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GOLDONI CARLO

BIOGRAFIA

BIOGRAFIA
Carlo Goldoni

È uomo di corte e scrive anche molte opere teatrali. A termine della sua vita si trasferisce in Francia
e vicino alla cultura francese diventa precettore che orbita intorno alla famiglia reale ma quando
scoppia la Rivoluzione francese la famiglia cade e Goldoni perde il suo
stipendio.
Nacque a Venezia il 25 febbraio 1707 da Giulio, veneziano anche lui ma di origine modenese, e da
Margherita Salvioni.
Si devono allo stesso G. molti dettagli sui suoi primi anni di vita, secondo il racconto dei Mémoires,
che, tuttavia, come ha rilevato la critica più recente, va considerato solo parzialmente attendibile,
non solo per quanto condivide di funzionale con qualunque autobiografia, ma anche perché
risponde in modo chiaro a un preciso disegno di ideologia intellettuale e culturale.
Mémoires de Goldoni pour servir à l'histoire de sa vie et de son théâtre: così, infatti, il G. intitolò la
ricostruzione autobiografica che scrisse durante gli anni del lungo soggiorno francese e pubblicò a
Parigi nel 1787. → il fatto che scrivesse in francese rende Goldoni un autore considerato francese
per i francesi.
Ormai vecchio e lontano dall'Italia da molti anni, riprendeva e rielaborava i frammenti narrativi
sulla propria vita sparsi tra le Prefazioni ai diciassette tomi dell'edizione Pasquali delle sue Opere
(pubblicata a Venezia 1761-78) e gli spunti autobiografici disseminati in varie commedie o, a volte,
nelle singole prefazioni a esse (che hanno il titolo L'autore a chi legge). Dal confronto delle varianti
e dal riscontro di queste con gli accertamenti documentari, quando è stato possibile, è risultata
confermata la volontà goldoniana di subordinare ogni ricordo e ogni omissione intenzionale al
disegno del quadro autobiografico che, esattamente come recita il titolo, è funzionale alla
illustrazione e alla valorizzazione del suo intervento riformatore sul teatro ("Ho intrapreso a
scrivere la mia vita, niente per altro, che per fare la storia del mio teatro", Prefazione al tomo XII,
ed. Pasquali).
Abbiamo un autore che RIFORMA IL TEATRO, da agli attori per la prima volta una serie di battute
precise alle quali si devono attenere: sparisce la recitazione libera. Pubblicò 17 tomi dell’edizione
Pasquali. Goldoni scrisse così tanto perché era così che lui poteva guadagnare. A Venezia nasce una
classe media molto ampia che diventa un pubblico di riferimento. Venezia nel 700 giunge agli apici
della sua storia, apice che termina con l’arrivo di Napoleone.
A Venezia abbiamo il fiorire di un’importante editoria: Venezia nel 700 è la capitale italiana
dell’editoria, è la città nella quale vengono stampati i libri più importanti e diffusi:

• questo perché è ancora un centro commerciale in cui è facile trovare le vie per vendere i
libri,

• a Venezia c’è un pubblico in grado id leggere e comprare i libri di tradizione letteraria


(fiorentina) Le opere di Goldoni vengono stampate da Pasquali, uno degli editori più
importanti a Venezia in quel periodo.

Goldoni usava principalmente due lingue:

• una più vicina al dialetto, quella del teatro a Venezia → lingua parlata
• elaborava una versione più letteraria riservata alle stampe, diffondibili in tutta la koinè
padana

