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IL CONTROCANTO DI EURIDICE
INDICE
Prefazione
Cap. I – Voce d’ombra
Cap. II - Primo inganno: obliare la nascita acquatica
Cap. III - Parole in cenere
Cap. IV - Calypso, solitudine senza rimpianto
Cap. V - Sfogliare la rosa funerea: sepoltura tra delirio e profezia
Cap. VI - Del ferire
Cap. VII - Mnemosinya nascita acquatica
Bibliografia
PREFAZIONE
VOCE D’OMBRA
A voce bassa lungo le sere d’estate, appena sussurrata nelle albe più
fredde o accompagnata, a volte, dal vento amaro dei ricordi ma raramente dal
rigoglio dell’acqua. Questa danza per te mille notti d’estate si è impigliata tra le
brughiere dei rimpianti. Ciò che tu chiamavi ossessione era piuttosto il mio
ostinato amore per questo nudo lembo di terra, una parola volutamente
inespressa per custodirne in silenzio ogni sua umida zolla, decisa a non tradirla
per il tuo sogno ingombrante di immonda purezza: purezza senza mondo, senza
fango, senza cenere calda in quel tuo freddo Uranio senza stelle. Perché non
volevo rinascere con il ventre serrato: meglio tacere, mi ero detta, meglio
soffocare nel cuore le parole vili. Perché per me era solo paura tutta quella tua
passione per Cielo Stellante.
Scegliere di amare per due è stato devastante. Eppure, piuttosto che
cedere, avevo preferito lasciarti scivolare via in tutta calma, aspettando che mi
abbandonassi a passi lentissimi come il mio lungo inganno su di te. Ma perché
quei passi conservassero la cadenza di una danza, convertendo in sogno questo
inganno che ha ferito entrambi, avevo lasciato troppo a lungo che mi
tamburellassero sul ventre. Avevo ormai chiuso gli occhi quando sei andato via
da me, sepolta da tempo in sprofondamenti di oblio; avrei aspettato l’eterno in
silenzio, lo avevo creduto con tutta me stessa, sarei stata come un’ombra nella
nebbia o un tonfo nel vuoto. Mi riusciva solo di sperare che a tratti la terra
tremasse per tremarvi anch’io dentro; ma questa non si scosse e mai, e mai io.
Tra le mani vuote e quel cielo implodevano parole stordite e il confine era tutto
in quel triste silenzio dell’anima cui vietavo di parlare: volevo essere ombra, il
suo infinito silenzio. Sì, perché credevo che le ombre non avessero voce, e invece
mi sbagliavo; me ne accorsi stravolta di rabbia quando vi riconobbi l’antico
urlo del mio corpo negato, quando ebbi paura di loro e in loro potei infine
riconoscermi. Allora mi spinsi, senza prudenza, nella danza pericolosa dei
rimpianti abbracciandoli tutti quei fantasmi che popolano le infinite brughiere
dei miei sogni, stringendomi a quei rami nodosi che ombreggiano anche i più
soffici prati elisi. Per custodire parole capaci di attraversarti, così mi dicevo,
per oltrepassarti senza ricongiungerti a me ovvero salvandoci entrambi. Dovevo
annegare i tuoi occhi nell’umile pazienza del corpo che si lascia ferire, questo mi
ripetevo, assolutamente incapace di guardarli senza tremare ma sprofondandovi
muta come radice divelta e infine sepolta. Perché è lì che la radice si abbevera si
snoda e rinasce: c’è bisogno di una morte, di una morte almeno per tornare alla
vita, ma il tuo canto era per me il selvaggio che ingiuria, che invidia e che
uccide anche il corpo indifeso di un bambino che gioca tra trottole e specchi,
come il tuo amato Zagreo.
8
Tornava ogni anno l’estate sulla terra e io sempre lì, stordita, quasi
scongiurando che non venisse a svegliarmi; ma quando fa giorno gli spiriti
sprofondano fin sotto le radici, sprofondano sempre e io con loro, ogni anno
meno fedele al silenzio. Sempre meno. Ma sempre più ripensavo ai tuoi occhi
socchiusi, al tuo corpo bianchissimo incurvato sull’acqua mentre ti arrampicavi
sugli scogli affogati nel fiume portandoti dietro quel guscio di tartaruga
intagliato e suonante, la tua splendida inutile cetra. Il tuo canto non lo ricordo,
non ho mai creduto al tuo canto e questa è stata per te la mia colpa più grande;
la mia memoria è soltanto per i tuoi occhi sperduti nel sogno di un viaggio tra i
morti, per quel tuo corpo ferito da troppa luce su acqua stagnante nel fiume di
Stige. Io sulla riva, seguendoti a passi lenti sull'erba ispida profumata di
rosmarino e di mirto che costeggiava quel fragoroso sentiero in cui scivolavi per
poi risalirlo come un grosso pesce stordito. Un corteo di ragni ti saltellava
attorno su esili zampe felici di far danni nel mondo, sobbalzando il corpo del
mondo come se non avesse né peso né gravità perché avido di sottrargli quel
prezioso bottino che è tutto il suo peso. Sembrava che anche tu, anzi proprio tu,
volessi rituffarlo nel fiume appena fossi riuscito a strapparlo col canto,
afferrandolo con dita nodose come fosse una piccola trota lucente che invece
sempre e da sempre ti sgusciava via oltre gli occhi, al di là di ogni tuo altrove.
Io da sempre lontana, né so di quanti passi né se fossi indietro o di qualche
metro più avanti, certamente distante nel corpo e in tutto quel dramma
dell’anima: mi sembrava giocassi, speravo giocassi, con quei vocalizzi volti a
Cielo Stellante e contro il suo forte profumo di Greve. E invece tu, stordito e
diviso in te stesso, scindevi l’ordine del mondo credendo di ricomporlo: ma chi
scinde il cielo lo ferisce e la tua arma suadente, l’ascia sottile del tuo logos
allegorico -così ti ricordano in molti- dopo me ha ferito anche te. Io al calcagno,
perché non potessi più andare, incedere, vivere; tu nell’anima, perché più non
supponessi di poter disporre dei suoi sacri moti che giungono sempre da altrove.
Avevo dolore alle gambe, graffiate dai cespugli di fichi d’india sempre aggirati
dal tuo passo veloce: tu correvi alla fredda sorgente, io lentamente solcavo la riva
per sedurre e incantare il tempo che passa, affinché non passasse. A starti dietro
prendevo storte su storte ansimando a ogni salita, ti salutavo oltre l’argento
degli arbusti legnosi ora impigliandomi tra i cardi a strapparne gialli fiori di
sabbia ora aprendomi a ciottoli lucenti di acqua, quasi mai curva sui tuoi
scheletri di lumache. Ti sorridevo con lo stomaco in subbuglio sotto il caldo
infuocato dei nostri lunghi percorsi, tutta fatica e bellezza; la fatica era nei miei
piedi trascinati dietro ai tuoi schiamazzi canori, gonfi e arrossati come aragoste
agonizzanti mentre ti sventolavo il mazzetto violazzurro di lavanda, infelice di
renderti e di non esserne felice anche io. La bellezza era invece nel trovare un
cucchiaio di fango in cui affondare, poggiare il più saldamente possibile i miei
sandali su umide zolle di terra, finalmente al riparo dai tuoi scogli vischiosi.
Mille volte sarei fuggita da ciò che a te inebriava, consapevole che le nostre
paure si incrociavano solo per allungarsi un po’ oltre, minacciando i confini già
troppo distanti dei nostri corpi, delle nostre estati odorose di menta. Soltanto io
11 Voce d’ombra
Quando Orfeo si volse a guardarla, Euridice vide nel suo volto il segno di
una mancanza di ordine, la “ferita” del dardo di un Apollo oscuro e violento
segno di una dolorosa scissione tra sé e il mondo. L’oscurità era già tutta nel suo
nome -Orphné, tenebra-, presagio che mai lui avrebbe potuto compiere il viaggio
sciamanico che riporta le anime dal regno dei morti. Perché una distanza
incolmabile lo separava da sé, e ‘oltre’ proprio non può andare chi ha l’abisso nel
cuore. Al suo cospetto il regno di Plutone e Persefone erano lidi assolati…
Euridice - Euréia Díke -, lei dall’ampio giudizio, disteso e paziente perché tutto
pensiero di cura- era lì e sapeva.
Non è vero che fosse ancora avvolta nella fitta nebbia degli inferi, che i suoi
occhi fossero ancora appestati di oblio: lei vide, lei e non lui, che la scintilla
divina risplende nell’umile corpo che porta l’anima. E dal suo lamento, il canto
delle donne-pernici ferite da Zeus, la filosofia donna continua a cercare la via per
risalire dalla decostruzione simbolica del dualismo orfico alla luce della terra,
madre dei viventi, mentre Orfeo sarà sbranato dalla vendetta omicida delle donne
di Tracia. Che sono figura di una corporeità negata, obliando l’idea della nascita
già entro il ventre della Musa Calliope, che pure sapeva donare potenza al suo
canto.
Ascoltare la voce del logos per riconsegnarne il suono, la sua flessione
vocalica, restituendo valore alla nascita: è questo il canto iniziatico di Euridice,
lei che fu consegnata alla morte perché la vita non era sembrata tanto cara a chi
pure l’amava. Non fu infatti il morso della vipera ma la parola suadente di Orfeo
a risospingerla negli inferi quando, compiaciuto della propria melodia, decise che
è bene fuggire la nascita dei mortali e si voltò a guardarla. La profonda lezione di
umiltà che è tutta nel riconoscimento dell’essere-corpo è al contrario un logos
teso a sanare tale scissione per riconsegnare l’io al proprio nome, alla parola che
lo esprime. La corporeità riveste infatti il significato euristico di un “pensiero che
si dà pensiero per la vita”, ovvero che intende la temporalità come cura e
attenzione per il vivente che sono, per il prossimo che sempre e da sempre mi è
accanto. Allora anche la modalità cognitiva del soggetto è assunta nella
corporeità esposta, offesa o amata perché preliminarmente coinvolta e
responsabilizzata dall’ascolto in certo senso imposto dalla presenza dell’altro. La
corporeità del logos compie questo passaggio, iniziatico seppure in modo
dissonante, seguendo lo smarrimento di Hermes, dio dei passaggi misterici,
quando nei versi di Rainer Maria Rilke la riaccompagna nella “miniera delle
anime”, lei la “tanto-amata” tradita da “cielo stellato” decaduto a “cielo del
lamento”.0 Tradita da Orfeo, scisso tra corpo e anima e in fondo da sempre già
morto. Ma non fu vano il canto di Euridice: tornata “radice” ebbe più che mai
nostalgia della terra cui si volse per ritradurre l’abbandono in riappropriazione di
sé, la resa in forza, l’oblio in cura. E sulle sponde di Ade, dove la tracotanza
dell’amato l’aveva risospinta, si fermò a pensare finché rabbia e dolore si
ricomposero in suono, nuovo canto, parola orante divenuta atto, corpo.
Corporeità del logos per voce di donna.
Essere “radice”, essere radicati nella verità, è spaesarsi per varcare la soglia
della superficie del mondo senza cadere nel rifiuto orfico del dinamismo
terrestre; è inabissarsi nell’intimità profonda -Euridice la sposa- per risalire alla
gioia di un’integrità ridonata. La dissonanza in Orfeo, questa compagna fedele
che ora precede ora segue, è insieme la vita e il dramma della vita che come
radice acquatica si avvolge e si snoda scorrendo sotterranea. Il suo controcanto
ricongiunge al cielo la terra come l’uomo-albero capovolto con le radici protese
verso l’alto; la sua voce guida il mystes nel suo viaggio sognato a occhi chiusi
fino alla porta di Ade e da qui alla sua sorgente nascosta. La radice, poi, fende la
terra -Euridice ferita ferisce il suo doppio- per nutrirsi di vita attingendo
all’elemento acquatico che è materno e sponsale, involutivo e propulsivo,
simbiotico e asimmetrico. E così la terra ferita, la corporeità negata, si dischiude
lasciando emergere l’acqua, divenendo essa stessa linfa acquatica per la radice
assetata, mutandosi infine in radice che sostiene l’uomo-albero fino alla cima del
suo ramo più alto. Radicarsi non è però cadere nel chaos indistinto degli opposti
ma trasmutarsi in accordo con la polisemia degli elementi, diventare canto, voce
in cui risuona un ordine complesso e segreto. «Ciò che è veramente solido sulla
terra- scrive Gaston Bachelard ne La terra e il riposo- ha come immaginazione
dinamica una radice esistente»;0 come ogni immagine archetipica essa non è
univoca ma complessa quanto i conflitti dell’anima che rivela. E allora il sogno
di scivolare nel profondo, nell’impero dei morti di cui pure è signora la dea-
serpente Ecate o Agriope, ovvero Euridice stessa che ora ferisce al calcagno, si
ribalta nel viaggio ultramondano in cui Orfeo diviene “radice che ama, che nutre
e che canta”0 la memoria dell’amata mai persa. L’ordine si ribalta mantenendosi
in ordine “altro”. Ancora Bachelard, confrontando La Légende des Siècles. Le
Satyre di Victor Hugo con il Dialogue de l’Arbre di Paul Valéry, riporta in nota
che sempre «le immagini fondamentali hanno la tendenza a invertirsi.
All’immagine originaria dell’albero-fiume si può accostare l’immagine del
fiume-albero».0 E così il grido lancinante della mandragora, della radice ferita e
selvaggia che uccide chi ha osato reciderla, diviene l’immagine della pianta-
uomo che germoglia innalzandosi come lo spirito che vive soltanto
accrescendosi. Improvvisamente questo ardore per le profondità, per l’essere che
vive dell’acqua infiltrata, diventa nel segno del poeta un ardore per amare: «il tuo
0
R. M. RILKE, Orfeo. Euridice. Hermes, trad. it. In ID., Poesie I, Einaudi-Gallimard,
Torino 1994, pp. 547-551.
0
G. BACHELARD, La terra e il riposo, trad. it., Red Milano 2006, p. 240.
0
Ivi, p. 249.
0
Ivi, n. 26, p. 262.
17 Primo inganno: obliare la nascita acquatica
albero insidioso, che nell’ombra insinua la sua sostanza viva in mille filamenti e
che attinge il succo della terra addormentata, mi ricorda… - Dillo -. Mi ricorda
l’amore. La pianta, segno importante di un amore impiantato in un essere.
L’amore, fedeltà scrupolosa che sostiene tutte le nostre idee, che assorbe tutte le
nostre ferite, come una pianta viva le cui radici non muoiono […] Questa sintesi
spiega come Valéry possa fare a meno di tutta la vita animale e dire che l’uomo
meditando sull’albero può scoprire di essere una Pianta che ‘pensa’. L’albero non
pensa forse due volte: raccogliendo il bottino delle sue mille radici e
moltiplicando la dialettica dei suoi rami?»0 Orfeo, sradicato alla terra e sospeso in
un sogno acquatico che è già radicamento al cielo, nel suo doppio prima negato e
ora ribaltato chiede e ottiene radici per essere come essere-ancora. Il suo
nascondersi, inabissarsi nel buio di Agriope, è il moto nascosto della sua
scrittura, il suo respiro profondo che si nutre agli inabissamenti dell’anima
sospinta alle pianure celesti, due fonti un bianco cipresso e i guardiani-guida che
ti precedono dall’eterno: scrivere è sognare l’anima, nelle laminette auree di
Orfeo. Chi guarda-guida e sostiene, attende all’esercizio di infinita pazienza della
scrittura nella mano che scorre parole ancora non comprese, nel cuore attento che
ascolta una voce che detta, nel passo veloce del mystes che “quando si appresta a
morire” ha il moto improvviso di un soffio d’ali. Catabasi di una scrittura
infinitamente piccola per entrare nel più recondito atomo di vita della cellula
nascosta nella molecola-radice sottratta allo sguardo; scrittura “veritativa” 0 che
custodisce nel nascondimento (il senso-radice, profondo, di lanthano) il segreto
d’essere scintilla divina. Le laminette aureee: avvolte annodate ‘radicate’ e
riposte sul cuore del mystes nascosto, sepolto con lino bianchissimo, in un
tumulo che disdegnerà sia il planctus sia l’epitafio celebrativo. I suoi caratteri
sono solchi sottili incisi nell’oro splendente dell’astro solare caro ai pitagorici;
graffiti simmetricamente perfetti entro l’ordine infinitamente piccolo e
vertiginosamente espanso dell’esperienza misterica. Il mystes che si ritrae dal
mondo seguendo a occhi chiusi quel poeta-guida che dal mondo si è ritratto, in
realtà lo dischiude in una doppia visione che è più di una visione rovesciata. La
sua scrittura è un geroglifico nel corpo che precede il linguaggio, che disegna e
designa questo viaggio-ritorno dalla materia; il suo essere viatico tra frontiera-
discesa-ascesa ha quella “condensazione” che per Hélène Cixous ci riporta «alla
rapidità dei sogni. Il tempo non tiene il passo e indica l’attraversamento. È un
tempo che non preserva la nostra logica ordinaria» 0. Il tempo di Orfeo è
contratto, ha l’incedere veloce del piede del mystes che si accinge si affretta a
tramutarsi in soffio d’ali, in cigno al cospetto di Apollo nel tramonto di Socrate;
il tempo di Euridice è invece disteso, seduttivo e lento come il canto delle pernici
punite da Zeus, rispetto a lui dissonanti. La scrittura di Euridice ha il senso
profondo del tatto, delle dita nodose che affondano nella materia, loro stesse
materia, per plasmare parole che riconsegnano una gioia difficile, scomodamente
0
Ivi, p. 252.
