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RIASSUNTO, ANALISI, PARAFRASI E SINTESI DEI SEGUENTI CANTI DELLA DIVINA COMMEDIA:

• INFERNO: I, V, XXIV, XXVI;


• PURGATORIO: I, V, XXIV, XXVI;
• PARADISO: I, V, XVI, XXXIII.

CANTO I INFERNO:

Sintesi: Nel primo canto dell'Inferno Dante si trova nella famigerata "selva oscura", che è simbolo esplicito di una
situazione di traviamento esistenziale e spirituale che, per sua stessa ammissione, rischia di condurlo alle soglie della
morte. L'aver scorto un colle rischiarato dalla luce divina non è che il primo passo del suo percorso di redenzione; le
tre fiere che gli ostacolano il passo (la lonza, il leone, la lupa) lo costringono ad un lungo excursus nelle viscere
infernali, durante il quale Dante sarà guidato da un altro "poeta" (v. 73), il buon Virgilio, che diverrà la sua guida
morale e letteraria, subito dopo aver pronunciato la celebre profezia sul "veltro" (v. 101) che libererà il mondo terreno
dal male e dal peccato.

Parafrasi: Nell'età di mezzo della vita umana, mi ritrovai in una buia boscaglia, perché avevo smarrito il giusto
percorso. Ahimé, non è affatto facile descrivere questo bosco inospitale, impervio, difficile, del quale il solo pensiero
mi fa tornare il timore! [la selva] È tanto angosciante quasi quanto la morte; ma per dire ciò che di buono lì incontrai,
parlerò [prima] delle altre cose che lì ho viste. Non so descrivere il modo in cui vi entrai dato che il mio torpore era
tale in quel momento che mi ero allontanato dalla verità. Ma dopo che arrivai alle pendici d'una collina, nel luogo in
cui finiva quel bosco che mi aveva impietrito il cuore di paura, alzai gli occhi e vidi la sua cima e il pendio già illuminati
dai raggi di quel pianeta [il Sole] che guida ciascuno sulla giusta via. A quel punto si calmò quel timore che nel
profondo dell'animo avevo sofferto durante la notte [precedente] trascorsa nel dolore. E come colui che con respiro
affaticato, uscito dal mare e arrivato alla spiaggia, si gira verso lo specchio d'acqua minaccioso e [lo] guarda; Allo
stesso modo il mio animo, che ancora fuggiva, si girò indietro a guardare il tragitto, che non abbandonò mai nessun
vivo. Dopo che riposai per un po' il corpo stanco, ripresi il cammino lungo il pendio deserto [del colle], scalando la
salita. E d'improvviso, quasi all'inizio del pendio, [arrivò] una lonza agile e molto veloce, dal pelo coperto di macchie;
che non si scansava da davanti a me, e bloccava il mio cammino a tal punto che più volte mi voltai per tornare
indietro. Era il principio del mattino, e il sole saliva in quella [stessa] costellazione in cui si trovava, quando Dio creò
inizialmente i corpi celesti; per cui mi dava ragione di non temere quella belva dalla pelle maculata l'ora in cui [essa]
comparve e la bella stagione; finché non mi spaventò la presenza improvvisa di un leone. Questo sembrava procedere
contro di me superbo e affamato, al punto che sembrava far tremare l'aria. Ed una lupa, che di tutti i desideri
sembrava piena pur essendo magra, e già fece vivere molti popoli in miseria, questa vista mi trasmise tanta angoscia
per la paura che mi diede la sua comparsa, che persi la speranza di arrivare in cima. E come [avviene a] colui che
volentieri accumula denaro, arriva il momento che lo fa perdere, al punto che nell'animo si rattrista e piange; così mi
ridusse la belva che non ha pace, la quale, venendomi incontro, pian piano mi respingeva nell'ombra. Mentre ero
ricacciato a forza in basso, mi si offrì alla vista colui che per un lungo silenzio era rimasto sfuocato. Quando lo vidi nella
grande spiaggia vuota, “Pietà di me”, gli gridai, “chiunque tu sia, fantasma o uomo vero!” Mi rispose: “Non sono un
uomo, uomo lo fui già, e i miei genitori furono lombardi, entrambi di Mantova. Nacqui sotto Giulio Cesare, ma troppo
tardi, e vissi a Roma durante il regno del buon Augusto, all'epoca degli dei finti e impostori. Fui un poeta, e scrissi di
quell'uomo giusto figlio di Anchise che arrivò da Troia, dopo che la superba Ilio venne bruciata. E tu, perché ridiscendi
a tanta pena? Perché non scali il felice colle che è principio e causa di tutte le gioie?” “Sei tu dunque quel Virgilio e
quella fonte che spande un fiume così ricco di parole?” Gli risposi con volto umile. “Oh, gloria e luce per gli altri poeti,
mi serva l'assiduo studio e il forte amore per il quale ho cercato le tue opere. Tu sei il mio maestro e il mio autore [di
riferimento], da te solo ho tratto lo stile eletto per cui sono conosciuto. Guarda la belva per cui mi voltai indietro
salvami da lei, celebrato poeta, poiché questa mi fa tremare le vene e i polsi. “Ti conviene intraprendere un itinerario
diverso”, rispose, dopo che mi vide piangere, “se vuoi uscire da questo luogo selvaggio; Poiché questa belva, a causa
della quale tu gridi, impedisce a tutti di superarla, e blocca chiunque fino a ucciderlo; e ha una natura così perversa e
colpevole, che non riempie mai il suo desiderio ansioso, e dopo essersi cibata ha più fame di prima. Sono molti gli
uomini a cui si lega, e ce ne saranno ancor di più, finché arriverà il veltro, che la farà morire con dolore. Costui non
tratterà né terra, né denaro, ma sapienza, carità e virtù, e nascerà tra feltro e feltro. Sarà salvezza di quella umile Italia
per la quale morì la fanciulla Camilla, Eurialo, Turno e Niso per le ferite. Costui la caccerà di città in città finché non
l'avrà ricacciata nell'Inferno, il luogo da cui in principio l'invidia la fece uscire. Per cui, riguardo te, penso e comprendo
sia meglio che tu mi segua e io ti sia guida, portandoti da qui nell'oltretomba; in cui ascolterai le urla senza speranza,
osserverai i vecchi spiriti sofferenti, che gridano per la morte dell'anima; e vedrai coloro che appaiono contenti nel
dolore, perché hanno la speranza di accedere nel tempo al regno dei beati. A cui poi se tu vorrai accedere, ti porterà
un'anima più degna di me: quando me ne andrò ti lascerò a lei; Poiché quell'Imperatore che regna lassù, per via del
fatto che fui ribelle alla sua dottrina, mi vieta di entrare nel suo Regno. [Dio] regna in ogni luogo e qui dimora; questa
è la sua città e il suo trono: felice è colui che viene chiamato nel suo Regno!”. Ed io gli dissi: “Poeta, io ti chiedo per
quel Dio che tu non avesti modo di conoscere, affinché io mi allontani da questo male e dalla dannazione, che tu mi
conduca là dove dicesti, affinché io veda le porte del Paradiso e coloro i quali tu descrivi tanto tristi”. [Virgilio] allora si
mise in cammino, ed io lo seguii.

Figure retoriche:

Nel mezzo del cammin: recuperando una diffusissima metafora, la vita terrena è intesa come un viaggio la cui
lunghezza si misura col tempo, e a cui è destinato il pellegrino cristiano, in un itinerario che è tanto materiale quanto
spirituale (e cioè, di redenzione dei propri peccati).

Di nostra vita: da un passo del Convivio, è quasi certo che Dante si riferisca all'età dei trentacinque anni, che anche dal
punto di vista religioso erano considerati la metà esatta della vita di un uomo. Il viaggio ultraterreno si collocherebbe
allora nel 1300 (anno del primo Giubileo).

Selva oscura: la selva è la condizione del peccato, dello smarrimento spirituale, conseguenza di una visione offuscata
dei sensi.

Selva selvaggia: Figura retorica denominata paronomasia, che mette vicine due parole dal suono simile ma di
significato differente.

L'altre cose ch'i' v'ho scorte: circa il “ben ch'i' vi trovai”, probabilmente Dante si riferisce a Virgilio; mentre le “altre
cose” saranno le tre fiere che lo minacciano, e da cui Virgilio stesso lo aiuterà a liberarsi.

Pien di sonno: Il “sonno” equivale alla debolezza dell'anima provocata dal peccato.

La verace via: esattamente, la “diritta via” del v. 3, ovvero una condotta di vita giusta ed illuminata dalla Grazia di Dio.

Le sue spalle vestite: la cima e il pendio del colle sono metaforicamente delle spalle coperte ("vestite") dai raggi del
Sole, simbolo assai esplicito della Grazia divina.

Pianeta che mena diritto altrui per ogne calle: è una perifrasi per indicare il Sole. Nel sistema tolemaico era
considerato un pianeta che girava intorno alla Terra. Simbolicamente è l'immagine di Dio, della Grazia illuminante,
tanto che nel Purgatorio il Sole illumina il cammino del penitente Dante (mentre il Paradiso è il vero e proprio regno
della luce). Quella del Sole come luce di Dio è del resto immagine assai ricorrente nel linguaggio delle Scritture.

Allor: ha qui valore temporale, da intendersi con “in quel momento”, “a quel punto”.

lago del cor: da intendersi come “la parte interna del cuore”, in cui, come riporta il commento di Boccaccio, abitano gli
spiriti vitali (G. Boccaccio, Esposizioni, I, 16).

La notte: è, al di là del significato letterale, anche il simbolo della condizione spirituale di Dante, al pari della selva.

Pieta: L'accento è piano, “pièta”, dal lat. pietas (in questo caso, “dolore”, “angoscia”, “sofferenza”)

Che non lasciò già mai persona viva: l'espressione può essere interpretata in diverse maniere: se si intende “che”
soggetto e “persona viva” complemento oggetto, allora si intende che il peccato conduce alla dannazione chi non è
capace di liberarsene. Se invece “che” è il complemento oggetto e la “persona viva” è il soggetto, il significato dice
invece che nessun vivente riesce ad evitare il peccato. Qualcun altro fa di “che” complemento oggetto, ma intende
“persona viva” come “persona ancora in vita”, così da significare che nessuna persona ancora viva, cioè prima della
morte, ha mai superato, a causa della sua corporeità, l'ostacolo del peccato.

Occorre sottolineare qui la novità rappresentata da questo verso immediatamente successivo alla similitudine. Prima
del v. 27 il movimento del protagonista è descritto come un “moto spiritale”, come fenomenologia dell'animo, il quale
fugge e si volge indietro raccontandosi in una metafora. A partire dal v. 27 invece, ha luogo l'ingresso del corpo, della
fisicità del protagonista e prende forma una biforcazione: “sta nascendo un duplice viaggio. La figura che vediamo ora,
la figura in carne ed ossa che si trova su questa «piaggia», si sta incamminando (prima che noi lo si sappia) verso una
porta dell'Inferno che non è una metafora e verso un viaggio che non è neanch'esso una metafora”. (Charles S.
Singleton, La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, Bologna, 1978, p. 28)

Si che 'l piè fermo sempre era 'l più basso: perifrasi per indicare l'ascesa in cui Dante s'impegna. Lungo il tragitto in
salita il protagonista procede infatti puntando il piede dietro di sé per darsi spinta. In questo modo, come ben
descrive, il piede che non segna il passo in avanti è quello che resta più in basso.

Una lonza: Specie di lince, simile alla pantera, è il primo dei tre animali (lonza, leone, lupa) che simboleggiano i tre
peccati principali che impediscono la via verso la salvezza. La lonza rappresenta la lussuria.

Secondo un'opinione degli antichi e ancor più del Medioevo, il mondo era stato creato in primavera, mentre il sole si
trovava nella costellazione dell'Ariete.

Gaetta pelle: “pelle maculata” tipica dei felini, dal latino volgare gallius, cioè “screziato come la penna di un gallo”.

L'ora del tempo e la dolce stagione: Dante pensa di poter evitare il pericolo perché il periodo è astrologicamente
favorevole (l'alba primaverile in cui Dio avrebbe creato il mondo). Abbiamo qui una prima confessione biografica del
protagonista il quale rivela che nel tempo della sua cecità morale, quello che corrisponde al suo smarrimento
simboleggiato dalla “selva oscura”, la sua speranza si affida solo e unicamente all'osservazione dei moti astrali e lì
veniva erroneamente riposta. Il racconto del viaggio intrapreso nelle tre cantiche è, dunque, anche la
rappresentazione del cammino di svelamento dello spirito umano nella prospettiva della fede e della Grazia.

La vista m'apparve d'un leone: Seconda fiera che simboleggia il peccato di superbia.

Una lupa: Terza fiera che simboleggia il peccato di cupidigia, inteso non solo come desiderio di denaro, ma anche
quello di onori e di beni terreni (come ribadito ai vv. 55-57). La lupa simboleggia l'impedimento più difficile da
estirpare. Dante la ritiene l'origine di tutti i mali di Firenze e d'Italia (le “molte genti” del v. 51).

Bestia sanza pace: perifrasi per la lupa, che si conferma così la “fiera” più temibile tra quelle incontrate dal
protagonista, dato che il peccato che incarna (l'avidità di denaro e di beni terreni) è per Dante quello che altera e
sconvolge tutti i costumi umani, e non concede alcuna tregua a chi vi incorre.

Là dove 'l sol tace: nella “selva oscura”. La bramosia rappresenta, secondo Dante, un serio impedimento per la risalita
del colle, cioè l'uscita dal peccato.

Chi per lungo silenzio pare fioco: introduzione del personaggio del poeta latino Virgilio che, secondo la versione
simbolica del poema, rappresenta la Ragione. L'immagine di Virgilio appare sbiadita come appaiono sbiadite le
immagini di coloro che a lungo sono stati assenti nella coscienza personale (e non solo dalla scena del mondo, dato
che la guida di Dante è morta praticamente tredici secoli prima). Con questo Dante vorrebbe significare che per lungo
tempo, nel tempo della perdita e del buio della selva, la luce della Ragione in lui è rimasta sopita.

Publio Virgilio Marone, poeta latino nato ad Andes nel 70 a.C. e morto a Brindisi nel 19 a.C., autore delle Bucoliche,
delle Georgiche e noto soprattutto per l'Eneide, poema epico in dodici libri che sul modello omerico racconta le
vicende di Enea, (fondatore della gens Iulia, gens a cui appartiene l'imperatore Augusto) e le vicende che precedettero
la fondazione di Roma.

Nacqui sub Iulio: “Al tempo di Giulio Cesare”, nel 70 a.C.; il riferimento a Giulio Cesare mette da subito al centro il
rilievo che ha, nel sistema ideologico di Dante, l'Impero, dai tempi di Roma sino a quelli in cui Dante compone il
poema.

Cesare, morto nel 44 a.C., non lesse mai le opere di Virgilio.

Li dèi falsi e bugiardi: gli dei pagani, che per il Virgilio dell'oltretomba non possono che essere interpretati, secondo
l'ottica cristiana, come mentitori e falsi. Da qui prende corpo poi uno dei temi centrali legati alla figura del poeta
latino, ovvero quello della sua esclusione dalla Rivelazione portata da Cristo agli uomini.

Quel giusto: Enea, uno dei principi di Troia e protagonista dell'Eneide virgiliana (in cui compare appunto con
l'appellativo di pius).
Anchise: padre d'Enea, cugino del re di Troia Priamo.

Ilïón: Altro nome che Virgilio utilizza per designare la città di Troia.

il dilettoso monte: il colle simboleggia la Grazia terrena, alla quale ogni essere umano tende per natura.

Principio e cagion di tutta gioia: l'identificazione della felicità come principio di tutte le bontà terrene si trova già
nell'Etica Nicomachea di Aristotele, e poi passa in S. Tommaso d'Aquino, uno dei principali maestri di Dante.

Vergognosa fronte: metonimia per cui la “fronte” sta ad indicare l'intero volto e l'espressione di Dante, reverente e
pudico di fronte ad uno dei suoi punti di riferimento letterari.

Lo tuo volume: opere raccolte probabilmente in un unico codice. È certo che Dante conoscesse le Bucoliche e
soprattutto l'Eneide. Resta incertezza sulle Georgiche.

Lo bello stile: cioè lo stile sublime (contrapposto a quello medio e a quello elegiaco trattati nel De Vulgari Eloquentia)
della sua produzione lirica anteriore al 1300.

La bestia: la lupa, cioè la cupidigia. La cupidigia impedisce a Dante e a tutta l'umanità la conquista della felicità terrena,
portando alla morte dello spirito.

'l veltro: celebre “enigma” del poema, la prima celebre profezia la cui spiegazione è oggetto irrisolto di discussione. Il
veltro è un cane da caccia, qui simboleggia colui che sniderà e caccerà la lupa. Variamente lo si identifica con
personaggi contemporanei a Dante: Arrigo VII, Cangrande della Scala o Uguccione della Faggiola e con qualche
ecclesiastico, ma è anche visto come un generico futuro salvatore.

Tra feltro e feltro: linguaggio oscuro e sibillino. Dante potrebbe riferirsi alle umili origini del personaggio (con
riferimento al feltro, una stoffa modesta), o all'indicazione geografica dei suoi natali: tra Feltre e Montefeltro,
all'incirca l'estensione dei territori di Cangrande della Scala.

Seconda morte: “La morte dell'anima”, cioè la condizione dei dannati. Cfr. San Francesco D'Assisi, Cantico delle
Creature: “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a
quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no 'l
farrà male”.

Un'anima di me più degna: l'anima più degna qui è naturalmente Beatrice, in quanto Virgilio visse nell'età pagana.

Oh felice colui cu' ivi elegge: metafora palesemente feudale, in cui Dio è l'Imperatore che regna nei cieli e il beato è il
“cavaliere”eletto a farne parte. Anche nel Convivio Dante definisce più volte Dio come “imperadore de l'Universo”.
Sfumatura psicologica di Virgilio, che ricorre altre volte nel poema, il quale malinconicamente rimpiange di non esser
nato nel tempo della cristianità.

La lonza, prima fiera incontrata da Dante, rappresenta la lussuria; l'angoscia e la paura provocate da essa possono
essere messe in fuga solo dall'apparizione di una belva ancora più temibile: il leone, che simboleggia la superbia.
L'ultima fiera è la lupa, cioè l'avarizia, che riduce gli uomini in miseria. L'apparizione di Virgilio è quella della
letteratura: di fronte ai pericoli della lussuria, della superbia e dell'avarizia, essa rappresenta l'unica difesa dai pericoli
dell'esistenza.

CANTO V INFERNO:

Sintesi: Nel quinto canto dell'Inferno troviamo Dante e Virgilio giunti al secondo cerchio, controllato e gestito da
Minosse, che giudica le anime dei peccatori e le destina ai vari gironi infernali a seconda delle loro colpe. Dopo essere
riusciti a superare questo mitologico guardiano, Dante capisce di trovarsi tra coloro che hanno peccato di lussuria nel
corso della loro esistenza, un peccato ben noto al poeta stesso. Il suo maestro gli mostra diverse anime illustri che si
aggirano intorno a loro, trascinate continuamente qua e là da un vento incessante: è questa la pena che devono
scontare. L’attenzione del poeta si rivolge in particolare a Paolo e Francesca. La donna racconta, dietro richiesta del
poeta, la vicenda che toccò in sorte a lei e al suo amante, il loro peccaminoso amore che è stato causa della loro
morte. Dante è particolarmente interessato a capire come questo amore è iniziato, e Francesca - mentre Paolo non
proferisce mai verbo e piange silenziosamente - racconta che tutto nacque leggendo dell’amore tra Lancillotto e
Ginevra. Quest’ultimo passaggio ci indica come all'amore-virtù (e alla sua espressione letteraria...) possa spesso
sostituirsi l'amore-passione, che contrasta con la legge di Dio. Il poeta è dunque particolarmente toccato dalla
confessione dei due lussuriosi e si commuove alle parole di Francesca tanto da perdere i sensi.

Parafrasi: E così scesi dal primo cerchio giù nel secondo, che racchiude meno spazio, ma aumenta le sofferenze che
fanno disperare [i dannati]. Si erge tremendo Minòs e minaccia ringhiando: esamina le colpe [dei dannati] all’ingresso;
le valuta e condanna avvolgendo la coda. Voglio dire che quando il dannato gli arriva davanti, confessa tutte [le sue
colpe]; e lui, giudice dei peccati, conosce il luogo dell’Inferno a lui destinato; e si avvolge [il corpo] con la coda in tanti
giri quanti sono i cerchi [che l’anima deve percorrere] per arrivare al proprio. Ci sono sempre molte [anime] davanti a
lui: si recano una alla volta verso [il suo] giudizio, si confessano e ascoltano [la sua sentenza] e poi sono buttate nella
voragine. «O tu, che sei giunto alla dimora del dolore», mi disse Minòs dopo avermi visto, interrompendo [così il suo]
compito importante, «guarda[ti] attentamente intorno e a chi ti sei affidato; non farti ingannare dalla larghezza
dell’entrata! [di questo luogo]». E la mia guida gli rispose: «Perché continui a gridare? Non ostacolare il suo viaggio
inevitabile: così si vuole nel luogo in cui si può [fare] ciò che si vuole, e non chiedere altro». Ora comincio a sentire le
grida dolorose; ora sono arrivato nel luogo in cui il pianto mi scuote. Arrivai in un luogo senza luce, che strepitava
come fa il mare in tempesta, quando è attraversato da venti contrari. Il turbine infernale, che non si ferma mai,
trascina gli spiriti con la sua forza; li tormenta, li rivolta e li colpisce. Quando [gli spiriti] arrivano di fronte alla rovina,
qui gridano, piangono e si lamentano [di più]; e qui bestemmiano la salvezza [a loro non concessa]. Capii che a tale
tormento sono condannati i peccatori della carne, i quali sottomettono la propria ragione alla passione. E come gli
stornelli volano nella stagione fredda, in stormi grandi e fitti, allo stesso modo quel vento i dannati trascina in tutte le
direzioni; e nessuna speranza mai li consola, non di riposo, ma anche di un momentaneo addolcirsi della pena. E come
le gru cantano i loro lamenti, volando in una lunga fila nel cielo, vidi allo stesso modo arrivare, emettendo suoni di
pianto, anime schierate così dalla stessa tempesta per cui dissi: «Virgilio, chi sono questi spiriti che la buia tormenta
punisce in questo modo?» «La prima tra quelle [anime] di cui chiedi notizie», mi disse egli allora, «regnò su molti
popoli. Fu a tal punto corrotta dal vizio della carne, che rese legale ciò che a ciascuno piaceva, per evitare il disprezzo
in cui poteva cadere. Ella è Semiramide, della quale si racconta che ereditò il regno da Nino e ne fu la moglie: governò
il regno che [oggi] regge il Soldano. Quest’altra è colei che si uccise per amore, e non fu fedele alla tomba di Sicheo;
[segue] poi la lasciva Cleopatra. Guarda Elena, per la quale tanto tempo [la] colpevole [guerra] durò, e guarda il grande
Achille, che combattè per amore. Guarda Paride e Tristano»; e tantissime anime mi mostrò e mi indicò e nominò, che
la passione strappò alla vita terrena. Dopo aver ascoltato la mia guida citare le donne del passato e i loro amanti, fui
pervaso da un sentimento di pietà [tale, che] ne restai confuso. Cominciai [a dire]: «Virgilio, con piacere converserei
con quelle due [anime] che procedono congiunte, e sembrano così [tanto] leggiadre nella bufera». Ed egli a me:
«Quando questi saranno più vicini a noi potrai [parlare loro]; e in quel momento li pregherai [di avvicinarsi], in nome
di quell’amore che li conduce, ed essi si avvicineranno». Veloce come il vento che a noi li avvicinava, parlai: «O spiriti
affannosi, scendete a parlarci, se Dio non lo impedisce!». Come colombe richiamate dal desiderio [che] con le ali
distese volano nell’aria all'amorevole nido, guidate dalla volontà; così questi uscirono [fuori] dalla fila di Didone,
avvicinandosi a noi attraverso l'aria infernale, a tal punto risuonò la forza del [mio] richiamo benigno. «O uomo vivo,
degno di grazia e benevolo che fai visita nel luogo perduto a noi [anime] che abbiamo macchiato il mondo col sangue,
se Dio non fosse a noi contrario, rivolgeremmo a lui delle preghiere per la tua salvezza, perché mostri pietà verso il
nostro peccato. Di quelle cose che a voi interesserà ascoltare e discutere, noi ascolteremo e discuteremo con voi, fin
tanto che la bufera [infernale], come fa [ora], qui si placa. La città in cui sono nata è posta sulle rive del mare nel punto
in cui il Po scende per sfociare coi suoi affluenti. Amore, che nel cuore nobile svelto si accende, colse costui [Paolo] per
la [mia] bellezza, che in seguito mi venne strappata; e il modo ancora mi vince. Amore, che non tollera che chi è amato
non ami a sua volta, mi rapì della bellezza di questi [Paolo] in modo così potente, che, come vedi, ancora lo amo.
Amore ci portò entrambi ad un'unica morte. Caina è in attesa di colui che ci uccise». Queste parole le anime ci
riferirono. Quando compresi la causa della loro dannazione, abbassai lo sguardo e restai a lungo pensoso, finché
Virgilio mi chiese: «A cosa pensi?». Quando [gli] risposi, dissi: «Povero me, quanti soavi pensieri, quanto desiderio
portò questi [amanti] all'Inferno!» Poi mi rivolsi a loro e parlando dissi: « Francesca, le tue sofferenze mi fanno
lacrimare di tristezza e di pietà. Ma [ti prego] di raccontarmi: nel tempo in cui ci si innamora, in che modo amore vi
concesse di comprendere i vostri desideri nascosti?». Ed ella mi [rispose]: «Non esiste sofferenza più grande del
ricordare quando si era felici nel tempo della miseria; e questo lo sa [bene] la tua guida. Ma se di sapere l'origine del
nostro amore tu hai così tanto desiderio te lo racconterò piangendo. Un giorno noi leggevamo per divertimento di
Lancillotto e del suo amore; eravamo soli e [ci sentivamo] innocenti. Più volte ci attirò lo sguardo quella lettura, e ci
fece impallidire; ma solo un punto fu quello che ci sconfisse. Quando leggemmo che la bocca desiderata veniva
baciata da quel famoso amante, costui, che mai sia diviso da me, mi baciò la bocca, tremando in ogni sua parte.
Galeotto [o testimone] fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno [noi] non vi leggemmo oltre». Mentre una delle due
anime ciò raccontava, l'altra piangeva; così che per la pietà io mi sentii mancare, come se morissi. E caddi come cade
un corpo che muore.

Così discesi del cerchio primaio: La discesa all’Inferno comincia dopo l’uscita dal primo cerchio, il Limbo.

Figure retoriche:

che men loco cinghia: la morfologia dell’Inferno è appunto quella di un cono che si restringe man mano che scende.

punge a guaio: cifra del linguaggio dantesco che evoca per immagini e suoni la dimensione materiale delle pene
inflitte. I dannati soffrono di un dolore spirituale (che, dopo il Giudizio, con la resurrezione dei corpi, si unirà a quello
fisico; cfr: Inferno XIII, vv. 79-108), e i loro lamenti sembrano simili a guaiti, come evoca la parola “guaio”, che
letteralmente significa “disgrazia”.

Stavvi Minòs...: Figlio di Giove e Europa, Minòs fu re di Creta secondo la mitologia greca; già in Omero era il giudice
delle anime dell’Ade. La fonte di Dante è però Virgilio (Eneide, VI, 432-433). Minòs si trova all’entrata del secondo
cerchio perché nel Limbo le anime non sono condannate alla sofferenza che invece spetta ai dannati. Minòs ha una
coda con la quale indica perentoriamente il cerchio in cui il dannato è destinato a soffrire in eterno.

vede qual loco...: il personaggio è animalescamente rappresentato con una coda lunghissima che si avvolge intorno al
suo corpo.

O tu che vieni...: Minòs interrompe il suo gravoso compito per richiamare Dante, che da vivo si trova eccezionalmente
tra le anime nel regno dei morti. Si tratta di una delle costanti del mondo infernale, che sottolinea ulteriormente
l'importanza, individuale e collettiva, del percorso di redenzione del poeta-pellegrino.

di cui tu ti fide: il riferimento è a Virgilio, che dai primi cerchi infernali comincia ad assumere il ruolo fondamentale di
guida e di maestro per Dante.

non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!: il riferimento all’entrata dell’Inferno racchiude un concetto espresso sia in
Virgilio (Eneide, VI, 126), che nel Vangelo di Matteo: “spatiosa via est, quae conducit ad perditionem” (Matteo, VII,
13).

E 'l duca mio: appellativo ricorrente che Dante utilizza per indicare Virgilio.

colà dove si puote ciò che si vuole: perifrasi - inserita in un'espressione divenuta proiverbiale, e spesso utilizzata anche
in senso ironico - per indicare il regno dei cieli, e quindi Dio.

d’ogne luce muto: sinestesia, in cui la sensazione visiva viene fusa con quella uditiva. L'inferno, per la sua specifica
struttura e per i significati simbolico-allegorici della cultura cristiana, si configura da subito come un luogo in cui la luce
(e quindi la redenzione divina) è del tutto assente.

ruina: la maggior parte dei commentatori è concorde nell’identificare la "ruina" con il luogo in cui è ancora visibile
l’effetto del terremoto che seguì la morte di Gesù. In altri passi dell’Inferno (XII, 32- XXIII, 137) indica uno
“scoscendimento”. Il luogo ricorda ai dannati la salvezza concessa dal sacrificio di Cristo, in contrapposizione alla loro
eterna condanna, perciò i loro lamenti aumentano ogni volta che vi passano vicino.

enno dannati i peccator carnali: i lussuriosi sono puniti in questo cerchio, per la legge del contrappasso, con una
bufera eterna; più precisamente, i peccatori “travolti, nella vita, dalla furia dei sensi, sono travolti eternamente dalla
bufera infernale” (Dante Alighieri, Inferno, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Le Monnier, 1993, p. 73).

la ragion: e cioè sottomettono alla passione quella che è la prima fonte di salvezza, la ragione. Il sistema ideologico
dantesco, che regge ed organizza tutta la Commedia, si conferma coerente sin dall'incontro con i primi dannati
infernali.

li stornei: i lussuriosi travolti dalla furia del vento infernale sono paragonati, in una similitudine molto efficace, agli
stornelli, uccelli dalle medie dimensioni che volano in grandi stormi (appunto, "a schiera larga e piena").
di qua, di là, di giù, di sù li mena: immagine di grande impatto, che mostra come gli spiriti dannati del secondo cerchio
siano condannati all’impotenza nel loro contrasto col vento. Insomma, la loro incapacità a controllare le passioni in
vita si traduce, post mortem, nell'impossibilità a dare un senso e una direzione al loro perenne essere sballottati dalla
furia degli elementi

lai: nel francese antico, lai indica un tipo di composizione musicale e poetica, spesso di argomento magico-amoroso e
di andamento narrativo. Presso i trovatori provenzali la parola designa il lamento degli uccelli e con tale significato è
passato all’italiano medievale.

ombre portate da la detta briga: Dante osserva che tra le anime del secondo cerchio ce ne sono alcune che si
muovono “in riga”, come le gru: sono le anime morte per amore.

A vizio di lussuria fu sì rotta...: la terzina si ispira ad un testo di Paolo Orosio, storico del V secolo d.C., ripreso quasi alla
lettera nei due latinismi, "licito" e "libito".

Semiramìs: Semiramide, regina degli Assiri. La sua figura, da alcuni ritenuta storica, da altri leggendaria, nel Medioevo
era ritenuta un esempio (quasi per antonomasia) di immoralità.

tenne la terra che 'l Soldan corregge: Dante si riferisce qui al sultano di Babilonia in Egitto, che però potrebbe aver
confuso con la Babilonia mesopotamica, la quale fu capitale del regno assiro. Secondo alcune fonti storiche tuttavia, il
marito di Semiramide, Nino, conquistò l’Egitto, per cui il riferimento di Dante potrebbe essere corretto se riferito a
questa notizia.

L'altra è colei che s'ancise amorosa: il riferimento qui è a Didone, regina di Cartagine. Come narrato da Virgilio
nell’Eneide (libro IV), Didone, vedova di Sicheo e innamorata di Enea, si tolse la vita dopo il suo abbandono.

Cleopatràs: Cleopatra fu regina d’Egitto e visse tra il 69 e il 30 a.C. Amante di Cesare e Antonio e si tolse la vita dopo la
battaglia di Azio, persa contro Ottaviano.

Elena: moglie di Menelao, re di Sparta, innamorata di Paride, fuggì con lui a Troia, provocando la famosa guerra tra
greci e troiani che durò dieci anni.

e vedi 'l grande Achille...: Achille fu l’eroe greco che, secondo racconti medievali appartenenti al ciclo troiano, si
innamorò di Polissena, figlia di Priamo, re di Troia.

Vedi Parìs, Tristano: Paride, fu il principe troiano figlio di Priamo che rapì Elena, mentre Tristano, personaggio del ciclo
arturiano, si innamorò di Isotta e fu ucciso dallo zio e marito di lei, re Marco di Cornovaglia.

le donne antiche e ' cavalieri: mentre i personaggi femminili (Semiramide, Didone, Cleopatra) nominati da Virgilio
appartengono all’antichità o al mito, quelli maschili, nella figura di Tristano e di Achille, sono alcuni dei protagonisti dei
romanzi medievali. A ciò si deve la definizione di “cavalieri”.

Dante manifesta il desiderio di comunicare ad una coppia di anime. I due personaggi, Francesca da Polenta e Paolo
Malatesta, fanno parte di quel gruppo che disegnano “in aere di sé lunga riga” (v. 47), di cui Virgilio ha appena citato
gli esempi più noti, ovvero quelli che si uccisero o furono uccisi per amore. Paolo e Francesca, che volano congiunti
nella tempesta, sembrano volare leggeri agli occhi di Dante. La loro vicenda storica è assai nota: Francesca è figlia di
Guido il Vecchio, signore di Ravenna, Paolo è invece un Malatesta, dei signori di Rimini. Il marito, di lei, Gianciotto è
fratello di Paolo. I due cognati si innamorano, ma sorpresi dal marito vengono trucidati insieme. Il fatto risale al 1282-
1283 circa (altre fonti collocano il massacro nel 1285).

Sì tosto... la voce: Dante modula la voce secondo i capricci del vento.

s'altri: il riferimento qui è alla volontà divina.

Quali colombe...: di nuovo un paragone con il volo degli uccelli, che ben si adatta al clima e al contesto (la riflessione
pietosa e rattristata sugli effetti nefasti dell'amore) dell'intero canto.

de la schiera ov' è Dido: dalla schiera cioè, di coloro che morirono uccise o si suicidarono per amore, come avvenne
per la Didone virgiliana.
animal: espressione di provenienza aristotelica per indicare ogni essere animato.

noi che tignemmo il mondo di sanguigno: il riferimento è alle anime che morirono uccise o suicide per amore, con un
netto contrasto tra la dolcezza stilnovistica dell'amore tra Paolo e Francesca e la violenza che l'ha soffocato nel
sangue.

il re dell’universo: perifrasi per riferirsi a Dio, insolita per un dannato. Chi parla è Francesca, la quale dà mostra nelle
sue espressioni di una sensibilità umana che conserva, nonostante la sua dannazione, tratti di nobile gratitudine e di
umiltà. Il dialogo con Dante, nel suo procedere, restituisce la dimensione cortese (cioè, quella di una conversazione tra
anime nobili ed elette) della sua pur triste e sanguinosa vicenda.

ci: ” per “qui”.

nuovo riferimento alla pace, come nel v.92, che marca il rimpianto di Francesca per la perdita in eterno della quiete,
per aver ceduto alla passione dei sensi.