Era difficile far ridere gli italiani, l’unico modo grazie al quale anche oggi ridiamo a teatro è l’uso
del volgare: per questa ragione vi erano pochi autori teatrali, e soprattutto autori comici.
Nel 1712 nacque Giovanni Paolo (Giampaolo), l'unico dei fratelli che sopravvisse; a causa di serie
difficoltà economiche, il padre dovette allontanarsi da Venezia, per andare a Roma, dove studiò
medicina senza forse ottenere la qualifica di medico (come scrisse lo stesso Goldoni) ma soltanto
quella di farmacista (così risulta da un documento del 1716); si trasferì quindi con tutta la famiglia
a Perugia dove esercitò la nuova professione. Il Goldoni, che aveva ricevuto i primi insegnamenti da
un precettore, proseguì gli studi in collegio, prima a Perugia con i gesuiti (1719), poi a Rimini con i
domenicani, poi ancora sotto la guida del domenicano Candini.
Si collocano in questo periodo la stesura della prima commedia, il famoso episodio della fuga
(aprile 1721) da Rimini a Chioggia (dove i genitori si erano nel frattempo trasferiti) al seguito di
una compagnia di comici dai quali era stato affascinato e anche i primi segnali di quella malattia
("certi vapori ipocondriaci e malinconici che offuscavano il mio spirito", Memorie, p. 53) che lo
accompagnò tutta la vita, con bruschi e incontrollabili passaggi dall'allegria alla malinconia. →
aveva un’instabilità di carattere importante.
Ha precettori importanti e studia con i gesuiti= caratteristica principale del 700 fino alla
soppressione dell’ordine dei gesuiti → studiare presso i gesuiti era la scelta migliore perché
garantiva un grande influsso politico.
Nel 1721 tornò a Venezia, con la madre, entrando, come praticante, nello studio legale dello zio
Giampaolo Indric, dove rimase fino al 5 genn. 1723, quando fu ammesso al collegio Ghislieri di
Pavia con una borsa di studio concessa dal marchese Pietro Goldoni Vidoni, protettore della
famiglia; ma prima della fine del terzo anno venne espulso a causa di una composizione satirica
"destinata a colpire la sensibilità di molte famiglie onorate e rispettabili" (ibid., p. 83). Accompagnò
quindi a Udine e poi a Vipacco il padre che aveva in cura il conte Francesco Antonio Lantieri. Qui,
tra l'altro, mise in scena in un teatro di marionette allestito nel castello una "bambocciata" di P.I.
Martello, Lo starnuto di Ercole. Continuò a seguire il padre in varie località del Friuli, della Slovenia
e del Tirolo, finché, tornati a Chioggia, fu assunto (gennaio 1728) nella cancelleria criminale della
città come vicecoadiutore.
Si trasferì quindi a Feltre (aprile 1729) con la funzione di vicecancelliere criminale e qui affiancò al
lavoro una rinnovata attenzione al teatro, approfittando della presenza in città della compagnia di
Carlo Veronese: curò, infatti, la rappresentazione di due opere di Metastasio (Didone e Siroe), nelle
quali si riservò ruoli secondari e allestì due sue "operine", recitando anche in queste, ma con risultati
più soddisfacenti, essendo le parti comiche.
Nel 1731 il padre morì e il G. riprese e completò gli studi, si laureò in diritto all'Università di Padova
e divenne, l'anno successivo, "avvocato veneziano" (20 maggio 1732). Cominciò, quindi, a esercitare
la nuova professione presso lo studio di Carlo Terzi, senza rinunciare alle divagazioni letterarie,
come il lunario composto per l'anno 1732 intitolato L'esperienza del passato fatta astrologa del
futuro, "che venne stampato, apprezzato e applaudito" (Memorie, p. 146) o teatrali come la tragedia
lirica Amalasunta, ideata con il preciso scopo di guadagnare "d'un colpo cento zecchini" (ibid., p.
148), che tentò invano di far rappresentare a Milano, dove nel frattempo aveva dovuto rifugiarsi, in
seguito a una mancata promessa di matrimonio. Il residente della Repubblica di Venezia a Milano,
O. Bartolini, gli assegnò la qualifica di gentiluomo di camera, per nulla redditizia ma piacevole e
leggera; tanto che poté dedicarsi alla messa in scena al teatro Ducale di Milano (1733) di un'altra
"operina", I sdegni amorosi tra Bettina putta de campielo e Buleghin barcariol veneziano o sia Gli
sdegni amorosi (più tardi pubblicato con il titolo Il gondoliere veneziano), un intermezzo anche
questa, composta per il ciarlatano Buonafede Vitali che aveva fatto compagnia con quattro maschere
della commedia dell'arte; quindi, su commissione del primo amoroso della compagnia, Gaetano
Casali, iniziò la stesura di una tragicommedia, Belisario, che terminò a Verona, dove si era rifugiato,
per ripararsi dagli eventi bellici che stavano scuotendo la zona. Vi conobbe il capocomico genovese
Giuseppe Imer che era impegnato con il teatro S. Samuele di Venezia, di proprietà del senatore
Michele Grimani che possedeva anche il teatro S. Giovanni Grisostomo, adibito esclusivamente alle
rappresentazioni dell'opera in musica. Tornò così, come poeta della compagnia Imer, a Venezia
(1734), dove venne rappresentato con gran successo il suo Belisario al quale, alla sesta replica, Imer
volle affiancare La pupilla, un altro intermezzo, ossia la solita composizione comica breve,
accompagnata dalla musica, imperniata su due o tre personaggi al massimo e destinata a essere
rappresentata tra un atto e l'altro di tragedie o melodrammi.
Ma, pure se allentato, il legame con il teatro rimase in questo periodo sempre vivo, soprattutto per la
suggestione che su di lui continuavano a esercitare gli attori. Nel 1738 l'arrivo in città di due attori
straordinari come il Pantalone Francesco Golinetti e il Truffaldino Antonio Sacchi stimolarono il suo
genio, spingendolo a scrivere un canovaccio dal titolo Momolo cortesan (poi L'uomo di mondo), nel
quale la parte del protagonista, pensata appositamente per la maschera di Golinetti, era per la prima
volta scritta per intero.