0
Cfr. la nuova prospettiva ermeneutica di Gaspare Mura
0
H. CIXOUS, p. 154.
18 Capitolo II
kosmos, ovvero l’abitabilità della terra fruita nella sua bellezza. Su quelle sponde
Euridice canta il suo canto più bello: la fondazione simbolica del mondo entro il
limite, condizione di possibilità, della situazione solitaria del vivente; la libertà
nel tempo della malattia e la cura di sé nella responsabilità per il tempo futuro. E
il suo canto è logos e preghiera, parola orante non “obliquamente” divina.
Eppure il suo è anche un logos selvaggio. Prima di Virgilio0 e di Ovidio0 lei
è infatti la senza-nome ingenerata per colpa orfica: è Agriope0 dalla voce o
sguardo selvaggio, la ninfa tracia che vive nei campi non addomesticata perché
nessuna domus le è data sulla terra, e dal suolo inospitale si erge soltanto una
vipera per ferirle il calcagno, l’incedere, il vivere. È selvaggia perché ha la furia
di Eros contro chi le userebbe violenza (Aristeo) ma a favore di chi amerebbe e
ama oltre questa stessa vita; è sorella di Alcesti, qui distante da Orfeo. È la
“feroce guardiana” di quella terra riarsa che è lo stesso corpo di Orfeo sottratto al
suo abbraccio, straziata dal desiderio di abitare questo corpo cui è negato
l’amore, fino alla scelta ultima di arrendersi allo sradicamento di Ade per
intonare da qui il suo inno alla vita. sulle sue sponde di nebbia, risospinta al
niente che è per occhi di uomo, questo canto è torsione verso una terra natia che
punisce e non ospita la sua differenza: «Tutto il tempo in cui ho vissuto in
Algeria ho sognato di giungere un giorno in Algeria». 0 È il grido tradotto in
scrittura di Hélène Cixous quando in piena notte -nel buio di Orfeo cui pure
vorrebbe tornare ad amare, nel buio di Ade in cui il corpo-nemico ha sospinto lei,
non-amata, quando appunto in piena notte la scrittura si espande nel tempo
disteso della sua gestazione. Allora il canto notturno diviene una “precipitazione
di frasi” donate dalle Muse che concedono memoria e oblio, parole che in questo
viaggio iniziatico a ritroso da Orfeo hanno il potere di risuscitare chi hai amato e
perduto perché «credi che non ci sia niente nelle macerie, figurati! Guarda giù
dalla ringhiera delle scale, chi vedi?».0 Chi vedi? la terra natia che serra il tuo
seno, l’Algeria mai avuta e mai ritrovata nella Francia sorella e distante, Clos-
Salembier sepolto nel grembo di Aïcha che è pane e torta e frutta e pozzo e
ombra e riposo ma non per te, te bambina te donna selvaggia ferita a morte come
il cane a vita ingabbiato, mai amato, il tuo Fips.
Ho la sua anima sotto il cranio, ho i suoi denti e la sua rabbia impressi sui miei piedi e le
mie mani, ho il Cane, tutto il Cane, dalle origini fino alle sue conseguenze, inciso nella
membrana della mia memoria. Ho il Cane per Maestro e abbandono, per guida per essere vitale
per essere mortale e per essere tradito. La mia anima il Cane. La mia trasfigurazione selvaggia. 0
0
PLATONE, Filebo, 51 a, 52 c.
0
G. BACHELARD, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita, trad. it., Red,
Milano 2006, pp. 13 e 24.
21 Primo inganno: obliare la nascita acquatica
loro stretto rapporto con Chimera, l’inganno della seducente memoria poetica.
E così.
Il paradigma della corporeità restituisce al logos il respiro e la voce entro un
ascolto che è accoglienza di sé e dell’altro, luogo e dimora della verità dove ciò
che si svela - si ascolta - responsabilizza all’agire morale. La verità che risuona
nel suono vocalico riposa in questa offerta di sé che è offerta a sé del dono del
logos, libero atto che presuppone l’essere-corpo della persona. Perché la voce si
predisponga a essere tempio che accoglie e custodisce la parola, infatti, è
necessario superare l’antico dualismo orfico per approdare alla dimensione
incarnata del linguaggio. E dunque la corporeità rinvia a un sapere-sentire che
per Francesca Brezzi0 è un sapere simbolico che non inerisce soltanto
all’esperienza religiosa e mistica femminile, piuttosto fonda un diverso approccio
speculativo entro e contro la tradizione filosofica fondata su una ragione logica e
formale. Dunque volgiamoci a Delfi, il delta di ogni dissonanza filosofica; uno
sguardo solo da lontano, per il momento, ma né obliquo né oscuro per recuperare
una pagina perduta di memoria. La trasformazione del concetto di verità, infatti,
nel passaggio dalla mantica al logos è già nella corporeità della Melanippe di
Euripide. Nell’invasamento profetico, Melanippe è figlia di profetessa, non vi è
alcun dinamismo erotico della filosofia ma l’atto con cui la Pizia, nel corpo
offerto alla divinità e agli uomini quale ponte tra cielo e terra, accoglie la verità
intesa come dono. «Non al Dio appartengono infatti la voce, la pronuncia, lo stile
e il metro, bensì alla donna»,0 scrive Plutarco, perché il corpo femminile,
nell’unione mistica e verginale con la fonte della sapienza, si offre soltanto come
vaso o scrigno della verità. Nel prestare il proprio corpo alla divinità, infatti,
ovvero nel donarsi come suono vocalico perché sia ascoltata la “parola” - fino
all’invasamento di Cassandra nell’Ifigenia in Aulide o alle metamorfosi delle
Baccanti - la donna non avrebbe alcun merito nel processo di conoscenza. Donna
= vaso vuoto; ma questa non è una novità, neanche ai tempi di Plutarco.
Eppure.
Eppure nella corporeità del logos questo accade soltanto perché la verità
non è il risultato di un processo ma la gratuità di un dono. Il carattere concreto
della filosofia femminile, con la sua costante attenzione alle sollecitudini
esistenziali, trova il suo paradigma euristico nel corpo quale luogo - cosmo terra
0
Vedi soprattutto il testo di F. BREZZI, La passione di pensare. Angela da Foligno,
Maddalena de’ Pazzi, Jeanne Guyon, Carocci, Roma 1998 e i suoi saggi: Il Dio Padre delle
donne, in Il fenomeno religioso, G. MURA – R. CIPRIANI (edd.), Urbaniana University Press.,
Roma 2002, pp. 385-399; Donne e religione: sfida e inquietudine. Nel potere della sapienza:
spiritualità femministe in lotta, in Spostando mattoni a mani nude, F. BREZZI – G. PROVIDENTI
(edd.), Franco Angeli, Roma 2003, pp. 63-79; Corpo, donne, religione: un terreno da esplorare,
una matassa da dipanare, in Corpo e religione, G. MURA – R. CIPRIANI (edd.), Città Nuova,
Roma 2009, pp. 339-351.
0
PLUTARCO, De Pythiae oraculis, trad. it. in ID., Dialoghi delfici, Adelphi, Milano 1983, p.
171.
24 Capitolo II
radice - da cui nascere e in cui essere. Nell’offerta della voce quale luogo da
abitare, nel corpo della profetessa al centro del tempio dentro il cuore del mondo,
è in atto un dinamismo o nomadismo verso l’uscita da sé per incontrare l’alterità
dispensatrice di senso. Perché chi abita il proprio corpo non è recluso in alcun
luogo.
In Euripide è proprio Melanippe, una donna, a segnare il passaggio dalla
custodia materna del sapere divino alla ricerca filosofica della verità, seppure
appaia ai più come figura irreale e smarrita proprio come il suo dramma. In
Melanippe he sophe l’eroina volontariamente mette a repentaglio la propria vita
per salvare i figli; in Melanippe he desmotis è invece liberata dalla violenza
paterna grazie al loro amore filiale. Entro lo svolgimento di un dramma perduto
[Nauck, 1889] questa maternità che salva è infine ritradotta in una nuova
Melanippe0prima filosofa, volta a cercare nella cosmologia il principio che è
ordine e dunque senso dell’essere. Ispirandosi ad Anassagora la ritroviamo
intenta a spiegare le differenze tra i vari libelli di esistenza, dall’unicità del
cosmo alla formazione della specie vegetale, animale e infine umana. Dal primo
al secondo dramma il binomio maternità-filosofia si snoda come un pensiero di
cura procedente dall’autorevolezza dell’ordine femminile. Se infatti Melanippe
come madre salva ed è salvata dai figli così pure come filosofa salva la sapienza
oracolare materna volgendola in un sapere che si dà pensiero per la vita. La fonte
Castalia, proprietà purificatrice e mantica dell’acqua - elemento femminino e
materno - continuerà a scorrere nel sottosuolo di Delfi, ai piedi di Apollo Pitio,
quale linfa vitale o latte materno di un pensiero nuovo che avrà nome Filosofia.
Un logos che da subito porterà ferita e subirà la ferita di questo oblio: la nascita e
la maternità mortale, il doppio oscuro che ci in-abita l’anima portata dal corpo,
questo sapiente umile “vaso vuoto” che trabocca di tragica umanità.
Melanippe è allora figura del processo di trasformazione da una concezione
della verità intesa come dono -implicante un luogo o corpo per essere accolto - a
quella propriamente logocentrica che obliando il corpo smarrisce ogni dimora.
Una parola che ormai è divenuta il canto solitario di Orfeo, cieco di fronte a
Euridice e alla scissione di cui è corpo e figura, confondendo l’amore per la
scintilla divina che inabita l’uomo con il rifiuto del mondo o rimozione dell’idea
della nascita. Ma senza la cura per la vita non c’è culto neppure per i morti e
infatti «Senza accostarmi all’urna dei morti/mi guardo dal mangiare/cibi in cui
c’è stata vita»,0 da cui il controcanto di Bacca: «Non sai che farti della morte
Orfeo, e il tuo pensiero è solo morte».0 In una minuta, la prima stesura di Uomini
e dèi poi confluita in Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese fa luce su questo
ostinato e doloroso rifiuto della nascita, del sesso e del sangue: «Ti ripeto che ho
fatto apposta a voltarmi. Ne avevo abbastanza di questi pensieri. E dì pure a
quelle altre che mi vengono dietro che, se potessi voltandomi cacciare anche loro
0
Vedi A. NAUCK, tragico rum Graecorum fragmenta, Lipsia 1882.
0
EURIPIDE, Cretesi, fr. 3.
0
C. PAVESE, L’Inconsolabile, in ID., Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1999, p. 79.
25 Primo inganno: obliare la nascita acquatica
La sua prima morte, il morso viperino, non era stato altrettanto dolorosa
perché in fondo l’aveva riconsegnata a se stessa, al proprio destino mortale. Al
contrario il canto autoreferenziale di Orfeo dimentico di sé, di Musa e quindi di
madre, di chi hai amato - il tuo doppio: l’anima? il corpo? il femminino
acquatico? - era una lacerazione senza possibilità di cordoglio. Dimentico di
Calliope e deprivato del suo potere poetico Orfeo sostava muto sulle sponde di
Ade: al cospetto di vita, tra le sponde di morte, era la vittima non innocente di un
autoinganno, era di nuovo Zagreo sbranato dai Titani mentre giocava fragilmente
solo, colpevolmente solo, con il mondo riflesso in uno specchio.
La predilezione di Bufalino per la figura retorica dell’ossimoro, per lui che
già nell’ossimorico canto de L’amaro miele scriveva «Io non so nulla di più,/ho il
male della luna,/e non m’aiuta nessuno»,0 è lo sforzo di aderire alla “difficile
gioia” della ricomposizione dialettica tra luce e ombra, vita e morte. Questa
Euridice dolorosa e sapiente che rivive nel suo ludico esercizio di scrittura tragica
0
Ivi, cfr. nota L’Inconsolabile (30 marzo-3 aprile 1946), p. 181.
0
G. BUFALINO, Il ritorno di Euridice, in Opere 1981-1988, Milano 1992.
0
Ivi, pp. 128-129.
0
Ivi, p. 761.
26 Capitolo II
avendo trovato tutto quanto mutato e in possesso di un altro, giunse di nuovo in città, nella
massima incertezza. E lì, entrando a casa sua, si imbattè in persone che gli domandavano chi
fosse, finché, trovato il suo fratello più giovane, che allora era ormai vecchio, apprese da lui
tutta la verità. Una volta riconosciuto, poi, fu considerato dai Greci sommamente caro agli dèi. 0
E dunque.
Seppure i morti non ascoltino più alcun suono né ritrovino nella voce la
presenza di chi pure è accanto, o anche solo lontano, obliandone presenza e
memoria… seppure l’orfismo conosca solo lo sguardo e gli occhi dei morti siano
chiusi… seppure. Gli occhi degli iniziati discernono il passato, l’archè,
nell’invisibile Ade (id, radice presente e negata in Aides) perché da sempre volti-
all’indietro, come lo sguardo di Orfeo su Euridice dopo averla incontrata nel
fango gremito di ombre. Come Epimenide che vaticinava sugli oscuri eventi
passati dopo avere vissuto molti anni come morto, sepolto nella grotta di Zeus
Ditteo dormendo un lungo e iniziatico sonno o tagliando “radici” di cipolla e
asfodelo (la pianta collegata alla morte), equivalenti nella funzione purificatrice 0.
La vita sradicata nella morte iniziatica lo aveva reso caro agli dèi,
sapiente nelle cose divine e nella scienza relativa alle ispirazioni e alle iniziazioni
misteriche […] rese gli Ateniesi ben disposti ai riti sacri e più moderati nel lutto, unendo da
subito determinate offerte sacrificali con le cerimonie funebri, ed eliminando la durezza e il
carattere barbaro che era prima tipico nella maggioranza delle donne. 0
compiuto. Perché lei gli vive nel corpo che fa ombra, donando frescura e riposo,
alla sua anima stanca.
Ma volgersi-indietro è carpire l’odore, il profumo di Greve in Cielo
Stellante.
Solo i morti non ascoltano più alcun suono, né ritrovano nella voce la
presenza di chi è pure è stato accanto, o anche solo lontano, obliando la presenza
e la sua memoria: l’orfismo conosce solo lo sguardo e gli occhi dei morti sono
chiusi. Eppure.
La donna sepolta alla vita, nella necropoli di Hipponion, di Euridice che
pure è sorella non sente neanche il profumo delle rose (rhòdos da rteumates
odòdes) sfogliate sul corpo - ogni corpo - che discende nell’Ade. Perché il
profumo è il soffio di Afrodite, della vita che seduce e che piange con fiumi di
lacrime (la memoria acquatica) e di sangue (purpurea: il colore cangiante della
sola luce che è vita fluente) la ferita della morte. La dottrina orfica del vivere-
ricordando per anelare alla morte e dimenticando-la-nascita per fuggire alla vita,
al contrario, è metamorfizzarsi nel fiore rosso di Adone che, figura della vita
ferita dall’inconcludenza, mai fruttificherà come il melograno né profumerà
come la rosa cui pure somiglia. Sfogliare la rosa funerea è invece sfogliarsi nel
pianto che accompagna ogni sepoltura; è riconsegnare a questo fiore del sepolcro
la dignità della vita piangendo la morte; è infine ritrovare nel thrènos di Euridice
la cura per la ferita nel logos.
Quando Socrate si apprestava a morire, nel suo “complesso di purezza del
cigno” al cospetto di Apollo, la pizia che gli aveva indicato il destino non gli era
distante e al suo cospetto e dispetto tremava. Pregava, piangeva lei che gli aveva
ceduto la divina follia in quella religiosa maieutica trafitta da Apollo, morendo a
se stessa , il suo daimon oscuro e materno. Piangeva lei che ben conosceva il
morire perché il passaggio, o travaglio di parto, da aletheia come dono divino
accolto nel grembo alla sua laicizzazione nel logos era stata per lei una ferita
mortale. E lei, la profetessa, lo piangeva nella carne febbricitante della mistica
possessione, l’unica forma che potesse conoscere, accettando nel cordoglio di
questo pianto antico l’ananke di dover morire per generare il “nuovo”, quel figlio
che ora voleva librarsi nell’aria come un cigno mai nato. A quel figlio, a quel
nuovo che puro e distante anelava al morire, offriva nel silenzio un rametto di
mirto; e a lui chiedeva invano una rosa sfogliata per la propria morte, avvenuta di
parto come nell’antica forma del morire delle donne. Una rosa disattesa, questo
fiore che anela alla perfezione del cerchio senza mai iscriversi in esso e che pure
contiene la figura del cerchio in una maternità cangiante, purpurea, imperfetta
perché “profumo” – rhòdos - di una maternità mortale.
Non dovrebbe esserci sepolcro per Euridice né sepoltura né thrènos per
Orfeo che li disdegna nel gioco ingannevole della lira; eppure, sgraziato come
deve essere un planctus, il rimpianto di non avere vissuto lacera per voce di
31 Primo inganno: obliare la nascita acquatica
divenire nacque nel Cimitero degli Innocenti e, ormai carnefice Bacco, sbranato
da uomini vi fece ritorno.
