individuo, che possono, invece, derivare dai tentativi infruttuosi di gestire una situazione
personale che lo pressa e che ha significative componenti eziologiche genetiche o biologiche.  Tra
141
le molteplici influenze dovrebbe essere considerato l’impatto degli stress ambientali e delle
condizioni socioeconomiche.
Nella formulazione del funzionamento familiare non bisogna lasciarsi influenzare dalle diversità
culturali e da pregiudizi culturali, personali e professionali al fine di non incoraggiare il senso di
inadeguatezza e di fallimento della famiglia in difficoltà.
Viene effettuata una mappatura del sistema volta ad analizzare il funzionamento familiare grazie
all’ausilio di strumenti quali il genogramma e la linea del tempo, volti ad indagare i rapporti intra e
interfamiliari e tracciare gli schemi presenti nel sistema al fine di guidare la programmazione degli
interventi. Vengono dunque individuati i pattern problematici e le relazioni difficili, le influenze
positive e le eventuali risorse. Vengono indagati anche i cambiamenti organizzati della famiglia e le
strategie di coping in risposta alle difficoltà e alle perdite significative del passato.
Gli eventi nodali attuali critici che la famiglia sta attraversando e lo stress connessi a essi possono
intersecarsi con questioni critiche multigenerazionali, ossia riattivare conflitti irrisolti e perdite
simili all’evento stressante che essa sta attraversando e creare confusione, generando conflitti
catastrofici: una madre, che era rimasta incinta all'età di sedici anni, può iniziare a preoccuparsi
ansiosamente che la figlia sedicenne possa fare la medesima esperienza. Detto ciò, è
particolarmente importante considerare gli eventi critici che si sono verificati alla stessa età del
paziente o gli attuali punti nodali del sistema familiare.
Ciò che clinici fanno è valutare i cambiamenti organizzativi della  famiglia e le strategie di coping in
risposta alle difficoltà e alle perdite significative del passato; tale indagine aiuta a comprendere il
significato attuale della costituzione, della gestione e dell'adattamento alle perdite effettive o
minacciate. 
Vengono valutati tre componenti del sistema familiare: i sistemi di credenze, i modelli organizzativi
e i processi comunicativi.
I sistemi di credenze condivisi sono alla base del funzionamento familiare: facilitano le aspettative
riguardanti i ruoli e le azioni che guidano la vita familiare e i suoi componenti. Si evolvono
attraverso le transazioni con gli altri significativi e con il mondo sociale allargato e sono trasmessi
per via transgenerazionale. Il clinico analizza esse e il significato attribuito loro, il modo in cui si
sono modificate e come possono essere migliorate;
La seconda componente del sistema familiare, costituito dai modelli organizzativi, è necessaria
per mantenere il senso di unità per favorire un sano sviluppo dei membri e per fronteggiare le
principali sfide della vita. Per funzionare bene una famiglia ha bisogno di una leadership forte, con
regole, ruoli e schemi d'interazione prevedibili e coerenti; essa deve anche adeguarsi al mutare
delle circostanze e delle priorità evolutive; essere coesa e bilanciare i bisogni di vicinanza e di
sostegno reciproco nel rispetto delle differenze individuali e della separatezza; di confini familiari
stabili, chiari e permeabili. Quando sono prive di questa struttura flessibile, le famiglie agli estremi
più disfunzionali tendono a essere eccessivamente rigide e autoritarie oppure caoticamente
disorganizzate e prive dir una guida.
I processi comunicativi facilitano l'intero funzionamento familiare e i terapeuti familiari ne
considerano sia l'aspetto di contenuto sia quello relazionale. Viene valutata la chiarezza, ossia la
capacità dei membri di comunicare apertamente su questioni pragmatiche ed emotive e il problem
solving collaborativo, ossia il modo in cui vengono prese le decisioni attraverso la negoziazione, il
compromesso e la reciprocità.

Gli sviluppi nella terapia familiare: dai deficit ai punti di forza


Il paradigma sistemico-familiare nel corso del tempo è andato oltre la limitata attenzione ai
rapporti madre-bambino nella prima infanzia fino a spostarsi verso le interazioni in corso nella rete
familiare allargata. Il modello di valutazione inizialmente adottato dai terapeuti familiari si basava
142
sulla valutazione psichiatrica, che mirava a individuare i modelli familiari disfunzionali che
sostenevano i sintomi individuali o addirittura  li originavano, credendo che i sintomi esercitassero
una specifica funzione per le famiglie. Nel corso del tempo vengono evitate le attribuzioni di
etichette e le interpretazioni patologizzanti e non ci si focalizza più sul modo in cui sono stati
causati i problemi bensì sul modo in cui si possono risolvere. L’attenzione si focalizza pure sulla
resilienza familiare. Questo nuovo approccio modifica la lettura basata sul deficit: non vedendo
più i genitori e le famiglie come danneggiati, e superando l'idea della riparazione, si giunge a
vederli come afflitti dalle avversità della vita, con il potenziale per promuovere il risanamento e la
crescita in tutti i membri.
Negli ultimi due decenni la terapia familiare ha dunque concentrato la propria attenzione sui punti
di forza delle famiglie, dando minore peso ai deficit. La relazione terapeutica è diventata più
collaborativa e di sostegno, riconoscendo che gli interventi di successo dipendono più dalla
possibilità di accedere alle risorse della famiglia.
Le prospettive postmoderne hanno aumentato la nostra consapevolezza del fatto che le definizioni
cliniche di normalità, salute e patologia sono socialmente costruite e che gli obiettivi terapeutici
sono influenzati dalle credenze sia delle famiglie sia dei terapeuti rispetto a quello che
dovrebbe essere un funzionamento sano. I clinici e i ricercatori devono quindi essere consapevoli
delle loro opinioni implicite, nonché dei valori e dei pregiudizi insiti nelle norme culturali, negli
orientamenti professionali e nell'esperienza personale.

Il valore degli approcci sistemici 


La prospettiva sistemava pone attenzione:
- agli individui, ai problemi e alle risorse nella famiglia e nei contesti socioculturali;
- ai processi transazionali nella relazione di coppia, nell'unità familiare e  nella parentela allargata;
- alle molteplici e reciproche influenze biopsicosociali in atto;
- ai pattern, agli eventi critici, alle fasi e alle transizioni lungo il ciclo di vita familiare
multigenerazionale.
Nonostante le differenze nelle specifiche tecniche e strategie impiegate nei diversi modelli di
terapia sistemica, tutti gli approcci, piuttosto che focalizzarsi riduttivamente e in modo
improduttivo sulla patologia del portatore del sintomo individuale, si concentrano sulla
valutazione diretta e sul cambiamento necessari a migliorare il funzionamento, l'adattamento e
le relazioni.
Il punto di vista sistemico arricchisce tutte le forme di intervento clinico poiché la fase di
valutazione considera il contesto sociale e temporale dei problemi, i modelli transgenerazionali
rilevanti, i processi d'interazione che contribuiscono ai problemi e le risorse relazionali
che possono essere sfruttate per la loro risoluzione e il raggiungimento del benessere. Il
coinvolgimento, la collaborazione e la costruzione delle risorse familiari sono, infine, facilitati
attraverso il contatto diretto con i membri chiave della rete familiare.
Nei modelli d'intervento sistemico, il terapeuta mira a promuovere il cambiamento coinvolgendo
direttamente i membri significativi della famiglia e l'attenzione viene posta sulle interazioni
diadiche, così come su quelle triangolari o allargate, per valutare la loro influenza sui problemi e
sul cambiamento. 

Gli approcci sistemici nella pratica clinica 

La consultazione e la valutazione della famiglia


Gli approcci sistemici-familiari, durante la fase di valutazione iniziale, raccolgono informazioni circa
il funzionamento della coppia o del sistema familiare. Vengono convocati entrambi i coniugi o i
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familiari per una seduta congiunta, definita come seduta di consultazione. L'incontro congiunto
iniziale tende a bilanciare l'alleanza con il singolo paziente, permettendo al terapeuta maggiore
libertà d'azione per mettere a loro agio, se necessario, gli altri membri della famiglia.
Si prendono in considerazione tutte le relazioni significative al fine di chiarire gli obiettivi del
trattamento e per decidere chi includere nelle sedute successive. I pazienti in trattamento
farmacologico dovrebbero essere visti all’inizio del trattamento con il partner o la famiglia per
definire il progetto terapeutico.
Nonostante la presenza di sedute congiunte la terapia resta comunque individuale. La
comunicazione è agevolata dal fatto che il clinico non colpevolizza i genitori o i congiunti e dalla
comunicazione che essi sono partner fondamentali per tutto il trattamento, che possono dare
preziosi contributi per il miglioramento del paziente e che le loro tensioni e preoccupazioni
saranno affrontate. Una particolarità del trattamento è la polivocità che il terapeuta crea nel
contesto relazionale; il terapeuta ha infatti il compito di far circolare la convinzione che tutti i punti
di vista dei membri sono importanti per il raggiungimento degli obiettivi e del benessere collettivo.
Egli deve trasmettere rispetto per i familiari e interesse per la loro esperienza.

La terapia familiare breve 


La terapia breve, familiare o di coppia, e particolarmente utile quando la difficoltà principale è
costituita da un problema specifico, che può riguardare un comportamento problematico, un
conflitto, una situazione, una transizione di vita o una sfida importante, come per esempio una
grave malattia cronica. In queste situazioni, un precoce intervento preventivo di consultazione con
la famiglia può evitare una grave crisi o una spirale di sofferenza;

La terapia familiare intensiva


La terapia familiare più intensiva può essere necessaria in caso di difficoltà  molteplici e croniche o
cristallizzate.

I modelli d'intervento multisistemici basati evidence-based


Lo sviluppo di diversi modelli d'intervento multidimensionali, multisistemici e evidence-based offre
la possibilità, di usufruire di approcci molto efficaci nel trattamento di giovani ad alto rischio e che
manifestino gravi difficoltà. Questi approcci centrati sulla famiglia nel trattamento di adolescenti
con disturbi del comportamento e abuso di droghe producono miglioramenti anche nel
funzionamento della famiglia stessa, determinando un miglioramento nella coesione, nella
comunicazione e nelle pratiche genitoriali. Gli interventi multisistemici possono assumere una
varietà di forme e coinvolgere consulenti scolastici, insegnanti, allenatori e gruppi di pari ; tutti
costoro possono collaborare con i funzionari di polizia, gli assistenti sociali deputati alla libertà
vigilata e i giudici per affrontare le questioni giuridiche dell'adolescente e della famiglia. Essi
possono aiutare un giovane e la famiglia ad accedere ai servizi legali, alle organizzazioni per lo
sviluppo giovanile, alle reti di sostegno sociale e alle risorse offerte nei gruppi religiosi.

La terapia di coppia
La terapia di coppia risulta utile per le coppie che presentano problemi sentimentale e/o sessuali.
Quando i problemi sessuali si intrecciano con le difficoltà relazionali possono essere utilizzate
anche tecniche comportamentali. La terapia di coppia è utile anche nelle situazioni in cui un
partner è affetto da gravi malattie o disabilità e in cui il rapporto è squilibrato e mancano il
sostegno o l'accudimento. Rispetto a un trattamento esclusivamente individuale il terapeuta
lavora su entrambi i coniugi e questo gli permette di non farsi una visione troppo negativa del

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partner mancante. Ciò comporta minor rischi di essere triangolato dal cliente per trasformare il
coniuge in un capro espiatorio o di essere coinvolto in vani tentativi di cambiarlo.
Nella terapia di coppia, il terapeuta assume una posizione imparziale, riducendo gli aspetti
difensivi e accusatori nei cicli di vulnerabilità e facilitando la comprensione reciproca,
la comunicazione e il sostegno per il cambiamento in una relazione positiva.
La terapia di coppia può inoltre facilitare la terapia individuale, poiché consente in generale a ogni
partner di raggiungere una maggiore chiarezza rispetto ai problemi relativi al rapporto, nonché ai
problemi del partner e a quelli che sono stati co-costruiti o causati da fattori esterni. 

La terapia sistemica individuale


La terapia sistemica individuale introduce un modo di pensare sistemico nel trattamento
individuale. Questo metodo è particolarmente utile ai giovani adulti e agli anziani
per comprendere e per modificare relazioni familiari intrise di sofferenza, conflitto o estraneità,
per ampliare la comprensione e la compassione nei confronti dei limiti di un genitore o, infine, per
elaborare problemi non risolti relativi a un genitore deceduto. I metodi di coaching sono utilizzati
per diminuire
l'ansia e la reattività del soggetto e per aumentarne la capacità di differenziazione, al fine di
modificare il ruolo che egli svolge nei modelli relazionali  "bloccati". In primo luogo, la persona è
incoraggiata a ottenere maggiori informazioni e ulteriori prospettive da altri familiari significativi
per allargare la propria visione della situazione. Il clinico e il cliente, con l'aiuto del genogramma,
individuano i modelli di funzionamento del sistema e il loro contesto, pianificano con attenzione gli
incontri con i membri chiave della famiglia al di fuori dalle sedute e in seguito approfondiscono ciò
che è accaduto in queste transazioni. In questo approccio, l’attenzione è rivolta a cambiare se
stessi (piuttosto che attaccare, incolpare o cercare di cambiare gli altri), il che interrompe i vecchi
schemi e ha maggiori probabilità di generare una risposta positiva, responsabilizzando il cliente.

L'intervento psicoeducativo familiare


È utilizzato nel trattamento di condizioni croniche fisiche e mentali e nelle sfide stressanti della
vita. Esso non vuole stigmatizzare, colpevolizzare e rimproverare le famiglie, atteggiamenti troppo
spesso presenti nei trattamenti tradizionali. I clinici rispettano le famiglie come partner validi nella
collaborazione con il personale sanitario. L'intervento psicoeducativo familiare è fondato sul
presupposto che le famiglie abbiano bisogno d'informazioni e di sostegno nella cura dei loro cari,
che soffrono percondizioni mentali o fisiche impegnative; esso fornisce informazioni pratiche sulla
malattia, sulla prognosi, sui farmaci e sulle opzioni di trattamento, così come sul  sostegno e sulle
linee guida per la gestione e la risoluzione dei problemi che  si presentano nel corso del disturbo
nei prevedibili periodi di stress e di crisi, e prevede la riduzione dello stress comune a tutti i
membri della famiglia.
Esso fornisce un approccio preventivo, basato sul rapporto costi-benefici, in grado di identificare le
famiglie ad alto rischio di disadattamento o di recidiva per orientarle verso trattamenti più
intensivi.

I gruppi multifamiliari e gruppi con coppie


I gruppi sono solitamente composti da quattro o più pazienti accompagnati dal coniuge  o dalle
famiglie, compresi i genitori, i fratelli e le sorelle, i parenti o gli amici  significativi. Gli obiettivi
includono il miglioramento della comunicazione e dei modelli strutturali per ridurre lo stress
connesso all'interazione, per facilitare il funzionamento ottimale, il coping e il problem solving.
Il contesto del gruppo offre alle famiglie l'opportunità di imparare le une  dalle altre e di cercare
nuovi modelli adattivi mettendo in relazione e gestendo per collegare e gestire i problemi. I
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membri della famiglia possono collegarsi alle esperienze dei loro omologhi in altre famiglie,
apprendere punti di vista diversi sulla loro situazione stressante, ridurre il senso di colpa e  la
vergogna e percepire in misura minore la stigmatizzazione e l'isolamento.
I cambiamenti nelle relazioni familiari sono sentiti come meno minacciosi  grazie alla rete di
reciproco sostegno formata dal gruppo.
Gli interventi multifamiliari tendono ad avere un'organizzazione a breve termine, che può variare
da un singolo workshop di una giornata sino a 6-8 incontri settimanali, e può includere alcune
sedute di follow-up mensili o occasionali. 

Gli interventi combinati


Sono utili nel trattamento delle malattie  croniche, come la schizofrenia, o nel caso di gravi
compromissioni fisiche. La ricerca ha documentato l'efficacia degli interventi combinati, che
comprendono trattamenti con sostanze psicotrope, psicoterapia individuale, familiare e di gruppo.
Anche i modelli di trattamento per l'abuso di sostanze, gli abusi fisici o quelli sessuali richiedono
tipicamente un approccio multimodale.

Terapia di coppia (cap. 19 - Gabbard)

Storia della terapia di coppia 


La psicoterapia di coppia si sviluppa attraverso quattro fasi: dalla formazione ateoretica del
counseling coniugale, avvenuta nel 1929 grazie all'opera pionieristica di numerosi clinici che
fondarono infine l'Americam Association of Marriage Counselor al riconoscimento giuridico, nel
1963, del counseling matrimoniale come professione e dalla prima pubblicazione, nella letteratura
professionale, di un lavoro che introduceva questo argomento.
La seconda fase riguarda lo sviluppo della terapia di coppia principalmente come un approccio
congiunto che, inizialmente, vedeva coinvolti entrambi i coniugi i quali però partecipavano alla
terapia individualmente, anche se venivano seguiti dallo stesso terapeuta.
Nella terza fase, ha avuto luogo un ampliamento della concettualizzazione teorica della terapia di
coppia, mentre la fase più recentemente (la quarta) ha registrato lo sviluppo di trattamenti validati
empiricamente, un'estensione dei modelli teorici per includervi i temi del femminismo e del
multiculturalismo, nonché significativi spazi di integrazione teorica e una focalizzazione sull'utilizzo
della terapia di coppia come parte di una terapia multimodale per trattare i disturbi di Asse e II.

I processi relazionali nelle coppie


Il trattamento di coppia si basa sulla crescente conoscenza scientifica riguardante le relazioni di
coppia, un campo in cui i contributi forniti da John Gottman hanno forse esercitato la maggiore
influenza. Nel suo lavoro, egli ha chiarito le differenze tra coppie soddisfatte e insoddisfatte. Egli
sosteneva che per prevenire e curare l'insoddisfazione coniugale bisogna comprendere le
caratteristiche delle coppie insoddisfatte come pure che molti dei problemi nei matrimoni,
presenti anche nelle coppie felici, tendono a essere irrisolvibili e costanti nel tempo. Le coppie
riuscite imparano a superare le differenze attraverso una comunicazione diretta, mentre le coppie
fallimentari restano bloccate in uno schema conflittuale. Anche le coppie soddisfatte discutono,
ma riescono a superare le differenze con successo ed evitano trappole frequenti.

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Gottman (e numerosi altri autori) ha anche dimostrato che non solo i nostri comportamenti, ma
anche le nostre percezioni contribuiscono a determinare i livelli di soddisfazione sperimentati nel
matrimonio. Un sentimento positivo dominante la capacità di percepire sentimenti positivi
riguardo al proprio partner e di vedere in modo positivo gli eventi e i processi della relazione è
fondamentale per la soddisfazione di coppia.

La valutazione delle difficoltà coniugali


La valutazione delle coppie si basa su aspetti quali sono la comunicazione, il problem solving, il
rapporto affettivo, la sessualità, la risoluzione dei conflitti, la violenza, la genitorialità, le risorse
finanziarie e i rapporti con la famiglia estesa.
Le difficoltà coniugali sono valutate attraverso vari strumenti come i questionari self-report che la
coppia può compilare prima dell’inizio della terapia.  