Già in questa fase di apprendistato, dunque, come poi nella maturità e, infine, nel periodo francese, la
produzione goldoniana è improntata a un massimo di variabilità sulla linea della sperimentazione, ma
soprattutto dell'aderenza totale alle ragioni del teatro, del quale ha saputo sempre riconoscere e
rispettare tutte le componenti materiali e intellettuali, individuali e sociali, artistiche ed economiche;
che sono precisamente gli elementi che diventeranno ingredienti di spettacolo nel suo Teatro comico
dieci anni più tardi. (anni 50: apice delle sue commedie).

Non per caso F. De Sanctis evocò il nome di Galilei per sintetizzare l'indole dell'operazione intellettuale
goldoniana ("E riuscì il Galileo della nuova letteratura", p. 355), evidentemente colpito dalla ripresa
della metafora libresca mediante la quale appunto Galilei aveva voluto esporre le sue nuove idee; ed
era precisamente nella capacità, straordinaria per la tradizione italiana, di sostanziare la scrittura
drammaturgica con la diretta e profonda conoscenza della macchina teatrale, che, secondo De Sanctis,
si manifestava il carattere più forte della sua innovazione; anche se, su questa via, esagerava la
"naturalità" dell'ingegno del Goldoni a scapito della sua cultura. Il Goldoni spesso è stato definito un
“animale da teatro”, ma in realtà in lui vi erano grandi studi.

LETTERA DELL’AUTORE AL LETTORE – Prefazione di “La famiglia dell’antiquario”

Premesse alle opere che ci spiegano come agiva sul testo che oggi arriva a noi.

Che dite? non sono io un galant'uomo? Eccovi dopo il breve giro di quattro giorni la seconda comedia pel Terzo Tomo', La
Suocera e la Nuora intitolata?.
Qui in Ferrara io godo una grandissima quiete. Sono ospite fortunato in casa di S. E. il Sig. Marchese Ercole Rondinelli, da
cui benché senza merito, infinite grazie ricevo. La degnissima Dama sua, la nobilissima Signora Marchesa Lucrezia
Bentivoglio Rondi-nelli è piena di Spirito, e di talento, eppure mi soffre' con eccesso di gentilezza, e compiacendosi delle
opere mie, mi sente leggerle vo-Iontieri, e procura, che altri le sentano, ed il Molier' specialmente leggendolo, e rileggendolo
per obbedirla, mi ha dato campo di ammirare la di lei bontà, e di corrispondere in qualche picciola parte agl'infiniti
obblighi miei.

La mattina per tempo, trovandomi in un comodo appartamen-to, alla vista di un spazioso giardino ho avuto campo di
porre all'ordine la commedia, che or vi spedisco. In essa non ho fatt' altro, che scrivere la parte del Brighella, e
dell'Arlecchino, le quali furono da me prima lasciate in libertà, acciò si sfogassero questi due personag-gi' mal contenti
forse di me, siccome io, non di loro, ma delle loro maschere non son contento.

Osservate però, che dopo il primo, e secondo anno non ho lasciate le Maschere in libertà, ma dove ho creduto doverle
introdur-re, le ho però legate a parte studiata', mentre ho veduto per espe-rienza, che il personaggio tal'ora pensa piú a se
medesimo, che alla Commedia, e pur che gli riesca di far ridere non esamina se quanto dice convenga al suo carattere, e
alle sue circostanze , e sovente senza avvedersene imbroglia la Scena, e precipita" la Commedia.
Io sono costantissimo a non voler dir nulla sopra le mie Comme-die, e molto meno a volerle difendere dalle critiche, che
hanno, o con ragione, o senza ragione sofferte. Ho letto il libro ultimamente
escito alla luce 1°, e con una risata ho terminato di leggerlo. Può ben parlar degl'altri chi non la perdona a se stesso, ed io
sono molto contento di trovarmi colà in un fascio con Plauto, con Terenzio, con Aristofane, e con cent'altri, che io non ho
letto, siccome né tampoco quello, che li ha citati.

