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Una conclusione di insieme sulla Palliata: Plauto, Terenzio e la Commedia Nuova

Dalla tragedia tardo-euripidea alla commedia dei sentimenti


La Commedia Nuova, largamente tradotta e rifatta da comici romani, può essere studiata come un insieme
dei testi greci e quelli latini che ne derivano, cercando i tratti di un linguaggio drammatico comune, lo stile di
un esperimento letterario originale nel panorama dei generi antichi. Lontana dal teatro politico di Aristofane
(allegorico, utopico, visionario), la Commedia Nuova ha i suoi incunaboli nell’ultimo Euripide Elena,
Ifigenia taurica, Ione: drammi a lieto fine dove ricorrono elementi comici (intrigo, riconoscimento,
peripezie). La commedia nuova è consapevole di tale origine e nella parodia tragica, pur frequente e
tradizionale, rivela esigenze espressive diverse, di un registro più elevato rispetto a quello umile e
quotidiana,
tradisce un’aspirazione patetica che il genere comico sentiva e temeva come troppo impegnativo. Alla
paratragoedia, la Commedia Nuova preferiva la parodia di se stessa. La commedia pensosa di Menandro
sembra avvicinarsi alla retorica della tragedia per la ricerca dell’effetto psicagogico : cerca uno spettatore che
voglia riconoscersi nei sentimenti dei personaggi, crescere con essi a questo teatro sembra meglio adeguarsi
la regola aristotelica secondo cui l’eroe tragico non deve essere né troppo buono, né troppo cattivo (Edipo
piuttosto che Medea) perché con esso lo spettatore comune possa provare una forma catartica di
identificazione. Lo spettatore partecipa emotivamente come individualità morale, non come rappresentante
di una comunità di cittadini che si confronta con l’opinione di chi sta in scena: per gli spettatori gli attori
smettono di essere interpreti di parti teatrali e diventano persone vere, la rappresentazione vuole essere
evento reale, verisimilmente possibile, imitazione della vita messa in forma di un ideale morale. Infatti, della
tragedia, questo teatro imita l’idea “moderna” di un’illusione scenica coerente.
Convenzionalità e finzione teatrale
La Commedia Nuova è anche consapevolezza di una forma convenzionale che media la rappresentazione
della vita reale. I personaggi sono, spesso, i primi spettatori consapevoli di un teatro che si vuole realistico e
convincente ma anche consapevole di convenzioni a cui allude e dei codici che ne costruiscono il linguaggio
e lo rendono riconoscibile al pubblico. Da questo punto di vista i personaggi più interessanti sono quelli
minori. Essi spesso ricordano al pubblico, senza interrompere l’illusione della rappresentazione, alcuni dei
possibilia comici: non è l’attore che parla al pubblico, ma il personaggio stesso che sembra divenire
consapevole della propria vita di finzione che lo vuole sempre uguale a se stesso legandolo ad un ruolo che il
pubblico si aspetta di ritrovare (es il cuoco dell’Aspìs, la cortigiana di Fenicide, il Demifone di Terenzio).
Sono piuttosto i personaggi gli stessi interlocutori, i custodi delle convenzioni che reggono la Nèa. A volte,
addirittura, i meccanismi dell’invenzione comica sfruttano proprio questa consapevolezza meta teatrale dei
personaggi (es. Simone nell’Andria di Terenzio si crede ingannato dal servo Davo laddove riconosce alcuni
tipici espedienti della recita: finisce per confondere l’inganno della rappresentazione scenica con l’inganno
che, a suo dire, Davo starebbe tramando alle sue spalle (pg87-88).

Consapevolezza delle convenzioni e metateatro


La Commedia Nuova complica l’apparente realismo psicologico ed evenemenziale, non facendoli più
apparire poi così naturali. Essa si muove tra i mondi opposti di tragedia e commedia plautina: tiene una via a
metà tra l’intenzione del realismo psicologico e la coscienza della propria convenzionalità, mostrata con un
discorso implicito che deve essere interpretato con cura da chi lo osserva. L’effetto meta teatrale non va oltre
l’autoironia di personaggi che sanno di essere convenzionali ma vogliono credere all’illusione scenica.
L’appello al pubblico, tipico del teatro plautino, nella Nèa è delegato a spazi di parola indiretta dove il
dibattito che unisco o oppone i personaggi è interrotto da una battuta quasi inappropriata, una sentenza
universale la cui sapienza è troppo alta per essere destinata al solo compagno di scena, ma all’intera platea. Il
teatro plautino rende evidenti, per contrasto, i caratteri sottili della Commedia Nuova. Sono i personaggi che,
senza uscire dalla coerenza della finzione, si mostrano per la loro convenzionalità, ripetitività, maschere di
ruoli predefiniti, condizione di cui talvolta sembrano perfino lamentarsi (cuoco e cortigiana). Addirittura
Menandro cerca spesso di inventare nuovi ruoli per i personaggi più convenzionali. Al contrario, Plauto si
cura meno dell’illusione drammatica e può fare dell’intervento meta teatrale una risorsa del comico, un
aprosdòketon, un’ “uscita all’improvviso” dalla finzione scenica. Vistosamente consapevole che quel teatro
“realista” è fatto di tipi, Plauto può addirittura permettersi di essere iper-convenzionale: tutti questi caratteri
della Commedia Nuova possono ripresentarsi sulla scena nella loro forma pura, perché alternano il ruolo
della parte con una funzione di consapevolezza che li rende superiori alla maschera.

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