Gli approcci terapeutici

La terapia comportamentale di coppia


Il suo obiettivo principale è aumentare la frequenza dei comportamenti positivi reciproci dei
partner e/o diminuire quelli negativi nella vita quotidiana,  basandosi sulla convinzione che il
comportamento di ciascuno di essi influenzi quello dell'altro, creando una sequenza circolare di
rinforzi. Questo trattamento presenta due elementi basilare: lo  scambio comportamentale e il
training sulla comunicazione/risoluzione dei  problemi. Il terapeuta assegna come compito a casa
degli esercizi di scambio comportamentale, che la coppia deve eseguire negli intervalli tra le
sedute di terapia. Il terapeuta, per esempio, può assegnare a una coppia il compito di avere un
"giorno dell'amore", in cui ciascun partner decide di mettere in atto comportamenti specifici,
come per esempio mettere via i piatti puliti o fare all'altro un massaggio al collo, che faranno
sentire bene l’altra persona.
L'addestramento alla comunicazione o alla risoluzione dei problemi viene effettuato in aggiunta
alle tecniche di scambio comportamentale, per insegnare alla coppia abilità che consentiranno di
risolvere autonomamente i problemi futuri. Spesso i terapeuti insegnano una tecnica chiamata
ascolto riflessivo, in cui uno dei partner esprime un sentimento, un pensiero o  un'emozione e
l'altro, prima di rispondere, riassume e ribadisce ciò che il  partner ha appena comunicato.
La terapia di coppia cognitivo-comportamentale generalmente comprende un numero di sedute
settimanali che va da otto a venticinque. Le prime 2-3 sedute sono dedicate alla valutazione e sono
seguite da una seduta di restituzione, durante la quale la coppia e il terapeuta lavorano insieme
per definire gli obiettivi del trattamento. Gli interventi comportamentali possono includere
le tecniche di scambio comportamentale e di comunicazione/risoluzione dei problemi. Gli
interventi cognitivi possono includere il dialogo socratico e la scoperta guidata. Il dialogo socratico
consiste nel porre al cliente una serie  mirata di domande che lo aiutano a riconsiderare la logica o
il processo di pensiero che lo ha portato a certe convinzioni. La scoperta guidata può
invece includere varie tecniche (come, per esempio, giochi di ruolo o l'esplorazione dei pro e dei
contro nel portare avanti il rapporto secondo gli standard  di ciascuno dei partner), grazie alle quali
uno o entrambi i partner giungono a sviluppare una prospettiva diversa sul rapporto.
Tale terapia è stata studiata diffusamente e la sua efficacia è stata dimostrata in più di venti
ricerche e ne è stata dimostrata l’efficacia rispetto ai gruppi di controllo, costituiti da soggetti in
lista d’attesa.

La terapia comportamentale di coppia integrata


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Jacobson e Christensen (1996), hanno sviluppato la terapia comportamentale di coppia integrata,
un trattamento che aggiunge alla terapia comportamentale di coppia il concetto di accettazione
emotiva. Essa integra gli interventi comportamentali con strategie intese a promuovere la
reciproca accettazione e ad aumentare i sentimenti positivi La IBCT, progettata per aiutare le
coppie a superare in modo efficace le differenze e i conflitti, si concentra non solo su colui che
mette in pratica un dato comportamento, ma anche sul destinatario di quest’ultimo. Le tecniche di
cambiamento sono dunque dirette nei confronti del coniuge considerato responsabile del
comportamento, per modificare quest'ultimo o per porre rimedio alla mancanza di
comportamenti adeguati.
Le tecniche di accettazione sono invece rivolte al destinatario del comportamento, per aiutarlo ad
ammorbidire l'atteggiamento oppositivo che spesso i partner assumono l'uno verso l'altro.
I terapeuti IBCT individuano un tema centrale per ogni coppia che trattano, ed esso costituisce la
sintesi di una questione fondamentale che la coppia si trova ad affrontare. A differenza dei
terapeuti BCT, i terapeuti IBCT sono interessati ałla storia del rapporto, alla storia della famiglia di
origine dei partner e alle precedenti relazioni sentimentali. Queste informazioni vengono raccolte
durante la fase del trattamento deputata alla valutazione.

La terapia di coppia centrata sulle emozioni 


La terapia di coppia centrata sulle emozioni è un approccio esperienziale sviluppato da Susan
Johnson che si focalizza sull'emozione e sull'attaccamento nella relazione di coppia. Il trattamento
non si incentra sulla comprensione e l'analisi del passato, ma sul tentativo di ricreare il legame di
coppia attraverso la ristrutturazione e l'ampliamento delle reciproche risposte emotive. Il nuovo
legame sicuro permette alle coppie di fronteggiare meglio le crisi e le transizioni della vita e di
sperimentare un ciclo più soddisfacente di interazione. Le coppie sono anche incoraggiate a
esplorare insieme le proprie vulnerabilità, al fine di incrementare il legame di attaccamento e
avere la possibilità di tranquillizzarsi reciprocamente.
Il terapeuta che lavora seguendo quest'orientamento utilizza tecniche basate sulle terapie
umanistico-esperienziali che si focalizzano sull'accettazione, l'empatia e l'autenticità. Il terapeuta,
per aiutare la coppia a impegnarsi in un'esperienza emotiva costruttiva, può utilizzare tecniche di
intensificazione, come la ripetizione, le immagini o le metafore.

La terapia di coppia basata sulle relazioni oggettuali


La terapia di coppia basata sulle relazioni oggettuali è un’estensione dei trattamenti individuali
basati sulle relazioni oggettuali.
La teoria delle relazioni oggettuali sostiene che i coniugi cercano l'uno  nell'altro parti perdute di se
stessi e che attraverso il matrimonio le parti  inaccettabili del Sé possono essere espresse
indirettamente". Il successo del matrimonio dipende dalla capacità dei coniugi  di ricevere e
restituire queste reciproche proiezioni, così come di contenere  e modificare il punto di vista di
ciascuno su di sé e sull'altro (l’oggetto). L'interpretazione del transfert reciproco che  emerge nella
coppia è il principale agente di cambiamento. La durata della terapia di coppia basata sulle
relazioni oggettuali dipende dal tempo necessario al completamento del lavoro; il periodo ideale,
in media, è di circa due anni.
Le sedute sono più lunghe, fino a novanta minuti, e possono tenersi una o due volte alla
settimana. 

La ricostruzione affettiva

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La ricostruzione affettiva è un approccio evolutivo pluralistico deriva dalla constatazione che le
difficoltà delle coppie spesso derivano da ferite ricevute in precedenti relazioni, a causa delle quali
i partner sviluppano strategie di difesa che interferiscono con l'intimità. Snyder e Schneider
definiscono la ricostruzione affettiva come "l’interpretazione  dei pattern persistenti di rapporti
disadattivi che hanno la loro origine nelle precedenti esperienze evolutive". Questo approccio si
fonda su un modello gerarchico e pluralistico che include interventi strutturali, comportamentali e
cognitivi, per raggiungere sei obiettivi fondamentali: 1) sviluppare un'alleanza collaborativa; 2)
contenere le crisi che minano il rapporto; 3) rinforzare la diade coniugale; 4) promuovere
adeguate competenze relazionali; 5) mettere in discussione gli aspetti cognitivi delle difficoltà
relazionali; e 6) esaminare le cause delle difficoltà relazionali. La durata del trattamento è di
venticinque sedute, ognuna di 50 minuti, anche se per molte coppie possono essere sufficienti un
numero minore di sedute e, per alcune, è necessario un numero maggiore. 

La terapia coniugale integrata breve


La terapia coniugale integrata breve sviluppata da Alan Gurman presso si focalizza generalmente
sul presente. Essa tende a essere pragmatica, di breve durata e focalizzata sulla natura del
problema.
È un approccio teorico fortemente influenzato dalla terapia comportamentale e da quella delle
relazioni oggettuali.
I tre obiettivi principali del terapeuta sono: insegnare  le capacità relazionali, sfidare le regole del
rapporto disfunzionale e inculcare un modo di pensare sistemico.  

La terapia narrativa di coppia


Si basa su una visione postmoderna secondo la quale definiamo noi stessi e agli altri attraverso le
storie che ci raccontiamo sulla nostra vita. Il suo obiettivo è quello di aiutare le coppie a creare
storie che riflettano al meglio le vite che vogliono vivere e il rapporto che vogliono sperimentare.
I terapeuti aiutano i partner a creare nuove storie su se stessi e sulle loro relazioni, con la speranza
che queste nuove storie stimolino la possibilità di cambiamento e di crescita. I problemi presenti in
un rapporto sono considerati come trame narrative e sono affrontati attraverso lo sviluppo di
quelli che vengono chiamati progetti, che servono da contro-trama. Le coppie possono individuare
i progetti comuni che coinvolgono entrambi i partner e i progetti individuali, che devono essere
affrontati da uno solo dei due o da entrambi. La lunghezza del trattamento, non è specificata. e il
tempo, la durata e il giorno della seduta di terapia non sono fissati, ma sono decisi dalla coppia
sulla base ei bisogni percepiti al termine di ogni seduta.

La terapia integrata centrata sul problema


La terapia integrata centrata sul problema, concettualizzata e formulata da Pinsof (1983, 1995),
affronta la risoluzione dei problemi attraverso l'integrazione delle terapie individuale, familiare e
biologica. È un approccio alla terapia organizzato secondo uno schema gerarchico, in cui specifiche
tecniche psicoterapeutiche sono impiegate in sequenza, in modo che si possa continuare dal
punto in cui la terapia precedente ha fallito. La terapia inizia con la più semplice, più specifica e
meno costosa forma di trattamento  e progredisce, solo se i metodi precedenti non hanno
funzionato, fino alla strategia più complessa, ampia e approfondita.
La terapia progredisce dal semplice al complesso, dall'esterno all'interno e dal presente
(modificazione comportamentale) al passato (analisi degli eventi e degli attaccamenti
dell'infanzia). 

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La terapia di coppia a orientamento femminista
La terapia di coppia a orientamento femminista  ha posto al centro del trattamento le questioni di
genere. Essa si occupa delle modalità con cui  le differenze di potere si manifestano nella relazione
di coppia. I terapeuti di coppia a orientamento femminista credono che l'intimità non  possa essere
raggiunta senza la parità; pertanto, in questo approccio, il terapeuta deve valutare la distribuzione
del potere nella relazione e lavorare con la coppia per bilanciarlo.

Questioni etiche
Le considerazioni etiche sono un aspetto essenziale della terapia di coppia. Le questioni di
riservatezza e di tenuta delle cartelle cliniche devono essere discusse e chiarite all’inizio della
terapia. Una questione di particolare rilievo riguarda la condivisione di segreti tra uno dei partner
e il terapeuta. È generalmente consigliabile che i terapeuti di coppia si astengano dal garantire
segreti individuali importanti che interessano il matrimonio.
A volte, anche delineare l'obiettivo della terapia stessa può costituire un dilemma etico, come
accade quando i partner perseguono scopi molto diversi nella loro relazione.
La maggior parte dei terapeuti di coppia concorda sul fatto che un obiettivo della terapia è cercare
di preservare e sviluppare rapporti migliori, ma non è salvare il rapporto a tutti i costi.

La ricerca sulla valutazione dell'efficacia


Le meta-analisi condotte finora hanno dimostrato che l'efficacia nella pratica clinica (effectiveness)
della terapia di coppia è paragonabile a quella delle terapie individuali.  
Una delle più grandi sfide che i ricercatori di coppia devono affrontare  attiene all'alto tasso,
generalmente circa il 50%, di ricomparsa dei problemi  nelle coppie che hanno preso parte a una
terapia.
Terapia psicodinamica di gruppo (Cap. 23 - Gabbard)

I fattori terapeutici  
I fattori terapeutici comprendo la speranza, l’appartenenza, l’altruismo.
La speranza è essenziale nelle prime fasi del trattamento e durante le fasi di ingresso dei nuovi
membri.
L’appartenenza viene promossa nelle sedute successive tramite i feedback che ogni membro
riceve dall’altro. I membri del gruppo ricevono quindi opinioni sincere e ricche di sfaccettature sul
modo in cui sono vissuti dagli altri e, allo stesso tempo, vedono in che modo gli altri membri del
gruppo affrontano specifici tipi di interazioni. Cosi, nuovi comportamenti vengono modellati e
vengono convalidate diverse capacità. Se un modello sembra utile, il paziente può provare a
sperimentarlo e se gli esperimenti hanno successo può provare a mettere in pratica il nuovo
comportamento all’interno del gruppo. Questo porta a un aumento delle capacità di coping.
Per quanto riguarda l’altruismo, i pazienti hanno diverse occasioni di aiutarsi reciprocamente, e
questo produce, sia nei pazienti sia nei terapeuti, un incremento del sentimento di autostima.
L'insight è favorito non tanto dalle interpretazioni fatte dal conduttore, quanto da quelle fatte dai
membri del gruppo, che possono essere in contatto con i reciproci conflitti inconsci più di quanto
non potrebbe esserlo anche il conduttore più abile. Nella psicoterapia di gruppo a lungo termine,
infine, i membri del gruppo hanno l'opportunità di elaborare i propri conflitti.

Le regole del gruppo


Un gruppo psicoterapeutico ben funzionante è basato su specifiche regole di comportamento:

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- Onestà. I membri del gruppo si assumono l'obbligo di rispondere l'uno all'altro con la massima
sincerità e le discussioni che ne derivano sono spontanee ed emotivamente ricche.
- Rispetto. Del mondo in cui vengono dette le cose.
- Operosità. L'operosità fa riferimento alla necessità di portare avanti il lavoro terapeutico nel
gruppo di psicoterapia, dove l'espressione di pensieri e sentimenti costituisce l'insieme dei
dati necessari all'esplorazione e alla verifica dei significati.
- Responsabilità. Ogni membro deve fare la propria parte, e ha quindi la responsabilità di
partecipare alle sedute con una frequenza adeguata e d'interagire con ogni altro componente del
gruppo.
- Applicazione. I miglioramenti acquisiti nell'esperienza di gruppo devono essere utilizzati nella vita
quotidiana. 

La selezione dei pazienti


I criteri di esclusione fanno riferimento a tre categorie generali. Il primo criterio è legato alla
diagnosi. I pazienti affetti da una psicosi in fase acuta o a rischio di suicidio hanno bisogno di un
aiuto molto più intenso di quello disponibile in una normale psicoterapia di gruppo settimanale  a
lungo termine. Quindi, nessuna persona in tali condizioni dovrebbe essere inserita in un gruppo.
I pazienti che stanno attraversando una crisi psicotica o che sono a rischio di suicidio, una volta che
si sono stabilizzati, possono quasi sempre essere inseriti produttivamente in un gruppo.
La grave sociopatia costituisce un'altra controindicazione alla partecipazione a un gruppo
eterogeneo. I pazienti con gravi tratti di personalità antisociale possono infatti abusare della
disponibilità di altri membri del gruppo e, per proteggere questi ultimi, devono essere esclusi.
Occorre comunque sottolineare che spesso i pazienti con una grave sociopatia sono meglio
trattabili in un contesto gruppale, ovvero all’interno di un gruppo omogeneo, in cui gli altri membri
condividono la stessa patologia. Si tratta di gruppi solitamente condotti in contesti istituzionali. I
pazienti sociopatici sono in genere molto più in sintonia e in grado di capire e confrontarsi con
altre persone che abbiano le loro stesse difficoltà, di quanto non lo siano gli altri membri del
gruppo non sociopatici o addirittura i migliori terapeuti.
Anche i pazienti con uno scarso controllo degli impulsi devono essere  esclusi dalla terapia di
gruppo, per tutelare loro stessi e gli altri. I pazienti affetti da sindrome cerebrale organica da
moderata a grave hanno difficoltà nei gruppi eterogenei, poiché le loro esperienze sono spesso più
scoraggianti che gratificanti, mentre in un gruppo omogeneo, modificato per andare incontro ai
loro bisogni, possono lavorare molto bene.
Il secondo criterio di esclusione è associato alla capacità di tollerare l'ansia, poiché, per alcuni
individui, l'ansia di partecipare a un gruppo è incontrollabile e fino a quando non può essere
attenuata non sono in grado di tollerare quest'esperienza.
Il terzo criterio di esclusione riguarda alcune situazioni particolari che caratterizzano la vita delle
persone. Ogni aspetto che possa determinare l’impossibilità di adempiere al contratto terapeutico,
come per esempio l’obbligo professionale di viaggiare frequentemente e la conseguente perdita di
molte sedute, costituisce una controindicazione per questo tipo di terapia. Analogamente, i segreti
che il paziente non si sente in grado di discutere, anche dopo che ha conosciuto gli altri membri
del gruppo ed è giunto a fidarsi,  possono avere un effetto distruttivo sul processo della terapia ; il
patto terapeutico dovrebbe includere l’impegno a lavorare per rendere questi "segreti" disponibili
per il trattamento.
I criteri di inclusione sono semplicemente conseguenti ai criteri di esclusione, per cui qualsiasi altra
persona che può trarre beneficio dalla psicoterapia è un buon candidato.  
Tra queste persone ci sono quelle che hanno frequenti difficoltà interpersonali (come la mancanza
di relazioni amorose o la scarsa fiducia in se stessi) o che sono coinvolte in relazioni stereotipate
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non gratificanti (caratterizzate da ripetitive lotte di potere o relative al conflitto avvicinamento-
evitamento).
I pazienti con una scarsa consapevolezza di sé o che sono socialmente  meno competenti traggono
spesso i migliori risultati dal gruppo; allo stesso  modo, le persone con alessitimia, da moderata a
grave, traggono quasi sempre beneficio da una terapia psicodinamica di gruppo a lungo termine,
in combinazione con una psicoterapia individuale.
Nella formazione di un gruppo di psicoterapia è importante prevedere una  certa eterogeneità di
categorie diagnostiche (un gruppo composto esclusivamente da pazienti depressi avrà presto un
conduttore depresso; un gruppo composto esclusivamente da pazienti altamente istrionici
raramente risulterà noioso per il conduttore, ma sarà di scarso aiuto per ai suoi
membri), uniformando allo stesso tempo i livelli di gravità della psicopatologia, mentre questioni
come la classe sociale, la razza e l'orientamento sessuale sono raramente, se non mai, fattori
rilevanti nella composizione di un gruppo psicodinamico a lungo termine.
In una terapia di gruppo gli abbandoni devono sempre essere previsti, poiché l'assenza di
abbandoni per un periodo prolungato può suggerire che i criteri di esclusione sono stati applicati
in modo troppo rigoroso e che ai pazienti ad alto rischio/alto miglioramento (ovvero i pazienti che
hanno maggiori probabilità di abbandono, ma che potrebbero beneficiare
notevolmente dell'esperienza) non è stata offerta l'opportunità di partecipare all'esperienza di
gruppo. Gli psicoterapeuti tendono a considerare gli abbandoni come l'indicazione del fallimento
di un paziente non sufficientemente dotato di risorse e non meritevole, oppure semplicemente
come il proprio fallimento. È possibile, però, che il problema principale sia un altro: la terapia di
gruppo è impegnativa e anche se l'opportunità di parteciparvi viene offerta a tutti coloro che
potrebbero trarne beneficio, alcuni non sono in grado di utilizzarla.

La struttura del gruppo


La maggior parte dei gruppi si riunisce settimanalmente per 90 minuti; è generalmente composta
da circa otto membri, anche se il terapeuta che sta per  iniziare un gruppo non dovrebbe esitare a
farlo con un numero minore di  partecipanti. I gruppi di piccole dimensioni tendono a produrre un
maggior numero di autodisvelamenti (self-disclosures) e interazioni, mentre i gruppi  più grandi
tendono a produrre più comportamenti centrati sul conduttore.

Le resistenze dei terapeuti alla terapia di gruppo


Molti terapeuti hanno delle resistenze a lavorare come terapeuti di gruppo. In passato, questo
atteggiamento era spesso dovuto al retaggio della formazione clinica, in un'epoca in cui la
psicoanalisi classica era vista come il miglior trattamento possibile per qualsiasi condizione clinica
non psicotica.
Altri esitano a utilizzarla perché sono preoccupati di non avere un numero sufficiente di invii. 
Una resistenza più profonda può essere un risultato di una paura inconscia del terapeuta nei
confronti dell'orda primordiale; alcuni terapeuti possono anche temere i propri impulsi
esibizionistici e tentare di controllarne l'espressione impropria evitando un luogo in cui
essi potrebbero essere gratificati.

