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CANTO 1

Argomento del Canto

Dante si smarrisce nella selva oscura. Incontra le tre fiere: lonza, leone, lupa. Viene soccorso da Virgilio, che lo
guiderà in un viaggio attraverso Inferno e Purgatorio, mentre Beatrice lo guiderà in Paradiso. Profezia del veltro.
È la notte tra giovedì 7 aprile (o 24 marzo) e venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

Dante si smarrisce nella selva (1-30)

La notte del 7 aprile (o 24 marzo) dell’anno 1300, dunque a trentacinque anni di età, Dante si smarrisce in una selva
oscura e intricata, impossibile da descrivere tanto è angosciosa. Lui stesso non sa dire come c’è finito, poiché era
pieno di sonno quando ha perso la giusta strada: a un tratto però, mentre sta albeggiando, si ritrova ai piedi di un
colle, dalla cui vetta vede spuntare i primi raggi del sole. Questo, oltre al fatto che è primavera, gli ridà speranza e lo
spinge a tentare la scalata del colle, dopo essersi riposato per qualche istante e aver ripensato al pericolo appena
corso (come un naufrago che guarda le acque in tempesta dalle quali è appena scampato). Il poeta inizia quindi a
salire la china del colle, ma con grande fatica e incertezza.

Compaiono le tre fiere (31-60)

Mentre sta salendo il colle, gli appare improvvisamente una lonza dal pelo maculato, assai agile e snella, che lo
spinge più volte a tornare indietro. All’inizio l’ora del mattino e la stagione mite gli danno speranza di poterne avere
ragione, ma subito dopo compare un leone, che gli viene incontro con fame rabbiosa e sembra far tremare l’aria, e
una lupa famelica, tanto magra da sembrare carica di ogni bramosia. Quest’ultima incute molta paura in Dante, che
perde ogni conforto e lentamente scende verso il basso, nella zona non illuminata dal sole.

Presentazione di Virgilio (61-90)


Dante sta tornando verso la selva, quando intravede una figura nella penombra, appena visibile nella poca luce
dell’alba. Intimorito, supplica lo sconosciuto di avere pietà di lui e gli chiede se sia un uomo in carne ed ossa oppure
l’anima di un defunto. L’altro risponde di non essere più un uomo in vita, ma di avere avuto i genitori lombardi e di
essere originario di Mantova. Si presenta come Virgilio, il poeta latino vissuto al tempo di Cesare e Augusto, ovvero
durante il paganesimo, e che ha cantato le gesta di Enea nel poema a lui dedicato. Virgilio rimprovera Dante perché
sta scivolando verso il male della selva, mentre dovrebbe scalare il colle che è principio di felicità. Dante risponde a
sua volta con ammirazione, dicendo a Virgilio che lui è il più grande poeta mai vissuto e dichiarando che è il suo
maestro e modello di stile poetico. Si giustifica indicando la lupa come la bestia selvaggia che gli sbarra la strada,
pregando Virgilio di aiutarlo a superarla.

Profezia del veltro (91-111)

Virgilio riprende la parola spiegando a Dante che, se vuole salvarsi la vita, dovrà intraprendere un altro viaggio.
Infatti la lupa è animale particolarmente pericoloso e malefico, incapace di soddisfare la propria fame, che uccide
chiunque incontri. Virgilio profetizza poi la venuta di un «veltro», un cane da caccia che ucciderà la lupa con molto
dolore e la ricaccerà nell’Inferno da dove è uscita. Costui non sarà interessato alle ricchezze materiali ma ai beni
spirituali, e la sua patria non sarà nessuna città in particolare. Egli sarà la salvezza dell’Italia, per la quale già altri
personaggi hanno dato la vita, come i troiani Eurialo e Niso, la regina dei Volsci Camilla, il re dei Rutuli Turno, tutti
cantati dallo stesso Virgilio nell’Eneide.

Il viaggio di Dante (112-136)

Virgilio conclude dicendo a Dante che dovrà seguirlo in un viaggio che lo condurrà nei tre regni dell’Oltretomba:
dapprima lo condurrà attraverso l’Inferno, dove sentirà le grida disperate dei dannati; poi lo guiderà nel Purgatorio,
dove vedrà i penitenti che sono contenti di espiare le loro colpe per essere ammessi in Paradiso. Qui, però, non sarà
Virgilio a fargli da guida: egli non ha creduto nel Cristianesimo, quindi Dio non può ammetterlo nel regno dei Cieli.
Sarà un’altra anima, più degna di lui, a guidare Dante in Paradiso, ovvero Beatrice. Dante risponde a Virgilio
pregandolo di fargli da guida in questo viaggio, poiché è ansioso di vedere la porta di san Pietro e le pene dei
dannati. Virgilio inizia a muoversi e Dante lo segue.

Parafrasi
A metà del percorso della vita umana (all'età di 35 anni), mi ritrovai per una oscura foresta, poiché avevo smarrito la
giusta strada.

Ahimè, è difficile descrivere com'era quella foresta, selvaggia, inestricabile e tremenda, tale che al solo pensiero fa
tornare la paura.

È così spaventosa che la morte lo è poco di più: ma per descrivere il bene che vi trovai dentro, dirò quali altre cose ho
visto in essa.

Non sono in grado di spiegare come vi sia entrato, tanto ero pieno di sonno nel momento in cui lasciai la giusta
strada.

Ma dopo che fui arrivato ai piedi di un colle, là dove finiva quella valle che mi aveva rattristato il cuore di paura, alzai
lo sguardo e vidi la sua vetta già illuminata dai raggi del sole, che conduce ogni uomo sulla giusta strada.

Allora si placò un poco la paura che avevo avuto nel profondo del cuore, quella notte che trascorsi con tanta
angoscia.

E come il naufrago che col respiro affannoso, gettato dal mare sulla riva, si volta e guarda alle acque pericolose da
cui è scampato, così il mio animo, che ancora era in fuga, si voltò indietro ad osservare il passaggio che non lasciò
mai passar vivo nessun uomo.

Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco, ripresi a camminare lungo il pendio deserto del colle, in modo tale
che il piede più saldo era sempre quello più basso.

Ed ecco che apparve, quasi all'inizio della salita, una lonza snella e molto agile, ricoperta di pelo maculato; e non si
allontanava di fronte a me, anzi, impediva a tal punto il mio cammino che io pensai più volte di tornare indietro.

Erano le prime ore del mattino, e il sole stava sorgendo insieme a quella costellazione (l'Ariete) che era con lui il
giorno della Creazione, quando l'amore divino mosse per la prima volta quelle belle cose; così l'ora del giorno e la
stagione primaverile mi davano buoni motivi per sperare bene a proposito di quella belva dalla pelle chiazzata; ma
non al punto che non mi desse paura la vista, che mi apparve subito dopo, di un leone.

Questi sembrava venire contro di me, con la testa alta e con fame rabbiosa, al punto che persino l'aria sembrava
tremare.

Ed ecco apparire una lupa, che nella sua magrezza sembra piena di tutti i desideri e spinse molte persone a vivere
miseramente; questa mi procurò una tale angoscia, col terrore che mi ispirava il suo aspetto, che persi la speranza di
raggiungere la sommità del colle.

E come colui che acquista volentieri, e poi arriva il tempo in cui perde ogni cosa, per cui piange e si rattrista in ogni
pensiero, così mi rese la belva senza pace, che venendo contro di me mi sospingeva poco a poco verso il basso, dove
non c'era il sole.
Mentre io scivolavo a valle, verso la foresta, apparve davanti ai miei occhi qualcuno che non riuscivo a vedere bene
per la penombra.

Quando vidi costui nel luogo deserto, gli gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia, un'anima o un uomo in carne e
ossa!»

Mi rispose: «No, non sono un uomo, lo sono già stato, e i miei genitori furono della Lombardia, entrambi nativi di
Mantova.

Nacqui sotto il governo di Giulio Cesare, anche se negli ultimi anni, e vissi a Roma sotto il governo del buon
imperatore Augusto, al tempo degli dei pagani.

Fui poeta, e cantai di quel giusto figlio di Anchise (Enea) che fuggì da Troia dopo che il superbo Ilio (Troia) fu bruciato.

Ma tu, perché ritorni al male della foresta? Perché non scali il colle gioioso, che è principio e causa di ogni felicità?»

«Allora tu sei quel Virgilio e quella sorgente che spande un così largo fiume di parole?» gli risposi vergognandomi.

«O tu che sei luce e guida degli altri poeti, mi siano di aiuto il lungo impegno e il grande amore che mi hanno spinto a
leggere la tua opera!

Tu sei il mio maestro e il mio modello; tu sei il solo da cui io trassi il bello stile che mi ha reso celebre.

Vedi la belva che mi ha fatto voltare; aiutami da lei, famoso sapiente, poiché essa fa tremare ogni goccia del mio
sangue».

«Tu devi compiere un altro viaggio,» mi rispose dopo avermi visto piangere, «se vuoi salvarti da questo luogo
selvaggio.

Infatti, la belva che ti fa urlare non lascia passare nessuno per la sua strada, ma lo impedisce al punto di ucciderlo.

E ha un'indole così malvagia e malefica che non può mai soddisfare la sua bramosia, e dopo ogni pasto ha più fame
di prima.

Sono molti gli animali a cui si accoppia, e saranno sempre di più, finché arriverà il cane da caccia (veltro) che la farà
morire con dolore.

Costui non baderà alle ricchezze materiali, ma solo a quelle spirituali e la sua nascita avverrà tra feltro e feltro.

Sarà la salvezza di quell'umile Italia, per cui morirono in battaglia Eurialo e Niso, Turno, la vergine Camilla.

Costui le darà la caccia per ogni città, finché l'avrà rimessa nell'Inferno da dove l'invidia (del demonio) la fece uscire
per la prima volta.
Perciò io penso e giudico per il tuo bene che tu debba seguirmi, e io ti farò da guida; e ti porterò via di qui per guidarti
in un luogo dell'Oltretomba, dove udirai le grida disperate e vedrai le antiche anime dei dannati, ciascuno dei quali
invoca la morte definitiva.

E poi vedrai coloro che sono contenti di subire pene (i penitenti del Purgatorio), perché sperano un giorno di
raggiungere i beati del Paradiso.

E se poi tu vorrai salire a visitare questi ultimi, allora ci sarà un'anima più degna di me per farti da guida: quando me
ne andrò, ti lascerò con lei.

Infatti, quell'imperatore (Dio) che regna lassù, non vuole che io entri nella sua città, in quanto fui ribelle alla sua legge
(fui pagano).

Dio ha autorità in tutto l'Universo e in Paradiso governa; qui c'è la sua città e il suo altro trono; oh, felice colui che
sceglie per risiedere in quel luogo!»

E io gli dissi: «Poeta, in nome di quel Dio che non hai conosciuto e affinché io fugga questo male e altri peggiori, ti
chiedo ti condurmi là dove hai detto, così che io veda la porta di San Pietro e coloro che descrivi tanto miseri».

Allora si mise in cammino, e io lo sesegui


CANTO 2

Argomento del Canto

Dubbi di Dante sul viaggio. Virgilio gli spiega che Beatrice gli ha fatto visita nel Limbo ed è stata a sua volta inviata
dalla Vergine e da santa Lucia. Dante si riconforta. È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

Proemio della Cantica (1-9)

Sta calando la notte e Dante, che segue Virgilio lungo la strada che li condurrà alla porta dell’Inferno, è il solo che si
prepara a un percorso irto di difficoltà mentre tutte le altre creature riposano. Il poeta invoca l’assistenza delle
Muse, perché lo aiutino a ricordare ciò che ha visto nel corso del suo viaggio.

Dubbi di Dante (10-42)

Dante si rivolge a Virgilio e gli esprime tutti i suoi dubbi sull’impresa che sta per affrontare. Ricorda che lo stesso
Virgilio cantò di Enea, il quale fu protagonista di una discesa agli inferi quando era ancora vivo: egli però avrebbe
contribuito alla fondazione di Roma, centro dell’impero romano e poi sede del Papato, quindi non è sorprendente
che Dio gli abbia concesso un tale privilegio. Anche San Paolo compì un viaggio nel mondo ultraterreno, al fine di
corroborare la fede nella religione cristiana di cui era zelante apostolo. Ma Dante non è Enea, né San Paolo, quindi
chi gli concede di intraprendere un viaggio simile? Egli ha dunque cambiato idea e vorrebbe recedere dal proposito
che ha assunto con tanta sicurezza alla fine del canto precedente.

Il racconto di Virgilio: l'incontro con Beatrice (43-74)

Virgilio risponde accusando Dante di viltà, rinfacciandogli di aver paura proprio come una bestia che si spaventa
vedendo la propria ombra. Per convincerlo della necessità di compiere il viaggio, gli spiega chi lo ha inviato in suo
soccorso: egli si trovava nel Limbo, tra le anime sospese, quando comparve a lui l’anima di una donna bellissima,
dagli occhi lucenti come una stella e che parlava con voce soave, al punto che lui le chiese di comandargli cosa
volesse. La donna si era rivolta a lui come al più grande poeta mai vissuto e gli aveva chiesto di soccorrere Dante,
l’uomo che lei aveva amato in modo disinteressato: Dante era alle prese con le tre fiere e stava per tornare indietro
dalla paura, quindi l’aiuto di Virgilio era quanto mai necessario. La donna si era presentata come Beatrice e aveva
detto di provenire dal Paradiso.

Il racconto di Beatrice: le tre donne benedette (75-120)

Virgilio racconta che aveva chiesto a Beatrice perché lei non temesse di scendere nell’Inferno, in mezzo alle anime
dannate. La donna aveva risposto che, essendo beata, non doveva temere la miseria dei dannati perché non in grado
di nuocerle. In Cielo la Vergine si era commossa all’idea che Dante corresse pericoli nella selva, quindi aveva
incaricato santa Lucia di intervenire in suo favore. Lucia si era rivolta a Beatrice, che sedeva accanto allo scanno di
Rachele, e le aveva spiegato che Dante, l’uomo da lei amato, lottava con la morte trascinato in basso dal peccato.
Beatrice era stata allora rapida nel lasciare il Paradiso e nel venire a chiedere aiuto a Virgilio: aveva terminato il suo
racconto piangendo, cosa che aveva spinto il poeta latino a correre nella selva per portare il suo soccorso a Dante.

