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CAROLINA CARRIERO

IL CONTROCANTO DI EURIDICE
INDICE

Prefazione
Cap. I – Voce d’ombra
Cap. II - Primo inganno: obliare la nascita acquatica
Cap. III - Parole in cenere
Cap. IV - Calypso, solitudine senza rimpianto
Cap. V - Sfogliare la rosa funerea: sepoltura tra delirio e profezia
Cap. VI - Del ferire
Cap. VII - Mnemosinya nascita acquatica
Bibliografia
PREFAZIONE

Ascoltare la voce del logos per riconsegnarne il suono, la sua flessione


vocalica, restituendo valore alla nascita contro la scissione del dualismo orfico: è
questo il percorso di Euridice, lei che è consegnata alla morte perché la vita non
sembrò tanto cara a chi pure l’amava. Non fu infatti il morso della vipera ma il
canto suadente di Orfeo a risospingerla negli inferi quando, compiaciuto della
propria melodia, decise che è bene fuggire la nascita dei mortali e si voltò a
guardarla. La profonda lezione di umiltà che è tutta nel riconoscimento
dell’essere-corpo è al contrario la parola serrata, a voce bassa, di una corporeità
del logos teso a sanare tale scissione per riconsegnare l’io al proprio nome, alla
parola che lo esprime. La corporeità riveste infatti il significato euristico di un
“pensiero che si dà pensiero per la vita”, ovvero che intende la temporalità come
cura e attenzione amorevole per il vivente che sono, e per il prossimo che sempre
e da sempre mi è accanto. Allora anche la modalità cognitiva del soggetto è
assunta nella corporeità esposta, offesa o amata perché preliminarmente coinvolta
e responsabilizzata dall'ascolto in certo senso imposto dalla presenza dell'altro.
Quando Orfeo si volse a guardarla, Euridice vide nel suo volto il segno di una
mancanza di ordine, la ferita del dardo di un Apollo oscuro e violento, perché la
scissione comporta sempre un dolore che allontana da sé e dal mondo. Non è
vero che Euridice fosse ancora avvolta dalla nebbia pesante degli inferi, che i
suoi occhi fossero ancora appestati di oblio: lei vide, lei e non lui, che la scintilla
divina risplende nell’umile corpo che porta l’anima. E dal suo lamento, il canto
delle donne pernici ferite da Zeus, la filosofia donna continua a cercare la via per
risalire alla decostruzione simbolica del dualismo orfico, per risalire alla luce
della terra, madre dei viventi, mentre Orfeo sarà sbranato dalla vendetta omicida
delle donne di Tracia. La corporeità del logos compie questo passaggio, iniziatico
anch’esso seppure in modo dissonante, seguendo lo smarrimento di Hermes, dio
dei passaggi misterici, quando nei versi di Rainer Maria Rilke la riaccompagna
nella “miniera delle anime”, lei “la tanto-amata” tradita da “cielo stellato”
decaduto a “cielo del lamento”; tradita da Orfeo scisso tra corpo e anima, in
fondo da sempre già morto.1 Ma non fu muto il canto di Euridice: tornata
“radice” ebbe più che mai nostalgia della terra cui si volse per ritradurre
l’abbandono in riappropriazione, la resa in forza, l’oblio in cura. E sulle sponde
dell’Ade, dove la tracotanza dell’amato l’aveva risospinta, si fermò a pensare
finché rabbia e dolore si ricomposero in suono, nuovo canto, parola orante
divenuta atto, corpo. Corporeità del logos per voce di donna.
La tradizione filosofica femminile, a partire dalla sapienza oracolare fino
alla crisi del Novecento e oltre, offre nel paradigma della corporeità una via per
sciogliere lo sdegno della hybris degli eroi greci nella humus feconda dei viventi,
sapienti se a essa legati nell’umiltà di un animo humilis. Ma a quali decostruzioni
1
R. M. RILKE, Orfeo. Euridice. Hermes, in ID., Poesie I, Einaudi-Gallimard, Torino 1994,
pp. 547-551.
linguistiche bisogna ricorrere per rinvenire la forza della resa, la disponibilità ad
accogliere nella gratitudine la nascita contro la sua idea orfica di colpa, insomma
per superare la lacerazione tra corpo e spirito, tra cielo e terra… Fruire della
bellezza del mondo è un atto, fondamentale, che restituisce al mondo la sua
possibile abitabilità contro la sua resistenza, che diviene inospitalità, alla
tracotanza dell’animo. Perché il mondo è la terra su cui può abitare solo l’uomo
in sé non scisso, non tentato dalla volontà di fuga o di dominio che in ultimo si
equivalgono nel disprezzo di sé: accettarsi e donarsi, fino all’oblazione
sostitutiva, è infatti l’esito dello sforzo di assecondare l’umiltà del corpo. Lui che
solo sa lasciarsi ammalare e immolare, morire e dissolversi contro l’urlo di
protesta dell’animo di Orfeo che disdegna nel canto il corpo ferito di Euridice,
ovvero Euridice stessa. Perché è il corpo che individua: l’amante della filosofia e
l’amata aletheia.
CAPITOLO I

VOCE D’OMBRA

A voce bassa lungo le sere d’estate, appena sussurrata nelle albe più
fredde o accompagnata, a volte, dal vento amaro dei ricordi ma raramente dal
rigoglio dell’acqua. Questa danza per te mille notti d’estate si è impigliata tra le
brughiere dei rimpianti. Ciò che tu chiamavi ossessione era piuttosto il mio
ostinato amore per questo nudo lembo di terra, una parola volutamente
inespressa per custodirne in silenzio ogni sua umida zolla, decisa a non tradirla
per il tuo sogno ingombrante di immonda purezza: purezza senza mondo, senza
fango, senza cenere calda in quel tuo freddo Uranio senza stelle. Perché non
volevo rinascere con il ventre serrato: meglio tacere, mi ero detta, meglio
soffocare nel cuore le parole vili. Perché per me era solo paura tutta quella tua
passione per Cielo Stellante.
Scegliere di amare per due è stato devastante. Eppure, piuttosto che
cedere, avevo preferito lasciarti scivolare via in tutta calma, aspettando che mi
abbandonassi a passi lentissimi come il mio lungo inganno su di te. Ma perché
quei passi conservassero la cadenza di una danza, convertendo in sogno questo
inganno che ha ferito entrambi, avevo lasciato troppo a lungo che mi
tamburellassero sul ventre. Avevo ormai chiuso gli occhi quando sei andato via
da me, sepolta da tempo in sprofondamenti di oblio; avrei aspettato l’eterno in
silenzio, lo avevo creduto con tutta me stessa, sarei stata come un’ombra nella
nebbia o un tonfo nel vuoto. Mi riusciva solo di sperare che a tratti la terra
tremasse per tremarvi anch’io dentro; ma questa non si scosse e mai, e mai io.
Tra le mani vuote e quel cielo implodevano parole stordite e il confine era tutto
in quel triste silenzio dell’anima cui vietavo di parlare: volevo essere ombra, il
suo infinito silenzio. Sì, perché credevo che le ombre non avessero voce, e invece
mi sbagliavo; me ne accorsi stravolta di rabbia quando vi riconobbi l’antico
urlo del mio corpo negato, quando ebbi paura di loro e in loro potei infine
riconoscermi. Allora mi spinsi, senza prudenza, nella danza pericolosa dei
rimpianti abbracciandoli tutti quei fantasmi che popolano le infinite brughiere
dei miei sogni, stringendomi a quei rami nodosi che ombreggiano anche i più
soffici prati elisi. Per custodire parole capaci di attraversarti, così mi dicevo,
per oltrepassarti senza ricongiungerti a me ovvero salvandoci entrambi. Dovevo
annegare i tuoi occhi nell’umile pazienza del corpo che si lascia ferire, questo mi
ripetevo, assolutamente incapace di guardarli senza tremare ma sprofondandovi
muta come radice divelta e infine sepolta. Perché è lì che la radice si abbevera si
snoda e rinasce: c’è bisogno di una morte, di una morte almeno per tornare alla
vita, ma il tuo canto era per me il selvaggio che ingiuria, che invidia e che
uccide anche il corpo indifeso di un bambino che gioca tra trottole e specchi,
come il tuo amato Zagreo.

8
Tornava ogni anno l’estate sulla terra e io sempre lì, stordita, quasi
scongiurando che non venisse a svegliarmi; ma quando fa giorno gli spiriti
sprofondano fin sotto le radici, sprofondano sempre e io con loro, ogni anno
meno fedele al silenzio. Sempre meno. Ma sempre più ripensavo ai tuoi occhi
socchiusi, al tuo corpo bianchissimo incurvato sull’acqua mentre ti arrampicavi
sugli scogli affogati nel fiume portandoti dietro quel guscio di tartaruga
intagliato e suonante, la tua splendida inutile cetra. Il tuo canto non lo ricordo,
non ho mai creduto al tuo canto e questa è stata per te la mia colpa più grande;
la mia memoria è soltanto per i tuoi occhi sperduti nel sogno di un viaggio tra i
morti, per quel tuo corpo ferito da troppa luce su acqua stagnante nel fiume di
Stige. Io sulla riva, seguendoti a passi lenti sull'erba ispida profumata di
rosmarino e di mirto che costeggiava quel fragoroso sentiero in cui scivolavi per
poi risalirlo come un grosso pesce stordito. Un corteo di ragni ti saltellava
attorno su esili zampe felici di far danni nel mondo, sobbalzando il corpo del
mondo come se non avesse né peso né gravità perché avido di sottrargli quel
prezioso bottino che è tutto il suo peso. Sembrava che anche tu, anzi proprio tu,
volessi rituffarlo nel fiume appena fossi riuscito a strapparlo col canto,
afferrandolo con dita nodose come fosse una piccola trota lucente che invece
sempre e da sempre ti sgusciava via oltre gli occhi, al di là di ogni tuo altrove.
Io da sempre lontana, né so di quanti passi né se fossi indietro o di qualche
metro più avanti, certamente distante nel corpo e in tutto quel dramma
dell’anima: mi sembrava giocassi, speravo giocassi, con quei vocalizzi volti a
Cielo Stellante e contro il suo forte profumo di Greve. E invece tu, stordito e
diviso in te stesso, scindevi l’ordine del mondo credendo di ricomporlo: ma chi
scinde il cielo lo ferisce e la tua arma suadente, l’ascia sottile del tuo logos
allegorico -così ti ricordano in molti- dopo me ha ferito anche te. Io al calcagno,
perché non potessi più andare, incedere, vivere; tu nell’anima, perché più non
supponessi di poter disporre dei suoi sacri moti che giungono sempre da altrove.
Avevo dolore alle gambe, graffiate dai cespugli di fichi d’india sempre aggirati
dal tuo passo veloce: tu correvi alla fredda sorgente, io lentamente solcavo la riva
per sedurre e incantare il tempo che passa, affinché non passasse. A starti dietro
prendevo storte su storte ansimando a ogni salita, ti salutavo oltre l’argento
degli arbusti legnosi ora impigliandomi tra i cardi a strapparne gialli fiori di
sabbia ora aprendomi a ciottoli lucenti di acqua, quasi mai curva sui tuoi
scheletri di lumache. Ti sorridevo con lo stomaco in subbuglio sotto il caldo
infuocato dei nostri lunghi percorsi, tutta fatica e bellezza; la fatica era nei miei
piedi trascinati dietro ai tuoi schiamazzi canori, gonfi e arrossati come aragoste
agonizzanti mentre ti sventolavo il mazzetto violazzurro di lavanda, infelice di
renderti e di non esserne felice anche io. La bellezza era invece nel trovare un
cucchiaio di fango in cui affondare, poggiare il più saldamente possibile i miei
sandali su umide zolle di terra, finalmente al riparo dai tuoi scogli vischiosi.
Mille volte sarei fuggita da ciò che a te inebriava, consapevole che le nostre
paure si incrociavano solo per allungarsi un po’ oltre, minacciando i confini già
troppo distanti dei nostri corpi, delle nostre estati odorose di menta. Soltanto io
11 Voce d’ombra

ne sentivo il profumo e questa intensità vissuta in solitudine mi macerava come


grani d’ambra nel fuoco, come cinnamomo sparso nel vuoto di dèi assenti. Ma
per ricongiungermi a te sprofondavo angosciata nei tuoi acquitrini zuppi di
insetti, immergendomi in quelle pozze d’acqua fredda dove, entusiasta, ti
rotolavi in tuffi incoscienti a mezzo metro dal fondo: «Chiudi gli occhi, prova a
morire». E giù affondavi la testa in quel liquido fango, le bianche spalle
affondavano curve come lunghe ali pesanti, le gambe seguivano senza slancio
incagliandosi come schegge di conchiglie spezzate su un livido fondo di molli
girini.
La tua felicità era la mia tortura quotidiana, il rancore che ti portavo per
non curarti delle mie caviglie gonfie, delle mie braccia infestate da zanzare
assetate, dei miei capelli divenuti più crespi dei tuoi dannati ricci di mare.
Amavi ogni brulichio di vita che giace in fondo alle acque melmose -è così che
ogni giorno si affacciava la tua voglia di vivere? così ti tradiva questa sana
voglia di esserci su questa terra che pure ha bellezza?-; perché tu in fondo
cantavi pensieri non tuoi. Perché fin dentro un grumo secco di cellule opache
fermentava per te un bozzolo umido di vita, un grappolo ruvido di resistenza alla
morte, tenace come quegli scogli taglienti di fiume, come quei pesci di catrame
nutriti con carogne di insetti. Ogni giorno quel macabro pasto: «Vieni, ti faccio
vedere». Mi precedevi con in mano una scatola fetida di vermi; angosciata
giravo lo sguardo ma poi tornavo a sorriderti fingendo un assenso cui tu pure
credevi, perché in questo solo credevi, seppure chiudessi subito gli occhi quando
affondavi la mano sulle ventose gelatinose di pesci ingordi di vermi. Desiderare
ancora qualcosa di discretamente piacevole, pensavo, qualcosa di morbido e
burroso che fuggisse -perché no?- di fronte al putrido vischioso dolciastro odore
del decomposto, dell’assenso cantato alla morte. Ma io pensavo: “Tu fuggi la
morte non pensando che a lei”.
Immergermi in te mi ha sprofondato nell’abisso di mio padre -ogni padre-
in croce sul letto nelle prime luci dell’alba nel freddo chiarore sgusciato da
Notte, quando la luce avanzava trionfante e solo la morte si chiudeva su me col
delicato pudore dell’ombra. Perché quell’alba invadente, quel disco solare che
adori da sempre, a me non ha risparmiato la vista di livide chiazze imbrattate
sul collo, di una brutta ruga sottile di sangue attorno alla bocca, di vene bianche
allungate svuotate inutili e ormai assurde nelle mani, le sue mani amate. Binari
spezzati che non conducevano più niente, più a niente, incapaci di risalire alla
vita implosa nel cuore già sepolto e dissolto nel corpo che da allora sarebbe
stato la sua tomba. Mio padre. Sempre ho trovato dal fondo dei miei sensi di
colpa la forza suicida per tuffarmi nel marcio con te, per inabissarmi nel putrido
dei pesci decomposti, dei vermi sguscianti, delle larve scoppiate e svuotate
fingendoti fiducia e assenso. Eppure mai ho creduto ai grappoli cisposi di vita
che pullulano sotto il fango degli stagni: in fondo agli occhi chiusi di mio padre
ho ritrovato inghiottito anche il ricordo dei tuoi sguardi più dolci. Ma la cura -
parola folle per te, lo so bene-, questa mitezza appresa dal corpo che si arrende
12 Capitolo I

al morire per custodire in muta penombra la morte, avrebbe invece saputo


spegnere la stella di quell’alba indecente. Io questo lo so, in questo io credo e a
questo consegno interamente il mio assenso. Se ci fossimo preservati
dall’infausto cerimoniale di quell’estremo fatuo sorriso, dalla rabbia che serra il
petto in morse dentate come i tuoi sdrucciolevoli scogli, mostruosa come la
corazza della celacantide, gonfia come le ventose della rana pescatrice,
insinuante come la brutta coda della bottatrice… Se mi fossi sottratta, anche io
sola; se solo lo avessi fatto prima che ormai fosse giorno… Più ti restavo
accanto e meno risalivo la dura alba di mio padre; più mi stringevo al tuo corpo
e meno si faceva giorno per me: eri come il sole di quella brutta mattina di
settembre mentre a colpi di remi faticavo a rituffarmi nella notte. Avrei tanto
voluto raccogliermi nel buio per chiudermi come un cielo impigrito, certa che
oltre il tempo per morire ne esista anche uno anche per piangerli, i morti. Me lo
dicevo mentre cacciavo le mosche dalla stanza surriscaldata di gente accalcata
agli angoli del suo letto -il ronzante assordante rituale del pianto- affollata da
grasse corolle smaglianti di viola, già troppo maleodoranti per l’aria così calda.
Me lo ripetevo mentre sceglievo le venature fatue del marmo che avrebbero
nascosto in eterno la fragilità del suo sepolcro di carne, la sua bellezza e la sua
terribile dissoluzione. Il tempo del lutto non mi era stato dato e quando avrei
potuto distendermi perché nessuno più mi brancolava intorno, finalmente
nessuno più, mi accorsi che ormai non mi sarebbe bastato l’eterno. Il sole era
già troppo alto: per sempre avrei ricevuto nel buio le ore del giorno senza
sentirne il tepore.
Alle brughiere della terra selvaggia approdai per questi ricordi roventi, il
morso della vipera, tu lo sai, è solo una favola buffa; mi arresi al dolore e lì
restai per un anno, per cinque, più di sette. Mi fermai consegnandovi il corpo
avvizzito, respirando sabbia e chiedendomi sempre, angosciata, come dire di
questo dolore senza più l’eco spietata del tuo macabro canto. Allora scelsi di
agire, di cambiare il mio nome in quello selvaggio di Agriope e ti ferirti
strisciante il calcagno con l’ingombro della mia ombra pesante; poi muta mi
sporsi a guardare, a spiarti. Ma fui punita. Tu sottratto al passato io fuggita dai
fantasmi di Ade, seppure avvinghiati, i nostri passi non si incontrarono né allora
né mai: scivolarono lenti sotto radici uncinate in compagnia di spiriti o uomini
insonni e insepolti. Perché anche tu eri catapultato nella danza dei morti prima
che avessi potuto piangerli, i tuoi morti; eri sprofondato nei tuoi abbandoni
quando mi avevi incontrata e ne avevi scavati di più profondi quando ero
fuggita. Tutto inutile. Vederti accanto, seduto e muto alle porte di Ade come un
uomo distrutto da una vita mai colta mi ha scossa, ferita, indignata. Sorpreso da
quella morte improvvisa -chi ti aveva ferito al calcagno, chi mai, “tu così
amato”?- neppure laggiù mi cercavi o vedevi seppure fossi proprio io il tuo
rimorso, perché disdegnando sepoltura e lamenti fuggivi in silenzio quella pace
sotterranea che è dono per i viventi e intimità urania. Sotto le braccia terrose
degli alberi, che per abbracciarci tutti quaggiù si snodano fin nel fango di Ade -
struggimento d’amore donato a noi dagli dèi-, tu solo restavi con la bocca
13 Voce d’ombra

serrata, le mani erano ormai rettili ricurvi e contratti su quella cetra di


tartaruga scuoiata e ingannata dalla memoria di un canto. Ferita ti avevo ferito
non per trascinarti a morire in eterno ma solo per una volta, una volta soltanto,
perché tu uscissi festoso e sapiente come Epimenide dalla sua grotta di morbida
terra, dalla sua segreta caverna marina, dalla sua mortale nascita acquatica.
Nascere ancora per essere il cantore del profumo di Greve in Cielo Stellante,
per dischiudere l’uovo argenteo e lunare di una notte che ama e feconda questa
terra di carne: questo era il mio dono, il mio ramoscello di mirto per te. Perché
sono una mystes anch’io, seppure tu non lo veda. Mi sono seduta al tuo fianco,
ho sfiorato le tua dita increspate come foglie essiccate di timo odoroso, a voce
bassa ho parlato sul palmo delle mani, ho baciato la tua fronte confusa di vate
sperduto nell’ombra; poi ho raccolto le gambe sotto il bianchissimo lino e in
silenzio ho aspettato. La mia caviglia sanguinava, il mio respiro era il tuo canto
ormai muto, assente distante e come sempre già altrove. Eppure altrove era lì.
La nostra stagione era già finita e stringerla ancora tra le mani, in questo
profumo di cielo, mi avvelenava il respiro: anche io perdevo il mio canto. Ho
provato ad amare anche questo, stretto viale oscuro e sassoso che pure mi
riportava a te, al tuo cuore di pietra che franava colpi sulla mia anima stanca.
Da quanto tempo? Senza te non avevo voluto più vivere. Per quanto tempo? Per
tutti gli anni in cui avevo combattuto l’atroce paura di perderti in quel delirio
che ti circolava nel sangue, che mi avvelenava le notti incantate di grilli
inebriate di mirto molle d’ambra in cui pure mi amavi. Con una tenacia che
sapeva di guerra perché io, me l’ero promesso, mai ti avrei lasciato morire da
solo ma sola, come sempre si muore, per te avrei assediato le ‘case di Ade’. Ma
ora, vederti lì arreso, stordito e ricurvo su quella tracotanza che ti porti nel
cuore dalle notti incantate di grilli inebriate di mirto e di ambra mi offende, mi
scuote, fa tremare infine la terra e infine io dentro. Il dolore represso bruciato
nascosto nei tuoi rovi essiccati, sui tuoi scogli vischiosi e franati tra ventose e
molluschi mi è esploso alle spalle come un grido volto al passato, ai miei nervi a
pezzi. Perché non avrei mai potuto urlartelo prima ma nel mio modo distante di
amarti io pure ti amavo, eri per me la creatura più bella che mai avrei voluto
vedere soffrire, né tantomeno morire. Ma ormai tutto è franato: sei disceso da
me senza me e ancora più scisso e stordito, come un uomo ferito che mai abbia
creduto alla verità dell’essere-corpo, a quel canto d’amore divino che non
conosce il ferire perché impasta le dita con zolle odorose. Perché se la cura trae
il suo primo respiro da nascita acquatica, mortale, non significa affatto che poi
si dissolva su o in un tumulo all’ombra di un bianco cipresso. La “sacra via”
che qui a lungo ho percorso, e tu invece appena intravisto, mi ha dissuasa dal
tuo inganno mnemosynio di dover obliare la nascita per poter credere -ma la
fede è il mio ornamento più bello- di poter essere ancora. Non “altrove” ma
ancora, perché gli dèi ci vogliono integri ovvero in noi e tra noi non scissi.
Dal tuo ostinato silenzio la mia voce si è srotolata in canto, controcanto o
pensiero che si dà pensiero per la vita; allora ti ho lasciato alle spalle senza
14 Capitolo I

voltarmi. Ti ho lasciato ai tuoi deliri che tradiscono inganno e paura, che ti


inchiodano a non vedere in me la tua stessa luce nell’ombra, che non ascoltano
ma troppo a lungo estenuanti parlano ai morti solo di morte. Sedotta dal
rimpianto per il dono di vita, furiosa per aver lasciato strisciare nel corpo quel
tuo morso fatale di fatua illusione, trafelata ho ripreso la ‘sacra via’ verso
l’umile terra intrisa di acqua, su cui l’aria ha il tepore del sole. Così sono
tornata agli anni perduti provata dal tempo ma avida di tutto quello che ancora
potesse restarmi, molto o poco che fosse. Perché anche l’estremo respiro ha un
profumo e io voglio sentirlo nel vento al di qua di Cielo Stellante dove so che
anche lui, lui che è Uranio splendente, si inebria tra ruscelli e aromi e rombo di
tamburi di donne e di uomini in festa. Qui sul suolo di Greve si danza la vita
splendendo come fuoco di stelle di un Cielo a noi sempre accanto perché amante
di cenere, questa spirale di cenere che noi siamo, da e a lui in eterno vo-cati.
Sulle sponde di Ade ho ritrovato dissolta ogni aporia o labirinto su Uranio: io
sono tu sei una mandorla dolce nel palmo di Dio. Io questo lo so perché, te lo
dissi e tu non ricordi, anche io sono mystes.
Te le consegno oggi queste parole perché non le ho più ascoltate tra le
cascate sorde dell’anima; non so dove siano, forse franate tra i sospiri dei miei
morti infine sepolti: ormai muto il tuo canto non mi riporta al passato. Tra pitici
giochi d’acqua -cerchi riflessi di una vita che amo- nella valle dei rimpianti non
conservi più un posto, i tuoi occhi sono infine annegati nelle acque di un mare
profondo. Questa manciata di parole per te non potrei trattenerla se non come
peso di un debito oscuro; i fiori soffiati nell’aria non chiedono nulla e non
seguono orme impossibili: sono solo notturne farfalle di anima, fili d’erba
impastati di fango, zolle nude di te.
CAPITOLO II

PRIMO INGANNO: OBLIARE LA NASCITA ACQUATICA

Quando Orfeo si volse a guardarla, Euridice vide nel suo volto il segno di
una mancanza di ordine, la “ferita” del dardo di un Apollo oscuro e violento
segno di una dolorosa scissione tra sé e il mondo. L’oscurità era già tutta nel suo
nome -Orphné, tenebra-, presagio che mai lui avrebbe potuto compiere il viaggio
sciamanico che riporta le anime dal regno dei morti. Perché una distanza
incolmabile lo separava da sé, e ‘oltre’ proprio non può andare chi ha l’abisso nel
cuore. Al suo cospetto il regno di Plutone e Persefone erano lidi assolati…
Euridice - Euréia Díke -, lei dall’ampio giudizio, disteso e paziente perché tutto
pensiero di cura- era lì e sapeva.
Non è vero che fosse ancora avvolta nella fitta nebbia degli inferi, che i suoi
occhi fossero ancora appestati di oblio: lei vide, lei e non lui, che la scintilla
divina risplende nell’umile corpo che porta l’anima. E dal suo lamento, il canto
delle donne-pernici ferite da Zeus, la filosofia donna continua a cercare la via per
risalire dalla decostruzione simbolica del dualismo orfico alla luce della terra,
madre dei viventi, mentre Orfeo sarà sbranato dalla vendetta omicida delle donne
di Tracia. Che sono figura di una corporeità negata, obliando l’idea della nascita
già entro il ventre della Musa Calliope, che pure sapeva donare potenza al suo
canto.
Ascoltare la voce del logos per riconsegnarne il suono, la sua flessione
vocalica, restituendo valore alla nascita: è questo il canto iniziatico di Euridice,
lei che fu consegnata alla morte perché la vita non era sembrata tanto cara a chi
pure l’amava. Non fu infatti il morso della vipera ma la parola suadente di Orfeo
a risospingerla negli inferi quando, compiaciuto della propria melodia, decise che
è bene fuggire la nascita dei mortali e si voltò a guardarla. La profonda lezione di
umiltà che è tutta nel riconoscimento dell’essere-corpo è al contrario un logos
teso a sanare tale scissione per riconsegnare l’io al proprio nome, alla parola che
lo esprime. La corporeità riveste infatti il significato euristico di un “pensiero che
si dà pensiero per la vita”, ovvero che intende la temporalità come cura e
attenzione per il vivente che sono, per il prossimo che sempre e da sempre mi è
accanto. Allora anche la modalità cognitiva del soggetto è assunta nella
corporeità esposta, offesa o amata perché preliminarmente coinvolta e
responsabilizzata dall’ascolto in certo senso imposto dalla presenza dell’altro. La
corporeità del logos compie questo passaggio, iniziatico seppure in modo
dissonante, seguendo lo smarrimento di Hermes, dio dei passaggi misterici,
quando nei versi di Rainer Maria Rilke la riaccompagna nella “miniera delle
anime”, lei la “tanto-amata” tradita da “cielo stellato” decaduto a “cielo del
lamento”.0 Tradita da Orfeo, scisso tra corpo e anima e in fondo da sempre già
morto. Ma non fu vano il canto di Euridice: tornata “radice” ebbe più che mai
nostalgia della terra cui si volse per ritradurre l’abbandono in riappropriazione di
sé, la resa in forza, l’oblio in cura. E sulle sponde di Ade, dove la tracotanza
dell’amato l’aveva risospinta, si fermò a pensare finché rabbia e dolore si
ricomposero in suono, nuovo canto, parola orante divenuta atto, corpo.
Corporeità del logos per voce di donna.
Essere “radice”, essere radicati nella verità, è spaesarsi per varcare la soglia
della superficie del mondo senza cadere nel rifiuto orfico del dinamismo
terrestre; è inabissarsi nell’intimità profonda -Euridice la sposa- per risalire alla
gioia di un’integrità ridonata. La dissonanza in Orfeo, questa compagna fedele
che ora precede ora segue, è insieme la vita e il dramma della vita che come
radice acquatica si avvolge e si snoda scorrendo sotterranea. Il suo controcanto
ricongiunge al cielo la terra come l’uomo-albero capovolto con le radici protese
verso l’alto; la sua voce guida il mystes nel suo viaggio sognato a occhi chiusi
fino alla porta di Ade e da qui alla sua sorgente nascosta. La radice, poi, fende la
terra -Euridice ferita ferisce il suo doppio- per nutrirsi di vita attingendo
all’elemento acquatico che è materno e sponsale, involutivo e propulsivo,
simbiotico e asimmetrico. E così la terra ferita, la corporeità negata, si dischiude
lasciando emergere l’acqua, divenendo essa stessa linfa acquatica per la radice
assetata, mutandosi infine in radice che sostiene l’uomo-albero fino alla cima del
suo ramo più alto. Radicarsi non è però cadere nel chaos indistinto degli opposti
ma trasmutarsi in accordo con la polisemia degli elementi, diventare canto, voce
in cui risuona un ordine complesso e segreto. «Ciò che è veramente solido sulla
terra- scrive Gaston Bachelard ne La terra e il riposo- ha come immaginazione
dinamica una radice esistente»;0 come ogni immagine archetipica essa non è
univoca ma complessa quanto i conflitti dell’anima che rivela. E allora il sogno
di scivolare nel profondo, nell’impero dei morti di cui pure è signora la dea-
serpente Ecate o Agriope, ovvero Euridice stessa che ora ferisce al calcagno, si
ribalta nel viaggio ultramondano in cui Orfeo diviene “radice che ama, che nutre
e che canta”0 la memoria dell’amata mai persa. L’ordine si ribalta mantenendosi
in ordine “altro”. Ancora Bachelard, confrontando La Légende des Siècles. Le
Satyre di Victor Hugo con il Dialogue de l’Arbre di Paul Valéry, riporta in nota
che sempre «le immagini fondamentali hanno la tendenza a invertirsi.
All’immagine originaria dell’albero-fiume si può accostare l’immagine del
fiume-albero».0 E così il grido lancinante della mandragora, della radice ferita e
selvaggia che uccide chi ha osato reciderla, diviene l’immagine della pianta-
uomo che germoglia innalzandosi come lo spirito che vive soltanto
accrescendosi. Improvvisamente questo ardore per le profondità, per l’essere che
vive dell’acqua infiltrata, diventa nel segno del poeta un ardore per amare: «il tuo
0
R. M. RILKE, Orfeo. Euridice. Hermes, trad. it. In ID., Poesie I, Einaudi-Gallimard,
Torino 1994, pp. 547-551.
0
G. BACHELARD, La terra e il riposo, trad. it., Red Milano 2006, p. 240.
0
Ivi, p. 249.
0
Ivi, n. 26, p. 262.
17 Primo inganno: obliare la nascita acquatica

albero insidioso, che nell’ombra insinua la sua sostanza viva in mille filamenti e
che attinge il succo della terra addormentata, mi ricorda… - Dillo -. Mi ricorda
l’amore. La pianta, segno importante di un amore impiantato in un essere.
L’amore, fedeltà scrupolosa che sostiene tutte le nostre idee, che assorbe tutte le
nostre ferite, come una pianta viva le cui radici non muoiono […] Questa sintesi
spiega come Valéry possa fare a meno di tutta la vita animale e dire che l’uomo
meditando sull’albero può scoprire di essere una Pianta che ‘pensa’. L’albero non
pensa forse due volte: raccogliendo il bottino delle sue mille radici e
moltiplicando la dialettica dei suoi rami?»0 Orfeo, sradicato alla terra e sospeso in
un sogno acquatico che è già radicamento al cielo, nel suo doppio prima negato e
ora ribaltato chiede e ottiene radici per essere come essere-ancora. Il suo
nascondersi, inabissarsi nel buio di Agriope, è il moto nascosto della sua
scrittura, il suo respiro profondo che si nutre agli inabissamenti dell’anima
sospinta alle pianure celesti, due fonti un bianco cipresso e i guardiani-guida che
ti precedono dall’eterno: scrivere è sognare l’anima, nelle laminette auree di
Orfeo. Chi guarda-guida e sostiene, attende all’esercizio di infinita pazienza della
scrittura nella mano che scorre parole ancora non comprese, nel cuore attento che
ascolta una voce che detta, nel passo veloce del mystes che “quando si appresta a
morire” ha il moto improvviso di un soffio d’ali. Catabasi di una scrittura
infinitamente piccola per entrare nel più recondito atomo di vita della cellula
nascosta nella molecola-radice sottratta allo sguardo; scrittura “veritativa” 0 che
custodisce nel nascondimento (il senso-radice, profondo, di lanthano) il segreto
d’essere scintilla divina. Le laminette aureee: avvolte annodate ‘radicate’ e
riposte sul cuore del mystes nascosto, sepolto con lino bianchissimo, in un
tumulo che disdegnerà sia il planctus sia l’epitafio celebrativo. I suoi caratteri
sono solchi sottili incisi nell’oro splendente dell’astro solare caro ai pitagorici;
graffiti simmetricamente perfetti entro l’ordine infinitamente piccolo e
vertiginosamente espanso dell’esperienza misterica. Il mystes che si ritrae dal
mondo seguendo a occhi chiusi quel poeta-guida che dal mondo si è ritratto, in
realtà lo dischiude in una doppia visione che è più di una visione rovesciata. La
sua scrittura è un geroglifico nel corpo che precede il linguaggio, che disegna e
designa questo viaggio-ritorno dalla materia; il suo essere viatico tra frontiera-
discesa-ascesa ha quella “condensazione” che per Hélène Cixous ci riporta «alla
rapidità dei sogni. Il tempo non tiene il passo e indica l’attraversamento. È un
tempo che non preserva la nostra logica ordinaria» 0. Il tempo di Orfeo è
contratto, ha l’incedere veloce del piede del mystes che si accinge si affretta a
tramutarsi in soffio d’ali, in cigno al cospetto di Apollo nel tramonto di Socrate;
il tempo di Euridice è invece disteso, seduttivo e lento come il canto delle pernici
punite da Zeus, rispetto a lui dissonanti. La scrittura di Euridice ha il senso
profondo del tatto, delle dita nodose che affondano nella materia, loro stesse
materia, per plasmare parole che riconsegnano una gioia difficile, scomodamente

0
Ivi, p. 252.
0
Cfr. la nuova prospettiva ermeneutica di Gaspare Mura
0
H. CIXOUS, p. 154.
18 Capitolo II

vera: tratti dalla materia, la materia è la nostra memoria. Allora la radice


mandragora ritorna a gridare, ferita espropriata dal freddo lago Mnemosyne che ti
ingiunge il ricordo di te obliando l’altro, che ora è accanto ora precede ora segue;
che ti chiede di non volgerti indietro se non per dissolvere, perché quando Orfeo
si voltò Euridice scomparve. È questa l’austera dea orfica che mutuandone le
parole dalla Cixous è «un desiderio duro, tagliente, di non essere te». 0
l grido della mandragora è la ferita inferta da Euridice-materia, ferita per
prima, al calcagno di un logos immemore di sé perché dimentico dell’altro;
ancora, è il controcanto di Calypso: “Mi ricordo di te”. Di più, è il riscatto della
nudità del soggetto entro l’esperienza radicale del passaggio dall’avere un corpo -
figura del dominio sul mondo- all’essere come “vocazione alla” e “della”
corporeità. Vocazione ad accogliersi, vivere e donarsi come ‘adamah o terra in
cui nascere, luogo di grazia ove la fenditura nella carne è la delicata cartografia
dell’abitabilità del mondo tra smarrimento e grazia. In questo senso la cura
diviene la cifra di un nomadismo in cui il soggetto si affida al tempo disteso, né
eterno né contratto, cui il corpo si consegna tra nascita, malattia e morte entro un
pianto rituale che risuona come cura invocata da Dio. Perché lo sguardo di
Euridice non respinge, non allontana da sé, ma accoglie lasciandosi incontrare.
La tradizione filosofica femminile, a partire dalla sapienza oracolare fino alla
crisi del Novecento e oltre, offre più vie per sciogliere lo sdegno della hybris
degli eroi greci nella humus feconda dei viventi, sapienti se a essa legati entro un
corpo che porta un animo humilis. Ma a quali decostruzioni linguistiche bisogna
ricorrere per rinvenire la forza della resa, la disponibilità ad accogliersi nella
gratitudine per la nascita contro la sua riduzione orfica a colpa, contro la sua
tracotante rimozione della cenere -che invece è sacra e votiva-, cenere che noi
siamo, sparsa come omphalos sulla fiamma divina che ci inabita…
Fruire della bellezza del mondo diviene allora l’atto fondamentale che
restituisce la sua abitabilità contro quella sua inospitalità che propriamente è
resistenza alla hybris dell’anima. Perché il mondo è la terra su cui può abitare
solo l’uomo in sé non scisso, non tentato dalla volontà di fuga o di dominio che
in ultimo si equivalgono nel disprezzo di sé: accettarsi e donarsi, fino
all’oblazione sostitutiva, è infatti l’esito dello sforzo di assecondare l’umiltà del
corpo. Lui che solo sa lasciarsi ammalare e immolare, consegnare e morire; lui la
guida sapiente alle spalle di Orfeo che nel canto disdegna e incalza con calcagno
ferito la materia-Euridice, ovvero se stesso negato nel suo doppio. Lui che segue
alle spalle non come un’imboscata del logos, piuttosto come ombra che ridisegna
il confine o figura di un corpo dissolto in un pensiero che si dà pensiero per la
vita. Perché il corpo individua anche tra le pieghe dell’anima. Nella solitudine
infinita di Ade la donna dal piede ferito, che pure può andare, patisce allora
questa corporeità del logos quale decostruzione della Weltanschauung maschile
entro la non neutralità del Dasein, suono dissonante che permette il passaggio dal
disordine -il chaos di un mondo inospitale- al senso dell’essere che costituisce il
0
Ivi, p. 160.
19 Primo inganno: obliare la nascita acquatica

kosmos, ovvero l’abitabilità della terra fruita nella sua bellezza. Su quelle sponde
Euridice canta il suo canto più bello: la fondazione simbolica del mondo entro il
limite, condizione di possibilità, della situazione solitaria del vivente; la libertà
nel tempo della malattia e la cura di sé nella responsabilità per il tempo futuro. E
il suo canto è logos e preghiera, parola orante non “obliquamente” divina.
Eppure il suo è anche un logos selvaggio. Prima di Virgilio0 e di Ovidio0 lei
è infatti la senza-nome ingenerata per colpa orfica: è Agriope0 dalla voce o
sguardo selvaggio, la ninfa tracia che vive nei campi non addomesticata perché
nessuna domus le è data sulla terra, e dal suolo inospitale si erge soltanto una
vipera per ferirle il calcagno, l’incedere, il vivere. È selvaggia perché ha la furia
di Eros contro chi le userebbe violenza (Aristeo) ma a favore di chi amerebbe e
ama oltre questa stessa vita; è sorella di Alcesti, qui distante da Orfeo. È la
“feroce guardiana” di quella terra riarsa che è lo stesso corpo di Orfeo sottratto al
suo abbraccio, straziata dal desiderio di abitare questo corpo cui è negato
l’amore, fino alla scelta ultima di arrendersi allo sradicamento di Ade per
intonare da qui il suo inno alla vita. sulle sue sponde di nebbia, risospinta al
niente che è per occhi di uomo, questo canto è torsione verso una terra natia che
punisce e non ospita la sua differenza: «Tutto il tempo in cui ho vissuto in
Algeria ho sognato di giungere un giorno in Algeria». 0 È il grido tradotto in
scrittura di Hélène Cixous quando in piena notte -nel buio di Orfeo cui pure
vorrebbe tornare ad amare, nel buio di Ade in cui il corpo-nemico ha sospinto lei,
non-amata, quando appunto in piena notte la scrittura si espande nel tempo
disteso della sua gestazione. Allora il canto notturno diviene una “precipitazione
di frasi” donate dalle Muse che concedono memoria e oblio, parole che in questo
viaggio iniziatico a ritroso da Orfeo hanno il potere di risuscitare chi hai amato e
perduto perché «credi che non ci sia niente nelle macerie, figurati! Guarda giù
dalla ringhiera delle scale, chi vedi?».0 Chi vedi? la terra natia che serra il tuo
seno, l’Algeria mai avuta e mai ritrovata nella Francia sorella e distante, Clos-
Salembier sepolto nel grembo di Aïcha che è pane e torta e frutta e pozzo e
ombra e riposo ma non per te, te bambina te donna selvaggia ferita a morte come
il cane a vita ingabbiato, mai amato, il tuo Fips.
Ho la sua anima sotto il cranio, ho i suoi denti e la sua rabbia impressi sui miei piedi e le
mie mani, ho il Cane, tutto il Cane, dalle origini fino alle sue conseguenze, inciso nella
membrana della mia memoria. Ho il Cane per Maestro e abbandono, per guida per essere vitale
per essere mortale e per essere tradito. La mia anima il Cane. La mia trasfigurazione selvaggia. 0