Amor: prima delle tre terzine in cui Francesca narra in sintesi la sua vicenda, e che si aprono tutte con la parola
“Amor”, quasi ad evocare una forza superiore che travalica ogni volontà individuale (i lussuriosi sono del resto coloro
“che la ragion sottomettono al talento”, v. 39). Una lunga tradizione letteraria, dall’amore cortese allo Stilnovo,
argomenta in varie maniere questo tipo di condizione. Tra i romanzi cortesi è bene menzionare uno dei protagonisti
del ciclo arturiano, Lancillotto, e in particolare il romanzo di Chrétien de Toyes Lancelot ou le Chevalier à la charrette,
romanzo che la stessa Francesca citerà dal v. 128.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona: concetto trattato ampiamente nella dottrina amorosa di Andrea Cappellano
(Andrea Cappellano, De Amore, SE editore, Milano, 2002), molto nota nel Medioevo.

mi prese del costui piacer sì forte: origine dell’amore è la bellezza fisica, un concetto presente in tutta la letteratura
cortese, passando per la scuola siciliana, fino alla lirica stilnovistica.

Caina: primo girone del IX cerchio dell’Inferno, dove si puniscono i traditori dei parenti.

il tragico epilogo della vicenda di Paolo e Francesca (entrambi furono uccisi per ordine di Gianciotto, marito di lei e
fratello di lui) deve ancora trovare adempimento nell’aldilà: dopo la sua morte, l’uccisore verrà precipitato nel punto
più basso dell’Inferno.

Quand' io intesi quell'anime offense: Dante comincia a mostrare umana partecipazione e pietà nei confronti del
destino dei due amanti, che, soggiogati dalla potenza di un sentimento in sé benevolo, sono condannati a subire una
dura punizione eterna. Comincia così una silenziosa riflessione, interrotta poi dalla domanda di Virgilio, in cui,
probabilmente, il protagonista medita sul valore ambivalente dell’amore: l’amore inteso come passione dei sensi che
soggioga (“offende” v. 109) lo spirito, contrapposto all’amore-virtù che lo arricchisce e lo innalza.

e ciò sa 'l tuo dottore: Virgilio, relegato nel Limbo in quanto pagano, può comprendere la sofferenza che provoca il
ricordo della felicità terrena nella condizione eterna di lontananza dalla beatitudine celeste.

di Lancialotto come amor lo strinse: Lancillotto del Lago, personaggio dei romanzi del ciclo arturiano, è il protagonista
del romanzo cortese di Chrétien de Troyes Lancelot ou le chevalier à la charrette, in cui si narra l’amore di questi per la
regina Ginevra, moglie di re Artù. Il riferimento è all’episodio del bacio tra i due amanti.

soli eravamo e sanza alcun sospetto: i due amanti non avevano alcun sospetto che il loro amore sarebbe diventato in
seguito colpevole. Ciò ovviamente aggiunge una nota patetica e melodrammatica al racconto di Francesca, e appunto
al suo rimembrare il tempo felice della vita terrena nella sua condizione di dannata per l'eternità.

Galeotto: nella vicenda di Lancillotto e Ginevra, il personaggio di Galehaut (italianizzato in "Galeotto") è il testimone, o
“mallevadore”, del loro amore. Questi, siniscalco della regina Ginevra, la induce a baciare il cavaliere; così in Dante la
vicenda narrata dal libro, o il libro stesso, diventano a loro volta testimoni, “mallevadori” dell’amore peccaminoso di
Paolo e Francesca.

Mentre che l'uno spirto... cade: la pietà del poeta verso la vicenda dei due tristi amanti (uno dei quali, Paolo, resta
costantemente nell’ombra e non parla, ma si commuove e piange durante il racconto dell’amata) arriva al culmine e il
canto si chiude con il suo svenimento.
CANTO XXIV INFERNO

Sintesi: Dante e Virgilio si arrampicano lungo l'argine della VI Bolgia e giungono nella VII Bolgia dell'VIII Cerchio
(Malebolge),in cui sono puniti i ladri. Incontro con Vanni Fucci, che profetizza a Dante le vicende del suo esilio. È la
mattina di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, tra le dieci e le undici.

Sgomento e conforto di Dante (1-21)

Dante è stupito nel vedere Virgilio corrucciato per le parole di Catalano, come il contadino che alla fine dell'inverno si
alza al mattino e vede la terra coperta di brina, la scambia per neve ed è disperato, poi però si accorge che la brina si è
sciolta e, riconfortato, esce contento a pascolare le bestie. Allo stesso modo, infatti, il maestro ha fatto preoccupare
Dante che lo ha visto turbato, ma non appena i due giungono alla rovina del ponte roccioso Virgilio si rivolge al
discepolo con la stessa dolcezza dimostrata ai piedi del colle.

Ascesa sull'argine della VII Bolgia (22-60)

Virgilio osserva con attenzione la rovina, poi apre le braccia e sorregge Dante aiutandolo nella salita, spingendolo cioè
verso uno spuntone di roccia cui possa aggrapparsi e dandogli preziose indicazioni su come proseguire. La via è
impervia, tale che i due possono a malapena compiere la scalata, aiutati dal fatto che le Malebolge sono un piano
inclinato verso il pozzo centrale e quindi la sponda interna di ogni Bolgia è meno ripida e più corta di quella esterna.
Con enormi sforzi i due poeti raggiungono la sommità dell'argine e Dante è senza respiro, al punto che si siede appena
arrivato. Virgilio lo rimprovera dicendogli che non si raggiunge la fama stando seduto o sotto le coperte, e senza fama
la vita di un uomo è destinata a passare come fumo nell'aria e schiuma nell'acqua. Lo esorta ad alzarsi e a vincere la
sua stanchezza, dal momento che essi devono compiere una ben più ardua salita (fino al cielo). Le parole del maestro
hanno l'effetto di scuotere Dante, che si alza e si dice pronto a proseguire il cammino.

La Bolgia dei ladri (61-96)

I due poeti prendono il ponte che sovrasta la VII Bolgia, assai più stretto e disagevole di quello percorso sopra la V
Bolgia. Dante parla per non apparire troppo stanco, ma a un tratto sente una voce proveniente dalla Bolgia, che
pronuncia parole incomprensibili. Dante è già arrivato al punto più alto del ponte e anche da lì non capisce quello che
sente, salvo che chi sta parlando sembra si stia muovendo. Guardando nel fondo della Bolgia non vede nulla per
l'oscurità, quindi prega Virgilio di raggiungere l'argine che separa la Bolgia dalla successiva e il maestro volentieri
acconsente. I due percorrono tutto il ponte sino all'argine tra la VII e l'VIII Bolgia e da qui Dante può vedere che la
fossa è piena di orribili serpenti, tutti diversi tra loro, e lo spettacolo è così spaventoso da fargli ancora paura al
ricordarlo. Il deserto di Libia non produce rettili più numerosi e orrendi di quelli, nè l'Etiopia o l'Arabia. In questo
ammasso di serpenti corrono dannati nudi e terrorizzati (i ladri), con le mani legate dietro la schiena da serpi che
insinuano il capo e la coda attorno ai fianchi, annodandosi davanti al ventre.

Apparizione di Vanni Fucci (97-126)

Un dannato è assalito da un serpente, che lo morde sulla nuca: lo sventurato arde e in un batter d'occhio si trasforma
in cenere, per poi cadere a terra, raccogliersi e tramutarsi di nuovo nella stessa figura di prima, in modo assai simile a
ciò che si narra della fenice che muore e rinasce ogni cinquecento anni. Il peccatore si rialza e ha l'aria sgomenta,
come colui che cade a terra vittima di un'ossessione diabolica o di una paralisi. Virgilio gli chiede chi sia e il dannato
risponde di essere finito lì dalla Toscana poco tempo prima. Il suo nome è Vanni Fucci e Pistoia è la città in cui è nato,
vivendo un'esistenza degna di una bestia.

Profezia della sconfitta dei Guelfi Bianchi (127-151)

Dante prega Virgilio di dire al dannato di non scappare e di chiedergli quale colpa lo abbia condotto all'Inferno, dal
momento che il poeta crede di averlo conosciuto in vita. Il peccatore sente le parole di Dante e non si nasconde,
rivolgendo a lui il viso con vergogna; poi dichiara di dolersi più del fatto di essere visto da lui in questa misera
condizione che non di aver perso la vita. Non potendo negare una risposta a Dante, afferma di scontare il furto degli
arredi sacri nel duomo di Pistoia, falsamente attribuito ad altri. Poi ingiunge al poeta di ascoltare il suo annuncio,
perché una volta tornato sulla Terra non goda di averlo visto tra i dannati: profetizza che prima Pistoia caccerà i Guelfi
Neri, poi Firenze farà lo stesso coi Bianchi e poco dopo una tempesta uscita dalla Lunigiana (Moroello Malaspina)
conquisterà Pistoia e con essa l'ultimo caposaldo dei Bianchi fiorentini. Vanni conclude la profezia precisando che ha
detto tutto ciò per fare del male a Dante.

Interpretazione complessiva

Il Canto è dedicato alla presentazione della Bolgia dei ladri, la cui descrizione occuperà anche il Canto successivo e sarà
caratterizzata da uno stile particolarmente ricercato, specie nel descrivere le metamorfosi dei dannati. Protagonista
dell'episodio è Vanni Fucci, che però compare solo nella seconda parte del Canto e all'inizio del successivo, mentre
buona parte del XXIV è occupato dal percorso di avvicinamento alla VII Bolgia in un «crescendo» che culmina nelle
parole irose del ladro pistoiese. Il Canto si apre coi due poeti ancora nella VI Bolgia, dopo che Virgilio ha appreso
dell'inganno di Malacoda e si duole di essere stato beffato. La similitudine dell'esordio paragona lo sgomento di Dante
di fronte al maestro a quello del contadino che una mattina di fine inverno scambia la brina per neve, disperandosi per
i propri animali e poi rincuorandosi quando capisce il proprio errore; lo stesso accade a Dante quando vede Virgilio
rasserenato, che anzi lo aiuta e lo sprona a scalare la rovina di rocce per guadagnare la sommità dell'argine. È
un'ascesa ardua e sfiancante, specie per Dante che ha un corpo in carne ed ossa, ma il maestro lo esorta a proseguire
perché non si guadagna la fama restanto sotto coltre (naturalmente è la fama positiva, che si acquista con azioni
onorevoli, al contrario di quella dei ladri che si sono macchiati di colpe infamanti: non a caso Vanni Fucci si lamenterà
proprio di essere visto da Dante nella miseria della dannazione). Virgilio accenna anche al seguito del viaggio dantesco
che dovrà salire più lunga scala, fino al Paradiso Terrestre dove lo attende Beatrice, il che ovviamente riempie Dante di
buoni propositi e indica che il percorso del poeta è illuminato dalla grazia. La seconda parte del Canto mostra la Bolgia
dei ladri, dalla quale provengono voci incomprensibili e in cui Dante non vede nulla per l'oscurità. È come se il poeta
volesse creare nel lettore l'attesa per lo spettacolo orribile della fossa, che infatti viene mostrato solo dal v. 81: un
groviglio spaventoso di serpenti, quale neppure il deserto di Libia, Etiopia o Arabia potrebbe eguagliare (l'accenno alla
Libia preannuncia la gara poetica che Dante farà con Lucano nel Canto seguente, poiché nel Bellum civile il poeta
latino aveva descritto i serpenti del deserto africano attraversato dai soldati di Catone, vittime anch'essi di orrende
metamorfosi). Vanni Fucci compare nei versi finali, ma ancora una volta senza una presentazione diretta, creando
maggiore attesa: il dannato subisce una trasformazione, quindi è Virgilio (su invito di Dante) a chiedere il suo nome. La
«prosopopea» del ladro è quale possiamo attenderci da un personaggio simile, improntata all'ira e alle metafore
animalesche: Vanni dice di essere piovuto da poco dalla Toscana in questa gola fiera, di aver amato una vita bestial... e
non umana, di essere stato una bestia e un «mulo», cioè un bastardo (pare che «bestia» fosse il suo soprannome), di
aver avuto Pistoia come tana. La sua figura è in parte simile a quelle di Farinata e Capaneo in quanto anch'essi
disdegnavano la giustizia divina, ma il ladro si mostra ancor più furente e dominato dall'ira e, soprattutto, si duole di
essere visto da Dante in questa miserabile condizione. Vanni non ha dunque nulla della grandezza tragica di quei
personaggi e sfoga tutto il suo malanimo verso Dante, specie per essere costretto a rispondere alla sua domanda e
svelare quale peccato lo abbia condotto lì, cioè il furto degli arredi sacri nel duomo di Pistoia che falsamente era stato
attribuito ad altri (come sempre il racconto dantesco svela la verità della condizione ultraterrena, ristabilendo la verità
e attribuendo le giuste responsabilità ad ognuno). La conclusione è in linea con il tono dell'episodio, in quanto Vanni
predice a Dante le future sciagure dei Guelfi Bianchi negli anni del suo esilio per procurargli dolore (per il fatto che
Dante lo ha visto lì e perché Vanni era Guelfo Nero, quindi avversario politico del poeta). Qualcosa di simile aveva
fatto anche Farinata, ma qui siamo molto lontani dalla compostezza e dalla dignità del capo ghibellino: Vanni predice
in modo oscuro e minaccioso la presa di Pistoia da parte di Moroello Malaspina nel 1306, paragonandolo a un fulmine
avvolto da nubi oscure che verrà dalla Lunigiana a combattere i Bianchi nel Pistoiese, fino a colpirli tutti e a rendere
impossibile il rientro degli esuli di parte Bianca a Firenze. La profezia finale si ricollega in parte alla similitudine iniziale,
che spiegava la disperazione di Dante per l'incertezza sul prosieguo del viaggio (per l'atteggiamento di Virgilio) e poi il
conforto, mentre qui sono le parole di Vanni a gettare un'ombra di inquietudine sul futuro del poeta come già aveva
fatto Farinata. Allora Virgilio aveva confortato Dante preannunciadogli che Beatrice gli avrebbe spiegato ogni cosa,
mentre qui durante l'ascesa il maestro aveva ricordato a Dante che lui giungerà nell'Eden, dove sarà proprio la donna
ad attenderlo; l'accenno alla fama non è dunque casuale, essendo Dante destinato ad ottenerla grazie a ciò che
scriverà nel poema, come del resto in Paradiso gli verrà spiegato da Cacciaguida dopo avergli chiarito ogni dubbio sul
suo destino personale.

Le profezie dell'esilio nell'Inferno

Sono in tutto quattro, affidate a personaggi molto diversi tra loro e riguardanti aspetti diversi della vicenda biografica
di Dante; come anche quelle del Purgatorio, hanno in comune il carattere poco chiaro e oscuro, che renderà
necessaria la chiosa di Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso. La prima è quella di Ciacco (VI), che risponde alle
domande di Dante sul destino politico di Firenze e spiega che Bianchi e Neri si combatteranno, coi Bianchi che
dapprima prevarranno ma poi saranno cacciati dai Neri di lì a pochi anni, alludendo al colpo di mano operato da Carlo
di Valois che rovescerà i Bianchi nel 1301 e provocherà indirettamente l'esilio di Dante. La seconda, più diretta, è
affidata a Farinata Degli Uberti (X), che profetizza a Dante non l'esilio in sé ma la sconfitta nella battaglia della Lastra
che nel 1304 impedirà definitivamente ai fuoriusciti fiorentini di rientrare in città (quindi Dante saprà quanto pesa
l'arte di non poter tornare, come accadde ai Ghibellini del tempo del dannato). La terza è messa in bocca a Brunetto
Latini (XV), l'ex-maestro di Dante che parla in tono più affettuoso ma non meno oscuro, predicendo che le sue buone
azioni gli procureranno l'invidia e l'ostilità dei fiorentini, Bianchi e Neri, ma lui sarà lontano e non potrà subire la loro
irosa vendetta. Infine quella di Vanni Fucci (XXIV), la più enigmatica di tutte, che allude alla presa di Pistoia (ultima
roccaforte dei Bianchi) da parte del signore di Lunigiana Moroello Malaspina, paragonato a un fulmine avvolto da nere
nubi che scatenerà una tempesta sul territorio pistoiese, tale da squarciare le nubi e colpire ogni Guelfo Bianco;
Moroello sarà evocato, secondo Vanni, da Marte, dio della guerra nonché primo protettore della città di Firenze (il
suicida del finale del Canto XIII aveva detto che il dio pagano, per questo, avrebbe sempre rattristato i fiorentini con la
sua arte, cioè la guerra).

Figure retoriche:

La prima terzina indica il periodo dell'anno appena iniziato in cui si è sotto la costellazione dell'Acquario e la durata
della notte eguaglia quasi quella del giorno (si è vicini all'equinozio primaverile). Al v. 18 impiastro significa
propriamente «medicina», quindi «rimedio».

I vv. 34-40 spiegano la formazione delle Malebolge, il cui piano digrada verso il pozzo centrale, quindi ogni fossa ha la
parete esterna (verso l'alta ripa) più alta e ripida, quella interna (verso il pozzo) pià bassa e meno ripida.

La voce di cui si parla al v. 65 è certo di uno dei ladri della Bolgia, ma non è sicuro che si tratti di Vanni Fucci che
comparirà poco dopo. Alcuni mss. leggono il v. 69 ma chi parlava ad ira parea mosso, mentre la lezione a testo, più
difficile, indica che chi parla sembra in movimento (nel senso che la voce sembra allontanarsi o avvicinarsi).

I serpenti elencati ai vv. 86-87 (chelidri, iaculi, faree, cencri, anfisibene) sono tutti citati da Lucano in Phars., IX, 710 ss.;
il passo prelude alla gara poetica che Dante farà con lui e Ovidio nel Canto successivo.

L'elitropia era, secondo i lapidari medievali, una pietra dalle magiche virtù, tra cui quella di curare dal morso di
serpente e di rendere invisibili chi si poneva sotto di essa (cfr. Boccaccio, Dec., VIII, 3).

La pena dei ladri ha un contrappasso evidente, in quanto le serpi (animali demoniaci, immagine del maligno che tentò
Eva) legano loro le mani dietro la schiena; i dannati si trasformeranno essi stessi in serpenti, a sottolineare la natura
maligna e bifida del loro peccato.

I vv. 112-114 paragonano il ladro che si riprende dalla metamorfosi a chi è svenuto improvvisamente, a causa di
un'ossessione diabolica o di una oppilazion, un'ostruzione degli spiriti vitali che era prevista dalla fisiologia del tempo.

Il senso del verbo mucci (v. 127) è probabilmente «scappare», ma l'intepretazione è controversa.

Campo Piceno (v. 148) indica il territorio di Pistoia, così detto per una errata interpretazione di un passo di Sallustio
(Cat., 57).

Parafrasi: In quella stagione dell'anno iniziato da poco, in cui il sole intiepidisce i raggi sotto la costellazione
dell'Acquario e la durata delle notti si avvicina a quella dei giorni, quando la brina sulla terra ricorda l'immagine della
sua bianca sorella (la neve), ma la sua penna non ha per molto l'inchiostro (è destinata a durar poco), il contadino a cui
manca il foraggio si alza e guarda fuori, e vede la campagna tutta bianca: allora si batte il fianco, ritorna in casa, si
lagna qua e là, come il pover'uomo che non sa cosa fare; poi ritorna e riacquista la speranza, vedendo che il mondo ha
cambiato volto (che la brina si è sciolta) in poco tempo, e prende il suo bastone e porta le pecore fuori al pascolo. Così
il maestro mi fece impallidire quando io lo vidi col volto così turbato, e altrettanto rapidamente giunse il rimedio al
male; infatti, come noi giungemmo alla rovina del ponte, la mia guida si rivolse a me con l'espressione dolce che vidi in
lui ai piedi del colle. Aprì le braccia e dopo aver considerato per un po' tra sé guardando bene la rovina, mi sollevò. E
come colui che agisce e riflette sul da farsi, che sembra sempre pensare prima a cosa fare, così, sollevandomi verso la
sporgenza di una roccia, individuava un altro spuntone dicendomi: «Aggrappati poi a quello; ma prima prova a vedere
se ti regge». Non era un cammino per gente che indossasse il mantello, poiché noi potevamo a malapena salire di
spuntone in spuntone, Virgilio senza il corpo mortale e io spinto da lui. E se non fosse che da quella parte (interna)
dell'argine la parete era più corta, non so lui ma io non ce l'avrei fatta. Ma poiché le Malebolge declinano verso il
margine del profondo pozzo, la posizione di ciascuna Bolgia fa sì che una parete è più alta dell'altra; alla fine
giungemmo in cima alla rovina, sulla sommità dell'argine. Non avevo più fiato nei polmoni quando fui arrivato in alto,
al punto che non potevo proseguire oltre, anzi, mi sedetti non appena arrivai. Il maestro mi disse: «Ora conviene che
tu ti dia da fare, poiché sedendo sui cuscini o stando sdraiati sotto le coperte non si acquista la fama; e chi passa la sua
vita senza di essa, lascia sulla Terra una traccia di sé paragonabile al fumo nell'aria e alla schiuma nell'acqua. Dunque
alzati subito: vinci l'affanno con l'animo che vince ogni contrasto, se il corpo pesante non l'abbatte. Dobbiamo salire
una scala ben più ardua; non è sufficiente esserci separati da questi dannati e se mi capisci fa' in modo che ciò ti
giovi». Allora mi alzai, mostrando di avere maggiore energia di quanto fosse in realtà, e dissi: «Va', che sono forte e
pieno di coraggio». Prendemmo la via su per il ponte roccioso, che era impervio, stretto e difficile da percorrere, e
assai più ripido di quello precedente. Per non sembrare affaticato andavo parlando; a un tratto si sentì provenire dalla
Bolgia una voce che pronunciava parole sconnesse. Non so cosa dicesse, anche se ero già al culmine del ponte che
sovrastava la fossa; ma chi parlava sembrava che si stesse muovendo. Io guardavo in basso, ma i miei occhi per quanto
attenti non potevano vedere il fondo oscuro; allora dissi: «Maestro, cerchiamo di raggiungere la fine del ponte e
scendiamo sull'argine; infatti da qui ascolto e non sento, e guardo in basso e non vedo nulla». Mi disse: «Non ti do
altra risposta se non con l'agire; infatti alla giusta domanda devono seguire i fatti e non le parole». Noi scendemmo là
dove il ponte si congiunge con l'argine dell'VIII Bolgia, e da lì potei vedere la VII: e vidi all'interno un orribile groviglio di
serpenti, di specie talmente diverse che il solo ricordarlo mi guasta il sangue. La Libia non si vanti più con la sua sabbia,
poiché se produce chelidri, iacule, faree, cencri e anfisibene, non mostrò mai tanti animali pestiferi con tutta l'Etiopia
e con la regione (Arabia) all'altezza del Mar Rosso. In mezzo a questa orrenda e tristissima calca correvano dannati
nudi e spaventati, senza speranza di un rifugio o dell'elitropia: avevano le mani legate dietro la schiena da serpi, che
insinuavano lungo la schiena la coda e il capo e si annodavano davanti al ventre. Ed ecco che un serpente si avventò
contro un dannato che era dalla nostra parte e lo morse sulla nuca, tra collo e spalle. Non si scrissero mai una "o" né
una "i" così velocemente come quello si accese e bruciò, e diventò tutto cenere cadendo a terra; e dopo essere caduto
al suolo così ridotto, la cenere si raccolse da sé e il dannato riacquistò improvvisamente le sue sembianze. Così i saggi
narrano che la fenice muore e poi rinasce, quando è vicina ai cinquecento anni di età; nella sua vita non si nutre di
erba né di biada, ma solo di lacrime di incenso e di amomo, e il suo ultimo nido è fatto di foglie di nardo e mirra. E
come colui che cade senza saperne la causa, per la forza di un demone che lo tira a terra o di un'ostruzione degli spiriti
vitali, e quando si rialza si guarda intorno, tutto smarrito per il dolore che ha sofferto e guarda sospirando; così era il
peccatore dopo essersi rialzato. Oh, potenza divina, quanto sei severa dal momento che assesti colpi tali per la tua
vendetta! Il maestro domandò poi al dannato chi fosse, per cui rispose: «Io venni dalla Toscana in questa fossa crudele
da poco tempo. Mi piacque la vita di una bestia e non di un uomo, proprio come il bastardo che fui; sono Vanni Fucci,
detto la bestia, e Pistoia fu la tana dove sono vissuto». E io a Virgilio: «Digli che non scappi e chiedigli quale colpa lo ha
portato quaggiù; infatti lo conobbi quand'era ancora in carne e ossa». E il dannato, che sentì, non si nascose ma anzi
alzò il viso verso di me e si dipinse tristemente di vergogna; poi disse: «Mi spiace più che tu mi veda in questa misera
condizione, che non di essere stato strappato dalla vita mortale. Non posso negare quello che mi chiedi; sono dannato
in questa Bolgia perché commisi il furto degli arredi sacri nella sacrestia, che fu attribuito a torto ad altri. Ma affinché
tu non possa godere di questa visione, se mai uscirai da questi luoghi oscuri, apri le orecchie e ascolta la mia profezia:
prima Pistoia esilierà i Guelfi Neri, poi sarà Firenze a liberarsi dei Bianchi. Marte attirerà dalla Val di Magra (Lunigiana)
un vapore igneo (fulmine) che sarà avvolto di nere nubi; e con una tempesta impetuosa e tremenda si combatterà nel
territorio pistoiese; quindi il fulmine (Moroello Malaspina) spazzerà via la nebbia e ogni Guelfo Bianco sarà ferito. E ho
detto questo per farti del male!».

CANTO XXVI INFERNO

Sintesi: Visione dell'VIII Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti i consiglieri fraudolenti. Incontro con
Ulisse e Diomede, avvolti dalla stessa fiamma. Ulisse racconta a Dante e Virgilio le circostanze della sua morte. È
mezzogiorno di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.

Invettiva contro Firenze (1-12): Dante rivolge un aspro rimprovero a Firenze, che può davvero vantarsi della fama che
ha acquistato in ogni luogo e persino all'Inferno, dove il poeta ha visto (nella VII Bolgia) ben cinque ladri tutti fiorentini
che lo fanno vergognare e non danno certo onore alla città. Ma se è vero che i sogni fatti al mattino sono veritieri,
allora Firenze avrà presto la punizione che molti le augurano, compresa la piccola città di Prato: se anche già fosse così
sarebbe troppo tardi e più passerà il tempo, più il castigo della città sarà grave per il poeta invecchiato.

La Bolgia dei consiglieri fraudolenti (13-48): Dante e Virgilio si allontanano dalla VII Bolgia e risalgono sul ponte
roccioso nel punto dove erano scesi a fatica, quindi proseguono lungo il cammino erto in cui bisogna aiutarsi con le
mani. Giunti al culmine del ponte, Dante guarda in basso e ciò che vede lo induce a tenere a freno il proprio ingegno,
perché non agisca senza l'aiuto della virtù e perché il poeta così facendo non si privi del bene che un destino
favorevole gli ha concesso. Come il contadino, che d'estate si riposa sulla collina alla fine della giornata e vede nella
valle sottostante tante lucciole, altrettante fiamme vede Dante sul fondo della VIII Bolgia. E come il profeta Eliseo vide
il carro che rapì Elia allontanarsi nel cielo, scorgendo solo una fiamma che saliva, così Dante vede solo le fiamme
muoversi nella fossa, senza distinguere il peccatore nascosto dal fuoco. Il poeta si sporge dal ponte per vedere,
protendendosi al punto che cadrebbe di sotto se non si aggrappasse a una sporgenza rocciosa; e Virgilio, che lo vede
così attento, gli spiega che dentro ogni fuoco c'è lo spirito di un peccatore (i consiglieri fraudolenti) che è come
fasciato dalle fiamme.

Incontro con Ulisse e Diomede (49-75): Dante ringrazia il maestro della spiegazione, anche se aveva già capito che ogni
fiamma nascondeva un peccatore, quindi gli chiede chi ci sia dentro il fuoco che si leva con due punte, simile al rogo
funebre di Eteocle e Polinice. Virgilio risponde che all'interno ci sono Ulisse e Diomede, i due eroi greci che furono
insieme nel peccato e ora scontano insieme la pena. I due sono dannati per l'inganno del cavallo di Troia, per il raggiro
che sottrasse Achille a Deidamia e per il furto della statua del Palladio. Dante chiede se i dannati possono parlare
dentro il fuoco e prega Virgilio di far avvicinare la duplice fiamma, tanto è il desiderio che lui ha di parlare coi dannati
all'interno. Virgilio risponde che la sua domanda è degna di lode, tuttavia lo invita a tacere e a lasciare che sia lui a
interpellare i dannati, perché essendo greci sarebbero forse restii a parlare con Dante.

Il racconto di Ulisse: viaggio alle colonne d'Ercole (76-111): Quando la fiamma giunge abbastanza vicina ai due poeti,
Virgilio si rivolge ai due dannati all'interno e prega uno di loro di raccontare le circostanze della sua morte, in virtù dei
meriti che lui ha acquistato presso entrambi, in vita, quando scrisse gli alti versi. La punta più alta della fiamma inizia a
scuotersi, come se fosse colpita dal vento, quindi emette una voce come una lingua che parla. Ulisse racconta che
dopo essersi separato da Circe, che l'aveva trattenuto più di un anno a Gaeta, né la nostalgia per il figlio o il vecchio
padre, né l'amore per la moglie poterono vincere in lui il desiderio di esplorare il mondo. Si era quindi messo in viaggio
in alto mare, insieme ai compagni che non lo avevano lasciato neppure in questa occasione; si erano spinti con la nave
nel Mediterraneo verso ovest, costeggiando la Spagna, la Sardegna, il Marocco, giungendo infine (quando lui e i
compagni erano molto anziani) fino allo stretto di Gibilterra, dove Ercole pose le famose colonne. La nave era giunta
allo stretto, tra Siviglia e Ceuta.

Il racconto di Ulisse: viaggio nell'emisfero sud (112-142): Ulisse si era rivolto ai compagni, esortandoli a non negare alla
loro esperienza, giunti ormai alla fine della loro vita, l'esplorazione dell'emisfero australe della Terra totalmente
disabitato; dovevano pensare alla loro origine, essendo stati creati per seguire virtù e conoscenza e non per vivere
come bestie. Il breve discorso li aveva talmente spronati a proseguire che Ulisse li avrebbe trattenuti a stento: misero
la poppa della nave a est e proseguirono verso ovest, passando le colonne d'Ercole e dando inizio al loro folle viaggio.
La notte mostrava ormai le costellazioni del polo meridionale, mentre quello settentrionale era tanto basso che non
sorgeva più al di sopra dell'orizzonte. Il plenilunio si era già ripetuto cinque volte (erano passati cinque mesi) dall'inizio
del viaggio, quando era apparsa loro una montagna (il Purgatorio), scura per la lontananza e più alta di qualunque
altra avessero mai visto. Ulisse e i compagni se ne rallegrarono, ma presto l'allegria si tramutò in pianto: da quella
nuova terra sorse una tempesta che investì la prua della nave, facendola ruotare tre volte su se stessa; la quarta volta
la inabissò levando la poppa in alto, finché il mare l'ebbe ricoperta tutta.