La calura pesava come piombo sul cimitero e spingeva i miasmi della putrefazione, un
misto di meloni marci e di corno bruciato, nei vicoli circostanti. La madre di Grenouille, quando
le presero le doglie, si trovava all’esterno di un bugigattolo di pescivendolo in Rue aux Fers e
stava squamando dei pesci bianchi che aveva appena sventrato. I pesci, pescati presumibilmente
nella Senna la mattina stessa, puzzavano già tanto che il loro odore copriva l’odore dei cadaveri
[…] E quando cominciarono le doglie, si accucciò sotto il banco da macello e partorì là, come
le quattro volte precedenti, e con il coltello da pescivendolo troncò il cordone ombelicale alla
cosa appena nata. Ma subito dopo, a causa della calura e del puzzo […] perse i sensi, si rovesciò
su un fianco, scivolò da sotto il banco in mezzo alla strada e là giacque, con il coltello in mano. 0
È questa la nascita: una “cosa” accanto al cimitero dissepolto, nel fetore che
si riversa sul corpo e nel sangue malato di una donna che non vuole mettere al
mondo quell’ennesimo figlio che, lei pensa, come gli altri non le potrà
sopravvivere. Ma per chi nasce da morte, da colpa titanica e non da umile corpo
di sangue sano e odoroso di vita, alla morte ritorna dopo un travaglio molto più
lungo, estenuante e stordente come l’odore pesante e dolciastro di gelsomini già
marci. È struggente il destino di chi invano anela ad essere chi mai fu: Jean-
Baptiste Grenouille non ha un corpo pur desiderandolo con la ferocia dei
disperati; Orfeo ferisce il corpo a morte desiderando essere un anemone inodore.
Chi tra i due fu sbranato per primo lo sanno gli dèi.
3
5
0
Ivi, pp. 10-11.
CAPITOLO III
PAROLE IN CENERE
dal suo amore disincarnato eppure a suo modo straziante, perché anche
Euridice è il doppio femminile di Orfeo sepolto in un tumulo come la
donna a Hipponion per tornare figlia di Cielo stellante. A noi umani si
apre un abisso in questo non detto e non ricordato, l’abisso di poter abitare
soltanto o sprofondati sotto la terra o innalzati vertiginosamente al di
sopra, responsabili solo rispetto al ‘dopo’ fondato dal mito che per noi è
l’inizio della temporalità: vivere in modo conforme ai decreti divini. Ma
vivere ‘dove’?
L’abisso della ferita tra cielo e terra ci sottrae a ogni luogo-dimora
in cui davvero poter abitare; persino Demetra diventa insidiosa nella
dirompente bellezza della natura quando lei, la dea, profuma di fiori e di
frutti nel sole di maggio. Una vertigine che diviene anche trascendenza in
questa polarità che disdegna la nascita quando la mano, ora sì, a suo modo
pietosa e amorevole di Orfeo, ci dischiude questa vita come viaggio
iniziatico verso una vita che più non conosca dolore. Quando ci ricorda
nel canto pietoso che per noi essere è tutto un andare oltre se stessi -ma al
di qua di hybris-, un andare soave come la “sacra via” che è dimora
proprio nel non esserlo, lontana dai Campi eleusini, dal soggiorno beato e
persino dallo stato divino cui non è detto che mai approderemo. Ma questa
è davvero una pietas tutta greca dove l’amore e il rispetto per gli dèi
chiede il sangue -che è la vita- degli uomini non a caso detti mortali (ma
non è disdicevole per gli dèi abbeverarsi di sangue sacrificale come
fossero anche loro anime riarse, abbandonate nell’Ade?). Non può esserci
alcuna interpretazione sentimentale del mito del cantore tracio che non
riuscì a non guardare il volto amato della sua sposa: Orfeo è solo, Euridice
è sola, la coppia è scissa perché è distrutta la polarità Orfeo-Euridice che
oltrepassa ogni definizione di maschile/femminile. Orfeo è stanco perché
immane è lo sforzo per abitare il cielo senza poterlo mai abitare davvero;
il suo canto ferito, che ancor più lo ferisce, non riconosce neanche un
minimo valore a quel corpo -ovvero non lo fruisce- che pure lo aiuta ad
andare. Quel corpo-Euridice che non ha colpa e che mai è appartenuto alla
terra (siamo cenere, non zolle umide di vita) e che pure si offre, si lascia
immolare per indicargli una via che infine lo annulla, lo solca senza
seminarlo. Con Orfeo il logos è solo, vede e pensa (eidolos ed eidolon0) al
suo doppio senza incontrarlo davvero, senza mai ricongiungersi a esso, a
se stesso: Orfeo esce da Ade stravolto e infine sbranato come Dioniso ma
senza aver riportato, al contrario di Dioniso, l’amata Semele; Euridice è
risospinta giù in basso, corpo abbandonato e mai sepolto. Da questo
sepolcro vivente che è il corpo si spalanca l’urlo -il controcanto
dell’anima di Orfeo- per una ferita mortale che porta il segno di Apollo
l’oscuro, che come all’inizio dell’Iliade colpisce da lontano trafiggendo
nel profondo. Ma trafigge chi? un soffio di bianca cenere, esiguo come il
0
Cfr. Cassirer.
38 Capitolo IV
filum delle Parche, come le corde della lira di Orfeo, come il tessuto del
controcanto di Euridice che è filus e filum di un incenso votivo, umile
offerta di sé nella forza della resa che solo il corpo conosce. Perché questo
fragile corpo di cenere non svilisce ma è il sacro mistero della vita, è
l’omphalos di Delfi o bianco simulacro della dea Madre che alimentava il
focolare nel grembo oscuro di una grotta, un pugno di cenere sulla brace
per custodirne in eterno il fuoco. Poi sarà il tumulo della bambola del
grano che risorge a ogni primavera, o il letto di bianco quarzo o conchiglie
marine sulle tombe dei re: il nostro primo mistero è la vita che precede la
nascita; la nostra prima paura è la necessità della morte per ri-nascere a
quella vita che precede ogni vita; la nostra morte senza riscatto violare -
profanare- questo mistero.
Nati da cenere la prima parola è morte, lamento per i defunti che
saranno cremati e in cenere dovranno tornare per avere un pugno di sabbia
da abitare nell’Ade; il primo canto è un ghigno alla terra che ciclicamente
torna a fiorire per indicare, istruire e guidare il viaggio oltremondano a chi
un mondo non lo ha mai ricevuto, mai abitato. Per questo nelle sue ceneri
non c’è il cuore di un dio, di quel dio bambino che giocava tra trottola e
palla fruendo del mondo riflesso nel suo specchio: quale dio che ha un
cuore ci avrebbe altrimenti donato una terra inospitale, un corpo
inospitale? Zeus è il Fuoco che incenerisce e portando la morte solleva dal
peso mortifero della vita consumata tra mille dolori; Orfeo è il profeta
apollineo che sale sul monte, mentre le Baccanti -sacerdotesse della luna-
scendono a valle, per essere il primo ad adorare quel sole quando all’alba
sorge all’orizzonte. “Orfeo dal nome famoso”, il suo primo epiteto per
voce del poeta Ibico del VI secolo a.C., trasforma il culto lunare di Bacco
orgiastico dell’antica Tracia (IX e VIII sec. a.C.) in quello misterico di
Dioniso celeste, consacrando infine la Tracia a Zeus e Delphi ad Apollo 0.
Il fuoco elemento fondamentale nella dottrina misterica pitagorica e nella
‘seconda navigazione’ di Platone, su cui tornerò, è la saetta che ferisce
Orfeo scindendolo in un doppio irretito nell’Ade. Ma davvero il poeta
tracio non imparò nulla da quel viaggio soltanto perché lui era guida della
mystes Euridice? O non fu piuttosto perché mai comprese -e come avrebbe
potuto, in sé dilaniato da un dio assetato di sangue?- che
l’autoconsapevolezza di un’origine urania è poca cosa al cospetto di
amore? La tensione intellettuale verso la liberazione dalla nascita è infatti
mossa da un amore che disdegna la relazione, quella presenza che fu
invece cara ai sapienti, sprofondandola nell’Ade come funereo incontro tra
corpi già morti in eterno assetati di vita, di sangue, di memoria di sé
ovvero di chi hai amato, odiato, generato o tradito. Perché è questo che
dimenticano i morti: di essere figli e di avere avuto dei figli, ovvero di
essere nati da grembo materno e non da punizione per una colpa non
nostra. Strano paradosso per cui siamo responsabili di una ‘temporalità’
0
Vedi RAPHAEL, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśram Vidyā, Roma 1985, pp. 34-35.
39 Parole in cenere
che non possiede un inizio (del figlio Zagreo non ricevemmo il cuore e dei
Titani solo il corpo cremato, quando ormai l’anima fu libera di volarsene
via); ma è anche questa la ferita del logos: non credere che non siamo
ingenerati eppure portare il peso di una temporalità che non si dispiega
come tempo -materno- di cura ma di fuga da sé. Portiamo i solchi di
questa fuga come Euridice quello del morso della vipera che interruppe il
suo incedere, il suo andare, il suo vivere nel tempo e nel mondo. Orfeo
che risospinge Euridice lontano da sé la sprofonda nell’abisso -rimuove
nel profondo dell’inconscio- l’idea della nascita e della maternità mortale,
perché nessun figlio sopravvive ontologicamente alla madre, neppure nel
canto dei poeti che amavano gli eroi e non gli uomini. Ma la nuda verità
che riposa sepolta nel sangue e nel latte, senza più tornarvi, non chiede
alle Muse la memoria dei posteri.
Eppure.
Eppure è proprio dai poeti, dal loro inabissamento nel fango di Ade,
che si svela a noi la terribile verità che il mistero più profondo e oscuro
che ci uccide è lo stesso che ci ama e che solo per questo ci uccide perché,
con le parole di Cixous, «la sola persona che può ucciderci è chiaramente
la persona che ci ama e che noi amiamo 0.» La sua scala della scrittura -
come voce di Orfeo incisa su lamina d’oro- è “scienza di addii e di
ritrovamenti” che ‘ascende’ verso il basso, verso ciò che è più profondo,
con sforzo e dolore. «Quando saliamo verso il fondo, procediamo portati
nella direzione di – cerchiamo qualcosa: lo sconosciuto…0»; Orfeo padre
dei misteri escatologici si inabissa verso la sconosciuta Aletheia che a sé
con forza lo chiama, in quella profondità in cui la verità è com-presa
(lantháno come ‘custodire’) nell’interiorità e ri-compresa nel ricordo
senza rimpianto, ovvero senza rifiuto né possesso dell’altro (lantháno
come ‘non custodire il ricordo’). Nel controcanto di Euridice, il doppio
oscuro di Orfeo e insieme il suo inno più bello alla vita, Aletheia non
rinvia tanto al dis-velamento (la trappola di Heidegger del doppio-
velamento) quanto, piuttosto, a quel significato riposto nel verbo greco
lanthano e nel latino lateo di ‘rifugio’ e ‘custodia’ nell’intimità del cuore.
Un cuore umano, perché da cenere titanica e da corpo divino nel mito
orfico Zagreo non ci fu dato ricevere un cuore.
La verità sarà allora il dono conservato in un corpo-scrigno nella cui
gestazione materna la tradizione misterica si incontra con il dono biblico
di cuore di carne per la nuova creatura e allora, da Orfeo/Euridice, questo
controcanto risuonerà a lungo nella cultura cristiana. Quando infine
riconosceremo un cuore nel cui nascondimento, e non velamento, Aletheia
è il ri-conoscimento (umano e divino) della sacralità e duplice vocazione
0
H. CIXOUS, op. cit., , p. 80.
0
Ivi, p. 31.
40 Capitolo IV
0
Ivi, p.69.
0
Ivi, p. 109.
42 Capitolo IV
ama. Omero ha scritto di te, del tuo stravolgimento, perché ad ascoltare la voce
di Atena ti sei perso nel canto - oh, ma questo ti è ignoto! - delle sirene suadenti,
le cui parole ascoltasti più del silenzio accogliente di Ogigia. Eppure solo io
avrei per te intessuto con dita gentili un destino di fili di seta, di sangue e di
carne sopra le aride ossa, perché tu “fossi” e non, come uomo morto, “fossi
ricordato” da chi pure si accinge a morire. I mortali, loro, tu non li hai mai
amati, rifiutandone il destino e per due volte rinnegandone il tuo. Atena la
guerriera, la forza cruenta della polis e il regno della sua illusoria ed eterna
gloria, ha forgiato per te con scudo e con lancia il falso racconto di un virtuoso
errare alla ricerca di sé. Lo ha scritto con inchiostro di sangue nel sogno di un
cieco poeta mai nato e dunque non vivo, non vero. Perché la verità nasce solo
dal ventre che la cerca patendo - passione d’amore - la forma.
Eppure noi, che ci amavamo piangendo distanti lontane illusioni
naufragate nel mare, noi davvero eravamo il cipresso e il fuoco e le viole e la
salvia del recinto sacro di Ogigia, dimora calda di amplessi in un pugno di
sabbia di verità. Da questa sei fuggito, ingannato dalla solita invidia degli dèi, e
tale prezzo tu paghi ampiamente: anche per questo ti piango, proprio te, che di
me non conservi rimpianto. Tu che cadesti nell’oblio portandoti altrove, da me
che già ero il tuo altrove, per ricongiungerti all’illusione del possesso di te in
quelle stanche stanze di Itaca… mai più un sussurro gentile per me, mai più un
ricordo d’amore per me. Narrerai invece di Nausicaa, la donna infantile che a te
somigliava nel credere che l’amore fosse solo l’ombra di un sogno, mentre io, la
passione, ero la sfida ad amare perdendo l’ira violenta del metron di Apollo che
vuole mettere leggi all’amore - si può sopravvivere alla passione? - , il dio
funesto che violentò l’antro di noi ninfe, mentre io, la passione, cantavo la
dissonanza di due voci che si snodano accanto senza mai fondersi in una. Ma io,
la passione, sono anche la forza che agita il vento che sconquassa il mare e poi
infine lo calma nel sonno, perché tu prenda il largo più al largo di me quando
infine ti vedo, in ginocchio sullo specchio fangoso del mondo, ricurvo sullo
stagno melmoso delle tue antiche paure. Quando ti vedo stravolto dall’ira
reclamare da me ciò che gli dèi con l’inganno ti resero amabile, più amabile di
noi, del nostro sacro gioire dei nostri respiri, reclamando l’onore e la gloria di
uomini stanchi che mai ti ameranno. Tu, illusione di uomo, tu non fosti che
questo. Io, la passione, piango il dolore che ti macera il corpo strappato al tuo
cielo che in eterno sarà senza stelle, ormai oscuro e opaco come la fredda
nebbia di Ade.
Perché tu che non mi piangi, poiché non mi piangi, tu porti nascosto nella
carne lo strazio cieco e assordante di un ripianto: Calypso, la tua occasione
perduta.
Per sempre mai più.
49 Calypso, solitudine senza rimpianto
Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché
ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali. […]
La morte (o la sua illusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono
per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può esser l’ultimo; non
c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d’un sogno. Tutto, tra i
mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gl’Immortali, invece, ogni
atto (e ogni pensiero) è l’eco d’altri che nel passato lo precedettero, senza principio
visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine.
Non c’è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi. Nulla può accadere
una sola volta, nulla è preziosamente precario. 0
fino a naufragare nel livido sudario del mare quando la previdente Penelope,
“creata a sua misura”, gli avrà certo fatto dono di un’altra tela-sudario, forse la
stessa del padre Laerte, che nel sistema logocentrico maschile sembra qui
funzionare come un dislocamento noiosamente tautologico. Come dire, l’eroe
non sopravvive mai alla passione della morte. Ma, di nuovo, si può sopravvivere
alla passione d’amore?
Calypso è la “parola” evocatrice della condizione di tale possibilità poiché
patire l’eros è come vivere posseduti, cioè amati, da un semidio. Ovvero da chi
sente - patisce il pensiero - come gli uomini - suscitandolo e subendolo oltre ogni
misura e ogni previsione - a distanza da quell’invidia che è struggimento per il
non possesso, o violenza, ira e stupro che abitano l’Olimpo, la polis degli dèi
creata a somiglianza degli uomini. L’amore di Calypso ritorna nell’operazione
narrativa delle Preziose che “impreziosisce” ciò che è narrato donando a Eros un
luogo al non luogo nell’u-topia di Ogigia, ovvero accogliendolo in una sorta di
“paese della scrittura”. Pure sembrando vivere distante dalla filosofia e dalla
polis questo, al contrario, è un processo fortemente dislocato che si offre come
ordine culturale e dunque politico alternativo alla correzione di un ordine politico
fondato sulla violenza autoreferenziale di Creonte. Un ordine diverso che di
uguale ha solo l’entità della sua forza. L’amore suscitato da Caliypso è infatti un
desiderio folle che spaventa persino l’uomo folle di ira, l’Odìsseo che, alla
continua ricerca del potere, non sa amarla senza disconoscerne l’individualità e
solo abbandonandola la libera dalla prigionia di se stesso. Come un atollo
nascosto nel mare lui, nascosto a se stesso, le vive accanto per anni come fosse lo
sposo condividendone il focolare domestico - quello maestoso nella descrizione
omerica che lo ha accolto sin dall’inizio - e la responsabilità di essere padre. Ma
dal ruolo di sposo e di padre Odìsseo fugge, e nessuno mai condannerà un uomo
che non si riconosce tale nel ruolo sponsale e genitoriale, anzi, proprio da questa
fuga alienante procederà il ricordo eroico della sua virtù. Ma lui era nascosto
nell’ira del suo nome, nascosto a se stesso, dimentico di sé: i poeti hanno
ricordato di lui tutto fuorché l’oblio capovolto di un viaggio orfico che non porta
a nessun dove, poiché dimentico di sé e chiuso all’amore.