L'esortazione di Virgilio (121-142)

Terminato il suo racconto, Virgilio si rivolge nuovamente a Dante per spronarlo a vincere i suoi dubbi. Fa leva sul
fatto che tre donne benedette (Maria, Lucia e Beatrice stessa) si curano di lui in Cielo, quindi deve superare la sua
paura e riacquistare forza e coraggio. Le parole di Virgilio hanno il loro effetto: Dante si rinvigorisce proprio come dei
fiorellini che il gelo notturno ha chiuso e che sono riaperti dal sole del mattino. Il poeta si rivolge di nuovo a Virgilio
ringraziandolo per aver risposto sollecitamente al richiamo di Beatrice, e felicitandosi del fatto che la donna si sia
presa a cuore la sua vicenda terrena. Ora Dante è tornato al proposito iniziale: prega Virgilio di continuare a guidarlo,
quindi lo segue con rinnovato slancio.

Parafrasi

l giorno era quasi finito, e l'oscurità toglieva gli animali che sono in terra dalle loro fatiche; e io ero il solo che mi
preparavo ad affrontare un cammino angoscioso e terribile, che la mia mente infallibile descriverà.

O muse, o alto ingegno poetico, aiutatemi; o mente, che annotasti quello che hai visto, qui dovrai dare
dimostrazione della tua nobiltà.

Io cominciai a dire: «Poeta che mi guidi, valuta se la mia virtù è sufficiente, prima di condurmi in questo arduo
viaggio.

Tu dici che il padre di Silvio (Enea), ancora in vita, andò nell'Aldilà in carne e ossa, con tutto il corpo.

Perciò, se il nemico di ogni male (Dio) fu cortese verso di lui, l'uomo e i suoi meriti non sembrano indegni a un uomo
dotato di intelletto, se si pensa all'alto effetto che doveva essere prodotto da lui; infatti egli fu scelto nell'Empireo
come fondatore della nobile Roma e del suo impero:

e Roma e il suo impero, a dire la verità, furono stabiliti come la santa sede dove risiede il successore del primo papa
(Pietro).

Grazie a questo viaggio che tu narri, Enea sentì cose che lo portarono poi alla vittoria e produssero il manto papale
(la nascita della Chiesa).
Vi andò poi (nell'Aldilà) ilo strumento della scelta (san Paolo), per rendere salda quella fede che è principio alla via
della salvezza.

Ma io perché dovrei andarci? chi lo concede? Io non sono Enea, né san Paolo; né io né nessun altro mi ritiene
all'altezza di questo compito.

Perciò, se accetto di seguirti, temo che il mio viaggio sia una follia. Sei saggio, comprendi meglio di come io possa
spiegare».

E come colui che non vuole più ciò che voleva, e cambia idea a causa di nuovi pensieri, cosicché recede totalmente
dai suoi propositi, così divenni io in quei luoghi oscuri, perché pensandoci sopra posi fine all'impresa che fu così
rapida all'inizio.

L'ombra di quel nobile uomo rispose così: «Se io ho capito bene le tue parole, la tua anima è vittima di viltà, la quale
molte volte opprime l'uomo e lo fa desistere da un'impresa onorevole, proprio come una falsa immagine fa
imbizzarrire una bestia quando si adombra.

Affinché tu ti liberi da questi timori, ti dirò perché sono venuto qui e quello che sentii nel primo momento che provai
per te dolore.

Io ero tra le anime sospese del Limbo, e mi chiamò una donna tanto beata e tanto bella che le chiesi di comandarmi.

I suoi occhi erano più lucenti di una stella e lei iniziò a parlarmi con tono dolce e soave, con una voce che sembrava il
linguaggio di un angelo:

"O nobile anima mantovana, di cui la fama ancora perdura nel mondo e durerà tanto quanto il mondo, colui che mi
amò in modo disinteressato (Dante) sul pendio deserto di un colle è impedito a tal punto che si è voltato indietro per
paura;

e temo che sia già smarrito a tal punto che io mi sono mossa troppo tardi per soccorrerlo, per quello che ho sentito
su di lui in cielo.

Ora muoviti, e con la tua parola elegante, e con ciò che è necessario per la sua salvezza, aiutalo in modo che io ne sia
consolata.

Io che ti faccio andare sono Beatrice; vengo da dove desidero tornare; l'amore mi ha fatto venire qui a parlarti.

Quando sarò davanti a Dio, spesso loderò il tuo nome". Allora tacque e io risposi:
"O donna virtuosa, l'unica per cui la specie umana si eleva al di sopra di tutto ciò che si trova sotto il cielo della Luna,
la tua richiesta mi trova così d'accordo che se anche avessi giù ubbidito sarebbe tardi; non devi fare altro che dirmi
quello che vuoi.

Ma dimmi il motivo per cui non hai timore nello scendere quaggiù, all'Inferno, dal luogo più ampio dove desideri
tornare".

Lei mi rispose: "Poiché vuoi maggiori dettagli, ti spiegherò in breve il motivo per cui non temo di venire qua dentro.

Si devono temere soltanto quelle cose che hanno il potere di fare male agli altri; le altre no, poiché non sono
spaventose.

Io sono resa da Dio, bontà sua, tale che la vostra miseria non mi tocca e nessuna fiamma dell'Inferno può
danneggiarmi.

Nel cielo c'è una donna nobile (Maria) che si duole di questo impedimento per il quale chiedo il tuo aiuto, così che
infrange il duro giudizio divino.

Costei chiese di parlare a Lucia e le disse: - Ora il tuo fedele ha bisogno di te e io a te lo raccomando -.

Lucia, nemica di ogni uomo crudele, si mosse e venne là dove io ero, seduta accanto all'antica Rachele.

Mi disse: - Beatrice, autentica lode di Dio, perché non soccorri colui che ti amò al punto da elevarsi al di sopra della
schiera volgare?

Non senti l'angoscia del suo pianto? non vedi la morte che combatte sul gorgo tempestoso del peccato? -

Al mondo non ci furono mai persone tanto rapide a perseguire il loro vantaggio o a fuggire il loro danno, quanto io,
dopo aver udito quelle parole, venni quaggiù dal mio scanno celeste, affidandomi alle tue parole nobili che onorano
te e quelli che le hanno udite".

Dopo che mi ebbe detto questo, girò gli occhi che brillavano per il pianto, il che mi indusse a venire più presto;

e venni da te come lei volle; ti soccorsi da quella belva (la lupa) che ti impedì una facile ascesa al colle.

Allora che c'è? perché, perché resti qui? perché coltivi in cuore tanta viltà? perché non hai coraggio e
determinazione, visto che queste tre donne benedette si preoccupano per te nella corte celeste e le mie parole ti
promettono ogni bene?»
Come dei fiorellini chiusi e rivolti in basso dal gelo notturno si drizzano tutti aperti sul loro stelo, dopo che il sole li ha
illuminati, così feci io con la mia stanca virtù, e al cuore mi venne tanto coraggio che iniziai a dire, come persona
rinfrancata:

«Oh donna pietosa che mi soccorse, e tu cortese che obbedisti subito alle parole autentiche che ti disse!

Tu, con le tue parole, mi hai disposto il cuore al desiderio di venire, al punto che che sono tornato al primo
proposito.

Adesso va, poiché entrambi vogliamo la stessa cosa: tu sei la mia guida, il mio signore, il mio maestro». Così gli dissi,
e dopo che si fu messo in cammino intrapresi il percorso arduo e selvaggio.

CANTO 5

Argomento del Canto

Ingresso nel II Cerchio. Incontro con Minosse. La pena dei lussuriosi; i morti violentemente per amore. Incontro
con Paolo e Francesca.
È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

Ingresso nel II Cerchio. Minosse (1-24)

Usciti dal Limbo, Dante e Virgilio entrano nel II Cerchio, meno ampio del precedente ma contenente molto più
dolore. Sulla soglia trovano Minosse, che ringhia con aspetto animalesco: è il giudice infernale, che ascolta le
confessioni delle anime dannate e indica loro in quale Cerchio siano destinate, attorcigliando intorno al corpo la
lunghissima coda tante volte quanti sono i Cerchi che il dannato deve discendere. Non appena vede che Dante è
vivo, lo apostrofa con durezza e lo ammonisce a non fidarsi di Virgilio, poiché uscire dall'Inferno non è così facile
come entrare. Virgilio lo zittisce ricordandogli che il viaggio di Dante è voluto da Dio.

I lussuriosi (25-72)
Superato Minosse, Dante si ritrova in un luogo buio, dove soffia incessante una terribile bufera che trascina i dannati
e li sbatte da un lato all'altro del Cerchio. Quando questi spiriti giungono davanti a una «rovina», emettono grida e
lamenti e bestemmiano Dio. Dante capisce immediatamente che si tratta dei lussuriosi, i quali volano per l'aria
formando una larga schiera simile agli stornelli quando volano in cielo.
Dante vede poi un'altra schiera di anime, che volano formando una lunga linea simile a delle gru in volo. Chiede
spiegazioni a Virgilio e il poeta latino indica al discepolo i nomi di alcuni dannati, che sono tutti lussuriosi morti
violentemente: tra questi ci sono Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena (moglie di Menelao), Achille, Paride,
Tristano, in compagnia di più di mille altre anime. Dopo aver sentito tutti questi nomi, Dante è colpito da profonda
angoscia e per poco non si smarrisce.

Incontro con Paolo e Francesca (73-108)

Dante nota che due di queste anime volano accoppiate e manifesta il desiderio di parlare con loro. Virgilio
acconsente e invita Dante a chiamarle, cosa che il poeta fa con un appello carico di passione. I due spiriti si staccano
dalla schiera di anime e volano verso di lui, come due colombe che vanno verso il nido: sono un uomo e una donna, e
quest'ultima si rivolge a Dante ringraziandolo per la pietà che dimostra verso di loro. Poi si presenta, dicendo di
essere nata a Ravenna e di essere stata legata in vita da un amore indissolubile con l'uomo che ancora le sta accanto
nella morte; furono entrambi assassinati e la Caina, la zona del IX Cerchio dove sono puniti i traditori dei parenti,
attende il loro uccisore.

Il racconto di Francesca. Dante sviene (109-142)


A questo punto Dante resta turbato e per alcuni momenti resta in silenzio, gli occhi bassi. Virgilio gli chiede a cosa
pensi e Dante risponde di essere colpito dal desiderio amoroso che condusse i due dannati alla perdizione. Poi parla
a Francesca, chiamandola per nome, e chiedendole in quali circostanze sia iniziata la loro relazione adulterina.
Francesca risponde dapprima che è doloroso ricordare del tempo felice quando si è miseri, ma se Dante vuole sapere
l'origine del loro amore allora glielo racconterà. La donna narra che un giorno lei e Paolo leggevano per divertimento
un libro, che parlava di Lancillotto e della regina Ginevra. Più volte la lettura li aveva indotti a cercarsi con lo sguardo
e li aveva fatti impallidire. Quando lessero il punto in cui era descritto il bacio dei due amanti, anch'essi si baciarono e
interruppero la lettura del libro, che fece da mezzano della loro relazione amorosa. Mentre Francesca parla, Paolo
resta in silenzio e piange; Dante è sopraffatto dal turbamento e sviene.

Parafrasi

Così discesi dal I Cerchio al II, che cinge uno spazio minore, ma contiene tanto maggior dolore che spinge a
lamentarsi.

Minosse sta orribilmente sulla soglia e ringhia: esamina le colpe dei dannati che si presentano; li giudica e li destina a
seconda di come attorcigli la coda.

Dico che quando l'anima dannata si presenta davanti a lui, rende piena confessione; e quel conoscitore dei peccati
stabilisce in quale zona dell'Inferno debba andare; si cinge con la coda tante volte quanti sono i Cerchi che il dannato
deve discendere.

Davanti a lui ci sono sempre moltissime anime; una dopo l'altra vanno a sottoporsi al suo giudizio; parlano e
ascoltano, poi sono precipitati giù.

E Minosse, quando mi vide, mi disse questo, tralasciando un momento il suo alto compito: «O tu che vieni in questo
luogo di dolore, bada al modo in cui entri e a chi ti stai affidando! Non ti inganni la facilità dell'ingresso!» E Virgilio
rispose: «Perché continui a gridare?

Non impedire il suo viaggio voluto da Dio: si vuole così in Cielo, dove è possibile tutto ciò che si vuole, quindi non dire
altro».

Ora inizio a sentire le note dolenti; ora sono giunto in un luogo dove molta sofferenza mi colpisce.

Io giunsi in un luogo totalmente buio, che risuona come il mare in tempesta quando soffiano venti contrari.

La bufera infernale, che è incessante, trascina rapinosamente le anime; li tormenta sbattendoli e percuotendoli.

Quando arrivano davanti alla rovina, allora emettono urla, pianti, lamenti; qui bestemmiano Dio.

Capii che a questa pena sono dannati i peccatori di lussuria, che sottomettono la ragione al piacere.

E come d'inverno gli stornelli sono trasportati in volo dalle loro ali, formando una larga schiera, così quel vento
trasporta gli spiriti malvagi;
li trascina qua e là, su e giù; non hanno alcuna speranza che li conforti, né di riposo né di una diminuzione della pena.

E come le gru emettono i loro lamenti, formando in cielo una lunga riga, così vidi venire sospirando delle anime,
trasportate da quella tempesta; allora dissi: «Maestro, chi sono quelle anime castigate così dalla oscura bufera?»

«La prima di coloro di cui vuoi avere notizie,» mi rispose allora Virgilio, «fu imperatrice di molti popoli.

Fu così dedita al vizio di lussuria, che rese lecito nella sua legge tutto ciò che le piaceva, per eliminare la condanna
morale che le spettava.

Ella è Semiramide, di cui si legge che fu sposa di Nino al quale poi succedette: governò la terra che ora è governata
dal Soldano.

L'altra è colei che si suicidò per amore (Didone), e non tenne fede alla memoria del marito Sicheo; poi c'è la lussuriosa
Cleopatra.

Vedi Elena, per cui si combatté una lunga e sanguinosa guerra, e vedi il grande Achille, che combatté a scopi amorosi.

Vedi Paride, Tristano»; e mi indicò col dito più di mille anime, che morirono a causa dell'amore.

Dopo aver sentito il mio maestro nominare le donne antiche e i cavalieri, fui presto da turbamento e quasi mi smarrii.