Interpretazione complessiva

Il Canto si svolge interamente nella VIII Bolgia dell'VIII Cerchio, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti, e il
protagonista assoluto è Ulisse, attraverso il cui personaggio Dante intende svolgere un importante discorso relativo
alla conoscenza (analogo per certi versi a quello affrontato nel Canto XX con gli indovini). La struttura dell'episodio è in
parte simile a quella del Canto XXIV, con un'apertura che commenta quanto si è visto nel passo precedente (l'invettiva
contro Firenze, che non può andare fiera della presenza di cinque suoi cittadini nella Bolgia dei ladri), un lento
avvicinamento alla Bolgia successiva con la faticosa salita lungo le rocce e il ponte, la descrizione delle fiamme che
costellano il fondo della fossa e infine la presentazione del protagonista dopo una lunga attesa. Dante si mostra subito
molto interessato alla pena di questa categoria di dannati, probabilmente perché si sente in parte coinvolto nel loro
peccato: come nel Canto V, quando aveva compreso subito chi fossero i dannati del II Cerchio, anche qui capisce da
solo che dentro ogni fiamma c'è un peccatore e la conseguente spiegazione di Virgilio è pressoché inutile. In effetti la
colpa di questi dannati è legata alla conoscenza e, soprattutto, all'uso della parola per tessere inganni, per cui il loro
peccato è di natura intellettuale: Ulisse e Diomede scontano infatti una serie di imbrogli che avevano ordito attraverso
un uso sapiente del linguaggio (specie l'inganno del cavallo di Troia, che come Dante leggeva nel libro II dell'Eneide era
avvenuto grazie alle bugie di Sinone, istruito da Ulisse), così come nel Canto seguente Guido da Montefeltro espierà i
consigli dati a Bonifacio VIII per sconfiggere i suoi nemici. Non è un caso, del resto, che Dante introduca i dannati della
Bolgia con una sorta di ammonimento a se stesso, affinché tenga a freno l'ingegno usandolo sempre sotto la guida
della virtù e per non gettare via il bene che un influsso astrale e la grazia divina gli hanno concesso: il peccato di Ulisse
può essere definito di superbia intellettuale ed è metafora, come vedremo, di quello che probabilmente aveva
condotto Dante nella selva oscura. Il colloquio con Ulisse è scandito da tre momenti, che corrispondono al discorso
che Virgilio rivolge ai due dannati, al racconto dell'eroe che culmina nel discorso fatto ai compagni, alla descrizione del
viaggio. Dante arde dal desiderio di parlare con i peccatori avvolti dalla fiamma biforcuta, per cui prega vivamente il
maestro di chiamarli a sé (e lo fa con una certa finezza retorica: assai ten priego / e ripriego, che 'l priego valga mille,
con una replicazione simile a quelle di Inf., XIII, 25, 67-68). Altrettanto fine è l'allocuzione con cui Virgilio invita Ulisse a
parlare: adducendo il pretesto che i due, essendo greci, sarebbero restii a parlare con Dante (nel Medioevo era diceria
diffusa che i Greci avessero un carattere scontroso), il maestro si rivolge loro con una captatio benevolentiae che
invoca presunti meriti acquisiti in vita presso di loro, quando scrisse gli alti versi. Non è chiaro a cosa Virgilio si
riferisca, dal momento che nell'Eneide i due personaggi sono citati solo di sfuggita, ma si è ipotizzato che egli si spacci
in realtà per Omero approfittando del fatto che non possono vederlo, forse addirittura parlando greco, ingannandoli
in modo simile a quanto Dante farà con Guido nel Canto seguente. Sta di fatto che il poeta latino chiede a Ulisse di
raccontare le circostanze della sua morte e l'eroe acconsente scuotendo la fiamma che lo avvolge come una lingua che
parla ed emette voce. La narrazione del viaggio di Ulisse è estranea alla tradizione omerica e deriva probabilmente a
Dante da un rimaneggiamento tardo dell'Odissea, che il poeta non poteva leggere nel testo originale. L'Ulisse
dantesco è comunque simile a quello classico, dotato di insaziabile curiosità e abilità di linguaggio: giunto alle colonne
d'Ercole, limite estremo delle terre conosciute, l'eroe rivolge ai compagni una orazion picciola che è un piccolo
capolavoro retorico, una specie di suasoria con cui li esorta a non perdere l'occasione di esplorare l'emisfero australe
totalmente invaso dalle acque, dove non abita nessun uomo (il mondo sanza gente, come Ulisse lo definisce
consapevole del fatto che è un luogo deserto). Il che è ovviamente un inganno, dal momento che non è possibile
seguir virtute e canoscenza, né diventare esperti de li vizi umani e del valore esplorando un mondo disabitato: Ulisse
vuole solo soddisfare la propria curiosità fine a se stessa, quindi trascina i compagni in un folle volo che infrange i
divieti divini e si concluderà con la morte di tutti loro. Lungi dall'essere quindi un eroe positivo della conoscenza, Ulisse
è per Dante l'esempio negativo di chi usa l'ingegno e l'abilità retorica per scopi illeciti, dal momento che superare le
colonne d'Ercole equivale a oltrepassare il limite della conoscenza umana fissato dai decreti divini, quindi il viaggio è
folle in quanto non voluto da Dio e per questo punito con il naufragio che travolge la nave nei pressi della montagna
del Purgatorio. È chiaro allora che Dante si sente personalmente coinvolto nel peccato commesso da Ulisse, perché
anch'egli forse ha tentato un volo altrettanto folle cercando di arrivare alla piena conoscenza con la sola guida della
ragione, senza l'aiuto della grazia: è il peccato di natura intellettuale che è all'origine dello smarrimento nella selva, e
che va probabilmente ricondotto a un allontanamento dalla teologia avvenuto in seguito alla morte di Beatrice,
quando il poeta si era dato agli studi filosofici (frutto di questa fase del suo pensiero e della sua opera era stato il
Convivio). È arduo ipotizzare in cosa esattamente consistesse il cosiddetto «traviamento» di Dante, ma in Purg., XXX,
109 ss. Beatrice rimprovererà aspramente il poeta di essersi allontanato da lei dopo la sua morte, seguendo imagini di
ben... false e discostandosi da ciò che era stato nella sua giovinezza, aiutato da benigni influssi astrali e da larghezza di
grazie divine. Il viaggio di Ulisse nell'emisfero australe sembra allora metafora del viaggio altrettanto folle tentato da
Dante negli anni precedenti e che aveva rischiato di concludersi anche per lui in un naufragio, portandolo a smarrirsi
nella selva da cui Virgilio, inviato da Beatrice, lo aveva tratto fuori; nella prospettiva dell'uomo medievale alla
conoscenza umana c'è un limite invalicabile rappresentato dai decreti divini e chi tenta di valicarlo confidando
presuntuosamente nella sola ragione commette un peccato destinato a portarlo alla dannazione. In questo senso
Ulisse non è affatto quell'eroe positivo quale fu descritto dai critici ottocenteschi, né la sua esortazione a seguir virtute
e canoscenza deve essere presa alla lettera, dal momento che egli ha condotto se stesso e i compagni non alla virtù
ma alla follia e alla morte. Particolarmente potente, infine, la chiusa del Canto che è stata giustamente accostata ad
altri passi simili del poema: infin che 'l mar fu sovra noi richiuso, un verso che «sembra scritto su una lapide funeraria»
(Momigliano) e che suggella in modo perentorio e definitivo il discorso al centro dell'episodio: è un severo
ammonimento all'uomo medievale che non può oltrepassare i limiti imposti da Dio alla sua condizione umana, se non
vuole perdere irrimediabilmente ogni speranza di raggiungere la salvezza e finire dannato come è successo ad Ulisse, e
come poteva succedere allo stesso Dante se non fosse stato soccorso dalla grazia divina.

Figure retoriche:

Il v. 7 allude alla credenza medievale, già attestata in età classica, che i sogni fatti verso il mattino fossero premonitori
di eventi reali.

L'espressione al v. 12 (ché più mi graverà, com' più m'attempo) vuol dire probabilmente che il castigo di Firenze,
quanto più tarderà, tanto più sarà grave per il poeta ormai invecchiato, ma altri intendono che esso sarà tanto più
grave quanto più tarderà a giungere.

Alcuni mss. leggono al v. 14 i borni («le schegge di pietra»), intendendo gli spuntoni avevano aiutato i due poeti a
scendere; il verso vuole invece dire probabilmente che la discesa li aveva resi «pallidi» (iborni, dal lat. eburneus,
«d'avorio»).

Colui che si vengiò con li orsi (v. 34) è il profeta Eliseo, che per punire dei ragazzi che lo schernivano per la sua calvizie
invocò contro di loro la maledizione divina: da un bosco uscirono due orsi che ne sbranarono quarantadue (IV Reg., II,
11-12).

Eteocle e Polinice (v. 54) erano i due fratelli tebani figli di Edipo e Giocasta: si odiavano al punto che, dopo essersi
uccisi l'un l'altro, dal rogo funebre su cui furono posti insieme si levò una fiamma divisa in due.

Il promontorio di Gaeta (v. 92) fu così chiamato secondo la leggenda da Enea, in onore della sua balia Caieta morta in
quel luogo.

I vv. 106-108 alludono alle colonne d'Ercole, ovvero le montagne di Calpe in Europa e di Abila in Africa che l'eroe
mitologico avrebbe posto ai lati dello stretto di Gibilterra con l'ammonimento non plus ultra, «non procedere oltre».

Il v. 126 indica che la nave di Ulisse seguì sempre la rotta sud-ovest, procedendo verso sinistra.

Lo lume... di sotto da la luna è l'emisfero lunare a noi visibile; sono cioè trascorse cinque lunazioni (cinque mesi).

Parafrasi: Rallegrati, Firenze, perché sei così famosa da percorrere il mare e la terra, e il tuo nome è conosciuto
persino all'Inferno! Tra i ladri incontrai cinque tuoi cittadini, tali che a me viene vergogna e tu certo non acquisti
onore. Ma se vicino al mattino si fanno sogni veritieri, di qui a poco tempo tu riceverai il castigo che tutte le città,
anche quelle piccole come Prato, ti augurano. E se anche accadesse già, sarebbe comunque tardi. Potesse allora
succedere, dal momento che è inevitabile! Quanto più invecchierò, tanto più questo castigo mi sarà insopportabile.
Noi ci allontanammo e il maestro risalì su quelle rocce che, prima, ci avevano fatti impallidire a scendere, e mi portò
con sé; e proseguendo lungo la via solitaria, il piede non poteva avanzare senza l'aiuto delle mani tra gli spuntoni e le
schegge della roccia. Allora provai dolore, e lo provo anche adesso pensando a ciò che vidi, e tengo a freno il mio
ingegno più del solito affinché non agisca senza la guida della virtù; così che, se un benigno influsso astrale o qualcosa
di più importante (la grazia divina) mi hanno dato il bene, io stesso non me lo sottragga. Quante sono le lucciole che il
contadino, quando si riposa sulla collina nella stagione (estate) in cui il sole tiene meno nascosta a noi la sua faccia,
nell'ora (la sera) in cui la mosca lascia il posto alla zanzara, vede giù nella valle dove egli vendemmia e ara; altrettante
fiamme risplendevano nella VIII Bolgia, come io vidi non appena fui là da dove il fondo era visibile. E come colui
(Eliseo) che si vendicò con gli orsi vide il carro d'Elia che partiva, quando i cavalli si levarono alti nel cielo, e non lo
poteva seguire con lo sguardo senza vedere altro che la fiamma, che saliva su come una nuvoletta: così sul fondo della
Bolgia si muove ciascuna fiamma, in modo tale che nessuna mostra l'anima nascosta all'interno, e ogni fiamma cela un
peccatore. Io stavo sopra il ponte, proteso per vedere al punto che, se non mi fossi aggrappato a una sporgenza
rocciosa, sarei caduto in basso senza essere urtato. E il maestro, che mi vide così attento, disse: «Dentro quei fuochi ci
sono delle anime; ognuna è fasciata dalla fiamma che la avvolge». Io risposi: «Maestro mio, ora che ti ascolto ne sono
più certo; ma avevo già intuito che fosse così e volevo chiederti: chi c'è dentro quel fuoco la cui punta è biforcuta,
tanto che sembra levarsi dal rogo funebre dove Eteocle fu messo col fratello (Polinice)?» Mi rispose: «Là dentro sono
puniti Ulisse e Diomede, e sono dannati insieme come insieme commisero i loro peccati e nella loro fiamma espiano
l'inganno del cavallo di Troia che aprì la porta da cui uscì il nobile seme dei Romani. Vi è punito anche l'imbroglio per
cui Deidamia, anche se è morta, ancora si rammarica di Achille, e si sconta anche il furto del Palladio». Io dissi: «Se essi
in quelle fiamme possono parlare, maestro, ti prego con insistenza e ti prego ancora, così che la preghiera valga per
mille, che tu non mi neghi di aspettare che quella fiamma a due punte venga qui; vedi che mi piego verso di essa dal
desiderio!» E lui a me: «La tua preghiera è degna di grande lode, e perciò io la accetto; ma dovrai tenere a freno la tua
lingua. Lascia parlare me, dal momento che so bene quello che vuoi; infatti essi, essendo stati greci, potrebbero essere
restii a rivolgerti la parola». Dopo che la fiamma fu giunta nel punto in cui al mio maestro parve opportuno il tempo e
il luogo, lo sentii parlare in questo modo: «O voi che siete in due dentro una sola fiamma, se ho acquisito meriti nei
vostri confronti quand'ero vivo, se ho acquisito meriti grandi o piccoli presso di voi quando, sulla Terra, scrissi gli alti
versi, non andate via; ma uno di voi (Ulisse) racconti dove è andato a morire in un viaggio senza ritorno». La punta più
alta di quell'antica fiamma cominciò a scuotersi mormorando, come quella colpita dal vento; quindi, volgendo la cima
da una parte e dall'altra, come una lingua che parlasse, gettò fuori la voce e disse: «Quando mi allontanai da Circe, che
mi tenne più di un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea desse questo nome al promontorio, né la tenerezza per mio
figlio, né la devozione per il mio vecchio padre, né il legittimo amore che doveva fare felice Penelope poterono vincere
in me il desiderio che ebbi di diventare esperto del mondo, dei vizi e delle virtù degli uomini; ma mi misi in viaggio in
alto mare solo con una nave e con quei pochi compagni dai quali non fui abbandonato. Vidi entrambe le sponde del
Mediterraneo fino alla Spagna, al Marocco e alla Sardegna, e alle altre isole bagnate da quel mare. Io e i miei
compagni eravamo vecchi e deboli quando giungemmo a quello stretto (di Gibilterra) dove Ercole pose le colonne,
limite oltre il quale l'uomo non deve procedere: a destra avevamo Siviglia, a sinistra Ceuta. Dissi: "O fratelli, che siete
giunti all'estremo ovest attraverso centomila pericoli, non vogliate negare a questa piccola veglia che rimane ai vostri
sensi (ai vostri ultimi anni) l'esperienza del mondo disabitato, seguendo la rotta verso occidente. Pensate alla vostra
origine: non siete stati creati per vivere come bestie, ma per seguire la virtù e la conoscenza". Con questo breve
discorso resi i miei compagni così smaniosi di mettersi in viaggio, che in seguito avrei stentato a trattenerli; e volta la
poppa a est, facemmo dei remi le ali al nostro folle volo, sempre proseguendo verso sud-ovest (a sinistra). La notte
ormai mostrava tutte le costellazioni del polo australe, mentre quello boreale era tanto basso che non emergeva dalla
linea dell'orizzonte. La luce dell'emisfero lunare a noi visibile si era già spenta e riaccesa cinque volte (erano passati
circa cinque mesi), dopo che avevamo intrapreso il viaggio, quando ci apparve una montagna (il Purgatorio) scura per
la lontananza, e mi sembrò più alta di qualunque altra io avessi mai vista.Noi ci rallegrammo, ma l'allegria si tramutò
presto in pianto: infatti da quella nuova terra nacque una tempesta che colpì la nave a prua.La fece girare su se stessa
tre volte, in un vortice; la quarta volta fece levare in alto la poppa e fece inabissare la prua, come piacque ad altri
(Dio), finché il mare si fu richiuso sopra di noi».

CANTO I PURGATORIO

Sintesi: Proemio della Cantica; Dante e Virgilio arrivano sulla spiaggia del Purgatorio. Dante vede le quattro stelle.
Apparizione di Catone Uticense. Virgilio prega Catone di ammettere Dante al Purgatorio, poi cinge il discepolo col
giunco. È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, all'alba.

Proemio della Cantica (1-12): La nave dell'ingegno di Dante si appresta a lasciare il mare crudele dell'Inferno e a
percorrere acque migliori, poiché il poeta sta per cantare del secondo regno dell'Oltretomba (il Purgatorio) in cui
l'anima umana si purifica e diventa degna di salire al cielo. La poesia morta deve quindi risorgere e Dante invoca le
Muse, in particolare Calliope, perché lo assistano con lo stesso canto con cui vinsero sulle figlie di Pierio
trasformandole in gazze.

Dante osserva le quattro stelle. Catone (13-39): L'aria, pura fino all'orizzonte, ha un bel colore di zaffiro orientale e
restituisce a Dante la gioia di osservarlo, non appena lui e Virgilio sono usciti fuori dall'Inferno che ha rattristato lo
sguardo e il cuore del poeta. La stella Venere illumina tutto l'oriente, offuscando con la sua luce la costellazione dei
Pesci che la segue. Dante si volta alla sua destra osservando il cielo australe, e vede quattro stelle che nessuno ha mai
visto eccetto i primi progenitori. Il cielo sembra gioire della loro luce e l'emisfero settentrionale dovrebbe dolersi
dell'esserne privato. Non appena Dante distoglie lo sguardo dalle stelle, rivolgendosi al cielo boreale da cui è ormai
tramontato il Carro dell'Orsa Maggiore, vede accanto a sé un vecchio (Catone) dall'aspetto molto autorevole. Ha la
barba lunga e brizzolata, come i suoi capelli dei quali due lunghe trecce ricadono sul petto. La luce delle quattro stelle
illumina il suo volto, tanto che Dante lo vede come se fosse di fronte al sole.

Rimprovero di Catone e risposta di Virgilio (40-84): Il vecchio si rivolge subito ai due poeti chiedendo chi essi siano,
scambiandoli per due dannati che risalendo il corso del fiume sotterraneo sono fuggiti dall'Inferno. Chiede chi li abbia
guidati fin lì, facendoli uscire dalle profondità della Terra, domandandosi se le leggi infernali siano prive di valore o se
in Cielo sia stato deciso che i dannati possono accedere al Purgatorio. A questo punto Virgilio afferra Dante e lo induce
a inchinarsi di fronte a Catone, abbassando lo sguardo in segno di deferenza. Quindi il poeta latino risponde di non
essere venuto lì di sua iniziativa, ma di esserne stato incaricato da una beata (Beatrice) che gli aveva chiesto di
soccorrere Dante e fargli da guida. In ogni caso, poiché Catone vuole maggiori spiegazioni, Virgilio sarà ben lieto di
dargliele: dichiara che Dante non è ancora morto, anche se per i suoi peccati ha rischiato seriamente la dannazione;
Virgilio fu inviato a lui per salvarlo e non c'era altro modo se non percorrere questa strada. Gli ha mostrato tutti i
dannati e adesso intende mostrargli le anime dei penitenti che si purificano sotto il controllo di Catone. Sarebbe lungo
spiegare tutte le vicissitudini passate all'Inferno: il viaggio dantesco è voluto da Dio e Catone dovrebbe gradire la sua
venuta, dal momento che Dante cerca la libertà che è preziosa, come sa chi per essa rinuncia alla vita. Catone, che in
nome di essa si suicidò a Utica pur essendo destinato al Paradiso, dovrebbe saperlo bene. Virgilio ribadisce che le leggi
di Dio non sono state infrante, poiché Dante non è morto e lui proviene dal Limbo dove si trova la moglie di Catone,
Marzia, che è ancora innamorata di lui. Virgilio prega Catone di lasciarli andare in nome dell'amore per la moglie,
promettendo di parlare di lui alla donna una volta che sarà tornato nel Limbo.

Replica di Catone a Virgilio (85-111): Catone risponde di aver molto amato Marzia in vita, tanto che la donna ottenne
sempre da lui ciò che voleva, ma adesso che è confinata al di là dell'Acheronte non può più commuoverlo, in forza di
una legge che fu stabilita quando lui fu tratto fuori dal Limbo. Tuttavia, poiché Virgilio afferma di essere guidato da
una donna del Paradiso, è sufficiente invocare quest'ultima e non c'è bisogno di ricorrere a lusinghe. Catone invita
dunque i due poeti a proseguire, ma raccomanda Virgilio di cingere i fianchi di Dante con un giunco liscio e di lavargli il
viso, togliendo da esso ogni segno dell'Inferno, poiché non sarebbe opportuno presentarsi in quello stato davanti
all'angelo guardiano alla porta del Purgatorio. L'isola su cui sorge la montagna, nelle sue parti più basse dov'è battuta
dalle onde, è piena di giunchi che crescono nel fango, in quanto tale pianta è l'unica che può crescere lì col suo fusto
flessibile. Dopo che i due avranno compiuto tale rito non dovranno tornare in questa direzione, ma seguire il corso del
sole che sta sorgendo e trovare così un facile accesso al monte. Alla fine delle sue parole Catone svanisce e Dante si
alza senza parlare, accostandosi a Virgilio.

Virgilio lava il viso di Dante e lo cinge con un giunco (112-136): Virgilio dice a Dante di seguire i suoi passi e lo invita a
tornare indietro, lungo il pendio che da lì conduce alla parte bassa della spiaggia. È ormai quasi l'alba e sta facendo
giorno, così che Dante può guardare in lontananza il tremolio della superficie del mare. Lui e Virgilio proseguono sulla
spiaggia deserta, come qualcuno che finalmente torna alla strada che aveva perso: giungono in un punto in cui la
rugiada è all'ombra e ancora non evapora. Virgilio pone entrambe le mani sull'erba bagnata e Dante, che ha capito
cosa vuol fare il maestro, gli porge le guance bagnate ancora di lacrime. Virgilio gli lava il viso e lo fa tornare del colore
che l'Inferno aveva coperto, quindi i due raggiungono il bagnasciuga e il maestro estrae dal suolo un giunco, col quale
cinge i fianchi di Dante proprio come Catone gli aveva chiesto di fare. Con grande meraviglia di Dante, là dove Virgilio
ha strappato il giunco ne rinasce subito un altro.

Interpretazione complessiva:

Il Canto si apre col proemio della II Cantica, in modo analogo al Canto II dell'Inferno in cui Dante aveva invocato
genericamente le Muse: qui il poeta chiede l'assistenza di Calliope, la Musa della poesia epica che dovrà guidare la
navicella del suo ingegno in un mare meno «crudele» di quello dell'Inferno che si è lasciato alle spalle (la metafora
della poesia come di una nave che solca il mare era un tòpos già della letteratura classica e tornerà nell'esordio del
Canto II del Paradiso). Rispetto al proemio dell'Inferno, quello del Purgatorio è più ampio e si arricchisce del mito delle
figlie del re della Tessaglia Pierio, che osarono sfidare le Muse nel canto e furono vinte proprio da Calliope, venendo
poi trasformate in uccelli dal verso sgraziato (le piche, cioè le gazze); Dante avvisa il lettore dell'innalzamento della
materia rispetto alla I Cantica, ma ribadisce ulteriormente che il suo canto dovrà essere assistito dall'ispirazione divina,
di cui le Muse sono personificazione, e che la sua poesia non avrà certo l'ardire di gareggiare follemente con Dio nel
descrivere la dimensione dell'Oltretomba, troppo elevata per essere pianemente compresa dall'intelletto umano (è la
concezione dell'arte del Medioevo che tornerà a più riprese nel corso della Cantica, nonché un preannuncio della
poetica dell'inesprimibile che sarà al centro del Paradiso). Il primo dato che si offre al poeta è visivo, in quanto lui e
Virgilio sono tornati all'aperto dopo la terribile discesa all'Inferno e Dante può respirare di nuovo aria pura,
ammirando il cielo prima dell'alba che è di un bell'azzurro intenso; è la mattina di Pasqua, il giorno della liturgia che
segna la Resurrezione di Cristo e la vittoria sul peccato, mentre Dante sta per intraprendere l'ascesa del Purgatorio che
avrà per lui lo stesso effetto. Nel cielo non ancora illuminato dal sole brillano quattro stelle, la cui luce intensa colpisce
Dante e gli fa compiangere l'emisfero settentrionale che non ha mai visto quella costellazione: nonostante vari
tentativi di identificarla (alcuni hanno pensato alla Croce del Sud, forse nota a Dante attraverso cronache di viaggio), è
probabile che le stelle simboleggino le quattro virtù cadinali, ovvero fortezza, prudenza, temperanza e giustizia, il cui
pieno possesso è condizione indispensabile per il conseguimento della grazia e, quindi, della salvezza eterna.
Possedere le virtù cardinali permette di raggiungere la felicità terrena, a sua volta rappresentata dal colle che Dante
aveva invano tentato di scalare nel Canto I dell'Inferno, mentre ora c'è un altro monte che dovrà ascendere con la
guida di Virgilio, allegoria della ragione che alla felicità terrena deve condurre; il paesaggio di questo episodio ricorda
volutamente quello del Canto iniziale dell'Inferno, fatto che lo stesso Dante ribadisce nei versi finali dicendo che gli
sembra di tornare a la perduta strada, che altro non è se non la diritta via che aveva smarrito e che lo aveva fatto
perdere nella selva oscura. La luce delle stelle illumina del resto anche il volto di Catone l'Uticense, il custode del
Purgatorio che accoglie i due poeti accusandoli di essere dannati appena fuggiti dall'Inferno: la sua presenza in questo
luogo e con il ruolo di custode del secondo regno ha creato molti dubbi fra i commentatori, in quanto sembra assai
strano che un pagano, per giunta nemico di Cesare e morto suicida, possa trovarsi tra le anime salve (è Virgilio a
dichiarare che la vesta, il corpo lasciato da Catone ad Utica risplenderà il Giorno del Giudizio, quando sarà ammesso in
Paradiso). In realtà Dante riserva a lui questo ruolo sulla scorta di una lunga tradizione antica, che riconosceva in
Catone un altissimo esempio di vita morale e dignitosa, anche fra gli scrittori cristiani che addirittura interpretavano
allegoricamente la vicenda personale sua e della moglie Marzia. Dante, più semplicemente, vede in lui il simbolo di chi
lotta tenacemente per la libertà politica e ne fa il simbolo della lotta per la libertà dal peccato, che è il motivo
essenziale nella rappresentazione del Purgatorio; Catone è anche un esempio di salvezza clamorosa e inattesa dovuta
al giudizio divino imperscrutabile, come si è visto in alcuni casi nell'Inferno (Brunetto Latini, Guido da Montefeltro) e
come si vedrà nel caso ancor più «scandaloso» rappresentato da Manfredi, protagonista del Canto III. Del resto Dante
afferma chiamaramente che Catone è stato nel Limbo fino a quando Cristo trionfante non lo ha tratto fuori insieme ai
patriarchi biblici, quindi nonostante la sua condotta peccaminosa era già collocato fra gli antichi spiriti che si erano
distinti per il possesso delle virtù terrene, come Virgilio; e la sua descrizione lo accosta proprio a un patriarca, con i
suoi lunghi capelli e la barba che Dante trovava peraltro nella rappresentazione che di lui offre Lucano nel Bellum
Civile (II, 373-374). I rimproveri di Catone ai due poeti danno modo a Virgilio di riepilogare le vicende della I Cantica in
una sorta di breve flashback, forse a beneficio dei lettori che non avevano letto tutto l'Inferno, e il suo discorso è
un'abile suasoria con tanto di captatio benevolentiae in cui il poeta latino ricorda a Catone il suo sucidio come atto di
suprema protesta per la libertà politica, gli rammenta che lui è comunque salvo e cita la moglie Marzia che lui ha
conosciuto nel Limbo, promettendo di parlarle di lui se Catone li ammetterà nel Purgatorio. Il discorso di Virgilio è
sostanzialmente inutile, dal momento che il viaggio di Dante è voluto da Dio e non può certo essere ostacolato da
Catone, il quale infatti si affretta a dire che Marzia non ha più alcun potere su di lui e che la sola donna a legittimare il
viaggio di Dante è Beatrice, che dal cielo guida i suoi passi verso la grazia. Dante può quindi procedere, ma non prima
di aver compiuto un duplice atto rituale: prima di presentarsi all'angelo guardiano dovrà lavare il viso, sporco del fumo
dell'Inferno e delle lacrime che l'hanno segnato in più di un'occasione, e dovrà anche cingere i fianchi di un giunco
liscio, in segno di umiltà e sottomissione alla volontà divina. Il giunco è la sola pianta a crescere sul bagnasciuga della
spiaggia del Purgatorio, in quanto col suo fusto flessibile asseconda il battere delle onde (segno anch'esso di
sottomissione, come dimostra il fatto che il giunco è poi definito umile pianta); Dante se ne deve cingere i fianchi dopo
essersi già liberato da un'altra corda, che era servita a Virgilio per richiamare Gerione alla cine del Canto XVI
dell'Inferno. Non sappiamo se la cosa sia casuale o abbia un preciso significato allegorico, ma il rito conclude il Canto
preannunciando ciò che avverrà negli episodi successivi e segnando il passaggio ad un luogo retto da leggi del tutto
diverse rispetto a quelle del doloroso regno: la pianta strappata da Virgilio rinasce immediatamente tale qual era, il
che riempie Dante di meraviglia e ci fa capire che gli orrori dell'Inferno sono definitivamente alle spalle (giova
ricordare in quale ben diversa atmosfera Dante aveva strappato un altro ramoscello, quello di un albero della selva dei
suicidi nel Canto XIII dell'Inferno, episodio dal quale siamo evidentemente lontanissimi).

Figure retoriche:

Calliope (v. 9) è la Musa della poesia epica, qui invocata da Dante probabilmente sull'esempio di Virgilio in Aen., IX,
525: Vos, o Calliope, precor, aspirate canenti... («Voi Muse, e tu, Calliope, vi prego, ispirate colui che canta»).

Le Piche (v. 11) sono le Pieridi, le mitiche figlie di Pierio re di Tessaglia che osarono sfidare le Muse nel canto e furono
vinte da Calliope, che poi le trasformò in gazze dal gracchiare stridulo (Dante segue Ovidio, Met., V, 302 ss.).

Il mezzo citato al v. 15 è l'aria, mentre il primo giro è certamente la linea dell'orizzonte e non il Cielo della Luna, fino al
quale non arriva l'atmosfera secondo le teorie del tempo di Dante.

Al v. 16 ricominciò diletto vuol dire «restituì gioia» (diletto è sostantivo).


Lo bel pianeto (v. 19) è Venere mattutina, che con la sua luce offusca la costellazione dei Pesci che in quel momento è
sull'orizzonte. Secondo calcoli astronomici moderni sembra che nella primavera del 1300 Venere fosse in realtà
vespertina, il che ha indotto alcuni studiosi a sostenere che il viaggio è immaginato nel 1301.

La prima gente (v. 24) sono Adamo ed Eva, gli unici a vedere dall'Eden le quattro stelle.

La descrizione di Catone (vv. 34-36) si rifà a Lucano, che nel Bellum Civile (II, 373 ss.) dice che l'uomo non si sarebbe
più tagliato la barba né i capelli prima della sconfitta di Cesare.

Il cieco fiume (v. 40) è il ruscelletto che dal Purgatorio scorre nella natural burella fino all'Inferno, il cui corso i due
poeti hanno risalito.

I vv. 71-72 sono rimasti famosi e più volte citati da scrittori successivi, come Ugo Foscolo nel descrivere il suicidio di
Jacopo Ortis.

La vesta (v. 75) è il corpo mortale di Catone, che risplenderà il Giorno del Giudizio (ciò ne preannuncia la salvezza
eterna).

I vv. 85-87 con cui Catone risponde a Virgilio su Marzia, forse, si riferiscono al fatto che Catone storicamente ripudiò la
moglie per poi riprenderla con sé cedendo alle sue preghiere; al fatto allude anche Dante nel Conv., IV, 28, dove la
cosa è interpretata allegoricamente (il ritorno di Marzia a Catone sarebbe quello dell'anima a Dio dopo la fine della
vita).

Il primo / ministro citato ai vv. 98-99 è molto probabilmente l'angelo guardiano sulla porta del Purgatorio, e non
quello nocchiero che Dante incontrerà in modo casuale nel Canto seguente (ma la questione è aperta).

Il v. 115 (L'alba vinceva l'ora mattutina) significa che l'alba prevaleva sull'ultima ora della notte, il «mattutino»
appunto, quindi ora non vuol dire «aura» o «ombra».

I vv. 131-132 sembrano un'allusione scoperta all'episodio di Ulisse (Inf., XXVI, 85 ss.), il quale navigò sino a intravedere
la montagna del Purgatorio per morire nel naufragio provocato dalla volontà divina.

Il giunco che rinasce dove è stato strappato (vv. 134-136) ricorda il passo virgiliano di Aen., VI, 143-144, in cui si dice
che Enea strappa il ramoscello d'oro come offerta a Proserpina e che questo subito rinasce.

Parafrasi: La navicella del mio ingegno, ormai, alza le vele per percorrere acque migliori e lascia dietro di sé il mare
crudele dell'Inferno; e io canterò di quel secondo regno (Purgatorio) in cui l'anima umana si purifica e diventa degna di
salire al cielo. Ma qui la poesia morta risorga, o sante Muse, dal momento che sono consacrato a voi; e qui si sollevi
alquanto Calliope, assistendo il mio canto con quel suono di cui le misere gazze (le figlie di Pierio) sentirono un tale
colpo che disperarono di essere perdonate. Un dolce colore di zaffiro orientale, che si raccoglieva nell'aspetto sereno
dell'aria pura fino all'orizzonte, restituì gioia ai miei occhi non appena io uscii fuori dall'aria morta (dell'Inferno), che
mi aveva rattristato gli occhi e il cuore. Il bel pianeta (Venere) che spinge ad amare illuminava gioiosamente tutto
l'oriente, offuscando con la sua luce la costellazione dei Pesci che lo seguiva. Io mi rivolsi alla mia destra e osservai il
cielo australe, vedendo quattro stelle che nessuno ha mai visto eccetto i primi progenitori (Adamo ed Eva). Il cielo
sembrava godere della loro luce: o emisfero boreale, sei davvero desolato non potendo ammirare quelle stelle! Non
appena ebbi distolto il mio sguardo da esse, volgendomi un poco al cielo boreale da dove ormai l'Orsa Maggiore era
tramontata, vidi accanto a me un vecchio solitario, che a guardarlo ispirava tanto rispetto quanto è quello che un figlio
deve al proprio padre. Portava la barba lunga e con peli bianchi e neri, simile ai suoi capelli, dei quali ricadevano sul
petto due lunghe trecce. La luce delle quattro stelle sante illuminava il suo volto, al punto che io lo vedevo come se
avesse avuto il sole di fronte. Egli ci disse, muovendo quella barba dignitosa: «Chi siete voi, che risalendo il fiume
sotterraneo siete fuggiti dalla prigione eterna? Chi vi ha guidati e cosa vi ha indicato la strada, uscendo fuori dalla
notte profonda che rende sempre oscura la voragine infernale? Le leggi dell'abisso sono così prive di valore? o in Cielo
è stata emanata una nuova legge in base alla quale voi, dannati, venite alle rocce (al Purgatorio) che io custodisco?»
Allora il mio maestro mi afferrò, e con le parole, con le mani e coi gesti mi indusse a inginocchiarmi e abbassare lo
sguardo. Poi gli rispose: «Non sono venuto qui di mia iniziativa: scese dal Cielo una donna (Beatrice), per le cui
preghiere aiutai costui con la mia assistenza. Ma poiché il tuo desiderio è che ti spieghiamo con maggiori dettagli la
nostra condizione, non è possibile che il mio desiderio sia difforme dal tuo. Questi non è mai morto, ma per il suo
peccato fu così vicino ad esserlo che non sarebbe passato molto tempo. Come ti ho detto, fui inviato a soccorrerlo; e
non c'era altra strada se non questa per la quale mi sono inoltrato con lui. Gli ho mostrato tutti i dannati; ora voglio
mostrargli quelle anime (i penitenti) che si purificano sotto la tua custodia. Sarebbe lungo spiegarti come l'ho
condotto fin qui; dal Cielo scende una virtù che mi aiuta a portarlo qui, per vederti e udirti. Ora ti prego di accogliere la
sua venuta: va cercando la libertà, che è molto preziosa come sa chi in suo nome rinuncia alla propria vita. Tu lo sai
bene, poiché per la libertà affrontasti la morte ad Utica, dove lasciasti il corpo che il Giorno del Giudizio risplenderà.
Gli editti eterni non sono infranti da noi, in quanto Dante è vivo e Minosse non ha potere su di me: infatti vengo dal
Cerchio (Limbo) dove sono gli occhi puri di tua moglie Marzia, che a vederla sembra pregarti di considerarla ancora
tua, o petto santo: in nome del suo amore, dunque, piegati a noi. Lasciaci andare per le sette Cornici del Purgatorio; io
ti ringrazierò di fronte a lei, se tu accetti di essere menzionato laggiù». Egli allora disse: «Fin che fui in vita, Marzia fu
così diletta ai miei occhi che esaudii ogni suo desiderio. Ora che risiede al di là del fiume infernale (Acheronte) non può
più commuovermi, in forza di quella legge che fu emanata quando io ne uscii fuori. Ma se una donna beata, come dici,
muove i tuoi passi, non servono lusinghe: è sufficiente pregarmi in suo nome. Va' dunque, e fa' in modo di cingere i
fianchi di costui con un giunco liscio e lavagli il viso, in modo tale da eliminare da esso ogni sudiciume; infatti non
sarebbe opportuno presentarsi di fronte al primo ministro di Paradiso (l'angelo guardiano) con l'occhio velato da una
qualche nebbia. Questa isoletta, nelle sue parti più basse, là dove è battuta dalle onde, è piena di giunchi sul molle
fango; nessun'altra pianta che avesse fronde o un tronco rigido vi può crescere, poiché non si piegherebbe all'impeto
delle onde. Poi il vostro ritorno non sia da questa parte; il sole, che ormai sorge, vi indicherà la direzione dove trovare
un facile accesso alla montagna». Così svanì; e io mi alzai senza parlare, e mi trassi verso la mia guida, rivolgendo a lui
il mio sguardo. Egli iniziò: «Figliolo, segui i miei passi: torniamo indietro, poiché di qua la pianura declina dolcemente
verso il punto più basso». La luce dell'alba vinceva l'ultima ora della notte che fuggiva di fronte a lei, cosicché da
lontano vidi il tremolio della superficie del mare. Noi andavamo lungo la pianura solitaria, come qualcuno che ritrova
la strada perduta e che, fino ad essa, ha creduto di camminare invano. Quando fummo là dove la rugiada combatte col
sole, poiché è in punto dove c'è ombra ed evapora poco, il mio maestro pose ambo le mani sull'erbetta, a palme
aperte: allora io, che avevo capito cosa volesse fare, porsi verso di lui le guance ancora sporche di pianto: lui mi scoprì
il colore del viso che l'Inferno aveva nascosto. Giungemmo poi sul lido deserto, che non vide mai navigare nessuno che
poi fosse in grado di tornare indietro. Qui Virgilio mi cinse come Catone gli aveva detto: che meraviglia! Infatti, dopo
che egli ebbe strappato l'umile pianta che aveva scelto, questa rinacque subito tale quale era nello stesso punto.