Poiché la ferita del logos è l’inganno di Mnemosyne che infligge l’oblio


della nascita acquatica, nel gioco riflesso dei controcanti, con Orfeo, ci
0
VIRGILIO, Georgiche, IV libro.
0
OVIDIO, Metamorfosi, X libro.
0
Cfr. U. CURI, Miti d’amore. Filosofia dell’Eros, Bompiani, Milano 2009, pp. 114-115.
0
H. CIXOUS, Le fantasticheria della donna selvaggia. Scene primitive, trad. it., Boringhieri,
Torino 2005, p. 9.
0
Ivi, p. 10.
0
Ivi, p. 57.
20 Capitolo II

muoviamo in un ambiente acquatico in cui tutto si sdoppia e rifrange


dinamizzandosi in figure dai contorni fluenti. La dottrina orfica rinvia infatti in
modo esplicito a questo elemento naturale -le due fonti e il lago della memoria
divinizzata nelle laminette auree- intendendolo e ritraducendolo come simbolo di
purezza, distanziamento e oblio dal grembo materno che è primo amore e
fondamento di ogni amore futuro. L’inganno dell’oblio donato da Mnemosyne è
la rimozione dell’altro, del tu bambino e divino sbranato perché inquietante ne è
la solitudine che interpella a un amore oblativo. La lacerazione da amore, fondata
dal mito e ferita -tradita- nel logos come non ricordo dell’altro, si riversa come
oblio etereo in una dottrina escatologica che porta il peso -da espiare- di una
colpa senza smascherarla come colpa di sottrarsi all’amore. Nelle fredde e
trasparenti acque di Mnemosyne anche l’immaginazione formale e la sua
fruizione estetica disdegnano l’immaginazione materiale, disconoscendone il
valore della materia. La dilezione per questo amore, inferiore a quello puro
perché non compreso tra i piaceri intellettuali, non a caso è un misto di dolore e
piacere del corpo, di dolore e piacere dell’anima come anche del loro duplice
interscambio tra corpo e anima. Dall’Ade la dea della memoria ci consegna un
ricordo ferito nell’inganno della trasmutazione da amore a purezza: ma cosa è la
purezza senza il “doloroso bisogno” della soddisfazione, se non il piacere della
conoscenza e della contemplazione? È appunto il piacere platonico, fortemente
intriso di orfismo pitagorico, che nel Filebo troviamo «non impastato con i dolori
e con le cessazioni delle sofferenze più intense che riguardano il male del corpo e
quello dell’anima che non conosce il dolore»0. È per questo motivo che la
complessità del rapporto tra Orfeo e il suo doppio -il piacere misto tra anima e
corpo, anime e corpi l’uno alla presenza dell’altro- non raggiunge quell’integrità
che nella dimensione acquatica, oltremondana, sarebbe al contrario il viaggio dei
puri e degli integri. Ma è un viaggio che disdegnando la vertigine dell’altro
rimuove, portandone a occhi chiusi le ferite nell’anima, il dolore infinito
dell’acqua. Nella sua Psicanalisi delle acque, in realtà L’eau et les rêves,
Bachelard attinge invece da questa la memoria unificante o ‘mista’ di corpo, voce
e anima:
L’essere che si vota all’acqua è un essere preso nella vertigine. Egli muore
a ogni istante, senza fine qualcosa della sua sostanza sprofonda. La morte
quotidiana non è la morte esuberante del fuoco, che trafigge il cielo con le sue
frecce; la morte quotidiana è la morte dell’acqua (…) l’acqua deve suggerire al
poeta un nuovo obbligo: l’unità d’elemento. In mancanza di questa unità
d’elemento, l’immaginazione materiale è insoddisfatta e l’immaginazione
formale è insufficiente a legare i tratti disparati. L’opera manca di vita perché
manca di sostanza.0
Orfeo conosce il significato simbolico della vista e la sua facoltà di

0
PLATONE, Filebo, 51 a, 52 c.
0
G. BACHELARD, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita, trad. it., Red,
Milano 2006, pp. 13 e 24.
21 Primo inganno: obliare la nascita acquatica

“respingere” l’altro da sé, ma disconosce il tatto che è presenza nell’essere-


accanto: le sue mani non incontrano mai altre mani di uomo o di donna se non
per la mediazione sonora, aerea in senso aristotelico 0, delle corde della sua lira
appena sfiorate da dita veloci. Il suo canto è il soffio, primo respiro e primo
distacco dall’elemento acquatico materno per essere al mondo al modo del soffio
dell’ultimo canto, quello nascosto sul cuore della donna sepolta ad Hipponion.
Orfeo è guida e sacerdote che ben conosce, paradosso dell’autoinganno, la colpa
originaria del non amare, del non lasciarsi contaminare per amore dell’altro: per
questo è solo sulle rive di Ade, la sua mystes più non lo segue -proprio lei che è
invece il suo doppio-, tra i due fiumi è rimasta a pensare. E contro lei, l’Euridice-
serpente che chiede sacrifici maschili, volgerà come arma il suo canto, le tre
corde di una lira che è il guscio di una tartaruga scuoiata, contro lei che ormai
combatte in eterno con l’inganno seducente di un canto Chimera. La purezza che
nella dottrina orfico-escatologica non abbraccia la commistione -o complessità
dell’amore per la nascita- opera una lacerazione anche paesaggistica
nell’ambiente acquatico dell’Oltretomba: a destra la vita a sinistra la morte; le
due fonti non confluiranno mai confluiranno nello stesso lago. Quell’eterno
andare che scorre già in noi come fluidità di fiumi che anelano all’infinità del
mare, nell’intuizione eraclitea della dissonanza espansiva dell’anima, non
possiede infatti nell’orfismo il peso del corpo che in ultimo è intimità con la parte
più profonda di noi. Il canto che viene dal sepolcro e che a questo si oppone è
piuttosto il volo istantaneo oltre la superficie dell’acqua verso e attraverso una
immaginazione formale dimentica delle “acque mormoranti”, ovvero della
fluidità vocalica che è al contempo corpo e anima. Il canto di Orfeo oblia il peso
di questa intimità col profondo acquatico, inabissamento dell’immaginazione
materiale alla sorgente della stessa forza immaginante; è parola che dimentica
l’acqua, la fluida metamorfosi tra il fuoco e la terra. In questo oblio dell’altro/a, il
fragile e scomodo tu che non chiede purificazioni ma compromissioni di amore,
il poeta ha perduto la memoria e il suo canto; è lui stesso il non ricongiunto al
ricordo e infine l’uomo scisso tra due fiumi dagli opposti nomi e destini. La
lacerazione è fatale. Il corpo di cenere è dissolto da un vento che più non
ingravida: Borea è lontano e Ofione 0 è sepolto in Euridice implosa nel Regno di
Morte, di cui prima era invece signora. Più nulla e nessuno è rimasto integro
nella purezza, una ferita ha scisso qualcosa anche nel regno di Cielo stellante ora
imploso in un buio profondo quanto il sonno di Greve, stanca e riversa nel volto
di marmo.
Eppure.
0
ARISTOTELE, De Anima
0
Nella religione pre-ellenica la dea Madre è fecondata dal vento o dai flutti acquatici, come
nel mito di Eurinome unitasi a Borea, il Vento del Nord da cui il serpente Ofione, mentre danzava
selvaggiamente sulle onde del mare. Cfr. R. GRAVES, I miti greci, trad. it., Longanesi & C., Milano
2005, pp. 5-16 e 21-23 e i suoi riferimenti alle cosmogonie fenicie riportate da Damascione e
Filone di Biblo, alle influenze cananee nella tradizione ebraica, a Igino, Fabula 197 e ad Atteneo
XIV 45 639-640; nella letteratura greca vedi soprattutto Apollonio Rodio, Argonautiche I 496-505
e Tzetze, Scoli a Licofrone, 1191.
22 Capitolo II

Eppure il canto di un poeta ha sempre la funzione del risveglio. Quanto


Orfeo rimuove con la scissione operata nel mito acquatico mimando al contrario
la dea pelasgica Eurinome, che aveva separato l’aria dall’acqua, o ancora
“emergendo” come primo uomo e nuovo Pelasgo nato da Pelor, il serpente
Ofione0, torna nel mito tardivo di Euridice quale suo doppio oscuro e oscurato. E
allora, come immergendosi nelle «forze vegetanti e materiali’ della notte, Orfeo
combattendo ritrova infine il suo doppio nel mito di una creazione che non a caso
procede da una ‘dea notturna dalle ali nere». 0 E in questa oscurità gravida di vita
si sottrae all’oblio e combatte, incontra e ricorda quell’acqua che è corpo di
lacrime, la sua “radice” Euridice che fu sorgente della sua originaria forza
immaginante. Ritroviamo così la memoria dell’acqua, ora per la scrittura di
Bachelard: «Nel profondo della materia cresce una vegetazione oscura. Nella
notte della materia nascono fiori neri, con il loro velluto e la formula del loro
profumo».0
Non fu per sottrarla alla morte e ricondurla alla luce che Orfeo la raggiunse
nell’Ade e infatti si volse a guardarla al limite della soglia, al di qua del Sole
perché lei, il suo doppio, non potesse vederlo; perché lei non era, così aveva
creduto, una mystes. Forse Euridice non è mai stata la sposa di Orfeo, mai ha
avuto un corpo di carne su cui un serpente abbia potuto infierire con un morso
fatale: la carne è cenere, non nasce da terra, e forse lei stessa è il serpente che
ferisce opponendosi a Orfeo. Riconducendola al culto argivo diviene o ritorna la
dea-serpente che annoda tra le sue spire il mondo di Ade, signora di Ade come
Euribia lo è del mare e come la dea lunare Eurinome lo è di tutte le cose create. Il
serpente ha il corpo di un morto, la dea-serpente ha l’intero regno dei morti. La
storia di questo amore impossibile è infatti una tarda versione del mito0, forse una
interpretazione erronea suggerita da raffigurazioni di Orfeo che nell’Oltretomba
suona la lira al cospetto di Ecate o Agriope. Ma in realtà il poeta sta cercando di
sedurre la dea-serpente, cui si offrivano sacrifici maschili, per convincerla a
favorire i suoi iniziati. Ed Ecate possiede tre corpi e tre teste:di leone, di cane e di
giumenta0… è in realtà l’impossibilità di negare il dominio sulla morte alla dea
lunare che torna nel mito orfico della creazione. Per questo motivo non c’è spazio
alcuno per una lettura sentimentale del mito, per un amore cercato fin
nell’oltretomba e perduto per quell’eccesso e dismisura propria della follia
erotica. Se qui c’è Eros è in ben altro modo che deve essere inteso e dovremmo
risalire al mito orfico dell’uovo cosmico, argenteo e lunare, per ritrovarvi la
supremazia di Ilizia, figura della superiorità dell’amore materno, che poi è
Artemide stessa. E sugli inganni di Ermete, uno dei padri di Eros, dio fallico
della fertilità, della comunicazione e inventore della lira dovremo indagare per il
0
Rileggo così, entro una libera interpretazione allegorica, il vasto corpus di miti e leggende
raccolte e raccontate da R. GRAVES, cit.,
0
Mito orfico della creazione
0
G. BACHELARD, cit., , p. 8.
0
IGINO, Fabula, 164; Diodoro Siculo, IV 25; Pausania, IX 30 3; Euripide, Alcesti, 357, con
scolio.
0
ESIODO, Teogonia 411- 52.
23 Primo inganno: obliare la nascita acquatica

loro stretto rapporto con Chimera, l’inganno della seducente memoria poetica.
E così.
Il paradigma della corporeità restituisce al logos il respiro e la voce entro un
ascolto che è accoglienza di sé e dell’altro, luogo e dimora della verità dove ciò
che si svela - si ascolta - responsabilizza all’agire morale. La verità che risuona
nel suono vocalico riposa in questa offerta di sé che è offerta a sé del dono del
logos, libero atto che presuppone l’essere-corpo della persona. Perché la voce si
predisponga a essere tempio che accoglie e custodisce la parola, infatti, è
necessario superare l’antico dualismo orfico per approdare alla dimensione
incarnata del linguaggio. E dunque la corporeità rinvia a un sapere-sentire che
per Francesca Brezzi0 è un sapere simbolico che non inerisce soltanto
all’esperienza religiosa e mistica femminile, piuttosto fonda un diverso approccio
speculativo entro e contro la tradizione filosofica fondata su una ragione logica e
formale. Dunque volgiamoci a Delfi, il delta di ogni dissonanza filosofica; uno
sguardo solo da lontano, per il momento, ma né obliquo né oscuro per recuperare
una pagina perduta di memoria. La trasformazione del concetto di verità, infatti,
nel passaggio dalla mantica al logos è già nella corporeità della Melanippe di
Euripide. Nell’invasamento profetico, Melanippe è figlia di profetessa, non vi è
alcun dinamismo erotico della filosofia ma l’atto con cui la Pizia, nel corpo
offerto alla divinità e agli uomini quale ponte tra cielo e terra, accoglie la verità
intesa come dono. «Non al Dio appartengono infatti la voce, la pronuncia, lo stile
e il metro, bensì alla donna»,0 scrive Plutarco, perché il corpo femminile,
nell’unione mistica e verginale con la fonte della sapienza, si offre soltanto come
vaso o scrigno della verità. Nel prestare il proprio corpo alla divinità, infatti,
ovvero nel donarsi come suono vocalico perché sia ascoltata la “parola” - fino
all’invasamento di Cassandra nell’Ifigenia in Aulide o alle metamorfosi delle
Baccanti - la donna non avrebbe alcun merito nel processo di conoscenza. Donna
= vaso vuoto; ma questa non è una novità, neanche ai tempi di Plutarco.
Eppure.
Eppure nella corporeità del logos questo accade soltanto perché la verità
non è il risultato di un processo ma la gratuità di un dono. Il carattere concreto
della filosofia femminile, con la sua costante attenzione alle sollecitudini
esistenziali, trova il suo paradigma euristico nel corpo quale luogo - cosmo terra

0
Vedi soprattutto il testo di F. BREZZI, La passione di pensare. Angela da Foligno,
Maddalena de’ Pazzi, Jeanne Guyon, Carocci, Roma 1998 e i suoi saggi: Il Dio Padre delle
donne, in Il fenomeno religioso, G. MURA – R. CIPRIANI (edd.), Urbaniana University Press.,
Roma 2002, pp. 385-399; Donne e religione: sfida e inquietudine. Nel potere della sapienza:
spiritualità femministe in lotta, in Spostando mattoni a mani nude, F. BREZZI – G. PROVIDENTI
(edd.), Franco Angeli, Roma 2003, pp. 63-79; Corpo, donne, religione: un terreno da esplorare,
una matassa da dipanare, in Corpo e religione, G. MURA – R. CIPRIANI (edd.), Città Nuova,
Roma 2009, pp. 339-351.
0
PLUTARCO, De Pythiae oraculis, trad. it. in ID., Dialoghi delfici, Adelphi, Milano 1983, p.
171.
24 Capitolo II

radice - da cui nascere e in cui essere. Nell’offerta della voce quale luogo da
abitare, nel corpo della profetessa al centro del tempio dentro il cuore del mondo,
è in atto un dinamismo o nomadismo verso l’uscita da sé per incontrare l’alterità
dispensatrice di senso. Perché chi abita il proprio corpo non è recluso in alcun
luogo.
In Euripide è proprio Melanippe, una donna, a segnare il passaggio dalla
custodia materna del sapere divino alla ricerca filosofica della verità, seppure
appaia ai più come figura irreale e smarrita proprio come il suo dramma. In
Melanippe he sophe l’eroina volontariamente mette a repentaglio la propria vita
per salvare i figli; in Melanippe he desmotis è invece liberata dalla violenza
paterna grazie al loro amore filiale. Entro lo svolgimento di un dramma perduto
[Nauck, 1889] questa maternità che salva è infine ritradotta in una nuova
Melanippe0prima filosofa, volta a cercare nella cosmologia il principio che è
ordine e dunque senso dell’essere. Ispirandosi ad Anassagora la ritroviamo
intenta a spiegare le differenze tra i vari libelli di esistenza, dall’unicità del
cosmo alla formazione della specie vegetale, animale e infine umana. Dal primo
al secondo dramma il binomio maternità-filosofia si snoda come un pensiero di
cura procedente dall’autorevolezza dell’ordine femminile. Se infatti Melanippe
come madre salva ed è salvata dai figli così pure come filosofa salva la sapienza
oracolare materna volgendola in un sapere che si dà pensiero per la vita. La fonte
Castalia, proprietà purificatrice e mantica dell’acqua - elemento femminino e
materno - continuerà a scorrere nel sottosuolo di Delfi, ai piedi di Apollo Pitio,
quale linfa vitale o latte materno di un pensiero nuovo che avrà nome Filosofia.
Un logos che da subito porterà ferita e subirà la ferita di questo oblio: la nascita e
la maternità mortale, il doppio oscuro che ci in-abita l’anima portata dal corpo,
questo sapiente umile “vaso vuoto” che trabocca di tragica umanità.
Melanippe è allora figura del processo di trasformazione da una concezione
della verità intesa come dono -implicante un luogo o corpo per essere accolto - a
quella propriamente logocentrica che obliando il corpo smarrisce ogni dimora.
Una parola che ormai è divenuta il canto solitario di Orfeo, cieco di fronte a
Euridice e alla scissione di cui è corpo e figura, confondendo l’amore per la
scintilla divina che inabita l’uomo con il rifiuto del mondo o rimozione dell’idea
della nascita. Ma senza la cura per la vita non c’è culto neppure per i morti e
infatti «Senza accostarmi all’urna dei morti/mi guardo dal mangiare/cibi in cui
c’è stata vita»,0 da cui il controcanto di Bacca: «Non sai che farti della morte
Orfeo, e il tuo pensiero è solo morte».0 In una minuta, la prima stesura di Uomini
e dèi poi confluita in Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese fa luce su questo
ostinato e doloroso rifiuto della nascita, del sesso e del sangue: «Ti ripeto che ho
fatto apposta a voltarmi. Ne avevo abbastanza di questi pensieri. E dì pure a
quelle altre che mi vengono dietro che, se potessi voltandomi cacciare anche loro

0
Vedi A. NAUCK, tragico rum Graecorum fragmenta, Lipsia 1882.
0
EURIPIDE, Cretesi, fr. 3.
0
C. PAVESE, L’Inconsolabile, in ID., Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1999, p. 79.
25 Primo inganno: obliare la nascita acquatica

all’inferno, lo farei».0 Il poeta tracio razionalizza nella distanza di un logos ferito


a morte la morte che nutre non Ade ma Euridice, ovvero la vita e l’amata,
l’amore e la volontà di essere ancora: ancora, la reiterazione dell’abisso nel nulla
che Orfeo mai più vuole vedere. E con lei, con il desiderio di lei, abbandona il
mondo nel canto mentre il mondo, ora inasprito e selvaggio, gli risponde con la
violenza del corpo selvaggio: «Purché prima le donne di Tracia… […] purché
non sbranino il dio». E se il destino non è mai solitario, a dispetto del canto di
Orfeo, il suo controcanto risuona ne Il ritorno di Euridice di Gesualdo Bufalino0
quando lei non amata, ormai stanca e sperduta nell’aria sulfurea “come d’un
vapore di marna o di pozzolana”, aspetta di tornare ad Oblio. Poco tempo le resta
per capire e ricordare, che poi è lo stesso, il perché di quel peso tra rabbia e
dolore che con forza e vergogna le stringe lo sterno; il perché di un incontro
beffardo, ostinatamente voluto solo per trasformarsi in addio. Lei era morta, lui
sapeva, il distacco era già dato ma a Orfeo non era bastato il decreto divino
perché lui stesso aveva voluto di nuovo lasciarla - straziandone l’anima -
compiaciuto nel canto di un dolore che suo non fu mai. Poco tempo, ma poco
tempo già basta per rivedere nella memoria quell’uomo da sempre già morto alla
vita, sedotto e ferito da ape, la mortifera Apis di miele.
L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava “Che farò senza
Euridice?”, e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno
specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai
riflettori della ribalta… La barca era tornata ad andare, già l’attracco s’intravedeva fra fiochi
laschi e sporchi di bruma. Le anime stavano zitte, appiccicate fra loro come nottole di caverna.
Non s’udiva altro rumore che il colpo uguale e solenne dei remi nell’acqua. Allora Euridice si
sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo
s’era voltato apposta.0

La sua prima morte, il morso viperino, non era stato altrettanto dolorosa
perché in fondo l’aveva riconsegnata a se stessa, al proprio destino mortale. Al
contrario il canto autoreferenziale di Orfeo dimentico di sé, di Musa e quindi di
madre, di chi hai amato - il tuo doppio: l’anima? il corpo? il femminino
acquatico? - era una lacerazione senza possibilità di cordoglio. Dimentico di
Calliope e deprivato del suo potere poetico Orfeo sostava muto sulle sponde di
Ade: al cospetto di vita, tra le sponde di morte, era la vittima non innocente di un
autoinganno, era di nuovo Zagreo sbranato dai Titani mentre giocava fragilmente
solo, colpevolmente solo, con il mondo riflesso in uno specchio.
La predilezione di Bufalino per la figura retorica dell’ossimoro, per lui che
già nell’ossimorico canto de L’amaro miele scriveva «Io non so nulla di più,/ho il
male della luna,/e non m’aiuta nessuno»,0 è lo sforzo di aderire alla “difficile
gioia” della ricomposizione dialettica tra luce e ombra, vita e morte. Questa
Euridice dolorosa e sapiente che rivive nel suo ludico esercizio di scrittura tragica
0
Ivi, cfr. nota L’Inconsolabile (30 marzo-3 aprile 1946), p. 181.
0
G. BUFALINO, Il ritorno di Euridice, in Opere 1981-1988, Milano 1992.
0
Ivi, pp. 128-129.
0
Ivi, p. 761.
26 Capitolo II

si congiungerà ad Orfeo nel racconto L’uomo invaso, successivo a livello


editoriale pure offrendone il titolo alla raccolta del 1986. Figura e fantasma della
memoria, in senso aristotelico0, questa donna-ombra di morte e di amore è
strappata all’oblio di chi è assente - l’assente è Orfeo straripante di orgoglio per
sé - per incontrarsi nel dialogo con un uomo senza nome o dall’oscuro nome di
“invaso”. È la forza rigenerativa della scrittura di Bufalino che sa trarre figure
dalla letteratura riportandole ad essere, “Riessere”, come in Cere perse del 1985,
perché «riconosciamolo, si scrive specialmente per essere ricordati e per
ricordare, per vincere entro di sé l’amnesia, il buco grigio del tempo». 0 E per
trarre dalla memoria ogni frammento di vita qui custodito ma anche sepolto, più
il poeta-vate ricorda più si appresta a morire, Euridice ritorna come ferita di un
uomo invaso, stravolto nella forma di un serafino - l’angelo, mediatore e guida -
infuocato da fiamma divina. Nella febbre delirante di chi più non si riconosce a
se stesso, ora il logos è ferito, alla domanda confusa di Euridice nei versi di Rilke
«Chi si è voltato?»0 quest’uomo risponde: «Uno straniero m’ha invaso, d’ora in
avanti “io” chissà chi è». 0 Nell’ossimoro, o condizione esistenziale, la ferita ha
aperto un solco sacro in cui inabissarsi perdendosi per ritrovarsi altro-da-sé,
inaugurazione e tremore per una nuova nascita. Chi era stata quest’uomo prima
di scivolare-ascendere in quella bizzarra esperienza acquatica, o fatuo incidente
di doccia come gli rinfaccia la pratica Amalia, è la storia o memoria della sua
famiglia a rivelarlo: «Siamo sempre stati tutti o spettatori o musicanti o
cantanti».0 Un Orfeo che tornato dall’Opera ritorna al volo del cigno, o logos
socratico nell’ora in cui si appresta a morire, in quelle ulcerazioni dolorose
comparse dietro agli omeri, presagio di un parto d’ali da cui «sarebbe
germogliato nell’aria un folto piumaggio d’uccello».0 Amalia è distante, né si
fende come terra né si inabissa come radice che nutre elevando lo stelo; non
accompagna, né precede né segue, ma si ritrae di fronte al suo abisso: «Nel mio
corpo s’era introdotto uno squilibrio di cui non riuscivo a calmare le
oscillazioni»0. Soffrendo oscillare tra due gelide fonti, incresparsi come ombra
nebbiosa di Stige fino alle “case” del Neurodeliri hanno per noi il sapore di
parole mai dette a Euridice:
Sono un angelo e sia, su questo non ci piove. Ma un angelo che nasce o rinasce? Patisco
una metamorfosi o un’intrusione? È un ospite sconosciuto, costui che alloggia nelle mie
membra, o in esse si risveglia un battesimo antico e dimenticato? 0

Nel racconto che segue, appunto Il ritorno di Euridice, lo scrittore ci


consegnerà un Orfeo distante tanto quanto Amalia lo è qui dal suo uomo-angelo
consegnato all’oblio di “calmanti soavi da sciogliere nell’acqua”. Ma in questo
0
Cfr. ARISTOTELE
0
BUFALINO, p. 823.
0
M. R. RAINER, cit.,
0
BUFALINO, p. 404.
0
ID., p. 404.
0
Ivi, p. 405.
0
Ivi, p. 405.
0
Ivi., p. 407.
27 Primo inganno: obliare la nascita acquatica

incrocio e ribaltamento narrativo, tra il volo di un invaso e la catabasi di


un’abbandonata, l’autocomprensione finale del primo precede e raggiunge
l’oscuro mistero di lei che ricurva e pensosa
si guardò i piedi, le facevano male. Se mai possa far male quel poco d’aria di cui son fatte
le ombre. Non era delusione, la sua, bensì solo un quieto, rassegnato rammarico. In fondo non
aveva mai creduto sul serio di poterne venire fuori. Già l’ingresso - un cul di sacco a senso
unico, un pozzo dalle pareti di ferro - le era parso decisivo. La morte era questo, né più né
meno, e, precipitandosi dentro, nell’attimo stesso che s’era aggricciata d’orrore sotto il dente
dello scorpione, aveva saputo ch’era per empre, e che stava nascendo di nuovo, ma alla tenebra
e per sempre.0

Le fa eco il tatatùm tatatùm di Voci di pianto da un lettino di Sleeping-


care, in quella voce ora sommessa ora indignata «Signore, fammi dormire.
Oppure fammi morire […] Signore, mi fa male la vita. come una carie, un
trigemino. E cerco dove posso tamponi, etere, bende […] Signore, aiutami. Fra
una fermata o due ci lasciamo… Signore, Signore…» 0 È il breve racconto che
chiude la raccolta delle “fantamemorie” di Bufalino e che pure ritorna e si
annoda, ferendo al modo dell’ossimoro, a quell’uomo invaso che intuì di essere
inabitato da un essere mai nato. In questa autocomprensione finale, che per noi è
il controcanto di Orfeo finalmente riconsegnato a se stesso, il doppio è riassorbito
nella consapevolezza che obliare la nascita è cosa più amara e fatale che piangere
la morte. «Deve trattarsi d’una creatura abortita, che s’aiuta come può a non
morire, e succhia i miei succhi umani, usurpa i miei ricordi, per questo: per non
morire. Dovrò abituarmi a viverci insieme. Da nemico e da amico. Frenandolo e
aiutandolo, secondo il caso. Addomesticandolo». 0 Dalle “case di Ade” alla casa
dei ricordi, ovvero a quella memoria in cui dimorare per fondare simbolicamente
la nascita: qui la selvaggia Agriope, o il demone dell’invaso, ridiventa domina di
sé, riabbracciata dall’anima che più non fugge verso un lontano Cielo stellante
perché ora ha il tepore umido dei profumi di Greve. Ma prima bisogna lasciarsi
invasare dalla morte. Non più anelare alla morte per rinascere immortali,
piuttosto morire almeno una volta per rinascere dall’Ade dei nostri sepolcri
interiori che smarriscono l’anima deturpandone il corpo.
Si ha sempre bisogno di una morte, di una morte almeno, per rifondare
simbolicamente la nascita; c’è bisogno di interrarsi nel buio profondo di una
grotta per tutto il tempo del sonno di Epimenide per rinascere non solo profeta
ma anche nel tempo disteso sul limitare dell’eterno. Perché la terra-sepolcro si
impasta e si amalgama con la fibra più esile del nostro essere vivi, per noi
prostrati nel perenne soffrire del vivere che ferisce a ogni istante tra memoria
dell’assente, vertigine del vuoto e inconsolabile disillusione dell’attesa. Per noi
che portiamo la voce dell’ombra, il “non ancora” ricurvo in “mai più”, c’è
bisogno almeno di un inabissamento, una catabasi, per seppellire e snodare
queste radici tremanti in zolle pesanti e corpose che sappiano contenerle, placarle
0
Ivi, p. 412.
0
Ivi, pp. 554-555.
0
Ivi, pp. 409-410.
28 Capitolo II

e dunque nutrirle. Abbiamo bisogno di incontrare Epimenide, di approdare e


morire a Creta impastata di vento e di mare per patire con voce in ombra questa
necessaria morte iniziatica che, intuizione profonda dei Greci, è l’assoluto
tramonto di ieri. Nel lungo sonno festio il distacco caro ai filosofi e l’amato
silenzio dei poeti si traducono in una snervante solitudine muta, all’ombra della
voce, limbo affollato da antiche fobie. Anelato dalla memoria ossessiva dei
morti, dal loro cupo presagio che vorrebbe essere cura, esso trasuda dal corpo
come ferita dell’anima, come profumo del mirto che non hai colto nel sapore
aspro del pianto. Perché qui finalmente tu hai pianto, e più e più volte, ricordando
l’amore perduto nei suoi opachi occhi di stagno; qui tu hai pianto sconvolta
selvaggia arresa all’esilio da quei gelidi occhi di stagno. Bisogna pur morire
almeno una volta, senza voltarsi subito indietro al modo di Orfeo, senza
dissolvere i fantasmi prima di averli abbracciati tutti nell’ombra nebbiosa di Ade,
la nostra invisibile anima insepolta. Lì molto a lungo hai pregato, insultato,
dormito e sradicato radici; ti faceva compagnia la cima di un bianco cipresso
sempre scosso dal vento. Epimenide, katharsis di infiniti addii al passato.
Eppoi.
Rinascere dalle lacrime, da quest’acqua che scorre nell’anima scossa da un
vento che è prima ferita, primo respiro che inaugura il necessario distacco dal
simbiotico acquatico, serbare lo stridio degli uccelli rinunciando alla violenza di
sventrarne il mistero. Chi emerge dal buio di una grotta sotterranea, chi come
Epimenide muore nel grembo cavernoso della terra, si risveglia poi alla
consapevolezza di non avere dormito una vita ma vissuto un passaggio. Che il
vivere sia iniziazione misterica all’intimità col divino che è in noi è il dono del
“risveglio” di Epimenide, di quel mistero che è riposto nelle interiora degli esseri
alati soltanto per gli uomini che, disdegnando il patire, fuggono col patire anche
la vita.
Non era confuso ma sapiente Epimenide quando riprese, a ritroso, il
cammino come se non fossero già trascorsi degli anni: chi si inabissa nella morte
e rinasce prosegue per l’antica via perché grato a questa via per averlo ricondotto
a sé. Ma il sonno ha per noi mortali il sapore amaro della fine, della
consumazione fugace di quel poco che ci è dato da vivere; se invece morissimo
tutti almeno una volta non ci stupiremmo di perderci per ritrovarci sempre diversi
lungo la “sacra via” che a ognuno vien data. Non idolatreremmo come dèi coloro
che compiono, portano a compimento per dischiudersi ancora nel nuovo, questo
percorso al ritmo della mousikè o filosofia del respiro. Al suo ritorno Epimenide
non fu riconosciuto dai sempre-uguali insonni; soltanto il “nuovo” - il fratello più
giovane - gli fu accanto come vate tra guida e memoria. Scrive infatti Diogene
Laertio che
costui, una volta, spedito in campagna da suo padre in cerca di una pecora, dopo aver
deviato dal cammino verso mezzogiorno, si addormentò in una grotta e dormì per cinquantasette
anni. Ebbene, risvegliatosi dopo questi anni, continuò per un pezzo a cercare la pecora, convinto
di avere dormito per poco tempo. Siccome, però, non riusciva a trovarla, ritornò nel podere e,
29 Primo inganno: obliare la nascita acquatica

avendo trovato tutto quanto mutato e in possesso di un altro, giunse di nuovo in città, nella
massima incertezza. E lì, entrando a casa sua, si imbattè in persone che gli domandavano chi
fosse, finché, trovato il suo fratello più giovane, che allora era ormai vecchio, apprese da lui
tutta la verità. Una volta riconosciuto, poi, fu considerato dai Greci sommamente caro agli dèi. 0

E dunque.
Seppure i morti non ascoltino più alcun suono né ritrovino nella voce la
presenza di chi pure è accanto, o anche solo lontano, obliandone presenza e
memoria… seppure l’orfismo conosca solo lo sguardo e gli occhi dei morti siano
chiusi… seppure. Gli occhi degli iniziati discernono il passato, l’archè,
nell’invisibile Ade (id, radice presente e negata in Aides) perché da sempre volti-
all’indietro, come lo sguardo di Orfeo su Euridice dopo averla incontrata nel
fango gremito di ombre. Come Epimenide che vaticinava sugli oscuri eventi
passati dopo avere vissuto molti anni come morto, sepolto nella grotta di Zeus
Ditteo dormendo un lungo e iniziatico sonno o tagliando “radici” di cipolla e
asfodelo (la pianta collegata alla morte), equivalenti nella funzione purificatrice 0.
La vita sradicata nella morte iniziatica lo aveva reso caro agli dèi,
sapiente nelle cose divine e nella scienza relativa alle ispirazioni e alle iniziazioni
misteriche […] rese gli Ateniesi ben disposti ai riti sacri e più moderati nel lutto, unendo da
subito determinate offerte sacrificali con le cerimonie funebri, ed eliminando la durezza e il
carattere barbaro che era prima tipico nella maggioranza delle donne. 0

Tale moderazione nel lutto fa pensare a una riformulazione del planctus, da


sempre prerogativa femminile per l’analogia tra grembo materno e culla-tomba,
entro un ambito che non ritualizza più il pianto per allontanare il ritorno del
morto-vivente ma che si volge-indietro verso il mistero dell’anima. Un vivo-
sepolto che apprende dal viaggio onirico la scienza mantica (il sonno è la sua
guida sulle onde di Stige, che lui crede figlia di Oceano), e che di Delfi omphalos
del mondo ne mantiene oscuro il senso.
Più in là nel tempo Epimenide di Festo, quando volle aver conferma del
mito presso il dio, e ricevuto un oracolo poco chiaro e ambiguo, disse: “Né della
terra nel centro esiste un ombelico, né del mare, e, se uno ne esiste, è noto solo
agli dèi; ai mortali, invece, resta oscuro”». 0 Dormire per il tempo di una vita e
soltanto dopo volgersi-indietro, volgersi oltre, per conoscere il passato precluso
agli insonni viventi è diventare ciechi proprio come i mystai. È guidare questi
vivi sepolti in se stessi che compiono il viaggio iniziatico imitando i morti,
chiudendo gli occhi e la bocca, perché morti alla vita vinti dalla struggente
nostalgia di un altrove. Orfeo è ancora muto nell’Ade, volgendosi-indietro
Euridice si dissolve davanti ai suoi occhi ormai chiusi perché il volto dei morti
non può essere visto dai vivi, e finalmente in questa profondità l’amore è
0
DIOGENE LAERTIO, I 109-110.
0
Vedi PLATONE, Legg., I p. 642 D 3 A 5; ARISTOTELE, Rhet., 17 1418 a 21; TEOFRASTO,
Historia plantarum, VII 12, 1 3 A 6.
0
ARISTOTELE, Atheniensium respublica, 1 3 A 4.
0
PLUTARCO, De def. orac., 1 p. 409 E.
30 Capitolo II

compiuto. Perché lei gli vive nel corpo che fa ombra, donando frescura e riposo,
alla sua anima stanca.
Ma volgersi-indietro è carpire l’odore, il profumo di Greve in Cielo
Stellante.
Solo i morti non ascoltano più alcun suono, né ritrovano nella voce la
presenza di chi è pure è stato accanto, o anche solo lontano, obliando la presenza
e la sua memoria: l’orfismo conosce solo lo sguardo e gli occhi dei morti sono
chiusi. Eppure.
La donna sepolta alla vita, nella necropoli di Hipponion, di Euridice che
pure è sorella non sente neanche il profumo delle rose (rhòdos da rteumates
odòdes) sfogliate sul corpo - ogni corpo - che discende nell’Ade. Perché il
profumo è il soffio di Afrodite, della vita che seduce e che piange con fiumi di
lacrime (la memoria acquatica) e di sangue (purpurea: il colore cangiante della
sola luce che è vita fluente) la ferita della morte. La dottrina orfica del vivere-
ricordando per anelare alla morte e dimenticando-la-nascita per fuggire alla vita,
al contrario, è metamorfizzarsi nel fiore rosso di Adone che, figura della vita
ferita dall’inconcludenza, mai fruttificherà come il melograno né profumerà
come la rosa cui pure somiglia. Sfogliare la rosa funerea è invece sfogliarsi nel
pianto che accompagna ogni sepoltura; è riconsegnare a questo fiore del sepolcro
la dignità della vita piangendo la morte; è infine ritrovare nel thrènos di Euridice
la cura per la ferita nel logos.
Quando Socrate si apprestava a morire, nel suo “complesso di purezza del
cigno” al cospetto di Apollo, la pizia che gli aveva indicato il destino non gli era
distante e al suo cospetto e dispetto tremava. Pregava, piangeva lei che gli aveva
ceduto la divina follia in quella religiosa maieutica trafitta da Apollo, morendo a
se stessa , il suo daimon oscuro e materno. Piangeva lei che ben conosceva il
morire perché il passaggio, o travaglio di parto, da aletheia come dono divino
accolto nel grembo alla sua laicizzazione nel logos era stata per lei una ferita
mortale. E lei, la profetessa, lo piangeva nella carne febbricitante della mistica
possessione, l’unica forma che potesse conoscere, accettando nel cordoglio di
questo pianto antico l’ananke di dover morire per generare il “nuovo”, quel figlio
che ora voleva librarsi nell’aria come un cigno mai nato. A quel figlio, a quel
nuovo che puro e distante anelava al morire, offriva nel silenzio un rametto di
mirto; e a lui chiedeva invano una rosa sfogliata per la propria morte, avvenuta di
parto come nell’antica forma del morire delle donne. Una rosa disattesa, questo
fiore che anela alla perfezione del cerchio senza mai iscriversi in esso e che pure
contiene la figura del cerchio in una maternità cangiante, purpurea, imperfetta
perché “profumo” – rhòdos - di una maternità mortale.
Non dovrebbe esserci sepolcro per Euridice né sepoltura né thrènos per
Orfeo che li disdegna nel gioco ingannevole della lira; eppure, sgraziato come
deve essere un planctus, il rimpianto di non avere vissuto lacera per voce di
31 Primo inganno: obliare la nascita acquatica

donna l’abisso oscuro di Ade. E questo canto ha un profumo, due profumi:


dissonanza di vita e di morte. Il lamento di Euridice, nella cui fruizione si fonda
l’ospitalità del mondo contro la sua opacità, ha il profumo del mirto che lamenta
la morte perché ama la vita, lei che da sempre è signora di entrambe. Esuberanza
della corporeità, questa pianta Euridice-Afrodite, il doppio luminoso del
complesso di Ofelia sedotta dalle acque, etimologicamente sta infatti per
profumo, senso immediato ed evanescente quanto la passione del “patire il
pensiero” da cui fugge Orfeo. È il canto per ciò che muta, il cangiante e dunque
luminoso che per i Greci aveva il colore del sangue, del purpureo, che inerisce a
un olfatto cromatico. Immaginazione materiale e via cognitiva, estetica, che
recupera e fonda il valore del tempo attraverso la sua esperienza olfattiva quale
memoriale di senso, contro l’idea di uno spazio da dominare (la memoria di
Antigone/ il regno di Creonte). Nel pensiero greco il mirto è infatti la pianta di
Afrodite la cui essenza è il desiderio che è appunto un richiamo proveniente
dall’altro/alto, inspiegabile e misterioso, che ci afferra oltre da noi per
riconsegnarci alla trascendenza. Fu così la sua nascita, quando giunse a noi dalle
acque trasportata da una conchiglia che è un’onda marina (l’informe originario)
da cui trasse bellissima forma. E sulla terra, ad accoglierla, vi era l’odoroso
mirto. Nata dalla spuma è signora della kalche, la purpurea passione femminile di
Antigone, ma approdata sull’isola di Pafo, sorella terrestre delle stelle, quando i
suoi piedi sfiorano la sabbia questa si schiude in fiori e non frutti. Non si tratta
qui dell’inconcludenza di Adone, che pure amerà, ma della sovranità del tempo
come eterno ritorno in cui morte e vita si intrecciano come rami di alberi attigui e
nodosi; per questo lei è signora di vita e di morte. I fiori che nascono ai suoi
piedi sono l’essenza del desiderio che ci coglie da altrove, ebbri e riarsi come nel
lamento d’amore per il corpo sbranato di Adone, come nel mito egizio di Iside
che piange lo sposo Osiride. Poiché il loro profumo è intenso si volge al senso
diretto dell’olfatto e non mediato della vista; diretto alla nascita di tutte le cose
che sono, fino alla danza selvaggia di Eurinome sulle acque, la dea universale
pre-ellenica che pure sopravvive, ferita e feritrice, in Orfeo. E che ancora
raggiunge Ishtar, la stella palestinese che ritroviamo in Esther, Adassa la
“nascosta”, che dal chaos emerse danzando sul mare (la danza ebraica con il
lulav) seducendo Borea, a sé-conducendolo. Il mondo è inaugurato da un mito
fluttuante che ha il ritmo di una danza acquatica, la corposità della spuma marina
e il profumo inebriante e aspro, vitalizzante e mortifero, del desiderio del mirto.
C’è un filo d’argento, il metallo lunare della dea Madre, a unirle: Eurinome
depone l’uovo cosmico nelle sembianze di una colomba e Afrodite è detta figlia
di Dione, signora della quercia oracolare su cui nidificano le colombe in amore.
E queste, come i passeri, rappresentano la lussuria proprio come i frutti di mare
sono ritenuti afrodisiaci: ecco Afrodite, che è in sé l’antica dea della vita, legata
agli oracoli della Madre-terra. O forse anche figlia di Teti (dea del mare
soprattutto dal verbo tithenai “ordinare”, “creare”) come riporta Omero in Iliade
XIV, 201: «Tutti gli dèi e i viventi nacquero dal fiume Oceano che scorre attorno
al mondo e Teti fu la madre di tutti i suoi figli». Questa dea non seduce per la sua
32 Capitolo II

avvenenza, è piuttosto la sua cintura a donarle il potere di attrarre ogni figlio di


Terra e di Cielo, e persino il re del Cielo che è Zeus, perché non potrebbe sedurre
senza un misterioso “altro da sé” che la sovrasta. La bellezza non basta perché si
espande e dissolve nello spazio, al contrario il suo profumo - il mistero nascosto
che viene da altrove - è in quel tempo nascosto che erompe propulsivo verso il
mondo. A lei è preclusa l’arte del telaio, lei che ha come simbolo la rete che di
bronzo la costruì per vendetta Efesto, geloso di Ares; in lei si nasconde Calypso
che intesse su spole d’oro un amore senza possesso, senza inganno di reti,
dischiudendo da sé la via verso il mare quando lui, l’amato, non vorrà più viverle
accanto. È per questo che la bella ninfa, l’unica sposa obliata da Omero (nunfe =
sposa) potrà sopravvivere alla passione d’amore; sarà la Musa ispiratrice delle
Preziose del Seicento, di Madeleine de Scudéry che recingerà a Ogigia quella
Carte de Tendre di Clélie che è amore senza “Dimenticanza né Indifferenza”.
Entrambe lontane sia da Fedra distrutta da un amore dionisiaco sia da Ippolito, il
suo doppio, chiuso alla seduzione di Afrodite cui infatti non regalerà mai una
corona di mirto. Perché si può sopravvivere, non fuggire, alla passione d’amore
se la nascita urania è un cielo inondato (la generazione acquatica) di stelle,
quando il desiderio è ricondotto al suo senso stellare che strappa il cielo al buio
ma non alla Notte che ne è il sacro mistero. Allora, al di qua di Cielo stellato o al
di là di Morte di Greve, si può sentire nel profumo del mirto e della rosa il
respiro del nascere e del morire entro una simbologia fortemente legata al
piacere, alla seduzione e al femmineo lunare che da sempre si prende cura della
terra, del suo tempo che è vita molle e umida di odorose zolle di fango.
Cosa sono infatti i profumi di Greve se non le stelle lucenti nel Cielo?
L’odore della pelle, il segno stellare unico e inconfondibile del nostro corpo, è
una trascendenza che non conosce il ferire perché ci riporta all’origine urania per
il modo diretto dell’olfatto, del senso più vitale perché fatto di respiro ovvero di
vita. Il dramma di Jean-Baptiste Grenouille di non possedere un proprio odore,
un odore che lo individui come essere corporeo, nel romanzo Il profumodi
Patrick Süskind0, non a caso si snoda come un’odissea violenta alla ricerca di sé,
di quel segno uranio di essere stella in un cielo senza buio. È infatti violenta e
tenebrosa l’agonia di chi non ritrovi in sé la propria natura e che per questo si
sdoppia cercandosi in una idea - di cui è segno l’odore - di una umanità da
sempre negata e quindi per sempre sventrata. La pelle scuoiata delle sue vittime è
infatti la lacerazione di un grembo che mai fu materno, né fu materna la
processione delle sue nutrici, che lo ricondurrà a morire dove e come era nato,
stordito e obliato nel “fugace regno degli odori”. Violenta la nascita e violenta la
sua rimozione, fino all’esito fatale di trovarsi riconsegnato a un destino che
scinde - il corpo scuoiato della tartaruga perché risuoni la lira di Orfeo - ferendo
come un coltello che non apre il parto ma lo sventra. Lui è l’uomo innocente
perché gli fu negato di essere uomo, perché dall’innocente desiderio di poterlo
0
P. SÜSKIND, Il profumo, trad. it., TEA, Milano 1985. Il romanzo ha ispirato anche
l’ambito musicale (Scentless Apprentice dei Niravana e Du riechst so gut dei Rammstein) e quello
cinematografico di Tom Tykwer.
33 Primo inganno: obliare la nascita acquatica

divenire nacque nel Cimitero degli Innocenti e, ormai carnefice Bacco, sbranato
da uomini vi fece ritorno.
La calura pesava come piombo sul cimitero e spingeva i miasmi della putrefazione, un
misto di meloni marci e di corno bruciato, nei vicoli circostanti. La madre di Grenouille, quando
le presero le doglie, si trovava all’esterno di un bugigattolo di pescivendolo in Rue aux Fers e
stava squamando dei pesci bianchi che aveva appena sventrato. I pesci, pescati presumibilmente
nella Senna la mattina stessa, puzzavano già tanto che il loro odore copriva l’odore dei cadaveri
[…] E quando cominciarono le doglie, si accucciò sotto il banco da macello e partorì là, come
le quattro volte precedenti, e con il coltello da pescivendolo troncò il cordone ombelicale alla
cosa appena nata. Ma subito dopo, a causa della calura e del puzzo […] perse i sensi, si rovesciò
su un fianco, scivolò da sotto il banco in mezzo alla strada e là giacque, con il coltello in mano. 0

È questa la nascita: una “cosa” accanto al cimitero dissepolto, nel fetore che
si riversa sul corpo e nel sangue malato di una donna che non vuole mettere al
mondo quell’ennesimo figlio che, lei pensa, come gli altri non le potrà
sopravvivere. Ma per chi nasce da morte, da colpa titanica e non da umile corpo
di sangue sano e odoroso di vita, alla morte ritorna dopo un travaglio molto più
lungo, estenuante e stordente come l’odore pesante e dolciastro di gelsomini già
marci. È struggente il destino di chi invano anela ad essere chi mai fu: Jean-
Baptiste Grenouille non ha un corpo pur desiderandolo con la ferocia dei
disperati; Orfeo ferisce il corpo a morte desiderando essere un anemone inodore.
Chi tra i due fu sbranato per primo lo sanno gli dèi.