Cominciai: «Poeta, parlerei volentieri a quei due che volano insieme e sembrano essere trasportati tanto lievemente
dal vento».

Mi rispose: «Aspetta quando saranno più vicini a noi: allora pregali in nome di quell'amore che li trascina ed essi
verranno».

Non appena il vento li portò verso di noi, iniziai a parlare: «O anime affannate, venite a parlarci se Dio ve lo
consente!»

Come le colombe chiamate dal desiderio volano verso il dolce nido (per accoppiarsi), con le ali ferme e alzate, portate
dal desiderio, allo stesso modo i due uscirono dalla schiera di Didone, venendo a noi attraverso l'aria infernale, tanto
forte e affettuoso fu il mio richiamo.

«O creatura cortese e benevola, che nell'aria oscura visiti noi che tingemmo il mondo di sangue, se il re dell'universo
ci fosse amico lo pregheremmo perché ti dia pace, visto che mostri pietà del nostro terribile male.
Noi vi ascolteremo e vi parleremo di ciò che volete, mentre il vento tace come fa in questo punto.

La terra dove sono nata (Ravenna) sorge alla foce del Po, dove il fiume si getta in mare per trovare pace coi suoi
affluenti.

L'amore, che si attacca subito al cuore nobile, prese costui per il bel corpo che mi fu tolto, e il modo ancora mi
danneggia.

L'amore, che non consente a nessuno che sia amato di non ricambiare, mi prese per la bellezza di costui con tale
forza che, come vedi, non mi abbandona neppure adesso.

L'amore ci condusse alla stessa morte: Caina attende colui che ci uccise». Essi ci dissero queste parole.

Quando io sentii quelle anime offese, chinai lo sguardo e lo tenni basso così a lungo che alla fine Virgilio mi disse:
«Cosa pensi?»

Quando risposi, dissi: «Ahimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio portarono questi due al passo doloroso!»

Poi mi rivolsi a loro e parlai dicendo: «Francesca, le tue pene mi rendono triste e mi spingono a piangere.

Ma dimmi: al tempo della vostra relazione, in che modo e in quali circostanze Amore vi concesse di conoscere i
dubbiosi desideri?»

E lei mi disse: «Non c'è nessun dolore più grande che ricordare il tempo felice quando si è miseri; e questo lo sa bene
il tuo maestro.

Ma se tu hai tanto desiderio di conoscere l'origine del nostro amore, allora farò come colui che piange e parla al
tempo stesso.

Un giorno noi leggevamo per svago il libro che narra di Lancillotto e di come amò Ginevra; eravamo soli e non
sospettavamo quel che sarebbe successo.

Più volte quella lettura ci spinse a cercarci con gli occhi e ci fece impallidire; ma fu solo un punto a sopraffarci.

Quando leggemmo che la bocca desiderata di Ginevra fu baciata da un simile amante, costui, che non sarà mai diviso
da me, mi baciò la bocca tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse; quel giorno non leggemmo altre pagine».

Mentre uno spirito diceva questo, l'altro piangeva, così che io venni meno a causa del turbamento, proprio come se
morissi. E caddi come un corpo privo di vita.
CANTO 10

Argomento del Canto

Ancora nella città di Dite, pena degli eresiarchi. Incontro con Farinata Degli Uberti, discorso politico su Firenze.
Apparizione di Cavalcante dei Cavalcanti. Profezia di Farinata sull'esilio di Dante. Virgilio conforta Dante
promettendogli le spiegazioni di Beatrice. I due poeti arrivano in prossimità del VII Cerchio.
È la notte di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.

I sepolcri degli epicurei (1-21)

Virgilio guida Dante fra le tombe della città di Dite, costeggiando il lato interno delle mura. Dante è incuriosito e
chiede al maestro se sia possibile vedere le anime che giacciono nei sepolcri, dal momento che i coperchi sono
sollevati e non ci sono demoni a custodire le arche. Virgilio risponde che le tombe saranno chiuse in eterno il giorno
del Giudizio Universale, quando le anime risorte si saranno riappropriate del corpo nella valle di Iosafat. Spiega
inoltre che in questa sorta di cimitero giacciono tutti i seguaci di Epicuro, che hanno proclamato la mortalità
dell'anima, e promette a Dante che sarà presto soddisfatto il desiderio che gli ha espresso e un altro che non ha
svelato, ovvero di sapere se lì c'è l'anima di Farinata Degli Uberti. Dante si giustifica dicendo che se gli tiene celati
alcuni desideri è solo per evitare di parlare a sproposito, cosa cui lo stesso Virgilio lo ha abituato.

Incontro con Farinata (22-51)

D'improvviso una voce proveniente da una delle tombe apostrofa Dante, identificandolo come toscano e pregandolo
di trattenersi poiché il suo accento lo indica come originario della sua stessa città. Dante ne ha timore e si stringe a
Virgilio, il quale però lo invita a voltarsi e a guardare Farinata, che si è sollevato in una delle tombe ed è visibile da la
cintola in sù. Dante obbedisce e vede il dannato che si erge con la fronte e il petto alti, come se disprezzasse tutto
l'Inferno, quindi Virgilio lo spinge verso di lui e gli raccomanda di parlare dignitosamente.
Non appena Dante giunge ai piedi del sepolcro di Farinata, questi gli domanda chi fossero i suoi antenati. Il poeta
rivela la sua discendenza e Farinata osserva che gli avi di Dante furono aspri nemici di lui, dei suoi antenati e della
sua parte politica (i Ghibellini), tanto che li cacciò per due volte da Firenze. Dante ribatte prontamente che, se essi
furono cacciati, seppero rientrare in città entrambe le volte, mentre non si può dire lo stesso degli avi di Farinata.

Spiegazione:

Infatti chiede a Dante chi siano i suoi antenati, per capire a quale fazione appartenga, e quando il poeta si manifesta
come Guelfo il dannato gli ricorda subito di essere stato un Ghibellino e di aver sconfitto i Guelfi per ben due volte,
nel 1248 e nel 1260, nella celebre battaglia di Montaperti.

Dante si sente punto sul vivo e ribatte prontamente che i Guelfi seppero tornare a Firenze in entrambi i casi, ovvero
nel 1250 e soprattutto nel 1266, dopo Benevento. La risposta piccata di Dante è degna di un «contrasto» o di uno
scambio polemico di accuse: dopo la parentesi di Cavalcante, infatti, sarà ancora Farinata a rispondere «per le rime»
col profetizzare a Dante che di lì a quattro anni, nel 1304, la sconfitta nella battaglia della Lastra impedirà agli esuli
fiorentini di rientrare in città, profetizzandogli così indirettamente l'esilio per colpirlo sul piano personale.

A Farinata sta a cuore unicamente la dimensione politica ed è evidente in lui il rimpianto per il dolce mondo e la sua
città, specie quando chiede a Dante il motivo di tanto accanimento di Firenze contro i membri della sua famiglia. La
risposta di Dante fa riferimento al disastro di Montaperti, ovvero la sconfitta guelfa che fu sempre ricordata come un
bagno di sangue ('l grande scempio / che fece l'Arbia colorata in rosso) e che indusse a pronunciare tale orazion nel...
tempio, ovvero a emanare duri provvedimenti contro tutti i discendenti di Farinata. Questi ribatte che ci fu una
ragione per quello scontro, rivendicando il merito di essersi opposto alla distruzione di Firenze che i capi ghibellini
avevano ipotizzato.

L'episodio di Cavalcante, il padre del poeta Guido Cavalcanti che interrompe il dialogo tra i due, è solo
apparentemente fuori tono rispetto al tema fondamentale: i due erano stati avversari politici, poiché Cavalcante era
di parte guelfa (fu esiliato nel 1260, rientrò a Firenze nel 1266), quindi la sua vicenda personale ricalca i temi del
colloquio fra Dante e il Ghibellino. Inoltre entrambi, Farinata e Cavalcante, sono incapaci di comprendere le vere
ragioni della loro dannazione, in quanto il primo è ancora tutto preso dagli odi di parte e dalle lotte politiche, il
secondo chiede a Dante perché il figlio non lo accompagni in questo viaggio straordinario che lui ritiene che Dante
faccia per altezza d'ingegno. Entrambi sono epicurei, quindi hanno una visione materiale della vita che esclude la
dimensione trascendente ed è proprio questo a provocare il grottesco equivoco che causa la disperazione di
Cavalcante. Dante, infatti, risponde in modo ambiguo dicendo Da me stesso non vegno: / colui ch'attende là, per qui
mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno. L'ambiguità sta nel pronome cui, che può significare «a colei che»
oppure «a colui che»: Dante intende dire probabilmente che Virgilio lo guida attraverso l'Inferno a colei (Beatrice)
che, forse, Guido ebbe a disdegno (e il disdegno potrebbe essere il disdor trobadorico verso la Beatrice terrena,
benché di questo non vi siano conferme certe e quindi Dante potrebbe riferirsi a un episodio di ambiente stilnovista
che non ci è noto). In tal caso è perfettamente normale l'uso del passato ebbe, poiché la Beatrice terrena è morta nel
1290: Dante, allegoricamente, vuol dire che la ragione lo guida alla salvezza e alla grazia, che forse Guido disprezzò
essendo anche lui vicino all'epicureismo.

Cavalcante invece equivoca e crede che Dante dica che Virgilio lo guida a colui che Guido ebbe a disdegno, cioè
probabilmente a Dio: in tal caso l'uso del passato ebbe non è giustificato in alcun modo, tranne nel caso in cui Guido
fosse già morto. Da qui la sua disperazione e l'esitazione di Dante che sa da Ciacco che i dannati possono antivedere
il futuro, quindi non comprende come possa Cavalcante non sapere che il figlio Guido nella primavera del 1300 fosse
vivo e vegeto (morirà nell'agosto dello stesso anno).

L'equivoco serve a chiarire che Cavalcante non comprende nulla del viaggio allegorico di Dante, essendo totalmente
sordo a tutto ciò che riguarda la fede cristiana, la grazia e la salvezza rappresentate da Beatrice. Non meno sordo è
Farinata, che riprende il colloquio interrotto senza fare una piega per quanto accaduto e si mostra ansioso solo di
rintuzzare l'attacco politico di Dante, profetizzandogli l'esilio che lo attende di lì a pochi anni. Sarà lo stesso Farinata a
sciogliere l'equivoco creatosi col compagno di pena, spiegando a Dante che i dannati possono prevedere solo gli
eventi lontani, mentre quelli imminenti o presenti sono per loro invisibili.

La conclusione del Canto è la logica conseguenza di questo discorso, con Virgilio che ricorda a Dante che sarà proprio
Beatrice a spiegargli nel dettaglio la sua vita futura, quindi rammentando che la grazia, non la sola conoscenza
razionale, è l'obiettivo del viaggio dantesco. Per l'ennesima volta viene ribadito che la sola filosofia razionale è
insufficiente a salvarsi, come ben dimostra la presenza nel Cerchio di illustri pensatori quali Epicuro, Federico II, il
cardinale Ottaviano degli Ubaldini, tutti destinati a essere chiusi in eterno nelle loro tombe infuocate il giorno del
Giudizio, dopo essersi rivestiti delle loro carni (e il Giudizio viene citato da Virgilio in apertura di Canto come da
Farinata in conclusione, a voler dire che la sentenza finale sarà implacabile con tutti quelli che pretendono di arrivare
alla salvezza eterna solo per altezza d'ingegno).

Apparizione di Cavalcante (52-72)


D'improvviso accanto a Farinata emerge un altro dannato, che si sporge fino al mento come se fosse inginocchiato.
Lo spirito si guarda intorno con ansia, cercando qualcuno accanto a Dante che però non vede. Alla fine, piangendo,
chiede a Dante dove sia suo figlio e perché non accompagni il poeta in questo viaggio, se Dante è lì per l'altezza del
suo ingegno. Dante comprende subito che si tratta di Cavalcante dei Cavalcanti, padre del suo amico Guido, e
risponde che in realtà lui  è lì non solo per i suoi meriti e indica Virgilio come colui destinato a guidarlo a qualcuno
che, forse, il figlio di Cavalcante ebbe a disdegno. Cavalcante si alza allarmato e chiede a Dante se davvero suo figlio
Guido sia morto: poiché il poeta tarda a rispondere, il dannato precipita nuovamente nella tomba per non tornare
più fuori.

Prosegue il colloquio con Farinata (73-93)

Farinata, per nulla scomposto dall'accaduto, prosegue il suo discorso con Dante riprendendo esattamente da dove
l'avevano interrotto e dice che se i suoi avi non seppero rientrare in Firenze dopo la cacciata, ciò gli provoca più
dolore delle pene infernali. Tuttavia non passeranno più di quattro anni fino al momento in cui anche Dante saprà
quanto pesa non poter tornare nella propria città. Il dannato chiede poi per quale motivo il Comune di Firenze è così
duro in ogni sua legge contro la sua famiglia e Dante risponde che ciò è per il ricordo della battaglia di Montaperti,
che arrossò di sangue il fiume Arbia. Farinata osserva sconsolato che a quella battaglia non partecipò lui solo, mentre
fu l'unico a opporsi alla distruzione di Firenze in seguito alla vittoria dei Ghibellini.

Spiegazione di Farinata sulla preveggenza dei dannati (94-123)


Dante chiede a Farinata di risolvergli un dubbio, relativo alla facoltà che gli sembra abbiano i dannati di prevedere il
futuro e che ha causato la sua precedente esitazione nel rispondere a Cavalcante. Farinata spiega che i dannati
vedono, sì, il futuro, ma in modo imperfetto, riuscendo a scorgere gli eventi solo quando sono molto lontani; quando
si avvicinano nel tempo o stanno avvenendo diventano loro invisibili e non sono in grado di saperne nulla, a meno
che altri non portino loro delle notizie. Perciò alla fine dei tempi, dopo il Giudizio Universale, la loro conoscenza del
futuro sarà del tutto annullata. Dante comprende l'errore commesso e prega Farinata di informare Cavalcante che
suo figlio Guido è in realtà ancora nel mondo dei vivi.
Virgilio richiama Dante, che perciò si affretta a domandare al dannato con chi condivida la sua pena nella tomba.
Farinata risponde di giacere lì con più di mille anime, tra cui quelle di Federico II di Svevia e del cardinale Ottaviano
degli Ubaldini, mentre tace degli altri. A quel punto Farinata rientra nel sepolcro e Dante segue Virgilio, ripensando
tristemente alla profezia dell'esilio.