CANTO V PURGATORIO

Sintesi:

Dante e Virgilio lasciano le anime dei pigri e raggiungono il secondo balzo dell'Antipurgatorio. Incontro con i morti per
forza. Colloquio con Iacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia de' Tolomei. È mezzogiorno di domenica 10
aprile (o 27 marzo) del 1300.

Dante e Virgilio lasciano i pigri. Rimprovero di Virgilio (1-21): Dante e Virgilio hanno appena lasciato le anime dei pigri
nel primo balzo dell'Antipurgatorio, quando una di esse si accorge che Dante proietta un'ombra e lo addita agli altri,
come un uomo vivo. Dante si volta e vede le anime che continuano a indicarlo, finché il maestro gli chiede perché si
attardi nell'ascesa badando alle chiacchiere di quelle anime; lo esorta a seguirlo senza ascoltare nessuno, come una
torre che resta salda nonostante i venti, perché l'uomo che si perde in troppi pensieri non raggiunge l'obiettivo che si
è proposto. Dante accetta il rimprovero e segue Virgilio, col viso cosparso di rossore.

Incontro con le anime dei morti per forza (22-63): Intanto, lungo un ripiano roccioso trasversale alla montagna, delle
anime che cantano il Miserere vengono incontro ai due poeti: quando si accorgono che Dante proietta un'ombra,
emettono una esclamazione di stupore e due loro corrono incontro ai due chiedendo loro di spiegare la propria
condizione. Virgilio risponde dicendo che Dante è vivo ed è in carne e ossa, e li invita a riferire il messaggio ai loro
compagni in quanto ciò potrà essergli utile. Le anime corrono su per il balzo rapidissime, come stelle cadenti nel cielo
notturno o lampi al calar del sole, quindi insieme agli altri penitenti raggiungono velocemente i due poeti. Virgilio
raccomanda a Dante di essere breve, dato il gran numero di anime, e di limitarsi ascoltare le loro preghiere senza
arrestarsi. I penitenti seguono Dante e lo esortano a rallentare un poco, invitandolo a guardarli e dire se in vita ha mai
visto qualcuno di loro. Essi, spiegano, furono tutti morti per forza e peccatori fino all'ultima ora, quando si pentirono
delle loro colpe e morirono in grazia di Dio. Dante li osserva uno a uno, ma non ne riconosco nessuno; tuttavia li invita
a parlare e, se potrà fare qualcosa per loro, sarà ben lieto di esaudire ogni loro richiesta in nome di quella pace di cui
egli stesso è in cerca.
Colloquio con Iacopo del Cassero (64-84): Uno degli spiriti (Iacopo del Cassero) dice che essi si fidano di Dante senza
bisogno di giuramenti, quindi lo prega, se mai andrà nel paese posto tra la Romagna e il regno di Napoli (la Marca
Anconetana), di pregare a sua volta i suoi conoscenti a Fano affinché essi preghino per abbreviare la sua permanenza
nell'Antipurgatorio. Lui è originario di Fano, ma le ferite che lo hanno ucciso gli furono inferte in territorio padovano,
dove credeva di essere al sicuro: il colpevole fu Azzo d'Este, adirato con lui ben al di là del lecito. Se lui fosse fuggito
verso la Mira, sul Brenta, quando fu raggiunto dai suoi assassini ad Oriago, sarebbe ancora vivo; invece rimase
impigliato nella palude e cadde a terra vedendo spargersi il suo sangue.

Colloquio con Bonconte da Montefeltro (85-129): Un altro spirito prende la parola, augurando a Dante di raggiungere
la sommità del monte e pregandolo di aiutarlo. Si presenta com Bonconte da Montefeltro, la cui vedova non si cura di
lui sulla Terra, per cui il penitente va con la fronte bassa. Dante gli chiede quale circostanza fece sì che il suo corpo non
fosse mai ritrovato dopo la sua morte nella battaglia di Campaldino: il penitente risponde che ai piedi del Casentino
scorre un fiume di nome Archiano, che nasce in Appennino e sfocia in Arno. Qui Bonconte arrivò con la gola
squarciata, a piedi e sanguinante, e prima di morire si pentì nominando Maria: una volta morto, la sua anima fu presa
da un angelo, mentre un diavolo protestava perché, a causa del suo tardivo pentimento, non poteva portarlo all'
Inferno. Il demone infierì però sul suo corpo: Bonconte spiega che nell'atmosfera si raccoglie l'umidità che si trasforma
in pioggia a causa del freddo, per cui il diavolo usò il suo potere per scatenare una terribile tempesta che coprì di
nebbia tutta la pianura e riversò una gran quantità d'acqua a terra. Il suolo non la poté assorbire tutta ed essa riempì i
fossati confluendo poi nei fiumi, fino all'Arno; le acque dell'Archiano, con la sua corrente rapinosa, trascinarono via il
corpo di Bonconte nell'Arno, sciogliendo il segno della croce che lui aveva fatto in punto di morte, quindi il suo
cadavere fu seppellito sul fondale del fiume.

Colloquio con Pia de' Tolomei (130-136): Appena Bonconte ha terminato di parlare, prende la parola l'anima di una
penitente: costei chiede a Dante, quando sarà tornato nel mondo e si sarà riposato del suo lungo cammino, di
ricordarsi di lei, Pia de' Tolomei: era nata a Siena e poi morì violentemente in Maremma, come ben sa l'uomo che
l'aveva chiesta in sposa e le aveva dato l'anello nuziale. Il Canto inizia coi due poeti che si allontanano dal primo balzo
dell'Antipurgatorio, mentre le anime dei pigri si accorgono che Dante è vivo e iniziano a indicarlo con insistenza,
inducendolo a fermarsi e a guardarli. La cosa suscita il rimprovero di Virgilio al discepolo, accusato di perdere tempo
ascoltando ciò che quivi si pispiglia, invece di affrettarsi a seguirlo per raggiungere la sommità del monte: il richiamo
del maestro è sembrato eccessivo ad alcuni commentatori, ma esso si inserisce nel discorso sul tempo che ha
occupato buona parte del Canto IV e che è fondamentale nel secondo regno, dove le anime, incluso Dante, devono
compiere un percorso che richiede impegno e fatica, per cui attardarsi oziosamente è inutile e contrario al loro dovere
(si è anche pensato a un riferimento alle critiche che il poeta ricevette per la sua condotta politica, in particolare per il
suo rifiuto a rientrare a Firenze nel 1315, per cui l'ammonimento di Virgilio è a non badare alle chiacchiere di gente
inferiore, di mantenersi saldo nei suoi propositi sapendo di essere dalla parte della ragione). Fatto sta che Dante prova
vergogna per il rimprovero, in modo simile a Inf., XXX, 130-148, e si affretta a seguire il maestro fino al secondo balzo,
dove incontrano la schiera delle anime dei morti per forza. Qui la reazione dei penitenti è di stupore come quella delle
altre anime già incontrate, anche se il loro atteggiamento è del tutto opposto a quello dei pigri: questi penitenti
mandano subito dei «messaggeri» per chiedere notizie dei due viaggiatori, quindi tornano dai loro compagni con la
notizia che Dante è vivo correndo velocissimi, come stelle cadenti che fendono il cielo notturno o lampi che
squarciano il cielo estivo al tramonto. La loro concitazione segna tutto l'episodio e l'inizio del successivo, creando un
forte contrasto con l'inerzia e l'immobilità di pigri: queste anime rincorrono letteralmente Dante (cui Virgilio ha
raccomandato di non fermarsi e di ascoltare camminando), lo assediano, lo esortano a rallentare il passo in modo
insistente (deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?). La loro preoccupazione, come per tutte le anime
dell'Antipurgatorio, è di essere ricordati ai vivi perché questi, con le loro preghiere, possono abbreviare la loro attesa,
cosa che vale soprattutto per loro che essendo morti violentemente e avendo peccato fino all'ultima ora potevano
essere creduti all'Inferno. Dante presenta tre di queste anime, la cui rapida successione scandisce i vari momenti della
seconda parte del Canto: sono tre episodi molto diversi, per il tono e la funzione narrativa che ciascuno di essi assolve
e anche per estensione, dal momento che quello di Bonconte è decisamente più ampio degli altri due che gli fanno,
per così dire, da cornice. Il primo a parlare è Iacopo del Cassero, che non dice il proprio nome (la sua storia era
talmente nota che l'identificazione non lasciava dubbi) e dopo aver pregato Dante di sollecitare le preghiere dei
congiunti racconta la vicenda della sua uccisione. Le sue parole sono un duro atto d'accusa contro il mandante dei suoi
sicari, quell'Azzo VIII d'Este già citato da Dante come uccisore del proprio padre in Inf., XII, 112 e spesso da lui esecrato
come spietato tiranno; Iacopo descrive la crudezza della sua morte, che avvenne là dove credeva di essere al sicuro (in
grembo a li Antenori, nel padovano), ed esprime un certo rimpianto per il fatto di essere rimasto impacciato nella
palude di Oriago dove fu ferito a morte, cosa che gli impedì di essere soccorso e, forse, di sopravvivere. Molto diverso
il discorso di Bonconte da Montefeltro, che si presenta e suscita la curiosità di Dante, poiché il suo corpo non era mai
stato trovato sul campo di Campaldino dove egli era caduto, nella stessa battaglia cui il poeta aveva preso parte. Il
racconto di Bonconte delinea uno scenario grandioso e solenne, che riprende per contrasto (anche di toni) il racconto
simile che il padre Guido aveva fatto a Dante nel Canto XXVII dell'Inferno, in quel caso credendo che le sue parole non
sarebbero arrivate nel mondo. Bonconte invita invece Dante a riferire a' vivi la verità di quanto accadde a
Campaldino: la sua anima venne contesa tra un angelo e un diavolo, ma l'esito di questo contrasto era stato opposto a
quello narrato da Guido, in quanto Bonconte si era pentito sinceramente e dunque la sua anima era destinata al
Purgatorio. A quel punto il diavolo aveva scatenato una terribile tempesta che trascinò via il cadavere di Bonconte,
seppellendolo sul fondale dell'Arno e non facendolo più ritrovare: il racconto del penitente è importante e crea un
voluto contrasto con l'episodio del padre Guido, poiché quello era da tutti creduto salvo per la sua monacazione e
invece è finito dannato per la non sincerità del suo pentimento, mentre Bonconte si è realmente pentito e ora è salvo,
anche se la sua morte violenta e la scomparsa dal cadavere potevano far credere alla sua dannazione. La salvezza di
Bonconte è l'ennesimo caso di una rivelazione inattesa che sconfessa la credenza popolare su un personaggio, meno
clamoroso di quello di Manfredi o di altri, ma egualmente significativo del fatto che solo Dio può leggere la bontà del
pentimento nel cuore dell'uomo e nessuno, quindi, può sapere con certezza quale sarà il destino ultraterreno di un
personaggio.L'episodio si chiude con la parentesi delicatissima di Pia de' Tolomei, che prende la parola dopo la
grandiosa descrizione delle potenze infernali con pochi versi di straordinaria dolcezza: la penitente è meno insistente
degli altri, prega Dante di ricordarsi di lei quando sarà tornato sulla Terra ed essersi riposato de la lunga via (l'accento
torna sulla fatica del cammino, che il poeta compie per purificarsi e con tutto il corpo). Gli ultimi tre versi del Canto
sono come un'epigrafe funeraria, con l'indicazione del luogo di nascita e di morte della fanciulla (Siena mi fé, disfecemi
Maremma, che è anche un chiasmo) e l'accusa, molto velata e in tono col personaggio, rivolta al marito di averla
uccisa, senza alcuna parvenza di rancore o di biasimo. Non conosciamo la causa esatta di questo omicidio, che forse
non era nota neppure a Dante, quindi è impossibile dire se Pia con le sue parole voglia protestare la sua innocenza, o
scusare il marito per averla assassinata, o ancora esprimere il perdurare del suo amore per lui nonostante quel che ha
fatto: non è escluso che qui, come in altri casi nel poema (Ugolino, ad es., sia pure in un contesto lontanissimo da
questo) Dante voglia lasciare le cose nell'indeterminatezza, chiudendo il Canto con questa figura fragile e delicata che
costituisce quasi una pausa al tono concitato dell'intero episodio (e che riprenderà all'inizio del seguente, con Dante
che faticherà a liberarsi delle anime che lo assillano con una certa petulanza, rispetto alle quali Pia rappresenta una
notevole eccezione).

Figure retoriche:

Alcuni mss. al v. 14 leggono fermo, riferito a Dante e non alla torre, ma è lezione poco probabile.

Il verbo insolla (v. 18) significa «indebolisce» e deriva dall'aggettivo «sollo», debole.

In forma di messaggi (v. 28) vuol dire «in qualità di messaggeri».

L'espressione vapori accesi (v. 37) significa sia «stelle cadenti» sia «lampi»: fa da soggetto al verbo fender che ha come
compl. ogg. rispettivamente sereno e nuvole d'agosto; sol calando ha valore di un ablativo assoluto latino e vuol dire
«al calare del sole».

Il v. 66 significa «purché l'impossibilità non impedisca la tua buona volontà»; nonpossa è parola composta come
«noncuranza».

Il paese (v. 68) che sta tra la Romagna e il regno di Napoli, governato da Carlo II d'Angiò, è la Marca Anconetana dove
sorgeva Fano.

L'espressione in sul quale io sedea (v. 74) vuol dire «sul quale (sangue) io, anima, avevo la mia sede» (era opinione
diffusa, nella fisiologia medievale, che l'anima umana risiedesse nel sangue.

Il territorio di Padova è detto in grembo a li Antenòri (v. 75) perché secondo un'antica leggenda Antenore aveva
fondato la città veneta.

Il braco citato al v. 82 è il fango (cfr. Inf., VIII, 50: come porci in brago).
Al v. 88 Bonconte si presenta e usa due diversi tempi (fui... son), a indicare ciò che fu in vita, cioè membro della casata
di Guido da Montefeltro, e ciò che continua a essere come individuo.

L'Archiano (v. 95) è un affluente di sinistra dell'Arno, Il suo nome diventa vano (v. 97) nel punto in cui sfocia l’Arno
stesso.

Ai vv. 100-102 alcuni editori moderni mettono una virgola dopo vista e legano la parola al verbo finì (prima persona
singolare); in tal caso si dovrebbe leggere: «Qui persi la vista e le mie parole finirono col nome di Maria...».
L'interpretazione è convincente, anche se il verbo finire nel senso di «morire» è ampiamente attestato nella lingua del
Trecento.

L'etterno (v. 106) è l'anima di Bonconte, mentre l'altro (v. 108)è il corpo; da notare la replicazione de l'altro altro
governo.

I vv. 112-113 sono stati variamente interpretati, ma il senso più probabile sembra essere questo: «quello (il demonio)
unì la volontà malvagia (mal voler), che ricerca solo il male, all'intelletto...». Era opinione dei teologi che il diavolo
avesse il potere di agire sugli elementi atmosferici.

Il gran giogo (v. 116) non indica forse una cima in particolare, ma l'ultimo tratto dell'Alpe di Serra (detto anche
«giogana»).

Il fiume real (v. 122) è l'Arno, che nel Trecento era detto così come tutti i fiumi che sfociavano in mare.

Il v. 129 che chiude il racconto di Bonconte (poi di sua preda mi coperse e cinse) è sembrato a molti commentatori
particolarmente lapidario, tanto da essere accostato alla chiusa del racconto di Ulisse (Inf., XXVI, 142): infin che 'l mar
fu sovra noi richiuso.

Il verbo salsi (v. 135) è forma contratta di sallosi e significa «lo sa».

Alcuni mss. leggono al v. 136 disposata, che darebbe alla frase questo senso: «colui che mi aveva sposata dopo che
ero stata già inanellata», quindi in seconde nozze (di un primo matrimonio di Pia non abbiamo alcuna notizia certa); è
più probabile la lezione a testo, poiché il disposare e l'inanellare erano i due atti della cerimonia religiosa, in quanto
col primo si dichiarava la volontà di sposare, col secondo si poneva l'anello come segno di tale volontà.

Parafrasi: Io mi ero già allontanato da quelle anime e seguivo i passi della mia guida, quando dietro a me, drizzando il
dito, una di esse gridò: «Vedete che il raggio del sole da sinistra non sembra attraversare quello che segue, che
sembra proiettare un'ombra come un vivo!» Rivolsi lo sguardo al suono di queste parole e vidi quelle anime che
meravigliate guardavano me, proprio me, e la luce del sole interrotta dal mio corpo. Il maestro mi disse: «Perché il tuo
animo si lascia distrarre al punto di rallentare il cammino? che t'importa di ciò che si mormora qui? Seguimi e lascia
che la gente parli: sta' come una torre salda, che non ondeggia mai la sua cima per quanto i venti soffino; infatti,
l'uomo in cui un pensiero ne fa nascere un altro allontana da sé la propria meta, perché la forza dell'uno indebolisce
quella dell'altro». Che potevo dire, se non «Ti seguo»? Lo dissi, alquanto cosparso del rossore che talvolta fa l'uomo
degno di esser perdonato. E intanto, su un ripiano roccioso che tagliava il monte trasversalmente, venivano verso di
noi delle anime poco lontane, che cantavano il Salmo 'Miserere' a versetti alternati. Quando videro che io, col mio
corpo, non permettevo ai raggi del sole di passare, mutarono il loro canto in un «oh!» lungo e fioco; e due loro, in
qualità di messaggeri, corsero verso di noi e ci chiesero: «Informateci della vostra condizione». E il mio maestro: «Voi
potete tornare indietro e riferire a quelli che vi hanno mandati qui che il corpo di costui è in carne e ossa. Se essi,
come penso, si sono fermati per aver visto la sua ombra, vi ho detto abbastanza: lo accolgano cortesemente e ciò
potrà tornare loro utile». Io non ho mai visto stelle cadenti fendere il cielo all'inizio della notte, né lampi squarciare le
nuvole d'agosto al calar del sole, tanto rapidamente quanto quelle anime tornarono in alto; e arrivate là, corsero verso
di noi con le altre come una schiera sfrenata. Virgilio disse: «Questa gente che si accalca intorno a noi è molta, ed essi
vengono a pregarti: perciò continua a camminare e ascolta mentre procedi». Essi venivano gridando: «O anima che vai
per essere felice, con quel corpo col quale sei nato, rallenta un poco il passo. Guarda se hai mai visto qualcuno di noi
nel mondo, così che tu possa portare sue notizie sulla Terra: suvvia, perché continui a camminare? Suvvia, perché non
ti fermi? Noi tutti siamo stati uccisi violentemente e siamo stati peccatori fino all'ultima ora; in punto di morte una
luce del cielo ci illuminò la mente, cosicché, pentendoci e perdonando, uscimmo fuori dalla vita in grazia di Dio, il
quale ci strugge nel desiderio di vederlo». E io: «Per quanto io guardi i vostri volti, non ne riconosco nessuno; ma se
voi volete qualcosa che sia in mio potere, spiriti fortunati, ditelo e io lo farò, in nome di quella pace che io, seguendo i
passi di questa guida, cerco nei regni dell'Oltretomba». E uno iniziò: «Ciascuno si fida della tua promessa senza
bisogno di giuramenti, purché l'impossibilità (nonpossa) non impedisca la tua volontà. Perciò io, che parlo da solo
davanti agli altri, ti prego, se mai andrai in quel paese (la Marca Anconetana) che sta tra la Romagna e il regno di Carlo
d'Angiò, che tu preghi i miei congiunti a Fano, così che essi preghino per me e mi permettano di espiare le mie colpe.
Io ero originario di Fano, ma le profonde ferite da cui uscì il sangue nel quale risiedeva la mia anima, mi furono inferte
nel territorio di Padova, là dove credevo di essere al sicuro: artefice di questo fu Azzo VIII d'Este, che mi odiava assai
più di quanto avesse ragione. Ma se io fossi fuggito verso il borgo della Mira, quando fui raggiunto dai miei sicari ad
Oriago, sarei ancora nel mondo dei vivi. Invece corsi verso la palude, e le canne e il fango mi impacciarono al punto
che caddi; e lì vidi il sangue che mi usciva dalle vene e formava un lago al suolo». Poi un altro disse: «Orsù, ti auguro
che si realizzi quel desiderio che si spinge su per l'alto monte; tu con buona pietà aiuta il mio! Io fui uno di Montefeltro
e mi chiamo Bonconte; né la mia vedova Giovanna né gli altri miei congiunti si curano di me, per cui io mi vergogno fra
queste anime». E io a lui: «Quale forza o caso fortuito ti trascinò fuori da Campaldino, così che il tuo corpo non fu mai
ritrovato?» Lui rispose: «Oh! Ai piedi del Casentino scorre un torrente chiamato Archiano, che nasce in Appennino
presso l'Eremo di Camaldoli. Nel punto dove si getta in Arno e perde il suo nome, arrivai io con la gola trafitta,
fuggendo a piedi e insanguinando la pianura. Qui persi la vista e la parola; morii pronunciando il nome di Maria e
caddi, e rimase solo il mio corpo. Ora ti dirò la verità e tu riferiscila ai vivi: l'angelo di Dio mi prese, e quello d'Inferno
gridava: "O tu del cielo, perché mi togli ciò che mi spetta? Tu porti via la parte eterna (l'anima) di costui per una
lacrimetta che me la toglie; ma io riserverò ben altro trattamento al corpo!". Tu sai bene come nell'atmosfera si
raccolga quel vapore umido che ridiventa acqua, non appena sale dove è più freddo. Quel diavolo unì la sua volontà
malvagia, che cerca solo il male, con l'intelletto, e mosse il fumo e il vento grazie al potere che la natura gli ha
concesso. Poi, appena calò il sole, coprì di nebbia tutta la pianura da Pratomagno fino alle alte vette dell'Appennino; e
rese il cielo soprastante gonfio di umidità, tanto che questa si trasformò in pioggia; essa cadde e ciò che la terra non
riuscì ad assorbire riempì i fossati; e quando confluì ai corsi d'acqua, si riversò verso l'Arno tanto velocemente che
nulla poté arrestarla. L'Archiano rapinoso trovò il mio corpo morto sulla foce e lo spinse nell'Arno, sciogliendo la croce
che avevo fatto sul mio petto con le braccia quando fui giunto alla fine; mi fece rotolare per le rive e sul fondale, poi
mi seppellì coi detriti che aveva trascinato». «Orsù, quando sarai tornato sulla Terra e avrai riposato per il lungo
cammino», proseguì un terzo spirito dopo il secondo, «ricordati di me, che sono Pia (de' Tolomei); nacqui a Siena e fui
uccisa in Maremma; lo sa bene colui che, dopo avermi chiesto in sposa, mi aveva dato l'anello nuziale».

CANTO XXIV PURGATORIO

Sintesi: Ancora fra i golosi della VI Cornice. Forese indica il destino ultraterreno di Piccarda e nomina altri compagni di
pena. Incontro con Bonagiunta da Lucca. Profezia di Forese sulla morte di Corso Donati. Il secondo albero e gli esempi
di gola punita. L'angelo della temperanza. È il pomeriggio di martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300.

Forese parla di Piccarda e indica altri golosi (1-33): Dante e Forese Donati continuano a parlare e a camminare lungo la
VI Cornice, senza rallentare, mentre le altre anime dei golosi osservano Dante stupite del fatto che sia vivo. Il poeta
afferma che Stazio procede lentamente verso l'alto per trattenersi con Virgilio, poi chiede all'amico se sa qual è il
destino ultraterreno della sorella Piccarda e se fra i compagni di pena vi sono personaggi degni di nota. Forese
risponde che la sorella, bella e buona quand'era in vita, ora è fra i beati in Paradiso, quindi afferma che è necessario
nominare le anime rese irriconoscibili dalla magrezza. Forese mostra col dito l'anima di Bonagiunta da Lucca e,
accanto a lui, quella di papa Martino IV di Tours, che sconta il suo amore per le anguille e la vernaccia. Nomina altre
anime di golosi, tutti contenti di essere indicati: fra di essi ci sono Ubaldino della Pila, Bonifacio Fieschi, Marchese degli
Argugliosi che quando era vivo a Forlì bevve in modo smodato.

Incontro con Bonagiunta Orbicciani (34-63): Dante nota che Bonagiunta si mostra più degli altri desideroso di parlargli,
mentre intanto mormora un nome che gli sembra «Gentucca», a fior delle labbra che sono tormentate dalla fame e
dalla sete. Dante si rivolge a lui e lo invita a parlargli, al che Bonagiunta risponde che nella sua città, Lucca, è già nata
una femmina che è ancora giovinetta e che avrà modo di ospitarlo durante il suo esilio. Il penitente invita Dante a
ricordarsi la sua profezia, che sarà avvalorata dai fatti, quindi gli chiede se sia proprio lui il poeta che ha iniziato le
nuove rime con la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore. Dante spiega di essere un poeta che, quando scrive,
segue strettamente la dettatura di Amore: Bonagiunta afferma di capire quale differenza separa lui, Giacomo da
Lentini e Guittone d'Arezzo dal «dolce stil novo» che Dante ha appena definito. Il penitente comprende che gli
stilnovisti seguirono l'ispirazione amorosa, a differenza sua e dei poeti della sua scuola, quindi tace mostrandosi
soddisfatto della risposta.
Profezia della morte di Corso Donati (64-93): Le altre anime si allontanano da Dante affrettando il passo, simili alle gru
che svernano lungo il Nilo, camminando spedite per la magrezza e la volontà di espiazione. Solo Forese resta con
Dante, camminando lentamente e lasciando andare avanti gli altri golosi, chiedendo poi all'amico quando lo rivedrà.
Dante risponde di non sapere quanto gli resti ancora da vivere, ma certo è grande il suo desiderio di staccarsi dalle
cose terrene e di lasciare la città di Firenze, che di giorno in giorno mostra il suo declino morale. Forese ribatte che
molto presto il principale responsabile di questa situazione (il fratello Corso) verrà trascinato all'Inferno legato alla
coda di un cavallo, che lo sfigurerà orribilmente. Non passeranno molti anni, aggiunge, prima che i fatti chiariscano a
Dante il senso della sua oscura profezia. Alla fine delle sue parole Forese si accommiata da Dante e raggiunge i
compagni di pena, per non perdere troppo tempo nell'espiazione delle sue colpe.

Arrivo al secondo albero (94-120): Forese si allontana a passi rapidi, simile a un cavaliere che esce di schiera al galoppo
per scontrarsi col nemico, mentre Dante resta in compagnia di Virgilio e Stazio. Il poeta segue Forese con gli occhi,
finché scorge un secondo albero i cui rami sono carichi di frutti. Sotto di esso i golosi alzano le mani verso i rami e
gridano parole incomprensibili, come dei bambini di fronte a un adulto che ammannisce loro qualcosa che essi
desiderano. Alla fine le anime si allontanano e i tre poeti raggiungono a loro volta l'albero, dove sentono una voce che
dichiara che quella pianta è nata dall'albero dell'Eden il cui frutto fu morso da Eva e li invita a passare oltre. I tre si
stringono alla parete del monte e proseguono.

Esempi di gola punita (121-129): La voce riprende poco dopo per ricordare esempi di gola punita, fra cui quello dei
centauri che, nati da una nube, ubriachi, combatterono Teseo, e degli Ebrei che si mostrarono inclini al bere, per cui
Gedeone non li volle come soldati nella guerra combattuta contro i Madianiti. I tre poeti passano oltre stringendosi
all'orlo interno della Cornice, mentre ascoltano quegli esempi di gola cui seguì un duro castigo.

L'angelo della temperanza (130-154): Oltrepassato l'albero, i tre poeti proseguono nella Cornice ormai deserta,
ciascuno meditando su ciò che ha udito. A un tratto sentono una voce che chiede loro cosa pensano, per cui Dante si
scuote: alza lo sguardo e scorge l'angelo della temperanza, che rosseggia come un metallo arroventato e invita i tre a
salire lì se vogliono accedere alla Cornice successiva. Dante è abbagliato da quella vista e segue gli altri due
ascoltandone le voci, mentre sulla fronte sente un dolce vento simile a una brezza primaverile, prodotto dalle piume
dell'angelo che cancella la sesta P. L'angelo dichiara beati coloro che sono illuminati dalla grazia e non sono troppo
inclini alla gola, avendo sempre desiderio del giusto.

Interpretazione complessiva:

Il Canto chiude l'episodio dedicato a Forese Donati ed è la seconda parte di un «dittico» iniziato nel Canto XXIII, con la
differenza che qui l'amico di Dante è protagonista della prima e della terza parte del Canto, fra cui si inserisce la
parentesi di Bonagiunta da Lucca che introduce l'importante discorso intorno allo Stilnovo. All'inizio Forese, su
richiesta di Dante, indica alcuni dei più ragguardevoli golosi della Cornice, fra cui spiccano soprattutto gli ecclesiastici,
a cominciare da papa Martino IV (Simone de Brie, sulla cui inclinazione al mangiare e al bere vi sono numerosi
aneddoti nelle cronache) e Bonifacio Fieschi che fu arcivescovo di Ravenna, nel che Dante alimenta l'accusa che spesso
veniva rivolta ai prelati di darsi smodatamente al cibo e di vivere nell'opulenza (gli altri due esempi sono di
aristocratici, fra cui Ubaldino della Pila imparentato sia col cardinale Ottaviano che con l'arcivescovo Ruggieri,
entrambi dannati, e Marchese degli Argugliosi). Forese preannuncia poi la beatitudine della sorella Piccarda, che sarà
la protagonista del Canto III del Paradiso e costituisce un esempio di comportamento retto e virtuoso in contrasto con
quello delle sfacciate donne fiorentine biasimate nel Canto precedente, esattamente come il fratello Corso sarà nella
terza parte esempio negativo del malcostume e della corruzione politica di Firenze: la dannazione di Corso, che morirà
nel 1308, è profetizzata in modo oscuro da Forese, secondo il quale il fratello verrà trascinato direttamente all'Inferno
legato alla coda di un cavallo selvaggio, che ne sfigurerà orrendamente il corpo. L'uomo fu effettivamente ucciso da un
colpo di lancia dopo essersi lasciato cadere di sella e alcuni commentatori (tra cui il Buti) ricordano che gli rimase un
piede impigliato nella staffa e che l'animale lo trascinò a lungo, il che potrebbe aver agito sulla fantasia dell'autore.
Significativo è il contrasto che Forese crea tra i due opposti esempi dei fratelli, destinati rispettivamente al Cielo e
all'Inferno, tanto più che i due erano legati da torbide vicende biografiche (Corso aveva rapito Piccarda dal convento
per costringerla a nozze con un uomo politico legato ai Guelfi Neri, per cui la sua orribile morte costituisce la giusta
punizione per i suoi peccati personali e le colpe politiche relative alle vicende fiorentine, tanto più gravi in quanto i
Neri avevano causato l'ingiusto esilio del poeta nel 1302). La parte centrale del Canto vede poi come protagonista
Bonagiunta Orbicciani da Lucca, già indicato da Forese fra i suoi compagni di pena, il quale si mostra particolarmente
voglioso di interloquire con Dante: è una importante parentesi dedicata a questioni poetiche e letterarie, che anticipa
quella altrettanto significativa del Canto XXVI che vedrà protagonisti Guido Guinizelli e Arnaut Daniel. Bonagiunta era
infatti uno dei principali esponenti della cosiddetta scuola dei «siculo-toscani», di cui era stato l'iniziatore benché
Guittone (più giovane di lui) ne fosse diventato poi il rappresentante di spicco, ed era colui che aveva rivolto a
Guinizelli il famoso sonetto polemico Voi ch'avete mutata la mainera in cui lo accusava di scrivere versi troppo astrusi
e dottrinali. Dante è quindi il rappresentante dello stile «nuovo» iniziato da Guinizelli e ripreso da lui e Cavalcanti,
mentre il poeta lucchese è l'esponente di uno stile «vecchio» e superato da Dante e i suoi amici, per cui è logico che
una discussione di teoria poetica abbia lui come interlocutore privilegiato. Dopo aver predetto in modo allusivo l'esilio
di Dante, ricordando il nome della donna lucchese Gentucca che ospiterà il poeta in quella città (il soggiorno fu forse
intorno al 1306, durante la permanenza in Lunigiana presso i Malaspina: la profezia anticipa quella relativa a Corso
Donati, con l'analogo avvertimento che i fatti chiariranno le parole oscure), Bonagiunta si rivolge a Dante come colui
che ha iniziato a sua volta una nuova maniera poetica, quella delle «rime nuove» cominciata con la canzone Donne
ch'avete intelletto d'amore del cap. XIX della Vita nuova: Dante si presenta come un poeta che scrive sotto la diretta
ispirazione di Amore, per cui l'altro comprende la differenza fondamentale che ha separato lui, Guittone e Giacomo da
Lentini (caposcuola dei Siciliani) dal dolce stil novo di cui sente parlare. È questa l'unica attestazione del termine
«Stilnovo», che i critici hanno poi esteso a tutta la nuova maniera poetica inaugurata da Guinizelli e ripresa dai poeti
fiorentini; la «novità» consisterebbe nell'immediata trasposizione dell'ispirazione amorosa, mentre Bonagiunta e i
guittoniani peccarono per eccesso di retorica, specie Guittone che prese a modello il trobar clus di Arnaut (mentre gli
stilnovisti si ispirararono al trobar leu e ricercarono un linguaggio semplice, non sofisticato). Si è molto discusso se la
definizione di Bonagiunta vada estesa a tutta la scuola oppure solo alle «rime nuove» iniziate da Dante nel cap. XIX
della Vita nuova, ovvero le poesie in cui ripone tutta la sua soddisfazione nelle parole di lode a Beatrice e non nel
saluto di lei, per quanto tale ipotesi sembri troppo restrittiva e non spiegherebbe perché Dante senta il bisogno di
spiegare la propria poesia a un esponente dei siculo-toscani. Del resto il poeta lucchese crea un'opposizione tra
Siciliani e siculo-toscani da una parte e Dante e i suoi amici dall'altra (dice infatti le vostre penne), per cui pare
ragionevole che la sua definizione indichi la mainera inaugurata da Guinizelli e contro cui lui stesso aveva polemizzato:
è indubbio che Dante e Cavalcanti avessero coscienza di formare una cerchia di poeti accomunati da una stessa
visione dell'amore e del modo di scriverne, benché non sia certo che essi si definissero veramente «Stilnovisti» (è
dunque da respingere l'ipotesi avanzata da alcuni studiosi, secondo cui una vera e propria scuola fiorentina non
sarebbe mai esistita). Il discorso verrà ripreso con lo stesso Guinizelli nel Canto XXVI, in cui Dante chiuderà il cerchio
della sua riflessione intorno alla poesia dello Stilnovo che egli aveva ormai superato, pur recuperandone alcuni aspetti
e senza rinnegarne totalmente l'esperienza, salvo le sue implicazioni morali relativamente ai rischi della letteratura
amorosa in genere (è lo stesso tema già affrontato nel Canto V dell'Inferno e nel Canto XVIII del Purgatorio, circa
l'irresistibilità del sentimento amoroso). Dopo il commiato di Dante e Forese, con quest'ultimo che si allontana in
modo assai simile a quanto già visto per Brunetto Latini alla fine del Canto XV dell'Inferno, l'ultima parte del Canto
vede la descrizione del secondo albero della Cornice e dei golosi che protendono inutilmente le mani verso i suoi
frutti, e gli esempi di gola punita dichiarati da una voce misteriosa come quelli di temperanza (XXII, 142-154). Gli ultimi
versi sono dedicati all'incontro con l'angelo della temperanza, che scuote i tre poeti assorti nelle loro meditazioni e
abbaglia Dante con la luce rosseggiante che promana dal suo viso: l'angelo cancella la sesta P dalla fronte del poeta e
indirizza lui e gli altri due lungo la scala che li porterà alla Cornice seguente, ascesa durante la quale Stazio spiegherà la
generazione delle anime per rispondere al dubbio di Dante circa la magrezza dei golosi.