È questa la ferita tra sapienza e filosofia, nella dissonanza o contro-canto di
Mnemosine che non è più soltanto: “Mi ricordo di me”, della mia origine divina,
ma anche di te che mi sei accanto, della tua trascendenza, al cui cospetto si
inaugurò l’originaria dialettica del logos. Ecco allora il canto di Calypso che
ricorda senza rimpianto l’amore donato e mai ricevuto: “Mi ricordo di te”. Ferita
che per altri versi e in altro senso Giorgio Colli delinea come un movimento, tra
sapienza e filosofia, non continuo né omogeneo - e né potrebbe esserci,
aggiungiamo noi, poiché la ferita per i Greci doveva essere tagliente, immediata,
mortale. Lancinante, come quello degli opliti spartiati e delle donne che generano
i figli con dolori lancinanti di parto. Non c’è posto per quel soffrire lento e muto
della malattia, della ferita che non esalta perché non uccide: la malattia, la fragile
caducità dell’essere uomini di cui è cifra il figlio. L’unico veramente “assente” a
52 Capitolo IV
0
ALCMANE, fr. 159 C.
0
ID., fr. 90 C.
0
Ibidem.
0
SOFOCLE, Antigone, v. 20.
0
EURIPIDE, Cretesi, fr. 3.
53 Calypso, solitudine senza rimpianto
vita… quando il ritmo del cuore distende il tempo nella cura per l’individuo
concreto, fino all’urgenza di contrarlo (prima preoccupazione etica) nell’impegno
per sé e per il destino dell’altro.
Accanto.
Aspettare il giorno è invece lasciare incendiare la terra, mettere in fuga le
pernici dissolvendo l’incontro, l’ascolto, l’irruenza della parola. È questa
l’ignavia nel dramma della separazione nella solitudine di Cassandra e di Tiresia,
il profeta che vivendo sia nel corpo di donna sia in quello di uomo ben conosce la
verità. E se nel buio dei suoi occhi ciechi ne è custodita la visione è però nel
sentimento della nostalgia che essa si presentifica, curva sul corpo che le è
accanto, anche quando il sole è tramontato e i cigni di Apollo pleista kai kallista
adousi.0
E ancora, è il tocco delle mani di Antigone che affondano nella profondità
della terra, fin dentro le viscere: dita purpuree nella cavità buia della notte prima
che venga il giorno per strappare alla notte una vita, Polinice, il fratello. La
parola scritta nella corporeità del logos è questo invito a destare Alcmane
ricordando che la parola e la dissonanza, di cui si nutre la poesia, nacquero
dall’ascolto delle donne-pernici. Parola e dissonanza scritte nel corpo e nei versi
notturni di Alcione figlia di Vento, punita da Zeus, trasformata da questi nel
pianto senza lacrime di un volatile. Perché il dio greco che ama stuprando dona
metamorfosi violente che denigrano il corpo, suo respiro vitale. Ma nel canto
cupo di Alcione la filosofia è ancora nostalgia che inizia il poeta alla parola,
all’attenzione che ricurva la platonica visione delle Idee in un pensiero che si dà
pensiero per la vita.
In Grecia chi sa interpretare il cuore degli uccelli - la sapienza nascosta che
sconvolge come le viscere una donna nel parto - possiede questo sapere mantico
carico di responsabilità: egli solo può cambiare il corso degli eventi. E Alcmane
conosce la verità perché l’ha ascoltata da Alcione: «Io conosco i canti di tutti gli
uccelli» (oida d’ornikon nomos panteon)0. Come scrittura questa è incisa nel
corpo-sepolto di Antigone, offerto perché tra il mare - la nascita - e il tempio in
cui riposano le sorelle pernici non vi sia più l’orrore della polis violenta, sorta sul
sangue sparso da fratello a fratello. Ma poiché è un sapere del cuore si incarna in
una scrittura spiraliforme, nomade, sempre in cerca di sé e dell’altro perché
insinuata nei meandri labirintici della terra, nelle volute della rosa mai concluse
in un cerchio. Potremmo allora chiamarla “rosa della dissonanza filosofica”
questa scrittura femminile che, soprattutto nella forma diaristica ed epistolare, ma
anche nella saggististica, mantiene l'ordine nell'atto di ricrearlo sempre nuovo. Il
fiore che irrompe nell'armonia platonica delle sfere per auto-donarsi la forma che
le è propria, nell'eterno vortice attorno e contro la perfezione del cerchio. A tale
perfetta coincidenza di punti equidistanti, infatti, il suo sbocciare e il suo
0
PLATONE, Fedone, 85 a.
0
ALCMANE, fr. 140.
55 Calypso, solitudine senza rimpianto
sfogliarsi non possono mai corrispondere: non inscrivibili nel cerchio ne portano
invece la figura geometrica all'interno, come la rotondità del ventre materno. La
rosa sfogliata come atto di sepoltura dell'ordine logocentrico ci apre a una nuova
logica della discontinuità, simile all’idea ebraica di creazione che strappa dal
magma informe i suoi elementi. Ma anche ripensamento dell'esistenza nella
ragione poetica della tradizione femminile, “pura rosa accesa” 0 dell'aurora che
strappa da sé la notte perché nasca un nuovo giorno. Perché è anche così che fa
giorno: per la rosa sfogliata nella sepoltura, per una morte avvenuta come di
parto nella forma dell'antico morire delle donne.
Ma prima di questa sepoltura una nascita, e con questa il dono di una
favola.
«C’era una volta una regina che aveva tutto perduto», così inizia Carlo
Felice Wolff la sua favola Le rose del ricordo. È la storia di una donna che si
rifugia su una ripida montagna portando con sé il suo unico figlio dopo avere
“tutto perduto”, marito e regno, a causa della guerra; marito e regno recisi come
vite divelta per sempre e da allora mai più.
La donna non possiede un nome, in realtà non possiede nulla, sappiamo
soltanto che è regina seppure non abbia più neanche uno scudiero al proprio
servizio. Una regina senza re e senza regno sembrerebbe un paradosso, una
contraddizione che però il lettore non avverte inconsciamente come tale perché
appunto inconsciamente la riconosce come insignita di un “sé regale”. L’identità
personificata nel ruolo-personaggio fiabesco gli si impone, infatti,
immediatamente convalidata dalla sua assoluta solidità e non contraddittorietà.
Una regina, anche senza re e senza regno, in una fiaba è infatti sempre e
comunque una regina. Questo perché nelle favole i personaggi non sono unici ma
tipici, mai ambivalenti nella polarizzazione del racconto che preferisce riferire la
dicotomia bene/male a figure differenti, quella stessa polarità che invece, sul
piano della realtà, vive entro la medesima complessità psichica di ogni donna, di
ogni uomo. Se la regina “ha tutto perduto” questo tutto non può che riferirsi a
qualcosa di estraneo da sé, di più, di opposto a sé proprio quanto la fata si oppone
alla strega, il malvagio al virtuoso e la bella alla bestia. Vi è stato di certo un
tempo archetipico in cui questa donna deve avere regnato, e in tale tempo si
fonda sia il suo essere modello primordiale di regnante sia il per-sempre
temporale del suo regnare. Fondato, e dunque legittimo da sempre e per sempre.
Eppure in questa favola c’è qualcosa di più, perché qui abbiamo una regina
e non un re.
Se infatti l’essere-regina si oppone all’avere un regno, significando che non
è il potere costituito o il ruolo sociale a conferirne l’identità, ciò avviene soltanto
perché questa, in quanto donna, si impone come coscienza di sé o
consapevolezza di un sé regale in virtù dell’assenza - non usurpazione - della
0
M. ZAMBRANO, Dell'Aurora, trad. it., Marietti, Genova 2000, p. 35.
56 Capitolo IV
dubitarne, l’equità della propria condotta e nel suo combattere la propria battaglia
mai cederà alle istanze di denigrazione ed esaltazione secondo il modello
dell’autodifesa. Quel suo cercare rifugio sui monti conserva lo sdegno per un
mondo che non vuole né denigrare né salvare quanto, al contrario, ribaltare come
partorendolo da sé, procedendo dal chaos del male al cosmo di un ordine nuovo,
a favore della pace da cui germina la vita. Non fugge ma affila le armi della
memoria come l’eroina che miticamente fonda un nuovo ordine (cosmo =
mondo) di senso per la sua abitabilità. La sua resa, come potrebbe sembrare il suo
atteggiamento nella mite accettazione della perdita dei beni materiali, come
anche la remissività di fronte alle insistenze del figlio di partire per il “mondo”, è
in realtà una tipica forma di opposizione femminile del bene al male, di lotta e
forza - non debolezza - per affermazione della vita. Così fecero le medio-
pitagoriche, i cui frammenti sono per noi di sconvolgente attualità nel
ribaltamento del ruolo passivo/negativo del femminile in una forte azione
propulsiva di autoeducazione. Ma su questi scritti si tornerà in seguito, per il
momento c’è la favola. E dunque, se la regina è un personaggio sapiente e
vigoroso, perché fa questo assurdo dono della spada al figlio, al mondo, che pure
ha salvato e nutrito?
In realtà perché gli restituisce una memoria senza rimpianto, ovvero la
coscienza di sé come riappropriazione di un sé creativo e propulsivo. È la madre
che per il figlio fonda simbolicamente l’ordine di senso dell’abitabilità del
mondo, ovvero della possibilità di vivere con gli altri in modo consapevole. E al
contempo è la consapevolezza che contrasta la logica del potere per la giustizia
mentre la pace rientra in una lotta che dona senso all’esistenza, una lotta
consumata entro la trascendenza orizzontale dell’intersoggettività. Ma vediamone
da vicino i passaggi, perché è tempo ormai di raccontarne per esteso la storia.
Dunque, c’è appunto una regina che tutto ha perduto dopo l’ennesima
guerra infuriata sulla terra e per salvare la propria vita (il sé femminile) e quella
del figlio (il sé creativo e adulto) si nasconde a vita - la tomba di Antigone?
Ogigia di Calypso? - su una montagna in assoluta solitudine. E tanto questo
rifugio in se stessa è aspro e doloroso da essere descritto come “ripida montagna
dalle vette dentate”: il no regale rispetto al mondo, per entrare nel silenzio di sé,
deve avere questo aspetto fortificato e difensivo. Prima di congedare il suo fidato
scudiero, sapendo di non poterlo più retribuire tanto ormai è divenuta povera (il
racconto biblico di Ruth che resta accanto a Noemi nella disgrazia è una
solidarietà volta al riscatto femminile ma qui l’identità femminile, della regina,
necessita di un superamento o riappropriazione dell’ordine-potere maschile, una
“iniziazione” femminile), gli chiede di portarle un fiore dal campo di battaglia
dove è morto il suo coniuge. Glielo chiede “per avere almeno qualcosa da
conservare in memoria di lui”. Non le importa del regno perduto, la favola non ne
fa mai riferimento, piuttosto di non possedere il “corpo” dell’amato nel duplice
significato di non poterlo più fisicamente amare da vivo e piangere da morto. La
regina, consapevole di essere una donna che ama e “chi più non regna”, chiede
59 Calypso, solitudine senza rimpianto
lascia portar via la spada senza opporre resistenza? E da chi, se non da se stessa
adulta (il figlio parte per cercare una sposa) che dall’essere figlia si è trovata a
essere madre per la mediazione di uno sposo violento (voleva un fiore ha
ricevuto una spada).
A proposito del “no regale” all’ingiustizia del mondo abbiamo
implicitamente riconosciuto che questo, di cui il regno è figura, in certo senso e
in un tempo lontanissimo doveva comunque esserle appartenuto. Perché
intimamente legata al re lei era e resta regina agli occhi del mondo, sia di quello
soffocato nel sangue sia di quello inaugurato simbolicamente nel “nuovo” del
figlio. La percezione di sé non è mai disgiunta dall’immagine pubblica del ruolo
che rivestiamo e dai messaggi che inviamo all’esterno perché gli altri rinforzino
l’immagine che noi abbiamo di noi stessi. Anche nella polarità regina/re la
coscienza del proprio essere non è affatto avulsa dalla situazione socio-culturale
(entrambi sono i regnanti) e dal “ruolo” sociale richiesto e assunto a volte
tradotto in comportamento abituale corrispondente alla conoscenza di sé. Infatti
lei è regale sempre, anche quando ha perduto il suo regno. Non sto
contraddicendo la tesi iniziale, femminile = ordine/ chaos = disordine, quanto
piuttosto indagando sulla complessità del senso (e l’ordine è pur sempre un
ordine di senso) relativo all’individualità come unità distinta, sulla base della
concomitanza di un sé soggetto (agente), sé oggetto (relazionato agli altri) e sé
unico (coscienza di essere un’unità).
Forse perché, in fondo, la sta solo riconsegnando al proprio sé adulto,
irrobustito per le cure materne auto-elargite e dunque in grado di difendersi - la
spada potrà essere usata solo per questo - senza spargere sangue innocente. È in
questo senso che parlo di dono, nella favola non è impiegato questo termine,
perché una regina fiabesca che vive nascosta in un bosco e decide di entrare nel
mondo senza armi, indifesa, somiglierebbe a uno splendido unicorno che
catapulta in un villaggio di cacciatori senza essere munito di corno. Senza difesa
del sé non si ha percezione del proprio essere se stessi nel mondo, e dunque non
si è pronti neppure per lasciare la “madre” e chiedere al mondo il nostro spazio
vitale. Un unicorno disarmato non somiglia a un sé adulto, e io che leggo la
favola non ammetto contraddizioni interne ai personaggi. Il ragazzo è infatti
cresciuto, la parte adulta della regina è ormai pronta e qui resta, tra le mille, una
domanda: cosa l’ha nutrita in tutti quegli anni trascorsi sulla montagna deserta?
Forse la spada sigillata nel fodero, ovvero il suo “dire no” all’alimento dolce
(legato al ricordo amoroso e ancor più al miele lattiginoso di una “madre”
nascosta, taciuta, nella favola) ma velenoso di un sé che rifiuta come altro da sé,
pure accettandola (la regina la conserva seppure non sia il fiore richiesto) come
fosse in certo senso anche la sua. Ma vi è o no polarità tra lei e il suo coniuge? La
favola qui non ci aiuta. Del re, infatti, non sappiamo proprio nulla e se il suo
modello lo ricomponiamo nel puzzle complesso del personaggio femminile,
appunto quello della regina, facilmente lo riconosciamo come pulsione forte che
le appartiene da sempre. E infatti la favola ci aiuta omettendo di lui e dell’altra
61 Calypso, solitudine senza rimpianto
assente: la madre della regina (perché il ragazzo dovrebbe essere così ansioso di
separarsi dalla madre per cercare una sposa se il chiasmo madre/sposo non fosse
tanto cruciale nella favola?) Ovviamente questo nella vita reale, quella di ogni
donna, nella favola invece appartiene all’anti-regina, ovvero al re morto in
battaglia: quale battaglia? cosa muore della regina quando giace riversa accanto
alla sua spada? E che ne è di lei quando le viene tolta per due volte la spada?
Mentre giace sul suolo in lei si cerca un fiore che non c’è, quando attenderà il
ritorno del figlio-sé adulto lo verrà ritornare accanto a una sposa adorna di una
splendida rosa. La memoria di avere desiderato il potere (il padre, il re) o la
memoria senza rimpianto di avere abbandonato -è fuggita sui monti- una parte di
sé talmente sconosciuta da non ricordarne neppure il nome? Nella favola quel re,
di cui è immediata e indubitabile la validità, sappiamo soltanto che rientra in quel
“tutto perduto” che fa da incipit alla storia, una vera e propria storia di
“iniziazione” femminile. Anche qui, in un tempo arcaico e primordiale, l’identità
regale maschile è stata fondata per sempre sulla sua morte (la fine del
matriarcato): c’è una morte mitica del potere ambivalente “maschile” che pure ha
inaugurato la nascita di un nuovo potere “femminile”, seppure sotto le sembianze
di una donna nei panni di un ragazzo, un ordine complesso (per questo strutturato
nella fiaba in personaggi opposti) ma non ambiguo. La regina è forte, infatti è
viva; la morte che le è compagna (il marito-re) “da sempre” giace lontano e la
sua spada non può commuoverla (cum-movere) verso alcuna nostalgia di lui.
Come Calypso, la regina lascia che vi sia distanza tra sé e l’ombra di sé, seppure
amata perché in certo modo propria: nella vita reale le donne chiedono agli
uomini i fiori, a se stesse la spada. Erano insieme ma la sua storia inizia quando
finisce quella di lui; che poi fosse la loro, perché appunto una storia d’amore,
nessun dubbio o forse no, qualcuno sì, visto che anche lui è parte di lei ed è stato
necessario che morisse perché lei fosse, fosse colei che appunto “aveva tutto
perduto”. Ovvero che perse il suo corpo, per spada di uomo.
Un sé cosciente di sé, dunque, consapevole non soltanto della perdita ma
anche del valore della scelta che ne è seguita - e scegliere è accettare di perdere
qualcosa - decidendo di essere regina e non re, Antigone e non Creonte, Calypso
che ama e non Odìsseo che vuole solo essere amato. Il bosco, la notte, Ogigia: il
rifugio nascosto per iniziarsi a essere a partire da sé, o detto con le parole della
favola, con l’autorevolezza del “no” regale.