Virgilio conforta Dante (124-136)

Dopo un po' Virgilio chiede a Dante la ragione del suo smarrimento e il discepolo svela le sue preoccupazioni. Virgilio
ammonisce Dante a rammentare quello che ha udito contro di sé e gli promette che quando sarà giunto in Paradiso,
di fronte a Beatrice, lei gli fornirà ogni spiegazione relativa alla sua vita futura. Poi il poeta latino si volge a sinistra e
lascia le mura per imboccare un sentiero che conduce alla parte esterna del Cerchio, da dove si leva un puzzo
estremamente spiacevole.

Parafrasi

A quel punto il mio maestro procedette per un sentiero nascosto, tra le mura e le tombe, e io lo seguii.

Gli chiesi: «O sommo sapiente, che mi conduci per i Cerchi infernali, ti prego di rispondermi e soddisfare il mio
desiderio.

SI potrebbero vedere i dannati che giacciono nelle tombe? Tutti i coperchi sono sollevati e nessun demone fa loro la
guardia».

E lui a me: «Saranno tutti richiusi quando le anime torneranno qui dalla valle di Giosafat coi corpi che hanno lasciato
sulla Terra.

In questo punto del cimitero sono puniti Epicuro e tutti i suoi seguaci, che proclamano la mortalità dell'anima.

Perciò ben presto sarà soddisfatto il desiderio che mi hai svelato, e anche quell'altro (vedere Farinata) che tu non vuoi
dirmi».

E io: «Mia buona guida, io non ti nascondo i miei pensieri se non per parlare poco, e sei stato proprio tu a
insegnarmelo in varie occasioni».

«O toscano, che te ne vai per la città del fuoco parlando in modo così dignitoso, abbi la compiacenza di trattenerti.
Il tuo accento indica che sei nato in quella nobile patria alla quale, forse, fui troppo fastidioso».

Questa voce uscì improvvisamente da una delle tombe, per cui ebbi paura e mi strinsi un poco al mio maestro.

Ed egli mi disse: «Voltati, che fai? Non vedi laggiù Farinata che si è sollevato? Lo puoi vedere dalla cintola in su».

Io avevo già fitto il mio sguardo nel suo; e lui si ergeva con la fronte e il petto alti, come se disprezzasse tutto
l'Inferno.

E le mani di Virgilio, pronte e animose, mi spinsero fra le tombe verso di lui, mentre il maestro diceva: «Fa' che le tue
parole siano misurate».

Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi guardò un poco e poi, quasi con disdegno, mi domandò: «Chi furono i
tuoi avi?»

Io, che ero smanioso di obbedire, non glieli nascosi ma, anzi, risposi pienamente; allora lui sollevò un poco le ciglia,
poi disse: «Essi furono aspri nemici miei, dei miei avi e della mia parte politica (Ghibellini), al punto che per due volte
li cacciai da Firenze».

Io gli risposi: «Se essi furono cacciati, tornarono poi da ogni parte, in entrambe le occasioni; ma i vostri avi, invece,
non furono altrettanto bravi».

In quel momento apparve alla nostra vista un'anima, che si sporgeva accanto a quella di Farinata fino al mento:
credo che fosse inginocchiata.

Mi guardò intorno, come se avesse desiderio di vedere se c'era qualcun altro con me; e poi che smise di osservare, mi
disse piangendo: «Se tu vai per questo cieco carcere per i tuoi meriti di intellettuale, dov'è mio figlio? E perché non è
qui con te?»

E io a lui: «Non sono qui per mio solo merito: colui che attende là (Virgilio) mi conduce attraverso l'Inferno verso colei
(Beatrice) che vostro figlio Guido, forse, ebbe a disdegno (disprezzò)».

Le sue parole e il fatto che fosse tra gli Epicurei mi avevano fatto capire il nome di costui (Cavalcante); perciò risposi
così prontamente.

E lui, improvvisamente sollevatosi, gridò: «Come? Hai detto "egli ebbe"? Guido non vive ancora? la dolce luce del sole
non colpisce più i suoi occhi?»

Quando si accorse che esitavo a rispondere, ricadde supino e non ricomparve più fuori dalla tomba.

Ma quell'altro nobile dannato, alla cui domanda mi ero fermato, non mutò aspetto, né parve minimamente colpito
dall'accaduto:
e proseguendo il discorso iniziato, disse: «Se i miei avi hanno appreso male l'arte di rientrare in Firenze, ciò mi
procura più sofferenza di questa tomba.

Ma non passeranno cinquanta fasi lunari (meno di quattro anni) che anche tu saprai quant'è dolorosa quell'arte.

E ora dimmi (e possa tu tornare nel dolce mondo terreno): perché i fiorentini sono così duri in ogni loro
provvedimento contro la mia famiglia?»

E io a lui: «Lo strazio e l'orrenda strage di Montaperti, che colorarono di rosso il fiume Arbia, ci induce a emanare
queste leggi».

Dopo che ebbe scosso il capo sospirando, disse: «Non fui certo il solo a combattere quella battaglia, né certo ci sarei
andato senza una valida ragione.

In compenso fui l'unico a difendere Firenze a viso aperto, quando ciascun capo ghibellino era pronto a raderla al
suolo».

Allora lo pregai: «Orsù, possa la vostra discendenza trovare pace: risolvetemi quel dubbio che aggroviglia i miei
ragionamenti.

Mi sembra che voi dannati vediate, se ho capito bene, gli eventi futuri, mentre abbiate altra conoscenza del
presente».

Disse: «Noi, come chi ha un difetto di vista (presbite), vediamo le cose che sono lontane nel tempo; soltanto questo ci
permette Dio.

Quando le cose si avvicinano o accadono, il nostro intelletto è vano e se altri non ci porta notizie, non sappiamo nulla
della vostra condizione umana.

Perciò puoi capire che la nostra conoscenza (del futuro) sarà totalmente annullata dal momento in cui sarà chiusa la
porta del futuro, ovvero il giorno del Giudizio».

Allora, come pentito della mia colpa, dissi: «Poi direte a quel dannato che suo figlio è ancora in vita;

e se poc'anzi non gli diedi subito risposta, ditegli che lo feci perché ero nell'errore che voi mi avete spiegato».

E ormai Virgilio mi richiamava; perciò pregai in fretta lo spirito che mi dicesse  chi erano i suoi compagni di pena.

Mi rispose: «Qui giaccio con più di mille dannati: qua dentro è Federico II di Svevia, nonché il cardinale Ottaviano
degli Ubaldini; non ti dico nulla degli altri».

Quindi tornò nella tomba; e io mi incamminai verso l'antico poeta, ripensando a quelle parole che mi sembravano
ostili.
Virgilio si mosse; e poi, mentre camminava, mi disse: «Perché sei così turbato?» E io glielo spiegai.

Quel saggio mi comandò: «La tua mente ricordi bene ciò che hai sentito contro di te. E ora ascolta,» e drizzò il dito:
«quando sarai davanti al dolce raggio di colei che coi suoi begli occhi vede ogni cosa (Beatrice), saprai da lei il tuo
destino futuro».

Quindi si volse a sinistra: ci allontanammo dal muro e ci dirigemmo verso l'orlo esterno del Cerchio, per un sentiero
che conduce a una valle da cui fin lassù arrivava un gran puzzo.

CANTO 13

Argomento del Canto

Ingresso nel II girone del VII Cerchio, nella selva dei suicidi. Descrizione delle Arpie. Incontro con Pier della Vigna.
Apparizione degli scialacquatori, tra cui Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea. Incontro con un suicida di Firenze.

È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.

La selva dei suicidi (1-21)

Nesso non è ancora tornato sull'altra sponda del Flegetonte, quando Dante e Virgilio si incamminano per una orribile
selva, in cui il fogliame è oscuro, i rami sono contorti e al posto dei frutti ci sono spine velenose. I luoghi più selvaggi
della Maremma non hanno una boscaglia così aspra, mentre qui le Arpie nidificano tra gli alberi e hanno grandi ali,
visi umani e zampe artigliate, con cui producono lamenti tra le piante. Virgilio spiega a Dante che si trova nel
secondo girone del VII Cerchio, dove la selva si estende sino al sabbione infuocato del girone seguente. Lo invita poi
a guardare bene ciò che si trova nel bosco, perché vedrà cose incredibili a sentirne parlare.

Incontro con Pier della Vigna (22-54)

Dante sente levarsi dei lamenti da ogni parte e non vede chi li emette, perciò si ferma e rimane confuso. Egli crede
che degli spiriti si nascondano tra le piante, ma Virgilio (che ha intuito l'errore del discepolo) lo invita a spezzare un
ramoscello da uno degli alberi. Dante obbedisce e appena ha spezzato il ramo di un albero, dal tronco esce la voce di
uno spirito che lo accusa di essere impietoso, mentre dal fusto esce sangue nero. Dal tronco spezzato escono le
parole, simili ad un soffio, e insieme il sangue, cosa che induce Dante a lasciar cadere a terra il ramo e a restare in
attesa, pieno di timore.

Virgilio prende la parola e dice all'anima imprigionata nell'albero di essere stato costretto a indurre Dante a
compiere quel gesto, perché solo così egli avrebbe compreso ciò che lui stesso aveva cantato nei versi dell'Eneide.
Quindi invita il dannato a manifestarsi e a raccontare la sua storia, affinché Dante, tornato sulla Terra, possa risarcirlo
del danno subìto restaurando la sua fama.

Racconto di Pier della Vigna (55-78)

A questo punto il dannato dichiara che l'offerta è troppo allettante per rifiutarla, quindi inizia a raccontare la sua
storia. Egli si presenta come colui (Pier della Vigna) che fu intimo collaboratore di Federico II di Svevia, tanto fedele
da diventarne il solo depositario di tutti i segreti. Aveva svolto il suo incarico con lealtà e dedizione, al punto da
perderne la serenità e la vita: infatti il suo zelo aveva acceso contro di lui l'invidia dei cortigiani, i quali sobillarono il
sovrano e lo indussero ad accusarlo di tradimento. In seguito Pier della Vigna si era tolto la vita, credendo in tal
modo di sfuggire allo sdegno del sovrano e finendo per passare dalla ragione al torto. L'anima conclude il racconto
giurando sulle radici della pianta in cui è rinchiuso di essere innocente dell'accusa rivoltagli a suo tempo, pregando
Dante di confortare la sua memoria se mai ritornerà nel mondo.

Spiegazione di come i suicidi si tramutino in piante (79-108)

Virgilio resta un attimo in silenzio, quindi invita Dante a rivolgere altre domande al dannato. Il discepolo si dice
troppo turbato per rivolgere la parola allo spirito, quindi è Virgilio che chiede a Pier della Vigna in che modo l'anima
del suicida venga imprigionata dentro gli alberi sella selva e se accade talvolta che qualcuna di esse ne fuoriesca. Il
tronco emette nuovamente un soffio d'aria, quindi la voce spiega che quando l'anima del suicida si separa dal corpo
e giunge davanti a Minosse, il giudice infernale, questi la manda al VII Cerchio. Qui essa cade in un punto qualsiasi e
germoglia formando una pianta selvatica. Le Arpie, poi, nutrendosi delle foglie dell'albero, producono ulteriore
sofferenza alle anime. Il giorno del Giudizio Universale, spiega ancora il dannato, essi andranno a riprendere le loro
spoglie mortali ma non le rivestiranno: porteranno i corpi nella selva, dove ciascuna anima appenderà il proprio
all'albero dove è imprigionata, poiché non è giusto riavere ciò che ci si è tolto violentemente.

Apparizione degli scialacquatori (109-129)

Dante e Virgilio sono ancora accanto all'albero di Pier della Vigna, quando entrambi sentono dei rumori all'interno
della selva, simili allo stormire del fogliame quando, in un bosco, c'è una battuta di caccia al cinghiale. Subito dopo
vedono due dannati che corrono tra la boscaglia, nudi e graffiati, che rompono rami e frasche. Quello davanti (Lano
da Siena) è più veloce, mentre quello dietro (Iacopo da Sant'Andrea) è più lento e si nasconde accanto a un basso
cespuglio. Poco dopo è raggiunto da delle cagne nere, che fanno a brandelli lui e l'arbusto dove ha tentato di celarsi,
quindi ne portano via le carni maciullate.

Un fiorentino suicida (130-151)

Virgilio allora prende per mano Dante e lo conduce accanto al cespuglio, dal quale esce sangue e insieme ad esso la
voce del suicida imprigionato all'interno. Il dannato rimprovera lo scialacquatore che gli ha causato danno e dolore,
poi Virgilio si rivolge al suicida e gli chiede di manifestarsi. Egli chiede anzitutto ai due poeti di raccogliere i suoi rami
spezzati ai piedi dell'arbusto, quindi rivela di essere originario di Firenze, città che mutò il proprio protettore da
Marte a san Giovanni Battista e per questo è vittima di continue guerre (solo la statua del dio pagano sull'Arno, di cui
sopravvive un frammento, la preserva dalla totale distruzione). Il dannato conclude dicendo di essersi impiccato
nella propria casa.

Parafrasi

Nesso non era ancora arrivato sull'altra sponda (del Flegetonte), quando noi ci incamminammo attraverso un bosco
in cui non c'era nessun sentiero.

Le foglie non erano verdi, ma di colore scuro; i rami non erano lisci, ma nodosi e contorti; non c'erano frutti, ma spine
velenose.

Quelle belve selvagge che in Maremma, tra Cecina e Corneto, evitano i luoghi abitati, non hanno sterpi così aspri né
così intricati.

Qui nidificano le sudicie Arpie, che cacciarono dalle isole Strofadi i Troiani preannunciando loro delle tristi disgrazie.

Esse hanno grandi ali, colli e volti umani, zampe artigliate e un gran ventre piumato; emettono lamenti sugli strani
alberi.
E il buon maestro cominciò a dirmi: «Prima che tu ti addentri nella selva, sappi che sei nel secondo girone e vi resterai
finché entreremo nel sabbione infuocato. Perciò guarda bene, perché vedrai cose che non sarebbero credute se mi
limitassi a dirtele».

Io sentivo levarsi lamenti da ogni parte, ma non vedevo nessuno che li emettesse; allora mi fermai, confuso.