Figure retoriche:

I vv. 16-17 (Qui non si vieta / di nominar ciascun) indicano probabilmente solo il fatto che è necessario indicare per
nome le anime, rese irriconoscibili dalla magrezza, e non il divieto di indicare i penitenti che in questa Cornice non
sarebbe in vigore (di tale divieto non c'è alcun accenno negli altri Canti).

Al v. 21 trapunta significa «screpolata» a causa della magrezza.

Il personaggio citato ai vv. 20-24 è Simone de Brie, nativo di Tours (Torso) che fu papa col nome di Martino IV e la cui
ghiottoneria era diventata proverbiale: si narra che uscendo dal concistoro spesso dicesse: O Sanctus Deus, quanta
mala patimur pro Ecclesia Dei! Ergo bibamus! («O Dio Santo, quante fatiche sopportiamo per il bene della Chiesa!
Dunque beviamo!»).

La vernaccia citata al v. 24 è sicuramente la Vernazza, un vino delle Cinque Terre e non il vino sardo con lo stesso
nome.
Il v. 30 (che pasturò col rocco molte genti), riferito all'arcivescovo di Ravenna Bonifacio Fieschi, è stato variamente
interpretato per il senso non chiaro di rocco: potrebbe essere la punta del pastorale dei vescovi ravennati, simile a un
prisma esagonale che veniva detto «rocco» dal persiano rokh, da cui il termine scacchistico «arroccare». Il verso
vorrebbe dire allora che Bonifacio guidò (pasturò, conio dantesco) molte popolazioni col suo pastorale, senza alcun
intento ironico legato al «pascolare» e alla colpa della gola.

Il nome Gentucca mormorato (v. 37) da Bonagiunta è stato variamente interpretato, anche se l'ipotesi più probabile è
che si riferisca alla donna lucchese poi indicata dal penitente come colei che ospiterà Dante nel suo soggiorno in quella
città durante l'esilio (vv. 43-45). Costei è ancora una giovinetta in quanto non porta la benda nera che copriva i capelli
alle donne maritate, secondo gli statuti comunali.

Al v. 55 Issa vuol dire «ora» ed è voce lucchese affine a quella lombarda Istra di Inf., XXVII, 21.

La valle ove mai non si scolpa (v. 84) è certamente l'Inferno, anche se alcuni hanno pensato a Firenze, dove «non si
cessa mai dalle colpe».

Al v. 99 marescalchi (dal franco marhskalk, «servo del cavallo») indica «maestri», «guide».

Al v. 104 pomo significa «albero».

Il v. 105 (per essere pur allora vòlto in laci) può voler dire che Dante, solo dopo aver svoltato la curva del monte, vede
in lontananza l'albero, ma anche che solo in quel momento ha rivolto lo sguardo alla pianta, mentre prima osservava
Forese che si allontanava.

La rima sol tre (v. 133) è composta e va letta «sòltre».

Al v. 135 poltre vuol dire «pigre», «tranquille» e meno probabilmente «giovani».

Ai vv. 151-154 l'angelo della temperanza dichiara parte della quarta beatitudine, Beati qui esuriunt iustitiam, mentre
quello della giustizia aveva detto Beati qui sitiunt iustitiam; qui Dante parafrasa il passo evangelico e indica beati
coloro che hanno un amore giusto e misurato verso il cibo.

Parafrasi:

e parole non rallentavano l'andatura di Forese, né questa rallentava le sue parole, ma parlando procedevamo spediti
come una nave spinta da un buon vento; e le anime, che sembravano creature morte due volte, mi guardavano
stupite con gli occhi infossati, vedendo che io ero vivo. E io, proseguendo il mio discorso, dissi: «Quell'anima (Stazio)
forse sale più lentamente del dovuto a causa di Virgilio. Ma dimmi, se lo sai, dove si trova Piccarda; dimmi se io vedo
tra queste anime che mi guardano in tal modo qualcuno degno di essere notato». «Mia sorella, che non so se fosse più
bella o buona, trionfa lieta in Paradiso tra i beati». Così disse dapprima; poi aggiunse: «Qui è necessario nominare le
anime, poiché ciascuna è così smagrita dal digiuno da risultare irriconoscibile. Costui», e indicò uno col dito, «è
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia accanto a lui che sembra più screpolata delle altre, ebbe fra le sue braccia la
Santa Chiesa (fu papa Martino IV): fu nativo di Tours e qui espia col digiuno le anguille di Bolsena e la vernaccia». Me
ne indicò molti altri uno ad uno; e tutti sembravano contenti di essere nominati, così che non vidi un solo gesto di
stizza. Vidi masticare a vuoto Ubaldino della Pila e Bonifacio Fieschi, che guidò col pastorale molte popolazioni (come
vescovo di Ravenna). Vidi messer Marchese degli Argugliosi, che a Forlì poté bere con più abbondanza e fu tale che
non si saziò mai. Ma come fa chi guarda e poi osserva con più insistenza qualcuno in particolare, così feci con
Bonagiunta che sembrava conoscermi meglio degli altri. Egli mormorava; e mi sembrava che dicesse qualcosa come
«Gentucca» a fior delle labbra, là dove la giustizia divina li consuma. Io dissi: «O anima, che sembri così smaniosa di
parlare con me, parla più chiaramente e appagami con le tue parole». Lui iniziò: «È nata una femmina, e ancora è una
giovinetta, che ti renderà piacevole la mia città (Lucca), anche se tutti ne parlano male. Tu te ne andrai via di qui con
questa profezia: se a causa del mio mormorio non hai capito bene, i fatti ti sveleranno la verità. Ma dimmi se tu sei
proprio colui che iniziò le nuove rime, cominciando con la canzone ' Donne ch'avete intelletto d'amore'». E io a lui: «Io
sono un poeta che, quando Amore mi ispira, prendo nota e scrivo esattamente ciò che lui mi detta dentro il cuore».
Rispose: «O fratello, ora capisco quale nodo ha trattenuto me, il Notaro (Giacomo da Lentini) e Guittone al di qua di
questo 'dolce stil novo' che sento! Ora vedo bene che le vostre penne seguono strettamente la dettatura di Amore,
mentre le nostre non fecero certo lo stesso; e se uno volesse procedere oltre, non vedrebbe altra differenza dall'uno
all'altro stile»; e poi tacque, come se fosse soddisfatto. Come gli uccelli (le gru) che svernano lungo il Nilo, a volte,
fanno una larga schiera in cielo, poi volano più in fretta e vanno in fila, così tutte le anime che erano lì, voltandosi,
affrettarono il passo, veloci a causa della loro magrezza e della volontà di espiazione. E come chi è stanco di correre
lascia andare avanti i compagni, e cammina più lentamente per calmare l'affanno del petto, così Forese lasciò passare
quel santo gregge di anime e veniva dietro a me, dicendo: «Quando ti rivedrò?» Gli risposi: «Non so quanto mi resti da
vivere; ma il mio ritorno qui non sarà mai così rapido che io con la volontà non arrivi prima all'approdo (la spiaggia del
Purgatorio); infatti il luogo dove nacqui (Firenze) di giorno in giorno si spoglia del bene e sembra pronto per una triste
rovina». Lui disse: «Non preoccuparti, perché vedo colui che ne ha più colpa (Corso Donati) trascinato per la coda da
un cavallo, verso la valle (l'Inferno) dove nessuna colpa si può espiare. La bestia a ogni passo va più veloce, sempre più
rapida, finché essa lo percuote e lascia il corpo orrendamente sfigurato. Quelle ruote non dovranno girare molto», e
guardò il cielo, «prima che i fatti ti chiariscano ciò che le mie parole non possono dichiarare. Ormai dobbiamo
separarci; infatti in questo regno il tempo è prezioso, cosicché io ne perdo troppo venendo con te di pari passo».
Come il cavaliere esce talvolta dalla sua schiera e va per prendere l'onore del primo assalto al nemico, così Forese si
allontanò da noi con passi più rapidi; e io rimasi sulla strada con gli altri due (Virgilio e Stazio) che furono illustri
maestri del mondo. E quando Forese si fu allontanato da noi e io lo seguivo proprio come la mia mente ripensava alle
sue parole (cioè con fatica), ecco che vidi i rami carichi di un altro albero, e non molto lontano poiché solo allora avevo
rivolto in là lo sguardo. Vidi sotto di esso delle anime che alzavano le mani verso i rami e gridavano qualcosa, simili a
dei bambini desiderosi e incapaci, che pregano e il pregato non risponde, ma anzi tiene alto l'oggetto desiderato e non
lo nasconde per acuire la loro voglia. Poi si allontanarono, come deluse; e noi giungemmo al grande albero, che rifiuta
tante preghiere e lacrime. «Passate oltre senza avvicinarvi: più in alto, nell'Eden, c'è un altro albero il cui frutto fu
morso da Eva e questo è nato da quella pianta». Così una voce misteriosa parlava tra i rami; allora Virgilio, Stazio e io,
stretti alla parete del monte, andammo oltre. La voce diceva: «Ricordatevi dei maledetti centauri nati da una nube,
che, ubriachi, combatterono Teseo coi doppi petti; e degli Ebrei che si mostrarono inclini al bere, per cui Gedeone non
li volle con sé quando discese i colli marciando contro i Madianiti». Passammo oltre accostati all'orlo interno della
Cornice, ascoltando gli esempi di gola punita da miseri castighi. Poi, tornati a camminare lungo la strada solitaria,
percorremmo più di un miglio, ciascuno assorto nei suoi pensieri. Una voce improvvisa ci disse: «Che andate
pensando, voi tre soli?» allora io mi scossi come fanno le bestie spaventate e pigre. Alzai la testa per vedere chi fosse;
e non si videro mai in una fornace vetri o metalli così arroventati e rossi, come io vidi un angelo che diceva: «Se a voi
piace salire, è necessario passare di qui; si passa di qui, se si vuole andare verso la beatitudine». La sua vista mi aveva
abbagliato, per cui io si strinsi dietro alle mie guide, come uno che va ascoltando chi lo precede. E come l'aria di
maggio, che annuncia l'alba, si muove e profuma, tutta impregnata dell'odore dell'erba e dei fiori, così io sentii in
mezzo alla fronte un vento, e sentii muovere la piuma dell'angelo che fece odorare l'aria di ambrosia (l'angelo cancella
la sesta P). E sentii che diceva: «Beati coloro che sono tanto illuminati dalla grazia che nel loro petto non nasce un
eccessivo desiderio di cibo, avendo sempre fame di giustizia!»

CANTO XXVI PURGATORIO

Sintesi: Ancora nella VII Cornice: le due schiere di lussuriosi. Incontro con Guido Guinizelli. Incontro con Arnaut Daniel.
È il pomeriggio di martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, verso le quattro.

Incontro con le anime dei lussuriosi (1-24): Dante, Virgilio e Stazio camminano in fila lungo l'orlo esterno della VII
Cornice, con Virgilio che mette spesso in guardia Dante sul percorso da tenere, mentre il poeta è colpito sul braccio
destro dal sole, che illumina tutto l'occidente. Dante proietta la sua ombra sulla fiamma e la rende più rossa, il che
rivela a molti penitenti che è ancor vivo. Questo è il motivo per cui iniziano a parlare di lui, dicendosi l'un l'altro che
Dante sembra avere un corpo in carne e ossa, quindi si avvicinano al poeta e lo osservano meglio, badando a non
uscire dalla cortina di fiamme. Uno dei lussuriosi si rivolge a Dante osservando che cammina dietro agli altri due poeti,
non per lentezza ma per deferenza, e lo prega di rispondere a lui e alle altre anime che sono tormentate dal dubbio:
com'è possibile che egli faccia ombra, come se fosse ancora in vita in quel luogo dell'Oltretomba?

Le due schiere di lussuriosi. Esempi di lussuria punita (25-51): Dante avrebbe già risposto a quell'anima, se la sua
attenzione non fosse attirata da qualcos'altro: infatti, lungo la Cornice occupata dalle fiamme, giunge un'altra schiera
di lussuriosi che procede in senso opposto alla prima, per cui il poeta osserva meravigliato. Le anime dei due gruppi si
baciano reciprocamente, senza fermarsi, proprio come le formiche si toccano il muso l'una con l'altra; quando si
separano, prima di allontanarsi emettono delle grida e i nuovi arrivati esclamano «Sodoma e Gomorra», mentre gli
altri ricordano il peccato di Pasifae che si unì bestialmente al toro da cui fu generato il Minotauro. Quindi procedono di
nuovo in direzioni opposte, simili a gru che si separino per puntare rispettivamente ai monti Rifei e alle sabbie dei
deserti, le prime per schivare il sole e le altre il freddo. I penitenti si allontanano e tornano piangendo al canto
dell'inno e agli esempi di castità; quelli che si erano rivolti a Dante tornano ad avvicinarsi al limite della fiamma,
attendendo la sua risposta.

Dante risponde alle anime (52-66): Dante risponde spiegando che il suo corpo non è rimasto sulla Terra ma è lì con lui,
con tutto il sangue e le sue giunture: sta salendo il monte per vincere il peccato ed è atteso nell'Eden da una donna
(Beatrice) che gli procura grazia, per cui può attraversare il Purgatorio in carne ed ossa. Dante augura alle anime di
raggiungere presto la beatitudine e di poter entrare in Cielo, quindi chiede loro di rivelare i propri nomi e di dirgli chi
sono quegli altri lussuriosi che si sono allontanati, cosicché lui possa scriverne una volta ritornato sulla Terra.

Un'anima spiega la condizione delle due schiere (67-87): Come il montanaro si stupisce quando giunge in città,
ammirando muto ciò che non è abituato a vedere, così quelle anime si meravigliano alle parole di Dante, per quanto la
loro sorpresa si attenui presto come avviene di solito nei cuori magnanimi. L'anima che ha parlato prima (Guido
Guinizelli) dichiara che Dante è beato in quanto ha il privilegio di visitare il Purgatorio da vivo, quindi spiega che i
penitenti dell'altra schiera sono colpevoli di lussuria contro natura (furono cioè sodomiti) e per questo gridano
l'esempio di Sodoma, accrescendo la loro vergogna. Lui e gli altri penitenti di questa schiera, invece, peccarono di
lussuria secondo natura, abbandonandosi tuttavia al piacere sensuale in modo eccessivo e come bestie, per cui
gridano l'esempio di Pasifae che si unì al toro nella falsa vacca di legno.

Guido Guinizelli si rivela a Dante (88-132): Ora, prosegue il penitente, Dante sa chi sono lui e i suoi compagni di pena,
ma non avrebbe il tempo di indicare i loro nomi né peraltro li conoscerebbe tutti. L'anima rivela tuttavia il proprio
nome, presentandosi come Guido Guinizelli: espia i suoi peccati in Purgatorio perché se ne pentì prima della morte.
Dante, sentendo il nome del poeta che considera il padre suo e degli altri poeti migliori di lui che eccelsero nelle rime
amorose in volgare, vorrebbe gettarsi nel fuoco ad abbracciare Guido, anche se non osa farlo; per un buon tratto
continua a camminare senza dire nulla, guardandolo con ammirazione e non avvicinandosi alle fiamme. Dopo questa
lunga pausa, Dante torna a rivolgersi a Guinizelli con un giuramento che rende credibili le sue parole: il penitente
afferma che Dante lascia in lui un ricordo indelebile, che neppure le acque del Lete potranno cancellare, poi chiede a
Dante il motivo per cui manifesta tanto affetto per lui. Dante spiega di ammirarlo per le sue poesie, che renderanno
preziosi i manoscritti che le contengono finché si userà il volgare. A questo punto Guinizelli indica col dito un'anima
che lo precede (Arnaut Daniel), dicendo che anche lui fu poeta volgare e si mostrò superiore a lui, primeggiando anzi
su tutti coloro che scrissero romanzi in prosa e versi amorosi. Guido afferma che gli stolti gli preferiscono Giraut de
Bornelh, poiché essi seguono l'opinione comune e non la verità, proprio come molti antichi fecero nei riguardi di
Guittone d'Arezzo, dapprima apprezzato e poi vinto dalla verità. Guido prega poi Dante, se davvero ha il privilegio di
andare in Paradiso, di recitare un Pater noster davanti a Cristo, quel tanto che occorre alle anime del Purgatorio.

Incontro con Arnaut Daniel (133-148): Alla fine delle sue parole Guido scompare nel fuoco, forse per lasciare spazio
all'anima accanto a lui, simile a un pesce che raggiunge il fondo dell'acqua. Dante si avvicina un poco al penitente che
Guido ha indicato prima, dicendogli che nutre grande desiderio di conoscere il suo nome. Il penitente inizia a parlare
di buon grado e in perfetta lingua d'oc dichiara di non potere né voler nascondere la propria identità, tanto gli è
gradita la cortese domanda di Dante: egli è Arnaut Daniel, che piange e canta nel fuoco. Ripensa con preoccupazione i
suoi precedenti peccati, guarda con gioia alla beatitudine che lo attende; prega Dante, in nome della grazia che lo
conduce in Purgatorio, di ricordarsi di lui una volta giunto in Paradiso. A questo punto il penitente scompare
nuovamente entro le fiamme che lo purificano.

Interpretazione complessiva:

Protagonista assoluto del Canto è Guido Guinizelli, il cui incontro con Dante si articola in tre momenti successivi che
corrispondono allo stupore e alla domanda circa il fatto che lui è vivo, alla spiegazione della pena dei lussuriosi, al
colloquio in materia poetica che introduce l'altro personaggio dell'episodio, Arnaut Daniel. Il Canto completa e per
così dire integra il discorso intorno alla poesia stilnovistica che era iniziato nel XXIV con Bonagiunta da Lucca, per cui
non stupisce che lo stile sia linguisticamente e retoricamente elevato: specie nelle parole di Guido, che prima ancora
di essere presentato apostrofa Dante affermando che egli segue Virgilio e Stazio perché reverente, chiedendo poi
spiegazione della sua presenza lì essendo arso dalla sete di sapere, proprio come le altre anime che sono egualmente
assetate di acqua fredda come gli abitanti dell'India o dell'Etiopia (c'è l'antitesi tra il calore del fuoco e del sole di
quelle regioni esotiche e la freschezza dell'acqua, nonché la preziosità della similitudine piuttosto rara: lo stesso può
dirsi della morte citata poco dopo, vista come la rete che non ha ancora catturato Dante). La risposta del poeta è
interrotta dall'arrivo della schiera dei sodomiti e dalla descrizione del rituale del bacio reciproco, prima che le due
schiere gridino gli esempi opposti di lussuria punita: è l'unico caso in Purgatorio di penitenti che nella stessa Cornice
siano distinti nella modalità della pena, dal momento che i due gruppi procedono in direzioni opposte e hanno
commesso peccati analoghi ma differenti, come Guido spiegherà più avanti, in quanto i sodomiti espiano l'amore
consumato contro natura, mentre gli altri scontano l'eccessivo e bestiale abbandono al piacere sensuale, come i
lussuriosi infernali che la ragion sommettono al talento. Il peccato di sodomia è qui ricondotto alla topografia morale
del secondo regno, quindi come peccato di amore mal diretto e non di violenza contro natura come all'Inferno (dove i
sodomiti erano inclusi nel VII Cerchio e non avevano possibilità di redenzione), il che rappresenta forse un parziale
ripensamento di Dante rispetto all'ordinamento morale del primo regno, non sempre congruente con quello del
Purgatorio (cfr. a riguardo la Guida del Canto XVII di questa Cantica). La ripresa del colloquio con Guido vede anzitutto
la spiegazione di Dante, che si dichiara vivo e oggetto di un eccezionale privilegio che gli consente di visitare il
Purgatorio (con l'allusione a Beatrice che lo attende nell'Eden), quindi domanda a sua volta alle anime di manifestarsi
e dichiara di essere poeta, affermando di volerlo sapere acciò ch'ancor carte ne verghi, per scriverne cioè nel poema
una volta tornato nel mondo. Dopo il comprensibile stupore delle anime è nuovamente Guido a prendere la parola e a
usare un linguaggio elevato, definendo Dante fortunato in quanto «imbarca» esperienza visitando le loro marche, il
loro regno, quindi spiega la divisione delle schiere indicando il proprio peccato come ermafrodito (con allusione al
mito del figlio di Mercurio e Venere, tratto da Ovidio) e illustrando l'esempio di Pasifae, colei / che s'imbestiò ne le
'mbestiate schegge, con la replicazione imbestiò / 'mbestiate per indicare la falsa vacca di legno da lei usata per unirsi
al toro di cui s'era invaghita. Alla fine si presenta come Guido Guinizelli, rinunciando per modestia a indicare i nomi di
tutti i compagni di pena, e tale rivelazione provoca l'ammirazione di Dante e il desiderio di abbracciare il suo maestro
e modello, attraverso la similitudine mitologica dei due figli di Isifile che sottrassero la madre ai soldati di Licurgo che
la portavano al supplizio (l'esempio è tratto dalla Tebaide di Stazio). È a questo punto che Dante, su richiesta di Guido,
manifesta tutta la sua ammirazione per colui che considerava il creatore del Dolce Stil Novo, ovvero la nuova scuola
poetica che Bonagiunta aveva definito a partire dalla spiegazione di Dante: Guido è il modello di dolci detti, ovvero di
poesie amorose in stile dolce, la cui fama durerà finché si userà il volgare (ed è da rilevare l'uso del termine raro
incostri, dal lat. encaustrum, per indicare i manoscritti che contenevano le poesie). Già prima Dante aveva definito
Guido quale padre suo e di tutti gli altri poeti amorosi in volgare, riconoscendolo come suo maestro e autore al pari di
Virgilio per quanto riguardava la poesia classica e affermandone il magistero per quanto concerne la poesia amorosa
in volgare; è chiaro che Dante intende celebrarne la figura come creatore dello Stilnovo, ma anche completare quella
personale riflessione intorno a tale poesia che attraversa a vari livelli quasi tutto il poema. Non può sfuggire, infatti,
che Guinizelli è insieme ad Arnaut l'ultimo penitente con cui Dante dialoga, come Francesca, anche lei lussuriosa, era
stata il primo dannato: Francesca era stata consumatrice di quella letteratura amorosa che l'aveva condotta insieme a
Paolo all'Inferno, mentre Guido (come Arnaut e Dante stesso) ne era stato produttore, per cui è come se Dante
chiudesse il cerchio indicando tale letteratura come non condannabile in sé, ma come rischiosa sul piano della
salvezza perché può portare alla dannazione quei lettori che ne mettono in pratica i modelli, abbandonandosi al
piacere dei sensi. Va sottolineato, a questo riguardo, che non ci sono dati biografici che indichino per Guido e Arnaut il
peccato di lussuria, quindi dobbiamo pensare che Dante li collochi in questa Cornice per i loro versi più che per le loro
azioni: Guido è colpevole di aver scritto poesie che possono aver causato la perdizione di personaggi come Paolo e
Francesca, per cui questo è il peccato di cui si è pentito alla fine della sua vita e che ora sconta nel fuoco della Cornice,
che anche Dante attraverserà nel Canto seguente (per cui è come se Dante bruciasse nel fuoco non le sue poesie
stilnoviste, ma ciò che di rischioso sul piano dottrinale vi era in esse, oltre naturalmente all'esperienza totalmente
condannabile delle Petrose). Questo spiega in parte la polemica letteraria di Guido contro Guittone, che riprende
analoghi severi giudizi che Dante esprime sull'Aretino anche in altre opere (spec. in DVE) e si collega all'esaltazione di
Arnaut Daniel, che sconta la pena insieme a Guinizelli nel fuoco e che il Bolognese indica come miglior fabbro di parlar
materno: Dante riconosce dunque una linea Arnaut-Guinizelli-Stilnovo che è solo in parte spiegabile, non foss'altro
perché Arnaut fu maestro di quel trobar clus imitato da Guittone, e per il fatto che Guido lo preferisce a Giraut de
Bornelh, maestro di trobar leu che fu modello per gli Stilnovisti, mentre tale giudizio è contraddittorio con altre
opinioni espresse in DVE e Convivio. Ciò è confermato anche dalle parole in volgare occitanico che Dante mette in
bocca al provenzale alla fine del Canto, che sono, sì, un eccellente esempio di lingua d'oc, ma sembrano anche versi in
perfetto trobar leu, ben lontani dalle rimas caras e dal linguaggio prezioso e difficile di cui Arnaut era maestro e che
Dante ben conosceva. È stato ipotizzato che qui Arnaut faccia una sorta di ritrattazione del suo stile poetico e,
soprattutto, del carattere sensuale dell'amore da lui cantato: quest'ultimo elemento è confermato dal termine folor
che indica il fuoco della passione nei testi provenzali, contrapposto alla joi (felicità) che il poeta vede davanti a sé e al
valor (la virtù divina, o forse la grazia di Beatrice) che guida Dante in cima al monte del Purgatorio. Di sicuro si può
affermare che Dante in questo Canto fa un discorso centrato più sul piano linguistico e stilistico che non tematico, per
cui questo può almeno in parte spiegare la preferenza accordata ad Arnaut rispetto a Giraut, anche se ci si deve
arrendere all'idea che qui, come in altri passi del poema, egli rovesci totalmente giudizi precedentemente espressi in
DVE e Convivio; senza dubbio le parole di Arnaut chiudono in modo definitivo il discorso sulla poesia amorosa, per cui
d'ora in avanti essa potrà essere recuperata solo per cantare la bellezza di Beatrice o lo splendore del Paradiso, quindi
anche Dante rinnega la sua passada folor per guardare alla joi che vede ormai prossima sulla cima del monte.

Figure retoriche:

Al v. 6 cilestro indica il colore azzurro del cielo, che diventa bianco quando è illuminato dal sole.

I vv. 7-8 vogliono dire che Dante, proiettando la propria ombra sulla fiamma, la rende di un rosso più cupo, mentre
essa era sbiadita dalla luce del sole; ciò induce le anime ad accorgersi che Dante è vivo.

La sete citata al v. 18 è sicuramente la sete di sapere (come al v. 20), anche se alcuni commentatori hanno pensato che
l'ardere della fiamma provochi nelle anime la sete come aggiunta di pena, cosa di cui non ci sono conferme.

La similitudine ai vv. 34-36 relativa alle formiche che si toccano il muso a vicenda è tratta da Ovidio, Met., VII, 624-626,
anche se si è visto un richiamo a Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XI, 39). La schiera bruna rimanda a Aen., IV, 404 (nigrum
agmen).

Soddoma e Gomorra sono ovviamente le due città bibliche (Gen., XVIII, 20 ss.) dedite al vizio della sodomia e per
questo distrutte da Dio con una pioggia di fuoco.

La similitudine delle gru (vv. 43-45) che si dividono in due schiere dirette ai monti Rifei, a nord, e ai deserti del sud, è
ovviamente ipotetica e lo dimostra il verbo al congiuntivo (come grue ch[e]... volasser); forse Dante ha voluto
sottolineare il peccato contro natura dei sodomiti, così come innaturale sarebbe il volo delle gru verso i paesi freddi.

Il senso del v. 48 (e al gridar che più lor si convene) non è chiarissimo e si può forse riferire agli esempi di castità che
tutti i lussuriosi gridano alternandoli al canto dell'inno Summae Deus clementiae, come descritto nel Canto XXV. I
penitenti griderebbero gli esempi di lussuria punita solo quando le due schiere si incontrano, come descritto qui.

Al v. 73 marche indica il regno del Purgatorio, come in XIX, 45.

I vv. 76-78 alludono a un aneddoto riportato, tra gli altri da Svetonio, secondo cui Cesare venne apostrofato da un
certo Ottavio con l'epiteto di

«regina» per via dei rapporti che il dittatore avrebbe avuto con Nicomede, re di Bitinia (Caes., 49). Dante cita
probabilmente da Uguccione da Pisa (Magnae derivationes, s.v. Triumphus) che in proposito dice: Caesari triumphanti
fertur quidam dixisse... "Aperite portas regi calvo et reginae Bitiniae"... et alius de eodem vitio: "Ave rex et regina!"
(«Si narra che un tale disse a Cesare, al momento del trionfo: "Aprite le porte al re calvo e alla regina di Bitinia" e un
altro sullo stesso vizio: "Salute, re e regina!»). Dante non credeva sicuramente a questa taccia, altrimenti non avrebbe
posto Cesare nel Limbo.

Ermafrodito (v. 82) fu il mitico figlio di Mercurio e Venere, che si unì alla ninfa Salmace così strettamente da formare
un solo corpo con gli attributi di entrambi i sessi (Ovidio, Met., IV, 288 ss.). Guido intende dire che il suo peccato fu di
natura eterosessuale.

Il v. 91 (Farotti ben di me volere scemo) non è chiarissimo nella costruzione e vuol dire forse «farò mancante il tuo
volere di me», cioè soddisferò la tua volontà di sapere chi sono.

I vv. 94-96 alludono all'episodio della Tebaide (V, 720 ss.) in cui si narra che la schiava Isifile aveva ricevuto da Licurgo,
re di Nemea, l'incarico di badare al figlioletto Ofelte; l'aveva lasciato incustodito per mostrare ai Greci la fonte di
Langia e il piccolo era stato ucciso dal morso di un serpente. Licurgo aveva condannato a morte Isifile, ma i suoi figli
Toante e Euneo l'avevano sottratta ai soldati e tratta in salvo.

Al v. 98 li altri miei miglior significa «gli altri (poeti) migliori di me».

Il v. 105 indica una formula di giuramento, con cui Dante rende credibili le sue parole a Guinizelli.
I vv. 118-119 sono stati interpretati nel senso che Arnaut avrebbe scritto egli stesso prose di romanzi, ma ciò non ha
conferme dirette; si pensa dunque che Dante intenda dire che il trovatore primeggiò nella letteratura in lingua d'oc e
d'oïl, quest'ultima indicata attraverso le opere narrative come i romanzi cortesi, che in realtà erano scritti in versi
(Dante li conosceva attraverso tardi volgarizzamenti in prosa).

Il chiostro / nel quale Cristo è abate del collegio (vv. 128-129) è naturalmente il Paradiso. Il v. 131 allude forse al fatto
che del Pater noster non dovrà essere recitato l'ultimo versetto, come fanno i superbi in XI, 19-24.

L'espressione ai vv. 133-134 è poco chiara e indica forse che Guido cede il passo ad Arnaut che gli è vicino.

I versi in volgare occitanico di Arnaut iniziano con un'espressione (v. 140) che è ripresa da una canzone di Folchetto di
Marsiglia, Tan m'abeliis l'amoros pensamen. Anche il v. 142 ne ricorda uno di Arnaut, Ieu sui Arnautz qu'amas l'aura.

Al v. 143 folor è termine tecnico della poesia provenzale, per indicare l'amore sensuale.

Alcuni mss. leggono al v. 144 jorn al posto di joi, mentre l'accostamento jausen / joi è decisamente più ricercato.

Al v. 145 valor può indicare Dio, ma anche la virtù rappresentata da Beatrice che attende Dante al som de l'escalina.