3
5

0
Ivi, pp. 10-11.
CAPITOLO III

PAROLE IN CENERE

«Di Mnemosine è questo sepolcro»


«A Mnemosyne è sacro questo (dettato)»
Nella necropoli di Hipponion, tra la fine del V o inizio del IV secolo
a.C., custodita nell’intimità buia di una tomba viene sepolta una donna
avvinta e sedotta dal canto di Orfeo inciso su lamina d’oro. È la sua fede,
il suo ornamento più caro, nell’origine urania che le risplende nell’anima
e che la condurrà, lei che è stata mystes, a trovare la beata dimora in un
incedere eterno e leggero lungo la ‘via sacra’. È per sempre questa celeste
ulteriorità che è tutta un andare e tale per-sempre lei lo nasconde ripiegato
quattro volte su se stesso nel proprio cuore, desiderio escatologico e soffio
del suo ultimo respiro. Lei che ora intraprende l’estremo viaggio, lei che
da ben altro peregrinare ora è sciolta, forse non vuole approdare ai boschi
e ai sacri prati dell’Elysion né rallegrarsi per aver sofferto il patimento né
desiderare la corona per aver superato dolorose prove. Lei che si appresta
a morire non invoca Euklès o Eubuléus o Dionysos o Pluton e forse non
spera di immergersi nel grembo oscuro ma caldo di Persephone, Signora
degli inferi. La sua religione forse non l’ha inoltrata ai misteri eleusini: la
mousiké pitagorica dovrebbe essere stata la sua via, il suo nutrimento del
logos e dell’anima immortale, e per guida dovrebbe avere avuto il volto
austero della dea Mnemosyne. Da questo sepolcro (ηríon = tomba) si
schiuderebbe la prima -iniziatica- parola nella formula rituale dello ieròs
lógos che è sigillo, per Pugliese Carratelli0 ma non per Colli0, di
un’elaborazione orfico-pitagorica che ritorna in Platone ed è propria dei
testi mnemosynii. Forse. Certo è che questa ‘sacra parola’ viene da e
contro un sepolcro che in eterno nasconde (occulta, sottrae alla vita) il
0
G. PUGLIESE CARRATELLI, Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni per il viaggio
oltremondano degli iniziati greci, Adelphi, Milano 2001, pp. 17-29 e 39-97. Per uno studio di
questa laminetta, di tutte la più antica, cfr. dello stesso Autore: G. FOTI- G. PUGLIESE CARRATELLI,
Un sepolcro di Hipponion e un nuovo testo orfico, in «PdP», XXIX, 1974, pp. 91-107; G.
PUGLIESE CARRATELLI, Sulla lamina orfica di Hipponion, in «PdP», XXX, 1975, pp. 226-231;
ID., Ancora sulla lamina orfica di Hipponion, in «PdP», XXXI, 1976, pp. 458-466; Id., L’orfismo
in Magna Grecia: Magna Grecia, III: Vita religiosa e cultura letteraria, filosofica e scientifica,
Milano 1988, pp. 159-170.
0
G. COLLI, La sapienza greca, vol. 1, 2° ed., Adelphi, Milano 1978, nota alla laminetta 4
[A 62] in cui l’Autore prende le distanze da G. Pugliese Carratelli: «Che all’origine di questa e di
altre laminette vada presupposta un’elaborazione pitagorica, è un’altra tesi di Pugliese Carratelli
che non condivido. Gli argomenti da lui addotti (143-144), cioè il sostrato orfico-pitagorico di
alcuni passi di Platone e il carattere libresco dell’orfismo testimoniato da Euripide e Platone, non
sono decisivi perché si riferiscono a un’epoca -seconda metà del quinto secolo- in cui l’orfismo
subì una radicale trasformazione (…) », p. 400.
corpo-sepolcro di una donna cara a Mnemosyne, a lei cara perché iniziata
dai misteri, non cara altrimenti perché la dea non ama che sé. L’inganno di
Orfeo è proprio qui: il doppio di Memoria è Lethe, l’oblio della presenza
che è noi stessi al cospetto dell’altro, occultata dall’invidia degli dèi greci
che chiedono onore disdegnando l’amore. La prima parola è un inganno
della memoria: la prima ferita è nell’anima.
La prima parola orfica è dunque il canto tradotto in segno -sema-
(l’incisione sulla laminetta è una scrittura) sul corpo -soma- di un vivente
che da subito, dalla rimozione della nascita, volse le spalle alla vita. Per
dirlo con Hélène Cixous «c’è bisogno di una morte(a) per cominciare0»;
eppure questa ‘nascita’ che proviene da morte ha in sé una complessità
che va ben oltre la semplice opposizione terra/cielo in cui sembra irretirsi
il logos quando, ferito, ferisce l’oscuro mistero dell’essere-viventi. Se per
il mito antropogonico di Zagreo noi nasciamo dai Titani, in realtà fu la
loro hybris che inerisce all’anima (perché il corpo ha fame di carne, lo
spirito di carne divina) a essere stata folgorata da Zeus. Con la loro morte,
che in realtà è la punizione della colpa di un’anima non umana e quindi
ancora non nostra, il male sembra sconfitto -controcanto dell’espiazione
misterica- proprio attraverso la comparsa dell’uomo. Di fatto non
nasciamo da un atto divino d’amore ma dalla violenta riaffermazione di un
oscuro divino potere generativo -potere di far ri-nascere- procedendo dal
pasto di un cuore divino. Athena, che è l’aspetto divino femminile di Zeus
o quello maschile del femmineo umano, sottrae infatti ai Titani il cuore di
Dioniso, il bambino smembrato da quella fame analitica del dividere che è
propria del logos, per consegnarlo al padre che lo aveva generato con
Persefone, la prima madre. E Zeus famelico, proprio come i Titani, lo
mangia ma contro gli stessi lo fa in senso materno-generativo perché,
unitosi a Semele, diede vita al nuovo Dioniso. E questo dio nuovamente
generato, partorito due volte e ora per grembo di donna, non potrà non
essere l’aspetto femminile del divino opposto alla sorella Athena che,
nascendo dal cranio di Zeus, ne rappresenta quello maschile. Nello
svolgimento di questo mito, elaborato a Creta se Zagreo è il Dioniso
cretese la cui morte e rinascita è un elemento preolimpico dei numi del
mondo egeo, di questo cuore divino a noi umani non fu mai fatto dono. Il
cuore significa discernimento e conoscenza della verità, infatti per
accedere ad Aletheia abbiamo bisogno di Mnemosyne, sua stretta ma
oscura compagna, madre delle Muse che ci sottrae all’oblio (Lethe come
antitesi di verità) legato alle rincarnazioni per ricordarci la nostra origine
urania. Ma è davvero amica degli uomini questa dea che ci sottrae al
desiderio di vivere ancora? perché in fondo noi nasciamo per espiare una
colpa non nostra, e questo Mnemosyne evita accuratamente di
ricordarcelo. “Ricordati di te morendo a te stessa” è piuttosto il canto
oscuro di Orfeo a Euridice che invece lo aspetta nell’Ade, qui risospinta
0
H. CIXOUS, Tre passi sulla scala della scrittura, trad. it., Bulzoni, Roma 2002, pp. 33-46.
37 Parole in cenere

dal suo amore disincarnato eppure a suo modo straziante, perché anche
Euridice è il doppio femminile di Orfeo sepolto in un tumulo come la
donna a Hipponion per tornare figlia di Cielo stellante. A noi umani si
apre un abisso in questo non detto e non ricordato, l’abisso di poter abitare
soltanto o sprofondati sotto la terra o innalzati vertiginosamente al di
sopra, responsabili solo rispetto al ‘dopo’ fondato dal mito che per noi è
l’inizio della temporalità: vivere in modo conforme ai decreti divini. Ma
vivere ‘dove’?
L’abisso della ferita tra cielo e terra ci sottrae a ogni luogo-dimora
in cui davvero poter abitare; persino Demetra diventa insidiosa nella
dirompente bellezza della natura quando lei, la dea, profuma di fiori e di
frutti nel sole di maggio. Una vertigine che diviene anche trascendenza in
questa polarità che disdegna la nascita quando la mano, ora sì, a suo modo
pietosa e amorevole di Orfeo, ci dischiude questa vita come viaggio
iniziatico verso una vita che più non conosca dolore. Quando ci ricorda
nel canto pietoso che per noi essere è tutto un andare oltre se stessi -ma al
di qua di hybris-, un andare soave come la “sacra via” che è dimora
proprio nel non esserlo, lontana dai Campi eleusini, dal soggiorno beato e
persino dallo stato divino cui non è detto che mai approderemo. Ma questa
è davvero una pietas tutta greca dove l’amore e il rispetto per gli dèi
chiede il sangue -che è la vita- degli uomini non a caso detti mortali (ma
non è disdicevole per gli dèi abbeverarsi di sangue sacrificale come
fossero anche loro anime riarse, abbandonate nell’Ade?). Non può esserci
alcuna interpretazione sentimentale del mito del cantore tracio che non
riuscì a non guardare il volto amato della sua sposa: Orfeo è solo, Euridice
è sola, la coppia è scissa perché è distrutta la polarità Orfeo-Euridice che
oltrepassa ogni definizione di maschile/femminile. Orfeo è stanco perché
immane è lo sforzo per abitare il cielo senza poterlo mai abitare davvero;
il suo canto ferito, che ancor più lo ferisce, non riconosce neanche un
minimo valore a quel corpo -ovvero non lo fruisce- che pure lo aiuta ad
andare. Quel corpo-Euridice che non ha colpa e che mai è appartenuto alla
terra (siamo cenere, non zolle umide di vita) e che pure si offre, si lascia
immolare per indicargli una via che infine lo annulla, lo solca senza
seminarlo. Con Orfeo il logos è solo, vede e pensa (eidolos ed eidolon0) al
suo doppio senza incontrarlo davvero, senza mai ricongiungersi a esso, a
se stesso: Orfeo esce da Ade stravolto e infine sbranato come Dioniso ma
senza aver riportato, al contrario di Dioniso, l’amata Semele; Euridice è
risospinta giù in basso, corpo abbandonato e mai sepolto. Da questo
sepolcro vivente che è il corpo si spalanca l’urlo -il controcanto
dell’anima di Orfeo- per una ferita mortale che porta il segno di Apollo
l’oscuro, che come all’inizio dell’Iliade colpisce da lontano trafiggendo
nel profondo. Ma trafigge chi? un soffio di bianca cenere, esiguo come il

0
Cfr. Cassirer.
38 Capitolo IV

filum delle Parche, come le corde della lira di Orfeo, come il tessuto del
controcanto di Euridice che è filus e filum di un incenso votivo, umile
offerta di sé nella forza della resa che solo il corpo conosce. Perché questo
fragile corpo di cenere non svilisce ma è il sacro mistero della vita, è
l’omphalos di Delfi o bianco simulacro della dea Madre che alimentava il
focolare nel grembo oscuro di una grotta, un pugno di cenere sulla brace
per custodirne in eterno il fuoco. Poi sarà il tumulo della bambola del
grano che risorge a ogni primavera, o il letto di bianco quarzo o conchiglie
marine sulle tombe dei re: il nostro primo mistero è la vita che precede la
nascita; la nostra prima paura è la necessità della morte per ri-nascere a
quella vita che precede ogni vita; la nostra morte senza riscatto violare -
profanare- questo mistero.
Nati da cenere la prima parola è morte, lamento per i defunti che
saranno cremati e in cenere dovranno tornare per avere un pugno di sabbia
da abitare nell’Ade; il primo canto è un ghigno alla terra che ciclicamente
torna a fiorire per indicare, istruire e guidare il viaggio oltremondano a chi
un mondo non lo ha mai ricevuto, mai abitato. Per questo nelle sue ceneri
non c’è il cuore di un dio, di quel dio bambino che giocava tra trottola e
palla fruendo del mondo riflesso nel suo specchio: quale dio che ha un
cuore ci avrebbe altrimenti donato una terra inospitale, un corpo
inospitale? Zeus è il Fuoco che incenerisce e portando la morte solleva dal
peso mortifero della vita consumata tra mille dolori; Orfeo è il profeta
apollineo che sale sul monte, mentre le Baccanti -sacerdotesse della luna-
scendono a valle, per essere il primo ad adorare quel sole quando all’alba
sorge all’orizzonte. “Orfeo dal nome famoso”, il suo primo epiteto per
voce del poeta Ibico del VI secolo a.C., trasforma il culto lunare di Bacco
orgiastico dell’antica Tracia (IX e VIII sec. a.C.) in quello misterico di
Dioniso celeste, consacrando infine la Tracia a Zeus e Delphi ad Apollo 0.
Il fuoco elemento fondamentale nella dottrina misterica pitagorica e nella
‘seconda navigazione’ di Platone, su cui tornerò, è la saetta che ferisce
Orfeo scindendolo in un doppio irretito nell’Ade. Ma davvero il poeta
tracio non imparò nulla da quel viaggio soltanto perché lui era guida della
mystes Euridice? O non fu piuttosto perché mai comprese -e come avrebbe
potuto, in sé dilaniato da un dio assetato di sangue?- che
l’autoconsapevolezza di un’origine urania è poca cosa al cospetto di
amore? La tensione intellettuale verso la liberazione dalla nascita è infatti
mossa da un amore che disdegna la relazione, quella presenza che fu
invece cara ai sapienti, sprofondandola nell’Ade come funereo incontro tra
corpi già morti in eterno assetati di vita, di sangue, di memoria di sé
ovvero di chi hai amato, odiato, generato o tradito. Perché è questo che
dimenticano i morti: di essere figli e di avere avuto dei figli, ovvero di
essere nati da grembo materno e non da punizione per una colpa non
nostra. Strano paradosso per cui siamo responsabili di una ‘temporalità’
0
Vedi RAPHAEL, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśram Vidyā, Roma 1985, pp. 34-35.
39 Parole in cenere

che non possiede un inizio (del figlio Zagreo non ricevemmo il cuore e dei
Titani solo il corpo cremato, quando ormai l’anima fu libera di volarsene
via); ma è anche questa la ferita del logos: non credere che non siamo
ingenerati eppure portare il peso di una temporalità che non si dispiega
come tempo -materno- di cura ma di fuga da sé. Portiamo i solchi di
questa fuga come Euridice quello del morso della vipera che interruppe il
suo incedere, il suo andare, il suo vivere nel tempo e nel mondo. Orfeo
che risospinge Euridice lontano da sé la sprofonda nell’abisso -rimuove
nel profondo dell’inconscio- l’idea della nascita e della maternità mortale,
perché nessun figlio sopravvive ontologicamente alla madre, neppure nel
canto dei poeti che amavano gli eroi e non gli uomini. Ma la nuda verità
che riposa sepolta nel sangue e nel latte, senza più tornarvi, non chiede
alle Muse la memoria dei posteri.
Eppure.
Eppure è proprio dai poeti, dal loro inabissamento nel fango di Ade,
che si svela a noi la terribile verità che il mistero più profondo e oscuro
che ci uccide è lo stesso che ci ama e che solo per questo ci uccide perché,
con le parole di Cixous, «la sola persona che può ucciderci è chiaramente
la persona che ci ama e che noi amiamo 0.» La sua scala della scrittura -
come voce di Orfeo incisa su lamina d’oro- è “scienza di addii e di
ritrovamenti” che ‘ascende’ verso il basso, verso ciò che è più profondo,
con sforzo e dolore. «Quando saliamo verso il fondo, procediamo portati
nella direzione di – cerchiamo qualcosa: lo sconosciuto…0»; Orfeo padre
dei misteri escatologici si inabissa verso la sconosciuta Aletheia che a sé
con forza lo chiama, in quella profondità in cui la verità è com-presa
(lantháno come ‘custodire’) nell’interiorità e ri-compresa nel ricordo
senza rimpianto, ovvero senza rifiuto né possesso dell’altro (lantháno
come ‘non custodire il ricordo’). Nel controcanto di Euridice, il doppio
oscuro di Orfeo e insieme il suo inno più bello alla vita, Aletheia non
rinvia tanto al dis-velamento (la trappola di Heidegger del doppio-
velamento) quanto, piuttosto, a quel significato riposto nel verbo greco
lanthano e nel latino lateo di ‘rifugio’ e ‘custodia’ nell’intimità del cuore.
Un cuore umano, perché da cenere titanica e da corpo divino nel mito
orfico Zagreo non ci fu dato ricevere un cuore.
La verità sarà allora il dono conservato in un corpo-scrigno nella cui
gestazione materna la tradizione misterica si incontra con il dono biblico
di cuore di carne per la nuova creatura e allora, da Orfeo/Euridice, questo
controcanto risuonerà a lungo nella cultura cristiana. Quando infine
riconosceremo un cuore nel cui nascondimento, e non velamento, Aletheia
è il ri-conoscimento (umano e divino) della sacralità e duplice vocazione

0
H. CIXOUS, op. cit., , p. 80.
0
Ivi, p. 31.
40 Capitolo IV

della e alla corporeità. Anche se il cuore ama nascondersi (lanthano)


l’urgenza di Aletheia lo spinge, suo malgrado, a esporsi fino a una
estroversione radicale nel corpo, rigonfiamento materno dell’oblatività
corporea e sua stigmatizzazione, soprattutto femminile, nel corpo
cristificato entro quel Corpo mistico che è la Chiesa. Il significato
espressivo e non logico dell’essere-corpo, di cui è corpo e figura Euridice,
riconosce nella verità la forza necessaria per inabissarsi, custodire ed
esporsi non per ‘affermare’ il soggetto contro il mondo ma, all’inverso,
per accogliersi nella prossimità dell’incontro con l’altro, con il Cielo e la
terra. Custodire la verità nel buio di Ade, in cui sei confinato per
mancanza o anche per dismisura e oscurità dell’amore, significa essere
nella verità, dis-locati ma preliminarmente fondati nella verità-di-sé che
espone senza veli all’altro. Allora Mnemosyne potrà svelare che il ricordo
di sé è ricordo dell’altro, e dell’Altro nella tensione d’amore tra
trascendenza nella presenza e nostalgia di Infinito nell’assenza. La
metafora dello specchio (dal mondo riflesso del bambino Zagreo fino a
quella mistica cristiana della luce dell’intelletto) diviene così, nel
paradigma della corporeità, il ri-conoscimento operato dall’altro circa il
proprio essere o non essere nella verità stessa. La visione non distorta
perché pienamente esibita (la stigmatizzazione è l’estroversione massima
della sacralità del corpo offerta allo sguardo dell’altro), di come e se
Euridice, il nostro doppio, la nostra guida nascosta sia nella verità,
illumina entro un’autocomprensione senza veli.
E allora la scrittura, il solco del canto nel cuore di carne, diviene il
percorso iniziatico ascendente che ci riporta all’origine e, tornando a
salire/discendere la scala della Cixous, ci conduce per mano alla prima
scuola che è quella dei Morti. Il primo apprendistato che si vorrebbe
dimenticare, perché è la morte stessa che si vorrebbe obliare nella vita,
quando ci accorgiamo che in fondo, non sopportando la caduta o
inabissamento nell’Ade, «passiamo la vita a non vedere ciò che abbiamo
visto0», controcanto dell’enigma che fu fatale a Omero: «quanto abbiamo
preso l’abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo.» In
fondo è anche questo il pathos eracliteo per il nascosto, la sapienza e
l’anima (e se Euridice fosse l’anima ferita di Orfeo?) che Colli intende
come designazioni di una trascendenza che scioglie l’enigma nell’unità
dei contrari entro la polarità del divino0. Così l’enigma rinvia a quello più
profondo dell’anima e del suo destino: “le cose manifeste che abbiamo
preso, le lasciamo”. Se nell’apprensione sensibile vi è solo l’illusorietà del
mondo allora Euridice potrebbe essere soltanto una chimera,
l’ingannevole Chimera che accompagna la lira e che il musico Orfeo,
esperto nel canto, ferisce e allontana. La crudeltà e la distanza della
sapienza apollinea, già impliciti nell’enigma che fu all’inizio sfida fatale
0
Ivi, p. 35.
0
Cfr. G. COLLI, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 2009, pp. 61-69.
41 Parole in cenere

agli uomini, separerebbe Orfeo da Euridice come Calypso da Odísseo in


un gioco riflesso di immagini e corpi in cui la catabasi è l’oltre di Ade nei
fiumi sotterranei dell’anima. «Non c’è un fiume fuori di noi, ma soltanto
una fuggevole sensazione in noi, cui diamo il nome di fiume, di uno stesso
fiume, quando più volte si presenta a noi una sensazione simile alla prima:
ma ogni volta non c’è altro di concreto se non appunto una sensazione
istantanea, cui non corrisponde nulla di oggettivo. Soprattutto tali
sensazioni non documentano nulla di permanente, sebbene siano simili; se
vogliamo designare ciascuna di esse con il nome di fiume, possiamo farlo,
ma ogni volta si tratterà di un fiume nuovo0» Allora Ade potrebbe essere il
femmineo-acquatico che nutre l’anima nel viaggio misterico, le lunghe
braccia di Mnemosyne tra i flutti dei mille controcanti di Euridice che si
snodano da lei, lei che è stagno e ventre gelido di acque immortali. O
invece, e anche, le alghe annodate tra i capelli sconvolti di Euridice
affogata -sepolta- nell’acqua gelida di una memoria che perfida si
nasconde agli umani nell’atto di offrirsi, insidiosa e ferita nel viaggio
solitario di un logos iniziatico che ha smarrito, ingannato, l’essere
dialettico che è l’essere umano. E allora il doppio di Orfeo diviene
selvaggio come l’Ondina di La Motte-Fouqué, ostile a questa crudele
memoria auto-celata nella scrittura, furtivamente nascosta in quello che
l’uomo ingannato crede essere ieròs lógos e che invece che ha perduto la
propria sacralità. Ha obliato l’interiorità e il valore mnemonico nella
scrittura che pure è un viaggio perché «le parole stesse del “logos”
autentico alludono a vicende dell’animo, che si afferrano solo col
parteciparvi, in una mescolanza che non si può dividere 0.» Questa filosofia
come genere letterario da Colli ci sollecita a infiniti controcanti intonati
sussurrati urlati dal e sepolti nel corpo di un logos che ha smarrito, ferito e
ferendo, quella origine divina e relazionale che è mia e tua, di te che mi
sei accanto. Forse anche per questo Colli non ritrova un movimento
continuo tra sapienza e filosofia, perché la ferita del logos, come ogni
ferita per i Greci, doveva essere lancinante e fatale proprio come per gli
opliti morti sul campo di battaglia e solo per questo valorosi, come le
donne morte di parto degne, lei sole, di avere una stele funeraria a
ricordarle. Bisogna morire con un unico lancinante odis nel lochos che
significa sia ‘parto’ che ‘truppa armata’: nell’arte funeraria e nei poemi
omerici l’eroe è trafitto da un unico colpo mortale, se fossero di più
significherebbe codardia o poca destrezza nelle armi. Anche di quelle del
corpo, se nelle stele le partorienti sono raffigurate con la cintura slacciata,
la stessa che è ben stretta sotto il petto dei guerrieri, perché il fegato, che è
l’organo vitale, sia esposto coraggiosamente al colpo mortale. Ugualmente
nel logos non c’è posto per il soffrire sommesso della malattia che è ferita
che umilia perché non uccide all’istante: la malattia, questa fragile

0
Ivi, p.69.
0
Ivi, p. 109.
42 Capitolo IV

caducità dell’essere uomini di cui è cifra il figlio.


Eppure scrivere conserva ancora un valore mnemonico: quello di
non dimenticare la morte dell’amato. Così è per Euridice, il cui canto ebbe
inizio al delta di Ade dalla perdita di Orfeo; la perdita, questa nuova guida
per risalire dallo smarrimento del senso della vita al riconoscimento del
suo struggente valore. Perché nell’inabissamento della scrittura si compie
il viaggio eracliteo nell’anima e cercandone invano le sponde si finisce per
ritrovarsi più umani, nuovi ‘custodi’ dal ‘denso cuore’ o ‘sicuro
discernimento’ che dalla riflessione sofferta sul morire possono ora
guidare i morti alla rinascita. Euridice che dal cordoglio amoroso diventa
sorgente vitale per Orfeo, l’amore perduto. Hèléne Cixous che scrive a
partire dalla morte del padre: «Non avrei avuto la morte, se mio padre
fosse vissuto. L’ho scritto molte volte: egli mi ha dato la morte 0.» La
scuola dei Morti è la scuola dei filosofi poeti che stanno sulla soglia per
indicarci l’oltre di questa soglia, che ci insegnano a morire per incontrarli
e incontrarci come essere umani: «Dobbiamo perdere il mondo, perdere
un mondo, scoprire che c’è più di un mondo, che il mondo non è quello
che pensiamo. Senza ciò, non sappiamo nulla della mortalità e
dell’immortalità di cui siamo portatori0.» I filosofi poeti che ci insegnano
con la perdita (è Euridice che perde il compagno: lei resta, lui va) a morire
per non uccidere che significa non riconoscere la differenza dell’altro. Ma
anche, al contrario, in questo controcanto dalle mille dissonanze è il poeta
Orfeo a non riconoscere in lei che resta la differenza che la in-abita, fino
ad ucciderla quando la sua bocca, ormai muta, sarà per lei il fatale morso
della vipera. Ma anche, e ancora al contrario, poiché in amore non si
uccide mai solo una volta è Euridice che, al cospetto di un uomo/di sé che
muore ignaro e violento, nel sopravvivergli lo uccide restituendogli il
morso al calcagno. Ma anche, e forse, tra loro e questo amore impossibile
a uccidere è il logos ancora oscuro di Apollo che nell’Ade mai scenderà
per disseppellire la vita -il canto, la parola ‘umana’, il suono vocalico che
è respiro e dunque primo virgulto di vita- dai morti obliati e dunque
immemori di una austera Mnemosyne.
Eppure, se solo…
Se nel passo lento di un Orfeo scisso e ferito, che ci riconduce per
stravolgimento d’amore al di là di Acheronte, da cui più non torneremo,
l’addio alla vita non fosse più l’oblio della sua sacra bellezza… Se solo
Mnemosyne desse a Calliope, la Musa madre di Orfeo, il potere di
ricordare nel canto la presenza dell’altro… se rammentasse al cuore del
mystes che la cenere non è solo penitenza ma sacro residuo di un incenso
votivo… se solo dicesse per voce di uomo, per canto di Orfeo/Euridice e
non solo per voce di ninfa, di Calypso nascosta nel suo nome e
0
H. CIXOUS, cit., , p. 38-39.
0
Ivi, pp. 36-37.
43 Parole in cenere

nasconditrice di una verità ferita e rimossa, quell’unica parola che sana e


che salva: “Mi ricordo di te.”
CAPITOLO IV

CALYPSO, SOLITUDINE SENZA RIMPIANTO

Filosofia della nostalgia.


Intessuta con seta purpurea nel canto solitario di Calypso, la ninfa dagli
occhi lucenti perduti in quelli offuscati di pianto del suo amato, l’Odìsseo
inadeguato al suo desiderio femminile perché lui, l’eroe che brama il possesso
della terra-patria, è incapace di sopravvivere alla passione che “virilmente”
vorrebbe dominare. Una nostalgia senza rimpianto, quella di Calypso, di ciò che
non sarebbe mai potuto essere perché nessun eroe merita di essere amato, e infatti
da ninfa lei si fece donna per amare… finché la brama del ritorno non lo rese
odioso ai suoi occhi. Perché Odìsseo non disprezzò l’immortalità ma l’anonima
immortalità, e il ritorno a Itaca fu l’unica possibilità di eternarsi nel racconto di
sé. Salvo che di sé conserverà poi solo l’armatura fatua di eroe; l’uomo, nascosto
a se stesso, rimuoverà nell’oblio quell’amore rubato a Penelope che per giustizia
divina lo aspetta a Itaca con una tela-sudario, degna degli uomini morti. L’amore
asimmetrico, la passione che travolge gli argini dell’ordine violento della polis,
Odìsseo la seppellirà per sempre a Ogigia, nell’incavo profondo del cuore
sommerso dal livido mare. E mai ricorderà di sé e di lei, straziata la carne nel
viaggio orfico che la carne e il corpo deturpa per vendicare l’avida sete
dell’anima.
La corporeità del logos - nelle diverse modalità di Euridice e Calypso - è
invece la premura di custodire la verità nell’essere custoditi dalla verità, secondo
il modo nascosto (nel buio profondo del canto delle donne-pernici) della porpora
che irrora di sangue questo nostro cuore. Ancora, è un pensiero interpellato da
almeno due vocazioni: “alla” e “della” corporeità. Nella prima si chiede
all’anima di “portare il corpo” custodendolo nella cura, nella consapevolezza
anti-orfica che tale resa o affidamento educhi all’accoglienza in quanto
gratitudine per l’essere-per-la-nascita. Nella seconda si affianca la tenace
disponibilità a perdere l’autoreferenzialità incontrandosi nella distanza della
differenza, di più, facendo di questa distanza l’ordine comune e simbolico del
mondo, ovvero della possibilità stessa di abitarlo. Il paradigma della corporeità,
che comprende entrambe le vocazioni, suscita nel soggetto un duplice
movimento: portare nell’umiltà (humus = fedeltà alla terra) e ricevere nella
gratitudine. La parola provocata non è solo un suono e non richiede solo ascolto
ma presenza fisica vibrante, passione estetica che scompone il corpo nella
dismisura del pensiero patito nella carne. Il “pensiero della differenza” riscatta la
morte benedicendo la terra, riconoscendola pienamente nella gratitudine per
essere terra-madre da abitare in quanto viventi e non immemori mortali confinati
nell’Ade. All’età degli eroi, che al sogno di onore e di gloria sacrificavano il
tempo profano trafiggendo la terra, preferisce il coraggio di Calypso che amò da
donna pure essendo una ninfa, vestale, nascosta e custode della verità che abita il
cuore del plumbeo mare in cui sempre naufragava l’amato Odìsseo. L’eroe che
dal nascondimento del cuore (Calipso = nascosta e nasconditrice) fugge sospinto
dalla brama di possedere e non di abitare la terra dei padri, ignaro, in tal modo, di
riportarsi a Itaca solo il rimpianto di un’occasione perduta. Con spola d’oro la
ninfa non intesse una tela, la tela-trappola della mitologia greca o la tela-sudario
di Penelope, ma un corpo di carne e di sangue per l’uomo che fugge a se stesso,
perché in sé conservi quel peso che possa ricondurlo alla terra contro l’inganno
del mare. Nascosta e nasconditrice Calypso è figura del pensiero femminile che
intende l’alétheia come ri-conoscimento e non dis-velamento (la trappola di
Heidegger) attraverso il raccoglimento di chi custodisce la verità nei meandri del
cuore0. La donna “nascosta”, su cui si dispiega in seconda voluta la rosa, patisce -
agisce sentendo con tutta se stessa - un’estroversione radicale del corpo nel
mondo e inaugura il mondo dischiudendo zolle di terra per i viventi. Zolle di
porpora, il colore della luce persino per i canoni estetici greci, a loro insaputa e
dispetto.
La verità è allora com-presa (lantháno come “custodire”) nell’interiorità e
ri-compresa nel ricordo senza rimpianto, senza possesso dell’altro (lantháno
come “non custodire il ricordo”) per ascoltare il cuore dell’altro. È per questo che
Calypso ama senza trattenere l’amato, non seduce Odìsseo piuttosto lo aiuta a
costruirsi una zattera per andarsene quando la furia violenta di Atena decide di
renderlo cieco, ispirandogli il rimpianto del ritorno. Lei che sola conosce
l’inganno ma rispetta la dolorosa necessità dell’asimmetria amorosa, la distanza
in cui si realizza e mai consuma la passione, lei che è amabile come amabile e
oscura - nella descrizione omerica dell’antro delle Ninfe 0 - è la sua terra-madre
cui tanto somiglia (ántron epératon eroeidés = grotta amabile, degna di amore-
eráo = amo appassionatamente- oscuro, caliginoso). È per questo che l’isola di
Ogigia resterà l’occasione perduta di Odìsseo per essere in quanto uomo vivente
e non come mortale alienato nel sogno di un fatuo riscatto, prigioniero di una
vacua memoria che non sopravvive agli smarriti mortali. Egli stesso smarrito,
obliato in un sé venduto all’eterno come il troglodita immortale nel racconto di
Borges, il cieco Omero che patisce il baratto del proprio destino tra lacrime e
pioggia, immemore naufrago nell’oblio dell’eterno. «Gli chiesi cosa sapeva
dell’Odissea. L’uso del greco gli riusciva faticoso: dovetti ripetere la domanda.
“Molto poco” disse. “Meno del rapsodo più povero. Saranno passati mille e cento
anni da quando l’inventai”».0
E allora una seconda voce d’ombra risuona dissonante nel logos: l’ombra-
radice che sotterranea sugge nutrendo la pianta con il ricordo della nascita
0
Cfr. M. ZAMBRANO, Verso un sapere dell’anima, trad. it. Ed. Raffaello Cortina, Milano
1966, pp. 43-52.
0
Odissea, XIII, v. 102. Cfr. anche Porfirio, L’antro delle Ninfe, Adelphi, Milano 1986.
0
J. L. BORGES, L’Immortale, (L’Aleph), in Tutte le Opere, Mondadori, Milano 1984, vol. I,
p. 782.
47 Calypso, solitudine senza rimpianto

acquatica. È il controcanto di Calypso.

Sì, mi ricordo di te.