Io credo che Virgilio credette che io credessi che tra quei cespugli uscissero tante voci, emesse da anime che si
nascondevano da noi.

Perciò il maestro disse: «Se tu spezzi qualche ramoscello da una di queste piante, i tuoi pensieri non avranno più
ragion d'essere».

Allora stesi un poco la mano e strappai un ramoscello da un gran pruno; e il suo tronco gridò: «Perché mi spezzi?»

Dopo aver perso sangue nero, ricominciò a dire: «Perché mi laceri? non hai alcuno spirito di pietà?

Fummo uomini, e adesso siamo diventati cespugli: la tua mano sarebbe certamente più pietosa, se anche fossimo
state anime di serpenti».

Come quando si brucia un ramoscello verde da una delle estremità, e dall'altra cola la linfa e si sente un cigolio in
quanto esce dell'aria, così dal ramo rotto uscivano insieme parole e sangue; allora io lasciai cadere il ramo spezzato e
restai lì pieno di timore.

Il mio maestro rispose: «Se egli avesse potuto credere ciò che ha letto solo nei miei versi, anima offesa, (Dante) non
avrebbe certo levato la mano contro di te; ma la cosa incredibile mi costrinse a indurlo a un'azione che pesa anche a
me.

Ma digli chi fosti in vita, così che per rimediare lui possa restaurare la tua fama nel mondo terreno, dove può
tornare».

E il tronco: «Con le tue dolci parole mi alletti in tal modo che non posso stare zitto; e a voi non sia fastidioso se io mi
attardo un po' a parlare di me.
Io sono colui che tenni entrambe le chiavi del cuore di Federico II, e che le usai così bene nel chiudere e nell'aprire che
esclusi dai suoi segreti quasi tutti (divenni il suo più fidato consigliere): fui fedele al mio alto incarico, al punto che
persi per questo la pace e la vita.

La prostituta (invidia) che non distolse mai gli occhi disonesti dalla reggia dell'imperatore, e che è morte di tutti e
vizio delle corti, infiammò tutti gli animi (dei cortigiani) contro di me; ed essi infiammarono a loro volta l'imperatore,
al punto che i miei onori si trasformarono in lutti (caddi in disgrazia).

Il mio animo, spinto da un amaro piacere, credendo di sfuggire il disonore con la morte, mi rese ingiusto contro me
stesso, che pure non avevo colpe.

Per le nuove radici di questo albero, vi giuro che non fui mai infedele al mio signore, che fu tanto degno di onore.

E se qualcuno di voi tornerà nel mondo terreno, riabiliti la mia memoria, che ancora soffre del colpo subìto a causa
dell'invidia».

Virgilio rimase un poco in silenzio, poi mi disse: «Dal momento che tace, non perdere tempo; parla e chiedigli quello
che vuoi».

E io a lui: «Domandagli tu ancora di quegli argomenti che credi possano interessarmi; io non potrei, tanto è il
turbamento che provo».

Allora Virgilio riprese: «Possa realizzarsi ciò che le tue parole hanno richiesto grazie all'azione spontanea (di Dante), o
spirito imprigionato: ti prego ancora di dirci come l'anima si lega a questi tronchi, e dicci, se puoi, se mai accade che
qualcuna si liberi da queste piante».

Allora il tronco soffiò forte e poi quell'aria si tramutò in queste parole: «Vi risponderò in breve.
Quando l'anima feroce (del suicida) si separa dal corpo dal quale ella stessa si è staccata, Minosse la manda al
settimo Cerchio.

Cade nella selva e non finisce in un punto prestabilito; ma dove il caso la scaglia, lì germoglia come un seme di farro.

Cresce come un arbusto e una pianta selvatica: le Arpie, poi, nutrendosi delle sue foglie provocano dolore, e aprono
una via attraverso la quale il dolore fuoriesce.

Come le altre anime, anche noi andremo a riprendere i nostri corpi (il giorno del Giudizio), ma non per rivestircene:
infatti non è giusto riavere ciò che ci si è tolti.

Li trascineremo qui e i nostri corpi saranno appesi per la triste selva, ciascuno all'albero della propria ombra nemica».

Noi eravamo ancora in attesa accanto all'albero, credendo che volesse aggiungere altro, quando fummo sorpresi da
un rumore, in modo simile a colui che sente arrivare il cinghiale e la muta dei cani sulle sue tracce, e che ascolta le
bestie e il fogliame che stormisce.

Ed ecco arrivare da sinistra due dannati, nudi e graffiati, che fuggivano così veloci che rompevano ogni ramo della
foresta.

Quello davanti urlava: «Presto, vieni in aiuto, vieni, o morte!» E l'altro, al quale sembrava di andare troppo lento,
gridava: «Lano, le tue gambe non furono così agili alle giostre (battaglia) di Pieve del Toppo!» E poiché forse gli
mancò il respiro, si nascose accanto a un cespuglio.

Dietro di loro la selva era piena di cagne nere, che correvano affamate come cani da caccia scatenati.
Esse azzannarono il dannato che si era nascosto e lo fecero a brandelli; poi portarono via le sue carni ancora
doloranti.

Allora la mia guida mi prese per mano e mi condusse al cespuglio che piangeva, inutilmente, attraverso i rami rotti e
sanguinanti.

Diceva: «O Iacopo da Sant'Andrea, a cosa ti è servito usarmi come scudo? che colpa ho io della tua vita
peccaminosa?»

Quando il mio maestro si fu fermato sopra di lui, disse: «Chi sei stato in vita, tu che soffi parole dolorose e sangue
attraverso tanti rami spezzati?»

E quello rispose: «O anime che siete giunte a vedere lo scempio disonesto che ha separato da me le mie fronde,
raccoglietele al piede del triste cespuglio.

Io fui della città (Firenze) che mutò in san Giovanni Battista il primo protettore (Marte); e lui per questo la rattristerà
sempre con la sua arte (la perseguiterà con guerre); e se non fosse che su un ponte dell'Arno rimane un frammento di
una sua statua, quei cittadini che la ricostruirono sulle ceneri lasciate da Attila, avrebbero lavorato inutilmente. Io mi
impiccai nella mia casa».

CANTO 15

Argomento del Canto

Ancora nel III girone del VII Cerchio, dove sono puniti i violenti contro Dio (tra cui i sodomiti). Incontro con Brunetto
Latini. Profezia di Brunetto sull'esilio di Dante.
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.

Incontro con una schiera di sodomiti (1-21)

Dante e Virgilio procedono lungo uno degli argini del Flegetonte, che attraversa il sabbione infuocato mentre il fumo
che si leva dal fiume di sangue li protegge dalla pioggia di fiamme. Gli argini di pietra sono alti e spessi, simili alle
dighe costruite dai Fiamminghi per difendersi dai flutti marini e dai Padovani per proteggere città e castelli dalle
piene del Brenta. I due poeti si sono ormai allontanati dalla selva a tal punto che Dante non riesce più a vederla,
quando scorge un gruppo di anime (sodomiti) che si avvicinano all'argine e guardano i due come si osserva qualcuno
in una notte di novilunio, stringendo gli occhi come fanno i vecchi sarti quando devono infilare l'ago nella cruna.

Colloquio con Brunetto Latini (22-54)


Una delle anime della schiera si avvicina a Dante e lo tira per il lembo della veste, gridando la sua meraviglia: il poeta
lo guarda bene e nonostante il suo viso sia tutto bruciato dalle fiammelle lo riconosce come Brunetto Latini. Dante lo
saluta meravigliandosi di trovarlo lì e il dannato manifesta il desiderio di staccarsi per un po' dalle altre anime e
seguire il suo antico discepolo per parlare con lui. Dante ovviamente ne è ben felice e afferma che si attarderà a
conversare con lui, sempre che ciò gli sia permesso da Virgilio. Brunetto ribatte che se un dannato di quella schiera
smette un istante di camminare, è poi costretto a restar fermo cent'anni senza potersi riparare dalla pioggia di fuoco.
Invita quindi Dante a camminare, mentre lui lo seguirà per poi ricongiugersi ai suoi compagni di pena.
Naturalmente Dante non osa scendere dall'argine per avvicinarsi a Brunetto, tuttavia prosegue il cammino tenendo il
capo basso, per udire meglio le sue parole e in segno di deferenza. Brunetto chiede a Dante per quale motivo egli
compia questo viaggio nell'Aldilà e chi sia la sua guida. Dante risponde di essersi smarrito in una valle prima della fine
dei suoi giorni e di averla lasciata solo la mattina del giorno precedente: Virgilio gli era apparso nel momento in cui
stava per rientrarci e ora lo riconduce sul retto cammino.

Profezia dell'esilio di Dante (55-99)

Brunetto dichiara che Dante non può fallire nella sua missione letteraria e politica, se segue la sua stella e se lui ha
ben giudicato quando era in vita. Anzi, se Brunetto non fosse morto precocemente lo avrebbe aiutato lui stesso,
visto che il cielo è stato così benevolo con Dante. Tuttavia i Fiorentini, l'ingrato popolo disceso da Fiesole e che
conserva ancora la durezza della sua origine, si faranno nemici del poeta a causa delle sue buone azioni e ciò non
deve sorprendere, perché il frutto buono non cresce di solito tra quelli cattivi. I Fiorentini sono gente avara, invidiosa
e superba e Dante deve quindi tenersi lontano dai loro costumi. Il suo destino è invece così onorevole che entrambe
le parti politiche della città, Bianchi e Neri, vorranno sfogare il loro odio su di lui, ma non ne avranno la concreta
possibilità. I Fiorentini dovranno rivolgere il proprio astio su se stessi e non toccare quei concittadini che, come
Dante, conservano il sangue puro dei Romani che fondarono anticamente la città.
Dante ribatte che, se dipendesse da lui, Brunetto sarebbe ancora nel mondo, dal momento che vivo è in lui il ricordo
del maestro che gli insegnò come acquistare fama eterna, quindi finché vivrà le sue parole esprimeranno sempre
questo affetto. Dante dichiara di prendere atto della oscura profezia, riservandosi di farsela spiegare meglio
da Beatrice quando la raggiungerà. Il poeta aggiunge inoltre che è pronto ai colpi della fortuna, in quanto ha già
udito una simile profezia. Virgilio si volge allora sulla sua destra e dice a Dante che è buon ascoltatore chi prende
nota di ciò che gli viene detto.

Brunetto indica altri sodomiti e si allontana (100-124)

Dante prosegue il cammino e intanto non cessa di parlare con Brunetto, al quale chiede chi siano i suoi compagni di
pena. Lui risponde che farà i nomi delle anime più note, poiché sarebbe troppo lungo elencarle tutte. Brunetto
spiega che i sodomiti di quella schiera sono tutti chierici e letterati di gran fama, tra i quali Prisciano, Francesco
d'Accorso e colui che Bonifacio VIII trasferì da Firenze a Vicenza, dove morì lordo di tale peccato, vale a dire il
vescovo Andrea de' Mozzi. Brunetto si attarderebbe ancora, ma il colloquio si deve interrompere in quanto già vede
il fumo sollevato da un'altra schiera di sodomiti, della quale lui non può far parte. Si congeda da Dante
raccomandandogli il Trésor, che gli ha dato fama imperitura, quindi si allontana di corsa. Dante lo paragona a un
corridore che corre il palio di Verona e ne è vincitore.

Parafrasi

Ora uno degli argini rocciosi ci porta lontani dalla selva; e il fumo del Flegetonte fa ombra di sopra, così che protegge
dal fuoco l'acqua e gli argini stessi.

Come i Fiamminghi fra Wissant e Bruges erigono dighe per tener lontana la marea, temendo che le onde si avventino
contro di loro;

e come fanno i Padovani lungo il Brenta per difendere le loro città e i castelli prima che la Carinzia senta il caldo (si
sciolgano le nevi):

così erano costruiti quegli argini, anche se il costruttore, chiunque fosse, non li aveva eretti così alti e grossi.

Ormai ci eravamo allontanati dalla selva tanto che non l'avrei più vista se anche mi fossi voltato,

quando incontrammo una schiera di anime che veniva lungo l'argine e ognuna di esse ci guardava come si osserva
qualcuno in una sera di novilunio; e strizzavano gli occhi verso di noi come fa il vecchio sarto per infilare l'ago nella
cruna.

Mentre i dannati mi scrutavano in tal modo, fui riconosciuto da uno che mi prese per il lembo della veste e gridò:
«Che meraviglia!»

E io, quando lui tese verso di me il suo braccio, fissai il suo volto così che non potei non riconoscerlo, benché fosse
tutto bruciato, e avvicinando la mano al suo viso risposi: «Voi siete qui, ser Brunetto?»

E lui: «Figlio mio, non dispiacerti se Brunetto Latini torna un po' indietro con te e lascia proseguire la schiera (dei
dannati)».

Io gli dissi: «Ve ne prego con tutte le mie forze; e se volete che io mi trattenga con voi lo farò, purché acconsenta
costui che mi guida».

Lui disse: «Figliolo, se un dannato di questo gruppo si arresta un solo istante, poi deve giacere cent'anni senza potersi
riparare quando il fuoco lo ferisce.

Perciò prosegui: io ti seguirò e poi raggiungerò la mia schiera, che va piangendo la sua dannazione eterna».

Io non osavo scendere dall'argine per andare insieme a lui; ma tenevo il capo chino, come un uomo che dimostra la
sua deferenza.

Lui cominciò: «Quale fortuna o destino ti porta quaggiù prima della tua morte? e chi è costui che ti fa da guida?»

Io gli risposi: «Lassù, nella vita serena, mi sono smarrito in una valle prima che la mia vita raggiungesse il suo
culmine.

Solo ieri mattina ne sono uscito: mi apparve costui (Virgilio), mentre ci stavo rientrando, e mi riporta a casa per
questo cammino».
E lui a me: «Se tu segui la tua stella, non puoi non raggiungere i tuoi obiettivi letterari e politici, se ho inteso bene
quando ero in vita;

e se non fossi morto precocemente, vedendo che il cielo era così ben disposto verso di te ti avrei aiutato a compiere la
tua opera.

Ma quell'ingrato e maligno popolo che è disceso anticamente da Fiesole (i Fiorentini) e conserva ancora la rozzezza
dei montanari, diventerà tuo nemico per le tue buone azioni: e ne ha ben donde, poiché non è opportuno che il dolce
fico nasca tra i frutti agri.