Parafrasi:

Mentre procedevamo in quel modo lungo l'orlo della Cornice uno dietro l'altro, e spesso Virgilio mi diceva: «Sta'
attento; ti sia utile il fatto che ti mostro la strada»; la mia spalla destra era colpita dal sole, che ormai, coi suoi raggi,
trasformava tutto l'occidente da azzurro a bianco; e io facevo diventare con la mia ombra più rossa la fiamma; e vidi
molte anime, mentre camminavano, che si accorgevano di quell'indizio. Questo fu il motivo che le spinse a parlare di
me; e cominciarono a dire: «Questi non sembra avere un corpo umbratile»; poi alcune, per quanto gli era concesso, si
avvicinarono a me, sempre stando attente a non uscire dalla fiamma che li bruciava. «O tu che procedi dietro agli altri
due, non per essere più lento, ma forse per deferenza, rispondi a me che ardo per il fuoco e per la sete di sapere. La
tua risposta non è necessaria solo a me; infatti tutti questi penitenti ne hanno più sete di quanto gli abitanti dell'India
o dell'Etiopia ne abbiano di acqua fredda. Dicci come è possibile che tu proietti un'ombra, come se tu non fossi ancora
entrato nella rete della morte». Così uno dei penitenti mi parlava; e io mi sarei già manifestato, se non mi fossi rivolto
a un'altra cosa nuova che proprio in quel momento apparve; infatti, in mezzo al muro di fiamme, giunse una schiera
che volgeva il viso verso questa, la quale mi indusse a osservare meravigliato. Lì vidi ogni anima di entrambe le schiere
affrettare il passo e baciarsi l'una con l'altra, senza fermarsi, contente per quel rapido saluto festoso; così le formiche,
entro la loro schiera scura, si toccano il muso l'una con l'altra, forse per chiedersi informazioni sul cammino e sui frutti
del loro lavoro. Non appena quelle liete accoglienze furono interrotte, prima ancora che le anime facessero un passo
per allontanarsi, ognuna di esse gridava più che poteva: i nuovi arrivati gridavano: «Sodoma e Gomorra»; e gli altri:
«Pasifae entra nella vacca di legno, perché il toro corra a soddisfare la sua lussuria». Poi, come gru che per assurdo si
separassero, volando alcune verso i monti Rifei e le altre verso i deserti (le prime per evitare il sole, le altre il gelo),
una schiera se ne va e l'altra procede in senso opposto; e, piangendo, tornano a ciò che cantavano prima, e alle grida
che più si addicono loro; e quei penitenti che mi avevano pregato si riavvicinarono a me come prima, attenti
nell'aspetto ad ascoltarmi. Io, che per due volte avevo visto ciò che desideravano, iniziai: «O anime certe di ottenere,
quando sarà, la pace eterna, le mie membra non sono rimaste né acerbe né mature sulla Terra, ma sono qui con me,
col loro sangue e le loro giunture. Da qui vado in alto per non essere più cieco (per ottenere la salvezza); più su c'è una
donna (Beatrice) che mi procura la grazia divina, per cui porto il mio corpo attraverso il vostro mondo. Tuttavia (e
possa il vostro più forte desiderio essere soddisfatto quanto prima, così che il cielo, pieno di amore e infinito, vi ospiti)
ditemi, affinché io ne scriva una volta tornato nel mondo, chi siete voi, e chi è quella schiera che se ne va dietro le
vostre spalle». Il montanaro, quando va in città rude e selvaggio e ammira ammutolito (i monumenti cittadini), non
rimane meravigliato e istupidito in modo diverso da come fece ognuna di quelle anime nel proprio aspetto; ma dopo
che ebbero lasciato lo stupore, che nei cuori nobili si attenua in fretta, quell'anima che prima mi aveva rivolto la sua
domanda ricominciò: «Beato te, che per morir meglio (per essere salvo) acquisti esperienza del nostro mondo! La
schiera che non viene con noi commise lo stesso peccato (sodomia) per cui Cesare, durante il trionfo, si sentì rivolgere
l'appellativo di 'Regina': per questo se ne vanno gridando 'Sodoma', rimproverando se stesse come hai sentito, e
accrescono la pena del fuoco con la vergogna. Il nostro peccato, invece, fu di natura eterosessuale; ma poiché non
osservammo la legge umana, seguendo come bestie l'appetito dei sensi, per nostra vergogna quando ci separiamo
gridiamo il nome di colei (Pasifae) che divenne una bestia nella falsa vacca di legno. Ora conosci il nostro
comportamento e di cosa fummo colpevoli: se forse vuoi conoscere i nomi di tutti noi, non c'è il tempo di dirteli e io
non saprei farlo. Esaudirò tale tuo desiderio solo riguardo me stesso: sono Guido Guinizelli, e sconto già qui la pena
per essermi pentito prima della fine della mia vita». Come i due figli (di Isifile), a causa della crudeltà del tiranno
Licurgo, si avvicinarono per rivedere la madre, così mi trovai io, ma non osai tanto (non mi avvicinai alle fiamme),
quando udii presentarsi il padre mio e degli altri poeti migliori di me che mai scrissero versi d'amore dolci e leggiadri; e
per un bel pezzo camminai osservandolo con ammirazione, senza dire e ascoltare nulla, né osai avvicinarmi di più per
timore del fuoco. Dopo che fui soddisfatto di averlo osservato, mi offrii tutto pronto al suo servizio, con un giuramento
che spinge le persone a credere alle parole. E lui a me: «Tu lasci in me un tale ricordo, per quello che sento, e così
luminoso, che il Lete non potrà cancellarlo né sbiadirlo. Ma se le tue parole poco fa giurarono il vero, dimmi per quale
ragione mostri di avermi caro nel parlare e nel guardarmi». E io a lui: «La ragione sono i vostri dolci versi, che, finché si
userà il volgare, renderanno sempre preziosi i manoscritti che li conservano» Disse: «O fratello, costui che ti indico col
dito», e mostrò uno spirito davanti a lui, «fu un migliore artefice del suo volgare materno. Superò tutti nel campo della
poesia amorosa occitanica e nella letteratura narrativa oitanica; e lascia parlare gli stolti, che credono sia superato dal
Limosino (Giraut de Bornelh). Essi drizzano gli sguardi alle voci più che alla verità, e così formano la loro opinione
prima di ascoltare l'arte o la ragionevolezza. Così molti antichi fecero con Guittone, apprezzandolo per dare ascolto
alle voci, finché la verità lo ha superato grazie all'opera di molti scrittori. Ora, se tu hai l'eccezionale privilegio di poter
andare nel chiostro (Paradiso) dove Cristo è l'abate del collegio, recita davanti a lui per me un 'Pater noster', almeno
per quanto è necessario a noi in Purgatorio, dove non abbiamo più il potere di peccare». Poi, forse per lasciare spazio
a chi gli stava accanto, sparì nel fuoco come un pesce nell'acqua, quando va al fondo.Io mi avvicinai un poco allo
spirito che aveva indicato prima, e dissi che il mio desiderio preparava una gradita accoglienza al suo nome (volevo
sapere chi fosse). Lui cominciò volentieri a dire: «La vostra cortese domanda mi piace a tal punto, che non posso né
voglio nascondere la mia identità. Io sono Arnaut, che piango e vado cantando; preoccupato guardo la mia passata
follia d'amore, e vedo gioioso la gioia, che spero, davanti a me. Ora vi prego, per quella virtù che vi guida alla sommità
di questa scala, di rammentarvi al momento opportuno del mio dolore!» Poi si nascose nel fuoco che li purifica.

CANTO I PARADISO

Sintesi: Proemio della Cantica. Dante e Beatrice ascendono al Paradiso. Dubbi di Dante e spiegazione di Beatrice circa
l'ordine dell'Universo. È mezzogiorno di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Proemio della Cantica (1-36): Dante dichiara di essere stato nel Cielo del Paradiso (l'Empireo) che riceve
maggiormente la luce divina che si diffonde nell'Universo: lì ha visto cose difficili da riferire a parole, poiché l'intelletto
umano non riesce a ricordare ciò che vede quando penetra in Dio. Il poeta tenterà di descrivere il regno santo nella III
Cantica e per questo invoca l'assistenza di Apollo, in quanto l'aiuto delle Muse non gli è più sufficiente. Il dio pagano
dovrà ispirarlo col suo canto, come fece quando vinse il satiro Marsia, tanto da permettergli di affrontare l'alta
materia del Paradiso e meritare così l'alloro poetico. Apollo dovrebbe essere lieto che qualcuno desideri esserne
incoronato, poiché ciò accade raramente nei tempi moderni; Dante si augura che il suo esempio sia seguito da altri
poeti dopo di lui.

Ascesa di Dante e Beatrice (37-63): Il sole sorge sull'orizzonte da diversi punti, ma quello da cui sorge quando è
l'equinozio di primavera si trova in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quindi i raggi del sole allora sono più
benefici per il mondo. Quel punto dell'orizzonte divide l'emisfero nord, in cui è già notte, da quello sud, in cui è giorno
pieno: in questo momento Dante vede Beatrice rivolta a sinistra e intenta a fissare il sole come farebbe un'aquila.
L'atto della donna induce Dante a imitarla, proprio come un raggio di sole riflesso si leva con lo stesso angolo del
primo raggio, per cui il poeta fissa il sole più di quanto farebbe sulla Terra. Nell'Eden le facoltà umane sono accresciute
e Dante può vedere la luce aumentare tutt'intorno, come se fosse spuntato un secondo sole.

Trasumanazione di Dante (64-81): Dante distoglie lo sguardo dal sole e osserva Beatrice, che a sua volta fissa il Cielo. Il
poeta si perde a tal punto nel suo aspetto che subisce una trasformazione simile a quella di Glauco quando divenne
una creatura marina: è impossibile descrivere a parole l'andare oltre alla natura umana, perciò il lettore dovrà
accontentarsi dell'esempio mitologico e sperare di averne esperienza diretta in Paradiso. Dante non sa dire se, in
questo momento, sia ancora in possesso del suo corpo mortale o sia soltanto anima, ma di certo fissa il suo sguardo
nei Cieli che ruotano con una melodia armoniosa e gli sembra che la luce del sole abbia acceso in modo straordinario
tutto lo spazio circostante.

Primo dubbio di Dante e spiegazione di Beatrice (82-93): Nel poeta si accende un fortissimo desiderio di conoscere
l'origine del suono e della luce, per cui Beatrice, che legge nella sua mente ogni pensiero, si rivolge subito a lui per
placare il suo animo. La donna spiega che Dante immagina cose errate, poiché non si trova più in Terra come ancora
crede: egli sta salendo in Paradiso e nessuna folgore, cadendo dalla sfera del fuoco in basso, fu tanto rapida quanto lui
che torna al luogo che gli è proprio (il Paradiso).

Secondo dubbio di Dante: l'ordine dell'Universo (94-142): Beatrice ha risolto il primo dubbio di Dante, ma ora il poeta
è tormentato da un altro e chiede alla donna come sia possibile che lui, dotato di un corpo mortale, stia salendo oltre
l'aria e il fuoco. Beatrice trae un profondo sospiro, quindi guarda Dante come farebbe una madre col figlio che dice
cose insensate e spiega che tutte le cose dell'Universo sono ordinate tra loro, così da formare un tutto armonico. In
questo ordine le creature razionali (uomini e angeli) scorgono l'impronta di Dio, che è il fine cui tendono tutte le cose.
Tutte le creature, infatti, sono inclini verso Dio in base alla loro natura e tendono a fini diversi per diverse strade,
secondo l'impulso che è dato loro. Questo fa sì che il fuoco salga verso l'alto, che si muova il cuore degli esseri
irrazionali, che la Terra stia coesa in se stessa; tale condizione è comune alle creature irrazionali e a quelle dotate di
intelletto. Dio risiede nell'Empireo come vuole la Provvidenza, e Dante e Beatrice si dirigono lì in quanto il loro istinto
naturale li spinge verso il loro principio, che è Dio. È pur vero, spiega Beatrice, che talvolta la creatura non asseconda
questo impulso e devia dal suo corso naturale in virtù del suo libero arbitrio; così l'uomo talvolta si piega verso i beni
terreni e non verso il Cielo, come una saetta tende verso il basso e non verso l'alto. Dante, se riflette bene, non deve
più stupirsi della sua ascesa proprio come di un fiume che scorre dalla montagna a valle; dovrebbe stupirsi del
contrario, se cioè non salisse pur privo di impedimenti, come un fuoco che sulla Terra restasse fermo. Alla fine delle
sue parole, Beatrice torna a fissare il Cielo.

Interpretazione complessiva: Il Canto si apre con il proemio alla III Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta
così di ampiezza tripla rispetto al proemio del Purgatorio (I, 1-12) e addirittura quadrupla rispetto a quello dell'Inferno
(II, 1-9): la maggiore ampiezza e solennità si spiega con l'accresciuta importanza della materia trattata, dal momento
che il poeta si accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva fatto e dovrà misurarsi con la
difficoltà di riferire cose difficili anche solo da ricordare, anticipando il tema della visione inesprimibile che tanta parte
avrà nel Paradiso. Ciò spiega anche perché Dante debba invocare l'assistenza di Apollo oltre che delle Muse,
chiedendo al dio pagano (che naturalmente è personificazione dell'ispirazione divina) di aiutarlo nell'ardua impresa e
consentirgli di cingere l'agognato alloro poetico: Apollo dovrà ispirarlo con lo stesso canto con cui vinse il satiro Marsia
che lo aveva sfidato, in maniera analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi (Purg., I, 9-12) e sottolineando il fatto
che la poesia di Dante dovrà essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di gareggiare con la divinità nella
rappresentazione di ciò che supera i limiti umani (ciò sarà ribadito anche nell'esordio del Canto seguente, vv. 7-9).
Dante ribadisce anche il fatto che pochi, ormai, desiderano l'alloro, per cui la sua ambizione dovrebbe rallegrare
Apollo ed essere di stimolo ad altri poeti dopo di lui perché seguano il suo esempio, nel che c'è forse una fin troppo
modesta excusatio propter infirmitatem, dal momento che più volte nella Cantica egli esprimerà l'orgoglio di essere il
primo a percorrere questa strada poetica. Dopo l'ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione
primaverile e l'ora del mezzogiorno (è questa l'interpretazione più ovvia, mentre è improbabile che il poeta intenda
l'alba), Dante vede Beatrice fissare il sole e imita il suo gesto, sperimentando l'accresciuto acume dei suoi sensi
nell'Eden. I due hanno iniziato a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Cielo della Luna, anche
se Dante non se n'è ancora reso conto e ha notato solo l'aumento straordinario della luce: il poeta si sente
trasumanar, diventare qualcosa di più che un essere umano e non può descrivere questa sensazione se non con
l'esempio ovidiano del pastore Glauco, che si tramutò in una creatura acquatica e si gettò in mare dicendo addio alla
Terra (come vedremo, Dante ricorrerà spesso nella Cantica a similitudini mitologiche per rappresentare situazioni
prive di termini di paragone «terreni»). L'aumento progressivo della luce e il dolce suono con cui ruotano le sfere
celesti accendono in Dante il desiderio di capirne la ragione e Beatrice è sollecita a spiegargli che i due stanno salendo
verso il Cielo, come un fulmine che cade dall'alto contro la sua natura; ciò naturalmente suscita un nuovo dubbio nel
poeta che si chiede come sia possibile per lui, dotato di un corpo in carne e ossa, salire contro la legge di gravità,
dubbio che sarà sciolto da Beatrice con una complessa spiegazione che occupa l'ultima parte del Canto. La donna
assume fin dall'inizio l'atteggiamento che avrà sempre nella Cantica, ovvero di maestra che sospira e sorride delle
ingenue domande del discepolo e fornisce spiegazioni di carattere dottrinale: anche qui, infatti, la sua spiegazione non
chiarisce il dubbio di Dante di natura fisica (come fa un corpo grave a trascendere i corpi lievi, l'aria e il fuoco) ma
inquadra il problema nell'ambito dell'ordinamento generale dell'Universo, collegandosi ai versi iniziali che
descrivevano il riflettersi della luce divina di Cielo in Cielo. Beatrice spiega infatti che tutte le creature, razionali e non,
fanno parte di un tutto armonico che è stato creato da Dio e ordinato in modo preciso, così che ogni cosa tende al suo
fine attraverso strade diverse, come navi che giungono in porto solcando il gran mar de l'essere. Ciò vale per le cose
inanimate, come il fuoco che tende a salire verso l'alto per sua natura e la terra che è attratta verso il centro
dell'Universo, ma anche per gli esseri intelligenti, la cui anima razionale tende naturalmente a muoversi verso Dio;
ovviamente essi sono dotati di libero arbitrio, per cui può avvenire che anziché volgersi in quella direzione siano
attratti dai beni terreni, ma questo non è il caso di Dante che ha ormai purificato la sua anima nel viaggio attraverso
Inferno e Purgatorio. Egli tende dunque verso Dio che risiede nell'Empireo e ciò è un atto del tutto naturale, come
quello di un fiume che scorre dall'alto verso il basso, mentre sarebbe innaturale per Dante restare a terra, come un
fuoco la cui fiamma non tendesse verso l'alto. Tale spiegazione di natura metafisica anticipa quella che sarà la cifra
stilistica di gran parte della III Cantica, in cui spesso i dubbi scientifici di Dante verranno risolti con argomenti dottrinali
e verrà ribadito che la sola filosofia umana è di per sé insufficiente a capire i misteri dell'Universo, proprio come lo
stesso Virgilio aveva detto più volte rimandando alle chiose di Beatrice-teologia: ciò sarà evidente anche nella
spiegazione circa le macchie lunari al centro del Canto seguente, in quanto laddove la ragione umana non può arrivare
deve intervenire la fede e dunque Dante deve credere che sta salendo con tutto il corpo in Paradiso, non essendo in
grado di comprenderlo. È interessante inoltre che Beatrice usi per tre volte l'immagine del fuoco per spiegare il
movimento di Dante, prima paragonandolo a un fulmine che corre verso la Terra (mentre lui corre verso il Cielo), poi
spiegando che il fuoco tende a salire verso il Cielo della Luna (cioè verso la sfera del fuoco, dove è diretto Dante) e
infine paragonando il fulmine che cade in basso contro la sua natura a un uomo che, altrettanto forzatamente, è
attratto verso i beni terreni. La luce come elemento visivo domina largamente l'episodio, segnando il passaggio di
Dante dalla dimensione terrena a quella celeste, anche attraverso l'immagine del sole che è evocato nella spiegazione
astronomica, poi indicato come oggetto dello sguardo di Beatrice, infine chiamato in causa con l'immagine di un
secondo sole che sembra illuminare col suo splendore il cielo: il viaggio di Dante verso la luce è ovviamente il suo
percorso verso Dio e tale immagine si ricollega a quella dei versi iniziali in cui la gloria divina si riverberava in tutto
l'Universo, e dove si diceva che Dante è giunto nel Cielo che più de la sua luce prende, ovvero quell'Empireo verso il
quale ha iniziato a salire in modo prodigioso.

Il Parnaso citato al v. 16 è il monte della Grecia centrale che, secondo il mito, era sede di Apollo e aveva una doppia
cima; nel Medioevo si diffuse l'errata convinzione (attestata da Isidoro di Siviglia, Etym., XIV, 8) che le due cime
fossero il Citerone e l'Elicona, abitate rispettivamente da Apollo e dalle Muse, mentre in realtà l'Elicona è un monte
diverso. È possibile che qui Dante cada nella stessa confusione e indichi l'un giogo come il Citerone e l'altro con
l'Elicona.

Il satiro Marsia (vv. 20-21) è protagonista di un racconto di Ovidio (Met., VI, 382 ss.), in cui sfida Apollo in una gara
musicale e, vinto, viene scorticato vivo dal dio.

Apollo è detto delfica deità (v. 32) perché molto venerato anticamente a Delfi, mentre l'alloro è definito fronda /
peneia in riferimento al mito di Dafne, la figlia di Peneo trasformatasi in alloro per sfuggire ad Apollo (Met., I, 452 ss.).

Cirra (v. 36) era una città sul golfo di Corinto collegata con Delfi e indicata per designare Apollo stesso.

La complessa spiegazione astronomica dei vv. 37-42 è stata variamente interpretata dai commentatori, anche se
probabilmente indica che è l'equinozio di primavera e il sole è in congiunzione con l'Ariete. I quattro cerchi sono forse
l'Equatore, l'Eclittica, il Coluro equinoziale e l'orizzonte di Gerusalemme e Purgatorio, che si intersecano formando tre
croci (benché non perpendicolari). I vv. 43-45 indicano con ogni probabilità che è mezzogiorno, come detto in Purg.,
XXXIII, 104, e non l'alba come alcuni hanno ipotizzato (nell'emisfero sud è giorno pieno, mentre in quello opposto è
notte).

Il pelegrin del v. 51 può essere il pellegrino che torna in patria, ma anche il falco pellegrino.

L'aumento della luce ai vv. 61-63 indica che Dante si avvicina alla sfera del fuoco, che divide il I Cielo dall'atmosfera.

La similitudine ai vv. 67-69 è tratta da Met., XIII, 898 ss. e si riferisce al pescatore della Beozia Glauco che, avendo
notato che i pesci pescati mangiavano un'erba che li faceva balzare di nuovo in acqua, fece lo stesso e si trasformò in
una creatura acquatica, gettandosi in mare.

Il sito da cui fugge la folgore (v. 92) è sicuramente la sfera del fuoco, verso cui invece Dante si avvicina.

Il ciel del v. 122 è l'Empireo, nel quale ruota velocissimo il Primo Mobile.

Parafrasi:
La potenza di Colui (Dio) che muove ogni cosa si diffonde in tutto l'Universo e splende più in alcune parti, meno in
altre. Io fui nel Cielo (Empireo) che è più illuminato dalla sua luce, e vidi cose che chi scende di lassù non sa né può
riferire; infatti, avvicinandosi all'oggetto del suo desiderio (Dio), il nostro intelletto si addentra tanto in profondità che
la memoria non lo può seguire. Tuttavia, l'argomento del mio canto sarà ciò che io riuscii a fissare nella mia mente del
regno santo (Paradiso). O buono Apollo, concedimi la tua ispirazione per l'ultima Cantica, tanto quanto tu richiedi per
concedere l'agognato alloro poetico. Finora mi è stata sufficiente una sola cima del monte Parnaso (l'ispirazione delle
Muse); ma ora devo accingermi al lavoro rimasto con l'aiuto di entrambe (anche di Apollo). Entra nel mio petto e
ispirami, proprio come quando tirasti fuori Marsia dall'involucro delle sue membra (lo scorticasti vivo). O virtù divina,
se ti concedi a me quel tanto che basti a che io esprima una traccia del regno dei beati impressa nella mia mente, mi
vedrai venire ai piedi del tuo amato albero, e incoronarmi con le sue foglie di cui tu e l'alto argomento del poema mi
renderanno degno. Capita così di rado, padre, che si colga l'alloro per il trionfo di un condottiero o di un poeta (per
colpa e vergogna della poca ambizione umana), che la fronda di Peneo (l'alloro) dovrebbe far nascere gioia nella
gioiosa divinità di Delfi (Apollo), quando è desiderata da qualcuno. Una grande fiamma segue una debole scintilla:
forse dopo di me altri, con voci migliori, pregheranno perché Cirra (Apollo) risponda. La lanterna del mondo (il sole)
sorge ai mortali da diversi punti dell'orizzonte: ma da quel punto in cui quattro cerchi si intersecano formando tre
croci, esso nasce in congiunzione con una stagione più mite e con una stella propizia (l'Ariete, all'equinozio
primaverile) ed esercita un più benefico influsso sul mondo. Quel punto aveva fatto pieno giorno in Purgatorio e notte
sulla Terra, e un emisfero era tutto bianco e l'altro nero, quando vidi Beatrice voltata a sinistra e intenta a fissare il
sole: un'aquila non lo fissò mai in tal modo. E come il raggio riflesso è solito allontanarsi da quello di incidenza e salire
in alto con lo stesso angolo, come un pellegrino che vuole tornare in patria, così dal suo atteggiamento infuso nella
mia facoltà immaginativa nacque il mio, e fissai il sole al di là delle normali capacità umane. Là nell'Eden sono
permesse molte cose che non lo sono sulla Terra, grazie a quel luogo creato come proprio della specie umana. Io non
potei fissare il sole a lungo, ma neppure così poco da non vederlo sfavillare tutt'intorno, come un ferro incandescente
appena uscito dal fuoco; e subito sembrò che al giorno ne fosse stato aggiunto un altro, come se Dio avesse adornato
il cielo di un secondo sole. Beatrice teneva lo sguardo fisso sulle ruote celesti; e io fissai a mia volta lo sguardo su di lei,
distogliendolo dal cielo. Nel guardarla divenni dentro tale quale diventò Glauco quando mangiò l'erba, che lo
trasformò in una divinità marina. Elevarsi al di là dei limiti umani non si potrebbe spiegare a parole: perciò basti
l'esempio mitologico a coloro ai quali la grazia divina riserva l'esperienza diretta. Se io ero solo ciò che tu, amore che
governi il Cielo, creasti per ultima (l'anima razionale), lo sai tu che mi sollevasti con la tua luce. Quando il movimento
rotatorio dei Cieli, che tu rendi eterno col desiderio delle ruote celesti di avvicinarsi a te, attirò la mia attenzione con
l'armonia che tu regoli e stabilisci, il cielo mi sembrò a tal punto acceso dalla luce del sole che la pioggia o un fiume
non crearono mai un lago tanto ampio. La novità del suono e la luce intensa accesero in me il desiderio di conoscerne
la causa, così acuto come non lo sentii mai. Allora Beatrice, che leggeva nella mia mente come me stesso, prima che le
chiedessi qualcosa aprì la bocca per placare il mio animo turbato e disse: «Tu stesso ti rendi incapace di comprendere
con una falsa immaginazione, così che non vedi ciò che vedresti se te fossi liberato. Tu non sei in Terra, come credi: ma
un fulmine, lasciando la sua sede naturale (la sfera del fuoco), non corse così velocemente come tu che torni al luogo
che ti è proprio (l'Empireo)». Se io fui liberato dal primo dubbio grazie a quelle brevi e sorridenti parole, fui colto da un
altro dubbio, e dissi: «Ora la mia grande meraviglia si è placata; ma adesso mi stupisco di come io possa salire oltre
questi corpi leggeri (aria e fuoco)». Allora lei, dopo un sospiro devoto, mi guardò con l'aspetto di una madre che si
rivolge al figlio che dice sciocchezze, e iniziò: «Tutte le cose create sono ordinate fra loro, e questa è la forma che
rende l'Universo simile a Dio. In questo ordine le creature razionali (uomini e angeli) vedono l'impronta della virtù
divina, che è il fine ultimo di tutto l'ordine medesimo. In quest'ordine che dico tutte le nature ricevono la loro
inclinazione, in modi diversi, più o meno vicine al loro principio creatore (Dio); per cui tendono a diversi obiettivi
nell'ampiezza dell'Universo, e ciascuna è spinta da un istinto dato ad essa. Questo istinto porta il fuoco verso l'alto;
esso muove i cuori degli esseri irrazionali ed esso stringe e rende coesa la terra; quest'istinto fa muovere non solo le
creature prive di intelligenza, ma anche quelle dotate di anima razionale. La Provvidenza, che stabilisce tutto questo,
fa sempre quieto con la sua luce il Cielo (Empireo) nel quale ruota quello più veloce (Primo Mobile; Dio risiede
nell'Empireo); e ci porta lì, come a un sito stabilito, la forza di quell'istinto naturale che indirizza a buon fine ogni
essere che muove. È pur vero che, come la forma molte volte non corrisponde all'intenzione dell'artista, perché la
materia non risponde come dovrebbe, così talvolta la creatura razionale si allontana da questo corso, avendo il potere
(libero arbitrio) di piegare in altra direzione, pur così ben indirizzata; e come si può vedere un fulmine che cade da una
nuvola, così l'istinto naturale può far tendere l'uomo verso il basso, attirato dal falso piacere dei beni terreni. Non devi
più stupirti, se giudico correttamente, per il fatto che tu sali, se non come di un fiume che scorre dalla montagna a
valle. Ci sarebbe da stupirsi se tu, privo di impedimenti, fossi rimasto a terra, proprio come un fuoco che rimanesse
quieto e non salisse verso l'alto». Dopo le sue parole, Beatrice rivolse lo sguardo al Cielo.

CANTO V PARADISO

Sintesi: Ancora nel I Cielo della Luna. Beatrice spiega a Dante il valore del voto e la possibilità di permutarne la
materia. Ammonimento agli uomini. Ascesa al II Cielo di Mercurio: incontro con gli spiriti operanti per la gloria terrena,
tra cui Giustiniano. È il tardo pomeriggio di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Beatrice spiega a Dante il valore del voto (1-33): Beatrice spiega a Dante che se lei abbaglia la sua vista ciò non deve
stupirlo, poiché la donna vede nella mente di Dio e quindi accresce il proprio splendore. Beatrice si rende conto che
l'intelletto del poeta è illuminato dalla verità, la quale è il solo bene che possa sedurre l'animo umano, quindi si dice
pronta a rispondere alla sua domanda circa la possibilità di riparare al voto inadempiuto. La donna spiega che la libera
volontà è il dono più prezioso che Dio abbia fatto agli uomini e agli angeli, creature dotate di intelletto: ciò chiarisce
l'alto valore del voto, purché sia fatto in modo tale da essere bene accetto a Dio, dal momento che il voto presuppone
il sacrificio volontario della stessa volontà di chi lo pronuncia. Dunque nulla può essere offerto come compenso,
poiché sarebbe come voler fare un'opera buona col provento di un furto.

Possibilità di permutare la materia del voto (34-63): Beatrice ha ormai chiarito il punto principale, ma poiché la Chiesa
talvolta dispensa dal voto pronunciato è necessaria un'ulteriore spiegazione: Dante è invitato ad ascoltare con
attenzione e a tenere a mente ciò che Beatrice gli dirà. La donna spiega che l'essenza del voto consiste nella materia,
cioè in quello che viene offerto, e nel patto che si stipula con Dio. Quest'ultimo non può mai essere cancellato, come
detto prima, per cui agli Ebrei fu imposto di provvedere ai sacrifici, pur essendo prevista talvolta la permuta di ciò che
si doveva immolare. La materia del voto, invece, può essere cambiata, a condizione tuttavia che ciò sia consentito
dall'autorità della Chiesa e che la materia sia sostituita con una cosa più preziosa. In ogni caso, se la cosa promessa ha
un valore superiore a qualunque altra, la permuta non è permessa.

Ammonimento agli uomini sul voto (64-84): Beatrice rivolge un severo monito agli uomini, affinché non prendano alla
leggera l'importanza del voto: essi devono mantenere i voti fatti ed essere oculati e prudenti nel compierli, non
comportandosi come Iefte che sacrificò la propria figlia o come Agamennone che fece la stessa cosa con Ifigenia per
soddisfare la promessa agli dei. I Cristiani devono essere più ponderati e non pronunciare i voti con troppa leggerezza:
meglio attenersi alle Sacre Scritture e all'autorità della Chiesa, sufficienti per ottenere la salvezza. Gli uomini non
devono farsi trascinare dalla cupidigia come pecore matte, o come l'agnello che lascia il latte della madre, inducendo il
Giudeo che vive tra loro a ridere dei loro atti.

Ascesa al II Cielo di Mercurio (85-99): Beatrice pone fine alle sue parole e guarda in alto, mutando il proprio aspetto e
dissuadendo così Dante dal porre nuove domande. I due ascendono al II Cielo di Mercurio, veloci come una freccia che
giunge a bersaglio prima che la corda dell'arco smetta di vibrare: una volta qui, Dante vede Beatrice accrescere la
propria letizia, così che il pianeta sembra aumentare il proprio splendore.

Incontro con gli spiriti del II Cielo (100-139): Il poeta vede più di mille anime farsi avanti, simili ai pesci che in una
peschiera si avvicinano al pelo dell'acqua per mangiare, tutte luminose e ognuna intenta a dire che Dante accrescerà
la loro carità (sono gli spiriti operanti per la gloria terrena). Dante desidera ardentemente parlare con essi e
apprendere la loro condizione, come il lettore desidera sapere cosa accadrà in seguito: una delle anime (quella di
Giustiniano) si rivolge a Dante e lo esorta a domandare, poiché sarà per lui una gioia potergli rispondere. Beatrice a
sua volta invita il poeta a parlare e a credere a quanto udirà dai beati: Dante si rivolge allo spirito e osserva che la sua
figura è avvolta dalla luce, che aumenta all'aumentare della sua letizia, quindi gli chiede chi sia e perché gli appaia
proprio in questo Cielo. La luce dell'anima si fa più splendente, nascondendo la figura all'interno come fa il sole
quando è troppo intenso e non consente di guardarlo, poi il beato inizia il suo discorso.

Interpretazione complessiva:

Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali è dedicata al problema del voto e della possibilità di
cambiarne la materia, la seconda descrive l'ascesa al II Cielo e l'incontro con gli spiriti che operarono per la gloria
terrena, tra cui l'imperatore Giustiniano. L'ampiezza della trattazione del problema del voto può sembrare
sproporzionata rispetto alla questione in sé, ma è chiaro che per Dante si tratta di un problema assai delicato che, tra
l'altro, ha pesanti implicazioni nella condotta della Chiesa, per l'eccessiva facilità con cui dai voti si veniva dispensati
dietro pagamento: l'importanza della questione è dimostrata dal solenne inizio del Canto, con Beatrice che giustifica
l'abbagliamento della vita di Dante con l'acume della sua visione di Dio, la quale si riverbera sull'intelletto del poeta
che, per questo, desidera conoscere nuove cose (il discorso della donna è definito, non a caso, processo santo). In
effetti Dante si dimostra assai rigoroso nell'interpretazione teologica del voto, anche più dello stesso san Tommaso
d'Aquino che a riguardo aveva ammesso varie eccezioni: egli distingue tra la materia del voto, cioè la cosa promessa a
Dio, e la convenenza, il patto sottoscritto tra il fedele e Dio, affermando che quest'ultimo non può mai venir meno per
la natura stessa del voto. Pronunciando i voti, infatti, gli uomini fanno liberamente sacrificio della propria libera
volontà, che è il dono più prezioso che Dio ha fatto loro, quindi in teoria nulla può essere offerto in compenso che sia
di valore equivalente. Dante sottolinea che la cosa offerta deve essere un'azione virtuosa e deve avere un fine nobile,
quindi condanna decisamente quei voti fatti per ottenere scopi malvagi o che coinvolgono la volontà di altri loro
malgrado: è tuttavia ammissibile che la materia del voto subisca una permuta, sia cioè sostituita da qualcos'altro, a
condizione però che ciò riceva l'avallo ufficiale della Chiesa (attraverso l'immagine simbolica delle due chiavi bianca e
gialla, che raffigurano l'autorità del sacerdote) e che la sostituzione avvenga con qualcosa di più prezioso della cosa
promessa in un primo momento, tranne nei casi in cui la materia del voto è troppo preziosa per ammettere qualunque
permuta. Dante vuole polemizzare anzitutto con la Chiesa, troppo incline a consentire simili «permute» o a dispensare
addirittura dai voti in cambio di offerte e denaro, specie per iniziativa dei canonisti e dei decretalisti che fornivano
interpretazioni capziose del diritto sacro dietro pagamento (è la stessa accusa che Folchetto di Marsiglia rivolgerà alla
fine del Canto IX, condannando il maladetto fiore come la moneta che ha diffuso la corruzione tra il clero); la sua
accusa è però anche rivolta contro i fedeli stessi, troppo pronti a pronunciare voti nella speranza di salvarsi l'anima e a
promettere cose malvage o che arrecano danno a terzi. Il severo monito di Beatrice a conclusione del suo
ragionamento è rivolto proprio ai Cristiani, che devono evitare di pronunciare i voti con troppa leggerezza, come
fecero Iefte e Agamennone costretti poi a uccidere le rispettive figlie pur di adempiere alla promessa (e quelli erano
voti inammissibili, sia per il fine perseguito che per la cosa promessa a Dio e agli dei), e non devono pensare che il voto
sia una facile scorciatoia per lavarsi la coscienza, poiché la strada per la salvezza passa per un percorso di purificazione
ben più faticoso e accidentato. I due esempi evangelici delle pecore matte e dell'agnello «sbandato», che lascia cioè il
latte della madre e se ne allontana a suo danno, servono a richiamare i fedeli all'osservanza delle regole e soprattutto
della Sacra Scrittura, contenendo anche un implicito rimprovero al pastore del gregge (nel caso della Chiesa, al papa e
alle gerarchie ecclesiastiche) che deve vigilare affinché non ci sia un abuso dell'istituto del voto ed evitare che ciò
diventi occasione per lucrare sulla malafede e sulla leggerezza dei fedeli. La parte finale del Canto introduce al II Cielo
di Mercurio in cui Dante e Beatrice entrano rapidissimi, con l'accresciuta bellezza della donna che ne è il segno
tangibile e dona maggiore splendore al pianeta stesso, come altrove vedremo accadere nella Cantica. Rispetto agli
spiriti del I Cielo, i beati che appaiono qui a Dante non hanno una figura umana ma sono delle sagome totalmente
avvolte dalla luce, a malapena distinguibili all'occhio: uno di loro si rivolge a Dante e lo prega di rivolgergli qualunque
domanda, poiché la loro più grande gioia sarà quella di rispondergli e chiarire così ogni suo dubbio. L'anima è quella di
Giustiniano, che sarà protagonista assoluto del Canto seguente in cui risponderà alle due domande poste da Dante alla
fine di questo, ovvero il suo nome e quale sia la condizione dei beati che appaiono in questo Cielo: il Canto si chiude
con l'aumentato splendore della luce che avvolge lo spirito, segno dell'accresciuta letizia e del fatto che egli sorride (è
un espediente stilistico usato spesso da Dante nel Paradiso), per cui la sua figura è offuscata dalla luce e scompare nel
momento in cui si accinge a parlare, preannunciando il discorso che sarà al centro del Canto VI.

Figure retoriche:

Nei vv. 4-6 Beatrice intende dire probabilmente che la perfetta visione di Dio da parte sua accresce il proprio
splendore, il che ha causato l'abbagliamento di Dante; altri intendono pefetto veder come riferito a Dante stesso, ma
è ipotesi meno convincente.

Al v. 15 letigio vuol dire «controversia» e indica forse che l'anima non avrà motivo di dibattere con la giustizia divina
(meno probabile che significhi «contrasto con se stessa»).

Al v. 16 canto significa probabilmente «l'argomento di questo canto», o forse indica che le parole di Beatrice suonano
melodiose.