Principali approcci alla psicoterapia psicodinamica di gruppo


Esistono tre approcci principali alla psicoterapia psicodinamica di gruppo. Il primo utilizza il
gruppo come setting della terapia e anche se i pazienti sono trattati in gruppo, sono

152
comunque analizzati come individui; in questo caso il terapeuta essenzialmente lavora a turno su
ognuno di loro.
Il secondo approccio utilizza il gruppo come oggetto del trattamento e si basa sulla teoria che
l'inconscio condiviso di tutti i membri del gruppo formi una nevrosi di transfert  gruppale, la cui
risoluzione sarà di aiuto a tutti i partecipanti.
L'approccio maggiormente applicato, infine, utilizza il gruppo come agente  terapeutico.

I principi psicodinamici di base 


Il transfert e le sue varie manifestazioni nel processo terapeutico sono alla  base della terapia
psicodinamica di gruppo. Il transfert, nella terapia di gruppo, può essere rivolto verso il
conduttore, verso i singoli membri, verso alcuni sottogruppi e verso il gruppo nel suo complesso .
Spesso, questi transfert sono tutti attivi contemporaneamente. Come in qualsiasi altra terapia
psicodinamica, ci deve essere almeno una certa quota di transfert positivo che consenta lo
sviluppo di un'alleanza terapeutica.
Inizialmente, questo transfert riguarda il terapeuta, ma nel corso del tempo prende vita un
transfert di base positivo o un'alleanza terapeutica nei confronti del gruppo stesso. Così come il
transfert esiste a vari livelli, allo stesso modo il controtransfert dei terapeuti di gruppo può
riguardare i singoli membri, i sottogruppi o il gruppo nel suo complesso.

La preparazione del paziente e il contratto con il gruppo


Un'adeguata preparazione dei pazienti alla terapia di gruppo è un aspetto essenziałe. Una
preparazione non adeguata è con molta probabilità la causa principale di molti abbandoni evitabili.
Deve quindi essere stabilita un'alleanza terapeutica con il conduttore che, a sua volta, negozierà
con i potenziali membri del gruppo gli obiettivi della terapia. Ai pazienti devono essere fornite
linee guida per utilizzare al meglio l'esperienza della terapia di gruppo. Deve anche essere
raggiunto un comune accordo in relazione al contratto terapeutico. Tale accordo deve essere
stipulato con chiarezza e in modo dettagliato. La responsabilità dei pazienti nel contratto della
terapia di gruppo include che siano presenti regolarmente e con continuità.
Ogni membro del gruppo, infine, si impegna a lavorare sui singoli obiettivi negoziati durante i
colloqui iniziali con il terapeuta, ma dovrebbe essere concordata anche la possibilità che gli
obiettivi evolvano con il procedere della terapia.
Il paziente ha la responsabilità di mettere in atto un’integrazione sincera e spontanea, nonché
esclusivamente verbale. Egli non ha alcun obbligo di essere costante o corretto nelle opinioni,
nelle emozioni e nei pensieri che esprime nel gruppo. Bisogna prendere in considerazione ciò che
viene detto dagli altri ma esso non deve essere necessariamente accettato in quanto tale.
Piuttosto, ogni membro del gruppo deve ponderare seriamente questo tipo di riscontri.
Nella maggior parte dei gruppi psicodinamici a lungo termine non vi è  alcun contatto tra i membri
al di fuori del gruppo. Ciò minimizza sia possibili distorsioni del transfert sia la formazione di
sottogruppi basati su determinate persone. Diversamente da ciò che accade in una terapia
individuale, è essenziale che i membri capiscano che tutto ciò che viene discusso nel  gruppo è
riservato e non può mai essere oggetto di discussione con persone  che non appartengono al
gruppo stesso. I membri del gruppo, inoltre, devono concordare di partecipare al trattamento fino
a quando il loro lavoro non  sia giunto al termine e di pagare regolarmente e per tempo l'onorario
stabilito per la terapia. Di solito, tutti i componenti di un gruppo pagano lo stesso onorario,
indipendentemente dalle differenze in termini di risorse economiche, ma, a discrezione del
conduttore, circostanze particolari possono portare a una modifica della tariffa richiesta a un
paziente.

153
Le tappe di sviluppo
Vi sono quattro fasi. La prima, di coinvolgimento o formazione del gruppo, è caratterizzata dalla
condivisione, da parte dei pazienti, dei loro problemi. In questa fase, l'accento è posto sulle
somiglianze e l'aggressività tende a essere taciuta, anche se la competizione per il tempo e
l'attenzione possono essere evidenti. Durante la seconda fase, di differenziazione e di
individuazione, i pazienti stabiliscono la propria identità individuale all'interno del
gruppo, chiariscono le differenze ed emerge un'appropriata aggressività. Questo porta alla terza
fase, del gruppo di lavoro, caratterizzata dal sentimento di intimità: l'appartenenza e la coesione
del gruppo sono al massimo e i membri che inizialmente erano scettici circa la propria capacità "di
parlare con un gruppo di sconosciuti" si ritrovano ad aspettare con inattesa intensità la riunione
successiva. La seconda e la terza fase spesso si fondono l'una nell'altra ed è difficile (e inutile)
considerarle separatamente. La quarta fase rappresenta il momento di conclusione o di svincolo.
Anche se i gruppi a lungo termine possono continuare per anni, tutte  queste fasi sono eventi che si
ripresentano più volte e influenzano il gruppo. Il periodo precedente a una lunga vacanza o alla
laurea di un apprezzato membro del gruppo, per esempio, determinano manifestazioni tipiche
delle fasi di conclusione. Allo stesso modo, l'introduzione di uno o più nuovi membri riporta il
gruppo ai fenomeni della fase di formazione (una prova del buon funzionamento del gruppo è
data dalla rapidità con la quale esso riemerge da questa fase; un gruppo ben funzionante può
indurre un nuovo membro a compiere questo processo in un tempo estremamente breve).

La tecnica di conduzione
Il compito più importante del terapeuta di gruppo è quello di aiutare il gruppo a fare il proprio
lavoro, soprattutto se il suo approccio considera il gruppo come l'agente del cambiamento
terapeutico.
Durante la fase iniziale di sviluppo del gruppo la tecnica si incentra sulla  creazione di un clima di
speranza. La formazione del gruppo è incoraggiata dalla consapevolezza dell'universalità di alcuni
temi e dalla presenza di diversi elementi di comunanza, nonché dalla limitazione dei conflitti
precoci e di un eccessivo autodisvelamento da parte dei membri. Nelle fasi intermedie, la tecnica
del conduttore è caratterizzata dalla necessità di elaborare soprattutto i fenomeni connessi con la
resistenza. Egli incrementa i sentimenti di appartenza costruendo una coesione e una cultura di
gruppo. Mette anche in atto degli interventi propositivi, inserendo commenti relativi allo scopo.
I sottogruppi sono un aspetto costante nella vita di ogni gruppo e non sono necessariamente
antiterapeutici, ma spetta al conduttore valutarne la natura. Se essi si formano e riformano
fluidamente, in modo che nuove tematiche possano essere prese in considerazione, mentre sono
lasciate cadere le precedenti, i sottogruppi sono validi. Se, invece, i sottogruppi sono rispettati
rigidamente e 'alleanza al loro interno diventa più importante del tema in discussione, allora il
conduttore deve intervenire, poiché si tratta di sottogruppi antiterapeutici. Lo stadio finale della
formazione dei sottogruppi è costituito da un sottogruppo composto di un solo membro, il capro
espiatorio: si tratta sempre di un fenomeno antiterapeutico che richiede l’intervento del
conduttore. In sostanza, il terapeuta promuove una adeguata  interazione tra i membri del gruppo
per aumentare l'espressione delle diverse individualità e per consentire alle persone di
raggiungere i loro obiettivi, compresi quelli di recente sviluppo. Nella fase avanzata o di
conclusione, il conduttore presta attenzione agli argomenti relativi alla fine della terapia e al
tema del lutto all'interno del gruppo.
Il livello di attività (o di intervento) del terapeuta e gli altri aspetti connessi allo stile
degli interventi sono determinati dalle esigenze del gruppo, nonché  dalla personalità del
conduttore.

154
Quando il gruppo sta lavorando bene, il terapeuta dovrebbe limitare la  propria partecipazione a
un ascolto attento, mentre quando il lavoro del  gruppo è bloccato da un qualsiasi tipo di
impedimento, il terapeuta dovrebbe intervenire attivamente per consentire al gruppo di andare
avanti. Fra gli ostacoli possiamo ricordare la monopolizzazione, le interazioni diadiche ripetitive, i
sottogruppi fissi, l'eccesso di materiale esterno al gruppo e l'intellettualizzazione. Tutti gli
interventi devono essere propositivi e perlopiù basati sul principio che il gruppo è la risorsa
fondamentale. Ciò significa che gli interventi più comuni sollecitano le risorse del gruppo sul tema
in discussione e che sono incoraggiate le interazioni generali e specifiche tra i membri. Il terapeuta
incoraggia regole di gruppo produttive quali l’onestà, il rispetto, l'operosità, la responsabilità e
l'applicazione. Egli protegge i confini del gruppo, aiuta a migliorare l'appartenenza e incoraggia i
partecipanti a perseguire i propri obiettivi specifici.
Il terapeuta cerca di favorire il processo piuttosto che indirizzare l’attenzione ai contenuti. I suoi
interventi si focalizzano principalmente sul processo, per aiutare il gruppo a lavorare sui contenuti.
Il livello d'interpretazione varia a seconda delle ipotesi del terapeuta circa le esigenze del
gruppo in quel particolare momento, ma la maggior parte degli interventi è attinente al piano
psicologico. 

La terapia combinata di gruppo e individuale


Molti terapeuti di gruppo ritengono che una modalità ideale di lavoro sia costituita dalla
combinazione della terapia individuale con la terapia di gruppo, in modo da ampliare e
approfondire il contesto della terapia. Il terapeuta, di solito, inizia con sedute individuali e
successivamente, quando il paziente è sufficientemente coinvolto ed è stata stabilita una adeguata
alleanza terapeutica, aggiunge la terapia di gruppo.

Variazioni
Nel caso in cui la terapia di gruppo sia a termine, è richiesta una costante focalizzazione sia sul
tema intorno al quale il gruppo è stato costituito (per esempio, il divorzio, il lutto) sia sulla natura
dell'esperienza; il momento della conclusione del trattamento deve essere indicato fin dall’inizio e
affrontato esplicitamente nella maggior parte delle ultime sedute.

Parte VI: Modalità di integrazione in psicoterapia

Introduzione 
L'integrazione ha lo scopo di sintetizzare il sapere che deriva dai diversi orientamenti della
psicoterapia e di fornire basi in qualche modo comuni e comunicabili tra terapeuti di diversa
formazione. Quest'obiettivo è della massima importanza per almeno tre ragioni: a) validare
l'approccio psicologico al paziente indipendentemente dalla cornice teorica in cui si inscrive; b)
adattare le diverse pratiche cliniche che derivano dalle differenti cornici teoriche ai diversi pazienti
e ai loro bisogni specifici; c) fornire ai terapeuti in formazione la più ampia gamma di conoscenze
teoriche e pratiche sui vari tipi di intervento psicologico in modo tale che, al termine del percorso
formativo, essi possano disporre di tutti gli strumenti necessari per intervenire in maniera
"plastica" sui pazienti, essendo guidati dalle esigenze di uno specifico caso in un dato momento.
Nella letteratura internazionale e in quella italiana si è iniziato ad affrontare il tema
dell'integrazione degli interventi psicoterapeutici in maniera sistematica a partire dagli anni
Novanta, proprio a partire dall'esigenza di creare un "saper fare", un "saper curare", comune, o
quanto meno trasversale, a tutti gli orientamenti. Alla base di questa esigenza c'era l’osservazione
che la maggior parte del cambiamento che si verifica nel paziente nel corso del processo
155
psicoterapeutico dipende da fattori diversi da quelli connessi alla specifica tecnica utilizzata o dalla
cornice teorica cui la tecnica si iscrive quali l'alleanza terapeutica, l'osservazione, il
rispecchiamento, la possibilità di fare un'esperienza emotiva correttiva, e quella di sperimentare
una conoscenza e una consapevolezza intersoggettive. 
Nel lavoro psicologico con il paziente, ciascun terapeuta, al di là del suo orientamento formativo o
della cornice teorica di riferimento cui si sente, per ragioni personali o culturali, legato, utilizza
spesso (talora inconsapevolmente) interventi attinti da modelli diversi. Questo anche con lo stesso
paziente, in momenti diversi del trattamento. Può accadere, per esempio, di muoversi avanti e
indietro lungo il continuum supportivo-espressivo, o di utilizzare tecniche e interventi specifici,
cognitivi, comportamentali, o più propriamente psicodinamici, a seconda del momento, della
condizione più o meno regressiva del paziente, della presenza di contenuti
traumatici, dell'emergere di tematiche difficili di natura transferale o controtransferale.

Teoria e pratica dell’integrazione delle psicoterapie (Cap. 26 - Gabbard)


L’integrazione delle psicoterapie è nata da una crescente insoddisfazione rispetto alla continua
nascita di nuove scuole di psicoterapia, alle richieste di affidabilità da parte degli utenti e delle
assicurazioni e alla confusione dell'opinione pubblica su cosa sia realmente la psicoterapia. Il
movimento per l'integrazione prometteva il raggiungimento di diversi vantaggi: la chiarezza,
attraverso l'individuazione di fattori comuni e di un linguaggio condiviso, per i molti concetti e
strategie tendenzialmente sovrapponibili; migliori outcome del trattamento,
garantiti dall'identificazione dei presupposti teorici e delle strategie più efficaci, una cornice di
riferimento all’interno della quale nuove idee possano continuare  a evolvere ma, allo stesso
tempo, essere modulate da un continuo contatto con altre idee in evoluzione e con i processi di
base che definiscono la psicoterapia. Il movimento dell’integrazione, attraverso il tentativo di
concettualizzare la psicoterapia come un tutto, come un'entità unica ha prodotto conoscenze con
una ricaduta clinica ma che non si inserivano perfettamente all'interno dello specifico
orientamento teorico di alcuna scuola. Queste comprendevano la predominanza delle variabili
riferite al paziente nel determinare l'esito, il ruolo significative delle caratteristiche personali del

156
terapeuta, il ruolo chiave dell'alleanza terapeutica e l'importanza di porre l'attenzione
sull'outcome piuttosto che sulla teoria e la tecnica.

La storia dell’integrazione delle psicoterapie 


Spinti anche dalla necessità di fornire dati, gli psicoterapeuti hanno seguito l'esempio degli studi
clinici sui farmaci, confrontando le loro terapie  per disturbi specifici sia con i trattamenti
farmacologici sia con altre forme di psicoterapia. Questa ricerca di tipo comparativo ha prodotto
risultati non equivoci. Le meta-analisi condotte diversi decenni dopo hanno ripetutamente
evidenziato solo piccole differenze tra gli esiti delle terapie promosse dalle diverse scuole. Questi
studi di meta-analisi hanno portato a ridurre l’importanza della teoria, orientando così la ricerca su
ciò che realmente funziona.
Furono gradualmente identificati diversi tipi di integrazione:
- Eclettismo sistematico
- Integrazione teoretica
- Integrazione assimilativa
- Fattori comuni (o processi di base)
I terapeuti che sostengono l'eclettismo sistematico, esemplificato dalla terapia multimodale di
Lazarus (1981, 1989), si basano su "ciò che funziona", come suggerito dagli studi sull'outcome,
sebbene sia opportuno estendere l'applicabilità dei risultati della ricerca per adeguarsi alle
necessità di ogni singolo individuo. Lazarus raccomanda la valutazione sistematica dei pazienti
rispetto a sette diverse categorie: Comportamento, Affetti, Sensazioni, Immagini mentali, Processi
cognitivi, Relazioni interpersonali, Sostanze. Da qui l'acronimo BASIC-ID). Viene quindi applicato
ogni risultato della ricerca che si riferisca a ciascuno di questi ambiti. Se, per esempio, un paziente
sperimenta problemi nell'area del comportamento, come quelli conseguenti a un disturbo
ossessivo-compulsivo, sarà applicato il protocollo di ricerca relativo a tale disturbo. 
Il modello BASIC-ID si adatta alle necessità del singolo paziente. È un approccio sistematico e
attinge a diverse fonti. Di conseguenza ci si chiede per quale motivo questo approccio razionale e
basato sulla ricerca non abbia avuto successo. Terapie ben validate a livello sperimentale si
traducono spesso con difficoltà nel contesto della realtà clinica, al di fuori dell'area della ricerca in
cui tutte le variabili sono molto controllate. Forse più problematico ancora è il fatto che Lazarus
abbia creato un modello troppo simile a un nuovo modello di psicoterapia con specifici protocolli,
schede di registrazione e sequenze di trattamento prestabilite. 
L'integrazione teoretica ha l'obiettivo di individuare principi superiori, attraverso i quali possano
essere organizzati i modelli di psicoterapia delle differenti scuole. Prochaska e DiClemente (1984)
hanno posto in relazione tre aspetti cruciali della psicoterapia, trasversali alle diverse scuole: la
disponibilità al cambiamento, i processi di cambiamento e i livelli (o il contenuto) del
cambiamento. 
Essi sollecitano i terapeuti ad adeguare le proprie risposte al singolo paziente, piuttosto che
tentare di inserire il paziente nel modello teorico del terapeuta.
Nell'integrazione assimilativa (Messer, 1992) i terapeuti cominciano col formarsi in maniera
completa e strutturata, secondo lo specifico modello di terapia che più si addice loro, e poi
assimilano all'interno del loro approccio di base idee provenienti da diverse scuole.
I fattori comuni cercano di definire cosa accomuna tutte le terapie e di porre delle basi a partire da
questo e sono lo stabilirsi dell'alleanza terapeutica e il suo mantenimento, l'attivazione della
capacità di auto-osservazione del paziente, l'individuazione di pattern disadattivi, il fatto di
intraprendere il cambiamento di tali pattern e mantenerlo nel tempo, e concludere la terapia.
Diversi studi suggeriscono che una parte significativamente maggiore della varianza negli outcome
della psicoterapia è imputabile a fattori comuni piuttosto che a specifici fattori.
157
Sulla base di queste quattro categorie generali di integrazione (eclettismo sistematico,
integrazione teoretica, integrazione assimilativa e fattori comuni) è stata sviluppata una grande
varietà di approcci integrativi. Il movimento per l'integrazione delle psicoterapie sembra
promuoverli basandosi su di un principio conservativo, nel tentativo di ridurre la proliferazione di
scuole di psicoterapia. 
Il diffondersi di scuole integrative sembra contraddire l'intento originario del movimento, ovvero
quello di semplificare le affermazioni confusive. 

Principi base della psicoterapia 


I terapeuti orientati esclusivamente dal proprio modello teorico generalmente ignorano diversi
fatti emersi da decenni di ricerca nell’ambito della psicoterapia, ossia che:
- I pazienti vanno incontro a profondi processi di cambiamento senza sottoporsi formalmente ad
alcuna psicoterapia: i pazienti spesso influenzano i loro terapeuti a fornire loro il contesto e le
risposte a raggiungere gli esiti che si desiderano. L’a collaborazione attiva sembra essere il fattore
fondamentale che accelera l’utilizzo di risorse personali e ambientali già presenti in ogni paziente;
- Le variabili attribuibili al paziente predicono l'outcome della psicoterapia più della teoria e delle
tecniche adottate: il predittore più importante dell'outcome non è altro che il paziente (le sue
aspettative nella psicoterapia, le sue risorse, la sua motivazione)
- Il terapeuta è più importante dell’outcome rispetto alla teoria e alla tecnica.
- I terapeuti, maturando, finiscono per assomigliarsi tra loro, a prescindere dalle iniziali differenze
rispetto all'orientamento teorico. 
- La forza della relazione terapeutica è in relazione con l'outcome in tutte le scuole di psicoterapia.  
- Una terapia efficace è costruita intorno ai bisogni del paziente. Mentre la ricerca "competitiva"
applica a diagnosi specifiche differenti terapie strutturate o organizzate secondo precise linee
guida, come avviene negli studi di efficacia sui farmaci, la ricerca sul processo è volta a esaminare
la relazione tra le caratteristiche del paziente, la forza dell'alleanza di lavoro e diverse altre
strategie terapeutiche, come il comunicare una comprensione empatica.
- La diagnosi limita la formulazione del progetto terapeutico: anche se l’approccio diagnostico ha
permesso un aumento delle conoscenze riguardo ai disturbi ma mette ombra il fatto che i
problemi psicologici si sviluppano e si manifestano in molti modi. Inoltre l'attribuire troppa
importanza alle diverse diagnosi intralcia il riconoscimento del grado in cui diversi problemi
psicologici condividono processi comuni e sintomi che risponderebbero ai medesimi interventi.
- Gli psicoterapeuti aiutano i pazienti a crearsi un nuovo futuro. 
- Importanti aree della ricerca in psicoterapia sono ancora poco sviluppate . I ricercatori non hanno
ancora messo a punto criteri efficaci per scegliere coloro che potranno diventare bravi terapeuti o
quali sono gli interventi terapeutici efficaci e non hanno stabilito chiare modalità d'insegnare la
corretta tempistica degli interventi.