Un vecchio proverbio li definisce ciechi; è gente avara, invidiosa e superba: cerca di preservarti dai loro costumi.

La tua fortuna ti riserva tanto onore che entrambe le parti (Bianchi e Neri) vorranno sfogare il loro odio contro di te,
ma l'erba sarà lontana dal caprone.

Le bestie di Fiesole (Fiorentini) si divorino tra loro e non tocchino la pianta, ammesso che ne nascano ancora nel loro
letame, in cui rivive la santa semenza di quei Romani che restarono a Firenze quando fu fondato il nido di tanta
malvagità».

Io gli risposi: «Se potessi esaudire ogni mio desiderio, voi sareste ancora tra i vivi;

poiché nella mia mente è ben presente, e ora mi commuove, la cara e buona immagine paterna di voi quando nel
mondo mi insegnavate di quando in quando come l'uomo acquista fama eterna: e finché vivrò la mia lingua
esprimerà quanto ciò mi sia gradito.

Io prendo nota ciò che narrate della mia vita, e mi riservo di farmelo spiegare insieme a un'altra profezia (di Farinata)
da una donna (Beatrice) che saprà farlo, se arriverò sino a lei.

Io voglio che vi sia chiaro che sono pronto a ciò che la fortuna mi riserva, purché non mi rimorda la coscienza.

Tale profezia non è nuova al mio orecchio: dunque la fortuna giri pure la sua ruota come vuole, e il contadino ruoti la
sua zappa».

Il mio maestro (Virgilio) allora si voltò indietro sulla destra e mi guardò, dicendo poi: «È buon ascoltatore chi prende
nota di ciò che gli vien detto».

Non per questo smisi di parlare con ser Brunetto, e gli domandai chi fossero i suoi compagni di pena più importanti.
E lui a me: «È bene conoscerne qualcuno: degli altri sarà preferibile tacere, perché occorrerebbe troppo tempo a
elencarli tutti.

Sappi insomma che furono tutti chierici e importanti letterati di gran fama, la cui vita fu lercia dello stesso peccato
(sodomia).

Prisciano va con quella brutta schiera, e anche Francesco d'Accorso; e se avessi desiderio di vedere un tale sudiciume,
potresti vedere colui che il servo dei servi (Bonifacio VIII) trasferì da Firenze a Vicenza, dove morì e lasciò i suoi sensi
protesi al vizio.

Ti direi di più, ma il cammino e il discorso non possono prolungarsi, poiché vedo levarsi là nuovo fumo dal sabbione.

Arrivano anime con la cui schiera non devo mescolarmi. Ti sia raccomandato il mio  Trésor  nel quale ho ancora fama,
e non chiedo altro».

Poi si voltò e sembrò uno di quelli che corrono il palio a Verona per il drappo verde, nella campagna; e sembrò il
vincitore, non il perdente.

CANTO 26

Argomento del Canto

Visione dell'VIII Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti i consiglieri fraudolenti. Incontro con Ulisse e
Diomede, avvolti dalla stessa fiamma. Ulisse racconta a Dante e Virgilio le circostanze della sua morte.

È mezzogiorno di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.

Invettiva contro Firenze (1-12)

Dante rivolge un aspro rimprovero a Firenze, che può davvero vantarsi della fama che ha acquistato in ogni luogo e
persino all'Inferno, dove il poeta ha visto (nella VII Bolgia) ben cinque ladri tutti fiorentini che lo fanno vergognare e
non danno certo onore alla città. Ma se è vero che i sogni fatti al mattino sono veritieri, allora Firenze avrà presto la
punizione che molti le augurano, compresa la piccola città di Prato: se anche già fosse così sarebbe troppo tardi e più
passerà il tempo, più il castigo della città sarà grave per il poeta invecchiato.

La Bolgia dei consiglieri fraudolenti (13-48)

Dante e Virgilio si allontanano dalla VII Bolgia e risalgono sul ponte roccioso nel punto dove erano scesi a fatica,
quindi proseguono lungo il cammino erto in cui bisogna aiutarsi con le mani. Giunti al culmine del ponte, Dante
guarda in basso e ciò che vede lo induce a tenere a freno il proprio ingegno, perché non agisca senza l'aiuto della
virtù e perché il poeta così facendo non si privi del bene che un destino favorevole gli ha concesso. Come il
contadino, che d'estate si riposa sulla collina alla fine della giornata e vede nella valle sottostante tante lucciole,
altrettante fiamme vede Dante sul fondo della VIII Bolgia. E come il profeta Eliseo vide il carro che rapì Elia
allontanarsi nel cielo, scorgendo solo una fiamma che saliva, così Dante vede solo le fiamme muoversi nella fossa,
senza distinguere il peccatore nascosto dal fuoco. Il poeta si sporge dal ponte per vedere, protendendosi al punto
che cadrebbe di sotto se non si aggrappasse a una sporgenza rocciosa; e Virgilio, che lo vede così attento, gli spiega
che dentro ogni fuoco c'è lo spirito di un peccatore (i consiglieri fraudolenti) che è come fasciato dalle fiamme.

Incontro con Ulisse e Diomede (49-75)

Dante ringrazia il maestro della spiegazione, anche se aveva già capito che ogni fiamma nascondeva un peccatore,
quindi gli chiede chi ci sia dentro il fuoco che si leva con due punte, simile al rogo funebre di Eteocle e Polinice.
Virgilio risponde che all'interno ci sono Ulisse e Diomede, i due eroi greci che furono insieme nel peccato e ora
scontano insieme la pena. I due sono dannati per l'inganno del cavallo di Troia, per il raggiro che sottrasse Achille a
Deidamia e per il furto della statua del Palladio. Dante chiede se i dannati possono parlare dentro il fuoco e prega
Virgilio di far avvicinare la duplice fiamma, tanto è il desiderio che lui ha di parlare coi dannati all'interno. Virgilio
risponde che la sua domanda è degna di lode, tuttavia lo invita a tacere e a lasciare che sia lui a interpellare i dannati,
perché essendo greci sarebbero forse restii a parlare con Dante.

Il racconto di Ulisse: viaggio alle colonne d'Ercole (76-111)

Quando la fiamma giunge abbastanza vicina ai due poeti, Virgilio si rivolge ai due dannati all'interno e prega uno di
loro di raccontare le circostanze della sua morte, in virtù dei meriti che lui ha acquistato presso entrambi, in vita,
quando scrisse gli alti versi. La punta più alta della fiamma inizia a scuotersi, come se fosse colpita dal vento, quindi
emette una voce come una lingua che parla. Ulisse racconta che dopo essersi separato da Circe, che l'aveva
trattenuto più di un anno a Gaeta, né la nostalgia per il figlio o il vecchio padre, né l'amore per la moglie poterono
vincere in lui il desiderio di esplorare il mondo. Si era quindi messo in viaggio in alto mare, insieme ai compagni che
non lo avevano lasciato neppure in questa occasione; si erano spinti con la nave nel Mediterraneo verso ovest,
costeggiando la Spagna, la Sardegna, il Marocco, giungendo infine (quando lui e i compagni erano molto anziani) fino
allo stretto di Gibilterra, dove Ercole pose le famose colonne. La nave era giunta allo stretto, tra Siviglia e Ceuta.

Il racconto di Ulisse: viaggio nell'emisfero sud (112-142)

Ulisse si era rivolto ai compagni, esortandoli a non negare alla loro esperienza, giunti ormai alla fine della loro vita,
l'esplorazione dell'emisfero australe della Terra totalmente disabitato; dovevano pensare alla loro origine, essendo
stati creati per seguire virtù e conoscenza e non per vivere come bestie. Il breve discorso li aveva talmente spronati a
proseguire che Ulisse li avrebbe trattenuti a stento: misero la poppa della nave a est e proseguirono verso ovest,
passando le colonne d'Ercole e dando inizio al loro folle viaggio. La notte mostrava ormai le costellazioni del polo
meridionale, mentre quello settentrionale era tanto basso che non sorgeva più al di sopra dell'orizzonte. Il plenilunio
si era già ripetuto cinque volte (erano passati cinque mesi) dall'inizio del viaggio, quando era apparsa loro una
montagna (il Purgatorio), scura per la lontananza e più alta di qualunque altra avessero mai visto. Ulisse e i compagni
se ne rallegrarono, ma presto l'allegria si tramutò in pianto: da quella nuova terra sorse una tempesta che investì la
prua della nave, facendola ruotare tre volte su se stessa; la quarta volta la inabissò levando la poppa in alto, finché il
mare l'ebbe ricoperta tutta.

Parafrasi

Rallegrati, Firenze, perché sei così famosa da percorrere il mare e la terra, e il tuo nome è conosciuto persino
all'Inferno!

Tra i ladri incontrai cinque tuoi cittadini, tali che a me viene vergogna e tu certo non acquisti onore.

Ma se vicino al mattino si fanno sogni veritieri, di qui a poco tempo tu riceverai il castigo che tutte le città, anche
quelle piccole come Prato, ti augurano.

E se anche accadesse già, sarebbe comunque tardi. Potesse allora succedere, dal momento che è inevitabile! Quanto
più invecchierò, tanto più questo castigo mi sarà insopportabile.

Noi ci allontanammo e il maestro risalì su quelle rocce che, prima, ci avevano fatti impallidire a scendere, e mi portò
con sé;

e proseguendo lungo la via solitaria, il piede non poteva avanzare senza l'aiuto delle mani tra gli spuntoni e le
schegge della roccia.

Allora provai dolore, e lo provo anche adesso pensando a ciò che vidi, e tengo a freno il mio ingegno più del solito
affinché non agisca senza la guida della virtù; così che, se un benigno influsso astrale o qualcosa di più importante (la
grazia divina) mi hanno dato il bene, io stesso non me lo sottragga.
Quante sono le lucciole che il contadino, quando si riposa sulla collina nella stagione (estate) in cui il sole tiene meno
nascosta a noi la sua faccia, nell'ora (la sera) in cui la mosca lascia il posto alla zanzara, vede giù nella valle dove egli
vendemmia e ara;

altrettante fiamme risplendevano nella VIII Bolgia, come io vidi non appena fui là da dove il fondo era visibile.

E come colui (Eliseo) che si vendicò con gli orsi vide il carro d'Elia che partiva, quando i cavalli si levarono alti nel
cielo, e non lo poteva seguire con lo sguardo senza vedere altro che la fiamma, che saliva su come una nuvoletta:

così sul fondo della Bolgia si muove ciascuna fiamma, in modo tale che nessuna mostra l'anima nascosta all'interno,
e ogni fiamma cela un peccatore.

Io stavo sopra il ponte, proteso per vedere al punto che, se non mi fossi aggrappato a una sporgenza rocciosa, sarei
caduto in basso senza essere urtato.

E il maestro, che mi vide così attento, disse: «Dentro quei fuochi ci sono delle anime; ognuna è fasciata dalla fiamma
che la avvolge».

Io risposi: «Maestro mio, ora che ti ascolto ne sono più certo; ma avevo già intuito che fosse così e volevo chiederti:

chi c'è dentro quel fuoco la cui punta è biforcuta, tanto che sembra levarsi dal rogo funebre dove Eteocle fu messo
col fratello (Polinice)?»

Mi rispose: «Là dentro sono puniti Ulisse e Diomede, e sono dannati insieme come insieme commisero i loro peccati;

e nella loro fiamma espiano l'inganno del cavallo di Troia che aprì la porta da cui uscì il nobile seme dei Romani.

Vi è punito anche l'imbroglio per cui Deidamia, anche se è morta, ancora si rammarica di Achille, e si sconta anche il
furto del Palladio».

Io dissi: «Se essi in quelle fiamme possono parlare, maestro, ti prego con insistenza e ti prego ancora, così che la
preghiera valga per mille, che tu non mi neghi di aspettare che quella fiamma a due punte venga qui; vedi che mi
piego verso di essa dal desiderio!»

E lui a me: «La tua preghiera è degna di grande lode, e perciò io la accetto; ma dovrai tenere a freno la tua lingua.

Lascia parlare me, dal momento che so bene quello che vuoi; infatti essi, essendo stati greci, potrebbero essere restii
a rivolgerti la parola».

Dopo che la fiamma fu giunta nel punto in cui al mio maestro parve opportuno il tempo e il luogo, lo sentii parlare in
questo modo:
«O voi che siete in due dentro una sola fiamma, se ho acquisito meriti nei vostri confronti quand'ero vivo, se ho
acquisito meriti grandi o piccoli presso di voi quando, sulla Terra, scrissi gli alti versi, non andate via; ma uno di voi
(Ulisse) racconti dove è andato a morire in un viaggio senza ritorno».

La punta più alta di quell'antica fiamma cominciò a scuotersi mormorando, come quella colpita dal vento;

quindi, volgendo la cima da una parte e dall'altra, come una lingua che parlasse, gettò fuori la voce e disse:

«Quando mi allontanai da Circe, che mi tenne più di un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea desse questo nome al
promontorio,

né la tenerezza per mio figlio, né la devozione per il mio vecchio padre, né il legittimo amore che doveva fare felice
Penelope poterono vincere in me il desiderio che ebbi di diventare esperto del mondo, dei vizi e delle virtù degli
uomini;

ma mi misi in viaggio in alto mare solo con una nave e con quei pochi compagni dai quali non fui abbandonato.

Vidi entrambe le sponde del Mediterraneo fino alla Spagna, al Marocco e alla Sardegna, e alle altre isole bagnate da
quel mare.

Io e i miei compagni eravamo vecchi e deboli quando giungemmo a quello stretto (di Gibilterra) dove Ercole pose le
colonne, limite oltre il quale l'uomo non deve procedere: a destra avevamo Siviglia, a sinistra Ceuta.

Dissi: "O fratelli, che siete giunti all'estremo ovest attraverso centomila pericoli, non vogliate negare a questa piccola
veglia che rimane ai vostri sensi (ai vostri ultimi anni) l'esperienza del mondo disabitato, seguendo la rotta verso
occidente.

Pensate alla vostra origine: non siete stati creati per vivere come bestie, ma per seguire la virtù e la conoscenza".

Con questo breve discorso resi i miei compagni così smaniosi di mettersi in viaggio, che in seguito avrei stentato a
trattenerli;

e volta la poppa a est, facemmo dei remi le ali al nostro folle volo, sempre proseguendo verso sud-ovest (a sinistra).
La notte ormai mostrava tutte le costellazioni del polo australe, mentre quello boreale era tanto basso che non
emergeva dalla linea dell'orizzonte.