Io sono la tua occasione perduta per ritrovarti più accanto e più oltre dei
tuoi stravolgimenti mentali, sempre in cerca di possederti nel possesso violento
del mondo. Odìsseo, in quella furia che grida il tuo nome, Odìsseo l’irato, hai
rinnegato te stesso per realizzare il destino di uno stupido nome, bramando il
possesso di un regno dove tutti, uomini e moglie e schiave e persino quel cane
depresso di Argo fossero tuoi ma in cui tutti, tutti hanno abitato una terra che
tua non è mai stata davvero. Tu hai tradito il destino, che pure portavi scritto nel
cuore, e lui beffardo e violento ti ha spinto lontano da te per riconsegnarti a quel
nome.
Non ti rimpiango, per questo ti ricordo.
Dimentica di me custodisco la verità del tuo viaggio, perché qui avresti
dovuto fermarti: nel centro del mondo, focolare della terra che sorregge l’ampia
distesa del mare, tu ti eri trovato e non lo sapevi. Fuggendo da me ti sei
inabissato nell’Ade, dimentico di te hai attraversato il tempo a ritroso per
ritrovarti nel miraggio di doverti possedere per riuscire a credere d’essere. Ma
io che ti amo ti vedo, ti ho visto, scivolare via come ombra muta nell’Ade e con
te e in te sprofondare ogni memoria di noi. Giustamente nel tuo oblio hai trovato
la morte, perché questa sola hai cercato.
Per questo ti piango, in questo ti ricordo.
E se la notte ascolta il mio grido qui, sulla rupe di Ogigia, non si illuda il
tuo avido cuore: io elaboro un lutto, io intesso con spola d’oro su telaio di pietra
la mia infinita distanza da te. Non perché sei uomo, tale distanza piuttosto
nutriva il mio amore, ma perché io sono l’atroce custode del segreto di tale
distanza, della sua immortale e infinita bellezza. Io sono la terra nascosta che a
te si schiudeva per donarmi e donarti l’incontro con l’infinita distesa e distanza
del mare che, a torto, Omero vedeva livido e cupo come un sudario. Un sudario
che aspetta, da sempre lui livido aspetta, gli uomini che si credono eroi. Ma io…
io ero per te l’isola nascosta di ogni possibile gioia, mai raggiunta se da sempre
con ansia cercata e da sempre persa da chi, come te, aveva belli gli occhi e cieco
lo sguardo. Odìsseo, tu cercavi il possesso della terra - della patria, del padre -
perché la terra mortale cantasse in eterno la tua fama: io invece ero il dono di
un’eterna gioia che mai nessuno avrebbe osato sognare, né tantomeno
ricordare. Io, la verità custodita nel grembo - il mio nome è Calypso, “colei che
nasconde” - per disvelare agli uomini ingrati i sotterranei bui della loro fuga da
sé. E tu che da sciocco inseguivi i disegni di Atena! dèa terribile che non
conosce l’umano sentire perché nata dal cranio spaccato di un dio folle e
violento, Zeus, padre di ogni uomo che stupra ogni donna che ama, che mai
48 Capitolo IV

ama. Omero ha scritto di te, del tuo stravolgimento, perché ad ascoltare la voce
di Atena ti sei perso nel canto - oh, ma questo ti è ignoto! - delle sirene suadenti,
le cui parole ascoltasti più del silenzio accogliente di Ogigia. Eppure solo io
avrei per te intessuto con dita gentili un destino di fili di seta, di sangue e di
carne sopra le aride ossa, perché tu “fossi” e non, come uomo morto, “fossi
ricordato” da chi pure si accinge a morire. I mortali, loro, tu non li hai mai
amati, rifiutandone il destino e per due volte rinnegandone il tuo. Atena la
guerriera, la forza cruenta della polis e il regno della sua illusoria ed eterna
gloria, ha forgiato per te con scudo e con lancia il falso racconto di un virtuoso
errare alla ricerca di sé. Lo ha scritto con inchiostro di sangue nel sogno di un
cieco poeta mai nato e dunque non vivo, non vero. Perché la verità nasce solo
dal ventre che la cerca patendo - passione d’amore - la forma.
Eppure noi, che ci amavamo piangendo distanti lontane illusioni
naufragate nel mare, noi davvero eravamo il cipresso e il fuoco e le viole e la
salvia del recinto sacro di Ogigia, dimora calda di amplessi in un pugno di
sabbia di verità. Da questa sei fuggito, ingannato dalla solita invidia degli dèi, e
tale prezzo tu paghi ampiamente: anche per questo ti piango, proprio te, che di
me non conservi rimpianto. Tu che cadesti nell’oblio portandoti altrove, da me
che già ero il tuo altrove, per ricongiungerti all’illusione del possesso di te in
quelle stanche stanze di Itaca… mai più un sussurro gentile per me, mai più un
ricordo d’amore per me. Narrerai invece di Nausicaa, la donna infantile che a te
somigliava nel credere che l’amore fosse solo l’ombra di un sogno, mentre io, la
passione, ero la sfida ad amare perdendo l’ira violenta del metron di Apollo che
vuole mettere leggi all’amore - si può sopravvivere alla passione? - , il dio
funesto che violentò l’antro di noi ninfe, mentre io, la passione, cantavo la
dissonanza di due voci che si snodano accanto senza mai fondersi in una. Ma io,
la passione, sono anche la forza che agita il vento che sconquassa il mare e poi
infine lo calma nel sonno, perché tu prenda il largo più al largo di me quando
infine ti vedo, in ginocchio sullo specchio fangoso del mondo, ricurvo sullo
stagno melmoso delle tue antiche paure. Quando ti vedo stravolto dall’ira
reclamare da me ciò che gli dèi con l’inganno ti resero amabile, più amabile di
noi, del nostro sacro gioire dei nostri respiri, reclamando l’onore e la gloria di
uomini stanchi che mai ti ameranno. Tu, illusione di uomo, tu non fosti che
questo. Io, la passione, piango il dolore che ti macera il corpo strappato al tuo
cielo che in eterno sarà senza stelle, ormai oscuro e opaco come la fredda
nebbia di Ade.
Perché tu che non mi piangi, poiché non mi piangi, tu porti nascosto nella
carne lo strazio cieco e assordante di un ripianto: Calypso, la tua occasione
perduta.
Per sempre mai più.
49 Calypso, solitudine senza rimpianto

A Euridice “nascosta” nell’ombra di Ade, ad Antigone “nascosta” e sepolta


viva nel cuore della terra - perché la terra possa essere ancora abitabile - si
affianca la maestosa dignità di Calypso la “nasconditrice”, custode di una verità
obliata dagli eroi omerici avidi di onore e di gloria. Lei sola infatti conosce, in
tutto il poema, il profondo inganno del viaggio orfico, il lungo viaggio di
Odìsseo, percorso tra oblio e memoria. Un viaggio che l’uomo affronta
tragicamente a occhi chiusi, astenendosi dal cibo elargito dai Lotofagi perché tale
cibo fa dimenticare il ritorno, vendicando con l’accecamento di Polifemo i
compagni da questi divorati, accettando di nutrirsi con l’erba magica di Circe che
non a caso lo invierà nel paese dei morti, dove le anime anelano al “sangue nero
fumante”0 degli animali sgozzati, quel cibo rituale che è l’unico pasto permesso.
E quando sull’isola di Trinacria i suoi compagni, affamati, consumeranno un
pasto sacrilego nuovamente una tempesta si abbatterà sulla nave e Odìsseo
soltanto scamperà dalla morte, salvato e accolto nel ventre caldo di Ogigia. Ma
del senso di questo viaggio, del significato di tali digiuni e di tali accecamenti,
del miracolo di Calypso confuso ingenuamente per miraggio, l’astuto acheo non
comprende mai nulla perché, come nei versi di Giovanni Pascoli, per dieci anni
«non udì né vide / perduto il cuore d’Odisseo nel sonno». 0 L’eroe non è sapiente
né filosofo, per questo abbandona Calypso: disdegnando il percorso labirintico
dell’umano incedere sulla terra, il labirinto iscritto come spirale di rosa nel
grembo di Ogigia, mai identificabile con la placida perfezione o limite del
cerchio, a occhi chiusi sogna o delira la Città degli Immortali di cui il ritorno-
possesso a Itaca ne è pienamente figura. La sua architettura surreale ed
estraniante, inesorabilmente sprofondata nel silenzio dell’eterno, attrae e dissolve
come il canto delle sirene che sempre e per sempre trascinano in fondo, nel buio
opaco dell’abisso del mare. Scrive Jorge Luis Borges ne L’Immortale:

Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché
ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali. […]
La morte (o la sua illusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono
per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può esser l’ultimo; non
c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d’un sogno. Tutto, tra i
mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gl’Immortali, invece, ogni
atto (e ogni pensiero) è l’eco d’altri che nel passato lo precedettero, senza principio
visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine.
Non c’è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi. Nulla può accadere
una sola volta, nulla è preziosamente precario. 0

Quel preziosamente precario alito di vita è lo stesso che, per lo scrittore, si


spegne nella tracotanza intellettuale, nel miraggio che i volumi accatastati in un
angolo della sala possano essere il riflesso aureo del mondo finché non si
0
Cfr. Odissea, XI, v. 35.
0
G. PASCOLI, Il sonno di Odisseo, in Poemi Conviviali, vv. 71-72.
0
J. L. BORGES, L’Immortale, (L’Aleph), in op. cit., , pp. 783; 785.
50 Capitolo IV

annuncia la morte. È il suo incontro con Giambattista Marino, nella rivelazione


che la “rosa gialla”0 non possa vivere nei suoi versi ma nella propria assoluta e
impenetrabile eternità. Di una illuminazione sopraggiunta nell’ultimo respiro di
Odìsseo a noi non è dato sapere, eppure essa “accadde” se il suo viaggio fu in
certo senso lo stesso di Orfeo. Forse perché da eroe confuse l’eterno volgere del
tempo, comune a tutti i mortali, con il sogno o oblio eterno di riavvolgere il
tempo in un’atemporalità che sfibra pure gli dèi, da sempre lo immaginiamo
varcare le colonne d’Ercole con l’imperturbabilità dell’eroe solcata su maschera
bronzea. Ma in lontananza, a Ogigia, una voce dissonante ricompose di certo
l’informe immortale nello sfogliarsi di rosa purpurea donata, per lutto, agli abissi
del mare. Ogigia è infatti il ricordo orfico che inaugura il percorso dell’anima e il
rimpianto in Calypso di averlo tradito per risalire la cime di una terra da
dominare, non da voler abitare. Soltanto a lei guida, a lei sposa, il cui corpo
seducente nasconde il dramma greco dell’anima, spetta la dimensione domestica
del focolare sponsale perché lei sola è ninfa (nunfe = sposa) e naiade (náo = abito
e metto ad abitare). Con lei Mnemosyne è sorella di Aletheia com-presa
(lantháno come “custodire”) nell’interiorità e ri-compresa nel dimenticarsi
(lantháno come “non custodire il ricordo”) per ascoltare il cuore dell’altro.
Perché la dissonanza in Mnemosyne è tutta in quel “Mi ricordo di te”,
accompagnandoti e accompagnando lungo i “labirinti” - sacro Palazzo di Cnosso
- dell’Ade. Ma il dio di Orfeo non è Amore, per questo oblia l’altro per
ricordarsi esclusivamente di sé (l’identità polare del dio diviene scissione
dell’identità della persona): la polarità della dea della memoria è tradita,
offuscata e ferita proprio come la luna nella sua fase calante. Ma lei è sempre lì.
No, non era armonia ma fascinazione la voce dal suono di miele delle sirene
seducenti, perché il sé cui conduceva era il vortice di chaos e morte già impresso
nella forma del proprio corpo informe. E invece da sempre l’armonia, e Odìsseo
lo sa, placa il furore - lui, il cui nome significa “l’irato” - delle menti agitate per
ricomporre quei frammenti di uomini implosi nella cavità buia del livido mare.
Quello appunto di Odìsseo, dal colore di mercurio più del cielo, più tempestoso
delle stesse bufere che da quel cielo, dall’Olimpo, si infrangevano a terra come
schegge di stelle cadute compiendo un destino di uomo stravolto da sé. Odìsseo
infatti fugge atterrito dalla dissonanza confondendo il vortice della morte, e della
sua paura, con quello fecondo e accogliente della rosa che si snoda in petali a
spirale fino a schiudersi nel cerchio di un ventre gravido di vita, che è ventre di
donna: il femminino dell’acqua che è mare - non livido - che è Calypso. E così
alle sirene che volevano donargli l’illusione del tutto-sapere, che tanto placa la
paura dell’ignoto ovvero del morire, presta un ascolto assoluto, tanto da dover
legare il proprio corpo per non gettarsi avido nel miele delle loro parole. La voce
gentile di Calypso è invece come suono di liuto, lei che sola avrebbe potuto
ricondurre, lui naufrago, a sé con mano gentile che intesse il destino,
parafrasando la poetessa d’amore Veronica Franco, con “fili di seta e d’argento”.
Ma Odìsseo non comprende se non le ragioni che lo inducono a negare se stesso,
0
J. L. BORGES, Una rosa gialla, cit., , p. 1141.
51 Calypso, solitudine senza rimpianto

fino a naufragare nel livido sudario del mare quando la previdente Penelope,
“creata a sua misura”, gli avrà certo fatto dono di un’altra tela-sudario, forse la
stessa del padre Laerte, che nel sistema logocentrico maschile sembra qui
funzionare come un dislocamento noiosamente tautologico. Come dire, l’eroe
non sopravvive mai alla passione della morte. Ma, di nuovo, si può sopravvivere
alla passione d’amore?
Calypso è la “parola” evocatrice della condizione di tale possibilità poiché
patire l’eros è come vivere posseduti, cioè amati, da un semidio. Ovvero da chi
sente - patisce il pensiero - come gli uomini - suscitandolo e subendolo oltre ogni
misura e ogni previsione - a distanza da quell’invidia che è struggimento per il
non possesso, o violenza, ira e stupro che abitano l’Olimpo, la polis degli dèi
creata a somiglianza degli uomini. L’amore di Calypso ritorna nell’operazione
narrativa delle Preziose che “impreziosisce” ciò che è narrato donando a Eros un
luogo al non luogo nell’u-topia di Ogigia, ovvero accogliendolo in una sorta di
“paese della scrittura”. Pure sembrando vivere distante dalla filosofia e dalla
polis questo, al contrario, è un processo fortemente dislocato che si offre come
ordine culturale e dunque politico alternativo alla correzione di un ordine politico
fondato sulla violenza autoreferenziale di Creonte. Un ordine diverso che di
uguale ha solo l’entità della sua forza. L’amore suscitato da Caliypso è infatti un
desiderio folle che spaventa persino l’uomo folle di ira, l’Odìsseo che, alla
continua ricerca del potere, non sa amarla senza disconoscerne l’individualità e
solo abbandonandola la libera dalla prigionia di se stesso. Come un atollo
nascosto nel mare lui, nascosto a se stesso, le vive accanto per anni come fosse lo
sposo condividendone il focolare domestico - quello maestoso nella descrizione
omerica che lo ha accolto sin dall’inizio - e la responsabilità di essere padre. Ma
dal ruolo di sposo e di padre Odìsseo fugge, e nessuno mai condannerà un uomo
che non si riconosce tale nel ruolo sponsale e genitoriale, anzi, proprio da questa
fuga alienante procederà il ricordo eroico della sua virtù. Ma lui era nascosto
nell’ira del suo nome, nascosto a se stesso, dimentico di sé: i poeti hanno
ricordato di lui tutto fuorché l’oblio capovolto di un viaggio orfico che non porta
a nessun dove, poiché dimentico di sé e chiuso all’amore.
È questa la ferita tra sapienza e filosofia, nella dissonanza o contro-canto di
Mnemosine che non è più soltanto: “Mi ricordo di me”, della mia origine divina,
ma anche di te che mi sei accanto, della tua trascendenza, al cui cospetto si
inaugurò l’originaria dialettica del logos. Ecco allora il canto di Calypso che
ricorda senza rimpianto l’amore donato e mai ricevuto: “Mi ricordo di te”. Ferita
che per altri versi e in altro senso Giorgio Colli delinea come un movimento, tra
sapienza e filosofia, non continuo né omogeneo - e né potrebbe esserci,
aggiungiamo noi, poiché la ferita per i Greci doveva essere tagliente, immediata,
mortale. Lancinante, come quello degli opliti spartiati e delle donne che generano
i figli con dolori lancinanti di parto. Non c’è posto per quel soffrire lento e muto
della malattia, della ferita che non esalta perché non uccide: la malattia, la fragile
caducità dell’essere uomini di cui è cifra il figlio. L’unico veramente “assente” a
52 Capitolo IV

Ogigia, seppure nato dal grembo di Calypso e abbandonato da Odisseo, chi ne


ricorda la vita? Ma al vivente non è necessario essere immortalato nel canto
poetico, basta il valore nascosto, intimo e completo di sé quale vivente oltre e più
che mortale.
E allora Purpurea, ulteriore controcanto di Euridice-Calypso, ha il colore
della kalche.
E infatti, di notte, quando nel tempio di Delfi gli uccelli dalle lunghe ali
riposano (eudousi d’oionon psyla tanypterygon0), nei fondali del mare si aprono
le bianche conchiglie e fin sulla schiuma delle onde (epi kymatos anthos0)
l’acqua prende il colore della porpora (porpsyreas alos0). Allora il mare si
incupisce, si agita e mette in pensiero chi lo guarda: Ismene smarrita nelle parole
di Antigone: «Tu sei sconvolta da qualche pensiero» (Delois ti kalchainous’
epos0). Nella notte che inaugura il logos, prima che la filosofia assuma la
trasparenza dell’acqua che da sempre disdegna l’opaca materia, il colore pastoso
della porpora irrompe con passione mettendo in pensiero il pensiero. Le bianche
conchiglie, bianche come le vesti degli iniziati e delle anime che fuggono “la
nascita dei mortali”0, dischiudono allora una preoccupazione che è cura per la
nascita, polvere purpurea che si dà pensiero per la vita. Antica forza, e non
debolezza, che trafigge la notte generando la vita.
È il pensiero che di lì a poco, nell’alba che viene, gli uccelli si sveglino e
abbandonando il tempio divorino il corpo, ogni corpo dissepolto che ancora e per
sempre chiede in Polinice una dimora presso cui abitare. La dimora, terra opaca
striata di sangue fraterno non versato in fratricida violenza per essere ancora,
nell’Ade, come donna e uomo che ancora e per sempre stringano in pugno
granelli di polvere viva. Come donna e uomo mai divenuti fantasmi che ormai
più nulla ricordino di sé, ormai più nulla sentano di sé e del mondo nelle sterili
viscere dell’Ade.
Da sempre il corpo che individua e non dissolve chiede e attende dimora: il
corpo, e non il suo dramma orfico, ha inaugurato la filosofia. E di questo logos
Antigone ne è divenuta figura della corporeità, pensiero mai neutro né innocente
perché da sempre coinvolto in quella preoccupazione per l’altro che disorienta
orfici e pavidi (Ismene la smarrita, in solitudine obliata in un destino da cui
nessuno verrà a salvarla. Lei che pure vorrebbe ancora pietà, per essere scivolata
nell’Ade come ombra di sé senza un soffio di terra tra le dita). La corporeità del
logos è un pensiero dialogico, bisognoso dell’altro non perché il soggetto si
riconosca nella parola detta o ascoltata ma perché fa proprio il bisogno dell’altro
di ricevere un luogo in cui raccogliersi. Un pensiero che accoglie l’ascolto come

0
ALCMANE, fr. 159 C.
0
ID., fr. 90 C.
0
Ibidem.
0
SOFOCLE, Antigone, v. 20.
0
EURIPIDE, Cretesi, fr. 3.
53 Calypso, solitudine senza rimpianto

incontro e urgenza a ob-audire all’impellenza riposta nell’ascolto,


irrimediabilmente sollecitato dalla presenza dell’altro che è richiesta di cura. Di
ascolto di sé, di gioia nella cura del sé, e in relazione con il mondo, distesa nella
pienezza del tempo vissuto. Vita filosofica che si nutre di ascolto, in silenzio e
come a occhi chiusi per sottrarsi all’agonismo dialettico dell’astratto filosofare,
alle rappresentazioni teoriche di noi stessi, dimorando invece in uno stato di
ascolto del corpo per gustarne in lentezza il linguaggio diacronico. Uno stato di
calma apparente, sembrerebbe, in realtà fruizione piena dell’armonia tra spirito e
corpo, della levigatezza della forma quando è impressa sugli scogli dall’irruenza
del mare. Il soggetto che ascolta è infatti preliminarmente coinvolto e sconvolto,
nelle modalità di Antigone e non di Ismene, nel cuore di chi parla - a parlare è
l’incontro - provocando a una parola che è risposta alla sua presenza. In questa
gestualità e parola, corporeità e pensiero, si dispiega allora una modalità
differente di viversi accanto filosofando. È questa dissonanza a inaugurare un
incontro duale nel centro sacro del mondo, ai piedi di Delfi, alle radici di un
logos maschile strappato al suo ventre materno da cui pure si genera. Perciò urge
un ripensamento sulle origini del filosofare che smascheri la “trasparenza” del
logos nella verità, ovvero la riconsegni quale ostinata e violenta rimozione della
precaria bellezza della carne, della terra e del sangue. E che in tale rimozione
anoressica, dal tempo della nascita, come un giunco divelto rifiuta di doversi
nutrire.
Ma bisogna decidersi in fretta perché la temporalità si dispieghi come
tempo di cura.
Se la filosofia non fosse destata dalla nostalgia delle pernici, dalle parole
cupe di Antigone come da quelle sconvolte di Diotima, la notte trascorre e troppo
in fretta arriva il giorno. Che è il troppo tardi per salvare Polinice
dall’autoreferenzialità del logos, dalla violenza di Creonte che uccide l’altro
oggettivandolo in corpo-nemico. La filosofia come nostalgia è invece parola
desta che riconosce l’altro entro una confessione urlata, che travalica le mura
della polis incontrando il tempo dell’altro nell’aderenza al proprio e altrui
compito. Non fonda città ma inaugura il mondo indicando, come la Pizia a Delfi,
il destino agli smarriti perché diventino ciò che davvero sono. Perché nell’essere
fuori di sé della parola profetica e nel gesto di una corporeità da Apollo trafitta si
offre in custodia la verità che sa ricondurre a sé l’errante. A sé ri-condurre.
Diotima, figura di un’assenza gloriosa nel cenacolo platonico, fa luce sulla
deturpazione della corporeità del logos nel deturpato corpo del Socrate sileno. La
filosofia che brilla della sola luce dell’intelletto, disdegnando l’impellenza della
vita per l’astrattezza dell’essere, è in sé lacerata.
Ma perché Diotima non resti confinata nell’eco ossessiva della propria voce
è necessario un incontro, un ripensamento delle origini (Delfi) che è ritorno alla
notte. Quando un poeta innamorato di nostalgia ne patisce il pensiero
disciogliendo parole che incantano gli abissi… quando il mare si incupisce di
54 Capitolo IV

vita… quando il ritmo del cuore distende il tempo nella cura per l’individuo
concreto, fino all’urgenza di contrarlo (prima preoccupazione etica) nell’impegno
per sé e per il destino dell’altro.
Accanto.
Aspettare il giorno è invece lasciare incendiare la terra, mettere in fuga le
pernici dissolvendo l’incontro, l’ascolto, l’irruenza della parola. È questa
l’ignavia nel dramma della separazione nella solitudine di Cassandra e di Tiresia,
il profeta che vivendo sia nel corpo di donna sia in quello di uomo ben conosce la
verità. E se nel buio dei suoi occhi ciechi ne è custodita la visione è però nel
sentimento della nostalgia che essa si presentifica, curva sul corpo che le è
accanto, anche quando il sole è tramontato e i cigni di Apollo pleista kai kallista
adousi.0
E ancora, è il tocco delle mani di Antigone che affondano nella profondità
della terra, fin dentro le viscere: dita purpuree nella cavità buia della notte prima
che venga il giorno per strappare alla notte una vita, Polinice, il fratello. La
parola scritta nella corporeità del logos è questo invito a destare Alcmane
ricordando che la parola e la dissonanza, di cui si nutre la poesia, nacquero
dall’ascolto delle donne-pernici. Parola e dissonanza scritte nel corpo e nei versi
notturni di Alcione figlia di Vento, punita da Zeus, trasformata da questi nel
pianto senza lacrime di un volatile. Perché il dio greco che ama stuprando dona
metamorfosi violente che denigrano il corpo, suo respiro vitale. Ma nel canto
cupo di Alcione la filosofia è ancora nostalgia che inizia il poeta alla parola,
all’attenzione che ricurva la platonica visione delle Idee in un pensiero che si dà
pensiero per la vita.
In Grecia chi sa interpretare il cuore degli uccelli - la sapienza nascosta che
sconvolge come le viscere una donna nel parto - possiede questo sapere mantico
carico di responsabilità: egli solo può cambiare il corso degli eventi. E Alcmane
conosce la verità perché l’ha ascoltata da Alcione: «Io conosco i canti di tutti gli
uccelli» (oida d’ornikon nomos panteon)0. Come scrittura questa è incisa nel
corpo-sepolto di Antigone, offerto perché tra il mare - la nascita - e il tempio in
cui riposano le sorelle pernici non vi sia più l’orrore della polis violenta, sorta sul
sangue sparso da fratello a fratello. Ma poiché è un sapere del cuore si incarna in
una scrittura spiraliforme, nomade, sempre in cerca di sé e dell’altro perché
insinuata nei meandri labirintici della terra, nelle volute della rosa mai concluse
in un cerchio. Potremmo allora chiamarla “rosa della dissonanza filosofica”
questa scrittura femminile che, soprattutto nella forma diaristica ed epistolare, ma
anche nella saggististica, mantiene l'ordine nell'atto di ricrearlo sempre nuovo. Il
fiore che irrompe nell'armonia platonica delle sfere per auto-donarsi la forma che
le è propria, nell'eterno vortice attorno e contro la perfezione del cerchio. A tale
perfetta coincidenza di punti equidistanti, infatti, il suo sbocciare e il suo
0
PLATONE, Fedone, 85 a.
0
ALCMANE, fr. 140.
55 Calypso, solitudine senza rimpianto

sfogliarsi non possono mai corrispondere: non inscrivibili nel cerchio ne portano
invece la figura geometrica all'interno, come la rotondità del ventre materno. La
rosa sfogliata come atto di sepoltura dell'ordine logocentrico ci apre a una nuova
logica della discontinuità, simile all’idea ebraica di creazione che strappa dal
magma informe i suoi elementi. Ma anche ripensamento dell'esistenza nella
ragione poetica della tradizione femminile, “pura rosa accesa” 0 dell'aurora che
strappa da sé la notte perché nasca un nuovo giorno. Perché è anche così che fa
giorno: per la rosa sfogliata nella sepoltura, per una morte avvenuta come di
parto nella forma dell'antico morire delle donne.
Ma prima di questa sepoltura una nascita, e con questa il dono di una
favola.
«C’era una volta una regina che aveva tutto perduto», così inizia Carlo
Felice Wolff la sua favola Le rose del ricordo. È la storia di una donna che si
rifugia su una ripida montagna portando con sé il suo unico figlio dopo avere
“tutto perduto”, marito e regno, a causa della guerra; marito e regno recisi come
vite divelta per sempre e da allora mai più.
La donna non possiede un nome, in realtà non possiede nulla, sappiamo
soltanto che è regina seppure non abbia più neanche uno scudiero al proprio
servizio. Una regina senza re e senza regno sembrerebbe un paradosso, una
contraddizione che però il lettore non avverte inconsciamente come tale perché
appunto inconsciamente la riconosce come insignita di un “sé regale”. L’identità
personificata nel ruolo-personaggio fiabesco gli si impone, infatti,
immediatamente convalidata dalla sua assoluta solidità e non contraddittorietà.
Una regina, anche senza re e senza regno, in una fiaba è infatti sempre e
comunque una regina. Questo perché nelle favole i personaggi non sono unici ma
tipici, mai ambivalenti nella polarizzazione del racconto che preferisce riferire la
dicotomia bene/male a figure differenti, quella stessa polarità che invece, sul
piano della realtà, vive entro la medesima complessità psichica di ogni donna, di
ogni uomo. Se la regina “ha tutto perduto” questo tutto non può che riferirsi a
qualcosa di estraneo da sé, di più, di opposto a sé proprio quanto la fata si oppone
alla strega, il malvagio al virtuoso e la bella alla bestia. Vi è stato di certo un
tempo archetipico in cui questa donna deve avere regnato, e in tale tempo si
fonda sia il suo essere modello primordiale di regnante sia il per-sempre
temporale del suo regnare. Fondato, e dunque legittimo da sempre e per sempre.
Eppure in questa favola c’è qualcosa di più, perché qui abbiamo una regina
e non un re.
Se infatti l’essere-regina si oppone all’avere un regno, significando che non
è il potere costituito o il ruolo sociale a conferirne l’identità, ciò avviene soltanto
perché questa, in quanto donna, si impone come coscienza di sé o
consapevolezza di un sé regale in virtù dell’assenza - non usurpazione - della
0
M. ZAMBRANO, Dell'Aurora, trad. it., Marietti, Genova 2000, p. 35.
56 Capitolo IV

violenza del potere. È questo capovolgimento il fattore discriminante, lo stesso


per cui Antigone o Calypso sono regali in quanto si oppongono con fermezza
all’ordine politico - il regno fondato sulla violenza - e socialmente riconosciuto.
La regina della favola di Wolff, che del marito morto in battaglia conserva solo la
spada, consegnerà poi tale memoria (di guerra) al figlio, in procinto di partire,
con l’ammonimento di non sguainarla se non per difesa. Quel figlio cresciuto su
una montagna deserta che, divenuto adulto, vuole esplorare il mondo possiede
forse di suo padre una “memoria senza rimpianto”? Somiglia al figlio senza
nome di Calypso, e infatti questo principe non ha nome perché nato da una regina
senza nome che, come la ninfa, vive nascosto in un bosco-isola di Ogigia, figura
del sacro.
La regina, che è scampata alla morte opponendo alla guerra il
nascondimento di Calypso, vive centrata in quel sé che si riflette ed è riflesso
nella sacralità del luogo. In quel “non sguainare mai la spada” è infatti la
sapienza femminile e materna a parlare al ragazzo, una sapienza partorita da una
consapevolezza di sé intrecciata agli eventi del mondo e al contempo custodita
nella solitudine. Ma perché regalare una spada di cui non si dovrà farne uso? Se
restiamo sul piano superficiale affermando che tale dono è un monito a ricordare
la violenza della guerra, di cui era stato vittima e artefice il padre con tutti i suoi
effetti nefasti, ci troveremmo a contraddire la polarità regina = valore/regno =
disvalore. In questo modo, infatti, ammetteremmo che a causa della spada la
regina ha perduto un valore (il suo regno) come se questo fosse un polo positivo
e non la figura della violenza della polis fondata su un ordine patriarcale. Ma se
cadessimo in tale contraddizione non potremmo più credere alla favola che
invece, sin dall’inizio, ci affabula proprio perché da subito ci convince sulla
validità dell’identità non polare, non ambigua, di ogni personaggio. Ovvero sul
fatto che la regina è tale nonostante - che in termini favolistici equivale a in virtù
del fatto - il suo regno sia scomparso, poiché questo era l’ombra e lei la luce. E
nessuno, bambino o adulto, legge o ascolta una fiaba senza poter credere - sentire
vero ed empatizzare - nei suoi personaggi, pena la perdita dell’affabulazione che
deve sortire, come una nenia notturna, una partecipazione emotiva e inconscia.
Con il sospetto dell’ambivalenza, al contrario, il conflitto interiore del lettore non
può che aumentare cadendo in uno stato confusivo che ingenera allontanamento
(freddezza), malessere e in ogni caso non immedesimazione, fruizione e catarsi.
Ovvero scelta di sé come ordine di senso.
Ma io leggo: “C’era una volta una regina che aveva tutto perduto” e già
sento compassione per lei, per me, soprattutto se anche io sento di essere stata in
certo modo defraudata di qualcosa di profondamente mio, ovvero se ne sento
profondamente (inconsciamente) l’ingiustizia. Tale senso di ingiustizia è guida e
motivazione dei nostri comportamenti e solitamente si riferisce più al principio di
equità - il successo deve sempre essere proporzionato al merito - che a quello di
parità, non disgiunto dal confronto con un preciso quadro di riferimento esterno
(ad esempio il tessuto sociale, che nella favola è posto tra lo statuto regale e il
57 Calypso, solitudine senza rimpianto

regno). Le nostre reazioni sono di solito volte o alla riparazione (punire il


colpevole e risarcire la vittima) o di giustificazione (riordinandole mentalmente
senza intervenire direttamente sulla realtà, per ristabilire una sorta di equità
psicologico-cognitiva). Già nel 1970 M. J. Lerner evidenziò il beneficio
psicologico di conservare la “fede in un mondo giusto” (quella che la nostra
favola invece si dissolve) per soddisfare il bisogno e l’illusione di poter
controllare la giustizia. Se infatti il mondo è giusto, e io mi comporto bene, allora
non dovrò temere alcun male. Sto semplificando, è chiaro, ma qui la favola è solo
un pretesto per riflettere sul doppio registro, capovolto e interscambiabile, della
rappresentazione della polarità femminile/maschile nella nostra tradizione
popolare secondo il paradigma della dissonanza o corporeità del logos. Dunque
procediamo un poco nel fitto bosco in cui si nasconde la regina fino a scoprire
che qui proprio lei (il “sé giusto” opposto al mondo ingiusto) opera un
capovolgimento radicale della percezione dell’ingiustizia, sublimando (nella
memoria senza rimpianto) la minaccia alla fede in un “mondo giusto” senza
cadere nel senso di colpa o nei meccanismi denigratori dell’autodifesa. La regina
infatti non gioca al ruolo della “martire” perché con il suo deciso no al mondo (il
regno fondato sulla guerra, da cui fugge nascondendosi nel bosco) salva se stessa
-primo valore- e con sé il figlio -valore aggiunto, ovvero il mondo sottratto alla
guerra-, inaugurazione simbolica dell’abitabilità del mondo.
È lei il “sé giusto” di cui nella favola non mi è dato dubitare. È lei che da
subito sento positiva e regale, questa eroina che salva il mondo (il figlio)
custodendolo nel centro sacro del mondo (di sé, del bosco), preservandolo nella
regalità mai abdicata di quel sé che è consapevolezza di essere regale e giusta. È
per questo motivo che il figlio, che in fondo è la sua parte adulta desiderosa di
lasciare il bosco per abitare il mondo, conserva tale fiducia nel mondo giusto
credendo che potrà ottenere ciò che desidera soltanto se saprà comportarsi
correttamente. Ovvero se si deciderà a sguainare la spada solo per autodifesa. Il
ragazzo parte infatti in cerca di avventura e di una sposa e nulla, neppure
l’esperienza nefasta del passato e del lungo esilio sui monti, incrina questa salda
fiducia di poter ottenere ciò che desidera purché e se saprà guadagnarselo.
L’ingiustizia subita, se si riferisse al perduto mondo di un regno fondato
sulla violenza, falsificherebbe tale convinzione ma qui, e questo è il punto di
maggiore interesse, è tale mondo ingiusto a essere stato punito attraverso
l’opposizione - il “no” regale - e l’inaugurazione di un nuovo mondo
simbolicamente giusto, ovvero abitabile (il “sì” materno). La regina non ha
difeso la fede nel regno, che pure era anche il suo (e su questo dovremo poi dire
qualcosa), sentendosi - senso di colpa- in qualche modo responsabile, al contrario
ha difeso sé nella consapevolezza di essere giusta e di continuare ad apparire tale
- immagine di sé - di fronte agli altri. Ma chi sono questi altri? Lo scudiero, il
figlio (la sua parte adulta) e soprattutto il bosco, ovvero il contesto esterno di
riferimento che simbolicamente sta per sacro, nascosto e vero alla maniera di
Ogigia per Calypso. Mai la regina metterà in discussione, o la favola indurrà a
58 Capitolo IV

dubitarne, l’equità della propria condotta e nel suo combattere la propria battaglia
mai cederà alle istanze di denigrazione ed esaltazione secondo il modello
dell’autodifesa. Quel suo cercare rifugio sui monti conserva lo sdegno per un
mondo che non vuole né denigrare né salvare quanto, al contrario, ribaltare come
partorendolo da sé, procedendo dal chaos del male al cosmo di un ordine nuovo,
a favore della pace da cui germina la vita. Non fugge ma affila le armi della
memoria come l’eroina che miticamente fonda un nuovo ordine (cosmo =
mondo) di senso per la sua abitabilità. La sua resa, come potrebbe sembrare il suo
atteggiamento nella mite accettazione della perdita dei beni materiali, come
anche la remissività di fronte alle insistenze del figlio di partire per il “mondo”, è
in realtà una tipica forma di opposizione femminile del bene al male, di lotta e
forza - non debolezza - per affermazione della vita. Così fecero le medio-
pitagoriche, i cui frammenti sono per noi di sconvolgente attualità nel
ribaltamento del ruolo passivo/negativo del femminile in una forte azione
propulsiva di autoeducazione. Ma su questi scritti si tornerà in seguito, per il
momento c’è la favola. E dunque, se la regina è un personaggio sapiente e
vigoroso, perché fa questo assurdo dono della spada al figlio, al mondo, che pure
ha salvato e nutrito?
In realtà perché gli restituisce una memoria senza rimpianto, ovvero la
coscienza di sé come riappropriazione di un sé creativo e propulsivo. È la madre
che per il figlio fonda simbolicamente l’ordine di senso dell’abitabilità del
mondo, ovvero della possibilità di vivere con gli altri in modo consapevole. E al
contempo è la consapevolezza che contrasta la logica del potere per la giustizia
mentre la pace rientra in una lotta che dona senso all’esistenza, una lotta
consumata entro la trascendenza orizzontale dell’intersoggettività. Ma vediamone
da vicino i passaggi, perché è tempo ormai di raccontarne per esteso la storia.
Dunque, c’è appunto una regina che tutto ha perduto dopo l’ennesima
guerra infuriata sulla terra e per salvare la propria vita (il sé femminile) e quella
del figlio (il sé creativo e adulto) si nasconde a vita - la tomba di Antigone?
Ogigia di Calypso? - su una montagna in assoluta solitudine. E tanto questo
rifugio in se stessa è aspro e doloroso da essere descritto come “ripida montagna
dalle vette dentate”: il no regale rispetto al mondo, per entrare nel silenzio di sé,
deve avere questo aspetto fortificato e difensivo. Prima di congedare il suo fidato
scudiero, sapendo di non poterlo più retribuire tanto ormai è divenuta povera (il
racconto biblico di Ruth che resta accanto a Noemi nella disgrazia è una
solidarietà volta al riscatto femminile ma qui l’identità femminile, della regina,
necessita di un superamento o riappropriazione dell’ordine-potere maschile, una
“iniziazione” femminile), gli chiede di portarle un fiore dal campo di battaglia
dove è morto il suo coniuge. Glielo chiede “per avere almeno qualcosa da
conservare in memoria di lui”. Non le importa del regno perduto, la favola non ne
fa mai riferimento, piuttosto di non possedere il “corpo” dell’amato nel duplice
significato di non poterlo più fisicamente amare da vivo e piangere da morto. La
regina, consapevole di essere una donna che ama e “chi più non regna”, chiede
59 Calypso, solitudine senza rimpianto

un fiore dal campo di battaglia per conservarne la memoria. Siamo di nuovo


ricondotti all’identità femminile di cui ella intende riappropriarsi attraverso il
simulacro fiore-corpo che, solo in apparenza, qui è presentato come “maschile”.
Ma un fiore non è eterno, e qui possiamo interrogarci anche sul carattere
apparentemente effimero del sostituto uomo-fiore che rinvia sia alla concretezza
della cura sia al realismo della sua intrinseca durata temporale. Ma il tempo
dell’uomo, in certo senso la sua finitudine, non incupisce affatto la coscienza
salda e femminile della regina, anzi, lei stessa la richiede quale valore da
custodire in questa nuova accezione di tempo che è appunto quello “contratto”
della cura. Avere memoria dell’amore è infatti averne premura “oggi” per
volgerlo - come fiore da donarsi al mondo inaugurato come nuovo, qui
rappresentato dal figlio, - per la rigenerazione della vita nel mondo. Non vi è qui
alcun solipsismo o rimpianto per ciò che si è perduto, tale da farci inabissare in
un passato il cui nome è assenza di futuro: la donna è nutrice, è ciclo vitale, il suo
respiro da Demetra a Persephone scandisce il ritmo delle stagioni che sempre
tornano sulla terra. Il futuro è invece già in lei, nella sua memoria fragile e umana
di donna che conserva un fiore a memoria di un uomo. Ma ovviamente su quel
campo di battaglia, dove pure ha versato il proprio e altrui sangue l’amato, non
può crescere alcun fiore e lo scudiero, dopo tre giorni di ricerca (quanto basta per
sapere che il tempo è concluso, poiché il numero “tre” è figura di compiutezza) le
consegna “soltanto” la spada del re. Questa, sostituto del suo corpo dissepolto in
campo di battaglia, è la stessa che la regina donerà al figlio molti anni dopo
quando questi, fortificato dalla cura materna, deciderà di partire per il mondo in
cerca di avventura. Ma perché la regina non considera questo figlio amato il
degno residuo-ricordo (ciò che resta di più concreto e reale) del suo “amato”
coniuge, senza ricorrere al sostituto spada(fiore)-marito? E perché l’amato non
sarà per lei che il ricordo di una spada da non sguainare, di un uomo violento cui
non somigliare o somigliare più?
Verrebbe da pensare che il figlio sia in realtà la manifestazione di una parte
di sé, e non del re, favolisticamente esternata in un personaggio che mantiene il
rapporto dei due termini figlia/madre. Si tratterebbe appunto di quella parte di sé
recata in salvo dalla violenza maschile di cui era al contempo vittima e artefice il
suo stesso sposo, entro la polarità re = violenza/regina = pace. Questo figlio non
sembra somigliarle molto considerato che, divenuto adulto, trae dal fodero la
spada del padre e annuncia di volersene andare per il mondo. Ma io che leggo
non resto confusa: il figlio del padre guerriero non può non sguainare l’arma per
“affrontare” (sostituto aggressivo di “incontrare”) il mondo; la madre lo implora
perché desista ma infine (l’apparente sconfitta della resa femminile) lo lascia
andare per il mondo, armato della memoria della violenza. Nella vita reale
sarebbe stata la stessa regina a impugnare l’arma della giustizia (come a dire: mi
riprendo, seppure a modo mio, quanto mi è stato tolto), ma la favola questi
conflitti interiori non li ammette e il figlio, ormai ragazzo, è in fondo la sua parte
adulta che è pronta ad abbandonare la solitudine del bosco. Chi ricorda senza
rimpianto può lasciare andare il passato per rimettersi in viaggio. Ma perché si
60 Capitolo IV