Il v. 29 indica che con il voto si fa vittima, cioè «sacrificio» della libera volontà.

Il v. 33 significa «vuoi fare un'opera buona (buon lavoro) con il mal tolto, col frutto di una rapina (maltolletto)».
Quest'ultima forma deriva dal lat. med. maletollettum, «maltolto», «refurtiva».
Quella / di che si fa (vv. 44-45) è la cosa promessa, ovvero la materia del voto; la convenenza (v. 45) è il patto con Dio.

I vv. 49-51 alludono alla necessità per gli Ebrei dei sacrifici e della possibilità di modificare le offerte (Lev., XXVII, 1-33).

I vv. 56-57 si riferiscono all'autorità sacerdotale e della Chiesa, simboleggiata dalle due chiavi bianca e gialla (già citate
in Purg., IX, 117 ss.); la necessità dell'avallo ufficiale per la permuta del voto è ribadita da san Tommaso, Summa
theol., II-IIae, q. 88).

I vv. 59-60 vogliono dire «se la cosa lasciata non è contenuta in quella scambiata come il quattro nel sei» (il Levitico
fissava l'aggiunta di un quinto alle offerte permutate).

Il v. 66 allude al racconto biblico di Iefte, giudice di Israele che, durante la guerra con gli Ammoniti, fece voto di
sacrificare a Dio in caso di vittoria ciò che per primo fosse uscito di casa e gli fosse venuto incontro; fu poi costretto a
immolare la sua unica figlia (Iud., XI, 39-40). L'espressione prima mancia non è molto chiara, potendo indicare la prima
cosa promessa in dono, oppure il primo scontro col nemico (dall'ant. fr. manche, «assalto»).

I vv. 68-72 si riferiscono al mito di Agamennone, che promise di sacrificare a Diana ciò che quell'anno fosse nato di più
bello in cambio dei venti favorevoli alla flotta dei Greci in Aulide, dovendo poi uccidere la figlia Ifigenia. Tra le molti
fonti dantesche, la più probabile è Cicerone, De officiis, III, 25.

Il v. 75 non è di chiara interpretazione e può voler dire «non crediate che far voti basti a salvarvi l'anima», oppure
«non crediate che dai voti possiate essere dispensati tanto facilmente».

L'espressione mala cupidigia (v. 79) può riferirsi agli uomini, che fanno voti per i motivi più superficiali e abietti, ma
anche alla Chiesa che in cambio di denaro dispensa con leggerezza dai voti.

Le pecore matte (v. 80) sono probabilmente le pecore affette da un disturbo nervoso chiamato «capostorno», che
induce queste bestie a compiere salti e strani movimenti. La metafora dell'agnello sbandato (vv. 82-84) è invece
frequente nel linguagio evangelico e sarà usata anche in XI, 124-131 per indicare i frati che si discostano dalla regola
del proprio Ordine.

Il v. 87 non è chiarissimo e indica forse semplicemente che Beatrice guarda verso l'alto (verso il Sole o il Cielo
successivo).

Al v. 111 carizia significa «miseria spirituale» e non semplicemente «mancanza», «desiderio» come solitamente si
interpreta.

Al v. 117 milizia indica la vita terrena, in cui i Cristiani sono appunto «militanti», mentre i beati sono «trionfanti».

La spera / che si vela ai mortai con altrui raggi (vv. 128-129) è naturalmente Mercurio, detto così perché è il pianeta
più vicino al Sole.

Il v. 139 si chiude con una paronomàsia (canto / canta).

Parafrasi: «Se io ti abbaglio con la luce del mio amore al di là del modo consueto sulla Terra, così che vinco la tua
potenza visiva, non ti stupire; infatti, questo accade per la mia perfetta visione di Dio, che quanto più percepisce la
luce divina, tanto più si addentra nel bene percepito. Io vedo bene come ormai risplende nel tuo intelletto la luce
eterna di Dio, che è la sola ad accendere il desiderio di sé non appena viene vista; e se qualche altra cosa terrena
attrae il vostro amore, è solo qualche traccia di quella luce che traspare in essa ed è mal conosciuta. Tu vuoi sapere se
si può contraccambiare un voto mancato con un'altra opera buona, quel tanto che basti a evitare all'anima una
controversia con Dio». Così Beatrice iniziò questo canto; e come l'uomo che non interrompe il suo discorso, continuò
in tal modo il suo ragionamento pieno di santità: «Il più grande dono che Dio, per sua generosità, fece creando l'uomo,
e quello più conforme alla sua bontà, e quello che Lui più apprezza, fu la libera volontà; di essa tutte le creature
intelligenti (uomini e angeli), e solo loro, sono dotate. Ora, se rifletti su questo, capirai l'alto valore del voto, purché sia
fatto in modo tale che sia bene accetto a Dio ed abbia il consenso di chi lo pronuncia; infatti, quando l'uomo e Dio
sottoscrivono il patto, si fa sacrificio di questo tesoro (la libera volontà) di cui parlo, e lo si fa in modo del tutto
volontario. Dunque, cosa mai si potrebbe dare in cambio di esso? Se tu volessi usare ciò che hai offerto, è come se
volessi fare una buona opera coi proventi di un furto. Tu sei ormai certo riguardo il punto principale; ma poiché la
Santa Chiesa talvolta dispensa dai voti, il che sembra contraddire quanto ti ho appena detto, è bene che tu sieda
ancora un poco a mensa (che ascolti ulteriori spiegazioni), poiché devi essere aiutato a digerire il cibo pesante che hai
ingerito (la mia difficile e complessa spiegazione). Apri la mente a quello che ti spiego e fissalo nella memoria; infatti
l'aver ascoltato non produce conoscenza, se non si rammenta. Due cose formano l'essenza di questo sacrificio (del
voto): una è la cosa che viene offerta, l'altra è il patto tra uomo e Dio. Quest'ultimo non si può mai cancellare, se non
viene rispettato; e di questo ti ho già parlato con precisione poc'anzi: per questo fu imposto agli Ebrei di fare le
offerte, anche se (come devi sapere) alcune offerte venivano permutate. L'altra cosa, che ti ho spiegato essere la
materia del voto, può tuttavia essere scambiata con qualcos'altro senza commettere peccato. Ma nessuno osi
cambiare il carico sulle sue spalle (permutare la materia del voto) a suo capriccio, senza l'avallo dell'autorità
ecclesiastica; e giudica scorretta ogni permutazione in cui la cosa lasciata non sia contenuta in quella scambiata come
il quattro è contenuto nel sei. Perciò, qualunque cosa è tanto preziosa da non avere alcun termine di paragone, non
può essere scambiata con nient'altro. Gli uomini non prendano il voto alla leggera; siate fedeli e non siate
sconsiderati, come fu Iefte nella sua prima offerta, al quale sarebbe stato meglio dire 'Ho sbagliato', piuttosto che far
peggio osservando il voto; e fu altrettanto stolto anche il comandante dei Greci (Agamennone), per cui la figlia Ifigenia
rimpianse la sua bellezza e fece piangere tutti coloro che udirono parlare di un simile culto. O Cristiani, siate più
prudenti nel pronunciare i voti: non siate piume che si muovono a ogni vento e non crediate che ogni acqua possa
lavarvi. Avete il Nuovo e il Vecchio Testamento e il pastore della Chiesa (il papa) che vi guida; questo vi basti per
condurvi alla salvezza. Se un desiderio malvagio vi suggerisce altro, siate uomini e non pecore matte, così che il Giudeo
che vive tra voi non rida del vostro comportamento! Non fate come l'agnello sbandato, che lascia il latte della madre
e, semplice e irrequieto, combatte da solo a suo danno!». Così mi disse Beatrice come io ne scrivo; poi si rivolse, piena
di desiderio, a quella parte (l'alto?) dove il mondo è più luminoso. Il suo silenzio e il fatto che cambiò aspetto fecero
tacere il mio avido ingegno, che già si proponeva nuove domande; e rapidi come una freccia che colpisce il bersaglio
prima che la corda dell'arco smetta di vibrare, così salimmo al II Cielo. Qui vidi la mia donna così felice, non appena
entrò nell'astro di quel Cielo, che il pianeta stesso divenne più lucente. E se la stella si trasformò e rise, figuriamoci
come potei fare io che, per la mia natura mortale, sono soggetto a ogni tipo di mutamento! Come in una peschiera
calma e tersa i pesci si avvicinano al pelo dell'acqua, credendo che ciò che viene dall'esterno sia il loro cibo, così io vidi
più di mille luci venire verso di noi e dentro ciascuna si sentiva: «Ecco chi accrescerà il nostro ardore di carità». E non
appena ciascuna luce veniva verso di noi, si vedeva l'ombra piena di gioia avvolta dal chiaro splendore che usciva da
essa. Se quel che ho iniziato a descrivere non andasse avanti, pensa, o lettore, come tu saresti spiritualmente misero,
desiderando con angoscia di sapere di più; e (se penserai questo) capirai da solo come io desiderassi sapere della loro
condizione, non appena apparvero ai miei occhi. «O spirito fortunato, a cui la grazia divina concede di vedere i seggi
del trionfo eterno (il Paradiso) prima di aver abbandonato la milizia terrena (mentre sei ancora vivo), noi siamo accesi
della luce che si diffonde in tutto il cielo; dunque, se desideri avere dei chiarimenti su di noi, domanda pure senza
esitare». Così mi fu detto da uno di quegli spiriti santi; e Beatrice aggiunse: «Parla, parla senza timore, e credi a ciò che
ti diranno come se lo sentissi da Dio stesso». «Io vedo bene come tu ti nascondi nella tua stessa luce, e che essa nasce
dal tuo sguardo, perché diventa più intensa quando tu sorridi; ma non so chi sei, né perché occupi, anima degna, il
grado del Cielo (di Mercurio) che è velato agli uomini dai raggi del Sole». Questo io dissi rivolto alla luce che prima mi
aveva parlato; per cui essa diventò assai più lucente di quanto fosse prima. Come il Sole che si nasconde alla vista per
la troppa luce, non appena il calore ha dissolto gli spessi vapori che talvolta lo cingono e permettono di guardarlo, così
la santa figura del beato si celò al mio sguardo per l'accresciuta letizia; e così, avvolta dalla luce, mi rispose nel modo
che è descritto dal Canto seguente.

CANTO XVI PARADISO

Sintesi: Ancora nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse. San Giovanni esamina Dante sulla carità; Beatrice restituisce al poeta la
vista. Apparizione di Adamo: le quattro domande di Dante e la risposta del primo padre. È il tardo pomeriggio di
giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

San Giovanni inizia a esaminare Dante sulla carità (1-18): Dante è incerto e timoroso riguardo alla perdita della vista,
finché san Giovanni lo rassicura circa il fatto che tale condizione è solo temporanea e lo esorta a usare la ragione per
compensare la mancanza. Il santo gli chiede quale sia l'oggetto della sua carità e gli ricorda che Beatrice ha la stessa
virtù che ebbe Anania quando curò san Paolo, ovvero potrà ridargli la vista. Dante risponde augurandosi che la donna
possa, quando più le piacerà, curare i suoi occhi attraverso i quali lo fece innamorare di sé, quindi dichiara che oggetto
della sua carità è Dio, principio e fine di tutto quanto l'Universo.
Origine della carità (19-66): San Giovanni torna a rivolgersi a Dante e lo esorta a operare una maggior distinzione,
dichiarando qual è l'origine della carità. Il poeta risponde che tale virtù gli viene da argomenti filosofici e dall'autorità
che discende dal Cielo, poiché il bene in quanto tale accende amore di sé non appena viene compreso nella sua
essenza. La mente di colui che è dotato di intelletto non può che amare Dio, in quanto Egli è il bene supremo e ogni
altro bene all'infuori di Lui non è altro che un suo riflesso. Dante ha appreso tale verità dall'opera di quel filosofo
(Aristotele?) che ha descritto il primo amore di angeli e uomini, nonché dalla parola stessa di Dio nel rivolgersi a Mosè;
fonte della carità è anche il Vangelo di Giovanni, che rivela i misteri celesti più di ogni altro testo. Il santo giudica ben
diretto l'amore di Dante, ma vuole sapere ancora quali stimoli inducano il poeta ad amare, nel che Dante comprende
subito dove voglia condurre la sua professione. Egli spiega che lo hanno indotto ad ardere di carità molti elementi, fra
cui l'esistenza del mondo e di se stesso, la morte sofferta da Cristo per la salvezza dell'umanità, la speranza della vita
eterna, tutte cose che l'hanno distolto dall'amore dei beni terreni indirizzandolo a quelli celesti. Dante dichiara infine
di amare ogni creatura del mondo, tanto quanto essa è amata da Dio.

Approvazione dei beati. Dante ritrova la vista (67-81): Alla fine delle parole di Dante si ode un dolcissimo canto, al
quale Beatrice inneggia tre volte a Dio, quindi il poeta ritrova la vista come colui che è svegliato da un bagliore
improvviso e inizia a vedere le cose in modo confuso, poi via via più preciso; così la donna gli restituisce la vista con il
suo sguardo, al punto che Dante vede meglio di prima e si accorge della comparsa di un quarto lume (Adamo) oltre a
quelli di san Giovanni, san Pietro e san Giacomo.

Apparizione del primo padre, Adamo (82-96): Beatrice spiega a Dante che nella luce è avvolta la prima anima mai
creata da Dio, ovvero quella del primo progenitore, Adamo: Dante solleva subito lo sguardo, simile a un albero piegato
dal vento che si risolleva, in quanto pieno di desiderio di parlare al nuovo arrivato. Il poeta si rivolge ad Adamo
supplicandolo di parlargli, senza neppure rivolgergli le proprie domande in quanto il beato può leggere la sua curiosità
nella mente divina.

Quattro domande di Dante ad Adamo (97-114): Adamo è simile ad un animale avvolto da un sacco, che si dimena e
dimostra così il suo stato d'animo, poiché anche il beato fa risplendere la luce da cui è fasciato per la gioia di poter
rispondere a Dante. Egli dichiara di conoscere perfettamente cosa Dante vorrebbe chiedergli, in quanto legge ciò nella
mente di Dio che riflette, non riflessa, tutte le cose esistenti. Il poeta vuole sapere quanto tempo è passato da quando
Adamo venne posto nel giardino dell'Eden, quando vi è rimasto, la causa del peccato originale e quale linguaggio egli
abbia usato.

Adamo risponde alle quattro domande (115-142)

Adamo spiega a Dante che il peccato originale non fu l'aver mangiato semplicemente per gola il frutto proibito, bensì il
non aver voluto attenersi ai divieti divini. Egli è rimasto nel Limbo, attendendo di esserne tratto fuori per ascendere al
Cielo, 4302 anni ed è vissuto sulla Terra per 930 anni, quindi dalla sua cacciata dall'Eden sono trascorsi in tutto 6498
anni. La lingua da lui parlata era già scomparsa quando gli uomini iniziarono a costruire la Torre di Babele, in quanto il
linguaggio è opera dell'intelletto umano e non può che essere mutevole nel tempo; l'azione del linguaggio è di per sé
naturale, ma l'esprimersi in un modo o in un altro è arbitrio dell'uomo. Prima che Adamo scendesse nel Limbo, spiega,
il nome di Dio era 'I', mentre in seguito fu detto 'El', cosa perfettamente comprensibile in quanto gli usi degli uomini
mutano continuamente. Adamo conclude dicendo che egli rimase nel Paradiso Terrestre sette ore in tutto.

Interpretazione complessiva:

Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali corrisponde all'esame di san Giovanni circa il
possesso della carità, con il riacquisto della vista da parte di Dante, mentre la seconda introduce sulla scena il
personaggio di Adamo, al quale il poeta rivolge quattro domande concernenti la sua permanenza nell'Eden e la natura
del peccato originale (la risposta di Adamo corregge alcune errate convinzioni di Dante, precedentemente espresse
nel De vulgari eloquentia). I due momenti del Canto sembrano nettamente separati, ma c'è in realtà un sottile
collegamento che spiega anche l'accostamento del primo progenitore ai tre santi simbolo delle virtù teologali, poiché
Adamo è stato l'unico uomo in cui tali virtù fossero naturalmente infuse, mentre in seguito alla sua cacciata dall'Eden
fu necessario attendere la morte di Cristo per restituirle all'umanità: inoltre Adamo spiega che il suo peccato fu non di
gola ma di superbia, non essendosi attenuto al divieto divino che limitava la sua conoscenza, il che ci riporta al peccato
di natura intellettuale che Dante riconosceva nel suo «traviamento» e che forse è rappresentato dalla perdita
momentanea della vista nel Canto precedente, dovuto al fissare troppo intensamente la luce di san Giovanni. Il gesto
di Dante era dovuto alla curiosità di vedere se il santo fosse in Cielo col corpo mortale, secondo una diffusa leggenda
che Giovanni stesso ha sfatato in quanto contraria alla dottrina (XXV, 122-129), ma non è improbabile che Dante
indicasse in tale atteggiamento la volontà di scorgere delle verità inconoscibili alla ragione umana, il che è stato punito
con il suo abbagliamento e la perdita temporanea della vista, che sarà Beatrice a ridargli al termine del suo esame sul
possesso della carità. La donna è inoltre esplicitamente paragonata da Giovanni ad Anania, l'uomo che per volontà di
Dio restituì la vista a san Paolo, quindi c'è un accostamento fra l'Apostolo e Dante che non è cosa nuova nel poema
(cfr. Inf., II, 28 ss.; Par., XV, 28-30) e ribadisce ulteriormente che il viaggio dantesco è voluto dalla grazia divina, proprio
come quello di san Paolo che fu rapito in estasi al III Cielo per diffondere sulla Terra il messaggio evangelico, mentre
Dante dovrà riferire quanto visto nell'Oltretomba una volta tornato sulla Terra. L'esame sulla carità fa da cerniera fra
la prima e la seconda parte del Canto, in quanto l'amore verso Dio è la virtù opposta al peccato di superbia che originò
la disobbedienza di Adamo al suo Creatore e la ribellione di Lucifero, ovvero la radice di tutto il male presente nel
mondo: il colloquio sull'argomento è alquanto diverso rispetto agli esami su fede e speranza, poiché non viene
sollecitato da Beatrice e non riguarda la definizione della carità, ovvia secondo la formula di san Tommaso per cui
charitas est amor Dei, e si concentra dunque sull'oggetto della carità e la sua fonte, indicata da Dante
nell'insegnamento dei filosofi e nelle fonti scritturali, incluso il Vangelo giovanneo che a differenza di quelli sinottici è
di argomento prevalentemente teologico. Dante subordina in un certo senso la filosofia naturale alla dottrina rivelata,
secondo lo schema teorico che costituisce l'ossatura del poema, indicando Dio come il bene supremo cui ogni
intelletto sano non può che tendere naturalmente e precisando che la carità viene in lui stimolata dall'opera grandiosa
della creazione, nonché dal sacrificio di Cristo sulla croce (dovuto, non a caso, proprio a cancellare il peccato di
Adamo) e dalla speranza di vita eterna, per cui egli ama tutte le creature in quanto amate anch'esse da Dio. Alcuni
studiosi hanno osservato che tale professione di carità sembra frutto di un freddo ragionamento filosofico e non di
slancio generoso dell'animo, addirittura che l'amore per il prossimo è concentrato in pochi versi e subordinato
all'amore per Dio, ma ciò si accorda perfettamente con l'intento da parte di Dante di corroborare le verità teologiche
con la descrizione delle cose vedute, per cui non stupisce che l'ardore mistico lasci qui il posto a una sottile
discettazione filosofica, come del resto era avvenuto per le altre due virtù teologali. Dante vuole mettere l'accento
sulla ragione e, soprattutto, sui limiti che ad essa sono imposti dalla volontà divina e che lui, proprio come Adamo, ha
voluto infrangere con un atto di superbia intellettuale che poteva costargli la dannazione e che lo ha portato a
smarrirsi nella selva oscura; non a caso nella sua professione il poeta dichiara che gli stimoli alla carità lo hanno tratto
del mar de l'amor torto facendolo approdare alla riva del diritto, ovvero lo hanno distolto dalla ricerca dei beni terreni
indirizzandolo a quelli celesti, e alla fine delle sue parole i beati e Beatrice alzeranno un inno a Dio approvando le sue
parole, prima che la donna gli ridoni la vista a significare che il suo «traviamento» è definitivamente superato e che il
suo sguardo può ora figgersi nelle verità e nei misteri divini, consapevole dei limiti che in nessuno caso i mortali
possono permettersi di valicare. Non sorprende allora che al termine dell'esame a Dante si presenti proprio Adamo,
colui che per primo venne creato dall'amore di Dio e che per primo tentò di superare i decreti divini in materia di
conoscenza, come lui stesso spiegherà rispondendo alle quattro domande del poeta che arde dal desiderio di
apprendere la verità sulla sua esperienza. Adamo afferma anzitutto di vedere la voglia di Dante nella mente di Dio,
paragonata a un verace speglio (uno specchio di verità) che riflette ogni cosa senza poter essere a sua volta riflesso,
segno del rapporto incommensurabile fra conoscenza umana e divina; spiega poi che la cacciata dall'Eden fu dovuta al
trapassar del segno, fu dunque un peccato di superbia intellettuale assai simile per certi versi a quello di Ulisse che
oltrepassò le Colonne d'Ercole, salvo che all'eroe causò la morte mentre Adamo poté ascendere al Paradiso dopo una
lunghissima attesa nel Limbo, durata qualcosa come seimila anni (tempo rispetto al quale quello trascorso nell'Eden è
stato un batter di ciglia, appena sette ore in tutto). La quarta domanda di Dante riguarda la lingua parlata da Adamo
nell'Eden e qui il poeta corregge l'opinione precedentemente espressa nel DVE (I, 6), in cui si diceva che la lingua di
Adamo era l'ebraico e che tale lingua, immutabile in quanto concreata da Dio nel primo uomo, rimase identica sino
alla confusione babelica che originò la mutevolezza delle lingue nel tempo e nello spazio: Adamo spiega che la lingua è
sempre mutevole in quanto atto dell'intelletto umano, quindi nega che la sua lingua fosse concreata da Dio e spiega
che essa era già tutta spenta al momento della costruzione di Babele, così come smentisce che la sua prima parola
fosse il nome ebraico di Dio, 'El', che assunse solamente in seguito poiché nella lingua originale il nome di Dio era 'I'. La
quesione può apparire marginale agli occhi di noi moderni, ma è invece centrale rispetto al discorso sulla conoscenza
che è al centro del Canto, poiché Dante riafferma che alla perfetta verità si arriva grazie alla rivelazione divina, non alla
speculazione intellettuale che è sempre passibile di errore, come nel caso delle affermazioni del DVE che Adamo
smentisce in quanto unico testimone di quanto avvenne realmente nell'Eden; Dante corregge affermazioni fatte in
precedenza e risalenti al periodo del suo cosiddetto «traviamento», come quelle del Convivio sulle macchie lunari e
sull'angelologia che sono state e saranno confutate da Beatrice al lume della teologia, rispetto alla quale la ragione dei
filosofi è del tutto insufficiente quando non fonte di equivoci e fraintendimenti che possono causare seri pericoli sul
piano della salvezza spirituale. L'episodio di Adamo non fa che riaffermare la necessità che la filosofia si faccia ancella
della teologia, ciò che è ribadito a più riprese in tutta la III Cantica, e dunque il colloquio col primo padre conclude
degnamente l'esame superato da Dante circa il possesso delle tre virtù teologali che solo la grazia divina può donare
all'uomo, preparando il poeta a proseguire il viaggio che lo porterà, di lì a pochi Canti, alla visione finale di Dio.

Figure retoriche: Al v. 4 il vb. ti risense, significa «riprendi il senso» della vista.

Ai vv. 7-8 san Giovanni chiede a Dante dove tenda la sua anima, ovvero quale sia l'oggetto della sua carità.

I vv. 10-12 alludono a un passo degli Atti degli Apostoli (IX, 8-18), in cui si narra che Anania, uomo di Damasco tra i
primi seguaci di Cristo, ridiede la vista a san Paolo folgorato dall'apparire di Dio, imponendo le mani sul suo capo.

I vv. 16-18 sono di difficile interpretazione, ma intendendo Amore come soggetto e dando a scrittura il senso di
«affetto» vogliono dire probabilmente che Dio è principio e fine di quell'affetto che l'amore insegna (legge) a Dante,
più o meno intensamente. Alfa e O sono la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco (cfr. Apoc., I, 8: Ego sum Alfa et
omega, principium et finis, dicit Dominus Deus).

Ai vv. 22-23 san Giovanni invita Dante a rendere più chiaro il suo pensiero usando un vaglio, un setaccio più fine.

I vv. 37-39 alludono certamente a un filosofo, ma è arduo ipotizzare a chi Dante voglia riferirsi: l'opinione più diffusa è
che si tratti di Aristotele, ma si è pensato anche a Platone, Dionigi Areopagita, persino a Virgilio (potrebbe essere
l'autore del De causis, trattato erroneamente attribuito ad Aristotele e citato da Dante nel Convivio).

I vv. 40-42 si riferiscono ad Exod., XXXIII, 19 in cui Dio risponde a Mosè, che gli chiedeva di mostrargli tutta la sua
gloria, Ego ostendam omne bonum tibi.

I vv. 43-45 sono una probabile allusione al Vangelo di Giovanni, che proprio all'inizio afferma il dogma
dell'incarnazione del divino nell'umano: altri pensano all'Apocalisse, ma è ipotesi meno probabile.

Nei vv. 46-48 Giovanni intende dire che il principale degli amori di Dante, ovvero la carità, guarda a Dio, quindi il vb.
guarda è indicativo e non imperativo come alcuni intendono.

Al v. 53 Giovanni è detto aguglia di Cristo, in quanto l'aquila era simbolo dell'Evangelista.

Le fronde citate al v. 64 sono le creature di Dio, l'ortolano etterno.

Al v. 69 il canto di Beatrice riprende probabilmente quello liturgico della Messa: Sanctus, sanctus, sanctus, dominus
Deus Sabaoth.

Al v. 70 si disonna vuol dire «ci si desta».

Al v. 73 aborre deriva probabilmente da «aborrare», che vuol dire «non distinguere chiaramente» (cfr. Inf., XXXI, 24),
anche se l'uscita in -e non è del tutto spiegabile; la stimativa (v. 75) è la facoltà percettiva che permette di riconoscere
ciò che si vede.

Al v. 76 quisquilia è lat. per «pagliuzza», ovvero l'offuscamento degli occhi di Dante.

Ai vv. 92-93 Dante vuol dire che ogni donna è figlia di Adamo in quanto discende da lui, e ne è nuora in quanto sposata
a un suo discendente.

Nei vv. 95-102 Adamo è paragonato a un animale avvolto da un involucro (forse un cane, o un porcellino, o ancora un
falcone con un cappuccio sulla testa) che si dimena sotto la copertura, come il beato manifesta la sua letizia con
l'accresciuto fulgore della luce che lo fascia.

Ai vv. 118-123 Adamo spiega di aver atteso nel Limbo, da dove Beatrice evocò l'anima di Virgilio, 4302 anni e di essere
vissuto sulla Terra per 930 anni: Cristo trionfante trasse dal Limbo le anime dei patriarchi dopo la sua morte, avvenuta
seconda la tradizione seguita da Dante nel 34 d.C., quindi da allora sono trascorsi 1266 anni poiché siamo nell'anno
1300. Dunque 4302 + 930 + 1266 = 6498, gli anni che sono trascorsi dalla creazione di Adamo (Dante si attiene ai dati
della Genesi).

Ai vv. 121-122 i lumi / de la... strada del Sole sono i segni dello Zodiaco.
L'ovra inconsummabile (v. 125) è la costruzione della Torre di Babele, attribuita secondo una falsa tradizione al gigante
Nembrod (essa è definita impossibile da portare a termine).

I vv. 133-138 correggono quanto detto da Dante in DVE, I, 4, in cui si affermava che la prima parola pronunciata da
Adamo fu 'El', il nome ebraico di Dio; il nome 'I' qui citato dal beato è una probabile invenzione dantesca.

Ai vv. 139-142 Adamo spiega di essere rimasto nell'Eden dall'ora prima a quella che segue (seconda) l'ora sesta, cioè
mezzogiorno, quando il Sole muta quadrante (quadra), quindi dalle sei di mattina alle tredici, sette ore in tutto (il Sole,
passato il mezzogiorno, passa dal primo quadrante al secondo).

Parafrasi:

Mentre io ero incerto riguardo alla mia vista spenta, dalla luce splendente che l'aveva spenta (san Giovanni) uscì una
voce che attirò la mia attenzione, dicendo: «Mentre tu riacquisti il senso della vista che hai consumato guardandomi, è
opportuno che tu compensi questa mancanza esercitando la ragione. Dunque inizia a dire dove tende la tua anima e
tieni presente che la tua vista è solo smarrita e non persa del tutto: infatti la donna (Beatrice) che ti guida per questa
regione celeste, ha nel suo sguardo la virtù con cui Anania guarì san Paolo imponendogli le mani». Io dissi: «Beatrice
possa curare a suo piacimento, prima o dopo, i miei occhi, attraverso i quali lei entrò col fuoco di cui io ardo sempre
(mi fece innamorare). Il bene che allieta questa corte (Dio) è principio e fine di tutto l'affetto che l'Amore mi insegna,
in modo più o meno intenso». Quella stessa voce che mi aveva liberato dalla paura dell'improvviso abbagliamento, mi
indusse a ragionare ancora; e disse; «Certo ora è bene che tu chiarisca il tuo pensiero usando un setaccio più fine (in
modo più approfondito): devi dire chi indirizzò il tuo arco a questo bersaglio (chi ti indusse alla carità)». E io: «Questo
amore si è impresso in me grazie ad argomenti filosofici e all'autorità (dei testi sacri) che scende da qui: infatti il bene
in quanto tale (Dio), non appena è compreso, accende amore di sé, tanto maggiore quanto maggiore è la bontà che
contiene in se stesso. Dunque la mente di tutti quelli che, amando, distinguono la verità su cui si fonda questa
argomentazione, si indirizza soprattutto verso quell'essenza (Dio) che supera tutte le altre in bontà, al punto che ogni
bene all'infuori di essa è solo un riflesso della sua luce. Questa verità è spiegata al mio intelletto da quel filosofo
(Aristotele?) che mi illustra il primo amore (Dio) di tutte le creature eterne (angeli e uomini). Me lo spiega anche la
voce del veridico autore (dell'Esodo) che parlando di sé a Mosè dice: 'Io ti mostrerò ogni bene'. E me lo spieghi tu
stesso, iniziando l'alto annuncio (nel Vangelo) che manifesta il mistero (dell'Incarnazione) da qui alla Terra, superando
ogni altro messaggio». Allora io sentii: «Attraverso l'intelletto umano e l'autorità delle Sacre Scritture che si accordano
con esso, il principale dei tuoi amori guarda a Dio. Ma dimmi ancora se tu senti altri stimoli che ti attirano verso Dio,
così che tu manifesti con quanti denti sei morso da questo amore (tutte le fonti della tua carità)». La santa volontà
dell'aquila di Cristo (san Giovanni) non mi fu nascosta, anzi capii subito dove voleva condurre la mia professione di
carità. Dunque ricominciai: «Tutti quegli stimoli che possono portare il cuore a Dio hanno cooperato ad accendere in
me la carità: infatti l'esistenza del mondo e di me stesso, la morte di Cristo patita per la mia salvezza, ciò che ogni
fedele spera come spero io, insieme alla conoscenza delle Scritture che ho detto prima, mi hanno tratto dal mare
dell'amore mal diretto (dei beni terreni) e mi hanno fatto approdare alla riva di quello del retto amore (dei beni
celesti). Io amo le fronde (le creature) che abbelliscono tutto l'orto dell'ortolano eterno (Dio), tanto quanto esse sono
amate da Dio». Non appena smisi di parlare, risuonò nel cielo un canto dolcissimo, mentre la mia donna diceva
insieme agli altri beati: «Santo, santo, santo!» E come a una luce improvvisa ci si sveglia, per la facoltà visiva che corre
incontro al bagliore che passa attraverso le membrane dell'occhio, e chi si sveglia non distingue bene ciò che vede,
tanto è confuso il suo improvviso destarsi, finché la facoltà percettiva non viene in suo aiuto; allo stesso modo
Beatrice eliminò ogni impurità dai miei occhi col fulgore dei suoi, che risplendeva a mille miglia di distanza: così vidi
meglio di prima; e quasi stupefatto domandai chi fosse il quarto lume che vidi insieme a noi (Adamo). E la mia donna:
«All'interno di quello splendore c'è la prima anima che la prima virtù (Dio) abbia mai creato, contemplata
amorosamente dal suo Creatore (Adamo, il primo uomo)». Come l'albero piega la sua cima quando è percosso dal
vento, poi si solleva per la propria capacità di ergersi verso l'alto, così feci io mentre Beatrice parlava (piegai la testa),
essendo pieno di stupore, e poi mi ridiede sicurezza (rialzai lo sguardo) un desiderio di parlare che mi tormentava. E
iniziai a dire: «O frutto che, unico, fosti prodotto già maturo (poiché non nascesti), o antico padre al quale ogni donna
è figlia e nuora, con tutta la devozione che posso ti supplico di parlarmi: tu vedi il mio desiderio e per udirti presto non
te lo manifesto». A volte un animale avvolto da un sacco si dimena, così che manifesta il suo stato d'animo attraverso
l'involucro che lo circonda; e in modo simile la prima anima (Adamo) mi faceva capire attraverso la luce che lo fasciava
quanto fosse lieta nel potermi rispondere. Quindi disse: «Senza che tu me l'abbia espresso io comprendo il tuo
desiderio più chiaramente di ogni cosa che ti è certa; infatti io lo leggo nello specchio veridico (la mente di Dio) che
riflette in sé tutte le cose, mentre nessuna cosa può rifletterlo. Tu vuoi sapere quanto tempo è trascorso da quando
Dio mi pose nel Giardino dell'Eden, dove Beatrice diede inizio alla tua ascesa in Paradiso, e quanto vi rimasi, e la vera
causa dell'ira divina (per il peccato originale), e quale lingua io creai e usai. Ora, figlio mio, la ragione della mia cacciata
dall'Eden non fu la gola per aver assaggiato il frutto proibito, ma solo l'aver infranto i divieti divini (in materia di
conoscenza). Dal Limbo, da dove Beatrice evocò Virgilio, io desiderai di ascendere in Cielo per 4302 anni; e vidi il Sole
percorrere tutti i segni zodiacali per 930 volte, il tempo della mia vita terrena (vissi 930 anni). La lingua che io parlai
era già scomparsa prima che la gente di Nembrod si dedicasse all'opera che non poteva essere completata (la
costruzione della Torre di Babele); infatti nessun prodotto dell'intelletto umano fu mai durevole, a causa dell'arbitrio
dell'uomo che si rinnova seguendo le influenze celesti. Il fatto che l'uomo parli è cosa naturale, ma la natura lascia poi
che voi uomini parliate in un modo o nell'altro, a seconda dei vostri desideri e preferenze. Prima che io scendessi
nell'angoscia infernale (nel Limbo), il bene supremo (Dio) da cui proviene la gioia che mi avvolge di luce, era chiamato
in Terra 'I'; in seguito venne chiamato 'El': e ciò si accorda all'uso degli uomini, che come la foglia sul ramo va e viene
continuamente (si muta). Nel monte che si erge maggiormente sul mare (il Purgatorio, sulla cui cima è l'Eden) io
soggiornai, in stato di innocenza e di colpa, dalla prima ora (le sei del mattino) fino a quella (le tredici) che segue l'ora
sesta (il mezzogiorno), non appena il Sole cambia quadrante».