La luce dell'emisfero lunare a noi visibile si era già spenta e riaccesa cinque volte (erano passati circa cinque mesi),
dopo che avevamo intrapreso il viaggio, quando ci apparve una montagna (il Purgatorio) scura per la lontananza, e
mi sembrò più alta di qualunque altra io avessi mai vista.

Noi ci rallegrammo, ma l'allegria si tramutò presto in pianto: infatti da quella nuova terra nacque una tempesta che
colpì la nave a prua.

La fece girare su se stessa tre volte, in un vortice; la quarta volta fece levare in alto la poppa e fece inabissare la prua,
come piacque ad altri (Dio), finché il mare si fu richiuso sopra di noi».

CANTO 27

Argomento del Canto

Ancora nell'VIII Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti consiglieri fraudolenti. Incontro con Guido da
Montefeltro, che racconta come è caduto nel peccato e accusa Bonifacio VIII.

È mezzogiorno di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.

Incontro con Guido da Montefeltro (1-30)

La fiamma di Ulisse è ormai dritta e quieta, poiché il dannato ha smesso di parlare e si allontana con il permesso di
Virgilio, quando un'altra fiamma viene dietro di essa e fa voltare i due poeti emettendo un suono confuso. Come il
bue che il tiranno Falaride fece costruire a Perillo muggì per la prima volta martirizzando il suo costruttore, com'era
giusto, e muggiva poi con la voce di chi vi veniva ucciso così da sembrare vivo anziché di rame, così la fiamma emette
il suono della voce che all'inizio non trova spazio per uscire. Alla fine la voce esce e la fiamma inizia a guizzare, per cui
il dannato si rivolge a Virgilio come colui che ha parlato in italiano ad Ulisse e lo prega di trattenersi un poco a parlare
con lui che ne ha un forte desiderio. Il dannato (Guido da Montefeltro) vuole sapere se la Romagna è in pace o in
guerra, dal momento che lui è originario della terra posta tra Urbino e il monte da cui sgorga il Tevere.

Situazione politica della Romagna (31-57)

Dante osserva chinandosi giù dal ponte che sovrasta la Bolgia, quando Virgilio lo tocca nel fianco e lo invita a
rispondere al dannato che parla la sua stessa lingua. Il poeta è pronto a rispondere e dice al dannato che la Romagna
non è mai stata senza guerre a causa dei tiranni che la dominano, ma in questo momento non se ne combatte
apertamente nessuna. Ravenna è nella stessa situazione da molti anni, sotto la signoria dei Da Polenta che domina il
territorio fino a Cervia. Forlì, che sostenne un lungo assedio e fece strage dei Francesi, è dominata dagli Ordelaffi. I
Malatesta, che si sono impadroniti di Rimini eliminando violentemente Montagna dei Parcitati, dilaniano gli avversari
politici. Le città di Faenza e Imola sono governate da Maghinardo Pagani, che cambia facilmente le sue alleanze.
Cesena, che è bagnata dal fiume Savio, oscilla continuamente tra libertà e soggezione alla tirannide. Alla fine del suo
discorso Dante chiede al dannato di presentarsi e lo prega di non esser restio più di quanto lo siano stati altri spiriti,
se il suo nome conserva la fama nel mondo.

Il racconto di Guido: la sua vita sino alla conversione (58-84)

La fiamma emette altri mugolii come già ha fatto prima, poi scuote la punta e il dannato inizia a parlare. Egli afferma
che se credesse di rivolgersi a qualcuno destinato a tornare sulla Terra non direbbe una parola, ma dal momento che
a quel che sa nessuno è mai uscito dall'Inferno, risponderà senza temere infamia. Si presenta come Guido da
Montefeltro, uomo d'armi e poi francescano, fattosi frate credendo di espiare i suoi peccati: certo ci sarebbe riuscito,
non fosse stato per il papa (Bonifacio VIII) che lo indusse nuovamente a peccare. Guido spiega che quand'era in vita
le sue azioni furono improntate all'astuzia e conobbe tutti i raggiri e gli inganni della politica, acquistando fama in
tutto il mondo. Una volta arrivato alla vecchiaia, Guido provò dispiacere per la vita condotta fino a quel momento e
si pentì dei suoi peccati, facendosi frate.

Il racconto di Guido: il consiglio fraudolento al papa (85-111)

Allora Bonifacio VIII, il principe dei nuovi Farisei, era in guerra contro i Colonna e non contro Saraceni o Ebrei, poiché
ogni suo nemico era cristiano e nessuno di questi aveva assediato Acri o mercanteggiato coi musulmani; il papa, non
avendo alcun riguardo per il suo alto ufficio né per il cordone francescano di Guido, lo chiamò a sé come Costantino
fece chiamare Silvestro per guarire della lebbra. Bonifacio gli aveva chiesto un consiglio e Guido aveva esitato a
darglielo, ma poi il papa lo aveva rassicurato dicendogli di assolverlo in anticipo e pregandolo di dirgli come prendere
la rocca di Palestrina. Il papa gli aveva detto di possedere le due chiavi del potere papale, che il suo predecessore
(Celestino V) non ebbe care. Allora Guido fu indotto a parlare, spinto anche dal timore di più gravi conseguenze, e
consigliò a Bonifacio di promettere il perdono ai suoi nemici senza poi mantenerlo.

Il racconto di Guido: la disputa per la sua anima (112-136)

Quando poi Guido morì, san Francesco venne a prendere la sua anima, ma un diavolo si oppose dicendo che doveva
in realtà andare all'Inferno per il consiglio fraudolento dato al papa e per il quale lo aveva seguito sino a quel
momento: infatti non si può assolvere chi non si pente della sua colpa, e pentirsi e voler peccare allo stesso
momento è una contraddizione in termini. Guido ricorda di essersi disperato quando il diavolo lo prese e lo irrise
dicendogli che forse non pensava che lui fosse filosofo. Il demone lo aveva portato a Minosse il quale si attorcigliò la
coda attorno al corpo otto volte, destinandolo alla Bolgia dei consiglieri fraudolenti e mordendosi la coda stessa per
rabbia. Da allora Guido è dannato e si duole avvolto dalla fiamma.

Al termine del suo racconto il dannato si allontana, agitando la punta aguzza. Dante e Virgilio passano oltre,
percorrendo il ponte fino alla Bolgia successiva dove sono puniti i seminatori di discordie.

Parafrasi

La fiamma (di Ulisse e Diomede) ormai era dritta e ferma, dato che non parlava più, e si allontanava da noi con il
permesso del dolce poeta (Virgilio),

quando ecco che un'altra, che veniva dietro di essa, ci indusse a rivolgere lo sguardo alla sua punta per un suono
confuso che ne fuoriusciva.

Come il bue siciliano, che muggì per la prima volta coi lamenti di colui che l'aveva forgiato col suo lavoro (e questo fu
giusto), muggiva con la voce del torturato, tanto da sembrare trafitto dal dolore anche se era fatto di rame;

così le parole misere si convertivano nel linguaggio del fuoco, perché all'inizio non trovavano una strada per uscire.

Ma dopo che ebbero trovato una via d'uscita attraverso la punta, facendola muovere come la lingua al loro
passaggio, sentimmo dire: «O tu a cui io rivolgo la voce, e che poc'anzi parlavi italiano dicendo "Adesso va' pure, non
ti stimolo più",
non dispiacerti di trattenerti a parlare con me solo perché sono arrivato un po' dopo; vedi che a me non dispiace, e
tuttavia brucio tra le fiamme!

Se tu sei finito in questo mondo oscuro da quella dolce terra d'Italia dalla quale io reco tutta la mia colpa, dimmi se i
Romagnoli sono in pace o in guerra; infatti io fui dei monti tra Urbino e la cima da cui nasce il Tevere (Monte
Coronaro)».

Io ero ancora attento e chinato giù dal ponte, quando la mia guida mi toccò il fianco e mi disse: «Parla tu, questo è
italiano».

E io, che ero pronto a rispondere, iniziai a parlare senza esitazioni: «O anima che sei nascosta dal fuoco laggiù,

la tua Romagna non è (e non è mai stata) senza guerra nei cuori dei suoi tiranni; tuttavia non la lasciai impegnata in
nessun conflitto dichiarato.

Ravenna è nella situazione in cui è da molti anni: l'aquila dei Da Polenta la domina, così che copre anche Cervia con
le sue ali.

La città (Forlì) che sostenne il lungo assedio e fece strage delle truppe francesi, è dominata dal leone rampante verde
(dalla famiglia Ordelaffi).

E il vecchio e il nuovo mastino (Malatesta e Malatestino) da Verrucchio, che fecero strage di Montagna dei Parcitati,
usano i denti come succhiello (dilaniano i nemici) là dove sono soliti farlo.

Le città dei fiumi Lamone e Santerno (Faenza e Imola) sono dominate dal leone in campo bianco (Maghinardo
Pagani), che muta alleanze dall'estate all'inverno.

E la città il cui fianco è bagnato dal Savio (Cesena), così come sta tra la pianura e il monte, vive tra tirannide e stato
libero.

Ora ti prego di dirci chi sei; non essere più restio degli altri, se il tuo nome nel mondo conserva fama».

Dopo che il fuoco ebbe ruggito per un po' alla sua maniera, la punta aguzza si agitò da una parte e dall'altra, poi
pronunciò tali parole:
«Se io credessi di rispondere a qualcuno che possa tornare sulla Terra, questa fiamma resterebbe quieta (non
parlerei);

ma poiché dal fondo dell'Inferno non è mai uscito vivo nessuno, se sento dire il vero, ti rispondo senza temere di
essere infamato.

Io fui uomo d'armi, e poi divenni francescano, credendo di fare ammenda dei miei peccati cingendo il cordone; e
certo quanto credevo si sarebbe avverato,

non fosse stato per il papa (Bonifacio VIII), che Dio lo maledica!, il quale mi indusse nuovamente a peccare; e voglio
che tu senta come e perché ciò avvenne.

Fin tanto che io fui in carne ed ossa, col corpo datomi da mia madre, le mie opere non furono improntate alla
violenza ma all'astuzia.

Io conobbi tutti i trucchi e le vie nascoste, ed esercitai la loro arte in modo tale che la mia fama raggiunse i confini del
mondo.

Quando mi vidi giunto a quella fase della mia vita (la vecchiaia) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e
raccogliere le sartie (pentirsi dei suoi peccati), ciò che prima mi piaceva mi dispiacque e mi feci frate, dopo essermi
pentito e confessato; ah, povero me! Certo ciò mi avrebbe giovato.

Il principe dei nuovi Farisei (Bonifacio), mentre combatteva una guerra vicino al Laterano (contro i Colonna), e non
contro Saraceni o Giudei, poiché ogni suo nemico era cristiano, e nessuno di questi aveva assediato Acri o aveva
mercanteggiato nella terra del Soldano;

non ebbe riguardo né per il suo supremo ufficio, né per gli ordini sacerdotali, né per quel cordone francescano che
era solito rendere magri quelli che lo indossano.

Al contrario, come Costantino chiamò a sé papa Silvestro dal suo rifugio sul monte Soratte per guarire dalla lebbra,
così lui chiamò me per guarire dalla sua terribile febbre: mi chiese un consiglio e io tacqui perché le sue mi
sembravano le parole di un pazzo.

Egli mi disse: "Il tuo cuore non abbia timore: io ti assolvo fin d'ora, purché tu mi mostri come devo fare per abbattere
la rocca di Palestrina.

Io posso chiudere e aprire il cielo (condannare e assolvere), come ben sai; infatti due sono le chiavi che il mio
predecessore (Celestino V) non ebbe care".

Allora gli argomenti autorevoli mi convinsero, specie pensando che il tacere mi avrebbe procurato gravi
conseguenze, e dissi: "Padre, dal momento che tu mi assolvi da quel peccato nel quale debbo ricadere, promettere
molto e mantenere poco ti farà trionfare nel trono pontificio".
Non appena morii, poi, san Francesco venne a prendere la mia anima; ma un diavolo gli disse: "Non portarla via: non
farmi torto.

Egli deve venire giù tra i miei dannati, perché diede il consiglio fraudolento per il quale, da allora a oggi, gli sono
stato alle costole.

Infatti non può essere assolto chi non si pente, e non è possibile pentirsi e voler peccare al tempo stesso, perché è
una contraddizione in termini".

Ah, povero me! come mi scossi quando mi prese, dicendomi: "Forse tu non pensavi che io fossi filosofo!"

Mi portò davanti a Minosse; e quello attorcigliò la coda otto volte attorno alla schiena dura; e dopo essersela morsa
per la gran rabbia, disse: "Questo deve andare tra i peccatori del fuoco che li sottrae alla vista"; ed ecco perché sono
perduto qui dove mi vedi, e avvolto così dalle fiamme mi dolgo camminando».

Quando il dannato ebbe finito di parlare, la fiamma si allontanò dolorante, torcendo e sbattendo la punta aguzza.

Noi (io e la mia guida) andammo oltre, su per il ponte fino al successivo che sovrasta la Bolgia in cui sono puniti quelli
che, seminando discordie, si gravano di peccato.

CANTO 33

Argomento del Canto

Ancora nell'Antenòra, dove sono puniti i traditori della patria. Il conte Ugolino racconta la propria morte; invettiva
contro Pisa. Ingresso nella terza zona di Cocito, la Tolomea dove sono puniti i traditori degli ospiti. Dante sente il
vento prodotto dalle ali di Lucifero. Incontro con frate Alberigo; invettiva contro i Genovesi.
È il tardo pomeriggio di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, verso le sei.

Presentazione del conte Ugolino (1-21)

Il peccatore apostrofato da Dante alla fine del Canto precedente, intento ad addentare bestialmente il cranio del
compagno di pena, solleva la bocca da quell'orribile pasto e la forbisce coi capelli dell'altro. Egli dichiara a Dante che
la sua richiesta di spiegargli le ragioni di tanto odio rinnova in lui al solo pensiero un disperato dolore, già prima di
parlarne; tuttavia, se le sue parole dovranno infamare il nome dell'altro traditore, egli parlerà e piangerà al tempo
stesso. Dopo aver osservato che Dante gli sembra fiorentino dall'accento, si presenta come il conte Ugolino della
Gherardesca e dichiara che il suo compagno è l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Non c'è bisogno che racconti
come Ruggieri lo avesse raggirato e attirato in una trappola facendolo catturare, poiché la cosa è nota a tutti; ma ciò
che Dante non può sapere, ovvero quanto crudele sia stata la sua morte, sarà oggetto del suo racconto e il poeta
valuterà se il suo odio è giustificato.