Circa il titolo della Commedia, io l'ho intitolata in due maniere, cioè, La Famiglia del Antiquario, o sia La Suocera, e la
Nuora, lo stesso trovandosi in quasi tutte le Commedie di Molier, ed in altre d'an-tichi Autori.. I due titoli mi pare
convenghino perfettamente. La Suocera, e la Nuora sono le due persone, che formano l'azione principale della Commedia,
e l'Antiquario capo di casa per ragione del suo fanatismo per le antichità, non badando agl'interessi della Fa-miglia, non
accorgendosi dei disordini, e non prendendosi cura di correggere a tempo la Moglie, e la Nuora dà addito alle loro Pazzie,
e alle loro dissensioni perpetue, onde, nell'una, e nell'altra maniera si può intitolar la Commedia, e voi intitolatela, come
volete.

Ferrara lí 2 Maggio 1752.

Forma della lettera in cui l’autore si descrive come biografico peregrinante e ci parla del tempo
che dedicava, quando è ospite nelle famiglie nobili. Non fa altro che scrivere parole delle maschere
, alle quali veniva solitamente lasciata la possibilità di parlare durante la commedia.
—> fa rifermento alle cose che aveva letto su se stesso e dice di non aver letto a posta gli autori
antichi

Il modo in cui egli introduceva le commedie: ne cambiava alcune volti i titoli, a volte scriveva parti
che non venivano recitate secondo uno spartito ben preciso.
Nobile che vede attorno a se cadere tutti i suoi averi e la famiglia: cade il mondo dell’antiquariato,
ma i nobili non curanti non lo aiutano ad elevare la sua condizione economica
—> critica alla nobiltà: “I nobili sono come le patate, tutto cioè che ce di buono sta sottoterra”
Questa commedia racconta i conflitti di una famiglia che vive a Palermo. Nella famiglia entra
Doralice, figlia di un mercante, Pantalone, con una dote di ventimila scudi. Entra come sposa del
Conte Giacinto, figlio del Conte Anselmo Terrazzani e la Contessa Isabella. Comincia un conflitto
senza fine tra suocera e nuora a causa dell’orgoglio, della classe sociale e dei servitori. Il padrone di
casa, il Conte Anselmo, non lo è davvero perché è un uomo menefreghista che solo pensa al suo
museo d’antichità dove spreca tutti i soldi e in realtà non ha nessun valore. Con un padrone
menefreghista, la suocera e la nuora in conflitto, un figlio e marito che non vuole dispiacere a
nessuna, i cicisbei, il Cavaliere del Bosco e il dottore Anselmi, che invece di aiutare a risolvere il
conflitto lo peggiorano, la cameriera Colombina che fa lo stesso con lo scopo di guadagnare ancora
più, e un servitore, Brighella, che inganna il padrone di casa con l’aiuto del suo amico Arlecchino
vendendogli antichità false, l’unica persona capace di risolvere i conflitti è il vecchio ed onorevole
Pantalone.