CANTO XXXIII PARADISO

Sintesi: Ancora nel X Cielo (Empireo). Preghiera di san Bernardo alla Vergine e intercessione di Maria. Dante fissa lo
sguardo nella mente di Dio: visione dell'unità dell'Universo. I misteri della Trinità e dell'Incarnazione. Folgorazione e
supremo appagamento di Dante. È mezzanotte di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

Preghiera di san Bernardo alla Vergine (1-39): San Bernardo si rivolge alla Vergine e la invoca come la più alta e la più
umile di tutte le creature, colei che ha nobilitato la natura umana a tal punto che Dio non ha disdegnato di incarnarsi
nell'umano. Nel ventre di Maria si riaccese l'amore tra Dio e gli uomini, che ha fatto germogliare la rosa celeste dei
beati; ella è per questi ultimi una perenne luce di carità e fonte di speranza per i mortali. La grandezza della Vergine è
tale che benevolmente concede ogni grazia, spesso addirittura prevenendone la richiesta, poiché in lei albergano la
pietà, la magnificenza, la bontà. Dante, spiega Bernardo, è giunto all'Empireo dal profondo dell'Inferno e ha visto lo
stato delle anime dopo la morte, quindi supplica Maria di concedergli la virtù sufficiente per figgere lo sguardo nella
mente di Dio. Il santo le porge tutte le sue preghiere affinché gli venga concesso questo, che egli desidera per Dante
più di quanto l'abbia mai bramato per sé, e chiede alla Vergine di dissipare ogni velo che offusca gli occhi mortali del
poeta. La implora infine di conservare intatti i sensi di Dante dopo una tale visione, poichè la Regina del Cielo può
ottenere tutto ciò che vuole, e la invita ad accogliere la sua preghiera alla quale si uniscono idealmente tutti i beati
della rosa, inclusa Beatrice.

Intercessione di Maria. Dante fissa lo sguardo nella luce divina (40-66): Maria tiene il suo sguardo fisso in quello di san
Bernardo, dimostrando così di accogliere la sua preghiera, poi lo rivolge alla luce di Dio, nella quale solo lei può
addentrarsi con tanta chiarezza. Dante si avvicina al compimento di tutti i suoi desideri, cosicché consuma in sé tutto il
proprio ardore, mentre Bernardo con un cenno e un sorriso lo esorta a guardare in alto. La vista di Dante, diventando
via via più chiara, si inoltra nella luce divina e da quel momento in poi la visione del poeta è tale che il linguaggio è
insufficiente a esprimerla, così come anche la memoria non è in grado di ricordarla pienamente. Dante è simile a colui
che sogna e, al risveglio, non ricorda nulla pur conservando nell'animo una forte impressione, in quanto egli ha
dimenticato quasi tutta la sua visione e conserva in cuore la dolcezza infinita che essa gli provocò. La neve si scioglie al
sole in modo simile e così le foglie con su scritto il responso della Sibilla si disperdevano al vento.

Invocazione di Dante: visione dell'unità dell'Universo (67-108): Dante invoca la luce di Dio affinché essa gli consenta di
ricordare in minima parte come essa gli si mostrò al momento della visione, e renda il suo linguaggio tale da poter
lasciare ai posteri almeno una scintilla della Sua gloria, cosicché le parole del poeta possano esprimere la vittoria
divina. Dante figge dunque lo sguardo nella mente di Dio e resterebbe smarrito se ne distogliesse gli occhi: il poeta
acquista coraggio per sostenere quella straordinaria visione e addentra così il suo sguardo nell'infinito, spingendo la
vista alle sue possibilità estreme. Dante vede nella mente divina tutto l'Universo legato in un volume, sostanze,
accidenti e i loro rapporti uniti insieme; scorge l'essenza divina che unifica in un tutto armonico le cose create, e
parlando di questo ancora oggi sente accrescere in sé la gioia. L'attimo della visione è stato ormai da lui dimenticato,
più di quanto l'impresa della nave Argo (la prima a solcare il mare e a fare stupire il dio Nettuno) sia stata dimenticata
in oltre venticinque secoli. Dante continua a tenere lo sguardo fisso nella luce divina, essendo impossibile volgere gli
occhi altrove, poiché tutto il bene possibile è racchiuso in essa e ciò che lì è perfetto al di fuori è difettoso. Ormai ciò
che riferirà della visione sarà meno di quanto potrebbe dire un bambino che sia ancora allattato dalla madre.

Il mistero della Trinità (109-126): La viva luce che Dante osserva è sempre uguale a se stessa, tuttavia è Dante a
cambiare dentro di sé man mano che la sua vista si accresce, quindi quella visione muta al mutare del suo
atteggiamento interiore. All'interno di essa crede di vedere tre cerchi, delle stesse dimensioni e di colori diversi (la
Trinità), e mentre il secondo (il Figlio) sembra il riflesso del primo (il Padre), come un arcobaleno che ne crea un altro,
il terzo (lo Spirito Santo) è come una fiamma che spira ugualmente dai primi due. Il linguaggio di Dante è del tutto
insufficiente a esprimere la propria visione, e questa, in rapporto all'essenza della Trinità, è davvero un nulla: egli ha
visto la luce eterna che trova fondamento in se stessa, si comprende da sé e, compresa da se stessa, arde d'amore.

Il mistero dell'Incarnazione (127-138): Dante si sofferma ad osservare il secondo cerchio (il Figlio), che sembra il
riflesso del primo, e gli pare di vedere al suo interno l'immagine umana, dello stesso colore del cerchio e, tuttavia,
perfettamente visibile. Il poeta è simile allo studioso di geometria, che cerca in ogni modo di risolver il problema della
quadratura del cerchio e non vi riesce perché gli manca un elemento fondamentale: anche lui cerca di capire quale sia
il rapporto tra l'immagine e il cerchio, benché le sue sole forze siano insufficienti.

Folgorazione e supremo appagamento di Dante (139-145): Dante riconosce la propria incapacità a comprendere il
mistero dell'Incarnazione dell'umano nel divino, fino a quando la sua mente viene colpita da un alto fulgore che, in
una sorta di rapimento mistico, appaga il suo desiderio. Alla sua immaginazione ora mancano le forze, tuttavia l'amore
divino ha ormai placato la sua volontà di conoscere, muovendola come una ruota che si muove in modo regolare e
uniforme.

Interpretazione complessiva:

L'ultimo Canto del Paradiso e del poema appare diviso nettamente in due parti, corrispondenti alla preghiera che san
Bernardo rivolge alla Vergine perché questa interceda presso Dio e consenta a Dante la visione finale della Sua
essenza (vv. 1-39) e alla descrizione della visione stessa (vv. 40-145), che nonostante si concluda con la «folgorazione»
mistica che permette a Dante l'appagamento di tutti i suoi desideri conserva innegabilmente un carattere intellettuale
e razionale. La santa orazione che il doctor mellifluus Bernardo rivolge a Maria è considerata un piccolo capolavoro
retorico, che (diversamente dal Pater noster parafrasato e ampliato all'inizio del Canto XI del Purgatorio) presenta
caratteri di originalità rispetto all'Ave, Maria cui pure si ispira: a una prima parte di lode ed elogio della Vergine segue
infatti la preghiera vera e propria, in cui il santo si rivolge a Maria come a colei che concede sempre la sua grazia a chi
gliela chiede, supplicandola non solo di permettere a Dante di spingere lo sguardo nella mente divina, ma anche di
conservare sani... li affetti suoi dopo una visione così superiore alla sua natura di mortale. La prima parte della
preghiera assume dunque i toni, retoricamente elevati, di una captatio benevolentiae in cui Bernardo sottolinea
l'altezza e al contempo l'umiltà di Maria, figlia del proprio figlio (con due efficacissime antitesi poste nei primissimi
versi del Canto), scelta da Dio per l'altissimo compito di mettere al mondo Cristo per sancire la pace tra Cielo e Terra,
poiché nel suo ventre è nato l'amore che ha fatto germogliare la rosa celeste (viene già anticipato il mistero
dell'Incarnazione, al centro della parte finale della visione). Di Maria è ribadito il fatto che essa è gratia plena, in grado
di soddisfare ogni giusta richiesta che provenga da un cuore onesto, dunque i tratti che la caratterizzano sono la
misericordia, la pietà, la magnificenza (da intendere forse come sinonimo di «liberalità» cortese) e la bontate, per cui
a buon diritto Bernardo le si rivolge implorando il suo aiuto in favore di Dante, giunto fin lì dalla profondità dell'Inferno
dopo aver visto lo status animarum post mortem, col compito di riferire al mondo la sua visione: è questo il motivo
per cui la Vergine dovrà fare in modo che tale visione non sia letale ai sensi mortali del poeta, così che egli possa
scriverne negli alti versi del suo poema e, come dirà lui stesso più avanti, lasciare a la futura gente una semplice
scintilla dello splendore divino che potrà per un breve istante contemplare, per manifestare a tutti l'alta vittoria della
potenza di Dio. Tutti i beati si uniscono alla implorazione di Bernardo unendo le mani in preghiera, inclusa Beatrice la
cui rapida menzione è l'ultima della Commedia dopo il saluto del Canto XXXI, per cui si può affermare che tutti gli
sguardi dell'Empireo sono rivolti a Dante in procinto di fissare il suo nella mente di Dio, creando un'atmosfera di
tensione narrativa e di attesa che, in un certo senso, verrà protratta per tutto il Canto e si scioglierà solo nei versi
finali, con la suprema intuizione elargita a Dante dall'Altissimo. L'intercessione della Vergine non viene manifestata
con un gesto tangibile, neppure un cenno o un sorriso come farà invece Bernardo per esortare Dante alla visione,
poiché la Regina del Cielo si limita a tenere il suo sguardo fisso in quello dell'oratore e poi a spingerlo nella luce di Dio,
nella quale nessun'altra creatura può internarsi tanto in profondità (del resto Maria è umile e alta più che creatura, il
che spiega anche la posizione di assoluto privilegio che occupa all'interno della rosa). Dante può dunque fissare la
mente di Dio e da qui sino alla fine del Canto è come se tutti gli altri personaggi della narrazione scomparissero,
poiché il poeta dovrà contemplare l'Assoluto facie ad faciem senza altri intermediari che non siano la ragione e il puro
intelletto, in quanto non un abbandono mistico alla comunione col Divino è oggetto della descrizione ma
un'esperienza intellettuale, in cui solo alla fine sarà necessario l'alto fulgore divino perché il poeta giunga a
comprendere ciò che per sua natura è incomprensibile all'uomo. Infatti proprio questo è l'elemento centrale della
seconda parte del Canto, in cui da un lato c'è il tentativo quasi vano da parte di Dante di richiamare alla memoria ciò
che ha visto e che eccede totalmente le capacità del suo intelletto (secondo quanto già dichiarato nell'esordio della
Cantica, Par., I, 4-12), dall'altro il tentativo altrettanto arduo di tradurre in parole umane, coi poveri mezzi della sua
arte poetica, la profondità della visione, per cui la poesia dell'inesprimibile giunge qui al suo punto più alto e
stilisticamente impegnato. Per rappresentare la sproporzione tra l'altezza delle cose vedute e l'angustia dei suoi limiti
umani Dante ricorre a più di una similitudine tratta dall'ambito domestico o mitologico: paragona se stesso a colui che
si sveglia dopo aver sognato e non ricorda nulla, ma conserva la forte impressione che il sogno gli ha lasciato
nell'animo (immagine analoga più avanti, quando dirà che parlando della visione avuta sente aumentare la sua gioia);
ricorda la neve che al sol si disigilla, ovvero si scioglie non conservando le orme impresse su di essa, così come i ricordi
svaniscono dalla sua memoria; cita i responsi della Sibilla Cumana, che venivano scritti su foglie disperse dal vento e
diventavano così incomprensibili (fin troppo ovvio il riferimento a Virgilio, Aen., VI, 74-76, in cui Enea si prepara a
scendere agli Inferi); rammenta il mito di Argo, la prima nave a solcare i mari e la cui ombra riempì di stupore Nettuno
(a indicare anche l'eccezionale primato della sua opera poetica: cfr. Par., II, 16-18), anche se il ricordo di quell'impresa
è ancora vivo dopo 2500 anni, più di quanto lo sia quello della visione in lui dopo un brevissimo istante. L'invocazione
suprema alla somma luce di Dio affinché consenta a Dante di esprimere una minima parte di ciò che ha visto (il che, a
sua volta, è quasi nulla rispetto all'essenza divina) si affianca a quella di san Bernardo a Maria, sottolineando il
carattere assolutamente eccezionale e irripetibile del privilegio che qui a Dante è concesso: il poeta si accinge a
descrivere qualcosa che quasi nessun altro ha visto da vivo, ad eccezione dell'esperienza mistica di san Paolo, e
tuttavia il poeta non rinuncia a una rappresentazione razionale e coerente della cosa vista (benché essa possa
sembrare deludente agli occhi dei lettori moderni e come tale sia stata giudicata da più di un critico del Novecento, a
cominciare da B. Croce); la rappresentazione del Paradiso è divenuta più astratta e immateriale man mano che si
procedeva nell'ascesa, quindi la stessa astrazione quasi «matematica» non poteva non caratterizzare anche la visione
di Dio, per la quale Dante (e in ciò è la novità assoluta del suo poema) rinuncia in modo programmatico a ogni
elemento iconografico, come del resto si era già visto nella descrizione della rosa, degli angeli e di Maria. Tre sono i
misteri che a Dante è dato contemplare fissando il suo sguardo nella profondità della mente di Dio, ovvero l'unità
dell'Universo, la Trinità e l'Incarnazione: per rappresentarli non può che ricorrere a delle similitudini, ma mentre per il
primo usa l'immagine concreta del volume che raccoglie e unifica tutto ciò che si squaderna per il Cosmo, per gli altri
si serve di una pura astrazione matematica, ovvero dei tre cerchi rappresentanti le Persone Divine e dell'effigie umana
dipinta con lo stesso colore entro il cerchio che corrisponde al Figlio. Tale spettacolo appaga il desiderio di conoscenza
di Dante, ma ottiene anche l'effetto di farlo cambiare internamente, cosicché gli sembra che l'Unità indissolubile della
Divinità muti e in realtà è la sua visione a cambiare prospettiva: l'armonia dell'Universo in cui tutto sembra avere una
precisa collocazione e un'intima rispondenza è la spiegazione di tutte le apparenti contraddizioni e ingiustizie (anche
politiche) che affliggono il mondo, è l'Ordine che si oppone al Caos; non a caso Dante ribadisce ciò che finora è stato
detto a più riprese a proposito dei beati e degli angeli e che adesso è lui a sperimentare personalmente, ovvero che
chi fissa lo sguardo in Dio non può distoglierlo per guardare null'altro, in quanto lì è racchiuso tutto il bene del mondo
e vi diventa perfetto ciò che all'esterno è difettoso (lui invece dovrà farlo per tornare alla dimensione dell'umano ed è
proprio questa la difficoltà più grande da superare, il motivo per cui la Vergine dovrà vincere i suoi movimenti umani).
La descrizione della Trinità è poi ancora più rarefatta, affidata ai tre cerchi di diverso colore e uguali dimensioni che
rappresentano il rapporto fra le tre Persone Divine (tralasciamo il fatto che, per alcuni commentatori, essi non
potevano essere identici perché sarebbero stati sovrapposti), ovvero il Figlio generato dal padre e lo Spirito Santo che
procede da entrambi, come una fiamma che spira dai primi due cerchi: l'immagine astrattamente geometrica può
forse non soddisfare il lettore moderno in cerca di una più concreta rappresentazione, ma è quanto di più aderente
alla mentalità trecentesca nella quale Dante è saldamente ancorato, per cui la descrizione della Trinità e
dell'Incarnazione non può prescindere dal rigore degli argomenti teologici (e non si scordi che la geometria come
scienza era considerata nel Medioevo tramite fra l'umano e il divino, degna dunque della massima considerazione).
Non può stupire allora che proprio al geomètra si paragoni Dante nel tentativo vano di capire il rapporto tra l'effigie
umana e il secondo cerchio, impresa disperata come lo è per il matematico calcolare il rapporto tra il raggio e la
circonferenza: qui il poeta deve confessare la propria impotenza e l'incapacità del suo intelletto, ed è il solo e unico
momento in cui la visione cessa di essere esperienza razionale per diventare mistica, col fulgore divino che colpisce la
mente di Dante e gli consente per un brevissimo istante di vedere, con gli occhi del rapimento estatico, la verità del
mistero che è inconoscibile coi soli mezzi della logica. È questo il lumen gloriae che solo può consentire alla mente
umana la fruizione piena e completa dell'aspetto divino, che normalmente caratterizza i beati in Cielo e
occasionalmente i mortali in vita, allegorizzato da Bernardo quale terza guida di Dante nel viaggio: ed è chiaro che tale
suprema intuizione dell'essenza divina è l'appagamento finale di tutti i disii del poeta, il punto finale del suo percorso
oltremondano dopo il quale egli non può che tornare alla dimensione dell'umano, accingendosi all'alto compito di
descrivere nei suoi versi tutto ciò che ha visto; è anche l'affermazione definitiva dell'insufficienza della ragione umana
per la comprensione dei misteri dell'Universo, che restano inconoscibili senza la fede nelle cose rivelate e, soprattutto,
senza un ultimo gratuito ausilio da parte di Dio che solo può elargire la visione di Sé all'uomo, la quale costituisce
quella beatitudine che tutte le anime salve godranno per l'eternità una volta giunte in patriam, nella Gerusalemme
celeste. Il Canto, la Cantica e il poema possono allora chiudersi con la solenne dichiarazione del compimento del
desiderio di conoscenza da parte del poeta, che trae origine non dall'acume del suo intelletto ma dall'atto di grazia
che gli è stato concesso dall'amore divino, l'amor che move il sole e l'altre stelle e che appaga intimamente la sua
volontà come una ruota che si muove in modo uniforme (dunque l'immagine del cerchio chiude la poesia della
Commedia, essendo simbolo della perfezione divina e dell'incapacità dell'uomo di risolvere i misteri dell'Universo,
proprio come impossibile è per il geomètra... misurar lo cerchio poiché gli manca il principio fondamentale, che nella
concezione di Dante è da identificare con Dio).

L'invocazione alla Vergine nella poesia: Petrarca

L'invocazione alla Vergine affidata alle parole di san Bernardo e con cui si apre il Canto XXXIII del Paradiso non è certo
un caso isolato nella letteratura italiana del tempo di Dante e successiva, che si riallaccia del resto a una lunga
tradizione della dossologia mariana e ha in Jacopone da Todi (autore dell'inno Stabat Mater e della lauda Donna de
Paradiso) un insigne precedente: poco dopo Dante sarà F. Petrarca a chiudere i Rerum vulgarium fragmenta con la
famosa canzone dedicata alla Vergine (CCCLXVI, Vergine bella, che di sol vestita), che rispetto ai versi danteschi che
preludono alla visione beatifica di Dio presenta analogie e differenze. Analoga è la posizione nella raccolta
petrarchesca, in quanto il componimento chiude il Canzoniere come il Canto dantesco è l'ultimo della Commedia, e
simile è anche il carattere di orazione e inno religioso che la canzone assume, proponendosi come un bilancio del
percorso umano e letterario del poeta quasi alla fine della sua vita; diversa è l'ispirazione della poesia in Petrarca,
poiché Maria è invocata come fonte di grazia e salvezza da chi si considera peccatore e teme per la sua salvezza a
causa degli errori commessi (specie in campo amoroso), dunque la canzone è espressione dei dubbi interiori e delle
lacerazioni proprie di tutta l'opera di Petrarca, ben lontana dalle granitiche certezze in campo religioso ed escatologico
che sono al centro del poema di Dante. La Vergine, anzi, è di fatto paragonata per contrasto alla donna amata da
Petrarca, quella Laura che gli ha causato tante sofferenze e che al tempo della stesura della canzone è morta da
tempo, in quanto quest'ultima è stata fonte di traviamento morale e illusioni sul piano amoroso, mentre Maria
rappresenta un esempio di purezza che si oppone in modo antitetico alla bellezza seducente e pericolosa della donna
mortale. Ciò è evidente fin dai primi versi, in cui Maria è indicata come colei che Dio ha scelto per l'altissimo compito
di consentire l'Incarnazione di Cristo (vv. 2-3, al sommo Sole / piacesti sì, che 'n te Sua luce ascose; cfr. Par., XXXIII, 4-6)
e come la creatura che risponde sempre benevolmente a chi le chiede la grazia (vv. 7-8, Invoco lei che ben sempre
rispose / chi la chiamò con fede; cfr. XXXIII, 13-15), mentre più avanti si dirà che trasforma 'l pianto d'Eva in allegrezza
(v. 36, e infatti anche Dante la colloca al di sopra di Eva nella rosa celeste); al contrario Laura è indicata quasi
spregiativamente come mortal bellezza (v. 85), terra (v. 92), poca mortal terra caduca (v. 121), a indicare non solo il
fatto che la donna è morta e i suoi resti corporei si sono decomposti, ma anche l'enorme sproporzione tra l'amore
celeste rappresentato dalla Vergine e l'amore terreno raffigurato da Laura (non a caso Maria è di sol vestita e coronata
di stelle, Laura è terra). Questo amore è condannato da Petrarca in quanto gli ha provocato pena e grave... danno, lo
ha spinto a versare lagrime e a spendere lusinghe e preghi indarno, gettandolo in un tempestoso mare in cui solo la
Vergine può rappresentare per lui una stella e una fidata guida: l'amore per Laura è vano in quanto non corrisposto e
fonte soltanto di sofferenza, come già dichiarato nel sonetto proemiale del Canzoniere, e la donna è descritta come
colei che quand'era viva in pianto... tenne il cuore del poeta non conoscendo neppure tutti i mali che lui provava;
questo amore è stato un errore, che ha tramutato Petrarca in un sasso / d'umor vano stillante (vv. 111-112) e per
liberarsi del quale ora rivolge a Maria (vv. 115-117) un ultimo pianto... devoto, / senza terrestro limo (cioè senza
passioni terrene), / come fu 'l primo - non d'insania vòto (torna il tema del vaneggiare del poeta dietro la bellezza di
Laura, spesso indicato come la ragione per cui egli fu favola per il popolo, I, 9-11). Dunque la Vergine è invocata come
colei che può concedere la grazia e intercedere presso Dio al fine di ottenere per il poeta il perdono dei suoi peccati,
ma anche come l'alta creatura che si oppone alle passioni terrene che hanno sviato Petrarca dall'amore divino,
rischiando seriamente di compromettere la sua salvezza nell'Aldilà: tali passioni occupano la sua anima ancora con
grande forza, tanto che a suo dire egli è ancora legato al ricordo di Laura con... mirabil fede (v. 122, e val la pena di
osservare il senso ambivalente della parola fede) e solo l'aiuto di Maria può fargli sperare di risollevarsi dal suo stato
assai misero e vile (v. 124) e di ottenere la sospirata salvezza ora che si avvicina il giorno della morte, superando la
passione terrena per Laura dalla quale, pare evidente nei versi finali, egli non riesce a liberarsi neppure a tanti anni
dalla morte della donna. Più che un'invocazione, il suo è l'accorato grido di aiuto di chi vive in uno stato travagliato di
lacerazione interiore e si aspetta da Maria l'intercessione per la remissione dei propri peccati, mentre in Dante
l'orazione di san Bernardo doveva concedergli l'assistenza necessaria a completare il suo viaggio allegorico che è un
percorso (realizzato con successo) verso Dio: l'ultima poesia del Canzoniere dimostra ulteriormente la distanza ormai
incolmabile tra l'autore della Commedia, poeta della certezza e della fede che ha superato e risolto i suoi dubbi in
materia religiosa, e il pre-umanista Petrarca, poeta del dubbio e dell'angosciosa incertezza, la cui fede è
continuamente messa alla prova e che neppure alla fine della sua opera mostra di aver completamente risolto le ansie
che caratterizzarono tutta la sua esperienza di uomo e scrittore.

Figure retoriche:

Al v. 7 Dante parla del ventre di Maria come aveva fatto l'arcangelo Gabriele in XXIII, 104: si è osservato che altrove il
termine è associato a significati negativi e sgradevoli, mentre qui il poeta si è forse rifatto al versetto dell'Ave, Maria
(benedictus fructus ventris tui).

Il fiore del v. 9 è la rosa dei beati.

Al v. 10 la Vergine è detta meridiana face, perchè paragonata a una fiaccola luminosa come il sole di mezzogiorno.

Al v. 20 magnificenza è forse sinonimo di «liberalità», «generosità», anche perché si è detto che Maria concede
spesso la grazia senza attendere la richiesta (cfr. Par., XVII, 73-75, 85).

I vv. 22-24 indicano che Dante è giunto fino all'Empireo dalla profondità dell'Inferno e che ha visto la condizione delle
anime dopo la morte (incluse, probabilmente, anche quelle dannate).

Nei vv. 29 ss. Bernardo ricorre con insistenza al verbo pregare e a termini affini: 29, tutti miei prieghi; 30, priego; 32,
co' prieghi tuoi; 34, ancor ti priego; 39, per li miei prieghi.

Al v. 38 Beatrice è nominata per l'ultima volta nel poema.

I vv. 44-45 indicano che Maria è colei che più in profondità spinge lo sguardo nella mente di Dio, più di ogni creatura
umana o angelica.

Il v. 48 è stato variamente interpretato, ma è probabile che Dante voglia dire che ha portato a compimento ogni
ardore di desiderio.

Al v. 57 oltraggio vuol dire «eccedenza», «sproporzione».

Il v. 64 indica che la neve, al sole, si scioglie e non conserva le orme lasciate su di essa.

I vv. 65-66 alludono al mito classico della Sibilla Cumana, che scriveva i responsi su foglie che il vento disperdeva,
rendendo impossibile la decifrazione: in Aen., VI, 74-76 Enea (in procinto di scendere agli Inferi per incontrare l'anima
del padre Anchise) prega la profetessa di parlargli senza ricorrere a quell'espediente, in quanto ha necessità di
comprendere le sue parole.

Il v. 84 indica non che Dante abbia consumato la sua visione, ma che ha portato la sua vista alle estreme possibilità
umane.

I vv. 85-87 paragonano l'Universo a un volume che raccoglie e rilega tutte le pagine che compongono il creato; nei vv.
seguenti (88-90) Dante indica lo stesso concetto con termini filosofici, parlando di sostanze (ciò che esiste di per se
stesso), accidenti (le qualità delle sostanze) e lor costume (il legame che le unisce insieme).
I vv. 94-96, assai discussi dai critici, vogliono prob. dire che un solo istante (punto), quello della visione, è per Dante
oblio (letargo) maggiore di quanto non lo sia l'impresa della nave Argo, a venticinque secoli di distanza (la quale infatti
è ancora ricordata dagli uomini). Il mito degli Argonauti, i primi a solcare il mare con una nave, ribadisce il motivo del
primus ego in quanto Dante è il primo ad affrontare l'alta materia del Paradiso, come già detto in II, 16-18.

La circulazion del v. 127 è il secondo cerchio, corrispondente al Figlio.

I vv. 133-138 indicano che Dante tenta di capire quale sia il rapporto tra la nostra effige e il cerchio, dal momento che
l'immagine umana è dipinta entro il cerchio con lo stesso colore e sarebbe dunque indistinguibile: così il matematico
cerca di calcolare esattamente la circonferenza, ma non vi riesce perché indige, manca di un elemento essenziale (il
rapporto raggio-circonferenza).

Al v. 138 vi s'indova è neologismo dantesco, da dove («vi trova luogo», «vi si colloca»).

I vv. 140-141 indicano che la mente di Dante è illuminata da un alto fulgore, che gli consente in una suprema
intuizione di cogliere il rapporto tra l'umano e il divino, dunque di comprendere il mistero dell'Incarnazione.

Il verso conclusivo della Cantica (145) termina con la parola stelle, come l'Inferno (XXXIV, 139) e il Purgatorio (XXXIII,
145).

Parafrasi:

«O Vergine Madre, figlia del tuo stesso Figlio (di Cristo-Dio), la più umile e la più alta di tutte le creature, termine fisso
della sapienza divina, tu sei quella che ha nobilitato la natura umana a tal punto che il suo Creatore non disdegnò di
diventare sua creatura (con l'Incarnazione). Nel tuo grembo si riaccese l'amore tra Dio e l'uomo, grazie al cui ardore
nella pace eterna è germogliato questo fiore (la rosa celeste dei beati). Qui per noi tu sei una fiaccola lucente di carità
e sulla Terra, fra i mortali, sei una viva fonte di speranza. Donna, sei così grande e hai così grande valore che, se uno
vuole una grazia e non ricorre alla tua intercessione, è come se il suo desiderio volesse volare senza le ali. La tua
benevolenza non solo risponde a chi la domanda, ma molte volte anticipa spontaneamente la richiesta. In te vi sono
misericordia, pietà, liberalità, in te si raccoglie tutta la bontà che può esservi in una creatura. Ora costui (Dante), che
dal profondo dell'Inferno fino a qui ha visto la condizione tutte le anime dopo la morte, supplica che tu gli conceda,
per tua grazia, quella virtù sufficiente perché possa sollevarsi più in alto, verso l'ultima salvezza (guardare Dio). E io,
che non ho mai desiderato di veder Dio più di quanto desideri ardentemente che lo veda lui, ti porgo tutte le mie
preghiere e prego che siano sufficienti, affinché tu dissolva in lui ogni velo di mortalità con le tue preghiere a Dio,
cosicché gli venga mostrata la suprema beatitudine. Ti prego inoltre, o Regina che puoi ottenere tutto ciò che vuoi,
che tu conservi intatti i suoi sensi dopo una simile visione. La tua custodia vinca i suoi sentimenti umani: vedi Beatrice
e tutti gli altri beati che uniscono le mani unendosi alla mia preghiera!» Gli occhi (di Maria) amati e venerati da Dio,
fissi in quelli dell'oratore (san Bernardo), ci dimostrarono quanto le siano gradite le preghiere devote; quindi si
rivolsero alla luce eterna di Dio, nella quale non bisogna credere che alcuna altra creatura, umana o angelica, possa
penetrare lo sguardo altrettanto chiaramente. E io, che mi avvicinavo alla conclusione di tutti i desideri, così come
dovevo fare, esaurii in me stesso l'ardore del mio desiderio. Bernardo mi faceva cenni e mi sorrideva, affinché io
guardassi in alto; ma io ero già disposto a farlo da me stesso, come lui voleva: infatti la mia vista, diventando più
limpida, penetrava sempre di più nel raggio dell'alta luce che è vera di per se stessa. Da quel momento in poi la mia
visione fu superiore a quanto possa esprimere il mio linguaggio, che è inferiore a quel che vidi, così come la memoria è
insufficiente a ricordare un tale eccesso. Come quello che vede qualcosa in sogno, e quando si sveglia gli resta
l'impressione nell'animo e non riesce a ricordare nulla, così sono io, dal momento che quasi tutta la mia visione è
svanita dalla mia memoria, ma nel cuore è ancora presente la dolcezza che nacque da essa. Così le impronte sulla neve
si sciolgono al sole; così il responso della Sibilla si disperdeva al vento, scritto sulle foglie leggere. O luce suprema, che
ti sollevi così tanto rispetto all'intelletto umano, riporta alla mia mente un poco di quello che apparivi allora, e rendi il
mio linguaggio tanto efficace che io possa lasciare ai posteri una sola scintilla della tua gloria; infatti, se potrò ricordare
qualcosa e rappresentarlo un poco in questi versi, si potrà comprendere meglio la tua vittoria. Io credo che mi sarei
smarrito se i miei occhi si fossero distolti dal vivo raggio della mente divina, a causa del fulgore che mi colpì. Mi ricordo
che per questo io fui più coraggioso a sostenerne la vista, a tal punto che spinsi a fondo il mio sguardo nel valore
infinito. Oh, grazia abbondante per la quale ebbi l'ardire di fissare lo sguardo nella luce eterna, al punto che portai la
mia vista al limite estremo delle sue capacità! Nella sua profondità vidi che è contenuto tutto ciò che è disperso
nell'Universo, rilegato in un volume: sostanze, accidenti e il loro legame, quasi unificati insieme, in modo tale che ciò
che io ne dico è un barlume di verità. Credo di aver visto la forma universale di questo nodo, perché mentre ne parlo
sento accrescere in me la gioia. Un attimo solo (quello della visione) è per me oblio maggiore dei venticinque secoli
che ci separano dall'impresa degli Argonauti, per cui Nettuno si stupì vedendo l'ombra della nave Argo. Così la mia
mente, tutta sospesa, ammirava con lo sguardo fisso, immobile e attento, aumentando via via il desiderio di
osservare. Di fronte a quella luce si diventa tali che è impossibile voler distogliere il proprio sguardo da essa per
guardare qualcos'altro; infatti il bene, che è oggetto della volontà, si raccoglie tutto in essa, e al di fuori di essa ciò che
lì è perfetto diventa difettoso. Ormai le mie parole saranno insufficienti a esprimere i miei ricordi, più di quelle di un
bambino che sia ancora allattato dalla madre. Non perché nella viva luce che io guardavo ci fosse più di un unico
aspetto, che è sempre identico a ciò che era prima, ma per la mia vista che si accresceva man mano che guardavo, al
mio mutare interiore quell'unico aspetto si trasformava ai miei occhi. Nella profonda e luminosa essenza della luce di
Dio mi apparvero tre cerchi, di tre colori diversi e uguali dimensioni; e il secondo (il Figlio) sembrava un riflesso del
primo (il Padre), come un arcobaleno riflesso da un altro, e il terzo (lo Spirito Santo) sembrava una fiamma che spira
egualmente dagli altri due. Oh, quanto è insufficiente il mio linguaggio a esprimere ciò che ricordo! E anche questo,
rispetto a quel che vidi, è così esiguo che non basta dire 'poco'. O luce eterna, che hai luogo solo in te stessa, che sola
ti comprendi e, compresa da te stessa e nell'atto di comprenderti, ami e ardi di carità! Quel cerchio (il secondo, il
Figlio) che sembrava nascere come da un riflesso, dopo essere stato a lungo osservato dai miei occhi, mi sembrò che
avesse dipinta in esso, dello stesso colore, l'immagine umana: per questo avevo penetrato all'interno tutto il mio
sguardo. Come lo studioso di geometria, che si ingegna con tutte le sue forze per misurare la circonferenza e non
trova, pensando, quell'elemento di cui manca, così ero io davanti a quella visione straordinaria: volevo capire come
l'immagine umana si inscrivesse nel cerchio e in che modo si collocasse al suo interno; ma le mie ali non erano adatte
a un volo simile (non ne avevo le capacità): senonché la mia mente fu colpita da una folgorazione, grazie alla quale
poté soddisfare il suo desiderio. Alla mia alta immaginazione qui mancarono le forze; ma ormai l'amore divino, che
muove il Sole e le altre stelle, volgeva il mio desiderio e la mia volontà, come una ruota che è mossa in modo uniforme
e regolare (Dio aveva appagato ogni mio intimo desiderio).

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