Nella vita reale le donne, come il figlio adulto, sguainano la spada non
senza conflitti tremendi e profondi dal fodero robusto di identità materne spesso
violate e spesso nutrici. E se un uomo offre la spada o giace lontano, morto a
causa della sua stessa violenza, la donna Antigone e la regina di Wolff chiede
ancora da se stessa la forza per opporsi o curare, combattere o seppellire (nella
terra o nella memoria) quel corpo, ogni corpo, che nasce da donna. Non per
ripiegamento autoreferenziale ma per profonda coscienza di sé: coscienza
dell’urgenza della vita sulla morte, dell’individuo concreto sull’essere astratto,
della gratitudine sull’invidia e, infine, dell’affermazione (anche “nascosta” è pur
62 Capitolo IV
viva, dunque non veramente nascosta come corpo sepolto) sul naufragio di sé. E
io che leggo o ascolto la favola, empatizzandone i contenuti nelle pressioni del
mio inconscio, mi decido o per l’una o per l’altro. Mi decido, decido di me, e
adeguando il contenuto inconscio alla fantasia conscia e strutturata del racconto
conferisco un ordine a me stessa, ovvero ascolto ed esco dal chaos dei miei
impulsi scegliendo una via. Trovo e accolgo un senso che è direzione al mio
andare: o verso il bene o in direzione del male, non basandomi su una morale
precostituita ma decidendo (oggi così, domani non so) se essere regina (cosmo =
ordine) senza senza regno o avere il potere di un regno senza regnare-regnante
(chaos dell’informe). Il sé è infatti tutto nella coscienza e nella consapevolezza
di sé e nessun dubbio è mai sollevato a questo riguardo lungo l’intero
svolgimento del racconto. Eppure il registro si ribalta, come sempre quando si
intersecano le polarità dell’ordine simbolico femminile/maschile, e la scelta più
ovvia (avere un regno) è scartata in quanto smascherata come fallace (avere un
regno significa infatti non essere un regnante). Poiché nella favola sono
affabulata dalla promessa di scoprire un senso che è legato alla consapevolezza di
me stessa, e questa alla scoperta della mia stessa forma progettuale, sono
sollecitata a scegliere me stessa autoincoronandomi regina con un atto interiore e
pubblico e politico di autoaffermazione. Per questo seguo con interesse le
avventure del figlio-regina che lascia il recinto chiuso del bosco per incontrare il
mondo, l’altro da sé. Il mio regno sarà allora, come nella favola di Wolff, la
memoria femminile della cura per il vivente sopravvissuto (e sopravvive chi
sente, attraversa e supera i conflitti) al regnante sprofondato nell’Ade col suo
violento regno, obliato e sconfitto come la spada rimasta sulla terra. Al ritorno
del figlio, accompagnato da un’amorevole sposa che corrisponde ai desiderata
materni (il fiore-il corpo amato), io sono ormai questo figlio-adulto e non più la
regina, non mi immedesimo più nel suo passato che ormai, infine, è “perduto”
come doveva essere perché io, la regina-adulta, si riscattasse nel mondo dopo
l’iniziazione nel bosco. E allora felice chiudo il libro e mi rallegro che davvero
lei, io stessa, “tutto aveva perduto” fuorché la memoria - riportata nella
mediazione del viaggio del figlio- dell’avventura per la riappropriazione
“corporea” di sé.
Ma a volte le rose appartengono a una memoria perduta in uno
stravolgimento orfico in cui lei, la regina-Euridice, non è riconosciuta come parte
integrante di sé. Così «Col nostro sangue e colle nostre lacrime facevamo le
rose» scrive di Dino Campana a Sibilla Aleramo nella poesia In un momento,
sebbene non abbia smesso di amarla fino alla fine dei suoi giorni. L’idea
condivisa che tra vita e arte dovesse esserci perfetta identità, per questo
“facevamo” le rose, ovvero ‘creavamo’ la poesia con la stessa ‘vita’, urta con una
modalità di percezione di sé profondamente differente nei due scrittori. Dino
Campana custodisce i suoi versi nel mistero della parola criptica, vive esiliato dal
mondo e trova pace solo tra i boschi come la nostra regina, cercando nella
“fedeltà alla terra” di attingere a quella “forza vitale” della natura selvaggia,
dionisiaca, di cui pure è figura Agriope-Euridice. Ma il viaggio orfico per il poeta
è un eterno abitare l’inospitalità del mondo tra angoscia per la nascita e agonia di
63 Calypso, solitudine senza rimpianto
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Vedi l’epistolario S. Aleramo – D. Campana.
CAPITOLO V
«E ora, chi sfoglierà la rosa su di me, chi mi piangerà e, ciò che più mi
importa, chi alzerà la mano per salutarmi, indicando così alla mia anima quale
strada seguire, sciogliendo quel nodo che ancora unisce all’aria della vita le
anime di chi è appena morto?»
(M. Zambrano, Diotima di Mantinea,)
Una donna, una filosofa al limite della hybris della parola scritta, appena
compresa nella “ragione poetica” di una lirica che sembra riconciliare la figura di
Diotima, la “madre”, con quella della “bambina” Antigone. Zambrano le pone
accanto senza fornirne argomentazione, le stringe l’una all’altra fino a
ricomporre, in un unico abbraccio, l’icona della maternità pacata nel proprio
“destino vocazionale”. Eppure la forma dell’immagine resta confusa, indistinta,
proprio come nei sogni di Diotima e nei deliri di Antigone: nella separazione
dell’uomo dalla donna c’è ombra, silenzio. È l’abbandono, tutto femminile, che
All’ombra del Dio sconosciuto - questo è il titolo dell’edizione italiana del suo
Nacer por si misma - avvinghia la corporeità come l’ostrica l’anima socratica,
che pure anela ad andare. È in questa “luce sepolta” - dovrà pure esserci, perché
ombra ci sia - che ci sembra di ascoltare il lamento funebre della profetessa:
“Chi sfoglierà per me la rosa…”. E crediamo che questa sia ancora parola rivolta
a un uomo (certo anche ad Antigone, ma non qui…e cercheremo di spiegarne più
avanti il motivo), perché in lei mai la parola è stata quel delirio che precede la
coscienza come invece in Antigone, la “coscienza vergine” senza memoria di sé.
Nel corpo di Diotima lo stesso delirio da sempre l’ha resa medium tra l’uomo e il
cielo, tra il “nuovo” Socrate e la figlia sepolta viva che attende una “nuova”
nascita. Nella frammentarietà del come-se e del quasi della scrittura evocativa
della Zambrano ci sembra di scorgere, nella linea d’ombra che prelude alla luce -
è il tramonto: ora si può morire - l’uomo-Socrate dell’Apologia e del Fedone,
l’uomo giusto accusato di asébeia [Critone]. Ne condivide per elezione divina lo
spazio angusto della prigione ma, così in controluce, non possiamo non vederlo
distante, distante nel corpo. Non più accanto egli è “seduto” in disparte, sciolto
da ogni loro abbraccio - ma è solo un’apparenza - “i piedi poggiano sulla terra”:
sta profetizzando la gioia futura al cospetto di Apollo mentre con il logos “si dà
sepoltura”.
Ma è questa la sepoltura che invoca Diotima, per noi che restiamo a
guardare, nel suo delicato lamento: “Chi sfoglierà la rosa su di me, chi mi
piangerà”? Sfogliare la rosa lasciando che le dita scompongano la bellezza della
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forma per ricomporla nel moto sospeso del corpo, defunto, a noi sembra un
diverso atto di sepoltura. Un controcanto per il logos ferito che diviene parola
orante o gesto sacro col quale si dona, chiedendo, ancora un luogo da abitare o
una terra in cui essere per il corpo scivolato nella morte. E perché la profetessa
dovrebbe volgere proprio all’uomo-Socrate il proprio gemito, perché a lui
chiedere quel rito funebre che egli stesso, per sé, ha rifiutato accingendosi a
morire? E Antigone è davvero figlia o piuttosto, come noi crediamo, sorella? Il
delirio è qui fratello del sogno: Socrate che “nasce” come filosofo da Diotima (la
“madre delle anime”), Diotima che ri-nasce dal rito funebre del logos come
“canto”. Canto di gioia e non di malinconia, secondo l’interpretazione aristotelica
della preghiera del cigno ad Apollo, rito di passaggio per la madre perché dalla
profetessa nasca la donna. Socrate allora sarebbe, in questo nostro gettare luce su
zone d’ombra, “padre” della donna: perché se il femminile trova dignità e
vocazione nella maternità non vorremmo dimenticarlo, noi donne, è perché
questa la riceviamo da un Padre. L’essere figlie ci rimanda a un uomo, che è
fratello o sposo ma innanzitutto padre. La stessa iniziazione filosofica della
Zambrano - è lei a riferircelo - è tutta in quel corpo maschile, in quelle braccia
che la sollevavano, ancora bambina, sopra le spalle a guardare il mondo dalla
distanza. È lui a segnare il passaggio dall’indistinzione che precede la coscienza -
come non rivedervi Diotima “prima” di Socrate? ma Diotima né lo precede né lo
segue -, dal “sentirsi con” le rondini al “vedere” le rondini su è giù nel cielo,
ormai individuata e da loro separata. Il suo pensiero filosofico prenderà allora la
forma di una “ragione materna” mediata dalla “paternità” del maestro Ortega y
Gasset, in quell’invito eracliteo a ridestarsi alla vita, in quella premura socratica
che presagisce (il femminile nel modo maschile dell’intuizione) la nascita di
nuove anime. Sarà ancora la vocazione paterna di Miguel de Unamuno, accolto
con gioia al suo rientro dall’esilio in Hendaya nella primavera del 1930, a
incoraggiarla nel portare a compimento la “seconda nascita” consapevole che
vivere è un farsi nel tempo, un “parto” nella storia. E sarà proprio lui che sentirà
accanto nella scoperta della ragione tragica quando a Giobbe, che invoca ragione
a Dio, le sembra volgersi a chiedere ragione anche il suo don Chisciotte proprio
come a Pirandello i suoi smarriti personaggi. Filosofia come vocazione materna e
paterna, nella fede comune che l’unico modo per credere nella realtà risieda nel
poterla generare.
Lo studio della filosofia fu per lei anche questo: recuperare da Aristotele la
ragione vitale dell’essere qui, riconciliando la vocazione femminile della
corporeità del volersi offrire con il voler essere in quanto soggetto, iniziata
oramai a essere-di-fronte alle rondini in volo. E ancora: il ricordo del padre certo
che l’ordo et connexio rerum idem esse ac ordo et connexio ideaurum mentre
ascolta, serio e persuaso, la voce profetica della moglie che non sa quel che dice
ma sempre dice qualcosa di profetico. Quella Sibilla che le è madre. Filosofia
come coscienza, anche della prospettiva da cui si guarda e da cui si ascolta, ma
questo “si” non allude più a una forma impersonale quanto, piuttosto, al radicale
coinvolgimento dell’io nel proprio dire filosofico, dell’io che è sempre
67 Sfogliare la rosa funerea: sepoltura tra delirio e profezia
In certi giorni, in certe ore della storia, sembra ritirarsi ed essere presente senza
vibrazione, unicamente per compiere la sua funzione di illuminare con indifferenza, come
per abitudine. E’ questa l’ora peggiore per l’uomo, peggiore anche delle tenebre, segno
che una tragedia si sta compiendo, che un sacrificio si sta consumando 0
Ma cosa ci ha portato a questa luce delle tele di Zurbaran e cosa ci porta ora
via da loro per entrare nel sepolcro di Antigone, tra la rosa sfogliata di Diotima e
la morte di Socrate? Certamente qualcosa di intimo, quale l’atmosfera di questo
strano sepolcro abitato da vivi che ci riconsegna a quel sentire originario proprio
di ogni situazione estrema, epochè forzata come la malattia, l’esilio e la morte.
Certamente è un racconto autobiografico - intimo - che inizia dal sogno di una
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M. ZAMBRANO, Delirio y destino, Fundacion Maria Zambrano 1998 (trad.it. in Delirio e
Destino, Raffaello Cortina 2000, cit., p.190
68 Capitolo V
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M. .ZAMBRANO, All’ombra del Dio sconosciuto, op.cit., ,p.82.
70 Capitolo V
Antigone la pietosa nulla sapeva di sé, neppure che poteva uccidersi; questa azione
repentina le era estranea, e prima di giungere a essa, supponendo che quella fosse la sua
fine appropriata, doveva inoltrarsi in una lunga galleria di gemiti, divenire preda di
innumerevoli deliri; la sua anima doveva rivelarsi e, ancora, ribellarsi. Doveva
risvegliarsi la sua vita non vissuta.0
A partire dalla verità; è questo l’essere povero. Non pretendere che qualcosa ci copra di
splendore […] apprezzare solo il necessario senza dargli importanza; andare diritto al
cuore delle cose; trattare il prossimo senza timore, né vanità poiché, lo avevo già visto, di
questo di trattava, del prossimo puro e semplice, del fratello. Poveri e soli, tutti […]
Alcuni, molti, non solo perché poveri nella loro mancanza di essere, ma perché feriti dalla
povertà, feriti… da tante cose. Abbiamo infatti sufficiente essere perché vi si aprano
0
M. ZAMBRANO, Delirio e destino, op. cit., ,p.252.
0
ID., La confessione come genere letterario, tr. it., Mondatori, Milano 1997, cit .p.39
72 Capitolo V
ferite.0
Chi è colui che parla nel se stesso? Però siamo arrivati all’Io. Adesso,
quindi, mi chiedo con la stessa autenticità, chi è questo io circondato, abbracciato
e implicato dal tutto(…) Cosa accade a questo io quando subisce gli assalti del
nulla e cosa succede al nulla quando subisce gli assalti dell’Io?0
0
Ivi., p.23
0
Ibidem.,
73 Sfogliare la rosa funerea: sepoltura tra delirio e profezia
Lo dona, e si dona, a colui che mai avrebbe scritto il suo nome, perché mai
avrebbe scritto.
Entro i percorsi filosofici femminili l’anima è spesso carne, cuore e viscere;
il partorire nel dolore, come sempre fa l’amore, diviene l’atto di assunzione del
male per generare il bene: «L’aurora verginale, la pura rosa accesa, partorisce
con dolore e umiliazione… Si dimenticherà sempre la lacerazione e il patimento
dell’Aurora, il suo parto, se non si tiene conto della Notte, se la si vede
unicamente come annuncio del giorno». 0 L’incontro con il mistero che vuole
rivelarsi porta in sé l’ambivalenza di gioia e dolore perché, a partire dalla
metafora greca di verità come luce, l’aletheia è la non-nascosta la cui luce nutre e
disseta seppure ferisca (così nel Fedro leggiamo che «Per chi intraprende cose
belle è pure bello il soffrire, qualsiasi cosa gli capiti», 274b). Eppure Apollo è più
crudele di Dioniso, nel suo restare sempre così troppo lontano (la sua parola è
criptica, necessita la mediazione dell’interpretazione) mentre ferisce con l’arco
(che gli appartiene quanto la lira melodiosa) il corpo e l’anima dell’amante
(Simposio, 197a). L’uomo greco, non a caso, lo cerca a occhi chiusi nel viaggio
di Orfeo, perché a occhi chiusi si vede intimamente sentendo. Diotima diviene
allora, per l’investitura sacerdotale, garanzia della valenza etica dell’incipiente
discorso filosofico non solo perché riconosce validità filosofica al “morso del
serpente”, la ferita di Alcibiade, ma perché lo accoglie accettandone la morte. Il
logos come esercizio e arte del morire è già in scena. Confrontiamo infatti i due
passaggi: Alcibiade accusa il colpo e, ormai vinto dal veleno, vuole “crescere”
accanto a Socrate; Diotima, nel rivelare a quest’ultimo il suo destino,
“diminuisce sé” nell’essergli accanto. Se non accettasse di dover morire per il
logos il suo destino (aiutare a nascere) di indicare un destino (ancora un
generare) ripiegherebbe su sé sottraendo ogni ratio al discorso, impedendo ogni
cura e ferita. Così, almeno, interpretiamo le parole che la Zambrano riferisce a
Diotima (il carattere evocativo della sua scrittura poetica è una sollecitazione
continua a ri-pensamenti ermeneutici), spingendoci fino alla soglia del sogno:
Ho fatto un sogno; non so se fu un sogno, credo di sì: una serpe avanzava verso di me;
non era cattiva, e forse non portava neanche una goccia di veleno. Ma era pur sempre un
serpente, benché fosse quasi bianco, tenero, rassegnato. Voleva vivere con me, ma io
temevo che nessuno più sarebbe venuto a farmi visita. 0
del limite. E qui l’arte del dialogo mirabilmente si arricchisce e si complica: lei è
infatti anche tutta tracotanza (il suo stesso “dire” non conosce i limiti temporali e
spaziali dell’umana conoscenza) mentre umilmente Socrate riconosce nel monito
delfico la verità di una assoluta, separata e dunque santa, divinità. È tale verità
che lo rende sapiente tra gli uomini, mentre Diotima deve abbassarsi
riconoscendo di non comprendere tale sapere: lei che è l’amata di Apollo è pure e
soltanto una «creatura del suono e della voce, della parola che arriva per un
istante e se ne va, a visitare, forse, altri nidi di silenzio». 0
Un uomo lo partì in due con un taglio netto, e fu allora che io vidi la sua anima, piccola,
debole, bianchiccia; tremava come uno che di punto in bianco resta nudo, ed era triste.
Nessuno si sarebbe avvicinato a raccoglierla. Mi sorpresi a dirle: “Anima del serpente, sei
triste senza corpo; vieni con me e io ti porterò nella mia anima. 0
Diotima si offre come corpo per gli ignudi, per gli smarriti che non vedono
più tracce divine nella propria vita e che per questo ricorrono a lei per riceverne
soccorso:
E quasi mi pentii di quelle parole e di quell’offerta perché mi assalì il duplice timore che
non ce l’avrei fatta a portare anche lei, per debole e piccola che fosse, e che il suo veleno
sarebbe penetrato in me, rendendomi malvagia in certe occasioni. Tuttavia la pietà fu più
forte della paura di convertirmi in cattiva…”0
0
Ivi., cit., p.127
0
Ibidem.