L'integrazione attraverso la somiglianza e le differenze tra i processi fondamentali


delle diverse scuole

Coinvolgimento
L’obiettivo iniziale di ogni psicoterapia è solitamente stabilire e rafforzare l’alleanza terapeutica.
Molti passaggi possono contribuire a questo processo, come definire con il paziente le sue
aspettative riguardo agli esiti desiderati e tali obiettivi; definire accuratamente lo stato emotivo del
paziente nel corso del processo della psicoterapia; fornire informazioni rilevanti per il paziente;
offrire al paziente suggerimenti efficaci; gestire con efficacia i confini della terapia e la relazione
terapeutica.
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Attivazione dell'auto-osservazione
L'attivazione e l'incoraggiamento della continua autoconsapevolezza del paziente all'interno di una
relazione sicura e di fiducia è il secondo processo della psicoterapia. Quando questo processo è
attivato con successo, i pazienti diventano meno ansiosi e maggiormente in grado di esplorare il
loro mondo interno e interpersonale. La relazione terapeutica, che diviene sempre più positiva,
fornisce uno "spazio riflessivo" all'interno del quale condurre l'autoesplorazione.

Ricerca di pattern
Un terzo obiettivo della psicoterapia è la definizione di pattern che il paziente può cambiare e che
porteranno al raggiungimento di un obiettivo o di un sotto-obiettivo desiderato

Cambiamento
La psicoterapia non cura i pazienti; piuttosto li aiuta a cambiare. Sono i pazienti si assumono la
responsabilità del cambiamento; i terapeuti non cambiano  i pazienti.
Gli obiettivi terapeutici possono essere raggiunti attraverso diversi processi, spesso sovrapposti, i
quali includono le strategie e tecniche della scuola di psicoterapia di riferimento, pur non
limitandosi a esse. Alcune strategie generali di cambiamento sono: separare il passato dal
presente; mettere alla prova le credenze, i comportamenti e le emozioni disfunzionali; generare
alternative; decidere cosa cambiare; valutare i vantaggi e gli svantaggi del cambiamento; suggerire
come e cosa cambiare; trasformare gli ostacoli in opportunità; modificare le aspettative verso il
futuro; fronteggiare le paure; riformulare; risolvere i conflitti; fare pratica durante la seduta;
elaborare; rinforzo positivo; role-playing; self-disclosure del terapeuta.
Il modo più diretto per individuare la strategia da utilizzare è quello di decidere quali strategie
sembrino più adeguate al raggiungimento degli obiettivi del paziente e in seguito, tra queste,
scegliere quella che è più probabile che il paziente accetti. Nell'effettuare questa scelta devono
essere prese in considerazione strategie evidence-based, tenendo comunque presente che
la maggior parte degli esiti della ricerca si basa su studi di pazienti altamente selezionati e
omogenei per diagnosi, che vengono reclutati attraverso annunci e che desiderano partecipare a
protocolli di ricerca. 
Confini professionali in psicoterapia (Cap. 30 - Gabbard) 
I confini professionali possono essere definiti semplicemente come i parametri che delimitano i
confini di una relazione di fiducia in cui il paziente affida il proprio benessere allo psicoterapeuta. I
confini devono essere adattabili e flessibili ma non rigidi altrimenti sarebbero antiterapeutici.
Il concetto di confine professionale appare solo recentemente in letteratura. In larga misura, esso
trae origine dal problema dei rapporti sessuali fra terapeuti e pazienti, una condotta contraria
all'etica che comporta strascichi legali e serie conseguenze per il paziente e per la reputazione dei
professionisti nel campo della salute mentale (Gutheil, Gabbard, 1993). 
Di conseguenza, crescente attenzione è stata posta a questioni come il luogo in cui si svolgono le
sedute, il segreto professionale; 'eccessivo ricorso a self-disclosure; il ruolo professionale del
terapeuta; la durata delle sedute; l’onorario; lo scambio di regali e servizi; l'abbigliamento e il
linguaggio più appropriato; e la possibilità di contatti fisici di natura non sessuale. 

Superamenti e violazioni dei confini


Ogni psicoterapeuta può riportare casi in cui l'infrazione di un confine non ha prodotto
conseguenze negative e anzi ha favorito il lavoro terapeutico. Pertanto, la definizione dei confini

159
professionali deve tener conto di almeno due categorie: i semplici superamenti e le vere e proprie
violazioni.
I superamenti dei confini sono in genere infrazioni benigne, episodiche, che  possono essere
oggetto di discussione fra terapeuta e paziente e non implicano uno sfruttamento del paziente.
La maggior parte delle diadi terapeutiche attraversa un periodo di adattamento in cui lo
psicoterapeuta si mostra sensibile negoziando implicitamente il livello di vicinanza o distanza più
confortevole per il paziente in modo da costruire insieme un contesto ottimale per la terapia.
Un altro aspetto del superamento dei confini è il riconoscimento che, nella vita, possono accadere
eventi imprevisti che richiedono una risposta umana. Per esempio, la maggior parte dei terapeuti
ricambierà l'abbraccio di un paziente che ha subito una recente perdita, nella consapevolezza
che allontanare il paziente potrebbe pregiudicare per sempre l'alleanza terapeutica. Inoltre,
nessun terapeuta è perfetto, e a volte anche i migliori mettono in atto dei comportamenti inconsci
quando i pazienti si comportano in modo inconsueto. Questi enactment spesso riflettono relazioni
oggettuali interne che emergono dalla diade e possono avere un profondo significato.
Le violazioni dei confini, invece, rappresentano fenomeni più gravi, spesso ripetitivi, che hanno
conseguenze negative per il paziente o sfruttano la  sua posizione di dipendenza o vulnerabilità.
Avere un rapporto sessuale con un paziente o una paziente rappresenta il caso confine, ma non
meno deplorevole è la condotta di un terapeuta che sfrutti economicamente un suo paziente, per
esempio chiedendogli insistentemente del denaro da impegnare in un fondo comune di
investimento. Un altro aspetto delle violazioni dei confini, spesso, è l'indisponibilità del terapeuta a
discutere la questione con il paziente. Il terapeuta può dichiarare che la sua condotta fa parte della
relazione "reale" e come tale non va discussa.
A volte, si usa l'espressione infrazione dei confini per indicare sia i superamenti sia le violazioni. In
letteratura si trova anche l'espressione confusione dei confini per indicare una situazione in cui la
cornice terapeutica è indistinta ma vi è assenza di veri e propri superamenti o di violazioni dei
confini.

Specifiche questioni riguardanti i confini professionali

Luogo in cui si svolge la seduta


In ogni discussione sui confini professionali che definiscono la psicoterapia, un aspetto che va
preso in considerazione è il luogo dove si svolge la terapia. La terapia in genere si svolge in uno
studio, una clinica o un ospedale, in un ambiente sufficientemente appartato da mettere a proprio
agio il paziente e permettergli di confidare al terapeuta desideri, paure e fantasie che gli possono
causare notevole imbarazzo o vergogna. Tuttavia, l'esatta ubicazione può variare secondo i casi.
Il luogo in cui si svolge la psicoterapia può dipendere, inoltre, dal tipo di terapia indicata per il
particolare disturbo del paziente. Un paziente con una fobia degli ascensori, per esempio,
potrebbe richiedere una terapia comportamentale che preveda un'esposizione in vivo, nel qual
caso il terapeuta potrebbe portare il paziente in un grattacielo e, nel tempo normalmente
dedicato a una seduta, salire e scendere più volte con l'ascensore. Questa forma di trattamento
rientra perfettamente nelle regole codificate dalla comunità dei terapeuti comportamentali,
dimostrandosi peraltro efficace.
In generale, quando si è orientati verso un setting che si discosta dalle  regole comunemente
condivise dai terapeuti, si dovrebbero prima ponderare le ragioni di questa scelta e tutte le
conseguenze che avrebbe per il trattamento. Al riguardo, potrebbe essere utile consultare un
collega o un supervisore per accertarsi di non stare agendo sulla base di bisogni inconsci personali
di natura controtransferale.

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Segreto professionale
Il segreto professionale rappresenta uno dei confini più inviolabili nella nostra professione. Esso va
ben oltre il semplice impegno di non ripetere ciò che dice il paziente al di fuori della stanza
d’analisi. I terapeuti sono eticamente vincolati a non agire sulla base delle informazioni che
ricevono durante la seduta terapeutica. Per esempio, il terapeuta non dovrebbe avvantaggiarsi
delle "dritte” di un paziente per giocare in borsa. Se il terapeuta apprende da un paziente che un
collega sta divorziando, non dovrebbe rivelare quest'informazione a nessun altro. Il segreto
professionale è tutelato da diverse leggi oltre che dai codici deontologici. Una violazione di questo
principio potrebbe esporre il terapeuta a cause legali o a sanzioni da parte degli ordini
professionali.
A volte, il pieno rispetto del diritto alla riservatezza e alla privacy del paziente impone al terapeuta
di mentire ad altre persone. Per esempio, nel caso descritto in precedenza del terapeuta che
apprende del divorzio di un collega da un paziente, egli è tenuto a fingere di non sapere quando
incontrerà il collega o quando gli riporteranno la notizia.
Il segreto professionale non è un principio inviolabile. In ogni caso, si è tenuti a ignorare la privacy
per riportare un abuso minorile. In alcune circostanze, la minaccia di un'imminente violenza a
danno di qualcuno comporta il dovere di avvertire il paziente che, in questi casi, l'obbligo di
riservatezza non vale. Analogamente, quando il paziente mostra una chiara tendenza suicida e
tutto sembra confermare che è disposto ad agire in base a questo impulso, molti terapeuti
preferiscono avvertire i familiari, in modo da creare un sistema di sostegno per contenere i
propositi distruttivi del paziente. In un ristretto numero di casi, i terapeuti che apprendono di un
coinvolgimento sessuale di un collega da una fonte confidenziale, sono tenuti a riferire il fatto
all'ordine professionale.
Anche uno psicoterapeuta può essere amante del gossip, e l'orgoglio di avere in cura un
personaggio famoso spesso può spingerlo a confidare ai colleghi di avere come paziente una
persona tanto importante. Tuttavia, il concetto di segreto professionale si estende anche
all'obbligo di non rivelare di avere in cura o no una certa persona. Lo stesso vale per la
supervisione. Nella maggior parte dei casi, non occorre rivelare al supervisore o al collega il nome
del paziente, sempre che ciò non sia necessario per fargli comprendere appieno la complessità di
un certo caso. 
D'altra parte, quando si presenta un caso clinico per finalità didattiche o in una pubblicazione
scientifica, bisogna essere attenti a occultare le informazioni che potrebbero rivelare l'identità del
paziente.

Self-disclosures eccessive da parte del terapeuta


La questione, oggi, non è se il terapeuta svelerà parti di se stesso al paziente, ma in che misura,
come e quando lo farà e quali saranno le implicazioni tecniche e deontologiche di queste self-
disclosures.
Non tutti i sentimenti che un terapeuta può nutrire nei confronti di un  paziente possono essere
rivelati. Per esempio, supponendo che il terapeuta avverta un impulso ostile nei confronti del
paziente, dire apertamente "La odio" difficilmente potrebbe favorire il corso della terapia o aiutare
il paziente a conoscersi meglio. Analogamente, è improbabile che rivelare a un paziente di provare
impulsi sessuali nei suoi confronti possa essere di qualche utilità, e anzi, in alcuni casi, potrebbe
avere effetti traumatici o essere percepito come una forma di abuso.  
La self-disclosure può essere limitata al punto di evitare deliberatamente  di condividere con il
paziente ogni dettaglio riguardante la propria persona o famiglia.

161
Anche le self-disclosures riguardanti problemi personali dovrebbero essere attentamente
ponderate, poiché spesso possono rappresentare il primo passo verso una degenerazione del
rapporto-terapeutico.

Rispetto del ruolo professionale 


Il concetto di ruolo professionale ha un'importanza fondamentale riguardo ai confini. Il terapeuta
non è una madre, un padre, un prete o un rabbino, un amante, o un fratello. Nella prima seduta è
spesso necessario chiarire cosa è e cosa non è una psicoterapia. 
Il rispetto del ruolo professionale del terapeuta non significa che il terapeuta debba comportarsi in
maniera troppo formale o insensibile. Sebbene sia del tutto appropriato iniziare la prima seduta
chiamando i pazienti "Mr.Smith" o "Mrs. Jones", è anche possibile, dietro loro esplicita richiesta,
chiamarli col nome di battesimo per aiutarli a sentirsi a proprio agio nella situazione terapeutica.
Analogamente, il terapeuta non dovrebbe negare cordialità e disponibilità emotiva, che
rappresentano componenti importanti per aiutare il paziente a maturare e per offrirgli una
risonanza empatica che può essere mancata nel suo sviluppo.

Durata e orario delle sedute


Un altro confine imposto alla relazione fra paziente e terapeuta riguarda la durata e l'orario delle
sedute. 
La durata delle sedute è spesso di 45-50 minuti, ma può variare notevolmente (dai 15 ai 90
minuti). In ogni caso, i parametri temporali devono essere indicati chiaramente al paziente, ed è
importante che egli sappia sin dall'inizio che saranno sempre quelli. D'altra parte, non si può
essere assolutamente inflessibili, e qualche volta si può sforare di alcuni minuti per permettere al
paziente di riprendersi da un intenso sfogo emotivo o in altre circostanze particolari.
Un altro importante fattore legato al tempo è l'ora in cui viene visto il  paziente. I casi di violazione
dei confini tendono a essere più frequenti durante le sedute programmate al termine della
giornata lavorativa, quando il personale della clinica o dello studio è già andato via e terapeuta e
paziente restano soli. Questo setting può comunicare al paziente che esiste la possibilità di
qualcosa di diverso da un rapporto di tipo professionale. Bisogna, quindi, essere molto prudenti
nel programmare le sedute in questi orari.

Onorari
Il fatto di essere pagato differenzia il terapeuta da un genitore, un partner un amico e così via.
Ogni volta che il paziente paga la parcella, ciò gli ricorda che ha "noleggiato" il tempo del
terapeuta e che dovrebbe usarlo proficuamente. Uno dei segnali più indicativi di una
degenerazione del rapporto professionale si ha quando il terapeuta smette di far pagare le sedute
o "fa credito" oltre misura. Un'altra variazione consiste nel permettere al paziente di ricevere due
sedute pagandone una soltanto. In ogni caso, il terapeuta dovrebbe monitorare attentamente il
modo in cui gestisce i pagamenti del paziente e gli onorari richiesti come espressione del suo
desiderio controtransferale di dare al paziente qualcosa senza chiedergli nulla in cambio.
Un ulteriore elemento problematico che può incidere sulla gestione dei pagamenti è la sensazione,
da parte del terapeuta, che la terapia sia inutile o di non essere all'altezza.

Scambio di regali o servizi


In molti casi, i pazienti possono esprimere gratitudine al terapeuta offrendogli regali. I pazienti più
sani possono manifestare il desiderio di fare una donazione per l'istituto dove lavora il terapeuta o
per un progetto in cui è coinvolto. Accettare regali costosi o donazioni dai pazienti comporta,
tuttavia, una serie di complicazioni. I pazienti possono avvertire consciamente o inconsciamente di
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aver diritto a un trattamento di favore in virtù delle loro donazioni o di regali di altro tipo al
terapeuta. Il dono potrebbe inoltre mascherare l'aggressività del paziente e altri sentimenti-
negativi che preferisce tener nascosto, o un tentativo inconscio di "corrompere" il terapeuta  e
influenzarlo in una certa direzione. Il paziente potrebbe pensare che, in tal modo, il terapeuta
eviterà di affrontare argomenti spiacevoli e non gli chiederà di modificare aspetti della sua
personalità che, in fondo, non desidera cambiare; o, ancora, potrebbe pensare che  un assegno a
favore di un certo progetto di ricerca in cui è impegnato il terapeuta lo dissuaderà dall'indirizzare il
trattamento verso direzioni sgradite.
A volte, il terapeuta può nutrire dei dubbi sull'opportunità di accettare un regalo; in tal caso,
potrebbe esprimere le sue perplessità al paziente, riservandosi di rifletterci su o di consultarsi con
un collega prima di prendere una decisione.
Nonostante la complessità del problema dei regali, esistono alcune regole pratiche:
1. Nel corso del trattamento, non vanno accettate donazioni a favore di progetti personali o
dell'istituto per cui si lavora.
2. Non vanno accettati regali in denaro.
3. Andrebbe evitato di accettare regali costosi, e quando non se ne conosce  il valore, andrebbe
considerata la possibilità di rimandare la decisione e possibilmente di consultare un collega.
4. Il terapeuta dovrebbe sentirsi libero di esplorare il significato di un certo  regalo per verificare se
si profilino nuove aree di esplorazione terapeutica.

Abbigliamento e linguaggio
Il modo di vestire e di parlare sono aspetti del ruolo di psicoterapeuta che raramente vengono
presi in considerazione nelle discussioni sui confini professionali. La scelta di un abbigliamento
professionale comunica al paziente che il terapeuta prende sul serio il proprio lavoro. A volte, il
paziente abbandona la terapia dopo la prima seduta perché il terapeuta non gli
appare professionale. Oltre all'abbigliamento casual, anche un modo di vestire seducente può
compromettere la professionalità del terapeuta agli occhi del  paziente. Una terapeuta, per
esempio, potrebbe vestirsi in modo da apparire seducente agli altri senza rendersene conto.
Anche un modo di parlare volgare o informale potrebbe compromettere l'immagine di
professionalità che viene trasmessa al paziente. In genere, quando si vogliono indicare atti sessuali
o parti anatomiche è meglio impiegare termini tecnici.
Inoltre, il linguaggio del terapeuta potrebbe essere percepito come violento da alcuni pazienti,
soprattutto da quelli che hanno sperimentato aggressioni verbali in passato.

Contatti fisici
In generale, la psicoterapia non prevede contatti fisici. Può esserci una stretta di mano al primo
incontro ma, nella maggior parte dei casi, non nelle sedute successive. Naturalmente, sono
previste delle eccezioni, in genere in considerazione di specifiche usanze culturali, per cui vi potrà
essere una stretta di mano all'inizio e al termine di ciascuna seduta. Nella maggior parte dei casi, il
terapeuta può ricambiare una stretta di mano senza preoccuparsi delle conseguenze. La sola
eccezione si ha in presenza di un transfert erotico, in cui, per esempio, il paziente (o la paziente)
attribuisca alla stretta di mano una valenza sessuale. Quindi, bisogna valutare caso per caso.
Come notato in precedenza, non si può dichiarare un abbraccio inaccettabile per principio, e può
capitare che il terapeuta ricambi l'abbraccio di un paziente che ha subito una perdita significativa.
Tuttavia, gli abbracci di regola non dovrebbero far parte della psicoterapia, perché il paziente
potrebbe facilmente fraintendere le intenzioni del terapeuta.  
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In sintesi, ecco alcune utili indicazioni sui contatti fisici:
1. Il terapeuta non dovrebbe abbracciare i pazienti di propria iniziativa.
2. L'abbraccio di un paziente andrebbe ricambiato.solo in circostanze eccezionali.
3. In presenza di un chiaro transfert erotico da parte del paziente, i contatti fisici dovrebbero
essere evitati.
4. Andrebbe esplorato il significato di ogni contatto fisico con il paziente  come parte del processo
terapeutico.