lascia portar via la spada senza opporre resistenza? E da chi, se non da se stessa
adulta (il figlio parte per cercare una sposa) che dall’essere figlia si è trovata a
essere madre per la mediazione di uno sposo violento (voleva un fiore ha
ricevuto una spada).
A proposito del “no regale” all’ingiustizia del mondo abbiamo
implicitamente riconosciuto che questo, di cui il regno è figura, in certo senso e
in un tempo lontanissimo doveva comunque esserle appartenuto. Perché
intimamente legata al re lei era e resta regina agli occhi del mondo, sia di quello
soffocato nel sangue sia di quello inaugurato simbolicamente nel “nuovo” del
figlio. La percezione di sé non è mai disgiunta dall’immagine pubblica del ruolo
che rivestiamo e dai messaggi che inviamo all’esterno perché gli altri rinforzino
l’immagine che noi abbiamo di noi stessi. Anche nella polarità regina/re la
coscienza del proprio essere non è affatto avulsa dalla situazione socio-culturale
(entrambi sono i regnanti) e dal “ruolo” sociale richiesto e assunto a volte
tradotto in comportamento abituale corrispondente alla conoscenza di sé. Infatti
lei è regale sempre, anche quando ha perduto il suo regno. Non sto
contraddicendo la tesi iniziale, femminile = ordine/ chaos = disordine, quanto
piuttosto indagando sulla complessità del senso (e l’ordine è pur sempre un
ordine di senso) relativo all’individualità come unità distinta, sulla base della
concomitanza di un sé soggetto (agente), sé oggetto (relazionato agli altri) e sé
unico (coscienza di essere un’unità).
Forse perché, in fondo, la sta solo riconsegnando al proprio sé adulto,
irrobustito per le cure materne auto-elargite e dunque in grado di difendersi - la
spada potrà essere usata solo per questo - senza spargere sangue innocente. È in
questo senso che parlo di dono, nella favola non è impiegato questo termine,
perché una regina fiabesca che vive nascosta in un bosco e decide di entrare nel
mondo senza armi, indifesa, somiglierebbe a uno splendido unicorno che
catapulta in un villaggio di cacciatori senza essere munito di corno. Senza difesa
del sé non si ha percezione del proprio essere se stessi nel mondo, e dunque non
si è pronti neppure per lasciare la “madre” e chiedere al mondo il nostro spazio
vitale. Un unicorno disarmato non somiglia a un sé adulto, e io che leggo la
favola non ammetto contraddizioni interne ai personaggi. Il ragazzo è infatti
cresciuto, la parte adulta della regina è ormai pronta e qui resta, tra le mille, una
domanda: cosa l’ha nutrita in tutti quegli anni trascorsi sulla montagna deserta?
Forse la spada sigillata nel fodero, ovvero il suo “dire no” all’alimento dolce
(legato al ricordo amoroso e ancor più al miele lattiginoso di una “madre”
nascosta, taciuta, nella favola) ma velenoso di un sé che rifiuta come altro da sé,
pure accettandola (la regina la conserva seppure non sia il fiore richiesto) come
fosse in certo senso anche la sua. Ma vi è o no polarità tra lei e il suo coniuge? La
favola qui non ci aiuta. Del re, infatti, non sappiamo proprio nulla e se il suo
modello lo ricomponiamo nel puzzle complesso del personaggio femminile,
appunto quello della regina, facilmente lo riconosciamo come pulsione forte che
le appartiene da sempre. E infatti la favola ci aiuta omettendo di lui e dell’altra
61 Calypso, solitudine senza rimpianto

assente: la madre della regina (perché il ragazzo dovrebbe essere così ansioso di
separarsi dalla madre per cercare una sposa se il chiasmo madre/sposo non fosse
tanto cruciale nella favola?) Ovviamente questo nella vita reale, quella di ogni
donna, nella favola invece appartiene all’anti-regina, ovvero al re morto in
battaglia: quale battaglia? cosa muore della regina quando giace riversa accanto
alla sua spada? E che ne è di lei quando le viene tolta per due volte la spada?
Mentre giace sul suolo in lei si cerca un fiore che non c’è, quando attenderà il
ritorno del figlio-sé adulto lo verrà ritornare accanto a una sposa adorna di una
splendida rosa. La memoria di avere desiderato il potere (il padre, il re) o la
memoria senza rimpianto di avere abbandonato -è fuggita sui monti- una parte di
sé talmente sconosciuta da non ricordarne neppure il nome? Nella favola quel re,
di cui è immediata e indubitabile la validità, sappiamo soltanto che rientra in quel
“tutto perduto” che fa da incipit alla storia, una vera e propria storia di
“iniziazione” femminile. Anche qui, in un tempo arcaico e primordiale, l’identità
regale maschile è stata fondata per sempre sulla sua morte (la fine del
matriarcato): c’è una morte mitica del potere ambivalente “maschile” che pure ha
inaugurato la nascita di un nuovo potere “femminile”, seppure sotto le sembianze
di una donna nei panni di un ragazzo, un ordine complesso (per questo strutturato
nella fiaba in personaggi opposti) ma non ambiguo. La regina è forte, infatti è
viva; la morte che le è compagna (il marito-re) “da sempre” giace lontano e la
sua spada non può commuoverla (cum-movere) verso alcuna nostalgia di lui.
Come Calypso, la regina lascia che vi sia distanza tra sé e l’ombra di sé, seppure
amata perché in certo modo propria: nella vita reale le donne chiedono agli
uomini i fiori, a se stesse la spada. Erano insieme ma la sua storia inizia quando
finisce quella di lui; che poi fosse la loro, perché appunto una storia d’amore,
nessun dubbio o forse no, qualcuno sì, visto che anche lui è parte di lei ed è stato
necessario che morisse perché lei fosse, fosse colei che appunto “aveva tutto
perduto”. Ovvero che perse il suo corpo, per spada di uomo.
Un sé cosciente di sé, dunque, consapevole non soltanto della perdita ma
anche del valore della scelta che ne è seguita - e scegliere è accettare di perdere
qualcosa - decidendo di essere regina e non re, Antigone e non Creonte, Calypso
che ama e non Odìsseo che vuole solo essere amato. Il bosco, la notte, Ogigia: il
rifugio nascosto per iniziarsi a essere a partire da sé, o detto con le parole della
favola, con l’autorevolezza del “no” regale.
Nella vita reale le donne, come il figlio adulto, sguainano la spada non
senza conflitti tremendi e profondi dal fodero robusto di identità materne spesso
violate e spesso nutrici. E se un uomo offre la spada o giace lontano, morto a
causa della sua stessa violenza, la donna Antigone e la regina di Wolff chiede
ancora da se stessa la forza per opporsi o curare, combattere o seppellire (nella
terra o nella memoria) quel corpo, ogni corpo, che nasce da donna. Non per
ripiegamento autoreferenziale ma per profonda coscienza di sé: coscienza
dell’urgenza della vita sulla morte, dell’individuo concreto sull’essere astratto,
della gratitudine sull’invidia e, infine, dell’affermazione (anche “nascosta” è pur
62 Capitolo IV

viva, dunque non veramente nascosta come corpo sepolto) sul naufragio di sé. E
io che leggo o ascolto la favola, empatizzandone i contenuti nelle pressioni del
mio inconscio, mi decido o per l’una o per l’altro. Mi decido, decido di me, e
adeguando il contenuto inconscio alla fantasia conscia e strutturata del racconto
conferisco un ordine a me stessa, ovvero ascolto ed esco dal chaos dei miei
impulsi scegliendo una via. Trovo e accolgo un senso che è direzione al mio
andare: o verso il bene o in direzione del male, non basandomi su una morale
precostituita ma decidendo (oggi così, domani non so) se essere regina (cosmo =
ordine) senza senza regno o avere il potere di un regno senza regnare-regnante
(chaos dell’informe). Il sé è infatti tutto nella coscienza e nella consapevolezza
di sé e nessun dubbio è mai sollevato a questo riguardo lungo l’intero
svolgimento del racconto. Eppure il registro si ribalta, come sempre quando si
intersecano le polarità dell’ordine simbolico femminile/maschile, e la scelta più
ovvia (avere un regno) è scartata in quanto smascherata come fallace (avere un
regno significa infatti non essere un regnante). Poiché nella favola sono
affabulata dalla promessa di scoprire un senso che è legato alla consapevolezza di
me stessa, e questa alla scoperta della mia stessa forma progettuale, sono
sollecitata a scegliere me stessa autoincoronandomi regina con un atto interiore e
pubblico e politico di autoaffermazione. Per questo seguo con interesse le
avventure del figlio-regina che lascia il recinto chiuso del bosco per incontrare il
mondo, l’altro da sé. Il mio regno sarà allora, come nella favola di Wolff, la
memoria femminile della cura per il vivente sopravvissuto (e sopravvive chi
sente, attraversa e supera i conflitti) al regnante sprofondato nell’Ade col suo
violento regno, obliato e sconfitto come la spada rimasta sulla terra. Al ritorno
del figlio, accompagnato da un’amorevole sposa che corrisponde ai desiderata
materni (il fiore-il corpo amato), io sono ormai questo figlio-adulto e non più la
regina, non mi immedesimo più nel suo passato che ormai, infine, è “perduto”
come doveva essere perché io, la regina-adulta, si riscattasse nel mondo dopo
l’iniziazione nel bosco. E allora felice chiudo il libro e mi rallegro che davvero
lei, io stessa, “tutto aveva perduto” fuorché la memoria - riportata nella
mediazione del viaggio del figlio- dell’avventura per la riappropriazione
“corporea” di sé.
Ma a volte le rose appartengono a una memoria perduta in uno
stravolgimento orfico in cui lei, la regina-Euridice, non è riconosciuta come parte
integrante di sé. Così «Col nostro sangue e colle nostre lacrime facevamo le
rose» scrive di Dino Campana a Sibilla Aleramo nella poesia In un momento,
sebbene non abbia smesso di amarla fino alla fine dei suoi giorni. L’idea
condivisa che tra vita e arte dovesse esserci perfetta identità, per questo
“facevamo” le rose, ovvero ‘creavamo’ la poesia con la stessa ‘vita’, urta con una
modalità di percezione di sé profondamente differente nei due scrittori. Dino
Campana custodisce i suoi versi nel mistero della parola criptica, vive esiliato dal
mondo e trova pace solo tra i boschi come la nostra regina, cercando nella
“fedeltà alla terra” di attingere a quella “forza vitale” della natura selvaggia,
dionisiaca, di cui pure è figura Agriope-Euridice. Ma il viaggio orfico per il poeta
è un eterno abitare l’inospitalità del mondo tra angoscia per la nascita e agonia di
63 Calypso, solitudine senza rimpianto

un volo d’ali troppo pesante. Sibilla Aleramo, al contrario, lo ha sempre sfidato


questo mondo (è lei stessa a decidersi a incontrarlo), spinta da una passione che
le impone di salvare se stessa entro e non fuori le leggi della società, magari
contrastandole ma mai fuggendole (già con la fuga dal marito e l’abbandono del
figlio raccontato nel primo romanzo Una vita). Sapeva di sé, di essere una
scrittrice perché questo desiderava (la regina sa che il suo corpo è un fiore, per
questo lo richiede al lato del re morto e, quando non le è riconsegnato, lo nutre in
sé come desiderio-figlio che si riapproprierà di sé sposando una donna-rosa).
Difende le proprie idee politiche e, se a fine guerra si iscriverà nel partito
comunista, a Mussolini chiede più volte un sussidio per sopravvivere nella sua
vecchia soffitta romana di via Margutta; incapace di compromessi vuole
affermarsi, condanna il volontarismo interventista degli intellettuali ma tutti li
incontra nei caffè letterari, molti li affronta e molti li ama, e “sempre” con
trasporto assoluto. Cerca l’amore passionale - dopo la storia con Campana amerà
intensamente Quasimodo e ancora molti altri poeti - lei che aveva sposato chi
pure l’aveva violentata. Non rinuncia ai suoi ideali e Campana, che presto le si
rivelerà nella sua natura fragile e fortemente instabile, le apparirà come un
bambino violento capace di distruggere la sua identità: ma Sibilla Aleramo, lei la
regina col corpo di rosa riverso su un campo di battaglia, lo sa che il suo corpo è
di rosa? Perché in fondo si cerca nel sogno dell’altro, sempre “esposta” al mondo
e “nascosta” soltanto nel sacro recinto della scrittura, il suo bosco in cui trova
forma, la forma, ma il corpo negato? Perché per le mani dei suoi amanti non
sempre si rimodellò, riscattò, l’antica bambina Euridice “tanto amata” da chi
dover fuggire “perdendo” - lasciando ovvero perdendo a se stessa - il figlio.
Nella favola la regina non lo fa, non si priva di nulla; nella storia delle donne la
rinuncia è un solco inciso nell’anima che un uomo non sempre comprende, e
Carlo Felice Wolff appunto è un uomo. Dioniso Zagreo, il dio bambino sbranato
dai Titani, è il punto di contatto tra i due artisti: in Campana vive nei versi e nei
moti irruenti di un animo inquieto per ricreare il mondo nei versi, in Sibilla nella
forza del vivere e nella forma del verso per ricreare il mondo a misura dei versi.
Stessa sensibilità, diverso approccio alla parola; diversa cognizione di sé e della
solitudine quando, dopo l’ultimo incontro con Campana, lei scriverà a Emilio
Cecchi:
Non ero mai entrata in una prigione. È stato un colloquio di mezz’ora, i carcerieri
avevano quasi l’aria di patire sentendo lui singhiozzare e vedendo me irrigidita. Quando
sono uscita, c’era tanto vento… ebbene, la libertà m’è parsa la cosa più tremenda della
terra. Ho invidiato -forse, forse sì- lui ch’era rimasto dentro con qualcuno che almeno lo
ascoltava piangere… o io sono stanata dall’umanità, o la mia umanità non si esprime
più.0

0
Vedi l’epistolario S. Aleramo – D. Campana.
CAPITOLO V

SFOGLIARE LA ROSA FUNEREA:


SEPOLTURA TRA DELIRIO E PROFEZIA

«E ora, chi sfoglierà la rosa su di me, chi mi piangerà e, ciò che più mi
importa, chi alzerà la mano per salutarmi, indicando così alla mia anima quale
strada seguire, sciogliendo quel nodo che ancora unisce all’aria della vita le
anime di chi è appena morto?»
(M. Zambrano, Diotima di Mantinea,)

Una donna, una filosofa al limite della hybris della parola scritta, appena
compresa nella “ragione poetica” di una lirica che sembra riconciliare la figura di
Diotima, la “madre”, con quella della “bambina” Antigone. Zambrano le pone
accanto senza fornirne argomentazione, le stringe l’una all’altra fino a
ricomporre, in un unico abbraccio, l’icona della maternità pacata nel proprio
“destino vocazionale”. Eppure la forma dell’immagine resta confusa, indistinta,
proprio come nei sogni di Diotima e nei deliri di Antigone: nella separazione
dell’uomo dalla donna c’è ombra, silenzio. È l’abbandono, tutto femminile, che
All’ombra del Dio sconosciuto - questo è il titolo dell’edizione italiana del suo
Nacer por si misma - avvinghia la corporeità come l’ostrica l’anima socratica,
che pure anela ad andare. È in questa “luce sepolta” - dovrà pure esserci, perché
ombra ci sia - che ci sembra di ascoltare il lamento funebre della profetessa:
“Chi sfoglierà per me la rosa…”. E crediamo che questa sia ancora parola rivolta
a un uomo (certo anche ad Antigone, ma non qui…e cercheremo di spiegarne più
avanti il motivo), perché in lei mai la parola è stata quel delirio che precede la
coscienza come invece in Antigone, la “coscienza vergine” senza memoria di sé.
Nel corpo di Diotima lo stesso delirio da sempre l’ha resa medium tra l’uomo e il
cielo, tra il “nuovo” Socrate e la figlia sepolta viva che attende una “nuova”
nascita. Nella frammentarietà del come-se e del quasi della scrittura evocativa
della Zambrano ci sembra di scorgere, nella linea d’ombra che prelude alla luce -
è il tramonto: ora si può morire - l’uomo-Socrate dell’Apologia e del Fedone,
l’uomo giusto accusato di asébeia [Critone]. Ne condivide per elezione divina lo
spazio angusto della prigione ma, così in controluce, non possiamo non vederlo
distante, distante nel corpo. Non più accanto egli è “seduto” in disparte, sciolto
da ogni loro abbraccio - ma è solo un’apparenza - “i piedi poggiano sulla terra”:
sta profetizzando la gioia futura al cospetto di Apollo mentre con il logos “si dà
sepoltura”.
Ma è questa la sepoltura che invoca Diotima, per noi che restiamo a
guardare, nel suo delicato lamento: “Chi sfoglierà la rosa su di me, chi mi
piangerà”? Sfogliare la rosa lasciando che le dita scompongano la bellezza della

6
4
forma per ricomporla nel moto sospeso del corpo, defunto, a noi sembra un
diverso atto di sepoltura. Un controcanto per il logos ferito che diviene parola
orante o gesto sacro col quale si dona, chiedendo, ancora un luogo da abitare o
una terra in cui essere per il corpo scivolato nella morte. E perché la profetessa
dovrebbe volgere proprio all’uomo-Socrate il proprio gemito, perché a lui
chiedere quel rito funebre che egli stesso, per sé, ha rifiutato accingendosi a
morire? E Antigone è davvero figlia o piuttosto, come noi crediamo, sorella? Il
delirio è qui fratello del sogno: Socrate che “nasce” come filosofo da Diotima (la
“madre delle anime”), Diotima che ri-nasce dal rito funebre del logos come
“canto”. Canto di gioia e non di malinconia, secondo l’interpretazione aristotelica
della preghiera del cigno ad Apollo, rito di passaggio per la madre perché dalla
profetessa nasca la donna. Socrate allora sarebbe, in questo nostro gettare luce su
zone d’ombra, “padre” della donna: perché se il femminile trova dignità e
vocazione nella maternità non vorremmo dimenticarlo, noi donne, è perché
questa la riceviamo da un Padre. L’essere figlie ci rimanda a un uomo, che è
fratello o sposo ma innanzitutto padre. La stessa iniziazione filosofica della
Zambrano - è lei a riferircelo - è tutta in quel corpo maschile, in quelle braccia
che la sollevavano, ancora bambina, sopra le spalle a guardare il mondo dalla
distanza. È lui a segnare il passaggio dall’indistinzione che precede la coscienza -
come non rivedervi Diotima “prima” di Socrate? ma Diotima né lo precede né lo
segue -, dal “sentirsi con” le rondini al “vedere” le rondini su è giù nel cielo,
ormai individuata e da loro separata. Il suo pensiero filosofico prenderà allora la
forma di una “ragione materna” mediata dalla “paternità” del maestro Ortega y
Gasset, in quell’invito eracliteo a ridestarsi alla vita, in quella premura socratica
che presagisce (il femminile nel modo maschile dell’intuizione) la nascita di
nuove anime. Sarà ancora la vocazione paterna di Miguel de Unamuno, accolto
con gioia al suo rientro dall’esilio in Hendaya nella primavera del 1930, a
incoraggiarla nel portare a compimento la “seconda nascita” consapevole che
vivere è un farsi nel tempo, un “parto” nella storia. E sarà proprio lui che sentirà
accanto nella scoperta della ragione tragica quando a Giobbe, che invoca ragione
a Dio, le sembra volgersi a chiedere ragione anche il suo don Chisciotte proprio
come a Pirandello i suoi smarriti personaggi. Filosofia come vocazione materna e
paterna, nella fede comune che l’unico modo per credere nella realtà risieda nel
poterla generare.
Lo studio della filosofia fu per lei anche questo: recuperare da Aristotele la
ragione vitale dell’essere qui, riconciliando la vocazione femminile della
corporeità del volersi offrire con il voler essere in quanto soggetto, iniziata
oramai a essere-di-fronte alle rondini in volo. E ancora: il ricordo del padre certo
che l’ordo et connexio rerum idem esse ac ordo et connexio ideaurum mentre
ascolta, serio e persuaso, la voce profetica della moglie che non sa quel che dice
ma sempre dice qualcosa di profetico. Quella Sibilla che le è madre. Filosofia
come coscienza, anche della prospettiva da cui si guarda e da cui si ascolta, ma
questo “si” non allude più a una forma impersonale quanto, piuttosto, al radicale
coinvolgimento dell’io nel proprio dire filosofico, dell’io che è sempre
67 Sfogliare la rosa funerea: sepoltura tra delirio e profezia

compromesso nel dialogo. Socrate parla in prima persona, ascolta il proprio


destino e lo abbraccia con i discepoli prima di morire per fedeltà a esso: egli non
è solo, come potrebbe essere “innocente” piuttosto è irrimediabilmente,
mirabilmente, coinvolto.
Cosa ci ha suggerito questa idea, questa immagine di tre figure accostate
nello stesso luogo eppure separate-attraversate da destini diversi ma responsabili
ognuna della storia dell’altra? Certamente qualcosa ma, appunto, è solo una
“visione in controluce” che la Zambrano ci offre e, come tale, richiede
illuminazione per poter essere detta e per poter essere. Consapevoli che davvero
contemplare sia partecipare, poiché si guarda con un corpo trasformato il rilucere
dell’essenza, fare luce - come nelle tele di Zurbaran - è accettare di lasciarci
compromettere da una presenza che interpella e che disvela nel bianco (del pane,
degli abiti) la sostanza delle cose. La sua natura morta è sacralità della materia in
una presenza divina che compromette, nell’assenso e nell’opposizione che suscita
interpellando a espor-si. E ci riesce perché non riflette il colore del sole sulla
pelle ma fa riflettere la sua luce e non il suo colore sul corpo incontrato,
illuminato a partire dall’interiorità. È questa una metafora dell’autocoscienza e
della psychè socratica? Certamente, ma non solo: è anche la “luce profetica” che
ci riporta a Diotima, la pitonessa sconvolta dal proprio dire, agitata da una parola
di fuoco che incendia e riluce perché appunto è luce. Ma è questa la parola, si
chiede la Zambrano, in cui “i profeti leggono il tema del futuro?” La luce
possiede un corpo, una carnalità che si dissolve solo quando decide d’essere
fredda illuminazione, angolo di penombra nell’ora in cui si compie il crimine.
Trasponiamo la nostra icona a tre figure, nel sepolcro dei vivi, sulla storia di
sangue della Spagna e ritroveremo, nella coscienza di sé come coscienza di un
destino storico, una delle pagine di Delirio y destino composto tra il 1952 ed il
1953:

In certi giorni, in certe ore della storia, sembra ritirarsi ed essere presente senza
vibrazione, unicamente per compiere la sua funzione di illuminare con indifferenza, come
per abitudine. E’ questa l’ora peggiore per l’uomo, peggiore anche delle tenebre, segno
che una tragedia si sta compiendo, che un sacrificio si sta consumando 0

Ma cosa ci ha portato a questa luce delle tele di Zurbaran e cosa ci porta ora
via da loro per entrare nel sepolcro di Antigone, tra la rosa sfogliata di Diotima e
la morte di Socrate? Certamente qualcosa di intimo, quale l’atmosfera di questo
strano sepolcro abitato da vivi che ci riconsegna a quel sentire originario proprio
di ogni situazione estrema, epochè forzata come la malattia, l’esilio e la morte.
Certamente è un racconto autobiografico - intimo - che inizia dal sogno di una
0
M. ZAMBRANO, Delirio y destino, Fundacion Maria Zambrano 1998 (trad.it. in Delirio e
Destino, Raffaello Cortina 2000, cit., p.190
68 Capitolo V

nascita (l’esperienza della malattia e quindi dell’esilio) per approdare al delirio


dell’anima quando ormai la madre è morta, quando il proprio daimon le impone
di scrivere secundum veritatis quanto “gli scheletri obbligati a vivere raccontano
nel delirio”. Sarà allora, questa nostra, una lettura incrociata di Nacer por si
misma con Delirio y destino, scritto in occasione di un concorso di letteratura a
Ginevra promosso dall’Istituto universitario europeo della cultura. Un racconto
autobiografico composto in poco più di un mese, che si valse della menzione
d’onore di Gabriel Marcel che, membro della giuria, ne richiese subito la
pubblicazione. Ma l’opera non vinse il premio letterario e venne pubblicato
soltanto dopo quarant’anni. Eppure ciò che ci ha condotto alla sua biografia, e da
qui alla storia della Spagna tra monarchia e dittatura, guerra civile e “difficile
libertà”, è più di un gioco di luce. Indagare sul perché una figura ne richiami
un’altra è relativamente semplice ma cercare di indagare il motivo per cui una
figura reclami una donna, una persona nel proprio pensarsi, non è un passaggio
immediato. Eppure quella luce, in Zurbaran, è l’elemento che permette la
liberazione della persona dalla tragedia e allora, forse, questo nostro voler
leggere la storia di una donna attraverso l’ostinato sguardo sulle sue figure mute
di Diotima e Antigone ha una propria ragione. È infatti una scrittura tragica,
questa di Nacer por si misma, in tensione verso una coscienza filosofica che
impedisca al destino di sopraggiungere come all’improvviso. E forse è proprio
qui che possiamo rinvenire la chiave per scoprire, oltre la tragedia consumata, il
pensiero che l’ha creata; quella chiave che, per la Zambrano, una scrittrice può
smarrire a opera compiuta. Ci sembra che la presenza di Socrate, il “padre”,
preservi dall’oblio la “persona-bambina” che per pietas si è immolata pur senza
“sapere” ciò che faceva, almeno nella lettura dell’Antigone offerta dalla
Zambrano. Attraverso questo passaggio avviene infatti che la rosa sfogliata
diventi la metamorfosi di una profetessa, che dice e non sa, in donna-filosofa che
spesso tace entro una profonda comprensione. Tale processo di coscientizzazione
è pure la morte del “burlador del destino a colpi di fortuna”0 - del Don Giovanni
che non riscatta la storia nel dramma - e se pure ci sembrano redente, queste
figure, non è forse anche perché il logos diviene qui gesto, atto che salva?
Proprio come quel rispettoso sfogliare la rosa sul corpo dissepolto della crisalide,
che deve rinascere a partire da sé irradiando luce da sé, ovvero distruggendo-
mangiando sé proprio come la crisalide.
Nella struttura di Delirio y destino ritroviamo in filigrana questo pensiero:
una sezione iniziale dedicata a sé, alla ri-nascita di “Un destino sognato”, seguito
dal luogo dei “Deliri”. Nella prima vi è la ricerca di un’identità che non vuole
assumere personalità - le figure eroiche di profilo - piuttosto accogliere, con
fatica, la responsabilità dell’essere persona in comunione con gli altri
nell’asimmetria dei loro tempi molteplici. Questa prima parte si chiude con un
capitolo dedicato alla sorella che, confortando la nostra interpretazione, la
scrittrice chiama col nome di Antigone. La sezione finale, quella dei deliri, ci
riporta infine al gioco di ombre - all’ombra del Dio sconosciuto - dove la figura-
0
Ivi., p. 234
69 Sfogliare la rosa funerea: sepoltura tra delirio e profezia

Antigone delira tra le braccia di Diotima, entrambe accanto e distanti all’uomo-


Socrate che pure sosta nel sepolcro. Ricerchiamone ora il chiavistello, per poter
aprire uno spiraglio maggiore di luce, per provare a vedere cosa si dischiuda oltre
il sepolcro della parola in quel dire come esperire la vita tra delirio e filosofia. E
dunque il “corpo” di Socrate tra la “madre” Diotima e la “sorella” Antigone.
María Zambrano ha appena ventiquattro anni quando si ammala gravemente
di tubercolosi e deve decidersi a “morire al mondo”, in assoluto isolamento come
la regina della favola di Carlo Felice Wolff , sostando nella verità della
coscienza per poter sognare di tornare a vivere. Una epochè necessitata dalla
situazione-limite della malattia che le dischiude, così in intimità con se stessa, la
comprensione della propria nascita come debolezza di cui aver cura entro se
stessi. “Curarsi” diverrà, nella ricchezza dell’ossimoro, entrare anzitempo nella
tomba aspettando un nuovo-tempo in cui tornare a nascere. In questa condizione
di assoluta solitudine - il medico che la curava le aveva detto: “Devi scegliere tra
tre anni di riposo e tre mesi di vita” - la donna-Zambrano può solo aspettare-per,
non attendere di, poter rivivere. La facilità dell’analogia può indurci nel più
grande degli errori, ce lo ricorda già Platone, perché tale dimorare in solitudine
non si allinea con l’abbandono di Antigone nel sepolcro. E la differenza, non
marginale, è innanzitutto nella variazione semantica tra delirio e sogno in quanto
solo Diotima può sognare la vita futura, che seguirà la propria malattia, ove la
sepoltura sarà il passaggio dal sogno donato di Apollo al logos profetico di
Socrate. L’uomo-Socrate è infatti solo in apparenza distante da lei, nel sepolcro,
così fedele al proprio voto mentre volge al dio il medesimo poema del vivere
morendo. Ora sognare la vita futura è dare luogo alla speranza di non dover
convertire, come invece in Antigone, un passato non ancora compiuto in un
futuro mai realizzabile. Sarà questo il suo delirio di bambina: i gemiti di un
corpo mai cresciuto e mai amato dallo sposo cui pure era stata promessa, il cui
amore è ancora tutto pietà ovvero senza peccato. In Antigone la coscienza non si
distingue da questa stessa pietà, perché la sua logica (questo sì, come per
Socrate) è amare il giusto visto con gli occhi degli dèi. Ma, lontana Socrate nel
proprio innocente nulla sapere di sé, non ha avuto il tempo di sognare (il furore
mantico) o ascoltare (l’oracolo che rivela all’io il proprio sé come dato-compito
di essere il “più sapiente degli uomini”). Tale coscienza allo stato vergine ha la
pietà di Socrate ma non la consapevolezza del valore della propria missione e se
lo immaginiamo così, come nell’Apologia [28 b; 28 d-e] immobile sul proprio
campo di battaglia, riusciamo a comprendere anche la differenza tra l’innocenza
“santa” e la “santità” degli innocenti.
E ora che Dio mi ha assegnato un posto di combattimento, così almeno io credo di
dovere interpretare il suo volere, posto di combattimento che è quello di vivere
filosofando, esaminando me e gli altri, sarebbe veramente cosa grave se io, per paura
della morte o d’altro, disertassi il campo.0

0
M. .ZAMBRANO, All’ombra del Dio sconosciuto, op.cit., ,p.82.
70 Capitolo V

È qui che Socrate finalmente risponde su quanto resta sospeso


nell’Eutifrone: la santità è lo sforzo di conoscere il divino, la sua essenza, di
comprere il proprio compito alla luce della sua stessa luce (Apollo, il dio-sole), di
ob-audire alla sua parola che è anche epifania del divino.
Diotima non sa rendere conto di quanto dice, per questo il proprio destino
di donna che indica il destino è offerto a chi ascolta il suo dire, e a lui chiederà
sepoltura. Ma Antigone non si volge al medium della corporeità della
sacerdotessa, lei che ha appena avuto il tempo di “sapere” di esistere, lei che mai
attraverserà il sogno profetico che dischiude al divino agire, al responsabile dire
in prima persona davanti alla morte. E infatti quel “darsi la morte” con la cicuta -
il suicidio indotto da una polis che rifiuta la responsabilità del sangue versato -,
quel “gesto” come responsabilità non innocente del logos non le può appartenere.
Per questo la Zambrano rifiuta l’idea, in quanto idea distratta dalla terra, di
Antigone suicida perché chi delira chiede voce ai vivi per ascoltarsi, per capirsi o
semplicemente perché questi si capiscano e ascoltino nei gemiti dei morti
innocenti. Antigone è ora a noi più accanto:

Antigone la pietosa nulla sapeva di sé, neppure che poteva uccidersi; questa azione
repentina le era estranea, e prima di giungere a essa, supponendo che quella fosse la sua
fine appropriata, doveva inoltrarsi in una lunga galleria di gemiti, divenire preda di
innumerevoli deliri; la sua anima doveva rivelarsi e, ancora, ribellarsi. Doveva
risvegliarsi la sua vita non vissuta.0

È il vissuto che separa Diotima da Antigone e che renderà quest’ultima da


“sorella” a “figlia” delirante, a lei implorante una nuova nascita. All’inizio,
infatti, la Zambrano racconta la propria vita in un continuo sognarla, entro un
destino che è tutto “nell’essere che ci è dato”, ma cosa precede il delirio - questo
il nodo - nell’andare fuori di sé a prestar voce ai morti che non possono più
raccontarsi? È la storia che precede e che responsabilizza interrompendo il coro
tragico circa la vittima-carnefice che qui è Edipo, il padre di Antigone. Quando la
coscienza storica richiede un sogno lucido del sogno della vita non c’è più posto
per la compassionevole voce “Oh tu, il più disgraziato di tutti gli uomini!”. A
compiere tale movimento di flusso e riflusso tra sogno, vita e delirio è l’anima,
aperta a quella speranza che nasce di fronte a ogni sofferenza insopportabile.

Agonizzare è non poter morire a causa della speranza. No, niente ci


respinge dalla morte, niente ci scaglia ancora verso la vita, se non una speranza
nascosta. La speranza che disperatamente nasce di fronte a ogni sofferenza
0
Ivi, p.82
71 Sfogliare la rosa funerea: sepoltura tra delirio e profezia

insopportabile. E quanto più insopportabile è ciò che si patisce, più profonda


rinasce la speranza. Forse per questo dobbiamo patire; perché la speranza si riveli
in tutta la sua profondità.0

La coscienza storica è pure la volontà di parlare in prima persona, di


rispondere in prima persona, e dunque la confessione le sembra il genere
letterario (La Confesion: Género literario) capace di rivelare la vita
dischiudendola alla verità. Scrittura autobiografica perché «la filosofia che non
ha umiliato la vita ha umiliato se stessa, ha umiliato la verità. Come ridurre la
distanza, come fare in modo che vita e verità s’intendano, la vita lasciando lo
spazio per la verità e la verità entrando nella vita, trasformandola fin dove è
necessario senza umiliarla?»0 Da qui procede il doppio registro di una riscrittura
della propria vita, entro la categoria della ri-nascita a partire da sé, e quella
storica del “delirio” di chi non riesce a scrivere perché vittima muta e succube di
violenza. Siamo ormai nel 1946 e la Zambrano, dopo aver atteso per un mese il
visto per Parigi dall’Avana (il suo lungo esilio dalla Spagna a seguito della
guerra civile), ravvisa nella ‘madre’ Europa la “madre sepolta”; riabbraccia la
“delirante” sorella Araceli torturata dalla Gestapo, strappata al marito prima
esiliato quindi morto suicida. La storia della Spagna: il suo sangue sparso durante
la dittatura, la guerra civile nel suo farsi distante (cieca volontà di non vedere) dal
processo di trasformazione lenta, culturale e spirituale in cui la Zambrano, ancora
ragazza, si era tuffata con tanta passione. Sono gli anni degli studi universitari,
della filosofia, poi della malattia che è una quasi-morte e infine, disattesa eppure
invocata, la rinascita nella speranza. Questo era stato “l’intrecciarsi dei tempi”
del proprio rinascere con il nuovo fermento culturale, a partire dalla semplicità
della verità che è sempre nuda e per questo senza veli (indumento e ornamento la
nascondono, non la impreziosiscono). Nell’auto-comprensione di essere un
pugno di terra irradiante luce, come la materia in Zumbraran, attraversati da una
trascendenza che ci inabita e per questo ci responsabilizza, la vita etica esige
consapevolezza e dono senza aspettativa di ritorno. Nell’assoluta umiltà del
corpo che si ammala, che insegna la verità dell’umiltà e della povertà della nuda
verità, la persona sperimenta una nuova nascita a partire dalla verità crocifissa e
per questo, per noi, in eterno risorta.

A partire dalla verità; è questo l’essere povero. Non pretendere che qualcosa ci copra di
splendore […] apprezzare solo il necessario senza dargli importanza; andare diritto al
cuore delle cose; trattare il prossimo senza timore, né vanità poiché, lo avevo già visto, di
questo di trattava, del prossimo puro e semplice, del fratello. Poveri e soli, tutti […]
Alcuni, molti, non solo perché poveri nella loro mancanza di essere, ma perché feriti dalla
povertà, feriti… da tante cose. Abbiamo infatti sufficiente essere perché vi si aprano
0
M. ZAMBRANO, Delirio e destino, op. cit., ,p.252.
0
ID., La confessione come genere letterario, tr. it., Mondatori, Milano 1997, cit .p.39
72 Capitolo V

ferite.0

Sembra anomalo che una donna che si racconta si ricongiunga poi al


proprio nascere come un sogno che appartiene ad altri, perché la creatura,
parafrasando Pindaro, è come “ombra del sogno di Dio”; eppure la Zambrano ha
compreso bene che nascere è ri-pensare per il tempo della vita l’essere che “si
pensa” e che indaga dubbioso e incerto di sé nella passione - amore filosofico –
di sé. Lo stesso che rende possibile l’esperienza del vivere entro questo ri-
pensar-si come proprio dell’essere che si trova a essere, riferendoci non tanto
all’ontologia heideggheriana quanto al valore della lexis della Arendt. Ma
l’accento si pone sull’indefinibilità del tutto in relazione al quale si costituisce
l’ente:

Chi è colui che parla nel se stesso? Però siamo arrivati all’Io. Adesso,
quindi, mi chiedo con la stessa autenticità, chi è questo io circondato, abbracciato
e implicato dal tutto(…) Cosa accade a questo io quando subisce gli assalti del
nulla e cosa succede al nulla quando subisce gli assalti dell’Io?0

0
Ivi., p.23
0
Ibidem.,
73 Sfogliare la rosa funerea: sepoltura tra delirio e profezia

La filosofia della Zambrano è un dia-pas-on: si deve “passare attraverso”


questo tutto perché si possa uscire dal sangue innocente di Antigone fino alla
consapevolezza di sé. Come in Hacia un saber sobre el alma0 il letto che argina
il fiume è utile quanto la furia che lo travolge, perché allora “l’angoscia di
passare si trasforma nella gioia di essere in cammino”.0 Ogni volta che si ri-torna
in se stessi, ogni volta che si risale il percorso verso Delfi, si torna a ri-nascere e
allora, ogni volta, a questa vita si risponde: “Adsum, ci sono. Io sono qui”. Oltre
la ferita del logos, entro questa ferita che dischiude a un nuovo sapere, c’è la
possibilità di ri-conoscere il fallimento della separazione: Diotima di Mantinea,
nella nostra ri-lettura della Zambrano, diviene questo esilio del corpo femminile
negato (la sua voce per la parola del dio) quale rimozione dell’idea della nascita.
È il dolore che apre, nell’accoglienza di un grembo, al desiderio di un incontrare
l’aurora che nasce strappando (da sé) il buio della notte per la nascita di un
giorno nuovo. «L’aurora verginale, la pura rosa accesa, partorisce con dolore e
umiliazione…Si dimenticherà sempre la lacerazione e il patimento dell’Aurora, il
suo parto, se non si tiene conto della Notte, se la si vede unicamente come
annuncio del giorno».0 Perché è così che “fa giorno”.
Forse poche donne, come la Zambrano, hanno scritto pagine tanto
struggenti sul valore dell’esilio quale luogo di ripensamento della struttura ontica
dell’esistenza aprendosi, infine, a una “ragione poetica” che accoglie la filosofia
fino entro le viscere della terra. Il suo linguaggio trova la sintesi più riuscita
proprio nella riscrittura di Diotima0che nutre l’anima di Socrate perché, con lui e
per lui, abbia vita un pensiero quale cura dell’anima. Questo Diotima può farlo
soltanto a partire dall’umiltà dell’essere-vaso, accoglienza di parola ovvero
ascolto, dono di sé preceduto da un silenzio fecondo. Poiché la profetessa ha
conosciuto il silenzio nella dimora dell’anima, infatti, può ascoltare le parole
dell’altro offrendosi come “madre” di anime; poiché ha abitato l’esilio può
restare fedele all’essenziale, anche nel linguaggio. El errante è adorno soltanto
dei nomi, del senso, donati alla realtà già assunta nel proprio tempo e nel proprio
corpo.
Nell’umiltà dell’accettazione e nella trascendenza dell’anima per cui, come
in Etty Hillesum - la scrittrice che visse responsabilmente, ovvero liberamente, la
via dell’esilio ad Auschwitz - possiamo arrivare a convivere con ciò che può
farci morire. Nella preliminare spoliazione dalla hybris che preannuncia e
permette il dialogo, a partire dalla gestazione della verità in quel sentire con tutta
se stessa Diotima “offre il mistero” - vestale e sacerdotessa - in assoluta umiltà.
0
M. ZAMBRANO, Hacia un saber sobre el alma, Fundacion Maria Zambrano, 1991 (trad.it in
Per un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Ed., Milano 1996
0
Ibid,cit., p.13.
0
M. ZAMBRANO, De la aurora, Madrid 1986 (trad.it. in Dell’Aurora, Marietti, Genova 2000,
cit., p.64.
0
ID., Nacer por si misma, Madrid 1995 (trad.it. ne All’ombra del Dio sconosciuto, Pratiche
Ed., Milano 1997)
74 Capitolo V

Lo dona, e si dona, a colui che mai avrebbe scritto il suo nome, perché mai
avrebbe scritto.
Entro i percorsi filosofici femminili l’anima è spesso carne, cuore e viscere;
il partorire nel dolore, come sempre fa l’amore, diviene l’atto di assunzione del
male per generare il bene: «L’aurora verginale, la pura rosa accesa, partorisce
con dolore e umiliazione… Si dimenticherà sempre la lacerazione e il patimento
dell’Aurora, il suo parto, se non si tiene conto della Notte, se la si vede
unicamente come annuncio del giorno». 0 L’incontro con il mistero che vuole
rivelarsi porta in sé l’ambivalenza di gioia e dolore perché, a partire dalla
metafora greca di verità come luce, l’aletheia è la non-nascosta la cui luce nutre e
disseta seppure ferisca (così nel Fedro leggiamo che «Per chi intraprende cose
belle è pure bello il soffrire, qualsiasi cosa gli capiti», 274b). Eppure Apollo è più
crudele di Dioniso, nel suo restare sempre così troppo lontano (la sua parola è
criptica, necessita la mediazione dell’interpretazione) mentre ferisce con l’arco
(che gli appartiene quanto la lira melodiosa) il corpo e l’anima dell’amante
(Simposio, 197a). L’uomo greco, non a caso, lo cerca a occhi chiusi nel viaggio
di Orfeo, perché a occhi chiusi si vede intimamente sentendo. Diotima diviene
allora, per l’investitura sacerdotale, garanzia della valenza etica dell’incipiente
discorso filosofico non solo perché riconosce validità filosofica al “morso del
serpente”, la ferita di Alcibiade, ma perché lo accoglie accettandone la morte. Il
logos come esercizio e arte del morire è già in scena. Confrontiamo infatti i due
passaggi: Alcibiade accusa il colpo e, ormai vinto dal veleno, vuole “crescere”
accanto a Socrate; Diotima, nel rivelare a quest’ultimo il suo destino,
“diminuisce sé” nell’essergli accanto. Se non accettasse di dover morire per il
logos il suo destino (aiutare a nascere) di indicare un destino (ancora un
generare) ripiegherebbe su sé sottraendo ogni ratio al discorso, impedendo ogni
cura e ferita. Così, almeno, interpretiamo le parole che la Zambrano riferisce a
Diotima (il carattere evocativo della sua scrittura poetica è una sollecitazione
continua a ri-pensamenti ermeneutici), spingendoci fino alla soglia del sogno:

Ho fatto un sogno; non so se fu un sogno, credo di sì: una serpe avanzava verso di me;
non era cattiva, e forse non portava neanche una goccia di veleno. Ma era pur sempre un
serpente, benché fosse quasi bianco, tenero, rassegnato. Voleva vivere con me, ma io
temevo che nessuno più sarebbe venuto a farmi visita. 0

Diotima sa perfettamente - è profetessa - che dal dialogo con Socrate


nascerà un modo differente di cercare la verità, di indagare il mistero; molte volte
la filosofia lascerà vuoti i templi e silenziose le Pizie eppure l’umiltà dell’offerta
di sé quale luogo di gestazione (aver cura di Socrate perché questi a sua volta
abbia cura delle anime) è il presupposto femminile del ri-conoscimento delfico
0
ID., Dell’Aurora, tr,it., Marietti, Genova 2000, cit., p.128
0
M. ZAMBRANO, All’ombra del Dio…, op .cit., , p.129.
75 Sfogliare la rosa funerea: sepoltura tra delirio e profezia

del limite. E qui l’arte del dialogo mirabilmente si arricchisce e si complica: lei è
infatti anche tutta tracotanza (il suo stesso “dire” non conosce i limiti temporali e
spaziali dell’umana conoscenza) mentre umilmente Socrate riconosce nel monito
delfico la verità di una assoluta, separata e dunque santa, divinità. È tale verità
che lo rende sapiente tra gli uomini, mentre Diotima deve abbassarsi
riconoscendo di non comprendere tale sapere: lei che è l’amata di Apollo è pure e
soltanto una «creatura del suono e della voce, della parola che arriva per un
istante e se ne va, a visitare, forse, altri nidi di silenzio». 0

La valenza etica del sapere mantico è nella corporeità femminile quale


luogo di accoglienza e trascendenza al divino nonché condizione di possibilità di
una autentica relazione uomo-donna. Ecco perché, proprio nel silenzio, si offre
come un nido perché il dialogo (filosofico) abbia un luogo da cui nascere e in cui
nutrirsi, fino a divenire, esso stesso, il logos che è banchetto imbandito per
l’anima. Rinvenendo in questo il tenace vincolo femminile con le “fonti della
vita” (gestazione e nutrimento) María Zambrano oltrepassa il dualismo
divino/umano non annullando il soggetto nel mistero ma riabilitandolo nella
propria umiltà. La creatura colpita (epòptes) dalla relazione improvvisa resta
infatti legata alla “cura domestica” della vita, nascosta in un anonimato che è il
più onesto riconoscimento dell’umano. Ma ritorniamo al sogno del serpente-
filosofo:

Un uomo lo partì in due con un taglio netto, e fu allora che io vidi la sua anima, piccola,
debole, bianchiccia; tremava come uno che di punto in bianco resta nudo, ed era triste.
Nessuno si sarebbe avvicinato a raccoglierla. Mi sorpresi a dirle: “Anima del serpente, sei
triste senza corpo; vieni con me e io ti porterò nella mia anima. 0

Diotima si offre come corpo per gli ignudi, per gli smarriti che non vedono
più tracce divine nella propria vita e che per questo ricorrono a lei per riceverne
soccorso:

E quasi mi pentii di quelle parole e di quell’offerta perché mi assalì il duplice timore che
non ce l’avrei fatta a portare anche lei, per debole e piccola che fosse, e che il suo veleno
sarebbe penetrato in me, rendendomi malvagia in certe occasioni. Tuttavia la pietà fu più
forte della paura di convertirmi in cattiva…”0

0
Ivi., cit., p.127
0
Ibidem.
0
Ivi, (grassetto nostro)
76 Capitolo V

La pietas di Diotima attesta la sua innocenza nella paura di divenire cattiva.