SCENA PRIMA.
Camera del conte Anselmo, con vari tavolini, statue, busti e altre cose antiche.
Il conte Anselmo ad un tavolino, seduto sopra una poltrona, esaminando
alcune medaglie, con uno scrigno sul tavolino medesimo; poi Brighella.
Anselmo. Gran bella medaglia! questo è un Pescennio originale. Quattro
zecchini? L’ho avuto per un pezzo di pane.
Brighella. Lustrissimo. (con vari fogli in mano)
Anselmo. Guarda, Brighella, se hai veduto mai una medaglia più bella di
questa.
Brighella. Bellissima. De medaggie no me ne intendo troppo, ma la sarà bella.
Anselmo. I Pescennj sono rarissimi; e questa pare coniata ora.
[p. 310 modifica]
Brighella. Gh’è qua ste do polizze...
Anselmo. Ho fatto un bell’acquisto.
Brighella. Comandela che vada via?
Anselmo. Hai da dirmi qualche cosa?
Brighella. Gh’ho qua ste do polizze. Una del mercante da vin, e l’altra de
quello della farina.
Anselmo. Gran bella testa! Gran bella testa! (osservando la medaglia)
Brighella. I xe qua de fora, i voleva intrar, ma gh’ho dito che la dorme.
Anselmo. Hai fatto bene. Non voglio essere disturbato. Quanto avanzano?
Brighella. Uno sessanta scudi, e l’altro cento e trenta.
Anselmo. Tieni questa borsa, pagali, e mandali al diavolo. (leva una borsa dallo
scrigno)
Brighella. La sarà servida. (parte)
Anselmo. Ora posso sperare di fare la collana perfetta degl’imperatori romani.
Il mio museo a poco a poco si renderà famoso in Europa.
Brighella. Lustrissimo. (torna con altri fogli)
Anselmo. Che cosa e’ è? Se venisse quell’Armeno con i cammei, fallo passare
immediatamente.
Brighella. Benissimo; ma son capitadi altri tre creditori, el mercante de’
panni, quel della tela, el padron della casa che vuol l’affitto.
Anselmo. E ben, pagali e mandali al diavolo.
Brighella. Da qua avanti no la sarà tormentada dai creditori.
Anselmo. Certo che no. Ho liberate tutte le mie entrate. Sono padrone del
mio.
Brighella. Per la confidenza che Vossustrissima se degna de donarme, ardisso
dir che l’ha fatto un bon negozio a maridar l’illustrissimo signor Contin,
suo degnissimo fiol, con la fia del sior Pantalon.
Anselmo. Certo che i ventimila scudi di dote, che mi ha portato in casa in tanti
bei denari contanti, è stato il mio risorgimento. Io aveva ipotecate, come
sai, tutte le mie rendite.
[p. 311 modifica]
Brighella. Za che la xe in pagar debiti, la sappia che, co vago fora de casa, no
me posso salvar: quattro ducati qua, tre là; a chi diese lire, a chi otto, a
chi sie; s’ha da dar a un mondo de botteghieri.
Anselmo. E bene, che si paghino, che si paghino. Se quella borsa non basta, vi
è ancor questa, e poi è finito. (mostra un’altra borsa, che è nello scrigno)
Brighella. De ventimile scudi no la ghe n’ha altri?
Anselmo. Per dir tutto a te, che sei il mio servitor fedele, ho riposto duemila
scudi per il mio museo, per investirli in tante statue, in tante medaglie.
Brighella. La me perdona; ma buttar via tanti bezzi in ste cosse...
Anselmo. Buttar via? Buttar via? Ignorantaccio! Senti, se vuoi avere la mia
protezione, non mi parlar mai contro il buon gusto delle antichità,
altrimenti ti licenzierò di casa mia.
Brighella. Diseva cussì, per quello che sento a dir in casa; per altro accordo
anca mi, che el studio delle medaggie l’è da omeni letterati; che sto diletto
è da cavalier nobile e de bon gusto, e che son sempre ben spesi quei
denari, che contribuisse all’onor della casa e della città. (El vol esser
adulà? bisogna adularlo). (da sè, parte)
Goldoni prima di dar spazio ai dialoghi, scrive tutto ciò che rappresentava la scena.
I protagonisti di questo atto sono Brighella e Anselmo.
Notiamo la presenza del dialetto veneziano→ Goldoni usa le due lingue in modo verosimile
Critica: tutti i più grandi nobili del suo tempo si dedicavano al collezionismo antico, in particolare a
Brescia, grande collezionista di medaglie bresciane Mazzucchelli o a Verona il Maffei, collezionista di
lapidi.
SCENA II.
Il conte Anselmo solo.
Bravo. Brighella è un servitore di merito. Ecco un bell’anello etrusco. Con
questi anelli gli antichi Toscani sposavano le loro donne. Quanto pagherei
avere un lume eterno, di quelli che ponevano i Gentili nelle sepolture de’
morti! Ma a forza1 d’oro, l’avrò senz’altro.

Persona che vive solo nel suo mondo e non capisce le persone vicine. Denuncia che fa Goldoni nei
confronti di una nobiltà che non è in grado di governare il mondo o di stare in piedi economicamente.
Goldoni è un rivoluzionario in ambito teatrale, Parini è un riformatore e non voleva lo sconvolgimento
della società ma la sua riformazione.

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