0
Ivi, (grassetto nostro)
76 Capitolo V
0
Ivi.
CAPITOLO VI
DEL FERIRE
Per essere nella luce, inondati di luce, bisogna strapparsi dall’anima ogni
lembo di notte: questa la dolorosa necessità di Aletheia cantata da Orfeo, verità
lacerante seppure splendente. Ma il moto dell’anima viene da altrove e a noi non
ne è dato il potere.
Sulle sponde di Stige, su cui soltanto gli dèi possono giurare, un’umanità
ferita di tracotanza si sottrae al soffio di vita e respiro - ruah - che solo potrebbe
innalzarla senza disperderla nella notte di Lethe. Il dramma orfico della
separazione è una ferita lancinante per noi che siamo cenere inabitata da Cielo
Stellante; per noi che custodiamo nel raccoglimento (il senso perduto di
lanthano) la sacralità della fiamma divina. La tensione orfica si incurva in questo
dramma di non avere un respiro, di obliarne il primo moto credendoci signori di
‘altrove’, reiterando pur senza saperlo, l’antico sacrificio di Zagreo. La libertà di
Aletheia è invece il riscatto dell’omphalos che siamo, è il moto dell’anima che
torna all’origine, all’altrove, quando nel culto neolitico della dea Madre i custodi
del fuoco si spargevano come cenere sulla sua brace perenne vivendo
intimamente, accanto e più dentro, il mistero che dischiude la vita restando
nascosto.
Ma ora distanziandoci sia dall’ordine simbolico patriarcale (a partire dal
logos aristotelico che rinviene la causa materiale, destinata alla procreazione e
alla morte, nell’elemento femminile contro quella formale maschile) sia dallo
speculare capovolgimento riferendoci al mito Grande Madre. La corporeità del
logos è infatti e innanzitutto riconoscimento del valore ontologico dell’essere in
quanto figlio. Una prospettiva nuova, questa nostra, funzionale alla comprensione
di un ordine simbolico aurorale nell’interrelazione culturale tra l’uomo e la
donna. Probabilmente, in considerazione dell’innegabile stato di oppressione
politica sofferta dalle donne, sembrerebbe più corretto parlare di semplice stare
accanto (anche solo spazialmente) anziché di dialogo. Forse, considerando che la
parola presuppone e vive nel costante ascolto di sé e dell’altro; eppure non è
possibile interpretare alcun silenzio (anche quello forzato) fuori dalla sua
relazione con il discorso. Come vedremo per le pitagoriche la necessità impone
la strategia (“madre” di Eros e metis di Penelope) di un diverso e personale
linguaggio: un nuovo registro dello scambio ricompone linguisticamente, con
parole “altre”, la scissione femminile/maschile, domestico/politico. La
formulazione dell’analogon pitagorico tra il pubblico e il privato comporta infatti
il superamento di tale opposizione in vista di una “armonia” che, rivisitata a
partire dall’oblatività dell’amore materno entro il paradigma della corporeità,
implica il riconoscimento della finitudine. Anche la bella morte delle madri
spartiate, donne coraggiose consegnate alla tradizione per l’austerità civica degli
7
6
apophthegmata laconica0, deve essere interpretata secondo il registro della
mescolanza e non dell’opposizione. Il valore di quelle madri in quanto madri di
opliti riconduce il corpo (astratto nell’elogio funebre ateniese, che disconosceva
il codice spartiato della bella vita, di cui diremo) alla polis cui preliminarmente
era stato affidato in quanto “cittadino”. In tal senso la peculiarità delle donne
spartiate rispetto alle ateniesi sarebbe, a ben guardare, riassorbita entro il
medesimo schema culturale ateniese dell’opposizione domestico-privato. A
Sparta la donna consegna allo stato gli opliti: ecco come si annulla la dimensione
domestica entro quella politica di cui è addirittura, al modo dell’auto-
espropriazione, funzionale. Una maternità dunque ancora funzionale al ruolo
politico maschile. Ma chi furono davvero queste donne spartiate? Perché l’elogio
funebre sul corpo asessuato dell’oplita morto valorosamente, per esempio in
Aspasia, è indubbiamente altra cosa. Segna infatti un dualismo entro cui il logos,
non raccontando il trapasso né la bellezza fisica dei giovani morti (relativi al
corpo), vuole edificare l’uditorio secondo la morale oplitica stereotipata. E non ci
sembra casuale che il poeta Tirteo, primo ad aver elogiato la kalós thánatos (e
poi seguito da Erodoto) fosse di Atene e non di Sparta.
Il dubbio di una sovrapposizione di codici interpretativi, tale da far dire alle
madri spartiate che le figlie femmine sono inutili ornamenti della città, ci invita a
riflettere oltre il già assunto come culturalmente dato. Non intendiamo affatto
negare l’ideologia greca della distinzione sessuale funzionale a quella di ordine
socio-politico, ciò che Michel Foucault in Histoire de la sexualité0 riconosce
come principio di isomorfismo tra rapporto sessuale e rapporto sociale 0. Piuttosto
qui si vuole rinvenire, a partire da una riflessione sulla religione greca (dalla
tradizione omerica ai rituali del travestimento non posteriori al I sec. a. C) il
femminile come anelito del modello epico-eroico dell’anèr. L’immaginario
greco, infatti, già nell’epopea, non presenta la coincidenza di àndres e andrèia
come dovere verso la città (alla stregua del genere civico dell’orazione funebre),
quanto un modello misto di guerriero che conosce la paura e piange come una
donna. L’eroe per eccellenza, Achille, ad esempio si dispera per la morte di
Patroclo fino a volersi uccidere (come le lamentatrici nei rituali funebri) mentre
la donna ideale dell’Iliade, Andromaca, soffre nel cordoglio come un valoroso
oplita sul campo di battaglia. L’androginia archetipica di Zeus, nella cosmogonia
orfica «Zeus è il fondo della terra e del cielo stellante; Zeus nacque maschio,
Zeus immortale fu fanciulla»0, si esaspera in quella sua appropriazione della
maternità fagocitando Metis e partorendo Atena (la figlia con i caratteri propri
dell’anèr). Quando i ceramisti ateniesi vollero raffigurare una potenza superiore
a quella stessa di Zeus rappresentarono, per dirlo con Giulia Sissa in Le corps
virginal. La virginità féminine en Grèce ancienne 0, «un potere più potente di
0
PLUTARCO, Apoftegmi dei Lacedemoni, 224 c
0
M. FOUCAULT, Storia della sessualità.2. L’uso dei piaceri, tr. it. Ed. Feltrinelli, Milano 1984.
0
Ivi, p.237.
0
Cfr. PSEUDO-ARISTOTELE, Sul mondo, 401 a 27.
0
SISSA G., Le corps verginal. La verginité féminine en Grèce ancienne, Ed. Vrin, Paris 1987,
p.185.
79 Del ferire
quello del dio forte […] sul registro femminile della completezza di un corpo
chiuso sul figlio che ha in grembo». La valorizzazione della maternità, tornando
al nostro registro, intende rinviare alla centralità del figlio: è per lui che la donna
diviene madre ed è per la forza (agognata dall’anér) di questo rapporto che
l’uomo greco sussume il femminile. Un particolare che sembra sfuggire nella
costituzione di un ordine patriarcale o matriarcale, quasi che l’essere figlio
appartenga a un ordine inferiore, anzi, evidentemente convinti di tale inferiorità.
Eppure tale considerazione è la prima conseguenza della rimozione dell’ordine
simbolico della nascita, quella che all’inizio abbiamo definito come oblio della
nascita acquatica entro il controcanto di Euridice. Figli sono i bambini, i giovani,
insomma coloro che non fondano miticamente il mondo: ma perché no? perché
devono essere iniziati - qui si lavora su un piano simbolico, evidentemente, - e
non invece iniziare a un modo più profondo e originario di autocomprensione
ontologica? Non potrebbe essere che cioè il mondo sia miticamente fondato
nell’intreccio, ordinato linguisticamente, di uomini e donne che si
autocomprendono a partire dall’originaria esperienza di sé come figli/figlie? Il
mito di Zeus che fagocita la donna per appropriarsi della sua maternità, in vista
della pseudogenerazione di una figlia intrappolata nel modello dell’anèr,
concerne infatti anche la paura per il figlio che, per fragilità “dà a pensare” e, in
quanto irruenza del “nuovo”, incute instabilità e timore. Zeus comprende
profondamente, non potrebbe non farlo, la paura del padre Crono e insieme, forte
della novità propulsiva che gli compete in quanto figlio, si volge contro/a favore
(tra opposizione e invidia) il potere generativo della donna che in altro modo,
quello politico e violento, esproprierà nel ribaltamento olimpico del matriarcato
in patriarcato. Uccidere la madre non è qui tanto l’atto del ribadire, entro la
logica dell’opposizione, la superiorità del modello maschile su quello femminile
quanto, piuttosto, del neutralizzare la forza del figlio rimuovendone la fragilità
che, in termini ontologici, è la stessa finitudine. La paura che Metis possa
partorire uomini più forti è chiaramente immagine del timore maschile rispetto a
quello femminile (la sapienza pratica di Penelope, quando sfila la tela per non
cadere nell’imboscata dei Proci, non è forse metis, astuzia femminile?). Qui però
noi ci soffermiamo sul timore che riguarda il “nuovo” per quello scandalo della
fragilità (il figlio che si affida e che dipende esigendo per necessità accudimento
esclusivo) che si converte in potere (la sua affermazione impone trasformazioni
nell’equilibrio familiare e sociale). Perché in fondo è questo il nuovo potere
inaugurato dall’ordine del figlio: il sospetto (sapienza? metis? phòbos?) che
quanto nasca dal corpo, dalla parte meno nobile di noi, sia più forte di noi. Per
questo Zeus ribalta l’ordine paterno irrobustendo ancor più quello patriarcale: il
figlio-Zeus è già adulto, deve esserlo da subito per vincere il padre, ed è un
adulto più violento del padre. Tra l’ordine del padre e quello del patriarcato ci
sono infinite pagine che attendono di essere scritte.
Il dolore per la scissione che ci sovrasta, fino a sognare una fonte
Mnemosyne ove dimenticare il timore di essere (prima di partorire) figli mortali,
80 Capitolo VI
primo caso abbiamo il rito nuziale con lo scambio reciproco dell’abito: Leucippo,
innamorato di Dafne (che disprezza gli uomini e ama solo la caccia) si traveste da
donna e riesce a sedurre l’amata; sorpreso però dalle compagne di Dafne mentre
faceva il bagno viene da queste trafitto a morte con le lance. A Creta si narrava
invece di una coppia povera cui nacque una figlia. Nessuna possibilità di
sopravvivenza per quella bambina se la madre non l’avesse astutamente (metis, la
sapienza pratica) travestita da maschietto chiamandola Leucippo. Quando non fu
più possibile nascondere il suo genere femminile supplicò e ottenne dalla dea
Latona la metamorfosi della figlia in un corpo di ragazzo. A Festo si ricordava
nella festa della Svestizione (quando Leucippo tolse il peplo femminile) l’antico
miracolo mentre la fidanzata, la notte prima delle nozze, dormiva accanto a
un’icona che lo raffigura. Il primo Leucippo è dunque un uomo che si traveste da
donna; il secondo è una fanciulla trasformata in ragazzo. L’espediente del
travestimento, giustificato come stratagemma, ricorre nelle Oscoforie nella
fanciullezza nascosta di Achille che vive come una fanciulla finché, scoperto,
entra in guerra, nella storia di Eracle che indossa le vesti di Onfale, di Dioniso e
Teseo. Senza procedere oltre ricordiamo che sono proprio questi eroi, in rapporto
con le Amazzoni e con il travestimento, a riuscire ad uccidere le donne guerriere.
E per concludere con gli intrecci, pensiamo come questi ultimi si oppongano
all’immagine del Leucippo di Elea, trafitto dalle lance sguainate dalle fanciulle.
Un’immagine di androginia più complessa, questa, in uomo vestito da donna che
è ucciso da donne armate per la caccia, compagne di Dafne.
Entro l’ordine politico, quello che più ci interessa per la cultura spartiata,
dobbiamo riconoscere che l’esclusione femminile dalla vita pubblica si incrini in
situazioni critiche, e molto sarebbe da dire sul significato della situazione-limite,
quando le donne combattono come e con gli uomini. La metodologia
dell’intreccio, non separando drasticamente il politico dal domestico, rinviene il
femminile come il doppio del maschile (Euridice-Orfeo) seppure entro un ordine
più complesso. Il cittadino, colui che può esercitare un comando, non rientra
infatti pure nell’ordine simbolico della passività nella misura in cui è anche
soggetto a ricevere ordini? Non stiamo qui affermando che le donne siano
passive ma che il femminile greco (ovvero l’immaginario maschile) si articoli su
una passività non ritenuta disdicevole “neppure” per gli uomini. Il dolore acuto
del parto (odís), ad esempio, prima di essere metafora dell’angoscia dell’anima in
Platone è l’esercizio alla sopportazione della sofferenza acuta negli opliti. Le
ferite sul corpo - nell’epopea il corpo degli eroi caduti in battaglia è bianca e
morbida come il pallore delicato nello stereotipo della femminilità - dicono
l’assunzione e la vittoria patita come strazio nel dolore di parto per ampliare la
virilità inglobandone la forza femminile. Un interscambio che, nella tragedia
greca, si riassume nel monito “soffrire come una donna, morire come un uomo”.
A questo punto vediamo più da vicino il valore dell’essere in quanto figlio nella
maternità spartiata e nel coraggio oplitico della bella morte (kalós o eukleés
thánatos) poiché «Damatrio, che trasgredì le leggi, è stato ucciso da sua madre,
uno Spartano per mano di una Spartana» [Plutarco, Coniugalia
83 Del ferire
0
EURUPIDE, Supplici
0
Cfr. C. DEWALD, Women and Culture in Herodotus’ Histories, in H.P.Foley, Reflexions of
Women in Antiquity, New York-Tokyo 1981, cit., p.125.
0
Cfr.
84 Capitolo VI
0
PLUTARCO, Apophthegmata Laconica 225 a .
0
ARISTOTELE, Politica II, 1270 a 6; II, 11296 b 12.
0
J-P VERNANT, La belle mort et le cadavre outragé, in G.Gnoli-J-P Vernant (a cura di), La
mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge-Paris, pp. 45-76.
85 Del ferire
padronanza di sé (sophrosyne) che è virtù politica e civica, non desta stupore che
gli hòmoioi semplici si lanceranno stravolti nella turba dei nemici, travalicando il
modello bellico spartiato. Alla bella morte del valoroso si affianca, senza alcun
discredito, la lotta selvaggia ed epica dei suoi uomini, un combattimento di
cinghiali0 con le mani e con i denti quando perderanno anche le lance. La
complessità del loro codice militare, che permette di fuggire quando non si
profilano possibilità di vittoria, conferma il diverso (rispetto a quello ateniese)
modo di intendere la bella morte (kalòs o eukleès thànatos). Se questa, infatti,
salva la città (aretè) è però la disciplina e il coraggio a salvare dalla morte i
guerrieri: gli apoftegmi spartiati sono ormai decisamente lontani. La morte non
va cercata (Aristodemo che si lanciò in campo senza prudenza venne privato
degli onori funebri), solo accettata e i sopravvissuti, che ad Atene erano ignorati
(e se feriti lasciati morire per mancanza di cure, a causa della svalorizzazione del
corpo-ferite-nel-corpo), a Sparta sono reintegrati nella collettività. Per uno
Spartiata il sommo bene è la vita e qui è la legge stessa a garantirlo. Nello studio
di Nicole Loraux0 ci si riferisce alla reintegrazione civica dei trèsantes:
infine resiste: il suo corpo è vulnerabile (lo è persino quello divino di Ares) e la
sua ferita mortale (quel “dolore lancinante” che il Greco sogna di strappare alla
maternità per ampliare la propria andrèia) svanirà solo quando potrà ricevere gli
onori funebri. Allora si richiuderanno le ferite (quelle che Loraux vede come
mezzo di verifica della virilità0) affinché il corpo dell’eroe risplenda di una
bellezza anche formale, e saranno proprio gli dèi a occuparsene quando, da
Ermes, sarà riferito a Priamo che il cadavere di suo figlio «è la, lavato e pulito
[…] chiuse tutte le sue ferite, tutte le ferite ricevute - e quanti guerrieri hanno
affondato il loro bronzo in lui!»0
Ritornando all’androginia del corpo femminile-maschile ripensiamo a come
la partoriente è raffigurata, nell’arte funeraria, con la cintura slacciata (la stessa
che è ben stretta sotto il petto dei guerrieri); il fegato, l’organo vitale, resta
scoperto nel parto come nell’eroe è trafitto dall’unico colpo mortale (due colpi
sarebbero indice di non destrezza con le armi). Bisogna morire con un unico
travaglio, con un solo, lancinante spasmo (ancora l’odìs del parto femminile) ma,
a differenza delle donne, bisogna spargere il sangue sulla terra. E questo, senza
dubbio, perché l’immaginario greco rinviene una potenza malefica nelle
mestruazioni (ricordiamo solo per inciso Plinio, Naturalis Historia, VII, XV, 64 e
la curiosa credenza aristotelica (Dei sogni, 459 b) dell’impatto sul riflesso dello
specchio, su cui si è soffermato J-P Vernant 0). Ciò che per Songe-Moller è il
sogno greco della ‘superfluità’ della donna0, ovvero il desiderio, in Esiodo,
Parmenide, Platone ed Aristotele di una vita senza la riproduzione sessuale, una
vita libera dalla morte come desiderio di afferrare l’eternità. E’ interessante
seguire la sua argomentazione, procedente dal significato ambivalente di archein
come origine (da cui arché) e potere (con questo verbo, infatti, si indicava pure,
anticamente, il condurre in battaglia i soldati). L’autarchia per Aristotele è
un’autosufficienza che si estende dalla dimensione politica a quella metafisica
fino alla… biologica, nel senso di mantenere la propria esistenza da soli. E
questo, ovviamente, è aspirare ad essere come Dio, cui solo spetta l’eternità e la
radicale autarchia del proprio essere. Ciò che fa dire alla Songe-Moller:
Essere l’arché di se stesso significa essere immortale. Ho il sospetto che questo sia
l’ideale utopico dell’uomo aristotelico, del cittadino aristotelico. Se l’ideale è di divenire
l’ archédi se stesso, l’ideale è di sbarazzarsi della differenza sessuale, oppure sbarazzarsi
della dipendenza dell’uomo dalla donna per riprodurre se stesso.(…) vi è una stretta
connessione fra la speculazione aristotelica sulle cause metafisiche e la riproduzione
biologica. Ritengo che la riproduzione biologica sia la via paradigmatica per comprendere
la funzione delle quattro cause, quando una sostanza viene all’essere. 0
0
ID., op. cit., , p. 93.