La “madre delle anime” per la Zambrano soffre di dolore mortale soltanto se in
esilio dall’uomo, quando nessuno più la raggiunge per abbeverarsi a lei, lei che è
fonte per vocazione. Allora non ascolterà più e si trasformerà in udito perché
ascoltare implica una relazione responsabilizzante, religiosa (ob-audire) e la sua
inversione in udito segna il tramonto del divino (dell’ascolto del divino);
violenza della notte che paralizza l’aurora. Quando il travaglio del parto si
prolunga nelle tenebre, quando al grido fa eco lo stesso grido sospeso nella
solitudine inumana della separazione-opposizione, mentre Socrate è ormai a valle
dimentico di Delfi, la donna delira in sterile solitudine: «abbandonata dalla
parola, piangendo interminabilmente come se il pianto salisse dal mare, senza
altro segno di vita che il battito del cuore e il palpitare del tempo nelle tempie,
nella notte indistruttibile della vita. Notte io stessa».0
Riconoscere il fallimento della separazione è la verità dell’esilio della
parola in Diotima, ormai autistica fuori dal confronto con Socrate che più non
ascolta, ma è anche la possibilità di una ri-nascita a partire dalla sofferenza della
solitudine. Diotima di Mantinea è questo esilio del corpo femminile negato (la
sua voce per la parola del dio), corpo del logos, procedendo dalla rimozione della
nascita.

0
Ivi.
CAPITOLO VI

DEL FERIRE

Per essere nella luce, inondati di luce, bisogna strapparsi dall’anima ogni
lembo di notte: questa la dolorosa necessità di Aletheia cantata da Orfeo, verità
lacerante seppure splendente. Ma il moto dell’anima viene da altrove e a noi non
ne è dato il potere.
Sulle sponde di Stige, su cui soltanto gli dèi possono giurare, un’umanità
ferita di tracotanza si sottrae al soffio di vita e respiro - ruah - che solo potrebbe
innalzarla senza disperderla nella notte di Lethe. Il dramma orfico della
separazione è una ferita lancinante per noi che siamo cenere inabitata da Cielo
Stellante; per noi che custodiamo nel raccoglimento (il senso perduto di
lanthano) la sacralità della fiamma divina. La tensione orfica si incurva in questo
dramma di non avere un respiro, di obliarne il primo moto credendoci signori di
‘altrove’, reiterando pur senza saperlo, l’antico sacrificio di Zagreo. La libertà di
Aletheia è invece il riscatto dell’omphalos che siamo, è il moto dell’anima che
torna all’origine, all’altrove, quando nel culto neolitico della dea Madre i custodi
del fuoco si spargevano come cenere sulla sua brace perenne vivendo
intimamente, accanto e più dentro, il mistero che dischiude la vita restando
nascosto.
Ma ora distanziandoci sia dall’ordine simbolico patriarcale (a partire dal
logos aristotelico che rinviene la causa materiale, destinata alla procreazione e
alla morte, nell’elemento femminile contro quella formale maschile) sia dallo
speculare capovolgimento riferendoci al mito Grande Madre. La corporeità del
logos è infatti e innanzitutto riconoscimento del valore ontologico dell’essere in
quanto figlio. Una prospettiva nuova, questa nostra, funzionale alla comprensione
di un ordine simbolico aurorale nell’interrelazione culturale tra l’uomo e la
donna. Probabilmente, in considerazione dell’innegabile stato di oppressione
politica sofferta dalle donne, sembrerebbe più corretto parlare di semplice stare
accanto (anche solo spazialmente) anziché di dialogo. Forse, considerando che la
parola presuppone e vive nel costante ascolto di sé e dell’altro; eppure non è
possibile interpretare alcun silenzio (anche quello forzato) fuori dalla sua
relazione con il discorso. Come vedremo per le pitagoriche la necessità impone
la strategia (“madre” di Eros e metis di Penelope) di un diverso e personale
linguaggio: un nuovo registro dello scambio ricompone linguisticamente, con
parole “altre”, la scissione femminile/maschile, domestico/politico. La
formulazione dell’analogon pitagorico tra il pubblico e il privato comporta infatti
il superamento di tale opposizione in vista di una “armonia” che, rivisitata a
partire dall’oblatività dell’amore materno entro il paradigma della corporeità,
implica il riconoscimento della finitudine. Anche la bella morte delle madri
spartiate, donne coraggiose consegnate alla tradizione per l’austerità civica degli

7
6
apophthegmata laconica0, deve essere interpretata secondo il registro della
mescolanza e non dell’opposizione. Il valore di quelle madri in quanto madri di
opliti riconduce il corpo (astratto nell’elogio funebre ateniese, che disconosceva
il codice spartiato della bella vita, di cui diremo) alla polis cui preliminarmente
era stato affidato in quanto “cittadino”. In tal senso la peculiarità delle donne
spartiate rispetto alle ateniesi sarebbe, a ben guardare, riassorbita entro il
medesimo schema culturale ateniese dell’opposizione domestico-privato. A
Sparta la donna consegna allo stato gli opliti: ecco come si annulla la dimensione
domestica entro quella politica di cui è addirittura, al modo dell’auto-
espropriazione, funzionale. Una maternità dunque ancora funzionale al ruolo
politico maschile. Ma chi furono davvero queste donne spartiate? Perché l’elogio
funebre sul corpo asessuato dell’oplita morto valorosamente, per esempio in
Aspasia, è indubbiamente altra cosa. Segna infatti un dualismo entro cui il logos,
non raccontando il trapasso né la bellezza fisica dei giovani morti (relativi al
corpo), vuole edificare l’uditorio secondo la morale oplitica stereotipata. E non ci
sembra casuale che il poeta Tirteo, primo ad aver elogiato la kalós thánatos (e
poi seguito da Erodoto) fosse di Atene e non di Sparta.
Il dubbio di una sovrapposizione di codici interpretativi, tale da far dire alle
madri spartiate che le figlie femmine sono inutili ornamenti della città, ci invita a
riflettere oltre il già assunto come culturalmente dato. Non intendiamo affatto
negare l’ideologia greca della distinzione sessuale funzionale a quella di ordine
socio-politico, ciò che Michel Foucault in Histoire de la sexualité0 riconosce
come principio di isomorfismo tra rapporto sessuale e rapporto sociale 0. Piuttosto
qui si vuole rinvenire, a partire da una riflessione sulla religione greca (dalla
tradizione omerica ai rituali del travestimento non posteriori al I sec. a. C) il
femminile come anelito del modello epico-eroico dell’anèr. L’immaginario
greco, infatti, già nell’epopea, non presenta la coincidenza di àndres e andrèia
come dovere verso la città (alla stregua del genere civico dell’orazione funebre),
quanto un modello misto di guerriero che conosce la paura e piange come una
donna. L’eroe per eccellenza, Achille, ad esempio si dispera per la morte di
Patroclo fino a volersi uccidere (come le lamentatrici nei rituali funebri) mentre
la donna ideale dell’Iliade, Andromaca, soffre nel cordoglio come un valoroso
oplita sul campo di battaglia. L’androginia archetipica di Zeus, nella cosmogonia
orfica «Zeus è il fondo della terra e del cielo stellante; Zeus nacque maschio,
Zeus immortale fu fanciulla»0, si esaspera in quella sua appropriazione della
maternità fagocitando Metis e partorendo Atena (la figlia con i caratteri propri
dell’anèr). Quando i ceramisti ateniesi vollero raffigurare una potenza superiore
a quella stessa di Zeus rappresentarono, per dirlo con Giulia Sissa in Le corps
virginal. La virginità féminine en Grèce ancienne 0, «un potere più potente di
0
PLUTARCO, Apoftegmi dei Lacedemoni, 224 c
0
M. FOUCAULT, Storia della sessualità.2. L’uso dei piaceri, tr. it. Ed. Feltrinelli, Milano 1984.
0
Ivi, p.237.
0
Cfr. PSEUDO-ARISTOTELE, Sul mondo, 401 a 27.
0
SISSA G., Le corps verginal. La verginité féminine en Grèce ancienne, Ed. Vrin, Paris 1987,
p.185.
79 Del ferire

quello del dio forte […] sul registro femminile della completezza di un corpo
chiuso sul figlio che ha in grembo». La valorizzazione della maternità, tornando
al nostro registro, intende rinviare alla centralità del figlio: è per lui che la donna
diviene madre ed è per la forza (agognata dall’anér) di questo rapporto che
l’uomo greco sussume il femminile. Un particolare che sembra sfuggire nella
costituzione di un ordine patriarcale o matriarcale, quasi che l’essere figlio
appartenga a un ordine inferiore, anzi, evidentemente convinti di tale inferiorità.
Eppure tale considerazione è la prima conseguenza della rimozione dell’ordine
simbolico della nascita, quella che all’inizio abbiamo definito come oblio della
nascita acquatica entro il controcanto di Euridice. Figli sono i bambini, i giovani,
insomma coloro che non fondano miticamente il mondo: ma perché no? perché
devono essere iniziati - qui si lavora su un piano simbolico, evidentemente, - e
non invece iniziare a un modo più profondo e originario di autocomprensione
ontologica? Non potrebbe essere che cioè il mondo sia miticamente fondato
nell’intreccio, ordinato linguisticamente, di uomini e donne che si
autocomprendono a partire dall’originaria esperienza di sé come figli/figlie? Il
mito di Zeus che fagocita la donna per appropriarsi della sua maternità, in vista
della pseudogenerazione di una figlia intrappolata nel modello dell’anèr,
concerne infatti anche la paura per il figlio che, per fragilità “dà a pensare” e, in
quanto irruenza del “nuovo”, incute instabilità e timore. Zeus comprende
profondamente, non potrebbe non farlo, la paura del padre Crono e insieme, forte
della novità propulsiva che gli compete in quanto figlio, si volge contro/a favore
(tra opposizione e invidia) il potere generativo della donna che in altro modo,
quello politico e violento, esproprierà nel ribaltamento olimpico del matriarcato
in patriarcato. Uccidere la madre non è qui tanto l’atto del ribadire, entro la
logica dell’opposizione, la superiorità del modello maschile su quello femminile
quanto, piuttosto, del neutralizzare la forza del figlio rimuovendone la fragilità
che, in termini ontologici, è la stessa finitudine. La paura che Metis possa
partorire uomini più forti è chiaramente immagine del timore maschile rispetto a
quello femminile (la sapienza pratica di Penelope, quando sfila la tela per non
cadere nell’imboscata dei Proci, non è forse metis, astuzia femminile?). Qui però
noi ci soffermiamo sul timore che riguarda il “nuovo” per quello scandalo della
fragilità (il figlio che si affida e che dipende esigendo per necessità accudimento
esclusivo) che si converte in potere (la sua affermazione impone trasformazioni
nell’equilibrio familiare e sociale). Perché in fondo è questo il nuovo potere
inaugurato dall’ordine del figlio: il sospetto (sapienza? metis? phòbos?) che
quanto nasca dal corpo, dalla parte meno nobile di noi, sia più forte di noi. Per
questo Zeus ribalta l’ordine paterno irrobustendo ancor più quello patriarcale: il
figlio-Zeus è già adulto, deve esserlo da subito per vincere il padre, ed è un
adulto più violento del padre. Tra l’ordine del padre e quello del patriarcato ci
sono infinite pagine che attendono di essere scritte.
Il dolore per la scissione che ci sovrasta, fino a sognare una fonte
Mnemosyne ove dimenticare il timore di essere (prima di partorire) figli mortali,
80 Capitolo VI

ci conduce ad abbeverarci al sogno, pure filosofico, che separandoci dal corpo


possiamo sfuggire alla mortalità di cui la fragilità dirompente del “nuovo” è cifra
e figura. Il potere del limite - circoscrive e quindi fonda il campo effettivo delle
possibilità - avvertito come una minaccia e perciò neutralizzato nella violenta
hybris della scissione dell’io da sé, riconcilia infatti l’anima che diviene,
inaspettatamente, sede del corpo che la custodisce. Dalla prospettiva del figlio
non esiste iniziazione per sé ma provocazione a essere-altrimenti per l’altro,
ovvero scomoda libertà di una iniziazione adulta a perdere l’antico potere per
poter essere liberato nell’incedere-verso l’integrità dell’essere-persona. La
maternità impone il ripensamento dell’artificio culturale della supremazia del
padre e della madre per riconoscere il valore della fragilità che nel figlio, in
quanto figlio, sembra offrirsi come cifra allarmante. Un racconto vedico 0 ci
presenta, ad esempio, Indra che, per timore che fosse partorito un uomo di lui più
forte, trasformatosi in embrione entro un corpo di donna si auto-genera
distruggendo l’utero che con violenza aveva rubato per-sé. Vale la pena di
ricordare che il nome di quella donna cui fu sottratta la maternità è Parola,
mentre quello del suo amato è Sacrificio… La violenza fu una mutilazione della
procreazione nel senso forte del rendere-muta la parola annullando anche il
valore religioso del rito che è strutturato attorno alla parola e al sacrificio. In
Grecia è però in Tiresia che ritroviamo l’androginia quale figura del sapere.
Prima di diventare l’indovino di Edipo, secondo una delle versioni del mito, egli
è infatti vissuto in un corpo femminile per aver separato due serpenti che si
stavano accoppiando; ripetendo nuovamente questa scissione, in seguito, Tiresia
tornò ad essere un uomo. La sapienza di cui l’indovino è figura, come colui che
travalica il sapere umano in senso spazio-temporale, gli appartiene per avere
sperimentato entrambi i sessi intrecciando i processi psichici maschili con la
complessità di quelli femminili. Anche nell’altra versione del mito, quella di
Callimaco, secondo cui Tiresia divenne cieco per aver visto il corpo nudo di una
dea, conferma quanto l’immaginario greco abbia fantasticato sull’inclusione del
femminile nel modello maschile. I suoi occhi per sempre chiusi custodiranno
infatti il segreto di una conoscenza il cui valore è assoluto, che mai gli sarà tolta,
perché ormai la sua conoscenza è completa. Potremmo riconoscere nello
slittamento del femminile (la corporeità vissuta in senso pieno e il corpo nudo
della Dea) in quello maschile un vantaggio solo per l’uomo, il cui sapere
(Tiresia) si accresce depotenziando (come l’usurpazione della maternità di Zeus)
quello della donna. Ma non crediamo che questa lettura, legata esclusivamente al
metodo degli opposti (ove la misoginia annulla l’altro nel ritorno al Medesimo)
renda pienamente conto dell’intreccio psichico che qui, nella maternità dell’anèr,
si compie. Se infatti, seguendo la leggi degli opposti, l’uomo è l’anima e la donna
il vile corpo allora Zeus e la metamorfosi di Tiresia qualificano l’anima come
sede per il corpo. In tal senso resta insuperata la lettura di Nicole Loraux che, ne
Il femminile e l’uomo greco 0, propone l’interscambiodel doppio registro tra
0
Cfr. CH.MALAMOUD, Cuire le monde. Rite et pensée dans l’Inde ancienne, Ed.La
Découverte, Paris 1989, pp.46-50.
0
LORAUX N., Il femminile e l’uomo greco, Ed. Laterza, Milano 1991.
81 Del ferire

immaginario maschile ed identità femminile:


Affermare, come qualche studioso(a) fa, che all’improvviso la donna viene
dimenticata mentre l’uomo è pronto per una posizione di dominio incontestato
significherebbe misconoscere gravemente la natura delle operazioni psichiche,
che non si verificano mai senza difficoltà: esse lasciano una traccia (…) Se
nell’èros e nella riproduzione il corpo mortale è sentito al femminile e se l’anima
vive come il corpo, è perché nell’anima c’è il corpo.0

Entro l’installazione metonimica della donna nel filosofo0 è Platone stesso,


che pure rifiuta l’unione dell’elemento maschile con quello femminile nell’anima
del philosophòs, a recuperare soprattutto nel Fedro, nel Simposio e nel Teeteto il
termine odís (odís, odínes, il dolore lancinante del parto) per designare il
“travaglio” filosofico. Il contrasto con l’ordine femminile, non a caso, è invece
più esplicito nel Fedone: ove si tratti dell’anima la logica dell’opposizione torna
imperante. I travestimenti (non solo quelli teatrali) nelle iniziazioni delle nozze,
dei funerali e del parto valgono sia come rituali-protettivi contro le forze oscure
che minacciano ogni passaggio, sia esprimono l’intreccio psichico-culturale
greco tra femminile/maschile. Numerose sono le testimonianze di tale premura,
alcune fornite da Claude Calame in Eros inventeur et organisateur de la société
grecque antique 0:

A Sparta colei a cui era affidata la giovane sposa, provvedeva a rasarle la


testa e a farle indossare un mantello e calzari virili, dopo di che la lasciava distesa
su un pagliericcio, sola e nel buio più assoluto. Lì il marito la raggiungeva di
nascosto (Plut. Lyc., 15). Ad Argo, per la prima notte di nozze la sposa si
metteva una barba finta (Plut., Mil. Virt., 245). A Cos è il marito che si veste da
donna per ricevere la moglie (Plut., Quaest. Mul.Virt., 245). Oppiano (Cyneg., 1,
138) descrive lo sposo che avanza verso la camera nuziale dopo che le donne a
cui è affidata la fidanzata gli hanno fatto indossare candide vesti, l’hanno
inghirlandato di fiori porporini e profumato di mirra.0

Il travestimento rituale non adempie solo al compito di stornare i dèmoni,


ripensiamo soltanto alla duplice storia di Leucippo secondo la versione di
Partenio (Erotikà, 15) e della festa della Svestizione (Ekdysia) a Sparta. Nel
0
Ivi, pp.XXI-XXII.
0
Cfr. CAVARERO A., Nonostante Platone. Figure nella filosofia antica, Editori Riuniti, Roma
1990, pp.14-15.
0
CALAME C., Eros inventore e organizzatore della società greca antica, in L’amore in
Grecia, tr. it., Ed. Laterza, Milano 1984.
0
Ivi, p.88.
82 Capitolo VI

primo caso abbiamo il rito nuziale con lo scambio reciproco dell’abito: Leucippo,
innamorato di Dafne (che disprezza gli uomini e ama solo la caccia) si traveste da
donna e riesce a sedurre l’amata; sorpreso però dalle compagne di Dafne mentre
faceva il bagno viene da queste trafitto a morte con le lance. A Creta si narrava
invece di una coppia povera cui nacque una figlia. Nessuna possibilità di
sopravvivenza per quella bambina se la madre non l’avesse astutamente (metis, la
sapienza pratica) travestita da maschietto chiamandola Leucippo. Quando non fu
più possibile nascondere il suo genere femminile supplicò e ottenne dalla dea
Latona la metamorfosi della figlia in un corpo di ragazzo. A Festo si ricordava
nella festa della Svestizione (quando Leucippo tolse il peplo femminile) l’antico
miracolo mentre la fidanzata, la notte prima delle nozze, dormiva accanto a
un’icona che lo raffigura. Il primo Leucippo è dunque un uomo che si traveste da
donna; il secondo è una fanciulla trasformata in ragazzo. L’espediente del
travestimento, giustificato come stratagemma, ricorre nelle Oscoforie nella
fanciullezza nascosta di Achille che vive come una fanciulla finché, scoperto,
entra in guerra, nella storia di Eracle che indossa le vesti di Onfale, di Dioniso e
Teseo. Senza procedere oltre ricordiamo che sono proprio questi eroi, in rapporto
con le Amazzoni e con il travestimento, a riuscire ad uccidere le donne guerriere.
E per concludere con gli intrecci, pensiamo come questi ultimi si oppongano
all’immagine del Leucippo di Elea, trafitto dalle lance sguainate dalle fanciulle.
Un’immagine di androginia più complessa, questa, in uomo vestito da donna che
è ucciso da donne armate per la caccia, compagne di Dafne.
Entro l’ordine politico, quello che più ci interessa per la cultura spartiata,
dobbiamo riconoscere che l’esclusione femminile dalla vita pubblica si incrini in
situazioni critiche, e molto sarebbe da dire sul significato della situazione-limite,
quando le donne combattono come e con gli uomini. La metodologia
dell’intreccio, non separando drasticamente il politico dal domestico, rinviene il
femminile come il doppio del maschile (Euridice-Orfeo) seppure entro un ordine
più complesso. Il cittadino, colui che può esercitare un comando, non rientra
infatti pure nell’ordine simbolico della passività nella misura in cui è anche
soggetto a ricevere ordini? Non stiamo qui affermando che le donne siano
passive ma che il femminile greco (ovvero l’immaginario maschile) si articoli su
una passività non ritenuta disdicevole “neppure” per gli uomini. Il dolore acuto
del parto (odís), ad esempio, prima di essere metafora dell’angoscia dell’anima in
Platone è l’esercizio alla sopportazione della sofferenza acuta negli opliti. Le
ferite sul corpo - nell’epopea il corpo degli eroi caduti in battaglia è bianca e
morbida come il pallore delicato nello stereotipo della femminilità - dicono
l’assunzione e la vittoria patita come strazio nel dolore di parto per ampliare la
virilità inglobandone la forza femminile. Un interscambio che, nella tragedia
greca, si riassume nel monito “soffrire come una donna, morire come un uomo”.
A questo punto vediamo più da vicino il valore dell’essere in quanto figlio nella
maternità spartiata e nel coraggio oplitico della bella morte (kalós o eukleés
thánatos) poiché «Damatrio, che trasgredì le leggi, è stato ucciso da sua madre,
uno Spartano per mano di una Spartana» [Plutarco, Coniugalia
83 Del ferire

praecepta,epigramma funerario]. Nel lamento funebre delle madri, all’inizio


della scena, nelle Supplici0 di Euripide, non sono solo le donne a piangere
davanti all’altare di Demetra ma è il coro stesso che invoca il ritorno delle salme
dei figli. Le Supplici: il dramma della maternità in lutto entro l’ambivalenza tra
valorizzazione del corpo e virilità astratta, ove si baratta il corpo offrendo la vita
in battaglia (il fiore con la spada, nella favola già citata di Wolff), con la gloria di
cui la città è custode ed elargitrice. Ecco allora lo strazio della vedova Evadne, in
quella crisi del cordoglio che la spinge a seguire nel rogo il destino del marito
Capaneo. E insieme il threnos tra il coro dei fanciulli, i figli che portano le
ceneri dei loro padri e il grido delle donne anziane; ma qui non si piange l’uomo
(la mortalità, come nel caso del figlio morto) quanto la sua fierezza. Donne che
sono madri di figli maschi, legate loro stesse alla guerra sia per via del parto
(lóchos significa sia “parto” che “truppa armata”) sia perché, mediante esso,
nascono gli opliti. Sembra qui di ascoltare il quinto apoftegma di Gorgo (la
moglie del valoroso Leonida, modello femminile di fortezza d’animo e di
assoluta imperturbabilità), raccolto da Plutarco nei suoi Apophtegmata laconica
227: «Perché voi Spartane siete le sole a comandare sugli uomini? Perché noi
siamo le sole a generare uomini» [Plutarco,Vita di Licurgo, 14]. Dei sei
apoftegmi a lei attribuiti almeno quattro risalgono al periodo precedente il
matrimonio, figurando come la vestale dell’eunomía licurghea più del padre
Cleomene, che pure era re di Sparta. È infatti lei a respingere, ancora ragazza, la
trypé: in risposta a un tale che aveva insegnato al padre come produrre vino,
quello che bevuto puro gli procurò la pazzia secondo Erodoto (6,84) 0, obiettò che
i commensali sarebbero divenuti rammolliti e depravati (thryptikóteroi kai
chéirones). Ed è sempre lei a riprenderlo quando il tiranno di Mileto, il ricco
Aristagora, tenterà di persuadere il re ad appoggiarlo in battaglia: «Padre, il
miserabile straniero ti corromperà se non lo allontani subito di casa!»
L’episodio, riportato nel quinto libro delle Storie (48-51) di Erotodo, prima
creduto un passo interpolato e ora riconosciuto come autentico, riflette
l’intenzione dello storico volto a mostrare la saggezza politica delle donne
spartiati capaci di scegliere il bene per lo stato senza ricorrere agli usuali
stratagemmi bellici più propriamente maschili.
Una incisione del 1804, la Leonidas taking leave of his family0, ci presenta
il valoroso Leonida con lo scudo appoggiato al suolo, la moglie Gorgo con il
capo reclino sul suo petto e i figli avvinghiati alle gambe del padre. In lontananza
un donna piange compostamente: la misura, l’apátheia e il coraggio valgono per
la guerra come per la famiglia, per l’uomo come per la donna. Di fatto molti
apoftegmi circolarono capziosamente in Grecia per screditare, contro il valore dei
costumi spartiati, la debolezza del sistema democratico ateniese. Nei suoi

0
EURUPIDE, Supplici
0
Cfr. C. DEWALD, Women and Culture in Herodotus’ Histories, in H.P.Foley, Reflexions of
Women in Antiquity, New York-Tokyo 1981, cit., p.125.
0
Cfr.
84 Capitolo VI

Apophtegmata0 Plutarco invita a sposare (come Gorgo?) uomini valorosi e a


partorire valorosi figli (agathòis gamèisthai kai agathà tiktein), rifuggendo la
lussuria entro una vita domestica austera e sobria. In tal senso rifiuta come
infondata la critica di Aristotele0 alla gynaikokratìa spartiata: nessuna sfrenatezza
sessuale tra le donne mentre gli uomini sono in guerra, piuttosto un equivalente
diritto, ben esercitato, entro il governo dello stato (Vita Lycurgi). Tra i quaranta
nomi di donne riportate negli Apophthegmata emblematica resta
l’imperturbabilità di una madre spartiata, Archileonide, che ai messaggeri che la
informano della morte del figlio, caduto valorosamente, la donna risponde senza
indulgere in lamenti: «O stranieri, mio figlio era nobile e prode ma Sparta
possiede molti uomini migliori di lui». Parole di uomo per voce di donna?
Sparta crea l’ideale oplitico della bella morte non solo per il cittadino
caduto nella prima fila dei combattenti, ma anche per la donna che muore di
parto. Perché la grande impresa femminile è in fondo partorire figli belli e
valorosi; senza la prole lo stesso matrimonio non avrebbe motivo d’essere
(l’amore sponsale, storicamente, compare a pieno titolo nell’Ottocento). È per
questo che le gestanti curano il proprio corpo, allenandosi al combattimento del
parto con esercizi ginnici simili a quelli bellici degli uomini. La morte conferisce
a entrambi un valore eccezionale e per loro soltanto, lo prescrive Licurgo, si
potrà incidere il nome su una stele funebre. Gli altri defunti saranno invece
sepolti in completo anonimato. Anche Plutarco ci riferisce nella Vita Lycurgi (27,
2-3) che «sulle tombe era vietato iscrivere i nomi dei defunti, fatta eccezione di
quelli degli uomini morti in guerra e delle donne morte di parto». E infatti ci
restano due nomi di illustri sconosciuti su una stele funeraria: Ainetos, morto in
guerra e Aghippia, morta di parto (En polèmoi, lechòi). Anche Euripide, in
Ifigineia in Tauride, ritrova in questa morte la sublimazione della virilità
femminile come, d’altro canto, nel poema epico Menelao fa propria la modalità
della “cura” femminile cercando il corpo di Patroclo come fosse di giovenca
appena nata. L’intreccio maschile-femminile (Patroclo un cucciolo femminile e
l’eroina tragica che combatte nel parto) ha portato a rintracciare una sorta di
parallelismo tra il letto (il parto) e la guerra entro una dimensione etico-
estetica.Gli epitàphioi ateniesi riconoscono infatti solo il valore dei corpi astratti,
restituiti alla città nella gloria e nel valore che li renderà immortali; il codice
spartiato riconosce nella vita (il parto) congiunta all’onore (timè) il valore
supremo e per questo i guerrieri, alle Termopili, usano pettinare i loro lunghi
capelli preparandosi a essere “bei corpi”, per la morte o la vita. Una differenza,
questa estetica, che J.-P. Vernant, in La belle mort et le cadavre outragé0 sembra
non considerare molto eppure è cosa ben diversa l’idea della bella morte in
“corpi astratti” e la rappresentazione di bei morti, investiti di valori oplitici e pure
sessuati. E quando Leonida sarà ucciso, nella compostezza della perfetta

0
PLUTARCO, Apophthegmata Laconica 225 a .
0
ARISTOTELE, Politica II, 1270 a 6; II, 11296 b 12.
0
J-P VERNANT, La belle mort et le cadavre outragé, in G.Gnoli-J-P Vernant (a cura di), La
mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge-Paris, pp. 45-76.
85 Del ferire

padronanza di sé (sophrosyne) che è virtù politica e civica, non desta stupore che
gli hòmoioi semplici si lanceranno stravolti nella turba dei nemici, travalicando il
modello bellico spartiato. Alla bella morte del valoroso si affianca, senza alcun
discredito, la lotta selvaggia ed epica dei suoi uomini, un combattimento di
cinghiali0 con le mani e con i denti quando perderanno anche le lance. La
complessità del loro codice militare, che permette di fuggire quando non si
profilano possibilità di vittoria, conferma il diverso (rispetto a quello ateniese)
modo di intendere la bella morte (kalòs o eukleès thànatos). Se questa, infatti,
salva la città (aretè) è però la disciplina e il coraggio a salvare dalla morte i
guerrieri: gli apoftegmi spartiati sono ormai decisamente lontani. La morte non
va cercata (Aristodemo che si lanciò in campo senza prudenza venne privato
degli onori funebri), solo accettata e i sopravvissuti, che ad Atene erano ignorati
(e se feriti lasciati morire per mancanza di cure, a causa della svalorizzazione del
corpo-ferite-nel-corpo), a Sparta sono reintegrati nella collettività. Per uno
Spartiata il sommo bene è la vita e qui è la legge stessa a garantirlo. Nello studio
di Nicole Loraux0 ci si riferisce alla reintegrazione civica dei trèsantes:

Interiorizzata o rigorosamente codificata, l’esigenza di coraggio è sentita come una


legge[…] e l’essenziale è che gli effetti più tangibili del nòmos si fanno sentire nella vita
dei cittadini spartiati. Contrariamente agli epitàphioi ateniesi che non lasciano spazio
all’idea di una bella vita, il codice spartiata prevede per il coraggio vittorioso dei
sopravvissuti una serie di ricompense, dal piacere che prova il giovane ad essere
ammirato dagli uomini e desiderato dalle donne alle innumerevoli gioie dell’adulto e agli
onori che circondano l’anziano.0

Anche il codice omerico riconosce ai guerrieri il diritto alla paura quando,


non terrorizzati fino ad irretirsi nel panico (phòbos) eppure consapevoli del
pericolo (dèos), le resistono strenuamente. Resistere è vinvere la paura: senza tale
superamento (e dunque, preliminarmente, senza ammissione di paura) non c’è
epopea. Aiace trema davanti a Ettore ma qualche canto prima questi aveva avuto
timore di Aiace, il migliore degli Achei dopo Achille; e sempre Ettore, compreso
l’inganno di Atena nei panni del fratello Deifobo, nello scontro mortale con
Achille è intrepido anche di fronte alla propria morte. Dopo infatti averla fuggita
per tre volte, girando intorno alle mura della città, incalzato dal nemico e
guardando la paura (vedendo l’inganno e l’inevitabilità della propria fine), infine
rientra in sé e resiste. Mettere fine alla fuga è l’atto con cui il guerriero si
riappropria di sé e la paura, l’occasione per reagire resistendo e opponendo alla
bella morte la dolcezza (ancora una bellezza) del figlio, della moglie amata
destinata a essere schiava in terra straniera quando lui non sarà più. E dunque
0
Cfr. ARISTOFANE, Lisistrata,1254.
0
N. LORAUX, Il femminile e l’uomo greco, cit., p.57.
0
Ivi, p.58.
86 Capitolo VI

infine resiste: il suo corpo è vulnerabile (lo è persino quello divino di Ares) e la
sua ferita mortale (quel “dolore lancinante” che il Greco sogna di strappare alla
maternità per ampliare la propria andrèia) svanirà solo quando potrà ricevere gli
onori funebri. Allora si richiuderanno le ferite (quelle che Loraux vede come
mezzo di verifica della virilità0) affinché il corpo dell’eroe risplenda di una
bellezza anche formale, e saranno proprio gli dèi a occuparsene quando, da
Ermes, sarà riferito a Priamo che il cadavere di suo figlio «è la, lavato e pulito
[…] chiuse tutte le sue ferite, tutte le ferite ricevute - e quanti guerrieri hanno
affondato il loro bronzo in lui!»0
Ritornando all’androginia del corpo femminile-maschile ripensiamo a come
la partoriente è raffigurata, nell’arte funeraria, con la cintura slacciata (la stessa
che è ben stretta sotto il petto dei guerrieri); il fegato, l’organo vitale, resta
scoperto nel parto come nell’eroe è trafitto dall’unico colpo mortale (due colpi
sarebbero indice di non destrezza con le armi). Bisogna morire con un unico
travaglio, con un solo, lancinante spasmo (ancora l’odìs del parto femminile) ma,
a differenza delle donne, bisogna spargere il sangue sulla terra. E questo, senza
dubbio, perché l’immaginario greco rinviene una potenza malefica nelle
mestruazioni (ricordiamo solo per inciso Plinio, Naturalis Historia, VII, XV, 64 e
la curiosa credenza aristotelica (Dei sogni, 459 b) dell’impatto sul riflesso dello
specchio, su cui si è soffermato J-P Vernant 0). Ciò che per Songe-Moller è il
sogno greco della ‘superfluità’ della donna0, ovvero il desiderio, in Esiodo,
Parmenide, Platone ed Aristotele di una vita senza la riproduzione sessuale, una
vita libera dalla morte come desiderio di afferrare l’eternità. E’ interessante
seguire la sua argomentazione, procedente dal significato ambivalente di archein
come origine (da cui arché) e potere (con questo verbo, infatti, si indicava pure,
anticamente, il condurre in battaglia i soldati). L’autarchia per Aristotele è
un’autosufficienza che si estende dalla dimensione politica a quella metafisica
fino alla… biologica, nel senso di mantenere la propria esistenza da soli. E
questo, ovviamente, è aspirare ad essere come Dio, cui solo spetta l’eternità e la
radicale autarchia del proprio essere. Ciò che fa dire alla Songe-Moller:

Essere l’arché di se stesso significa essere immortale. Ho il sospetto che questo sia
l’ideale utopico dell’uomo aristotelico, del cittadino aristotelico. Se l’ideale è di divenire
l’ archédi se stesso, l’ideale è di sbarazzarsi della differenza sessuale, oppure sbarazzarsi
della dipendenza dell’uomo dalla donna per riprodurre se stesso.(…) vi è una stretta
connessione fra la speculazione aristotelica sulle cause metafisiche e la riproduzione
biologica. Ritengo che la riproduzione biologica sia la via paradigmatica per comprendere
la funzione delle quattro cause, quando una sostanza viene all’essere. 0
0
ID., op. cit., , p. 93.
0
Cfr. Iliade, XXIV, 419-421.
0
Al riguardo rimandiamo allo studio di F. FRONTISI-DUCROUX, J-P VERNANT, Ulisse e lo
specchio, Ed. Donzelli, Roma 1998, pp. 119-124.
0
Cfr. V. SONGE-MOLLER, Materia, genere e morte in Aristotele, in M. MARSONET, Donne e
filosofia, Ed. Ega, Genova 2001, cit., p.10
0
V.SONGE-MOLLER, op. cit., , p.13.
87 Del ferire