Confini professionali dopo la conclusione del trattamento


Sebbene vi sia un ampio consenso che i rapporti sessuali fra terapeuta e paziente siano sempre
contrari all'etica professionale, la possibilità di una relazione di questo tipo dopo la conclusione del
trattamento ha destato maggiori controversie. Nel 1993, l'American Psychiatric Association ha
stabilito che i rapporti sessuali fra psichiatri ed ex pazienti sono sempre contrari all'etica.
L'American Psychological Association, invece, ammette la possibilità di un periodo di "astinenza" di
due anni, dopo il quale potrebbe essere etico per i terapeuti iniziare una relazione di natura
romantica o sessuale con un (o una) ex paziente. Tuttavia, allo  psicologo resta l'onere di
dimostrare, anche dopo i due anni, che non si sta  approfittando del senso di vulnerabilità e
dipendenza del(la) paziente.

Persistenza del transfert


Nel transfert, il paziente vede il terapeuta come una figura potente e autorevole del passato. Le
neuroscienze cognitive indicano che le rappresentazioni dei genitori si stabiliscono nelle reti
neurali che rappresentano se stessi e gli altri sin dalla prima infanzia, per poi riattivarsi più volte in
base alle particolari caratteristiche delle persone che entrano a far parte della propria vita
(Westen, Gabbard, 2002). Ne consegue che il transfert non si risolve mai completamente. Gli studi
di follow-up hanno confermato che esso persiste  a lungo dopo la conclusione del rapporto fra
terapeuta e paziente. Alcuni studi hanno dimostrato che il transfert si ristabilisce immediatamente
quando i pazienti vengono rivisti dopo la fine del trattamento, e i temi transferali più persistenti
continuano a essere elaborati.

La disparità di potere 
Ogni relazione terapeutica si basa su un rapporto di fiducia, e quindi  comporta un notevole grado
di dipendenza emotiva e disparità di potere. Questa disparità di potere, una volta  stabilita,
permane anche dopo la conclusione della terapia (Gabbard, 2002).

Compromissione della relazione terapeutica


Sopra ogni cosa, uno psicoterapeuta desidera non arrecare danno al paziente. I codici deontologici
vengono compilati proprio per individuare le situazioni a rischio e impedire che possano
minacciare la relazione terapeutica.
Se fossero ammessi rapporti sessuali dopo la conclusione del trattamento,  si potrebbe immaginare
una situazione in cui terapeuta e paziente siano presi da una crescente attrazione reciproca che si
sovrappone agli obiettivi della terapia (Gabbard, 2002). Un terapeuta, per esempio, potrebbe
vedere in una paziente la donna ideale per lui. Questa idealizzazione potrebbe impedirgli di
affrontare i dettagli sgradevoli della paziente per guadagnare il suo amore e rispetto. La paziente,
d'altra parte, se prova la stessa attrazione, potrebbe decidere di tenere nascosti alcuni episodi
scabrosi del suo passato per non disgustare il terapeuta e perdere il suo interesse. Potrebbe
164
arrivare al punto di ingraziarsi il terapeuta dichiarandosi ammirata per le sue capacità e
competenze. Ne potrebbe scaturire un accordo di mutua ammirazione, che estromette dalla
discussione proprio i temi più rilevanti sul piano terapeutico.

Possibilità che il paziente riprenda la terapia 


Com'e noto a ogni clinico di una certa esperienza, i pazienti che hanno terminato una psicoterapia
spesso ritornano, in seguito, per affrontare una crisi personale o per gestire una nuova fase
evolutiva. 
In caso di rapporti professionali che non hanno implicazioni sessuali, le regole non sono così
definite. Il terapeuta potrebbe incontrare un ex paziente in diverse situazioni sociali, in cui è
senz'altro libero di essere amiche cordiale nei suoi confronti. I due potrebbero anche condividere
delle aree di interesse comune e incontrarsi occasionalmente in determinate circostanze (per
esempio, partecipare entrambi a un congresso). È tuttavia consigliabile per il terapeuta mantenere
una certa distanza riguardo ai problemi personali per restare disponibile per un'eventuale ripresa
della terapia.

Prevenzione delle violazioni dei confini


Affrontare il tema dei confini professionali nel corso del training  può contribuire a prevenire alcuni
casi di violazioni chiarendo al candidato la differenza esistente fra un rapporto professionale e uno
di natura personale.
Consultare regolarmente un collega o un supervisore nel corso dell'intera carriera rappresenta
probabilmente la misura preventiva migliore che uno psicoterapeuta possa attuare a difesa della
propria vita professionale. 
In ogni caso, la prevenzione dipende in larga misura dalla condotta del  terapeuta quando è solo.
Un'utile tecnica di monitoraggio consiste nel chiedersi: "Sto facendo qualcosa di cui potrei parlare
a un altro terapeuta o al mio supervisore?". Se la risposta è negativa, dovrebbe consultarsi per
valutare l'opportunità di tale comportamento. In ultima analisi, per evitare violazioni dei confini
professionali, il terapeuta dovrebbe essere custode di se stesso.

Capitolo 4: Adolescenza e confini psichici

Gruppoanalisi soggettiste e adolescenza 


Nel pensiero gruppoanalitico l'adolescenza è intesa come momento di crescita e maturazione
psichica e sociale che conduce il soggetto a una ridefinizione delle proprie matrici identificatorie, a
un continuo processo dialettico tra l'Idem, l'essere "identico a", e l’Autós, essere "altro da", che gli
consente di sviluppare un pensiero autentico su di sé e sulle cose del mondo e di transitare dalla
categoria della continuità a quella della discontinuità (Napolitani, 1987).
La transizione dalla categoria della continuità a quella della discontinuità, in adolescenza, implica
la messa in atto di un processo simbolopoietico complesso, che permette al soggetto di giungere a
una nuova definizione del sé e dell'altro e alla costruzione di un'identità autentica  che delinea un

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più netto confine tra ciò che è interno e ciò che è esterno, consentendogli così di entrare in
relazione con il mondo senza il rischio di diffusione e dispersione del sé.
Attraverso le relazioni reali e immaginarie - presenti e passate - nel mondo interno
dell'adolescente, gli "innesti" familiari e culturali sedimentati (Napolitani, 1987) che hanno
contribuito allo sviluppo della sua individualità si trasformano creativamente: l'identità è
intimamente e fortemente legata alle relazioni precedenti che hanno attraversato l'individuo, alle
matrici transpersonali del gruppo e della comunità e della società cui il soggetto appartiene; ma
anche a ciò che transgenerazionalmente è giunto al soggetto attraverso racconti, esperienze,
relazioni, vissuti inconsci, oltre che l'incontro e la sperimentazione con il nuovo, l'inedito, ciò che
ancora non è mai stato esplorato. Il nuovo corpo sessuato, la sessualità, la possibilità di
stringere nuovi e significativi legami extra familiari e la sperimentazione di nuovi ruoli sociali
costituiscono nuovi scenari relazionali che riscrivono, e in parte trasformano, le matrici originarie
del mondo interno dell'adolescente.

I “con-fini” dell’adolescenza 
Dobbiamo porre attenzione ai diversi gruppi di appartenenza del soggetto e al ruolo che essi
rivestono all'interno del complesso processo di individuazione. L'adolescente si muove tra
molteplici e diversificati ambiti istituzionali, contesti gruppali formali e informali, realtà complesse
e multiformi che in misura e con modalità differenti entrano a far parte e influiscono sul suo
sviluppo identitario. 
È la famiglia il primo nucleo identitario del bambino prima e dell'adolescente poi; essa, grazie allo
svolgimento della sua funzione di accudimento fisico e psichico e attraverso i processi di
trasmissione transpersonale e transgenerazionale di ideali, valori, temi culturali che attraversano
la storia di ogni contesto familiare nucleare e allargato, costituisce la matrice identitaria dell'uomo.
I contenuti familiari consci e inconsci di cui il soggetto è portatore  rappresentano la base della
formazione dell'identità: attraverso la rivisitazione del pensiero familiare, delle proprie matrici
culturali e dei valori trasmessi, il soggetto, a partire proprio dall'adolescenza, giunge
progressivamente alla maturazione di un pensiero unico e originale su di sé e sul mondo, che gli
consente di accedere a un universo simbolico  più ampio in cui le esperienze assumeranno un
valore e un significato differente sulla base dell'intima e unica elaborazione che ne fa il soggetto.
Compito di ogni adolescente è quello di interpretare la propria storia familiare per dare senso a
essa e per significare in modo originale la propria "missione" nel mondo, cercando di ristabilire
quell'instabile equilibrio tra le spinte conservatrici tese a tutelare la continuità dei significati "cari
al mondo familiare" e quelle più progressiste, in qualche modo disposte a disarticolarne le atrofie.
Il processo dialettico che s'innesca durante l'adolescenza tra il desiderio di separazione e l'innata
spinta all'individuazione da una parte e il bisogno inconscio di avvicinamento e accudimento
dall'altra contribuisce in maniera significativa all'elaborazione di una nuova immagine di sé, che si
struttura a partire da un continuo rimaneggiamento di quei modelli e vissuti relazionali
interiorizzati a partire dai primi momenti di vita. L'adolescente può spesso trovarsi a vivere questa
fase come un ritrovarsi di fronte a due scelte tanto radicali quanto impraticabili: il rifiuto e
l'abbandono dello spazio simbolico genitoriale o la chiusura regressiva al suo interno. L'apertura
verso i nuovi contesti sociali e l'esperienza di essere all’interno di relazioni nuove e
significative facilitano il transito e l'avvio di un percorso in cui si sperimenta di poter crescere senza
recidere i legami con un familiare a cui si sente di dover in qualche modo, almeno in parte,
rinunciare.
Il processo di separazione da parte dell'adolescente può essere segnato da turbolenze emotive che
coinvolgono l'intero campo familiare.

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Con il sopraggiungere dei primi cambiamenti puberali anche la famiglia subisce un
cambiamento inerente al delicatissimo rapporto con il figlio adolescente e all'assetto e
all'organizzazione di tutte le relazioni familiari. La crescita del figlio è talmente perturbante da
coinvolgere e rimettere in discussione anche i significati e le rappresentazioni relative alla funzione
genitoriale.
L'intero gruppo famiglia, centrato durante l'infanzia principalmente sulla funzione
dell'accudimento, è chiamato a cambiare radicalmente affinché l'adolescente possa attraversare il
confine tra l'interno - costituito dal mondo familiare - e l'esterno, costituito dal sociale. Il confine
non richiama unicamente una definizione di ruoli, di funzioni, di spazi decisionali, di demarcazione
fisica di ambienti e territori entro i quali "confinare" i personaggi del campo familiare. I confini
sono soprattutto territori simbolici e relazionali di transito, di sovrapposizione, di passaggio. Essi
contribuiscono ad attribuire senso all'esperienza nella misura in cui consentono e favoriscono il
movimento tra i contesti familiari, culturali, istituzionali e in genere gruppali cui il soggetto sente di
appartenere e quelli nuovi che desidera sperimentare.
I confini hanno un'importanza particolare in relazione all'attribuzione di senso ai propri vissuti
soggettivi: le esperienze, i sentimenti, i vissuti in genere possono essere elaborati e interiorizzati
dall'adolescente, così da sentirli come propri ed egosintonici, solo se è possibile un processo di
significazione delle proprie transizioni che permette di non vivere sentimenti di  abbandono, di
colpa, di tradimento.
L’adolescente richiede ai genitori l'acquisizione di una funzione di contenimento, un luogo
protetto in cui attuare quel processo simbolopoietico necessario allo sviluppo identitario
del soggetto. L'adolescente deve poter percepire il nucleo familiare come un  ambito di dialogo e
negoziazione tra i propri bisogni, quelli della famiglia e le richieste del mondo sociale. La spinta alla
creazione di nuovi nodi di significazione e alla formazione di un senso di identità e continuità  del
proprio essere conduce il soggetto ad attuare un processo di messa  in discussione delle proprie
appartenenze e credenze originarie, al fine di integrare in sé valori familiari e istanze sociali.
È solo attuando un processo di rielaborazione continua delle proprie matrici di appartenenza che
diventa possibile giungere alla realizzazione di un tale progetto evolutivo, che richiede, in prima
istanza, la collaborazione di contesti gruppali diversi da quello della propria famiglia.
L'attraversamento del confine tra familiare e sociale può risultare difficoltoso per quegli
adolescenti che intraprendono questo transito senza la possibilità di accedere all'elaborazione di
valori e codici differenti da quelli appresi all'interno del proprio contesto familiare .
Il passaggio di tale linea di confine appare meno faticoso nel caso in  cui l'adolescente sia
supportato non solo da un ambiente familiare aperto al confronto e allo scambio con il mondo
esterno, ma anche da un contesto gruppale di coetanei che sostenga e accompagni il processo
di separazione dalla famiglia e di avvicinamento al sociale. L'universo relazionale in senso ampio, il
mondo sociale e i nuovi contesti gruppali di  cui l'adolescente fa esperienza giocano in questa
specifica fase evolutiva un ruolo fondamentale nel processo di separazione-individuazione  in
quanto offrono al soggetto la possibilità di mettere alla prova l'attraversabilità dei confini, ovvero
dei contenuti transpersonalmente trasmessi dal proprio contesto familiare e culturale. Solo se
questo attraversamento sarà possibile, il confronto e/o lo scontro con i nuovi contesti extra
familiari potrà dare luogo a diverse e originali modalità di rapportarsi con il mondo. La
sperimentazione di nuove relazioni e di nuovi contesti gruppali rappresenta una sorta di spazio
transazionale reale e simbolico in cui, grazie all'identificazione con ruoli e funzioni diversificate, si
dispiega un processo di soggettivazione e di ricerca di senso di sé nel mondo.
Il gruppo dei pari è l'ambito fondamentale per il processo di soggettivazione dell’adolescente;
l’omologazione ai propri pari risulta fondamentale perché agevola la separazione dalla famiglia
d’origine e l'inserimento nel mondo sociale. Questo processo consente al soggetto la formazione
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di un'identità separata da quella dei propri genitori e la possibilità di rielaborare e fare proprio ciò
che transgenerazionalmente e transculturalmente gli è stato tramandato. La costruzione e la
consapevolezza di un nuovo sé vengono raggiunte attraversando le proprie appartenenze
originarie e avvicinandosi all'interiorizazione di nuove esperienze, vissuti, emozioni provenienti dal
mondo esterno e dai gruppi formali e informali cui il soggetto progressivamente sente sempre più
di appartenere. 
La portata dei cambiamenti normativi e valoriali che negli ultimi decenni, nel mondo occidentale,
hanno investito l'istituzione familiare e l'intera organizzazione sociale rende contraddittoria, più
debole e incerta la trasrmissione intergenerazionale di norme e comportamenti che “in-segnino"
ai giovani concetti guida socialmente accettabili e condivisi per accompagnare i processi di
formazione dell'identità sociale. Il bisogno di ricerca di un senso di sé è sempre più autonomizzato
dai contesti tradizionali della trasmissione familiare e si inscrive sempre più in rapporti virtuali che
inseriscono il giovane in un contesto di multiappartenenza.
Uno sguardo clinico che attinge al lavoro di cura evidenzia il rischio che la multiappartenenza, in
una società che presenta reti smagliate si trasformi in smarrimento e disidentità.
Nonostante questi rischi, però, la maggior parte degli adolescenti trova il modo di attraversare le
incertezze e le contraddizioni antropologiche che caratterizzano i nostri tempi, investendo
affettivamente e simbolicamente molto sulle relazioni orizzontali; all'interno del gruppo non è
importante cosa si fa, quanto piuttosto lo stare insieme, il condividere momenti ed emozioni che
assumono una valenza speciale perché condivisi all'interno di una dimensione che consente di
sperimentare al tempo stesso autenticità e appartenenza. 
I confini limitano lo spazio dell’adolescente ma allo stesso tempo lo formano e lo stimolano a
muoversi tra vecchio e nuovo, in un movimento continuo e incessante tra il dentro  e il fuori di sé e
del contesto socioculturale cui egli appartiene. In tal senso, i "con-fini" sono territori "condivisi" tra
gli adolescenti e coloro che, direttamente o indirettamente, entrano a far parte e finiscono
per delimitare gli ambiti all'interno dei quali essi si muovono.
 
Il legame familiare-trangenerazionale 
Ogni individuo, nel corso della sua vita, si trova a rielaborare e a far propri contenuti che non ha
egli stesso pensato o concettualizzato, ma che gli sono stati tramandati attraverso le generazioni e
che fanno parte della propria storia familiare.
Questo nodo cruciale di risignificazione consente all'individuo di far proprio e dare senso al legame
con un transpersonale familiare intergenerazionale altrimenti caratterizzato da contenuti affettivi
e simbolici statici. Il transgenerazionale rappresenta una sorta di contenuto grezzo del pensiero
familiare che, soprattutto in adolescenza, acquista nuovo significato con il sopraggiungere del
processo simbolopoietico.
L'emergere del processo di rielaborazione e attribuzione di senso non  rappresenta, può scontrarsi
con ostracismi familiari difficilmente superabili, ostili a qualunque movimento di innovazione e/o
cambiamento di contenuti, valori e significati, che  vengono invece assimilati come immutabili e
deterministicamente trasmessi attraverso le generazioni. Nel caso in cui la possibilità di esplorare
nuovi nodi di significazione sia compromessa dalla presenza di un  universo familiare immobile
dinanzi ai fisiologici mutamenti adolescenziali, gli adolescenti possono ritrovarsi di fronte al
difficile compito di scegliere se accettare le aspettative del proprio gruppo di appartenenza e,
contemporaneamente, fare i conti con quel nuovo che intanto  è penetrato nel loro mondo
psichico o, al contrario, rifiutare nettamente questa appartenenza affrontando l’ostracismo
familiare e comunque amputando una parte di sé. Numerose culture familiari, tra cui quella della
famiglia mafiosa, rappresenta l'estrema conseguenza del prevalere della storia familiare
transgenerazionale sul presente vissuto dai singoli soggetti, che determina il replicarsi nel corso
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del tempo delle stesse modalità di categorizzazione della realtà e l'affermazione di ideali e valori
sempre uguali a se stessi.
Questo processo di saturazione della matrice familiare non consente l'emancipazione dalla propria
cultura di origine, né l'arricchimento personale necessario per l'evoluzione verso forme più nuove
e originali di elaborazione dell'esperienza.
Lo scenario che si prospetta, in questo modo, è quello della replicazione in un circolo vizioso che
non propone sfide e non offre spunti di riflessione, in cui i figli finiscono per assumere
inesorabilmente il ruolo dei propri genitori, in un continuo e incessante processo di clonazione.
La chiusura rigida all'interno di contenuti già dati e di pensieri già elaborati non permette il
confronto con il diverso, con il nuovo, con ciò che è esterno e, in quanto tale, non accettabile e
non assimilabile.
La maturazione di un pensiero personale e originale sulle modalità di  lettura e categorizzazione
dell'esperienza individuale e familiare rappresenta  la base per l'elaborazione del lutto legato alla
perdita delle identificazioni genitoriali, per l'avvicinamento all'universo sociorelazionale
allargato, nonché per l'ideazione di una progettualità futura che non rischi di rimanere imbrigliata
da regole e processi già dati. 
L’elaborazione nel gruppo di pari di contenuti mentali non facilmente elaborabili costituisce un
importante supporto emotivo per il soggetto, che sa di poter contare su uno spazio sia fisico sia
mentale nel quale il mondo e il pensiero familiare possono essere compresi e attraversati
criticamente. La possibilità che il soggetto adolescente si concede di rivivere in gruppi diversi
da quello familiare esperienze e contenuti tramandati dalla dimensione familiare-
transgenerazionale rappresenta un importante punto di forza, in  quanto costituisce un sostegno
psicologico e sociale e un contenimento psichico per esperienze e vissuti ancora non elaborati . Il
gruppo funziona come un contenitore psichico collettivo, che consente lo sviluppo di un senso di
identità soggettiva, che si completa quando la percezione d'essere se stessi è integrata con la
percezione del riconoscimento da parte degli altri.
La stretta relazione tra l'identità soggettiva e il riconoscimento da  parte degli altri della propria
identità sociale consente all'adolescente di vivere un'esperienza di continuità di sé che non esige il
rinnegamento dei vissuti e delle esperienze precedenti e pre-esistenti, ma una loro
riconcettualizzazione. Continuità e discontinuità, in questo caso, non sono concetti contrapposti,
ma interconnessioni e spunti dialettici necessari alla crescita.