Il racconto di Ugolino: il sogno premonitore e l'uscio inchiodato (22-54)

Ugolino e i suoi quattro figli erano già rinchiusi da diversi mesi nella Torre della Muda a Pisa, che poi sarebbe stata
chiamata Torre della Fame, nella quale egli aveva visto il mondo esterno attraverso una stretta feritoia, quando una
notte egli fece un sogno premonitore. Aveva sognato Ruggieri nelle vesti di un cacciatore che capeggiava una brigata,
intenta a dare la caccia a un lupo e ai suoi piccoli sul monte San Giuliano che scherma ai Pisani la vista di Lucca. Nel
sogno, Ruggieri si faceva precedere dalle famiglie ghibelline dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi, che
mettevano sulle loro tracce delle cagne macilente e fameliche: il lupo e i piccoli erano stanchi per la corsa e venivano
raggiunti dalle cagne, che li azzannavano. Il mattino seguente Ugolino si era svegliato e aveva sentito piangere i figli,
che chiedevano del pane: il conte a questo punto interrompe il racconto accusando Dante di essere crudele a non
piangere, immaginando il triste presentimento di quella mattina. Quindi prosegue spiegando che era vicina l'ora in
cui solitamente veniva loro portato il cibo, anche se ciascuno ne dubitava per via del sogno: a un tratto i quattro
sentirono che l'uscio della torre veniva inchiodato e Ugolino fissò in viso i figli senza parlare, senza piangere e
restando impietrito, tanto che uno dei figli (Anselmuccio) gli chiese cosa avesse. Ugolino non rispose e non disse
nulla per l'intera giornata e la notte seguente, fino all'alba.
Il racconto di Ugolino: la morte dei figli e di lui per fame (55-75)

Non appena un raggio di sole penetrò nella torre e permise al conte di vedere i volti smagriti dei figli, l'uomo fu colto
dalla rabbia e si morse entrambe le mani; i figli, pensando che lo avesse fatto per fame, si erano alzati e gli avevano
offerto le proprie carni per nutrirsi. Allora Ugolino si era calmato per non accrescere la loro pena: i due giorni
successivi nessuno proferì più parola, mentre ora il dannato si rammarica che la terra non li avesse inghiottiti.
Arrivati al quarto giorno, uno dei figli di Ugolino (Gaddo) stramazzò ai suoi piedi invocando vanamente il suo aiuto, e
poi morì. Tra il quinto e il sesto giorno morirono anche gli altri tre, poi per due giorni Ugolino, reso cieco dalla fame,
aveva brancolato sui loro corpi chiamandoli per nome: a quel punto il digiuno aveva prevalso sul suo dolore. Posto
fine al suo racconto, il conte storce gli occhi e riprende a mordere il cranio di Ruggieri.

Invettiva di Dante contro Pisa (79-90)

Dante si abbandona a una violenta invettiva contro la città di Pisa, patria di Ugolino, definita come la vergogna dei
popoli di tutta Italia: poiché le città vicine non si decidono a punirla, il poeta si augura che le isole di Capraia e
Gorgona si muovano e chiudano la foce dell'Arno, in modo tale da annegare tutti gli abitanti della città. Forse Ugolino
era sospettato di aver ceduto alcuni castelli a Firenze e Lucca, ma i quattro figli (Uguccione, il Brigata e gli altri due
prima nominati) erano innocenti per la giovane età e non dovevano essere uccisi insieme al conte (Pisa ha commesso
un delitto che la accosta all'antica città di Tebe).

Passaggio nella zona Tolomea (91-108)

Dante e Virgilio passano nella zona successiva di Cocito, la Tolomea dove sono puniti i traditori degli ospiti: questi
sono imprigionati nel ghiaccio col volto all'insù. I dannati piangono, ma le lacrime gli si congelano nelle orbite degli
occhi formando come delle visiere di cristallo che non permettono loro di sfogare il dolore, accrescendo
ulteriormente la pena. Dante a causa del freddo ha il viso quasi totalmente insensibile, tuttavia gli pare di sentire
soffiare del vento: ne chiede spiegazione a Virgilio, osservando che all'Inferno non ci possono essere eventi
atmosferici. Il maestro risponde che presto Dante sarà nel punto dove avrà la risposta, vedendo coi propri occhi la
causa di un tale fenomeno (cioè Lucifero).

Incontro con frate Alberigo. Invettiva contro i Genovesi (109-157)

Uno dei dannati immersi nel ghiaccio si rivolge ai due poeti e, scambiandoli per dannati, li prega di togliergli dagli
occhi le croste di ghiaccio, così da potere sfogare il dolore che gli opprime il cuore prima che le lacrime si congelino
nuovamente. Dante risponde che lo farà, ma a patto che il peccatore riveli il proprio nome: se il poeta non manterrà
la parola, possa andare fino in fondo al ghiaccio di Cocito. Il dannato risponde di essere frate Alberigo, che qui sconta
la pena per la sua grave colpa. Dante è stupito, in quanto crede che Alberigo non sia ancora morto: il peccatore
spiega che non ha idea di come e da chi sia governato il suo corpo sulla Terra, in quanto avviene spesso che l'anima
destinata alla Tolomea vi finisca prima di giungere alla fine naturale della vita. Per indurre Dante a togliergli più
volentieri il ghiaccio dagli occhi, Alberigo aggiunge che non appena l'anima commette il tradimento dell'ospite essa
lascia il corpo e il suo posto è preso da un demone, che lo governa fino alla fine naturale dei suoi giorni. Forse, dice il
dannato, sulla Terra c'è ancora il corpo del compagno di pena dietro di lui: è Branca Doria, imprigionato in Cocito già
da molti anni. Dante è perplesso, poiché sa per certo che Branca Doria è ancora vivo nel mondo, ma Alberigo ribatte
che Michele Zanche non era ancora giunto fra i barattieri della V Bolgia dell'VIII Cerchio che Branca Doria, suo
assassino, aveva già lasciato il demone nel proprio corpo e la sua anima era precipitata in Cocito, come quella di un
suo complice.
Alberigo invita Dante a mantenere la promessa e ad aprirgli gli occhi, ma il poeta non lo fa, affermando che fu
cortesia essersi comportato da villano con lui. Dante pronuncia poi una dura invettiva contro i Genovesi, uomini
estranei ad ogni buona usanza e pieni di vizi, che dovrebbero essere dispersi nel mondo: infatti nella Tolomea egli ha
trovato uno di loro insieme al peggiore spirito della Romagna (cioè Alberigo), mentre sulla Terra sembra che il suo
corpo sia ancora in vita.
Parafrasi

Quel peccatore sollevò la bocca dal feroce pasto, pulendola coi capelli della testa che aveva addentato da dietro.

Poi iniziò: «Tu vuoi che io rinnovi un disperato dolore che mi opprime il cuore già solo a pensarci, prima che ne parli.

Ma se le mie parole devono essere un seme che frutti infamia al traditore che mordo, mi vedrai parlare e piangere al
tempo stesso.

Io non so chi sei, né in qual modo sei giunto quaggiù; ma mi sembri davvero fiorentino quando ti sento parlare.

Tu devi sapere che io fui il conte Ugolino e questi è l'arcivescovo Ruggieri: adesso ti spiegherò perché sono per lui un
vicino così bestiale.

Non serve raccontare che per effetto dei suoi piani malvagi, fidandomi di lui, io fui catturato e poi fatto uccidere;

perciò ascolterai quello che non puoi aver sentito, cioè quanto fu terribile la mia morte, e giudicherai se egli mi ha
offeso.

Una stretta feritoia dentro la Torre della Muda, la quale oggi si chiama per me Torre della Fame e che dovrà ospitare
altri prigionieri, mi aveva già mostrato attraverso la sua apertura molte lune, quando io feci il cattivo sogno che mi
svelò il futuro.

Questi (Ruggieri) mi sembrava signore della brigata e guida di una battuta di caccia, sulle tracce del lupo e dei suoi
piccoli, sul monte (San Giuliano) per cui i Pisani non possono vedere Lucca.

Aveva messo davanti i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi, sul fronte avanzato, con cagne macilente, fameliche e
addestrate.

Dopo una breve corsa il padre e i figli mi sembravano stanchi, e mi pareva di vedere le cagne affondare le zanne
aguzze nei loro fianchi.

Quando mi svegliai prima dell'alba, sentii i miei figlioli che erano con me che piangevano nel sonno e domandavano
pane.

Sei davvero crudele, se già non provi dolore pensando al presagio che nutrivo in cuore; e se non piangi, cosa ti fa
piangere di solito?

Ormai si erano svegliati e si avvicinava l'ora in cui solitamente ci veniva dato il cibo, anche se ognuno ne dubitava per
il suo sogno;

e io sentii che di sotto all'orribile torre veniva inchiodato l'uscio; allora guardai il viso dei miei figli senza parlare.

Io non piangevo, a tal punto ero impietrito nel mio animo: essi piangevano, e il mio Anselmuccio disse: "Tu hai un tale
sguardo, padre! cos'hai?"

Allora io non piansi né risposi, per tutto quel giorno e per la notte seguente, finché spuntò il sole il mattino dopo.

Non appena un timido raggio di sole fu penetrato nel carcere doloroso, e io vidi in quei quattro visi il mio identico
aspetto smagrito, mi morsi entrambe le mani dal dolore;
e loro, pensando che io lo facessi per voglia di mangiare, si alzarono subito e dissero: "Padre, ci sarà molto meno
penoso se tu mangi i nostri corpi: tu  ci hai dato queste misere carni, e tu spogliaci di esse".

Allora mi calmai per non rattristarli oltre; quel giorno e quello seguente restammo tutti in silenzio; ahimè, terra
crudele, perché non ci hai inghiottito?

Quando arrivammo al quarto giorno, Gaddo si gettò davanti ai miei piedi, dicendo: "Padre mio, perché non m'aiuti?"

Qui morì; e come tu mi vedi, così io vidi cadere uno a uno gli altri tre, tra il quinto e il sesto giorno; allora io, già cieco
e moribondo, andai brancolando sopra i loro corpi, e li chiamai per due giorni dopo la loro morte. In seguito, più che il
dolore, mi uccise la fame».

Quando ebbe detto questo, torcendo gli occhi, riprese a rodere il misero teschio (di Ruggieri) coi denti, che furono
forti come quelli di un cane su quell'osso.

Ahimè, Pisa, vergogna dei popoli del bel paese (l'Italia) dove risuona il «sì», poiché i vicini sono lenti a punirti, si
muovano la Capraia e la Gorgona, e ostruiscano la foce dell'Arno, in modo che il fiume anneghi ogni tuo abitante!

Infatti, se il conte Ugolino era sospettato di averti tradito cedendo i castelli, tu non avresti dovuto condannare i figli a
un tale supplizio.

La giovane età, o novella Tebe, rendeva innocenti Uguccione e il Brigata, e gli altri due che il canto ha nominato
prima.

Noi passammo oltre, là dove il ghiaccio imprigiona crudelmente altri dannati, non rivolti in basso ma verso l'alto.

Lì il pianto stesso non li lascia piangere, e il dolore che trova un impedimento sugli occhi torna indietro a far crescere
l'angoscia;

infatti le prime lacrime si congelano e formano come delle visiere di cristallo, che riempiono tutta la cavità dell'occhio
sotto il ciglio.

E anche se per il freddo ogni sensibilità aveva lasciato il mio viso, proprio come un callo, mi sembrava di sentire del
vento: allora chiesi: «Maestro, chi produce questo vento? Quaggiù non è forse assente qualunque evento
atmosferico?»

E lui a me: «Ben presto sarai nel punto dove l'occhio ti darà la risposta, vedendo la causa che produce questo
fenomeno».

E uno dei dannati imprigionati nel ghiaccio ci gridò: «O anime crudeli, al punto che vi è assegnato l'ultimo Cerchio,
levatemi dal viso le croste di ghiaccio, così che io possa sfogare un poco il dolore che mi opprime il cuore, prima che le
lacrime tornino a congelarsi».

Allora gli dissi: «Se vuoi che ti aiuti, dimmi chi sei e se non ti libero gli occhi, possa io andare fino in fondo al
ghiaccio».

Dunque rispose: «Io sono frate Alberigo; sono quello dei frutti dell'orto malvagio, che qui ottengo datteri in cambio di
fichi (sconto una pena più grave della mia colpa)».

Io gli dissi: «Oh! sei già morto?» E lui a me: «Non no idea di come il mio corpo stia sulla Terra.

Questa Tolomea ha questo vantaggio: spesso l'anima ci cade prima che Atropo abbia posto fine alla vita.
E affinché tu mi tolga più volentieri le lacrime gelate dal volto, sappi che non appena l'anima compie il tradimento
come feci io, il suo corpo è preso da un demone che in seguito lo governa finché il tempo della sua vita non è
concluso.

Essa precipita in questo pozzo infernale; e forse è ancora nel mondo il corpo dell'anima che sverna qui dietro a me.

Lo devi sapere, se arrivi qui solo adesso: egli è ser Branca Doria, e sono molti anni da quando è finito in questo
luogo».

Gli dissi: «Io credo che tu mi inganni; infatti Branca Doria non è ancora morto, e mangia, beve, dorme e indossa
vesti».

Egli disse: «Michele Zanche non era ancora arrivato nella Bolgia dei Malebranche, dove bolle la viscosa pece, che
questi lasciò il diavolo al suo posto e così un suo complice che fece con lui il tradimento.

Ma ormai stendi qua la mano; aprimi gli occhi». E io non glieli aprii; e l'essere villano fu una cortesia nei suoi
confronti.

Ahimè, Genovesi, uomini alieni da ogni buona usanza e pieni di ogni vizio, perché non siete dispersi nel mondo?

Infatti, insieme al peggiore spirito di Romagna (Alberigo), trovai un vostro concittadino, tale che per le sue azioni la
sua anima si bagna già in Cocito, e il suo corpo sembra ancor vivo sulla Terra.

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