Riprendendo il passo del libro VII della Metafisica, dove Aristotele


individua nella differenza sessuale l’illustrazione analogica degli archai o
principi ontologici (causa formale-maschile e materiale-femminile), l’autrice vi
rinviene un pensiero della differenza sessuale entro la riproduzione.
Indipendentemente da questa, infatti, la donna, come ogni ousia perché entri
nell’essere e si conservi nell’esistenza, contiene sia il principio maschile che
quello femminile: nella procreazione è invece solo femmina, e causa materiale.
Ma perché? Ci spieghiamo meglio: come giustificare la necessità di un uomo ed
una donna nella riproduzione se, in se stessi, ognuno contiene anche il principio
dell’altro? Intanto, come ci dice Aristotele stesso nella Generazione degli
animali, perché l’uomo è superiore:«la prima causa motrice, cui appartengono
l’essenza e la forma, è migliore e più divina per natura della materia, è anche
meglio che il superiore esista separato dall’inferiore. Per questo […] il maschio
esiste separatamente dalla femmina».0 Eppure la struttura gerarchica della natura
non soddisfa pienamente il filosofo: perché le donne hanno bisogno degli uomini
per la riproduzione? Non ripeteremo qui la ben nota ed acrobatica giustificazione
biologica addotta da Aristotele, ci basti rilevare che essa si basa, purtroppo (è
davvero il caso di dirlo, ora) sull’idea teleologica che «l’essere è meglio del non-
essere» (336 b 30). Peccato che la vita debba proseguire nel prolungamento
individuale nonostante l’accidentalità (così dovremmo intenderla, la morte,
nell’ordine aristotelico) della causa materiale femminile! Uno strano paradosso,
imbarazzante nell’affermare a tutti i costi il valore della vita senza tener conto
che questa, nella riproduzione, passa per il corpo: e la materia è sempre
potenzialmente morte. Perché la materia, in La generazione degli animali, è sia
causa dell’essere che del non-essere: dunque della nascita e della morte.
L’ambiguità del femminile nella natura (come necessaria alla riproduzione
rappresenta la vita, come suo principio materiale invece indica la morte) si
dissolve nella sua accidentalità: se la vita fosse perfetta (non conoscesse la
morte), forse le donne non esisterebbero…L’uomo solo è archè (ricordavamo
prima: principio e potere), ma solo Dio è la vita immortale (Metafisica, XII, 7,
1072 b 28). Seppure nel De Anima (II 415 a 25 ss) la riproduzione rende simili al
divino, l’anelito a essere davvero come gli dei (l’eterno complesso dei greci!) fa
scivolare la donna (la generazione, la vita e la morte) nella dimensione
dell’accidente. L’intermezzo aristotelico ci permette di spiegare perché, a partire
dalla tradizione epica, la donna (pure valorosa come l’oplita) non possa spargere
il proprio sangue sul suolo. Condizione necessaria, questa, perché la morte del
guerriero sia davvero riconosciuta nei canoni dell’andrèia. La lancia (cui si
oppone il bròchos, il cappio dell’impiccagione) trafigge il corpo e lascia
espandere il sangue: l’immagine rievoca la sacralità dei sacrifici, cruenti ma
religiosi. Ed infatti nel teatro, che presenta sempre l’ambiguità dell’intreccio
maschile-femminile (già nei travestimenti scenici), le donne disperate muoiono in
0
ARISTOTELE, Generazione degli animali, II, 1, 732 a 210.
88 Capitolo VI

modo disperato (senza timè): impiccate ad un laccio, non potendo toccare il suolo
con i piedi. L’impiccagione (a Roma chi subiva tale pena non aveva poi diritto
alla sepoltura) è la morte senza onore (anchine) perché, invece di versare il
sangue lo comprime nel corpo (come anche nello strangolamento). La morte
oltraggiosa di Giocasta, quella del disonore di Epicasta, sposa del proprio figlio o
della figlia di Micerino, violentata dal padre.Donne senza timè, dunque senza
diritto di sepoltura, costrette a vagare come fantasmi nell’Ade, travolte da un
destino paradossale come in Antigone, che sceglie la morte perché sia data
sepoltura al fratello. Il valore simbolico del “poggiare i piedi sulla terra” le sarà
negato, proprio a lei, l’eroina del valore dei vincoli familiari (di sangue) e del rito
funebre. Ma chi tesse il laccio (bròchos: il nodo che si stringe attorno al collo
delle impiccate ma anche il laccio che intrappola l’uccello nella caccia) se non le
donne stesse? Costrette ad implodere il dolore fino a rendere la tessitura la
trappola mortale con cui si è presi al laccio: il cappio di Antigone è il suo velo
intessuto di filo; le supplici di Eschilo guardano alle proprie cinture verginali
come risorsa (mechanè kalè) per impiccarsi. Il matrimonio come laccio al collo
per la donna? Eppure nell’Antigone di Sofocle (vv.806 sgg) la fanciulla piange il
suo destino nel ricevere, quale letto nuziale, quello preparatole da Ade: nessuno
intonerà per lei i canti nuziali, gli hymnos epì nymphèios. Per lei nessun imeneo
sarà offerto dal coro, all’imbrunire (hesperìais aoidàsis), con le fiaccole accese
(la sera che protegge dagli spiriti maligni i due sposi); nessun epitalamio sarà
eseguito davanti al loro thàlamos. Le saranno preclusi quei simbolici
travestimenti tra fidanzato e fidanzata, per custodire (come nei lutti e nelle
gravidanze) l’integrità della coppia: lei morrà prima del futuro sposo. Nessun
unguento (secondo la tradizione omerica, mantenuta in età classica per il
conservatorismo religioso) cospargerà il suo corpo, offerto in sostituzione del
fratello; quando sarà morta non riceverà alcuna elegia né rituale funebre. Non
sarà rivestita dell’abito bianco né adornata di fiori, non sarà esposta (pròthesis)
nel vestibolo della casa (lei che come casa ha già una tomba), dimora che non
sarà purificata (perìdeipnon) nel terzo e nono giorno, consacrati al culto del
morto. Nessun banchetto funebre, il trentesimo giorno dopo le esequie, rinnoverà
le offerte per una sepoltura mai avvenuta. Lei ha soffocato il sangue nel proprio
corpo: per lei non c’è posto né per lo iàlemos (o ièlemos, dal grido di dolore ià-
iè) né per il threno né per l’epicedio, perché a lei non spetta né compianto né
elogio. Ancora una riflessione sullo scambio tra femminile e maschile, questa
volta per rintracciare, concludendo qui la nostra analisi, la simbologia del corpo
di donna come campo di battaglia tra bene e male, secondo il doppio registro
della bella morte e bella vita. Una rilettura dell’Antigone, infatti, può illustrare
questa categoria del riscatto poiché la sua guerra è vissuta entro, ed a prezzo, del
proprio corpo-vivo offerto in sostituzione del corpo-morto di Polinice. La
sepoltura del fratello è richiesta da una pietas che, altra dalle leggi umane,
rimanda già ad uno scambio di vittima. E’ scendendo viva nella tomba, infatti,
che Antigone può assumere quella morte, che non doveva essere la propria, fino
ad adempiere all’istanza etica che la porta, nell’offerta di sé, ad accompagnarlo
nel regno dei morti. Perché non solo la madre ma pure la sorella e la sposa, nei
89 Del ferire

rituali funebri, sono accanto al figlio morto, assistendolo nell’ultimo viaggio


verso la vita eterna. Che è ancora vita, con i lineamenti (seppure soffusi) di una
terra che ancora può ospitare: persino dopo la morte l’uomo ha bisogno di abitare
la terra (una dimora in cui raccogliersi e non disperdersi). E la donna-Antigone è
lì, come corpo, grembo per la nascita, ad indicarla, a renderla accessibile.
L’essere-corpo come dono di una dimora oltrepassa la stessa finitudine
dell’essere-corpo votato alla fine, riscattandolo nel trascendimento dell’atto
gratuito ed oblativo che annulla la fine, offrendole una terra ove poter essere
ancora. Non finire ma essere. Come essere per l’oltre della morte. Per questo
Ismene, che pure, in ultimo, avrebbe voluto farsi compagna di viaggio di
Antigone, resta invece figura inascoltata e come sbiadita. Unico personaggio che,
sebbene ancora vivo, svanisce al termine della tragedia come avvolto nella
propria ambiguità, spettatrice di un atto drammatico che non comprende e
dunque non sceglie. Né viva né morta, solo raccapricciata in un dolore che resta
privato, chiuso, senza fenditure che possano offrirsi come dimora. Quando
vorrebbe accompagnare Antigone a morire, morendo con lei, in realtà ne segna
l’abissale distanza. Accompagnare i vivi nel regno dei morti, infatti, è ancora
piangere un destino privato senza com-piangerlo in quello collettivo, senza
accoglierlo in modo che, per la propria morte, passi la vita, come nell’esodo,
verso la terra da abitare. In cui poter essere ancora.Antigone in-crocia il destino
dell’altro scendendo nella terra da viva, perché alla vita sorgesse ciò che era
morto. Accogliendo nell’amore anche il non-essere, catapultato in una vita come
finalità ultima della morte: «Tu scegliesti di vivere, io di morire» (v.555), grida a
Ismene; ed a Creonte: «Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore»
(v.523).
Ma cosa ne è del corpo di Socrate e delle parole di miele di Aspasia? E
quale è il destino di chi indica il destino degli uomini?
Un giorno Socrate ha ascoltato un amico che aveva udito una parola di
donna (ma era il dio che vaticinava in lei) che lo in-vocava accanto a sé per
“partorire” nel bene dei figli immortali. Si sentì allora preso da una misteriosa
nostalgia del ritorno e si diresse a Delfi, quel luogo solitario che se ne sta proprio
lì, nel centro sacro del mondo. E il suo corpo lo rese prossimo a quella donna,
che da sempre l’aspettava, per rivelargli il suo destino e liberarlo dalla “crisi” del
lógos. Ascoltandola dovette imparare la pazienza ed il valore del tempo, del
lungo scorrere delle ore prima che accadesse la nascita, nonostante il dolore
acuto che la trafiggeva (il dardo di Apollo l’obliquo) fosse tanto intenso da far
sperare il contrario. Ma valeva la pena di aspettare, perché il prendere sul serio il
proprio destino, lo pre-sentiva, avrebbe richiesto ben più della forza persuasiva
del lógos, nel compimento finale. Quando, vaticinando con la Pizia, si vide
seduto in un sepolcro a placare le ultimi inquietudini, prima di volare come un
cigno verso Apollo, scommettendo sulla vita morale. Così l’avrebbero ricordato i
suoi futuri amici, quel corpo da Sileno degno di memoria: prima sdraiato, perché
90 Capitolo VI

filosofo, poi seduto davanti a Santippe (che morte andava mai piangendo, quella
donna?) e così restare, poggiando i piedi per terra (la sua fine non sarebbe stata
senza timè) bevendo la medicina per la nostalgia del ritorno dell’anima. Eppoi
quel Critone che non aveva visitato Delfi, che non conosceva la battaglia del vero
e del falso nell’abisso della corporeità, lì a dirgli di non parlare, di non scaldarsi
per non ostacolare l’effetto del veleno. Si combattano pure, invece, in quel corpo
da “iniziato” (seduto come un mestes, o sdraiato e già “purificato” per la
sepoltura) il piacere ed il dolore, il freddo ed il caldo: è il logos il suo rito
funebre. Ma lo si comprenderà? La dialettica-battaglia (dialeghestai) dei contrari
reclama un campo, il suo corpo, come supporto per la scommessa
sull’immortalità dell’anima. Avranno un bel dire Aristofane 0 e Teofrasto0 che la
cicuta è un’erba àphron, insensata, che distrugge la phrònesis: in lui non
raggiungerà la mente, offuscandola, ma si diffonderà dai piedi alle gambe e fin
su, fermandosi sul cuore. Le “celesti radici” del filosofo non ne saranno
sconvolte. L’ha imparato dalla donna, a Delfi, che il mistero non rassicura nella
pace della propria morte ma nella torsione (il corpo raggomitolato nel dolore del
parto) cui segue l’apertura alla nascita. E quel corpo raggomitolato è proprio il
suo cuore, che cessa di battere solo quando la parola svanisce…è il lógos il suo
canto del cigno (ton kuknon). Sacro ad Apollo, come la Pizia, profetizza in punto
di morte la dolcezza della vita futura, canta (adei) la gioia che l’attende e non il
dolore per la fine (come invece pare ad Aristotele, Hist.anim., 615b). Divinità di
luce, parà tòn thèon, che ogni anno ritorna dai lidi lontani degli Iperborei,
trainato da cigni, a riportare la primavera sulla terra. La parola ed il pensiero che
appartengono ad Apollo, dio della luce, dovranno risplendere in quella prigione
finché non scende(rà) la sera, éos éti phòs estin (Phaed.89). Il rischio della
misologia, per non poter portare avanti il discorso fino alla morte, resterebbe
l’unica morte senza elaborazione di lutto: bisogna invece proclamare fino al
tramonto che di verità si può vivere, perché la verità non è irraggiungibile. Il
Fedone come vera Apologia di Socrate, convincendo i discepoli (“partorendoli
nel dolore”) che proprio così ha salvato la propria vita, accettando la necessità
della morte. Fallire, come davanti al “tribunale” della città, sarebbe far morire il
lógos. E allora combattere ancora, come l’oplita, seppure non in campo ma
“mettendo in campo il lógos”, con quell’incedere di termini militareschi come
pepheugòtas, etteménous, parépesthai, perché la parola stessa non si eclissi con il
sole. Nell’ora in cui la città dispone che si possa morire, «non prima che il dio ce
ne abbia imposto qualche necessità, come avviene ora» (Fedone, 62 c). Per
Socrate che conferma nella morte la fedeltà alla propria vocazione divina,
consapevole, come ricorderà Cicerone, che non è suicidio, il suo, ma obbedienza
ad una volontà che lo sovrasta. Come lo era già per il maestro Pitagora: «vetat
Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de presidio et statione vitae
decedere.»0 Così per Catone: «Vetat enim dominans ille in nobis deus iniussu
hinc nos suo demigrare; cum vero causam iustam deus ipse dederit, ut tunc
0
ARISTOFANE, Rane, 123-126.
0
TEOFRASTO, Storia delle piante, IX, 8,3 e 16, 8-9.
0
CICERONE, De senectute, 20, 72.
91 Del ferire

Socrati, nunc Catoni…tamquam a magistratu aut ab aliqua protestate legittima,


sic a deo evocatus atque emissus exierit.»0
Vano resterà il tentativo della città di far apparire come suicidio quel bere
compostamente il veleno, senza sporcarsi del sangue versato, come a negargli il
valore degli eroi epici. La stessa vita filosofica è fondata sul kalòs kìndynos (il
bel rischio) della scommessa sull’immortalità dell’anima: il filosofo, il più
valoroso (àristos), morirà come Leonida, nobilmente (gennàios). Entrambi
procedono con serenità per le vie che conducono alla morte; il kalòs kìndynos è
pure kindynèuei kalòn, il rischio che sia davvero bella la morte in combattimento,
quello dialettico-filosofico.
La tradizione oplitica dell’uomo virile sopravvive nell’anèr philòsophos
proprio nell’accettazione, opposta alla ricerca impulsiva, della necessità mortale
in un’arrendevolezza controllata (ethèlein). Ai cittadini valorosi dell’orazione
funebre Platone preferisce i gnesìos philòsophoi, secondo il nuovo modello di
andrèia del IV secolo a.C. Non ci sarà dunque bisogno del rituale del sòma (le
donne sono mandate vie) né si dovrà trasformare il suo cadavere in un morto
perché, l’individualità (psychè) di Socrate, non diventerà mai un’ombra. Non
dovrà neppure attendere il postumo elogio dell’orazione funebre, secondo il
modello ateniese, di età classica, del cittadino-soldato che, come nel Menesseno,
accorda la stessa gloria al buono ed al malvagio. La forza della parola di Socrate
non segue ma precede la sua fama, tutti ne resteranno ammirati, fino al servitore
che quasi chiede scusa per recare a lui, il gennaiòtatos, quell’amara soluzione,
fino a scoppiare in lacrime mentre se ne fugge via (Phaed.116 c-d). Menesseno è
l’ultimo a essere nominato, tra gli ateniesi presenti, proprio colui che si era preso
la bella parodia socratica sull’orazione funebre civica: ironica l’andrèia dei corpi
“astratti” dei soldati (Menesseno, 247d 8), serissima quella degli andrèioi
(Phaed., 83 e) dei «giusti ammessi al sapere (che) sono virtuosi e coraggiosi».
Gli elogi funebri, che a Socrate sembrano come «belle parole, seducono le nostre
anime […] tanto che anch’io, Menesseno, grazie alle loro lodi, mi sento
veramente nobile, e ogni volta, preso d’incanto ad ascoltarli, mi sembra d’essere
immediatamente divenuto più grande, più nobile, più virtuoso.»0
L’epitáphion paragonato a un gioco di seduzione e d’incanto: poteva
Platone non rapportarlo a quello dell’hetáira Aspasia, entro un esercizio di
retorica (gorgiana-tuciditea) contrapposta a quella protrettica? E’ per questa
seduzione che, quando si parla di Aspasia, sembra inevitabile la tentazione di
rapportarla subito a quella di nomi maschili, come Socrate e Pitagora. Ma che
dire di Elena, di Onfale la Lidia e di Targelia, sposata quattordici volte? Lei che
fu così bella da suscitare l’invidia maschile per tutto quel potere conferito a una
donna? E difatti Plutarco (Vita di Pericle, 24, 3) non esita a riferirci tale “abilità”
(deinòtes) che, unita alla grazia, le fece conquistare il re di Persia e «tutti coloro
0
ID.., Tusc.,I, 30, 74.
0
PLATONE, Menesseno,235, a-b.
92 Capitolo VI

che l’avvicinavano e, a mezzo di questi uomini che erano i più potenti e influenti,
seminò nelle città germi di mediumo.» Cortigiane apprezzate per la disponibilità,
l’intelligenza e l’astuzia; donne temute politicamente ed infangate solo per
screditare i propri compagni (ed allora l’ambita e colta hetáira diventerà una
misera porne). Le mogli, madri di figli legittimi, non devono possedere né le
loro virtù né le loro sofferenze (tanto ne hanno di proprie). Anche se perlomeno
viene loro risparmiato il sarcasmo della commedia, sempre pronto ad utilizzare
l’accusa di immoralità per condannare il potere femminile e la corruzione dei
nemici. Perché anche ad Atene l’attacco politico ama nascondersi dietro l’accusa
di licenza sessuale e di depravazione dei costumi.
Un abile gioco di mímesis impiegato anche da Apollodoro, nel suo processo
intentato contro Stefano: ed è dalla sua orazione, del 340 a.C., che ovviamente
possiamo conoscere la vita di un’altra etera, Neera0. La storia delle sue
drammatiche peripezie, dietro il sarcasmo politico del suo accusatore (anche qui
un processo Contro Neera) illustra quanto fosse difficile, in realtà, la vita di una
cortigiana. Iniziata alla prostituzione ancora giovanissima (assieme alla sorella
Metanira, amata dall’oratore Lisia) da una serva Nicareta, poi riscattata, fu
venduta a Timanoride ed Eucatre che l’amarono finchè…non decisero di mettere
la “testa a posto” sposandosi per convenienza. Allora venne allontanata da
Corinto (bisognava pur cancellare la colpa) riscattandola per una cifra così esosa
che l’adolescente dovette chiedere aiuto (divenendone schiava) a Frinione.
Costretta da questi a trasferirsi ad Atene, fu obbligata a seguirlo in una vita tanto
depravata che, ormai ventenne, decise di fuggire a Megara. Finalmente qui
conosce Stefano, che resterà il suo amante fisso, un ambizioso politico che, pare
(ma è il suo accusatore a riferircelo) per racimolare un po’ di soldi l’abbia
sfruttata per qualche tempo. Risolta la difficile situazione economica, finalmente,
le fu accanto amandola davvero, volendola sposare e riconoscendone i figli. Ma
la carriera è carriera ed Atene restava la meta ambita per ogni politico: dunque un
nuovo trasloco…questa volta proprio in braccio al furioso Frinione. Appena
giunti (attenzione, non è una commedia: Apollodoro ce ne racconta la vita per
screditarla) il vecchio amante è lì a denunciare Stefano perché vuole riavere ciò
che gli appartiene. E la trattazione che ne seguì, (conclusa in un santuario sotto la
protezione della divinità!) è degna d’essere riportata ai posteri:
La donna sarebbe stata libera e avrebbe potuto disporre della propria
persona; i beni che aveva portato via dalla casa di Frinione, tranne gli abiti, i
0
Cfr, per l’orazione di Apollodoro, l’edizione francese curata da L. FERNET, Démosthène.
Plaidoyers civils,IV, Les Belles Lettres, Paris 1960 (pp 65-110) . Sulla condizione delle donne-etere
ad Atene vedi soprattutto: E. Will, C.MOSSÉ, P. GOUKOWSKY, Le monde grec et l’Orient, II, Le IV
siècke et l’époque hellénistique, Puf, Paris 1990 ; S.B.Pomeroy, Goddesses, Whores, Wives and
Slaves. Women in Classical antiquity, Schocken Books, New York 1975 (trad.in Donne in Atene e
Roma, Einaudi, Torino 1978; C. MOSSÉ, Splendeur et misère de la courtisane greque, in
« L’Histoire », LVI, 1979 ; N. LORAUX, Les enfants d’Athena. Idées athéniennes sur la citoyenneté et
la division des sexes, Seuil, Paris 1990 ; I. SAVALLI La donna nella società della Grecia antica,
Patron. Bologna 1983 ; E. CANTARELLA, L’amigiuo malanno. Condizione e immagine della donna
nell’antichità greca e romana., Ed.Riuniti, Roma 1985.
93 Del ferire

gioielli e le ancelle che erano stati acquistati per suo uso personale, sarebbero
stati restituiti a Frinione; Neera avrebbe dovuto vivere con ciascuno dei due per
due giorni ciascuno, salvo modifiche accettate dalle parti; lo sposo di turno
avrebbe provveduto al mantenimento della donna; infine, essi sarebbero stati
amici senza rancore alcuno.0
Nuovamente schiava (altro che libero disporre della propria persona)
ricomincia, per Neera, il “mestiere di cortigiana” tra lo sposo (ovviamente
illegittimo) Stefano ed il vecchio amante, nonché gli amici che avevano risolto la
causa (a cui si doveva pure certa riconoscenza…) Non sappiamo quanto durò
questo supplizio (i sentimenti della cortigiana non sono considerati e dunque
neppure riportati: un’etera non deve mica avere sentimenti), ma è certo che a un
bel momento finì. Inizia da qui il faticoso viavai di Stefano perché la si accettasse
come legittima moglie (ma una straniera, una concubina…) e perché Famo, la
seconda di quattro figli (in circa trent’anni di vita in comune) potesse essere
riconosciuta come ateniese e dunque sposarsi. Tralasciamo le traversie (due volte
ripudiata, già incinta, da uomini che pure si presero la sua bella dote dal padre),
vogliamo solo ricordare che, ad intralciare la “reintegrazione” della cortigiana e
dei suoi figli, fosse proprio la legge. Era infatti proibito dare in sposa ad un
ateniese una straniera o una nothe, figlia di unione illegittima: e Stefano,
infrangendo la legge, seppure ormai uomo ben in vista, si espose più volte
all’atimía (perdita dei diritti politici e confisca dei beni). Gli stratagemmi di
quest’uomo furono infiniti: dall’imboscata ad un vecchio amante di Neera nel
letto della figlia, perché poi potesse “riparare” (ma per una donna nata da
straniera non si poteva parlare di adulterio. Dunque nessun risarcimento) a
tentativi di “persuasione” su persone povere ma buone. Come fu con il secondo
marito di Fano, un brav’uomo che la sposò e la tenne con sé finché, ironia della
sorte, non fu estratto come basileus. La moglie del re di Atene, la basíllina,
doveva infatti presiedere ai riti sacri nel secondo giorno delle Antesterie…
Pensiamo alla faccia dei consiglieri dell’Areopago, preposti ad accertare la
dignità della sposa per l’alto ufficio, quando fu loro presentata la fanciulla, figlia
di una cortigiana, non riconosciuta come ateniese (nonostante gli sforzi di
Stefano), ripudiata già una volta (ed ora sarebbe seguita la seconda), con un figlio
illegittimo. Famo fu allontanata in privato, perché non avesse a soffrire di
scandalo la città. Infine (ma sono così rari i documenti che ci riportano la vita
reale delle cortigiane) abbiamo il processo intentato da Apollodoro contro
Stefano. Quest’ultimo aveva infatti attaccato la sua proposta (istigata da
Demostene) di far confluire il bilancio in eccedenza nell’esercito anziché nel
therikòn (indennità per agevolare la partecipazione popolare alle feste religiose).
Ed Apollodoro conclude la sua orazione (il cui unico merito è di averci riportato
l’identità di una donna, non la sua sublimazione), in questi termini: «Meglio
sarebbe stato che questo processo non avesse avuto luogo, piuttosto che vederlo
concludere con un proscioglimento, perché allora le prostitute avranno piena
0
Cfr. L. GERNET, Démosthène. Plaiodoyers civils, cit., , p 87.
94 Capitolo VI

libertà di sposare chi vorranno e di far passare i propri figli per quelli di
chiunque: le leggi non avranno più potere, le cortigiane saranno sovrane». 0 Ci
dispiace per chi avesse seguito fin qui questa storia, perché non sappiamo proprio
come andò a finire. Certamente anche Ermippo, quando accusò di empietà
Aspasia, intese colpire Pericle (Plutarco, Vita di Pericle,32,1), il tiranno
osteggiato dai comici ateniesi. Anche Aristofane ricorrerà all’etera Aspasia,
potente incantatrice, per screditare l’uomo che (secondo il topos della guerra
causata dalla donna) avrebbe organizzato la spedizione contro Samo ascoltando
le preghiere di colei che aveva «a cuore soprattutto l’interesse dei Milesi» (Vita
di Pericle, 24, 2; 25, 1).
Ma chi ci dice di più, su queste donne: i loro adulatori, che proiettano se
stessi in quei modelli femminili o chi condanna i governanti, accusandoli di
rapporti disdicevoli con le cortigiane? Come non accorgersi che, nella letteratura,
queste donne ricorrono funzionalmente come “finzioni” in grado di acconsentire
all’immaginario greco? Ma Aspasia, la donna reale, resta muta. E noi non
possiamo fare congetture storiche… Né seguiremo l’indicazione, spesso invece
accolta, dell’anonimo comico ateniese che, paragonando il sofista (nella
commedia Socrate è sempre sofista) all’hetàira, conclude così: «Entrambi
educhiamo i giovani! Perciò, mio caro, confronta Aspasia e Socrate: vedrai che
l’una ha come discepolo Pericle, l’altro Crizia.» 0 Ermippo è l’accusatore di
Aspasia come Aristofane lo è di Socrate (katègoros, Apologia, 18 b-c): se lei fu
un’etera sarebbe pur vero che Socrate fu sofista!
Il destino di Diotima, che indica il destino agli uomini, dovremo allora
scriverlo a partire da quello negato (illusione degli storici: il destino non si nega)
della donna-accanto a Socrate, l’uomo dal corpo di Sileno e dalla voce di cigno.
Infatti non può essere la meteca Aspasia la donna dell’incontro, la profetessa
che, nascosta nel tempio, interpella ed invita all’ascolto di sé, infondendo la
tragica nostalgia del ritorno. La cultura greca non concede dubbi: se lontana dal
sacro, la donna deve essere moglie o etera. Se è istruita, cortigiana o no, in
quanto donna è sempre esposta dalla società patriarcale: ogni sua parola non
potrà non avere «i sortilegi delle parole mielate»0 di Afrodite. Ma qual è il
destino di chi mette in campo il lógos per fuggire, come Atalanta, il matrimonio o
l’amore tanto caro, appunto, ad Afrodite?
Nelle Metamorfosi0 Ovidio ci offre una versione del mito di Adone che
capovolge l’identità “maschile” del cacciatore di animali «che si possono
catturare senza pericolo»0 in quella femminile della giovane che…rincorre gli
amanti. Proviamo a spiegarci: era stata Afrodite a consigliare al giovane
effeminato di inseguire solo le lepri, i cervi ed i daini (che nella mitologia
0
L. GERNET, op. cit., , p.109.
0
G. REALE (a cura di) Socratis et Socraticorum Reliquiae, Ed. …Napoli 1990, cit., I A 15.
0
ESCHILO, Prometeo,172.
0
OVIDIO, Metamorfosi, 10, 520-739.
0
OVIDIO, op. cit., , 537.
95 Del ferire

accompagnano gli amanti nei boschi) trasformando Atalanta, che la disdegna


apertamente, in un leone. Ovvero nell’animale che insegue e che, se inseguito
(come gli orsi ed i cinghiali), è estremamente pericoloso: dunque una preda non
all’altezza dell’amato dell’amore carnale della dea. La contrapposizione si
intreccia in Afrodite che cinge la veste di Pandora, corrispettivo del valore
“sacro” della cintura verginale slegata (il primo gesto dello sposo verso la sposa)
e la selvaggia cacciatrice che si cinge armata uccidendo cinghiali, facendo
scorrere il sangue. Il “potere” delle donne che vogliono sottrarsi all’amore…lo
stesso che il mito non può non condannare riunendo, come fa Marcel Detienne 0,
la metafora della caccia con quella della corsa. Distinte nell’ordine maschile
hanno, invece, uguale significato eversivo di appropriazione della virilità nella
donna: Ulisse ottiene la mano di Penelope correndo più velocemente degli altri
spasimanti, Atalanta insegue armata i pretendenti nudi (come i daini). All’origine
vi è un oracolo, la designazione del destino di chi non vuole accettare l’ordine
patriarcale (o sposa o cortigiana). Proviamo a ricordarlo pensando, per contrasto,
a quanto fu rivelato all’uomo-Socrate. Confusa dai molti pretendenti, tutti a lei
inferiori nella corsa, consapevole dello scarto tra ciò che cerca e chi incontra,
chiede aiuto per sapere se veramente lei debba sposarsi. Il responso è terribile:
pur rivelandole l’identità (la sapienza profetica non si smentisce mai, riconosce
sempre il vero dal falso), riconoscendo che lei proprio non ha bisogno di uno
sposo, le consiglia di fuggire il matrimonio. Aggiungendo, però, che infine non
riuscirà a scampare dall’amore e, pur non morendo, sarà trasformata in altro da
sé. «Spaventata, Atalanta fugge e si ritira in oscure foreste dalle quali non accetta
di uscire altro che per imporre ai pretendenti impazienti la prova di velocità in cui
sono in gioco il suo corpo vergine o la vita dell’uomo.» 0A Delfi si invita l’uomo
a rientrare in sé “divenendo ciò che deve essere”; una donna che voglia restare
fedele a se stessa è invece punita “diventando ciò che non deve essere”. Qual’ è il
destino, allora, se non l’eterna inconcludenza di una vita senza compimento né
fine (contro il télos gamoio ) di un’atélesta di una corsa-caccia mai terminata e
che mai porta frutto? Ce lo ricorda proprio Detienne, che «pure tante prodezze
cinegetiche sono vane se non rimangono orientate verso un ritorno e
un’integrazione all’interno della società civile (…)Una donna che vale quanto un
uomo non può esserne che il nemico.» 0 E non saprei dire perché, per Aspasia e
Socrate, mi viene da pensare alla dolcezza del miele…Forse per la sua rarità nel
mondo antico, come le donne che potevano coltivare gli studi ed essere davvero
amate dagli uomini, seppure non come legittime spose. O forse per la sua
simbologia mitico-sessuale, come energizzante, valida per le etere come per gli
sposi novelli (che a Roma potevano mangiare miele per un intero ciclo lunare, da
cui la “luna di miele”). O perché era impiegato per dolcificare le bevande
consumate nei simposi, ove potevano accedere solo le cortigiane e le suonatrici
di flauto. O perché ci riporta ai rituali funebri che valorizzano il corpo (quello
0
Cfr. M. DETIENNE, Dioniso e la pantera profumata, tr .it., Ed.Laterza, Milano 1987.
0
Ivi, p.57
0
ID., p. 60.
96 Capitolo VI

“negato” di Socrate ed “esasperato” di Aspasia): in Egitto, ad esempio, era


utilizzato per l’imbalsamazione…O perché ha un significato ambivalente
nell’Orfismo: per le sue proprietà antisettiche, simbolo di purificazione, veniva
usato dal mestes per lavarsi le mani…come Socrate, che provvede da sé a lavarsi,
a “sdraiarsi” e coprirsi il volto, fedele alla tradizione misterica. Dopo essersi
purificato da ogni passione nella “virtù” della “temperanza”, del “coraggio” e del
“sapere”, giunto all’Ade, non «giacerà in mezzo al fango» ma «abiterà con gli
Dei » (Platone, Fedone 69 c). Socrate previene la propria morte, perché come
filosofo non può che essere “come già morto”, invertendo il tempo dei riti
iniziatici nell’anticipazione filosofica del distacco dell’anima. Si potranno o no
tagliare i capelli, come segno di lutto, potrà essere cremato o sepolto, il suo
corpo. E’ davvero importante? Socrate non rinnega il rito funebre, piuttosto lo
innesta nel lógos, perché è questo ormai che organizza lo spazio del suo aldilà.
Anche senza un sòma, infatti, l’individualità (seppure come psychè) chiede un
luogo, uno spazio, per la propria esistenza. E le api, nell’orfismo, non erano
simboli di vita laboriosa ma, soprattutto, di rinascita (ritenendo che queste si
rigenerassero dalla propria putredine). Eppoi, quell’ultimo “discorso” consegnato
agli apostoli non ha forse il sapore del miele, delle libagioni dolcificate (appunto
con questo nettare) che venivano offerte nei rituali funebri? Eppure il miele, ed è
forse questo il motivo più importante, nell’orfismo ha un qualche sommesso
significato che si ricollega a certa “sapienza” femminile. Non ci riferiamo alla
mètis (che è più di tipo pratico) ma a quell’astuzia che riesce, nell’immaginario
maschile greco, a “catturare” a sé l’uomo, come il profumo della pantera 0 che
richiama il compagno (anche se lontano), senza scomodarsi ad andargli
incontro:«E presso Orfeo Crono con il miele è preso in trappola da Zeus: pieno di
miele infatti si ubriaca…In Orfeo invero dice la Notte, suggerendo a Zeus
l’inganno del miele: “Quando lo vedrai appunto sotto le querce dalle alte chiome,
ubriaco per le opere delle api acutamente ronzanti, legalo».0
E difatti Zeus, come Crono, si appropria tanto del femminile da
sussumerne il “potere suadente”, fino a rubarle la maternità…Come la tradizione
storica che ci nasconde la vera identità delle donne che hanno esercitato un
qualche potere nella società. Temute, dunque neutralizzate nell’ambiguità dell’
arte della persuasione (Aspasia maestra di retorica) e della seduzione (lei che
Pericle amò soprattutto per la straordinaria intelligenza). Un capovolgimento che
“destina” all’esilio della parola: la loro e la nostra, che non possiamo fantasticare
su fatti che non conosciamo.
Dubitare, però, certamente. Ad esempio sulla veridicità dell’inganno del
miele, brutta ed insidiosa metafora del potere femminile, che in realtà fu autorità
e non potere. Ma doveva essere difficile da accettare, per l’immaginario
maschile, che la donna potesse essere “autorevole”: il potere è di rango inferiore
e dunque le si suo può concedere, soprattutto se viene rubato con l’ebbrezza del
0
Cfr. M. DETIENNE, Dioniso e la pantera profumata, tr. it., ,Laterza, Roma-Bari 1987.
0
PorfiRio, Sull’antro delle Ninfe 16 (cfr G.Colli, op. cit., 4 <B42>, p.255).
97 Del ferire

suadente nettare dell’eros…


Socrate però amava davvero discutere con Aspasia e sulla sua
frequentazione delle cortigiane è Senofonte, nei Memorabili (III, 1, 1,g sgg) a
darcene notizia. Come il suo dialogo con la bella Teodota, la “pantera profumata”
che attrae la preda nascondendosi nell’erba alta, piombandole addosso
all’improvviso. E va bene, ma perché l’immaginario maschile associa sempre la
caccia all’amore? Proviamo a scavalcare l’ovvietà della risposta, a pensare, ad
esempio, ad Aspasia che, morto Pericle, si unisce con Lisicle, il mercante di
pecore. E tanto venne educato (è sempre Plutarco la fonte privilegiata) da lei che,
seppure inizialmente “volgare” divenne poi «il primo degli Ateniesi»0. Una
donna deve fuggire o inseguire per forza (secondo il modello erotico filosofico) o
può anche semplicemente incontrare un uomo e volergli donare amore…? La
cortigiana come pantera (pordalis), ce lo ricorda già Aristofane0, che intreccia
inganno e seduzione, il cui corpo profumato fa dire al corifeo maschio (Lisistrata
1014): «Nessuna bestia è più indomabile, nessun fuoco più divorante, nessuna
pantera così audace.» E Socrate lo conferma, questo intreccio (che non ha nulla
dell’ingiurioso kasalbas) proprio nel suo dialogo con Teodota…Ma c’è un modo
per “neutralizzare” il potere di un’etera? Ovviamente “prendendola al laccio” con
la sua stessa arma: ingorda di profumo è sufficiente farle bere del vino per
ingannarla col nettare profumato per poterla catturare, uccidere. Ci si perdoni
l’ironia: gli intellettuali non ne facevano “buon uso” proprio nei simposi, ove
“erano avvicinate” le cortigiane che…più in là, grazie a loro, sono rimaste nella
storia? Ma la storia scritta dai cacciatori, si sa, è sempre violenta e parziale
riguardo allo stesso modo di intendere la natura…Se ripensiamo a Neera, o alla
“burla” di Platone sull’autorità dell’intellettuale Aspasia, come cortigiana e come
sofista, non ci sembra alquanto mitica la traduzione di Detienne sulla pantera-
cortigiana che
pratica un tipo di caccia che i greci chiamano ‘caccia di Afrodite’ (aphrodisìa agra): il
desiderio ne costituisce la trappola, e chi ne è vittima è colto da amore, così come le pernici,
così ardenti che il canto stridente della femmina, che serve da richiamo, nascere nel maschio un
desiderio talmente violento di accoppiarsi da spingerlo talora addirittura a posarsi sulla testa
della femmina.0

Il riferimento ad Aristotele (Storia degli animali, IX, 9, 614a 26-28) non è


ovviamente casuale…E va bene: ma se utilizzassimo il “miele” per stordire i
cacciatori che col vino tendono al laccio le pantere? Dovremmo pur avvicinarli,
se sono così sensibili ai profumi…e dal corpo stordito degli scritti sulle donne
intanto neutralizziamone il metodo. Quello del doppio registro che svaluta il
corpo di Socrate (per la filosofia) ed esaspera quello dell’etera Aspasia per
0
PLUTARCO, Vita di Pericle, 24,6.
0
ARISTOFANE, fr.478 Kock; Lisistrata, 1014 sgg.
0
M. DETIENNE, op.cit., , p. 69.
98 Capitolo VI

intestine, tra uomini, lotte di potere politico. Come l’infamia toccata a Pericle, nel
processo contro la donna amata accusata «di ricevere a casa sua donne libere
perché s’incontrino con Pericle.”0 identica a quella volta a Fidia, altro suo
protetto:“Si diceva che egli ricevesse per Pericle donne libere con le quali
quest’ultimo aveva appuntamento.»0Un processo che anche per Montuori 0 fu
l’espressione della reazione democratica ateniese alla “tendenza eversiva
d’ispirazione monarchico-tirannica” del governo di Pericle. Il grande oratore che
pianse disperatamente due volte: per l’accusa volta all’amata e perché fosse
rivisto il decreto, voluto da lui stesso alcuni anni prima, che non si desse
cittadinanza ai figli di una concubina (pallakè). Una legge (risalente al 451-50,
riportata da Aristotele nella sua opera La costituzione degli Ateniesi, 26,4) che si
trovò a dover infrangere, quando gli morirono i due figli legittimi e gli restò
soltanto Pericle il Giovane, nato dalla sua unione con Aspasia: «Sembra strano
che una legge […] potesse essere abolita dalla stessa persona che l’aveva
proposta. Ma la sventura che si era abbattuta allora sulla casa di Pericle […]
commosse gli ateniesi. Infatti sembrò loro che egli fosse vittima della Nemesi e
che la sua richiesta fosse umana, perciò gli permisero di iscrivere il figlio
illegittimo tra i membri della sua fratria e di dargli il suo nome.»0
Non sapremo mai i sentimenti di Aspasia, considerando che Plutarco fece
precedere a questo passo i sagaci commenti di Eupoli sul disonore di Pericle
davanti a colei che, ce l’aspettavamo, ora è chiamata porne (Vita di Pericle, 24,
10). Platone, che era stato capace di inventare un’àrchousa per indicare il
femminile di “arconte”, definisce Aspasia he didàskalos: un articolo femminile
per un sostantivo maschile. Essere maestra, in Grecia, è decisamente ben altra
cosa…E davvero il filosofo pare divertirsi con cinica ironia, attaccando un
fantasma (chi fu davvero Aspasia?) con dottrine non scritte! L’abile oratrice,
tanto sapiente da essere elogiata da Cicerone (De invenzione), colei che per
Filostrato aveva “raffinato” la lingua di Pericle, scrivendo con lui o per lui
l’Epitaffio per la “bella morte” dei soldati ateniesi nella guerra contro Samo. Lo
stesso autore che, ne Le vite dei sofisti, aveva distinto i caratteri della sofistica da
quelli delle altre scuole, tra il V ed il IV secolo, in questi termini:

Si deve considerare l’antica sofistica come una retorica filosofica: essa infatti tratta gli
stessi argomenti di cui discutono i filosofi, ma mentre quelli, facendo progredire a poco a
poco l’oggetto della loro ricerca per mezzo di minute integrazioni, affermano di non
avere raggiunto la conoscenza, l’antico sofista […] premette ai suoi discorsi espressioni
come “io so” oppure “io conosco” […] Un tal genere di preamboli manifesta la dignità
dei discorsi, un alto concetto di sé e una sicura comprensione della realtà. 0

0
Ibid., 32,1.
0
Ivi., 13,5.
0
M. MONTUORI, Di Aspasia Milesia,in AA. VV, Corolla Londiniensis,1, a cura di G.
GIANGRANDE, London Studies in Classical Philology,8, 1981, pp. 87-109.
0
PLUTARCO, Vita di Pericle, 37, 2, 5-6.
0
Flavio FILOSTRATO, Le vite dei sofisti (trad.di M.Prosdocimi, Bologna 1985).
99 Del ferire

Eppure Socrate amò davvero frequentare questa donna, che stimò tanto se,
persino a Callia (il figlio che la moglie legittima di Pericle ebbe dal primo
matrimonio) che gli chiedeva un buon maestro per suo figlio…gli indicò proprio
Aspasia. Furono soprattutto i suoi discepoli Antistene ed Eschine a parlarci di
questo rapporto ed a restituirci la natura del vero sentimento che la legò a Pericle.
Per cercare quel volto che davvero fu di donna, non di fantasma letterario
(l’etera, la maestra di retorica nell’opera più filosofica di Platone) che fa chiedere
a Nicole Loraux: «Dunque, Aspasia: privilegiata dalla Storia che nega la parola
agli anonimi? Forse, perché chi è che non conosce il nome di Aspasia? Ma, al di
là dello scandalo e del pettegolezzo, io vedo in colei che porta questo nome una
donna greca esemplare, alla fine sconosciuta tra i grandi uomini dei quali si
circondava.»0 Il nome (il destino) della donna Aspasia è da aspàzesthai, per
Antistene, perché Pericle non poteva non stringerla sé ogni volta che la vedeva.
Un amore che non gli fu mai perdonato dagli ateniesi, perché l’erotikè agàpesis
in Grecia non si addice ad un uomo. Non esistono eroi che muoiono per amore,
l’unica eccezione, Eracle, nelle Trachinie, è vittima dell’amore che Deianira ha
per lui e non per il suo desiderio di Iole. L’eroe non può morire per amore,
semmai per colpa. Ma la colpa di Pericle fu proprio quella di avere amato senza
misura, ripudiando una moglie aristocratica per vivere con una straniera dell’Asia
Minore. Con le cortigiane, solitamente, non si divideva il tetto perché era più
conveniente collocarle in un bel palazzo a parte dalla vita coniugale. Ma era
davvero un’etera l’intellettuale Aspasia? Per la morale greca questa struggente
tenerezza per l’amata è propria degli “effeminati” 0 : forse fu lui l’unico uomo a
stimarla per se stessa? L’opinione più diffusa è infatti che il primo oratore fosse
completamente infatuato della sophè kai politikè di Aspasia, altro che profumo da
pantera. L’identità di Aspasia è celata nello sforzo del lógos socratico nell’ora del
tramonto, quando nulla sembra più lontano dallo schema retorico dell’elogio
funebre. Rinvenire un corpo, un’immagine verosimile, come quella che la
raffigura all’Università di Atene, seduta accanto a Pericle, a metà tra Socrate e
Platone. Il miele: l’ambivalenza che vogliamo recuperare a dispetto
dell’ambiguità. Ma cos’è allora, tra le parole di Socrate nel Dialogo di Platone,
questa lode per il valore dei soldati morti, questa esortazione all’imitazione di
tale coraggio ed infine questa consolazione per le famiglie in lutto… Il
Menesseno: l’unico scritto non altamente filosofico di Platone o piuttosto il suo
consueto gioco letterario di furto delle parole altrui per capovolgerne (a sé) il
discorso? Davvero Aspasia gli fu maestra di retorica (come già per Socrate) per
la cui gratitudine, nel Menesseno, è autrice di quel bel discorso funebre che tanto
doveva piacergli da fargli esclamare: «In me questo sentimento di venerabilità