Legame culturale, globalizzazione e nuove forme d’individuazione


Il legame culturale che ogni soggetto avverte nei confronti dell'ambiente socioculturale in cui è
nato e cresciuto non si sviluppa secondo  un copione prestabilito, in maniera consapevole ma, al
contrario, il percorso elaborativo necessario per far propri tali contenuti è complesso e continuo,
in quanto comporta un processo di significazione di quei valori e  ideali inconsciamente acquisiti,
che vengono costantemente riformulati secondo nuove e personali modalità di attribuzione di
senso.
L’identità culturale, quindi, non è stabile e definitiva, ma va considerata come l'esito di una
trasformazione continua e progressiva. Tale necessità trasformativa viene percepita in misura
maggiore in adolescenza, periodo durante il quale i soggetti, spinti dall'esigenza di creare un
nuovo legame culturale, sentono di dover lasciare simbolicamente la propria casa, i significati
condivisi e accettati fino a poco prima, per cercare nuovi sbocchi, nuovi mondi, nuove esperienze. 
L'esigenza della creazione di un legame identitario con la propria cultura di origine si confronta
oggi con uno scenario sociale caratterizzato da cambiamenti antropologici epocali che riguardano
un diverso modo concepire il mondo, le relazioni, il corpo, le relazioni tra i sessi, il lavoro, il
rapporto con il tempo e con lo spazio.
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La formazione dell'identità non appare più garantita solamente da una frontiera spaziale e
culturale che sancisce la differenza tra il dentro e il fuori dei confini familiari e culturali, che nel
corso delle passate generazioni avevano determinato percorsi evolutivi e stabilito le diverse tappe
da percorrere per giungere allo status di adulto, ma sembra modellarsi sulle richieste e sui valori
dell'ambiente e della cultura in cui  siamo immersi, tanto da poter considerare le modificazioni
attuali dell'adolescenza come intimamente legate e interconnesse alle modificazioni socio-
antropologico-culturali della società. 
L'attuale società globalizzata e ipertecnologica è profondamente diversa da qualunque altra
organizzazione sociale fino a ora esistita, in quanto consente a ogni soggetto di recepire e
inglobare modelli, codici e linguaggi provenienti da ogni parte del  mondo, in un pianeta che ormai
non riconosce più confini ben definiti, ma ampie, multiple e globalizzate appartenenze.
La società delle comunicazioni di massa partecipa alla crescita identitaria degli individui in maniera
implicita ma trasversale e profonda, influenzando i processi d'individuazione in modo
apparentemente non direttivo, tramite una presenza costante e inconscia che il soggetto non
concettualizza, ma che direttamente assimila. L'adolescente si trova di fronte al non semplice
compito di elaborare e integrare i contenuti mentali sempre nuovi e spesso contraddittori
provenienti dal mondo sociale e dai mass media con quelli transgenerazionalmente  e
transculturalmente ereditati dalla famiglia e dall'universo culturale di  appartenenza.
L'intreccio (conscio e inconscio) di questi contenuti modifica e rende più complesso il modo in cui
gli adolescenti oggi costruiscono la loro identità individuale e sociale. La caratteristica centrale di
tale processo risiede nella sua fluidità, nella non cristallizzazione, cioè, di quegli innesti che il
soggetto riceve e interiorizza dal mondo relazionale che lo circonda e che vanno rielaborati ai fini
di una continuità esistenziale nuova, frutto del passato ma coniugata con l'esperienza relazionale
e sociale presente. 

Pensare la psicologia: reti psichiche e cura relazionale (Cap. V


Gruppoanalisi soggettuale)

Oltre il riduttivismo di una certa psicopatologia


La psicopatologia gruppoanalitica, individua l'origine della malattia mentale in un irrigidimento
della rete di significazione degli eventi della vita (passata, presente e/o futura) dell'individuo, nella
presenza di "buchi di significazione" che impediscono al soggetto di riconcepire la matrice che lo
ha originariamente concepito.
170
Il setting gruppoanalitico è uno spazio terapeutico che mobilita e facilita la messa in  scena della
matrice originaria, garantendo al soggetto la possibilità di pensare e di riconcepire la propria
storia. Il gruppo diventa un luogo privilegiato di conoscenza e di trasformazione creativa, il luogo
della possibilità, per ogni paziente, di tessere una nuova trama psichica che gli consenta di
ridisegnare un progetto esistenziale personale. Nelle fasi iniziali si attiva lo scontro dovuto al fatto
che il paziente proietta e drammatizza nel gruppo le proprie esperienze familiari originarie, e cioè i
modelli relazionali inconsci (la matrice familiare) di cui è portatore.
Nel corso della terapia accade che i pazienti (e le loro matrici familiari) si incontrano e si scontrano
con i modelli relazionali del gruppo solitamente nuovi e diversi, talvolta opposti a quelli della
famiglia sintomatica e per queste ragioni tali relazionali risultano spesso dolorosi e difficili da
condividere.

Le radici della psicopatologia 


La gruppoanalisi soggettuale si è giovata del lavoro di Menarini e Pontalti che ha approfondito le
caratteristiche delle “matrici familiari patogene", che essi definiscono "sature", cioè
caratterizzate dal non riuscire ideologicamente e/o emotivamente a concepire i propri membri
come portatori di identità e bisogni soggettivi. A proposito delle saturazioni psichiche, più
recentemente a partire dal 1993, con gli studi condotti nell'ambito dello psichismo mafioso Lo
Verso e altri hanno trovato utile rielaborare in una prospettiva psicologica il concetto di
"fondamentalismo", con esso non ci riferiamo, ovviamente, all'estremismo islamico o ai fanatismi
razziali, religiosi o politici, ma a tutte quelle realtà collettive, familiari o individuali che non
riuscendo a concepire l'alterità e la differenza come un potenziale valore sono a rischio di pensiero
e prassi "inquisitori".
In tali realtà psichiche, collettive, familiari o individuali ciascuno considera il proprio "noi" (da
difendere) come il bene, e il "loro" (l'altro da cui difendersi) il male. Quasi sempre, poi, ciò che
definisce e rappresenta questo “noi" si colloca a un livello di entità sovrapersonale (la religione, il
partito, la razza, la nazione) come verità non sottoponibile al pensiero, pena la perdita
dell'identità, l'isolamento o il rischio della follia. Nella prassi clinica spesso come questa entità
(interiorizzata) e non sottoponibile a pensiero abbia a che fare con la famiglia, con il
transgenerazionale familiare e il suo corollario di patti, fedeltà inconsce ecc. Il "noi" può ostacolare
la possibilità di esistere del soggetto, segnare i tentativi d'individuazione con vissuti inconsci di
paura, infedeltà, tradimento ecc. e ostacolare le sue possibilità di accedere a nuove forme di "noi"
relazionali con mondi che non sono quelli familiari.
Nelle culture tradizionali l'io è pienamente contenuto nel transpersonale etnico e familiare, in un
grande Noi collettivo che funziona da contenitore e organizzatore psichico, ma che rende difficile
un vissuto dialettico, pena il rischio d'impazzire. Nelle attuali culture occidentali, invece, la
patologia e la sofferenza sembrano legarsi al valore centrale (a volte esasperato) che ha
progressivamente assunto l'individuo, centralità che rischia di scotomizzare l'importanza psichica
della relazione, la forza della famiglia allargata e della comunità.

La questione della cura 


In patologie quali gli attacchi di panico, i lievi disturbi borderline di personalità, i disturbi del
comportamento alimentare, le situazioni con nuclei psicotici o narcisistici limitati e non travolgenti
la personalità, le situazioni in cui sono  presenti difficoltà a vivere una vita relazionale
affettivamente coinvolgente, in questi casi le radici della patologia sono presenti nel mondo
interno e rintracciabili nella storia psicorelazionale della famiglia, storia  che per il soggetto può
essere molto difficile guardare e rielaborare.

171
Nell'ambito della clinica gruppoanalitica italiana interessanti risultati sono stati ottenuti con
trattamenti integrati e progressivi. In primo luogo, è necessaria la disponibilità di un
terapeuta esperto, disponibile a mettersi in discussione, a tollerare le difficoltà, capace di
coordinare tramite scambi e supervisioni una rete curante. È necessaria, altresì, la presenza di un
gruppo di operatori e psichiatri disponibili a un autentico scambio relazionale con l'umiltà di
sapere che da solo nessuno può farcela. Determinante, inoltre, è la tempestività del trattamento
che dovrebbe essere intrapreso nelle fasi di esordio della malattia, quando un trattamento
adeguato è ancora in grado di contenere la psicosi e di restituire al paziente la possibilità di esserci
e di pensare alle emozioni, al terrore che hanno prodotto, all'esperienza di considerarsi "matto
e distruttivo", e a superare la convinzione che egli non potrà mai vivere come gli altri. Decisiva,
infine, è la disponibilità della famiglia ad affrontare i costi non solo economici ma soprattutto
emotivi di tutto ciò.
Sembrano aprire molte possibilità le esperienze di trattamenti gruppali  con pazienti con disturbi
psicotici, condotti attraverso il lavoro d'integrazione delle reti tra i curanti, che permette di
calibrare variamente i modi e i tempi della cura attraverso il contenimento, la farmacoterapia, il
lavoro con le famiglie, la psicoterapia e/o i gruppi supportivo-interpersonali, la spinta alla
socializzazione, eventuali ricoveri brevi o comunitari ecc.
Dalle casistiche sembra emergere che la maggior parte dei pazienti ottiene
miglioramenti significativi dai trattamenti così organizzati. Per una parte di questi pazienti si può
parlare di guarigione. I costi di questi interventi, sembrano apparentemente elevati, ma a pensarci
bene essi sono irrilevanti (anche in termini economici) rispetto ai costi individuali,  familiari e sociali
di una vita fatta di disperazione e angoscia, segnata  dal ricorso continuo ai farmaci, dalle ripetute e
drammatiche esperienze di ricovero, dal mancato lavoro, dalle pratiche di sussidio, nonché  dalla
diffusione dell'angoscia della malattia psichiatrica a tutta la famiglia allargata.
Gli autori di questo libro ritengono che  una lettura multipersonale della sintomatologia  aiuti a
comprendere la necessità di calibrare gli interventi sui molteplici livelli della relazionalità e a
pensare progetti che non frammentino (ulteriormente) la realtà mentale e sociorelazionale del
paziente psicotico, l'io dal Noi (come a volte avviene con i lunghissimi ricoveri in comunità, in case
famiglie ecc.), e che nel caso delle nevrosi aiutino il paziente a sciogliere le maglie dei familiari e/o
interpersonali che lo costringono dentro legami mortiferi impedendone lo sviluppo e l'autonomia.
Da questo punto di vista, la gruppoanalisi soggettuale, sganciandosi  da una visione individualistica
della persona e della patologia, propone  una lettura relazionale della sofferenza come evento che
acquista senso solo all'interno delle relazioni familiari, istituzionali, culturali, comunitarie ecc. in
cui il paziente è inserito. Lettura che implica, parallelamente, l'elaborazione di dispositivi di  cura
che tengano conto dei molteplici piani della relazionalità e che ne  facciano strumento di
cambiamento. Da questo punto di vista l’approccio forse più esemplificativo è il gruppo
terapeutico, che si configura come un dispositivo volto alla cura del singolo  attraverso le relazioni
che questi esperisce all'interno del setting. All'interno del gruppo non è soltanto la relazione
terapeuta-paziente a curare, ma anche le molteplici relazioni che si sviluppano tra tutti i
partecipanti.

Il familiare nella terapia gruppoanalitica (Cap. VI - Gabbard)

Pensare la famiglia 
La terapia familiare ha assunto dentro di sé la prospettiva della seconda cibernetica e la tesi della
complessità e ha messo a fuoco la multidimensionalità della problematica umana creando un
nuovo campo di indagine limitrofo e comune alla psicoanalisi. 

172
Entrambi scoprono nel peculiare interesse per l’intero sistema familiare transgenerazionale la
possibilità di comprendere le avventure individuali.

Teoria gruppoanalitica, terapia familiare e famiglia 


La gruppoanalisi soggettuale intende la famiglia come campo mentale, ovvero come quella rete in
cui sono condensati i significati storici e i meccanismi psicodinamici organizzatisi intorno a tali
significati (talvolta miti) che consentono, facilitano o ostacolano l'individuo nei  suoi compiti
evolutivi. Poiché la trama di connessione tra l'individuo e la sua famiglia è soprattutto di ordine
simbolico, appartenere a una rete di legami simbolici affettivamente investiti significa fondare il
sentimento di sé sulla condivisione profonda (spesso inconscia) di operatori mentali generatori di
senso.
Nel definire come la gruppoanalisi soggettuale consideri il lavoro con  le famiglie dobbiamo fare
riferimento al lavoro di Foulkes. Egli riconosce nella rete relazionale e, in particolar modo, nella
rete delle relazioni familiari interiorizzate (cioè il plexus), il topos della sofferenza. Il termine  rete è
stato usato per esprimere il fatto che il paziente individuale è il sintomo di un disturbo
nell'equilibrio della rete intima di cui fa parte. Per questa ragione è chiamato rete il sistema di
persone che vanno raggruppate insieme rispetto alla loro reazione, e gli individui che compongono
la rete corrispondono a punti nodali. È appropriato che questa rete nella sua parte più intima
debba essere chiamata plexus. 
Nella teoria psicopatologica foulkesiana la famiglia non è un momento della vita reale da tenere
fuori dal set(ting) terapeutico, né qualcosa di disturbante da tenere a distanza per tutelare il
lavoro terapeutico. 
All'interno della terapia familiare, l'attenzione al mondo delle dinamiche familiari è un aspetto
centrale anche della teoria gruppoanalitica. Difatti, il paziente che noi vediamo è in se stesso solo il
sintomo che investe un'intera rete di situazioni e persone, e la rete costituisce l'autentica  sede
d'intervento di una terapia radicale ed efficace.
La gruppoanalisi soggettuale guarda alla famiglia come a quella trama di significazione che, nel
tempo e attraverso le generazioni, crea i  modelli mentali attraverso i quali l'individuo entra in
relazione con la realtà (sia interna sia esterna). L'interiorizzazione dei modelli di significazione (o
dei codici) propri della rete fa sì che la famiglia rappresenti  per l'individuo un vero e proprio
universo identificatorio, all'interno del quale egli sviluppa la sua identità come complesso di
relazioni interiorizzate. Da un punto di vista gruppoanalitico chiamiamo l'esito di tali
interiorizzazioni in vari modi: gruppalità interne, parlanti interni o, qualora si voglia porre
l'accento sulla valenza affettiva, processi d'intenzionamento.
Accogliendo le idee di Foulkes, la gruppoanalisi soggettuale si è soffermata sugli aspetti psichici
attinenti alla famiglia, identificando nelle dinamiche familiari inconsce e transgenerazionali un
aspetto centrale del transpersonale.
Il livello transgenerazionale del transpersonale fa riferimento a tutto ciò che riguarda la famiglia e
le dinamiche relazionali, consapevoli e inconsce, che si svolgono tra i componenti della stessa e
dentro ciascuno (a livello dei rispettivi gruppi interni).
Secondo la gruppoanalisi soggettuale lo sviluppo mentale (sano o patologico) di un soggetto si
struttura in relazione al campo mentale familiare inteso come trama di pensiero collettivo.
Secondo Nucara, Menarini e Pontalti tale sviluppo si realizza mediante l'assimilazione da parte del
bambino dei modelli di pensiero della famiglia cui appartiene, nonché dei suoi "temi culturali",
definibili come peculiari costrutti emotivo-cognitivi che condensano tanto le vicissitudini
esistenziali della famiglia quanto le modalità psichiche utilizzate dai suoi componenti
(in inconsapevole condivisione/collusione) per dar senso a tali vicissitudini. L’interazione tra

173
questa cultura (o matrice familiare) e il mondo interno del bambino determina lo sviluppo di
quella trama relazionale che Foulkes chiama matrice personale.
È compito della matrice familiare porsi come spazio transazionale al  fine di consentire al bambino
l’operazione di significazione di sé e della propria storia familiare. La psicopatolgia è il frutto della
costrizione di senso da parte della matrice familiare ed è intesa come un nodo dell’intera rete
transgenerazionale che non lascia spazio all’individuo di individuarsi.
La terapia si pone come luogo di comprensione e trasformazione della storia transgenerazionale e
delle trame che costituiscono l'inconscio familiare ripercuotendosi nel mondo interno di ciascuno
e nel suo modo, apparentemente singolare e autonomo di relazionarsi  con il mondo.
La sinergia con la famiglia del paziente sia un elemento discriminante per il buon andamento di un
progetto terapeutico.
Un progetto terapeutico condiviso con la famiglia (che con il proprio patrimonio di conoscenze e
affetti contribuisce alla comprensione dell'accaduto) ha esiti migliori dei trattamenti nei quali, per
mille motivi, non è stato possibile coinvolgerla.
Un assunto fondamentale è che il set e il set(ting) vanno co-costruiti e, successivamente, se è il
caso, anche rimodulati in base ai bisogni espressi nella relazione terapeutica.
L’introduzione dei familiari, dei coniugi, degli amici o dei colleghi è un aspetto importante nella
comprensione dei fenomeni. La moddificazione e rimodulazione del set e del set(ting) serve tale
scopo. La presenza di persone importanti legate alla vita del soggetto consente al terapeuta
gruppoanalitico di cogliere aspetti diversi delle organizzazioni personologiche e patologiche dei
pazienti, talvolta non altrimenti visualizzabili all’interno dei contesti classici di intervento.