0
Cfr. Iliade, XXIV, 419-421.
0
Al riguardo rimandiamo allo studio di F. FRONTISI-DUCROUX, J-P VERNANT, Ulisse e lo
specchio, Ed. Donzelli, Roma 1998, pp. 119-124.
0
Cfr. V. SONGE-MOLLER, Materia, genere e morte in Aristotele, in M. MARSONET, Donne e
filosofia, Ed. Ega, Genova 2001, cit., p.10
0
V.SONGE-MOLLER, op. cit., , p.13.
87 Del ferire
modo disperato (senza timè): impiccate ad un laccio, non potendo toccare il suolo
con i piedi. L’impiccagione (a Roma chi subiva tale pena non aveva poi diritto
alla sepoltura) è la morte senza onore (anchine) perché, invece di versare il
sangue lo comprime nel corpo (come anche nello strangolamento). La morte
oltraggiosa di Giocasta, quella del disonore di Epicasta, sposa del proprio figlio o
della figlia di Micerino, violentata dal padre.Donne senza timè, dunque senza
diritto di sepoltura, costrette a vagare come fantasmi nell’Ade, travolte da un
destino paradossale come in Antigone, che sceglie la morte perché sia data
sepoltura al fratello. Il valore simbolico del “poggiare i piedi sulla terra” le sarà
negato, proprio a lei, l’eroina del valore dei vincoli familiari (di sangue) e del rito
funebre. Ma chi tesse il laccio (bròchos: il nodo che si stringe attorno al collo
delle impiccate ma anche il laccio che intrappola l’uccello nella caccia) se non le
donne stesse? Costrette ad implodere il dolore fino a rendere la tessitura la
trappola mortale con cui si è presi al laccio: il cappio di Antigone è il suo velo
intessuto di filo; le supplici di Eschilo guardano alle proprie cinture verginali
come risorsa (mechanè kalè) per impiccarsi. Il matrimonio come laccio al collo
per la donna? Eppure nell’Antigone di Sofocle (vv.806 sgg) la fanciulla piange il
suo destino nel ricevere, quale letto nuziale, quello preparatole da Ade: nessuno
intonerà per lei i canti nuziali, gli hymnos epì nymphèios. Per lei nessun imeneo
sarà offerto dal coro, all’imbrunire (hesperìais aoidàsis), con le fiaccole accese
(la sera che protegge dagli spiriti maligni i due sposi); nessun epitalamio sarà
eseguito davanti al loro thàlamos. Le saranno preclusi quei simbolici
travestimenti tra fidanzato e fidanzata, per custodire (come nei lutti e nelle
gravidanze) l’integrità della coppia: lei morrà prima del futuro sposo. Nessun
unguento (secondo la tradizione omerica, mantenuta in età classica per il
conservatorismo religioso) cospargerà il suo corpo, offerto in sostituzione del
fratello; quando sarà morta non riceverà alcuna elegia né rituale funebre. Non
sarà rivestita dell’abito bianco né adornata di fiori, non sarà esposta (pròthesis)
nel vestibolo della casa (lei che come casa ha già una tomba), dimora che non
sarà purificata (perìdeipnon) nel terzo e nono giorno, consacrati al culto del
morto. Nessun banchetto funebre, il trentesimo giorno dopo le esequie, rinnoverà
le offerte per una sepoltura mai avvenuta. Lei ha soffocato il sangue nel proprio
corpo: per lei non c’è posto né per lo iàlemos (o ièlemos, dal grido di dolore ià-
iè) né per il threno né per l’epicedio, perché a lei non spetta né compianto né
elogio. Ancora una riflessione sullo scambio tra femminile e maschile, questa
volta per rintracciare, concludendo qui la nostra analisi, la simbologia del corpo
di donna come campo di battaglia tra bene e male, secondo il doppio registro
della bella morte e bella vita. Una rilettura dell’Antigone, infatti, può illustrare
questa categoria del riscatto poiché la sua guerra è vissuta entro, ed a prezzo, del
proprio corpo-vivo offerto in sostituzione del corpo-morto di Polinice. La
sepoltura del fratello è richiesta da una pietas che, altra dalle leggi umane,
rimanda già ad uno scambio di vittima. E’ scendendo viva nella tomba, infatti,
che Antigone può assumere quella morte, che non doveva essere la propria, fino
ad adempiere all’istanza etica che la porta, nell’offerta di sé, ad accompagnarlo
nel regno dei morti. Perché non solo la madre ma pure la sorella e la sposa, nei
89 Del ferire
filosofo, poi seduto davanti a Santippe (che morte andava mai piangendo, quella
donna?) e così restare, poggiando i piedi per terra (la sua fine non sarebbe stata
senza timè) bevendo la medicina per la nostalgia del ritorno dell’anima. Eppoi
quel Critone che non aveva visitato Delfi, che non conosceva la battaglia del vero
e del falso nell’abisso della corporeità, lì a dirgli di non parlare, di non scaldarsi
per non ostacolare l’effetto del veleno. Si combattano pure, invece, in quel corpo
da “iniziato” (seduto come un mestes, o sdraiato e già “purificato” per la
sepoltura) il piacere ed il dolore, il freddo ed il caldo: è il logos il suo rito
funebre. Ma lo si comprenderà? La dialettica-battaglia (dialeghestai) dei contrari
reclama un campo, il suo corpo, come supporto per la scommessa
sull’immortalità dell’anima. Avranno un bel dire Aristofane 0 e Teofrasto0 che la
cicuta è un’erba àphron, insensata, che distrugge la phrònesis: in lui non
raggiungerà la mente, offuscandola, ma si diffonderà dai piedi alle gambe e fin
su, fermandosi sul cuore. Le “celesti radici” del filosofo non ne saranno
sconvolte. L’ha imparato dalla donna, a Delfi, che il mistero non rassicura nella
pace della propria morte ma nella torsione (il corpo raggomitolato nel dolore del
parto) cui segue l’apertura alla nascita. E quel corpo raggomitolato è proprio il
suo cuore, che cessa di battere solo quando la parola svanisce…è il lógos il suo
canto del cigno (ton kuknon). Sacro ad Apollo, come la Pizia, profetizza in punto
di morte la dolcezza della vita futura, canta (adei) la gioia che l’attende e non il
dolore per la fine (come invece pare ad Aristotele, Hist.anim., 615b). Divinità di
luce, parà tòn thèon, che ogni anno ritorna dai lidi lontani degli Iperborei,
trainato da cigni, a riportare la primavera sulla terra. La parola ed il pensiero che
appartengono ad Apollo, dio della luce, dovranno risplendere in quella prigione
finché non scende(rà) la sera, éos éti phòs estin (Phaed.89). Il rischio della
misologia, per non poter portare avanti il discorso fino alla morte, resterebbe
l’unica morte senza elaborazione di lutto: bisogna invece proclamare fino al
tramonto che di verità si può vivere, perché la verità non è irraggiungibile. Il
Fedone come vera Apologia di Socrate, convincendo i discepoli (“partorendoli
nel dolore”) che proprio così ha salvato la propria vita, accettando la necessità
della morte. Fallire, come davanti al “tribunale” della città, sarebbe far morire il
lógos. E allora combattere ancora, come l’oplita, seppure non in campo ma
“mettendo in campo il lógos”, con quell’incedere di termini militareschi come
pepheugòtas, etteménous, parépesthai, perché la parola stessa non si eclissi con il
sole. Nell’ora in cui la città dispone che si possa morire, «non prima che il dio ce
ne abbia imposto qualche necessità, come avviene ora» (Fedone, 62 c). Per
Socrate che conferma nella morte la fedeltà alla propria vocazione divina,
consapevole, come ricorderà Cicerone, che non è suicidio, il suo, ma obbedienza
ad una volontà che lo sovrasta. Come lo era già per il maestro Pitagora: «vetat
Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de presidio et statione vitae
decedere.»0 Così per Catone: «Vetat enim dominans ille in nobis deus iniussu
hinc nos suo demigrare; cum vero causam iustam deus ipse dederit, ut tunc
0
ARISTOFANE, Rane, 123-126.
0
TEOFRASTO, Storia delle piante, IX, 8,3 e 16, 8-9.
0
CICERONE, De senectute, 20, 72.
91 Del ferire
che l’avvicinavano e, a mezzo di questi uomini che erano i più potenti e influenti,
seminò nelle città germi di mediumo.» Cortigiane apprezzate per la disponibilità,
l’intelligenza e l’astuzia; donne temute politicamente ed infangate solo per
screditare i propri compagni (ed allora l’ambita e colta hetáira diventerà una
misera porne). Le mogli, madri di figli legittimi, non devono possedere né le
loro virtù né le loro sofferenze (tanto ne hanno di proprie). Anche se perlomeno
viene loro risparmiato il sarcasmo della commedia, sempre pronto ad utilizzare
l’accusa di immoralità per condannare il potere femminile e la corruzione dei
nemici. Perché anche ad Atene l’attacco politico ama nascondersi dietro l’accusa
di licenza sessuale e di depravazione dei costumi.
Un abile gioco di mímesis impiegato anche da Apollodoro, nel suo processo
intentato contro Stefano: ed è dalla sua orazione, del 340 a.C., che ovviamente
possiamo conoscere la vita di un’altra etera, Neera0. La storia delle sue
drammatiche peripezie, dietro il sarcasmo politico del suo accusatore (anche qui
un processo Contro Neera) illustra quanto fosse difficile, in realtà, la vita di una
cortigiana. Iniziata alla prostituzione ancora giovanissima (assieme alla sorella
Metanira, amata dall’oratore Lisia) da una serva Nicareta, poi riscattata, fu
venduta a Timanoride ed Eucatre che l’amarono finchè…non decisero di mettere
la “testa a posto” sposandosi per convenienza. Allora venne allontanata da
Corinto (bisognava pur cancellare la colpa) riscattandola per una cifra così esosa
che l’adolescente dovette chiedere aiuto (divenendone schiava) a Frinione.
Costretta da questi a trasferirsi ad Atene, fu obbligata a seguirlo in una vita tanto
depravata che, ormai ventenne, decise di fuggire a Megara. Finalmente qui
conosce Stefano, che resterà il suo amante fisso, un ambizioso politico che, pare
(ma è il suo accusatore a riferircelo) per racimolare un po’ di soldi l’abbia
sfruttata per qualche tempo. Risolta la difficile situazione economica, finalmente,
le fu accanto amandola davvero, volendola sposare e riconoscendone i figli. Ma
la carriera è carriera ed Atene restava la meta ambita per ogni politico: dunque un
nuovo trasloco…questa volta proprio in braccio al furioso Frinione. Appena
giunti (attenzione, non è una commedia: Apollodoro ce ne racconta la vita per
screditarla) il vecchio amante è lì a denunciare Stefano perché vuole riavere ciò
che gli appartiene. E la trattazione che ne seguì, (conclusa in un santuario sotto la
protezione della divinità!) è degna d’essere riportata ai posteri:
La donna sarebbe stata libera e avrebbe potuto disporre della propria
persona; i beni che aveva portato via dalla casa di Frinione, tranne gli abiti, i
0
Cfr, per l’orazione di Apollodoro, l’edizione francese curata da L. FERNET, Démosthène.
Plaidoyers civils,IV, Les Belles Lettres, Paris 1960 (pp 65-110) . Sulla condizione delle donne-etere
ad Atene vedi soprattutto: E. Will, C.MOSSÉ, P. GOUKOWSKY, Le monde grec et l’Orient, II, Le IV
siècke et l’époque hellénistique, Puf, Paris 1990 ; S.B.Pomeroy, Goddesses, Whores, Wives and
Slaves. Women in Classical antiquity, Schocken Books, New York 1975 (trad.in Donne in Atene e
Roma, Einaudi, Torino 1978; C. MOSSÉ, Splendeur et misère de la courtisane greque, in
« L’Histoire », LVI, 1979 ; N. LORAUX, Les enfants d’Athena. Idées athéniennes sur la citoyenneté et
la division des sexes, Seuil, Paris 1990 ; I. SAVALLI La donna nella società della Grecia antica,
Patron. Bologna 1983 ; E. CANTARELLA, L’amigiuo malanno. Condizione e immagine della donna
nell’antichità greca e romana., Ed.Riuniti, Roma 1985.
93 Del ferire
gioielli e le ancelle che erano stati acquistati per suo uso personale, sarebbero
stati restituiti a Frinione; Neera avrebbe dovuto vivere con ciascuno dei due per
due giorni ciascuno, salvo modifiche accettate dalle parti; lo sposo di turno
avrebbe provveduto al mantenimento della donna; infine, essi sarebbero stati
amici senza rancore alcuno.0
Nuovamente schiava (altro che libero disporre della propria persona)
ricomincia, per Neera, il “mestiere di cortigiana” tra lo sposo (ovviamente
illegittimo) Stefano ed il vecchio amante, nonché gli amici che avevano risolto la
causa (a cui si doveva pure certa riconoscenza…) Non sappiamo quanto durò
questo supplizio (i sentimenti della cortigiana non sono considerati e dunque
neppure riportati: un’etera non deve mica avere sentimenti), ma è certo che a un
bel momento finì. Inizia da qui il faticoso viavai di Stefano perché la si accettasse
come legittima moglie (ma una straniera, una concubina…) e perché Famo, la
seconda di quattro figli (in circa trent’anni di vita in comune) potesse essere
riconosciuta come ateniese e dunque sposarsi. Tralasciamo le traversie (due volte
ripudiata, già incinta, da uomini che pure si presero la sua bella dote dal padre),
vogliamo solo ricordare che, ad intralciare la “reintegrazione” della cortigiana e
dei suoi figli, fosse proprio la legge. Era infatti proibito dare in sposa ad un
ateniese una straniera o una nothe, figlia di unione illegittima: e Stefano,
infrangendo la legge, seppure ormai uomo ben in vista, si espose più volte
all’atimía (perdita dei diritti politici e confisca dei beni). Gli stratagemmi di
quest’uomo furono infiniti: dall’imboscata ad un vecchio amante di Neera nel
letto della figlia, perché poi potesse “riparare” (ma per una donna nata da
straniera non si poteva parlare di adulterio. Dunque nessun risarcimento) a
tentativi di “persuasione” su persone povere ma buone. Come fu con il secondo
marito di Fano, un brav’uomo che la sposò e la tenne con sé finché, ironia della
sorte, non fu estratto come basileus. La moglie del re di Atene, la basíllina,
doveva infatti presiedere ai riti sacri nel secondo giorno delle Antesterie…
Pensiamo alla faccia dei consiglieri dell’Areopago, preposti ad accertare la
dignità della sposa per l’alto ufficio, quando fu loro presentata la fanciulla, figlia
di una cortigiana, non riconosciuta come ateniese (nonostante gli sforzi di
Stefano), ripudiata già una volta (ed ora sarebbe seguita la seconda), con un figlio
illegittimo. Famo fu allontanata in privato, perché non avesse a soffrire di
scandalo la città. Infine (ma sono così rari i documenti che ci riportano la vita
reale delle cortigiane) abbiamo il processo intentato da Apollodoro contro
Stefano. Quest’ultimo aveva infatti attaccato la sua proposta (istigata da
Demostene) di far confluire il bilancio in eccedenza nell’esercito anziché nel
therikòn (indennità per agevolare la partecipazione popolare alle feste religiose).
Ed Apollodoro conclude la sua orazione (il cui unico merito è di averci riportato
l’identità di una donna, non la sua sublimazione), in questi termini: «Meglio
sarebbe stato che questo processo non avesse avuto luogo, piuttosto che vederlo
concludere con un proscioglimento, perché allora le prostitute avranno piena
0
Cfr. L. GERNET, Démosthène. Plaiodoyers civils, cit., , p 87.
94 Capitolo VI
libertà di sposare chi vorranno e di far passare i propri figli per quelli di
chiunque: le leggi non avranno più potere, le cortigiane saranno sovrane». 0 Ci
dispiace per chi avesse seguito fin qui questa storia, perché non sappiamo proprio
come andò a finire. Certamente anche Ermippo, quando accusò di empietà
Aspasia, intese colpire Pericle (Plutarco, Vita di Pericle,32,1), il tiranno
osteggiato dai comici ateniesi. Anche Aristofane ricorrerà all’etera Aspasia,
potente incantatrice, per screditare l’uomo che (secondo il topos della guerra
causata dalla donna) avrebbe organizzato la spedizione contro Samo ascoltando
le preghiere di colei che aveva «a cuore soprattutto l’interesse dei Milesi» (Vita
di Pericle, 24, 2; 25, 1).