0
N. LORAUX, Aspasia, la straniera, in Grecia al femminile, tr. it., Laterza, Milano, 1993,
p.152.
0
Cfr. P. BRULÉ, Des femmes au miroir masculin, in Mélanges P.Léveque,2, Besancon-Paris
1989, pp 49-61.
100 Capitolo VI

dura più di tre giorni; e il flauto discorso e il tono di voce del dicitore penetrano
nei miei orecchi tanto che a fatica nel quarto o quinto giorno riesco a ricordarmi
di me stesso ed a sentirmi ancora sulla terra, poiché fino allora poco ci mancava
che m’immaginassi d’abitare nelle Isole dei Beati, tanto sono i nostri oratori!» 0
L’amore, nel Fedro, appartiene solo al pensiero (èros phronèseos) e contro
l’indifferenziazione di vita, anima e corpo dell’epitafio. Platone rinnega il sòma
ed oppone il philosophos al modello civico del philosòmatos. Lisia, Pericle,
Aspasia, tutti i migliori oratori ricordavano come gli ànthropoi avessero donato
“tutto” alla città, ma il corpo, lo si sapeva, era il debito contratto con la città
stessa. Cosa avevano davvero consegnato, di se stessi, che non avessero già
ricevuto in prestito dal principio? Riappropriandosi delle parole dell’orazione
funebre, nel Fedone, ci si allontana definitivamente dalla gloria in funzione
dell’immortalità dell’anima: il filosofo lascia andare volentieri ciò che è
allotrìous perché a lui resta il pensiero, la sua anima. E tutta la serie delle
“uscite”, nel carcere di Socrate, (quell’andare e ritornare dei personaggi che gli
“affollano” la cella) si offre come metafora di ripetuti addii al corpo.La “buona
speranza” (Fedone., 67e) per il viaggio nell’al di là, anticipato nella
comprensione catartica, pur non avendo nulla a che fare con l’epitaffio di
Aspasia, ne sottrae le parole chiave per smantellare la falsa immortalità civica.
Nella contrapposizione del philosophos al philosòmatos si rivendica al primo il
vero coraggio che non procede dalla paura, che non baratta (come quella civica
che è dalla parte del corpo) la vita con la gloria. Il filosofo non scambia (per
Platone il commercio è dei sofisti) ma purifica, e per nulla cede l’immortalità
dell’anima. E così lascia pure che i defunti ateniesi, per le parole di Aspasia («a
colei o a colui che te lo ha recitato», Menesseno, 249, d) rammentino ai genitori
in lacrime come essi siano invece fortunati, per aver ricevuto non figli immortali
ma virtuosi e gloriosi. «Il modo migliore perché noi siamo vinti e voi vinciate è
che cerchiate di non sciupare la fama […] Quanto ai nostri padri, se sono ancora
in vita, bisogna sempre far loro coraggio perché sopportino nel modo migliore la
sventura […] ma non unirci ai loro lamenti[…] sapendo che non con i pianti e
con i lamenti ci faranno cosa oltremodo grata […] mentre nulla ci farebbero di
più gradito che sopportare la sventura con rassegnazione e misura.»0
La scommessa morale sull’immortalità dell’anima fa vivere a Socrate una
morte degna degli eroi omerici: un confronto tra il Fedone (117b 3-5) e l’Iliade
(XIII, 278-286) ci restituisce i lineamenti impassibili dell’anèr che accetta il
destino tragico senza impallidire né provare alcun turbamento. E quando si
rivolge agli amici che piangono come donne (ma non dovrebbero!…non sono
filosofi?) le sue parole ricordano quelle degli opliti valorosi. Perché al lògos si
deve andare “da uomo coraggioso e con ardore”, combattendo come gli argonauti
fino alla “guerra di sterminio” (102-d-104b). Anche se Socrate non si attarda a
bere la cicuta per godere, un’ultima volta, dei piaceri del corpo (116 e, 81b), la
sua anima sostiene il lógos con una presenza fisica che non sfugge ai suoi amici,
0
PLATONE, Menesseno, 235, b-c.
0
Ivi, 247 a d; 248b-c.
101 Del ferire

che non smettono mai di osservarlo…Ed è in una pausa di silenzio che il filosofo
appare «tutto nell’argomento che era stato esposto »(84b-e): autòs ho Sokràtes,
lo stesso Socrate, Socrate in persona che ancora non è puro spirito. La
separazione dell’anima dal corpo (64e) avviene per passaggi che, nella mìmesis
del dialogo platonico, utilizzano proprio il vocabolario del corpo. E’ così che
Nicole Loraux definisce il Fedone un «un séma, una stele commemorativa per
questo corpo-toma che, per tutto il dialogo, è stato innanzitutto un corpo-
segno.»0Un intreccio già proposto nella morte metaforica, la mèlete thanatou,
quando «il corpo, separatosi dall’anima, si è isolato in se stesso e l’anima, dal
canto suo, separatasi dal corpo, si è isolata in se stessa» (64c). Il corpo si ritrae, si
isola e si distacca (e questo non è un parto?) esattamente come l’anima, che
impiega una fisicità dei movimenti per separarsi dal corpo.
Il “bandire” il corpo “usando” il corpo diviene un’educazione dei sensi alla
rovescia, ove si insegna a disfarsi dei sensi perché l’anima possa restare tutta
concentrata in sé. E che dire della morte “non metaforica”? Intanto che il lógos
socratico, prima del tramonto, rivela l’urgenza di tale “paradossale” educazione
mostrando come anche il corpo…si opponga con tutte le forze a lasciarsi mandar
via. Sorridendo alla métis platonica della sua ben nota strategia letteraria
(contenuti nuovi in un linguaggio tradizionale), l’autrice rinviene, per la
dimostrazione dell’eternità dell’anima, l’impiego strumentale del corpo
memorabile da Sileno. La gestualità di Socrate, oltre alle sue parole, in quelle
ultime ore sembra dirla lunga sulla “potenza” della corporeità che eroicamente
“resiste”: sedersi (come i condannati a morte ma pure come gli iniziati orfici),
ripiegarsi su se stesso, appoggiare le gambe al suolo ed iniziare la riflessione sui
contrari dall’indolenzimento della gamba. Ciò che viene “messo in scena” è una
lotta tra corpo ed anima entro un lógos che deve salvare l’immortalità
(traslitterando l’elogio funebre) facendoci credere che di nascita si possa farne a
meno…Eppure la testimonianza più forte, per i discepoli e per noi che leggiamo
la “stele funebre” del Fedone (composta, in anticipo, da colui che sopravviverà
alla propria morte), è quel corpo prima straziato nella lotta, quindi pietrificato dal
testo platonico. Come nel Simposio la bruttezza di Sileno rivendicava la bellezza
dell’anima così qui, alla fine, ci chiediamo quanto sarebbero state meno efficaci
le sue parole, senza quello scrivere sulla gestualità. Quel corpo che lo fece
“prossimo” ad Aspasia, come ai suoi discepoli…Senza questo riferimento si
perderebbe nell’evanescenza mitica il viaggio dell’uomo verso l’Ade, né si
potrebbe conservare oltre la morte il valore di ciò che resta, di quel sé in quanto
spirito. Il significato di un lógos, che è già rito funebre, come evoluzione del
prendere sul serio il proprio destino rivelato a Delfi. Quando se ne scese giù da
solo, dopo l’incontro, meditando di adempiere fino alla fine quel voto d’essere
ciò che doveva essere in quanto uomo, lasciandosi dietro le spalle il Tempio.

0
N. LORAUX, Il femminile e l’uomo greco,cit., , p.174.
CAPITOLO VII

MNEMOSINYA NASCITA ACQUATICA

La teoria orfico-pitagorica della reincarnazione, entro la


dialettica del continuo nascere e morire del Fedone (70 d-e, 71,
c-d), annulla il carattere esistentivo della nascita nella
sospensione atemporale dell’eternità dell’anima. La sua
immortalità, che pure salva dalla fagocitazione della vita nella
morte, negando valore al corpo (impensabile fuori dal tempo)
svilisce la storia relegando l’individualità nell’essere come puro
spirito. Per questo Romano Guardini riflette su come, nonostante
il “fatto religioso” orienti dall’inizio la filosofia platonica, lo
pure allontani dal “fatto umano” poiché «il centro dell’esistenza
si estende oltre la nascita e la morte, oltre il tempo. Il tempo si
presenta quindi come uno stadio di transizione: l’uomo viene da
altrove e va altrove».0 Se il destino del corpo non ha significato
(alla sua svalorizzazione corrisponde anche quella della storia),
bisogna fermarsi per comprendere il divenire come un continuo
processo per contrari. E così Socrate, con alle spalle Eraclito ed
Empedocle, può dire serenamente che «dalle cose morte
nascono le cose vive e i vivi» per concludere che «dunque le
nostre anime esistono veramente nell’Ade!» (Fedone, 71e).
L’eterno ritorno dell’uguale, in Grecia presuppone la
permanenza di qualcosa che non subisce mutamento (pensiamo,
per contrasto, alla religione egizia ove l’anima accresce la
propria potenza a ogni reincarnazione). È certamente vero che la
serietà con cui Socrate accetta la morte poggia sulla «coscienza
del proprio essere spirituale»0, resta però il fatto che il destino
del corpo è completamente slegato da quello dell’anima. La
novità cristiana per cui lo spirito esiste nel-con il corpo ci invita,
con Guardini, a rifuggire da una lettura spiritualistica del Fedone
platonico. L’indifferenza dello spirito per la sorte del corpo,
infatti, svilisce in sé anche l’azione morale entro la storia. Perché
è sempre la decisione morale nel tempo che decide dell’eterno.
Ogni religione che equipari lo spirito con l’essere eterno, infatti,
rischia di pervenire a una sorta di dionisismo dello spirito, ove la
morte non riguarda più l’anima in forza della propria eternità.
L’esistenza umana, come sarà per il cristianesimo, è invece presa

0
R. GUARDINI, La morte di Socrate nei Dialoghi di Platone, tr. it., Ed. Morcelliana, Brescia
1987, p.210.
0
Ivi, p. 211.
davvero sul serio (il destino dell’eterno a partire dalla moralità
nella temporalità) ove l’hybris cede il posto all’umiltà: l’anima
non può essere senza origine perché l’anima non è Dio. Eppure
qualche maglia sfilata nella tradizione greca può restituirci
l’originario timore della morte dietro l’imperturbabile rimozione
del corpo (ovvero della sua temporalità). Rifletteremo sul
significato della gestualità del Sileno-Socrate nelle ore che
precedono il tramonto (oltre la mimesis del linguaggio materno
della filosofia platonica) e qui vi ritroveremo la lotta e la
resistenza con e del corpo. La stessa superiorità dell’idea del
Bene reclama, poi, una valorizzazione dell’esistenza (pure entro
l’indifferenza per la nascita e la morte) nella misura in cui la vita
nelle Isole dei Beati dipende dalla condotta su questa terra. E non
solo per il carattere erotico del desiderio dell’amante ma, come
ricorda Fedro nel Simposio (180a), per l’affetto che spinge
l’amato ad accettare la morte per l’amante. Come Achille che
rinuncia, per Patroclo, alla propria vita scegliendo non solo di
morire per lui ma di morire dopo di lui già morto. La virtù
d’amore salva dalla morte: gli dèi gli regaleranno la vita nel
luogo più delizioso dell’Ade; per Alcesti, poi, ne spalancheranno
le porte perché l’anima, riscattata dall’amore, viva anche per
l’amore. L’attenzione, nel dialogo socratico, più volta al soggetto
che all’oggetto della discussione, mostra tutta la sua valenza
morale. Ogni argomento, infatti, sembra buono purché per esso
si giunga a rendere conto di sé, risvegliando la coscienza: «Io
non vedo nessun male nel fatto che mi si ricordi che ho agito o
che agisco in una maniera che non è buona. Colui che non lo
evita sarà necessariamente più prudente per il resto della vita». 0
Solo chi si ascolta (e Socrate ha imparato a farlo per rivelazione
divina, da Apollo, a Delfi), può coltivare uno stile religioso di
vita, pur suscitando qualche perplessità quando va a infilarsi nei
vestiboli delle case altrui o se ne resta in piedi un giorno e una
notte, in piena battaglia (Simposio). È da tale solitudine che si
può infatti risalire alla via dell’incontro, entro un esercizio
dialogico che approda alla confessione dell’ostinazione di non
voler essere ciò che pure siamo chiamati a essere. Come
l’ammissione di Alcibiade, costretto a prendersi cura di sé una
volta che ha riconosciuto la propria omissione: «Socrate mi
costringe a confessare a me stesso che, mentre sono così carente
per tanti punti, persisto a non curarmi di me stesso».0
Nel rimuovere il timore della morte nella negazione della
nascita (dunque anche nella rimozione del corpo e in particolare
0
PLATONE, Lachete, 187 e - 188 b.
0
ID., Simposio,216 a.
105 Mnemosinya nascita acquatica

di quello femminile, che genera figli mortali), è davvero


convincente, Socrate, quando afferma che «camminando in due,
si va più lontano nella strada»0? La strada, la via che ci offre un
ripensamento sul nascere e sul morire a partire da un incontro.
Quello dell’uomo e della donna nel centro sacro del mondo:
Socrate e Diotima, i due cigni di Apollo.
La concezione orfico-pitagorica del corpo come “prigione”
dell’anima e la teoria della metempsicosi pareva a Erotodo tratta
dalla credenza egizia per cui si potesse, da morti, trasmutare in
Osiride. Una metamorfosi che, entro un arco di tremila anni,
prevedendo l’assunzione di varie forme animali, gli sembrava
svalorizzare l’essere individuato della corporeità. In realtà la
cura per il corpo nel mondo egizio è fortemente religiosa e già
nella pratica dell’imbalsamazione, nel cerimoniale funebre entro
una “dimora” allestita per il morto- custodita come la casa dei
vivi- segna l’abissale distanza dall’orfismo. Lo stesso planctus
rituale, comprendente il polimorfismo di Osiride, tradisce il
timore per la possibilità della crisi del cordoglio: da qui la
destorificazione mitica del riassumere ogni morte vegetale (e
umana) nella scomparsa mitica del nume.
L’orfismo non conosce la “cura” e l’amore per il corpo del
defunto: la sepoltura ha valore religioso ove la corporeità rientra
nello stesso sentire religioso. Non ci risulta che “lamentatrici” si
recassero con cibo, unguenti e gioielli a onorare il defunto, vi è
piuttosto una sorta di fuga, seguendo Euripide:

E indossando vesti bianchissime fuggo


la nascita dei mortali, e senza accostarmi all’urna dei
morti
(nekrothékes ou chrimptomenos),
mi guardo dal mangiare
cibi in cui c’è stata vita.0

Entro la speculazione filosofica, come sappiamo, l’orizzonte metastorico


venne oltrepassato nell’assunzione responsabile del “parlare in prima persona”,
esponendosi fino alla morte (Socrate). In alcune pitagoriche, soprattutto in Teano
e in Arignote, il dualismo corpo-anima sopravvive entro l’ontologia del numero,
preludio all’unio mystica dell’ascesi plotiniana e di tanta spiritualità cristiana. La
filosofia parve loro la via catartica per la pienezza della felicità, vissuta dopo la
0
Ivi, 174 d.
0
EURIPIDE, Cretesi, fr.3.
106 Capitolo VII

morte da un’anima che già ne aveva pregustato la dolcezza nella vita ascetica e
speculativa. Possiamo riconoscere nella lettura femminile secondo l’ordine
dell’essere, per la prima volta espresso in un logos vissuto accanto agli uomini, la
ricomposizione simbolica del dualismo interno all’uomo. Perché il segno del
dolore umano, che ogni scissione comporta, si configura sempre in una sorta di
mancanza di ordine, di unità tra sé e sé e tra sé e il mondo. Il logos si offre, già
qui, come una nuova e peculiare forma di rituale funebre volta a riunificare l’io
con il proprio nome, ovvero con la parola che lo esprime.
Nelle pitagoriche il logos, nella forma metaforica del telaio, propone la
valorizzazione dell’individuato: il figlio riceve ufficialmente l’identità dalla
donna-madre che gli tesse l’abito (il vestito come riconoscimento di un ruolo-
identità sociale). Preparare anzitempo il corredino per il piccolo è iniziarlo ad
avere un pieno inserimento nel mondo; d’altro canto pure il telo che avvolge nel
sudario un defunto è cura, amore e custodia per un corpo individuato. E a tesserlo
sono ancora le donne che iniziano con il lenzuolo l’ingresso dell’uomo nella
nuova e definitiva vita: il parto simbolico di ogni figlio messo al mondo come
colui che deve, per necessità ontologica, passare in altro mondo. Nel silenzio e
nella solitudine (siamo già nel raccoglimento filosofico-religioso, orfico e
pitagorico) delle sue stanze (quelle della tessitura anima/corpo di un proprio
linguaggio femminile) queste non indossano le <vesti bianchissime> dell’anima
che fugge (come nel frammento di Euripide) ma quelle scure del mistero della
mortalità umana.
Alcune pitagoriche, soprattutto Miia e Aresa di Lucania,
oltrepassando il significato negativo del dualismo sofferto entro
la persona approdarono, poi, a una nuova ermeneutica del
soffrire. L’accettazione della scissione, quale dimensione
originaria dell’essere dell’uomo, si tradusse in un impegno etico
a vivere secondo valori educando alla verità. Umiltà e pensiero
dell’umiltà che dislocò l’eros filosofico in accoglienza materna
delle ceneri titaniche: questa la verità riconosciuta nell’interiorità
e condivisa nelle loro relazioni epistolari. La valorizzazione del
corpo come grembo materno, custodia dell’essere divino, le
spinse a ritradurre il concetto di “armonia” quale prima “virtù
femminile” del vivere secondo “giustizia” e “temperanza” nella
dimensione privata della famiglia.
Fu soprattutto Miia (le fonti la indicano come figlia o
sorella di Pitagora) a valorizzare la tensione (un tendere-a simile
a quello catartico-filosofico) all’armonia entro la cura domestica.
Traendo dal pitagorismo la concezione ontico-cosmologica
dell’unità, la ritradusse nel rapporto con la servitù (novità
assoluta, per i tempi), nella sobrietà dell’abbigliamento (contro
certa frivolezza socialmente intesa quale cifra del femminile) e
nell’educazione dei figli. La cura per la persona, per la sua
107 Mnemosinya nascita acquatica

formazione virtuosa nel privato come nel pubblico (quest’ultima


di competenza maschile, entro l’attività legislativa dello stato),
comportò una ricomprensione di sé alla luce dell’umiltà. Ovvero
all’accettazione della verità che il mondo è pieno di tante e tali
scissioni da necessitare accoglienza perché, nel bene, possa
essere superata la violenza della “disarmonia” dell’uomo con se
stesso, con il proprio corpo e con la donna, di cui pure è figlio.
Miia si rivolge a un pubblico femminile perché ben
conosce la tragicità di un’emarginazione domestica: la casa, che
conserva e promuove simbolicamente l’essere, è appunto per le
donne il luogo domestico (forzatamente privato) del vano
tentativo di addomesticare il dolore della privazione di ogni
diritto. Schiava e derisa in quel controsenso d’essere domina del
proprio dolore, signora di ogni dolore disprezzato come faccenda
da femminucce (il lamento funebre e il parto secondo
Platone…). Ma proprio come donna Miia sa perfettamente che la
casa è anche la possibilità ontologica dello stesso essere
dell’uomo. E qui ribalta la sottomissione in promozione
femminile. L’educazione alla “temperanza” e alla “giustizia”,
entro la dimensione domestica, le sembrano la risposta politica
all’ingiusta disarmonia della polis: il suo incoraggiamento a “non
uscire fuori da sé” è il tema ricorrente del suo pensiero. Nella
Lettera a Philles la filosofa incoraggia a non invidiare0 la falsa
libertà degli uomini, piuttosto a realizzare insieme a questi-
analogon del politico e del domestico- l’esercizio virtuoso del
bene.
L’educazione dei figli segue la formazione della donna in
quanto donna: la maternità insegna a non fuggire orficamente il
mondo ma a realizzare la propria vocazione nella piena
assunzione di sé, essere che deve realizzare il proprio essere. Il
riconoscimento del proprio valore entro la corporeità-custodia
dell’essere, raggiunto nella consapevolezza filosofica della
maternità, invita eticamente ad assumere nel proprio grembo
persino il disprezzo coniugale della donna per riconvertirlo in
valore. Il carattere esemplare di tale educazione al bene,
attraverso la sofferenza e l’accettazione di sé, ha la forza di
generare nei mariti, nei figli e nella società intera un’armonia
non più cercata come estraneazione da sé. In tale accettazione
consapevole del dolore umano - l’uomo scisso tra sé e sé- e di
quello femminile -l’ombra dell’uomo, il suo corpo votato alla
morte- Miia assume tutta la sofferenza della finitudine e da qui
0
E’ interessante notare come la ‘gratitudine’, modalità ontica dell’essere-nel-mondo per le
filosofe del novecento, sia stato sviluppato, in opposizione all’invidia, proprio al sorgere del pensiero
femminile.
108 Capitolo VII

inaugura un inedito capovolgimento culturale. La riflessione


sulla maternità, infatti, impone la serietà dell’accettazione
integrale di sé propedeutica alla scelta di mettere al mondo figli
che conservano la precarietà, il mistero e il dolore di quella
“colpa originaria” che li confina nel limite del proprio corpo.
Nessuna vocazione può realizzarsi fuori dall’umile accettazione
dei propri limiti. La tentazione di fuggire dalla propria
condizione ontologicamente destabilizzante (il dualismo orfico)
e socialmente deprimente (il clima diffuso di misoginia
imperante) si converte, in Miia, in quel parlare di sé a partire da
sé. La responsabilità e la sua stessa coscientizzazione spezza il
circolo vizioso dell’annichilimento per convertirsi in quello
virtuoso della “comprensione vivente di me stesso”0. Un
riferimento a Romano Guardini, questo, che ci sembra necessario
per avvicinarsi al significato etico della comprensione di sé come
“dato” e come “compito”. Ovviamente in ben altra prospettiva,
quella della conoscenza di sé a partire dall’incontro con Dio
entro la rivelazione cristiana, il teologo ci offre utili criteri
ermeneutici per intendere la novità di questo pensiero
femminile. Stiamo pensando al suo Accettare se stessi, in quello
sforzo di recupero della positività del limite umano, fuggendo la
tentazione di negarci come uomini per innalzarci simili agli dèi.
Nel dovere di <voler essere quello che sono>0 Guardini rinviene
la condizione di possibilità della Beruf, ovvero di una vocazione
che parte dalla “collocazione di sé entro sé” per dispiegarsi come
progetto nel mondo. Riportiamone un passaggio, pensando
parallelamente alla virtù dell’accettazione di sé entro la
riflessione sulla maternità in Miia:

Coraggio reale significa sapere che si è collocati in un posto […] Il compito di esistere
può farsi molto difficile. C’è la rivolta contro il dover essere se stessi: perché mai devo?
Ho forse chiesto d’essere? […] Così l’atto dell’essere se stessi alla sua radice diviene
ascesi: debbo rinunciare al desiderio d’essere altrimenti da come sono o addirittura un
altro da quello che sono […] debbo riconoscere i miei limiti e rispettarli. Ciò non
significa rinunzia alla tensione verso l’alto. Questa mi è permessa e doverosa; ma lungo
la linea di quanto m’è assegnato.0

Anche se Guardini supera la dimensione etica nella fede


possiamo, restando nell’ambito di una maternità sofferta e voluta

0
R. GUARDINI, Die Annahme seiner selbst. Den Menschen erkennt nur, wer von Gott weib,
1987 (trad.it.in R. Guardini, Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, cit., p.17).
0
Ivi., cit., p. 14.
0
Ivi., cit., pp. 15-16 (sottolineatura nostra).
109 Mnemosinya nascita acquatica

tenacemente, riflettere su quel coraggio d’essere umili che


diviene ascesi. Nel pitagorismo, come sappiamo, questa è
appunto-così siamo sollecitati a leggerlo-l’estrema infelicità per
il limite umano di cui il corpo è cifra, avvinghiata a una titanica
volontà di fuga dalle ceneri. Stiamo riferendoci, ovviamente, a
una rilettura del mito orfico di Dioniso-Zagreo sulla base delle
sollecitazioni etiche di Miia.
Il carattere oblativo della tensione al bene, nella Lettera a
Philles di Miia0, a partire da una moglie ripudiata che diviene
esemplarmente educativa per i figli e per il coniuge, supera
l’opposizione- frattura familiare entro un’armonia che è come
generata con doglie di parto. Il principio ontologico del numero
è ribaltato nell’assunzione su di sé del male (ontologico e quindi
socio-culturale) di cui si conosce appieno la gravità e il limite. E
questo sta nella revisione del paradigma della corporeità come
svilimento del limite medesimo: l’umiltà contiene maggiore
forza dell’hybris, e questo in virtù della sua volontà di accogliere
il dolore e la lacerazione superandolo in gratitudine per
l’esistenza. Non la fuga dalla cenere verso l’anima dionisiaca o
poeticamente apollinea ma la consapevolezza, piuttosto, che è
cosa bella che la cenere non possa “contenere” l’anima, attorno
al cui soffio pure si avvinghia come fa la cenere con il bianco
0
Per uno studio sulle fonti vedi H.THESLEFF, An Introduction to the Pythagorean writings of
the Hellenistic Period, Acta Academiae Aboensis, Abo Akadem, 1961; ID., The Pythagorean Texts of
the Hellenistic Period, Abo Akademi, Abo 1965 («Acta Academiae Aboensis», Ser.A., Humaniora,
vol.XXX, 1); MULLACH, Fragmenta philosophorum graecorum, vol.II, Parigi 1881;
G.D.ROMAGNOSI, Opere, Vol.II, 2, Milano 1944; TAYLOR, Jamblicus of Chalcis of Pythagoras or
Pythagoric life…, London 1965; M.MEUNIER, Femmes Pythagoriciennes: fragments de lettres de
théano etc. avec proégomènes et notes, Paris 1932; V.CAPPARELLI, La sapienza di Pitagora, (parti I e
II), Padova 1944; A.E.CHAIGNET, Phytagore et la philosophie pythagoricienne, Paris 1873; F.
CHAPOUTHIER, La prétendue initiation de Pythagora à Délos, “Revue des études greques” 48, 1935;
M.F.CORNFORD, Mysticism and Science in the Pythagorean Tradition, in “Classical Quartly” 16,
1922 (soprattutto pp. 137-150;17, 1923, pp.1-12; C.J.DE VOGEL, Greek Philosophy. A collection of
Texts selected and supplied with some Notes and Explanations, I, Leiden 1950; A.DELATTE, La vie de
Pythagore de Diogène Laerce, bruxelles 1922; DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi illustri; DODDS, I
Greci e l’irrazionale, La Nuova Italia, 1973; F.ENRIQUES, L’evoluzione delle idee geometriche nel
pensiero greco,in Questioni riguardanti le matematiche elementari, raccolte e coordinate da
F.Enriques, parte I, vol.I, Bologna 1924; S.FERRARI, La scuola e la filosofia pitagoriche, in “Rivista
italiana di Filosofia”, 5, 1980, vol.I, (soprattutto pp.53-74, 184-212, 280-306, del vol.II pp.59-79, 196-
216; K.V.FRITZ, Nous, noein and their Derivatives in Presocratic Philosophy, parte I: From the
Beginnings to Parmenides, “Classical Philology” 40, 1945, (soprattutto pp.223-242), parte II: The
post-parmenidean Period, 41, 1946, (soprattutto pp.12-34); F.A.GEVAERT, Histoire et théorie de la
musique de l’antiquité, Gand 1875-1881; G.GIANNELLI, La Magna Grecia da Pitagora a Pirro,vol.I,
Milano; GOMPERZ, Griechische Denker, trad.it.; P.HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica,
Einaudi 1988; I.Lévi, La légende de Pythagore de Grèce en Palesatine, Paris 1927; H.S.Long, A
Study of the Doctrine of Metempsychosis in Greece from Pythagoras to Plato, Princeton, 1948;
G.MIHAUD, Les philosophes géomètres de la Grèce, Paris 1900; P.Tannery, La géometrie greque,
Paris 1949; M.TIMPANARO-CARDINI, Pitagorici.Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, 1958;
M.E.WAITHE, A History of Women Philosophers, ed.Mary Ellen Waithe, 1989, E.ZELLER-R.
MONDOLFO, (trad.it.di R.Mondolfo in La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico, Firenze 1983).
110 Capitolo VII

fumo sacro dell’incenso.


Contro la volontà orfica di negare valore al corpo (per
estirpare il Titano che ci è padre), Miia rivaluta, seppure
implicitamente a partire dalla sua lettera, la mater-matrice entro
un’umiltà di cui il corpo malato, oppresso, rifiutato e persino
violentato è maestro. Perché questo stesso corpo che si lascia
morire ci indica il valore dell’accettazione dell’esistente, anche
contro la personale volontà. È questa umiltà che incenerisce le
ceneri titaniche, quelle che davvero, nella loro superbia di
uccidere e di fagocitare la divinità, ci impoveriscono nella
miseria della violenza.
La lettura dei frammenti di Miia ci invita a riflettere, nella
prospettiva della corporeità, sulla novità culturale che si inaugura
contro l’apparente positività del mito (ricordando le riflessioni di
Guardini) quando si ripensa ai contenuti a partire dai valori.
Sono persuasa, infatti, che la centralità della relazione madre-
figlia nel pensiero femminile abbia aperto, seppure
inconsapevolmente, a una nuova lettura del mito orfico di
Dioniso-Zagreo. Ovvero a un superamento, per la centralità di
questo mito nel pitagorismo, delle stesse ragioni filosofiche in
cui operarono in quanto donne (e qui resta cruciale il significato
che si riconosce, o si nega, alla propria corporeità quale
dispiegamento della vocazione materna). Ripensando al mito
orfico, entro la maternità consapevolmente assunta, ci
accorgiamo che questa divinità che noi saremmo, in quanto
anima, appartiene a un Dioniso figlio, un bambino che subisce
violenza ed entra nella morte. Un aspetto che non sfugge alla
riflessione di Clemente Alessandrino che, nel Protrettico 2,17,
ne commenta l’implicita violenza rituale:

I misteri di Dioniso sono difatti assolutamente inumani. Intorno a lui ancora fanciullo si
agitano in una danza armata i Cureti , ma i Titani si insinuano con l’astuzia: dopo di
averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi, ecco che questi Titani lo sbranarono,
sebbene fosse ancora un bambino0

E ancora, riferendosi al mito piuttosto che ai suoi simboli rituali (lo


specchio, i giocattoli, la palla…) ci racconta come

0
CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico 2, 17 (cfr. Giorgio Colli, La sapienza greca, vol.I, ,
Adelphi, Milano 1977, cit., p.245).
111 Mnemosinya nascita acquatica

I Titani, che appunto lo avevano sbranato, dopo di aver posto un labete su un tripode e di
avervi gettato dentro le membra di Dioniso, dapprima lo fecero bollire e in seguito,
infilzatele in piccoli spiedi, le “tennero sopra Efesto”. E infine Zeus , mostratosi…rovina
con la folgore i Titani e affida le membra di Dioniso al figlio Apollo, perché lo
seppellisca. E costui certo non disubbidì a Zeus: portando il cadavere sbranato sul
Parnaso, gli dà sepoltura.0

All’invito pitagorico perché l’uomo ricordi la propria origine, ovvero


riconosca il carattere divino della propria anima, sembra fare eco -ma invece
siamo in un dialogo, seppure non coscientizzato- Miia che ricorda la natura
infantile di questa stesso dio. La scoperta del valore del sovrasensibile diviene,
nel pensiero femminile, una fuga da sé (anziché una comprensione di sé) se
disdegna la relazione padre (Zeus)-madre-figlio. Dioniso è figlio e le continue
metamorfosi cui è soggetto (metaforicamente gli ulteriori e infiniti sviluppi del
bambino) non lo sviliscono né lo separano dall’armonia di Apollo. Contro
l’interpretazione nietzscheiana (che oppone l’apollineo al dionisiaco) nel tempio
di Delfi, al centro della terra (nel ‘cuore’ dell’uomo), i due fratelli accompagnano
nel tripode il vaticinio della sacerdotessa, la cui voce è musica divina. Fa pensare
come la rimozione culturale della filosofia femminile abbia condotto Platone,
paradossalmente, al superamento della stessa dialettica per rinvenire l’alto valore
della divina pazzia (mania). Poiché relazionati a una filosofia-soteriologia che
intende liberarci dai sensi e dalla corporeità, però, il mito di eros (Fedro) e quello
di Dioniso-Zagreo non poterono …approdare alla filosofia come amore filiale
delle pitagoriche. L’eros platonico non conosce la rinuncia a ciò che è migliore
per noi in vista di altri (come invece nell’oblatività materna) e tende verso
l’oggetto del desiderio dominando il mondo (l’oggetto rimosso, infatti, accoglie
tutta la violenza inespressa della rimozione). La dialettica e la via della salvezza
sono strettamente collegate, nella “scala celeste” verso la beatitudine
sovrasensibile su cui corre veloce il demone eros; ma quando si spoglia, ci
chiediamo, pure entro l’eterno “esercizio a morire”, dell’ostinata volontà di
rifarsi della “privazione”? Senza nulla togliere all’eticità del ritorno nella
caverna, infatti, il filosofo non ci sembra che superi mai il complesso della
coscienza della privazione di cui, e ce l’aspettavamo, è figura la madre di Eros.
Platone ci narra un mito che disconosce l’amore materno, questo è
indubbio, confondendo il desiderio del possesso con l’amore stesso: <Si ama
solo ciò che non si possiede e che ci manca>(Convito, 200c). Le pitagoriche
mostrarono che proprio ciò che ci manca, già prima della splendida conversione
cristiana dell’eros in agape, è l’umiltà per vedere che abbiamo tutto, proprio tutto
da amare in questo mondo, luogo d’afflizione e pure di continue nascite. La
presunzione della motivazione erotica della filosofia, già al suo cominciamento,
fu di aver fatto del pensiero la sepoltura del bisogno d’ascolto dell’uomo.
L’ascolto della tragicità (filosofia e tragedia greca) per cui dovremmo poter

0
Ibid.,2,18 (cfr. p.247).
112 Capitolo VII

pensare che il divino è amabile pure se non ama l’uomo: chi può realmente ardire
a tanto? E come si può amare, poi, ciò che non si possiede se non nella forma del
possesso, l’unico che è giustificabile solo entro il sentimento impetuoso di chi
desidera? Soltanto in un innamorato tale hybris la si può concedere, salvo poi
voler amare chi si autogiustifica nella forma della dialettica erotica del logos. Il
desiderio di possesso misconosce l’ascolto, in sé e nell’altro, del dolore non
risolvibile per la scissione -mancanza di ordine- che ci fa figli; né accompagna
questi figli nell’urna né vuole ascoltare il lamento delle madri in lutto, ai piedi
dei sepolcri. In quel ruotare tutt’attorno a sé e al proprio desiderio d’immortalità
(quella che, da madre, non abbiamo ricevuto perché la madre mette al mondo
figli mortali, come la povera madre di Eros che, pure tra qualche astuzia, non può
generare un Dio) si realizza una profonda fuga dal mondo. Ancora un riferimento
a Guardini:

I primi uomini non accettarono se stessi nell’ora in cui furono messi alla prova, vollero
invece essere ciò che eternamente non potevano essere. Non vollero esser immagine ma
archetipo; non creati e dati da Dio, ma di se stessi. Però l’effetto fu che entrarono in
disaccordo con la loro essenza, perdendo attraverso di ciò la conoscenza di se stessi. Il
loro essere dimenticò il proprio nome. D’allora in poi il nome e l’essere andarono l’uno in
cerca dell’altro senza più trovarsi.0

L’eros, pure come dialettica del logos, non conosce la parola che ricompone
l’unità, perché tale parola non è desiderio ma amore. La riflessione sulla cenere
di un grembo materno che partorisce cenere, però, aveva già inaugurato una
salutare provocazione…peccato che la storia l’abbia rimossa. Ripensando al mito
orfico di Dioniso-Zagreo, poi, possiamo comprendere quanto, nel silenzio in cui
fu confinato quell’umile carteggio di donne, abbiamo perso della pace d’essere
figli. Il mito ci ‘dice’ (lo può dire entro la dimensione materna) che non c’è nulla
di male nel non essere padri o madri del mondo: Dioniso stesso, e pure Apollo,
sono figli. La ‘colpa’ (possiamo dire che sta nell’aver ucciso un bambino anziché
un dio immortale? tanto per ritornare nell’ordine del mistero delle cose
veramente umane, quelle da cui sorge la bella filosofia) è espiata nella nascita
del figlio. Come prole dei Titani, infatti, non siamo già il nuovo inaugurato
sull’antico ordine del crimine dell’hybris? Perché non accoglierci così come
siamo (l’accettare se stessi dell’ethos materno) senza, di nuovo, voler essere ciò
che non siamo, ovvero dèi? Le pitagoriche scrissero sull’educazione dei figli
perché in questi riconobbero, dobbiamo pur pensarlo, non la punizione ma il
dono per una colpa espiata. Pure se lontani dalla rivelazione cristiana di un Dio
Amore, che viene a servirci come figli, antropologicamente qui si inaugura un
pensiero differente dall’eros (che desidera il sublime per sé ) nell’amore materno
che vuole il figlio in quanto figlio.
Aresa di Lucania nel suo Libro sulla natura umana (circa cinquanta righe in
0
R. GUARDINI, op.cit., , p.30.
113 Mnemosinya nascita acquatica

prosa dorica) traduce addirittura con il termine “perdono” la virtù femminile


della riconciliazione armonica degli opposti.Un disordine politico, proprio come
l’ostilità covata nell’animo (quel risentimento che non ci fa amare ciò che siamo
nei limiti di ciò che siamo), distrugge l’ordine armonico del mondo -offusca il
senso del suo essere- inducendo al doloroso processo delle reincarnazioni
riparatrici. Una correlazione che si ritrova già nella tripartizione armonica
(sunarmogà, in dorico) dell’anima in “pensiero”, “volontà” e “desiderio” cui
corrisponde, nello stato, il “discernimento” che presiede alle “leggi” e alla
“giustizia”. È interessante notare come il non disprezzo della corporeità conduca
Aresa a includere, nella tensione etica verso l’armonia, pure la parte sensitiva
dell’anima, guidata dall’amore quale virtù che riconcilia gli opposti nel perdono.
Una grande novità, questa di aver compreso il perdono come motore verso il
bene, l’umiltà che si china su ciò che bello non è 0. Cosa voglia dire, poi, “amare
il bene” fuori dalla logica dell’assunzione del male (come dolore per il limite e
come male nell’offesa alla dignità femminile), l’abbiamo già indicato in quella
tensione titanica a rigettare l’umano. Possiamo affermare che la via catartica,
quella che Guardini riconosceva come “nuova ascesi a partire da sé”, nel
carteggio di Miia ed Aresa attraversa il male assumendolo in un amore materno
capace di ri-generare in bene il male. Il valore teoretico dell’oblatività nel logos
materno, già nelle pitagoriche, affianca a questa “volontà egocentrica”
d’immortalità l’accettazione d’essere umile zolla che volge dalla terra alla
nostalgia del cielo. Non è amore agapico in senso cristiano, ovviamente, quello
proposto da queste donne filosofe, ma neppure eros egoistico che sceglie il
“meglio per sé”: invita invece ad accettare il figlio dato così come le viene dato
(per espiazione) e così com’è (nel suo essere ‘cenere’).
La drammaticità dell’io dato a se stesso, allontanato come negativo divenne
il negativo entro l’ordine pitagorico degli opposti. Si ritrovò, così, affiancato al
“male” quando era da rinvenire il bene, al “corpo” quando si cercava l’anima,
alla “donna” quando l’eros filosofico si volgeva a blandire l’uomo. Così accanto,
il corpo si fece sempre più prossimo alla donna: perché il valore del grembo è
pure nel corpo che mi fa prossimo. Nel “muto” (ma è ancora un linguaggio)
volgere del filo sulla conocchia, entro la solitudine ed il silenzio delle “stanze del
telaio”, davvero il lavoro di tessitura femminile ha ordito un senso dell’essere che
ravvisa nella morte il compimento positivo del destino umano. Dobbiamo
aggiungere, di un destino assunto a compito dell’esistenza. L’accettazione di sé e
la valorizzazione etica del proprio impegno, che ne deriva, ha l’indubbio merito
di aiutarci a guardare con serietà all’apparente banalità entro cui si dispiega la
profondità del senso del nostro vivere. Parafrasando Nygren possiamo affermare
che quando l’umiltà della terra seppe conquistare, con la disarmante fragilità del
figlio, il mondo delle idee, nella filosofia si affiancò, alla logica del dominio
quella dell’oblazione e della cura materna. La dimensione etica delle pitagoriche,
quale modalità ontologica dell’armonia numerica, inaugurò davvero una filosofia
0
Il pensiero oblativo delle pitagoriche non può rientrare nell’opposizione eros/agape di A.
Nygren (vedi A, NYGREN, Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, tr.
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114 Capitolo VII

dell’ascolto e del dislocamento da sé al centro della persona.


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