Il fallimento terapeutico (Cap. VII - Gruppoanalisi soggettuale)


La possibilità di riflettere e analizzare le ragioni di un fallimento terapeutico può essere utile per
sciogliere alcuni nodi attinenti alla strumentazione teorico-tecnica e/o affettiva del terapeuta e per
aumentare la capacità di discernere più consapevolmente quali terapie siano adatte per quali
pazienti. Fino a molto tempo fa il dibattito psicologico-clinico aveva riservato poco spazio a quei
temi, trattandoli per lo più a livello privato o di corridoio. Oggetto di discussione potevano essere,
174
più facilmente, gli errori e le competenze altrui, soprattutto relativamente all’inadeguatezza
formativa rispetto a certi tipi di trattamento. 
Generalmente vengono considerati errori:
a) lavorare con modelli privi di un'adeguata congruenza e un adeguato  approfondimento, del
rapporto tra teoria, oggetto e metodo, tra impianto teorico e teoria della tecnica.
b) non effettuare un'attenta analisi della domanda (Carli, Paniccia, 2003), cioè non interrogarsi
sulla neoemozione sottesa al fallimento della collusione nel sistema (familiare, amicale, lavorativo
ecc.) che ha portato alla richiesta d'intervento.
c) non effettuare un'adeguata valutazione diagnostica, in grado di cogliere non solo le aree di
sofferenza ma anche le risorse dei pazienti.
d) centrare la valutazione delle potenzialità terapeutiche e trasformative del paziente
esclusivamente sul proprio modello/tecnica, sottovalutando le potenzialità terapeutiche
contenute negli altri approcci e/o l'opportunità di un lavoro integrato  (anche in tempi successivi).
e) effettuare interventi psicologico-clinici rispetto ai quali non si ha una  specifica formazione
tecnica e/o emotiva.
f) misconoscere e non integrare, con adeguata rielaborazione, conoscenze  e metodologie
appartenenti ad altri modelli. 
g) operare in assenza di una continua elaborazione, personale ma anche  condivisa con altri
colleghi, sugli aspetti metodologici e processuali, sugli obiettivi e le difficoltà di ogni singola
esperienza clinica, esponendo se stessi e i pazienti a innumerevoli forme di acting e collusioni;
h) ignorare la presenza ubiquitaria dei fatti istituzionali nella relazione  psicoterapeutica e/o nella
formazione. Un esempio diffuso di questo tipo di errore è dato da quei gruppi di formazione o
supervisione sui casi portati avanti in strutture pubbliche o in organizzazioni in cui le
problematiche istituzionali non sono analizzabili in ragione del rapporto di dipendenza tra il
conduttore e la gerarchia istinuzionale.

Per evitare l’errore


Il problema della iatrogenia (errori causati dal clinico) porta in primo piano la questione
della competenza, e cioè dell'uso di una precisa e adeguata teoria della prassi e di una specifica
formazione rispetto a essa.
Una seconda questione legata a questo tema riguarda la valutazione  che il terapeuta fa in itinere
del suo lavoro clinico, ovvero la possibilità di interrogarsi su se stesso e sulla relazione terapeutica.
Il poter guardare consapevolmente e serenamente sia i propri limiti sia quelli del proprio  modello,
e anche le potenzialità e i rischi comunque insiti nei set(ting)  che si predispongono, è un aspetto
fondamentale per evitare d'inoltrarsi nel solco insidioso della iatrogenia.
La psicologia clinica deve continuare a lavorare sulla questione dell'errore poiché questo ambito di
riflessione rappresenta una grande opportunità di crescita, forse la più grande, sia per i singoli sia
per la comunità intera.

Setting e valutazione (Cap. XIV - Gruppoanalisi soggettuale)

Il setting gruppoanalitico soggettuale


Nel modello gruppoanalitico soggettuale una distinzione fondamentale è quella tra set e setting. Il
set comprende alcune variabili, come la periodicità e la durata delle sedute, le modalità
contrattuali, il contesto di ambientazione, la regolazione delle relazioni e dei ruoli ecc. In questa
prospettiva, il set si riferisce all'ossatura spaziotemporale del gruppo analitico e comprende tutti
175
gli elementi visibili e le procedure che regolano e rendono possibile il manifestarsi dei processi
analitici fondamentali: interpretazione, insight, risonanza, dinamiche transferali ecc.
Tali elementi sono funzionali alla relazione di cura poiché garantiscono la creazione di uno
spaziotempo stabile e costante capace di risignificare le esperienze personali dei singoli. Più
complessa e articolata appare la definizione del concetto di setting poiché essa comprende tutto
l'impianto invisibile (eppure strutturante) della situazione analitica e/o terapeutica.
A partire dagli anni Ottanta è stata sviluppata una riflessione da cui è  emersa una duplice
caratterizzazione del termine setting, comprendente tanto il modello teorico di riferimento del
terapeuta (ovvero il quadro epistemologico di riferimento, la teoria della prassi, la  teoria del self e
della psicopatologia, il modello clinico ecc.) quanto  aspetti più privati relativi alla persona del
terapeuta (quali la sua personalità, la sua storia, la sua esperienza e formazione clinica, le sue
motivazioni, le aspettative, le emozioni ecc.). Il setting è stato descritto come quello spazio
mentale che inizialmente l'analista e via via tutti  i partecipanti riservano al gruppo e alla sua
processualità. Esso svolge anche una fondamentale funzione di autoristrutturazione in relazione a
quanto di nuovo avviene in esso.
Un'altra accezione del termine setting, maturata all'interno della riflessione gruppoanalitica
soggettuale e più direttamente riferita alla situazione esperienziale della terapia, considera il
setting come un organizzatore psichico di carattere transpersonale, campo mentale condiviso che
permette di pensare i fenomeni e i sintomi, di dare loro significato e di  creare nuove connessioni di
senso tra fenomeni e relazioni.
Il set(ting) comprende, dunque, l'insieme delle variabili visibili (relative al set), delle variabili
invisibili (relative al setting), nonché l'insieme delle variabili relative all'utenza, all'eventuale
committenza e al sociale.

Valutare il setting
Supervisione e discussione dei casi sono rimaste a lungo le uniche modalità di osservazione del
setting terapeutico, ma essendo previste per lo più all'interno di percorsi formativi legati a una
"scuola" sono state a lungo caratterizzate dall'autoreferenzialità, e cioè da un'unica forma di
verifica, quella prevista dal proprio modello di intervento, spesso arroccato, diffidente e
inaccessibile a verifiche esterne. Abbiamo col tempo assistito all'introduzione e all'utilizzo di
metodi di registrazione audio e/o video all'interno dei vari setting terapeutici. Questi metodi
rappresentano, rispetto al più tradizionale metodo del resoconto, un grande cambiamento
culturale perché danno al terapeuta la possibilità di osservare, osservarsi ed essere osservato nella
sua pratica e questo ha prodotto un importante salto di qualità rispetto allo sforzo di rendere
comunicabili e condivisibili le esperienze cliniche all'interno della comunità scientifica
e professionale.

Alcuni strumenti per l’analisi del setting


Sono ormai parecchi i tentativi sistematici di chiarire l'uso implicito ed esplicito di concetti relativi
alla teoria e alla prassi dei vari modelli terapeutici. Infatti, sia il funzionamento  della mente sia il
lavoro tendente a modificarlo possono essere descritti da indicatori empirici che ne consentono
l'analisi di alcuni importanti aspetti, che tuttavia ne riducono la complessità. Su questi indicatori è
possibile basare lo studio (sia qualitativo sia quantitativo) del cambiamento terapeutico, delle sue
regolarità, delle congruenze e/o incongruenze che è possibile riscontrarvi. In questa direzione, lo
sforzo perseguito dalla ricerca teorico-clinica è quello di dare definizioni il più possibile accurate
dei costrutti utilizzati, al fine di utilizzare indicatori adatti ai costrutti teorici cui si riferiscono.
La funzione degli indicatori empirici è quella di rendere osservabili (a volte attraverso l'uso di
strumenti creati appositamente) aspetti importanti del processo terapeutico che non sono
176
immediatamente e direttamente osservabili. In generale, questi strumenti offrono opportunità
interessanti per lo studio del processo terapeutico in quanto consentono di misurare alcuni aspetti
essenziali del cambiamento terapeutico e/o di raccogliere informazioni sulla natura e sul focus
degli interventi del terapeuta e/o del paziente.
Nelle terapie gruppoanalitriche di particolare interesse si è rivelato l'utilizzo del codice dello Stile
di analisi del campo terapeutico  (SCAT), un codice di classificazione degli interventi verbali in
contesti terapeutici gruppali, elaborato da Pontalti (Pontalti, Pontalti, 1998). Si  tratta di uno
strumento in grado di fornire informazioni sulle modalità di conduzione utilizzate dal terapeuta e
sullo stile del campo terapeutico prodotto dal gruppo, attraverso l'analisi delle interazioni tanto
del terapeuta quanto dei singoli componenti del gruppo. Gli autori distinguono gli interventi
terapeutici in tre grandi aree: l'area organizzativa, l'area interpretativa e l'area connettiva.
Nell'area organizzativa confluiscono gli interventi miranti alla gestione, alla costruzione e alla
salvaguardia del campo terapeutico. Nell'area interpretativa confluisce l'attività ermeneutica sia
del terapeuta sia dei pazienti. Per attività ermeneutica s'intende ogni intervento verbale la cui
intenzionalità e forma espressiva comprendano una nuova codifica di ciò che accade nel campo
terapeutico. Questi interventi creano campi di significazione alternativi a quelli in atto e
rappresentano la funzione terapeutica. L'area connettiva, infine, include interventi che veicolano
la funzione di raccordo che il terapeuta utilizza per favorire la connessione tra i membri del gruppo
o tra le tematiche del discorso. Lo SCAT è uno strumento clinico e di ricerca che ha il pregio di
puntare l'attenzione sulle specifiche modalità di conduzione del  terapeuta e al tempo stesso di
visualizzare come queste siano in rapporto e in  continuo adattamento con quanto avviene in un
determinato gruppo che attiva uno specifico campo terapeutico.

Le griglie: strumenti di taglio clinico


Sono stati creati nel contesto gruppoanalitico delle griglie di valutazione, degli strumenti utili a
visualizzare il set(ting) e l’analisi del processo. Esse hanno la finalità di implementare le possibilità
osservative del lavoro e integrano la tradizionale valutazione clinica affiancando a essa l'attenzione
alle procedure, ai dispositivi e ai modelli teorici che guidano l'osservazione e la pratica clinica. Tra
queste, la Griglia di analisi del set (ting)  (GAS), risultato del lavoro clinico e di ricerca di Giannone
e Lo Verso. Questo strumento consente di comporre e organizzare in un unico schema tutte le
variabili che sono in gioco nella situazione terapeutica: ciò nel tentativo di dare strumenti utili a
effettuare una definizione operazionale preliminare della psicoterapia di gruppo e del suo  progetto
di cura.
La Griglia di analisi del set(ting) (GAS) prova a sintetizzare in un'immagine d'insieme il complesso
intreccio delle aree relative alle variabili di set, di setting, dell'utenza, dell'eventuale committenza
e/o referenti esterni e, ancora, del sociale. Le diverse variabili, infatti, possono assumere
un'importanza e un rilievo differenti a seconda dei differenti momenti e/o contesti di lavoro,
influendo in maniera più o meno diretta e rilevante su ciò che accade nella relazione terapeutica.
Essa non è uno strumento di taglio empirico ma una guida che può essere  utilizzata come
riferimento rispetto alla lettura della complessità in gioco.
Aiuta, cioè, a ritagliare, all'interno dei diversi progetti di ricerca (o di lavoro), alcune possibili unità
di analisi: quelle ritenute più significative (in quel momento, in quelle specifiche condizioni, da
quei ricercatori, in quel particolare contesto di osservazione ecc.), lasciando tutte le altre sullo
sfondo. L'obiettivo, quindi, è quello di facilitare il riduttivismo consapevole, ossia di aver chiaro
cosa inevibitabilmente ci si lascia sullo sfondo. La consapevolezza di quanto viene lasciato sullo
sfondo, e comunque dell'operazione stessa del lasciare sullo sfondo è un fondamentale passo
avanti verso la trasparenza, la correttezza e lo sforzo di rigore scientifico nella ricerca
in psicoterapia, e anche verso la qualità e l'efficacia dell'intervento di cura.
177
La GAS è utile, altresì, per il lavoro di formazione e per lo scambio e la comunicazione delle
esperienze cliniche.
Un secondo strumento di taglio clinico-osservativo noi è la Griglia dei parametri per tipologie di
gruppo elaborata da Lo Verso. Si tratta del tentativo di analizzare e cercare di visualizzare il
set(ting) gruppale sulla base di una serie dettagliata di variabili: la domanda, la sede di lavoro,  il
tipo di setting, la matrice di gruppo, la cadenza delle sedute, il tipo di  utenza, la tipologia
terapeutica dei pazienti, il numero degli utenti, gli  obiettivi che il gruppo si pone, l'uso o meno di
farmaci, le modalità di gestione della corporeità, le modalità di conduzione e il tipo di interventi, la
durata, il tipo di formazione ecc. Rispetto alla GAS, la Griglia dei parametri per tipologie di gruppo
è uno strumento più dettagliato e specifico, e anche più facilmente adoperabile nella clinica e
nella didattica. Essa può essere utile, per esempio, per consentire a ciascuno di costruire,
esplicitare e confrontare i tipi di gruppo che progetta e  conduce. Inoltre, può consentire un
confronto più chiaro sia sul piano clinico sia su quello della ricerca tra i diversi setting di gruppo.

Psicoterapia e ricerca empirica sui gruppi (Cap. XV Gruppoanalisi


soggettuale)

178
Risulta molto difficile organizzare la letteratura empirica  sulla psicoterapia di gruppo in base
all'orientamento teorico, perché l'assenza di chiarezza rispetto alle teorie impedisce di pervenire a
conclusioni chiare.
Che cosa e come valutare nella terapia di gruppo
Le prime rassegne sistematiche sulla psicoterapia di gruppo risalgono ormai a più di sessant'anni
fa.
Purtroppo, ancora molto spesso, le rassegne sulla psicoterapia di  gruppo presentano e analizzano
separatamente gli studi all'interno di due ampie categorie: quelli che verificano l'efficacia del
trattamento di gruppo e quelli che descrivono o predicono i meccanismi del cambiamento
all'interno del gruppo. Poche ricerche correlano invece il processo terapeutico di gruppo con
l'esito.
Nonostante la ricerca empirica abbia ormai dimostrato in modo attendibile l'effectiveness dei
trattamenti di gruppo, i processi terapeutici che possono produrre il miglioramento clinico dei
pazienti non sono stati ancora analizzati a fondo. 
Le relazioni all'interno del setting sono multiple e riguardano vari livelli che  coinvolgono il
terapeuta, i singoli membri e il gruppo nel suo insieme.
Tutto ciò ha delle notevoli ricadute nella ricerca empirica,  che con grandi sforzi si trova a dover
analizzare un set di variabili intrecciate tra loro e difficilmente riducibili a un unico livello di analisi.
Un'ulteriore difficoltà si configura nell'individuazione di strumenti in grado di cogliere tali livelli.
L’intreccio dei fattori terapeutici quali l’alleanza terapeutica, l’empatia, la coesione e il clima di
gruppo sono risultati essere i maggiori responsabili dell’esito positivo di una psicoterapia e sono
stati associati anche al minor tasso di drop out.
Questi costrutti rappresentano aspetti caratterizzanti del  processo terapeutico gruppale e i risultati
della ricerca mostrano forti sovrapposizioni e interrelazioni tra queste variabili, rendendo dunque
impossibile, date le molteplici variabili da analizzare, intrecciati tra loro, validare empiricamente
un trattamento gruppoanalitico.
Attualmente, anche se la ricerca in psicoterapia di gruppo utilizza dei dispositivi metodologici
sempre più sofisticati e complessi, le rassegne meta-analitiche su questi trattamenti
evidenziano un'eccessiva eterogeneità che non consente la generalizzazione dei risultati.
Allo stato attuale, quindi, la ricerca sui trattamenti di gruppo si pone ancora degli interrogativi
cruciali: quali sono i principali elementi del processo terapeutico che si attivano in tali terapie? Che
ruolo gioca il fattore temporale (nei trattamenti a lungo termine) rispetto all'esito e allo
sviluppo del processo?
L’obiettivo che si propone nel presente e nel futuro e ridurre il gap tra le esigenze dei clinici e la
ricerca empirica al fine di migliorare l’andamento dei pazienti e ridurre il drop out e concepire una
terapia di gruppo sempre più centrata sui bisogni del paziente e sempre meno
all’autoreferenzialità dei modelli teorici.
La ricerca qualitativa e gli studi single case
Nell’esperienza di ricerca sui gruppi, gli studi single case approfonditi e la ricerca qualitativa basata
a vari livelli sull'intersoggettività si sono dimostrati molto utili e rilevanti. La ricerca sul caso singolo
studia approfonditamente un soggetto o un gruppo di soggetti attraverso rilevazioni ripetute
nel tempo per analizzare in maniera più puntuale il trend del miglioramento del singolo paziente.
Tale metodologia e stata sino a oggi prevalentemente adottata per le terapie individuali, mentre
meno frequente è il suo utilizzo nei setting gruppali, motivo per cui rimangono ancora irrisolte
importanti questioni rispetto al modo più efficace di analizzare i dati che provengono da un gruppo
single case. Nell'ultimo decennio nel campo della ricerca  vi è stato un notevole incremento di studi
single case focalizzati sui vari elementi del processo di gruppo. 
Negli studi di gruppo single case risultano molto utili le griglie qualitative.
179
Studi processo-esito nelle terapie di gruppo
La ricerca sui gruppi terapeutici ha spesso separato gli studi sull'esito  da quelli sul processo e solo
recentemente la comunità scientifica si è focalizzata maggiormente sulla correlazione tra fattori
processuali e outcome. Questo tipo di studi costituisce un naturale prolungamento e
approfondimento degli studi teorici e rappresenta per molti clinici un utile sistema per la
comprensione dei propri dispositivi di cura. In diverse rassegne, infatti, è stata sottolineata
l'importanza di collegare specifici elementi del processo al miglioramento dei pazienti.
Purtroppo non è possibile trarre conclusioni chiare, a causa della variabilità delle misure utilizzate
nelle ricerche, delle caratteristiche dei pazienti e dei differenti trattamenti di  gruppo. C'è ancora un
grande bisogno di ulteriori ricerche che studino l'interazione tra le dinamiche del processo di
gruppo e l'esito della terapia, anche perché vi sono molti elementi processuali che non sono stati
sufficientemente indagati (modalità relazionali, interventi del terapeuta) e che, una volta esplorati,
potrebbero contribuire in maniera significativa al miglioramento degli interventi terapeutici.
Lo studio dei fattori terapeutici 
I risultati dei primi studi fatti avrebbero potuto segnare una tappa importante nella fondazione di
una base empirica per la comprensione di possibili pattern del processo terapeutico, ma purtroppo
molti problemi metodologici hanno ostacolato tale progresso. Innanzitutto, analizzando la
letteratura internazionale, è ricorrente rintracciare studi che utilizzano un ampio numero di
versioni modificate di uno stesso strumento originale, il che rende impossibile collegare e
confrontare in maniera attendibile i risultati ottenuti. Inoltre, molti studi elencano semplicemente i
fattori terapeutici includendoli in mere classificazioni senza effettuare nessuna connessione con gli
esiti. Infine, gli studi riportano una valutazione dei singoli fattori non collegata all'analisi delle
caratteristiche e dell'andamento del processo terapeutico del gruppo, dunque sono poco
rappresentativi dell'esperienza gruppale e del fatto che in essa le percezioni e i vissuti dei membri
si modificano nel tempo.
Da un ventennio circa molti autori come Kivlighan hanno condotte ricerche volte a connettere e a
confrontare i fattori terapeutici implicati nei gruppi agli esiti del trattamento.
Concludendo: la ricerca sui gruppi terapeutici rappresenta oggi un riferimento importante per la
clinica, poiché aiuta a pensare il dispositivo terapeutico gruppale, a riflettere criticamente sui
risultati, a monitorare il processo e insieme fornisce evidenze empiriche che contribuiscono a
valorizzare e implementare l'uso del gruppo nei diversi contesti terapeutici.
La terapia di gruppo, pur essendo molto diversa da quella individuale, ha dimostrato di essere
altrettanto efficace. In entrambi i casi l'obiettivo è la trasformazione del mondo interno del
paziente, ma la processualità del lavoro terapeutico è radicalmente diversa: nel gruppo i pazienti
sperimentano nuove modalità relazionali e lavorano maggiormente sulle relazioni interpersonali;
nella terapia individuale, invece, l'elaborazione è più concentrata sul mondo intrapsichico del
paziente. Pur essendo entrambi efficaci, riteniamo tuttavia che la terapia di gruppo, in quanto
dispositivo in grado di attivare più velocemente processi trasformativi, possa rivelarsi più adatta
per alcune tipologie di pazienti e maggiormente efficace in merito al rapporto costi/benefici.
Concludendo, è opportuno dire che la sfida utile per il futuro della ricerca sia quello di individuare
e conoscere meglio come si attivano e si promuovono i processi di cambiamento in psicoterapia,
per costruire progetti terapeutici più efficaci che tengano in considerazione le richieste che
provengono dal mondo sociale e politico-sanitario. In questa prospettiva, la ricerca potrebbe
maggiormente orientarsi, per esempio, verso lo studio dei fattori che consentono una prevenzione
dei drop out e delle ricadute e verso la progettazione di strumenti ad alta trasferibilità nella pratica
clinica. 
La mafia in psicoterapia
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Giovanni Falcone fu il primo ad interessarsi del mondo mafioso e si meravigliava di come
l’università palermitana non si fosse addentrata in tale ambito. Egli era capace di gestire un
adeguato setting con tali soggetti.
Ci volle il trauma collettivo delle stragi del 1992 perché le scienze sociali raccogliessero l’invito di
Falcone a esplorare tale fenomeno; inizia anche la stagione dei collaboratori di giustizia che si
sentono liberi di rivelare le vicende criminali da loro organizzate e nelle quali avevano collaborato
molti colletti bianchi del ceto medio.
Lo Verso si interessò al funzionamento della mente mafiosa e dichiarò nel corso degli anni che la
psicologia mafiosa non può essere studiata adottando modelli intrapsichici bensì con modelli
capaci di essere consapevoli della necessità di altri sguardi (politici, economici, giuridici, ecc), e
quindi si rivelò utile adottare la prospettiva gruppoanalitica, capace di approfondire il mondo
psichico e il campo psichico familiare, con tutto ciò che attiene alla sua storia e al suo sfondo
transgenerazionale.
La mafia genera sofferenza alle vittime ma anche ai suoi membri interni, sofferenza che spesso
sfocia nella psicopatologia.
Nell’ottica gruppoanalitica possiamo dire che l’appartenenza al mondo mafioso genera una
matrice di pensiero che ostacola il processo di soggettivazione e impedisce la costruzione di un
percorso di crescita personale; per l’individuo appartenente a tale mondo, risulta difficile uscire da
un pensiero familiare difficile da trasgredire.
Il mafioso costruisce la propria identità all’interno di una famiglia satura, nel senso che non è
pensabile un’autonomia di pensiero per i figli. All’interno di esse prevale un pensiero dicotomico
che divide il noi sociale (visto e interiorizzato come nemico) e il noi familiare (visto e interiorizzato
come amico).
I modelli relazionali delle famiglie mafiose sono psicopatologici perché si impone assoggettamento
psichico ai suoi membri.
È come se la psiche individuale fosse colonizzata sin dall’origine dalla psiche collettiva del proprio
familiare, che è transgenerazionale e allargata sino a ricomprendere la famiglia mafiosa nella quale
l’individuo si identifica totalmente annullando la propria soggettività.
La mafia rappresenta un organizzatore psichico totalizzante per i soggetti appartenenti a questo
mondo, l’identità mafiosa si struttura sull’onnipotenza e contemporaneamente su impotenza e
dipendenza e la forza palesata con atti di violenza nasconde fragilità psicologica. Inoltre, i soggetti
mafiosi si giurano tra loro fedeltà. La disgregazione dei rapporti che il singolo ha con il gruppo
porta alla disidentità di quest’ultimo.
Lo Verso si è chiesto se la mafia continuerà ad esistere o se nel tempo si lascerà biodegradare dalle
culture della post modernità. Il vero pericolo, a suo dire, è se essa si ibriderà con il nuovo
psichismo della cultura post moderna.

Parte prima
2. Mafia e psicoterapia nel privato
Il mafioso non va in psicoterapia con facilità e ogni forma di piacere gli sono sconosciuti. Egli non
ha un’identità soggettiva perché la sua psiche e quella di Cosa nostra si sovrappongono. Egli è una
non persona che non può vivere conflitti interiori.
La psicopatologia nel mondo mafioso assume la forma del non esserci, nel senso che non c’è
un’identità soggettiva ma solo emozioni primitive.

181
Le due caratteristiche che contraddistinguono la loro psicologia è l’assenza di relazioni affettive e
l’agganciamento ad una cultura paranoidea.
Le donne vengono trattate con indifferenza e con apparente rispetto se è donna d’altri.
Lavorare con pazienti del mondo mafioso per via dei frequenti agiti, assenze, discontinuità, è come
se si dovesse lavorare con un intero mondo macro familiare invece di una persona sola; il
terapeuta è diviso tra attenzione al paziente, interesse per il problema e senso di sconfitta per le
impotenze, ed è difficile svolgere un lavoro adeguato di cura psicoterapica senza la conoscenza dei
contesti antropologici in cui il paziente ha vissuto.

3. Mafia e psicoterapia (servizio pubblico)


Tra il 1994 e il 1995 con il vasto fenomeno dei collaboratori di giustizia si aprirono delle crepe che
si riversarono sulle famiglie mafiose. In particolare, molti adolescenti venivano portati dai genitori
in servizi pubblici di salute mentale per disturbi d’ansia, panico, tossicodipendenza, ecc, e in quel
periodo si riteneva impensabile che queste persone chiedessero aiuto alla psicoterapia.
La domanda che ci si è posti era come mai le famiglie mafiose permettessero ai ragazzi di andare in
terapia e, soprattutto, di rivolgersi al servizio pubblico. Probabilmente il mondo mafioso di basso
livello culturale pensava ad un intervento più medico che basato sulla parola.
Il concetto di “transgenerazionale” nel lavoro clinico è fondamentale. Sono molti i casi di
adolescenti che sono venuti in psicoterapia a causa dei conflitti tra il dover perseguire le proprie
aspirazioni personali e il seguire le orme del padre mafioso, che molto spesso rimane ucciso.
Questo acuisce il conflitto del conflitto del giovane, che in parte si sente tentato, costretto o
timoroso a seguire le orme pericolose del padre. Proprio per questo motivo conoscere la radice
antropologica del fenomeno mafioso diventa fondamentale per comprendere la sintomatologia
del giovane, sintomatologia che non può essere compresa nell’ottica della sola lettura intrapsichica
bensì in quella transgenerazionale, che prende in considerazione l’influenza di fattori economici,
politici e sociali che hanno intersecato e intersecano la storia della famiglia del soggetto in analisi.
Le tematiche psicopatologiche come quelle mafiose diffuse in tanti mondi si intrecciano
fortemente con elementi di realtà e con gli aspetti familiari transpersonali caratteristici di questo
mondo.
Rilevanti anche i casi di conflitto familiare nel mondo mafioso soprattutto al femminile, che spesso
hanno un precedente nella frattura transgenerazionale data da qualche zia, nonna, ecc, che
avevano trasgredito vivendo storie amorose spesso concluse violentemente e con l’esclusione
totale dalla famiglia. Nel mondo mafioso le donne infedeli vengono soppresse perché ciò
dimostrerebbe che i loro uomini sono inaffidabili e incapaci di controllare la loro casa. Anche
questo fatto ricorda l’attenzione che dobbiamo porre alle dimensioni del transgenerazionale e del
familiare.
Nelle famiglie mafiose il padre è un’icona di sicurezza, potere, proiezione e la sua parola è sacra.
Ed è inoltre vissuto con devozione dai figli. I figli maschi vengono cresciuti e allenati per essere
degli uomini d’onore, prendendo come modello le figure idealizzate dei padri della famiglia, le
figlie femmine vengono cresciute seguendo dei codici paternalistici e repressivi, la figura materna
ha un grande potere psichico all’interno della famiglia, ha il compito di educare i figli saldando la
realtà familiare mafiosa a quella di sangue.
Nel mondo mafioso assume peculiarità l’omicidio, la vita violenta del padre e l’obbedienza alle
regole familiari supportata dal sociale, dalla cultura e dalla paura.
Rilevanti anche i casi di bambini provenienti da famiglie mafiose riportati da Carmelita Russo. Ella
rivela che le caratteristiche delle problematiche psichiche di questi soggetti sono il collegamento
con le morti e le assenze dei padri, ma soprattutto una paradossale condizione di falso segreto. I
bambini sanno che il padre è stato ucciso ma devono far finta di non saperlo per non angosciare le
182
madri. È stata notata anche l’invadente presenza psichica delle madri di questi bambini e nel
lavoro terapeutico.
Le tematiche più vistose sono di tipo ansioso e legate alle crisi identitarie dovute a loro volta a crisi
familiari. Le problematiche spesso portare alla psicosi.
È impossibile trattare i pazienti appartenenti al mondo mafioso con un trattamento psicoterapico
classico perché vi è troppa presenza di elementi di realtà (aspetto non concepiti dalla psicoanalisi
classica), diffidenze antropologiche e la richiesta del pieno coinvolgimento delle famiglie. Altra
considerazione è che le tematiche mafiose vanno oltre il mondo intrapsichico, fino a connettere
interpsichico, familiare, transgenerazionale, transpersonale e antropologico. Ed è per tale che
diventa fondamentale l’utilizzo dei principi dell’orientamento gruppoanalitico che considera il
fenomeno come l’intreccio di molteplici livelli (vedi il transpersonale di Lo Verso).
E ancora, è difficile realizzare un approfondito e sistematico lavoro analitico e non solo per la
natura della psicopatologia ma anche perché è impossibile per questi fondamentalisti mettere
realmente in discussione sino in fondo il proprio transpersonale interno inconscio. Cosa nostra e la
sua cultura hanno costruito un'identità così forte che la crisi di trasformazione rispetto a essa è
impossibile e farebbe temere la perdita della ragione e lo sfociare dilagante di una crisi psicotica. È
come se si dovesse curare un'intera tribù interna.
Diventano fondamentali anche le capacità analitiche o relazionali dei terapeuti di reggere transfert
e controtransfert. Esse sono necessarie per reggere la situazione e per non esserne emotivamente
travolti. Importante è anche l’intervento della terapia familiare e dell’etnopsicoterapia.
Nel corso del tempo si conferma che una formazione analitico-relazionale consapevole e una
consapevolezza dei livelli multi-personali si sono rivelate utili per dare la possibilità ai terapeuti di
tollerare l’incertezza di questo lavoro, di analizzare i processi contro e co-transferali di reggere una
relazione piena di silenzi e ambiguità e la complessità delle problematiche, dello sguardo teorico e
del setting. Meno utile è invece strutturare un setting classico, basato sull’osservazione dei vissuti
e le fantasie indivduali e sull’interpretazione all’interno di una regolarità e contiguità del lavoro.
Gli aspetti psichici del fenomeno mafioso sono stati così studiati attraverso la gruppoanalisi che è
un modello che connette gli aspetti sociali, culturali, antropologici che guarda allo sviluppo
psichico dell’essere umano come frutto del concepimento psichico che la famiglia e il gruppo
sociale fanno di lui. Il modello gruppoanalitico soggettuale che può aiutarci a comprendere come il
trasngenerazionale per i membri della famiglie mafiose faccia parte integrante del loro percorso
di non soggettivazione poiché si sviluppa all’interno di una matrice familiare antropologica
“satura” che non permette nessun processo di autonomia di pensiero.

Capitolo 4: Mafia e sofferenza psichica


La mafia non è psicopatologia finché i suoi membri sono inquadrati dentro Cosa nostra. Ma
neanche questo è del tutto vero. Sì, vivono un perfetto equilibrio carenti ma una
spersonalizzazione non indifferente; la mafia produce non solo spersonalizzazione nei suoi
membri, ma anche angoscia e paranoia nei territori dove opera, perdita della stima di sé, paura
nelle sue vittime e rende impossibile lo sviluppo psicosociale e politico-economico.
I gruppi clinico-sociale composti dai membri dell’Associazione Addio Pizzo riportano la paura di
avere o portare avanti un’attività in Sicilia. Nelle ricerche fatte è emerso che tra gli aderenti
all’associazione che avevano subito minacce e chi invece le aveva immaginate e pensate le paure
vissute erano le stesse. I commercianti che si oppongono e che vengono isolati sperimentano
disturbi d’ansia costanti, una prevalenza del pensiero paranoideo, possibile rottura e difficoltà con
la famiglia d’origine e sfiducia depressiva nei confronti del mondo.
183
Tra le vittime di mafia, oltre ai commercianti, ai magistrati, ai poliziotti, ecc, che hanno perso un
familiare o sono stati oggetti di minacce, vanno inclusi anche i mafiosi stessi. Nel corollario
psicopatologico che è la loro vita va incluso una sorta di anaffettività profonda che avvolge la loro
dimensione antro-psichica e bio-relazionale. Sono soggetti che se uccidono qualcuno vis a vis non
provano nulla ma non hanno su di questo nemmeno un ricordo, una fantasia e mancano di
soggettività anche per il fatto stesso di esistere solo per cosa nostra e di uccidere per lei. Può
essere inserita tra la psicopatologia anche l’assoluta indifferenza emotiva per la categoria del
piacere, o per il cibo, o per l’eros, ecc. Il mafioso in primo luogo è vittima di sé stesso e della totale
identificazione con il mondo di mafia, quando la sua identità entra in crisi c’è il crollo di
un’individualità impreparata, immatura; è importante riflettere sul fatto che questi soggetti
cominciano a chiedersi chi sono, vivono conflitti interiori e si sentono soli nella disindentità.
Nei casi riportati dagli psicologi che si occupano dei figli/e di mafiosi emerge l'impossibilità psichica
(transpersonale) di parlare, di condividere e trasformare gli eventi che provocano dolore in chi li
subisce.

4. Donne
Un tempo si pensava che le donne di mafia non sapessero ciò che facevano i loro mariti e cosa
accadeva, ma in realtà loro ne sono consapevoli, solitamente non conoscono i dettagli e non
partecipano alle decisioni, ma anche per loro il potere è tutto. Hanno anche il potere di essere
l’onnipotente moglie di chi ha tutto, che tutti ossequiano e rispettano, ma anche la loro
soggettività e relazionalità (come quella degli uomini) è inesistente.
Estremamente ambivalente si rivela essere il vissuto delle figlie; nella psicopatologia di queste
ragazze rientra il massiccio meccanismo di negazione per il quale i padri, indicati dalla stampa
come efferati assassini sono genitori attenti ed affettuosi. La conflittualità inconscia di queste
donne è chiaramente notevole anche se spesso sembra che loro non si pongano problemi per il
mestiere dei loro uomini. Sembra che il loro ruolo all’interno della mafia stia cambiando,
soprattutto per via dell’
assenza dei loro uomini, che spesso costringe esse a prendere delle decisioni da sole.
Se da un lato le donne vivono ancora la famiglia come un’istituzione forte, fonte di protezione,
dall’altro sembra entrata in crisi la loro monolicità, cambiamento legato soprattutto allo status del
marito. Stati depressivi e ansiosi sono piuttosto evidenti all’interno della pratica clinica perché la
loro identità era strutturata intorno ai loro uomini e al loro ruolo.

5. Cittadini, politici
Altre vittime di mafia è sono l’economia e la politica, soprattutto la democrazia. Quest’ultima è
qualcosa da manipolare, da annullare con il clientelismo e con la corruzione in primo luogo etica
della politica Non esiste il concetto di libertà in una realtà dove si è costretti a pagare il pizzo.
La categoria di mercato e di sviluppo-concorrenza divengono parole vuote perché si era in cerca di
una raccomandazione, anche nel profondo nord.
Dal punto di vista psichico la situazione qui delineata produce patologia: molti amministratori si
sentono in una situazione impossibile. Come loro raccontano, si svegliano con l'angoscia di essere
uccisi dalla mafia o arrestati per complicità.

Parte seconda
Mafia e psicoterapie: ricerche

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Coloro che chiedono aiuto sono soprattutto i figli dei mafiosi che si vivono come vittime della loro
stessa cultura mafiosa, che ha garantito loro protezione ma allo stesso tempo non dà loro il
permesso psicologico e non solo, di essere padrone delle proprie scelte di vita. Emerge il senso di
colpa generato dal desiderio di tradire l’organizzazione mafiosa, tradire i codici di appartenenza e
cioè l’intera storia transgenerazionale del soggetto.
Per i terapeuti che hanno a che fare con soggetti mafiosi è molto difficile strutturare un'alleanza
terapeutica e avvertono come particolarmente faticoso il mantenimento delle regole del setting
terapeutico.
Il transfert dei pazienti mafiosi è caratterizzato dal pericolo psichico inconscio della creazione di
un legame con l’altro, sia perché l’altro (terapeuta) promuove un percorso di cambiamento. Per
tali pazienti l’altro è oggetto di critiche e non viene riconosciuto come persona.
Alcuni pazienti mettono in atto modalità transferali differenti e in parte opposte; c’è chi
contribuisce attivamente alla costruzione dell'alleanza terapeutica, c’è chi invece si relaziona con il
terapeuta in modo evitante quanto contro dipendente.
Gli psicoterapeuti sembrano attivare con i pazienti delle modalità contrasferali specifiche e in
parte opposte. Questi pazienti suscitano nel terapeuta vissuti ed emozioni legate al desiderio di
creare spazi di protezione a tutela della salute psichica del proprio paziente ma anche vissuti
genitoriali che ispirano la costruzione di un contesto psichico in cui è possibile rivivere un
accudimento sano e rispettoso dell’altro e del suo processo di autonomizzazione.
Le reazioni controtransferali sono di curiosità ma anche inquietudine.
Da una parte ritroviamo un controtransfert portatore di immagini salvifiche e protettive e
dall’altro un vissuto controtransferale e fonte di umiliazione.
Un controtransfert positivo promuove un’alleanza terapeutica positiva nella maggior parte dei
casi, ma il senso di inquietudine connesso alle matrici mafiose del paziente può ostacolare la
costruzione di una buona alleanza terapeutica.
Il mondo relazionale mafioso è di tipo paranoideo, con sospettosità verso gli altri. Il paziente
mostra un sé ipertrofico e dinamiche di evitamento dovute forse al travaglio emotivo doloroso
determinato dallo scontro psicologico dentro di loro tra le sfere relazionali diverse. L’esaltazione
ipertrofica del potere mafioso emerge anche in terapia in cui il paziente mostra questo
atteggiamento del voler tutto e subito. Inoltre, tende all’autoaffermazione prepotente che a sua
volta è mirata a far cadere l’altro piuttosto che di un reale potere. In Sicilia coloro che cercano la
terapia sono soprattutto parenti di uomini d’onore i quali sperano, con la psicoterapia, di ricercare
modelli d’identificazione alternativi.
La psicoterapia con i pazienti mafiosi si pone come obiettivo di sviluppare una maturazione
soggettiva e superare l’appartenenza mafiosa in modo tale che il soggetto possa sentirsi libero di
riconoscere la propria autonomia. Lo scopo futuro è quello di addentrarsi sempre di più nel mondo
mafioso riuscendo a smascherare le maglie deboli della matrice satura.

Psichico di Camorra
Rispetto alla mafia siciliana la camorra è un sistema gelatinoso in grado di mimetizzarsi in una
società multiforme. Essa è un’organizzazione che prevede gerarchie poche definite e non esiste un
capo dei capi. È un organismo simbiotico che si alimenta in modo parassita succhiando la linfa del
contesto sociale circostante. Rispetto a cosa nostra ha un rapporto debole con lo stato e un
diverso controllo dei territori.
Lo psichismo di camorra è egosintonico; crea problemi agli altri più che ai suoi membri. Essa agisce
in continua oscillazione tra interno ed esterno.
L’omosessualità non è considerata un problema.

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Essa condivide con la mafia siciliana l'obiettivo è svuotare di senso ogni dichiarazione sfavorevole
in modo che perda valore: chi si oppone a casa nostra o alla camorra è folle, i pentiti nel linguaggio
mafioso vengono chiamati tragediatori e il tragediatore è chi viene assalito dai dubbi, uno che è
inutile ascoltare.

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