Ma chi ci dice di più, su queste donne: i loro adulatori, che proiettano se
stessi in quei modelli femminili o chi condanna i governanti, accusandoli di
rapporti disdicevoli con le cortigiane? Come non accorgersi che, nella letteratura,
queste donne ricorrono funzionalmente come “finzioni” in grado di acconsentire
all’immaginario greco? Ma Aspasia, la donna reale, resta muta. E noi non
possiamo fare congetture storiche… Né seguiremo l’indicazione, spesso invece
accolta, dell’anonimo comico ateniese che, paragonando il sofista (nella
commedia Socrate è sempre sofista) all’hetàira, conclude così: «Entrambi
educhiamo i giovani! Perciò, mio caro, confronta Aspasia e Socrate: vedrai che
l’una ha come discepolo Pericle, l’altro Crizia.» 0 Ermippo è l’accusatore di
Aspasia come Aristofane lo è di Socrate (katègoros, Apologia, 18 b-c): se lei fu
un’etera sarebbe pur vero che Socrate fu sofista!
Il destino di Diotima, che indica il destino agli uomini, dovremo allora
scriverlo a partire da quello negato (illusione degli storici: il destino non si nega)
della donna-accanto a Socrate, l’uomo dal corpo di Sileno e dalla voce di cigno.
Infatti non può essere la meteca Aspasia la donna dell’incontro, la profetessa
che, nascosta nel tempio, interpella ed invita all’ascolto di sé, infondendo la
tragica nostalgia del ritorno. La cultura greca non concede dubbi: se lontana dal
sacro, la donna deve essere moglie o etera. Se è istruita, cortigiana o no, in
quanto donna è sempre esposta dalla società patriarcale: ogni sua parola non
potrà non avere «i sortilegi delle parole mielate»0 di Afrodite. Ma qual è il
destino di chi mette in campo il lógos per fuggire, come Atalanta, il matrimonio o
l’amore tanto caro, appunto, ad Afrodite?
Nelle Metamorfosi0 Ovidio ci offre una versione del mito di Adone che
capovolge l’identità “maschile” del cacciatore di animali «che si possono
catturare senza pericolo»0 in quella femminile della giovane che…rincorre gli
amanti. Proviamo a spiegarci: era stata Afrodite a consigliare al giovane
effeminato di inseguire solo le lepri, i cervi ed i daini (che nella mitologia
0
L. GERNET, op. cit., , p.109.
0
G. REALE (a cura di) Socratis et Socraticorum Reliquiae, Ed. …Napoli 1990, cit., I A 15.
0
ESCHILO, Prometeo,172.
0
OVIDIO, Metamorfosi, 10, 520-739.
0
OVIDIO, op. cit., , 537.
95 Del ferire
intestine, tra uomini, lotte di potere politico. Come l’infamia toccata a Pericle, nel
processo contro la donna amata accusata «di ricevere a casa sua donne libere
perché s’incontrino con Pericle.”0 identica a quella volta a Fidia, altro suo
protetto:“Si diceva che egli ricevesse per Pericle donne libere con le quali
quest’ultimo aveva appuntamento.»0Un processo che anche per Montuori 0 fu
l’espressione della reazione democratica ateniese alla “tendenza eversiva
d’ispirazione monarchico-tirannica” del governo di Pericle. Il grande oratore che
pianse disperatamente due volte: per l’accusa volta all’amata e perché fosse
rivisto il decreto, voluto da lui stesso alcuni anni prima, che non si desse
cittadinanza ai figli di una concubina (pallakè). Una legge (risalente al 451-50,
riportata da Aristotele nella sua opera La costituzione degli Ateniesi, 26,4) che si
trovò a dover infrangere, quando gli morirono i due figli legittimi e gli restò
soltanto Pericle il Giovane, nato dalla sua unione con Aspasia: «Sembra strano
che una legge […] potesse essere abolita dalla stessa persona che l’aveva
proposta. Ma la sventura che si era abbattuta allora sulla casa di Pericle […]
commosse gli ateniesi. Infatti sembrò loro che egli fosse vittima della Nemesi e
che la sua richiesta fosse umana, perciò gli permisero di iscrivere il figlio
illegittimo tra i membri della sua fratria e di dargli il suo nome.»0
Non sapremo mai i sentimenti di Aspasia, considerando che Plutarco fece
precedere a questo passo i sagaci commenti di Eupoli sul disonore di Pericle
davanti a colei che, ce l’aspettavamo, ora è chiamata porne (Vita di Pericle, 24,
10). Platone, che era stato capace di inventare un’àrchousa per indicare il
femminile di “arconte”, definisce Aspasia he didàskalos: un articolo femminile
per un sostantivo maschile. Essere maestra, in Grecia, è decisamente ben altra
cosa…E davvero il filosofo pare divertirsi con cinica ironia, attaccando un
fantasma (chi fu davvero Aspasia?) con dottrine non scritte! L’abile oratrice,
tanto sapiente da essere elogiata da Cicerone (De invenzione), colei che per
Filostrato aveva “raffinato” la lingua di Pericle, scrivendo con lui o per lui
l’Epitaffio per la “bella morte” dei soldati ateniesi nella guerra contro Samo. Lo
stesso autore che, ne Le vite dei sofisti, aveva distinto i caratteri della sofistica da
quelli delle altre scuole, tra il V ed il IV secolo, in questi termini:
Si deve considerare l’antica sofistica come una retorica filosofica: essa infatti tratta gli
stessi argomenti di cui discutono i filosofi, ma mentre quelli, facendo progredire a poco a
poco l’oggetto della loro ricerca per mezzo di minute integrazioni, affermano di non
avere raggiunto la conoscenza, l’antico sofista […] premette ai suoi discorsi espressioni
come “io so” oppure “io conosco” […] Un tal genere di preamboli manifesta la dignità
dei discorsi, un alto concetto di sé e una sicura comprensione della realtà. 0
0
Ibid., 32,1.
0
Ivi., 13,5.
0
M. MONTUORI, Di Aspasia Milesia,in AA. VV, Corolla Londiniensis,1, a cura di G.
GIANGRANDE, London Studies in Classical Philology,8, 1981, pp. 87-109.
0
PLUTARCO, Vita di Pericle, 37, 2, 5-6.
0
Flavio FILOSTRATO, Le vite dei sofisti (trad.di M.Prosdocimi, Bologna 1985).
99 Del ferire
Eppure Socrate amò davvero frequentare questa donna, che stimò tanto se,
persino a Callia (il figlio che la moglie legittima di Pericle ebbe dal primo
matrimonio) che gli chiedeva un buon maestro per suo figlio…gli indicò proprio
Aspasia. Furono soprattutto i suoi discepoli Antistene ed Eschine a parlarci di
questo rapporto ed a restituirci la natura del vero sentimento che la legò a Pericle.
Per cercare quel volto che davvero fu di donna, non di fantasma letterario
(l’etera, la maestra di retorica nell’opera più filosofica di Platone) che fa chiedere
a Nicole Loraux: «Dunque, Aspasia: privilegiata dalla Storia che nega la parola
agli anonimi? Forse, perché chi è che non conosce il nome di Aspasia? Ma, al di
là dello scandalo e del pettegolezzo, io vedo in colei che porta questo nome una
donna greca esemplare, alla fine sconosciuta tra i grandi uomini dei quali si
circondava.»0 Il nome (il destino) della donna Aspasia è da aspàzesthai, per
Antistene, perché Pericle non poteva non stringerla sé ogni volta che la vedeva.
Un amore che non gli fu mai perdonato dagli ateniesi, perché l’erotikè agàpesis
in Grecia non si addice ad un uomo. Non esistono eroi che muoiono per amore,
l’unica eccezione, Eracle, nelle Trachinie, è vittima dell’amore che Deianira ha
per lui e non per il suo desiderio di Iole. L’eroe non può morire per amore,
semmai per colpa. Ma la colpa di Pericle fu proprio quella di avere amato senza
misura, ripudiando una moglie aristocratica per vivere con una straniera dell’Asia
Minore. Con le cortigiane, solitamente, non si divideva il tetto perché era più
conveniente collocarle in un bel palazzo a parte dalla vita coniugale. Ma era
davvero un’etera l’intellettuale Aspasia? Per la morale greca questa struggente
tenerezza per l’amata è propria degli “effeminati” 0 : forse fu lui l’unico uomo a
stimarla per se stessa? L’opinione più diffusa è infatti che il primo oratore fosse
completamente infatuato della sophè kai politikè di Aspasia, altro che profumo da
pantera. L’identità di Aspasia è celata nello sforzo del lógos socratico nell’ora del
tramonto, quando nulla sembra più lontano dallo schema retorico dell’elogio
funebre. Rinvenire un corpo, un’immagine verosimile, come quella che la
raffigura all’Università di Atene, seduta accanto a Pericle, a metà tra Socrate e
Platone. Il miele: l’ambivalenza che vogliamo recuperare a dispetto
dell’ambiguità. Ma cos’è allora, tra le parole di Socrate nel Dialogo di Platone,
questa lode per il valore dei soldati morti, questa esortazione all’imitazione di
tale coraggio ed infine questa consolazione per le famiglie in lutto… Il
Menesseno: l’unico scritto non altamente filosofico di Platone o piuttosto il suo
consueto gioco letterario di furto delle parole altrui per capovolgerne (a sé) il
discorso? Davvero Aspasia gli fu maestra di retorica (come già per Socrate) per
la cui gratitudine, nel Menesseno, è autrice di quel bel discorso funebre che tanto
doveva piacergli da fargli esclamare: «In me questo sentimento di venerabilità
0
N. LORAUX, Aspasia, la straniera, in Grecia al femminile, tr. it., Laterza, Milano, 1993,
p.152.
0
Cfr. P. BRULÉ, Des femmes au miroir masculin, in Mélanges P.Léveque,2, Besancon-Paris
1989, pp 49-61.
100 Capitolo VI
dura più di tre giorni; e il flauto discorso e il tono di voce del dicitore penetrano
nei miei orecchi tanto che a fatica nel quarto o quinto giorno riesco a ricordarmi
di me stesso ed a sentirmi ancora sulla terra, poiché fino allora poco ci mancava
che m’immaginassi d’abitare nelle Isole dei Beati, tanto sono i nostri oratori!» 0
L’amore, nel Fedro, appartiene solo al pensiero (èros phronèseos) e contro
l’indifferenziazione di vita, anima e corpo dell’epitafio. Platone rinnega il sòma
ed oppone il philosophos al modello civico del philosòmatos. Lisia, Pericle,
Aspasia, tutti i migliori oratori ricordavano come gli ànthropoi avessero donato
“tutto” alla città, ma il corpo, lo si sapeva, era il debito contratto con la città
stessa. Cosa avevano davvero consegnato, di se stessi, che non avessero già
ricevuto in prestito dal principio? Riappropriandosi delle parole dell’orazione
funebre, nel Fedone, ci si allontana definitivamente dalla gloria in funzione
dell’immortalità dell’anima: il filosofo lascia andare volentieri ciò che è
allotrìous perché a lui resta il pensiero, la sua anima. E tutta la serie delle
“uscite”, nel carcere di Socrate, (quell’andare e ritornare dei personaggi che gli
“affollano” la cella) si offre come metafora di ripetuti addii al corpo.La “buona
speranza” (Fedone., 67e) per il viaggio nell’al di là, anticipato nella
comprensione catartica, pur non avendo nulla a che fare con l’epitaffio di
Aspasia, ne sottrae le parole chiave per smantellare la falsa immortalità civica.
Nella contrapposizione del philosophos al philosòmatos si rivendica al primo il
vero coraggio che non procede dalla paura, che non baratta (come quella civica
che è dalla parte del corpo) la vita con la gloria. Il filosofo non scambia (per
Platone il commercio è dei sofisti) ma purifica, e per nulla cede l’immortalità
dell’anima. E così lascia pure che i defunti ateniesi, per le parole di Aspasia («a
colei o a colui che te lo ha recitato», Menesseno, 249, d) rammentino ai genitori
in lacrime come essi siano invece fortunati, per aver ricevuto non figli immortali
ma virtuosi e gloriosi. «Il modo migliore perché noi siamo vinti e voi vinciate è
che cerchiate di non sciupare la fama […] Quanto ai nostri padri, se sono ancora
in vita, bisogna sempre far loro coraggio perché sopportino nel modo migliore la
sventura […] ma non unirci ai loro lamenti[…] sapendo che non con i pianti e
con i lamenti ci faranno cosa oltremodo grata […] mentre nulla ci farebbero di
più gradito che sopportare la sventura con rassegnazione e misura.»0
La scommessa morale sull’immortalità dell’anima fa vivere a Socrate una
morte degna degli eroi omerici: un confronto tra il Fedone (117b 3-5) e l’Iliade
(XIII, 278-286) ci restituisce i lineamenti impassibili dell’anèr che accetta il
destino tragico senza impallidire né provare alcun turbamento. E quando si
rivolge agli amici che piangono come donne (ma non dovrebbero!…non sono
filosofi?) le sue parole ricordano quelle degli opliti valorosi. Perché al lògos si
deve andare “da uomo coraggioso e con ardore”, combattendo come gli argonauti
fino alla “guerra di sterminio” (102-d-104b). Anche se Socrate non si attarda a
bere la cicuta per godere, un’ultima volta, dei piaceri del corpo (116 e, 81b), la
sua anima sostiene il lógos con una presenza fisica che non sfugge ai suoi amici,
0
PLATONE, Menesseno, 235, b-c.
0
Ivi, 247 a d; 248b-c.
101 Del ferire
che non smettono mai di osservarlo…Ed è in una pausa di silenzio che il filosofo
appare «tutto nell’argomento che era stato esposto »(84b-e): autòs ho Sokràtes,
lo stesso Socrate, Socrate in persona che ancora non è puro spirito. La
separazione dell’anima dal corpo (64e) avviene per passaggi che, nella mìmesis
del dialogo platonico, utilizzano proprio il vocabolario del corpo. E’ così che
Nicole Loraux definisce il Fedone un «un séma, una stele commemorativa per
questo corpo-toma che, per tutto il dialogo, è stato innanzitutto un corpo-
segno.»0Un intreccio già proposto nella morte metaforica, la mèlete thanatou,
quando «il corpo, separatosi dall’anima, si è isolato in se stesso e l’anima, dal
canto suo, separatasi dal corpo, si è isolata in se stessa» (64c). Il corpo si ritrae, si
isola e si distacca (e questo non è un parto?) esattamente come l’anima, che
impiega una fisicità dei movimenti per separarsi dal corpo.
Il “bandire” il corpo “usando” il corpo diviene un’educazione dei sensi alla
rovescia, ove si insegna a disfarsi dei sensi perché l’anima possa restare tutta
concentrata in sé. E che dire della morte “non metaforica”? Intanto che il lógos
socratico, prima del tramonto, rivela l’urgenza di tale “paradossale” educazione
mostrando come anche il corpo…si opponga con tutte le forze a lasciarsi mandar
via. Sorridendo alla métis platonica della sua ben nota strategia letteraria
(contenuti nuovi in un linguaggio tradizionale), l’autrice rinviene, per la
dimostrazione dell’eternità dell’anima, l’impiego strumentale del corpo
memorabile da Sileno. La gestualità di Socrate, oltre alle sue parole, in quelle
ultime ore sembra dirla lunga sulla “potenza” della corporeità che eroicamente
“resiste”: sedersi (come i condannati a morte ma pure come gli iniziati orfici),
ripiegarsi su se stesso, appoggiare le gambe al suolo ed iniziare la riflessione sui
contrari dall’indolenzimento della gamba. Ciò che viene “messo in scena” è una
lotta tra corpo ed anima entro un lógos che deve salvare l’immortalità
(traslitterando l’elogio funebre) facendoci credere che di nascita si possa farne a
meno…Eppure la testimonianza più forte, per i discepoli e per noi che leggiamo
la “stele funebre” del Fedone (composta, in anticipo, da colui che sopravviverà
alla propria morte), è quel corpo prima straziato nella lotta, quindi pietrificato dal
testo platonico. Come nel Simposio la bruttezza di Sileno rivendicava la bellezza
dell’anima così qui, alla fine, ci chiediamo quanto sarebbero state meno efficaci
le sue parole, senza quello scrivere sulla gestualità. Quel corpo che lo fece
“prossimo” ad Aspasia, come ai suoi discepoli…Senza questo riferimento si
perderebbe nell’evanescenza mitica il viaggio dell’uomo verso l’Ade, né si
potrebbe conservare oltre la morte il valore di ciò che resta, di quel sé in quanto
spirito. Il significato di un lógos, che è già rito funebre, come evoluzione del
prendere sul serio il proprio destino rivelato a Delfi. Quando se ne scese giù da
solo, dopo l’incontro, meditando di adempiere fino alla fine quel voto d’essere
ciò che doveva essere in quanto uomo, lasciandosi dietro le spalle il Tempio.
0
N. LORAUX, Il femminile e l’uomo greco,cit., , p.174.
CAPITOLO VII
0
R. GUARDINI, La morte di Socrate nei Dialoghi di Platone, tr. it., Ed. Morcelliana, Brescia
1987, p.210.
0
Ivi, p. 211.
davvero sul serio (il destino dell’eterno a partire dalla moralità
nella temporalità) ove l’hybris cede il posto all’umiltà: l’anima
non può essere senza origine perché l’anima non è Dio. Eppure
qualche maglia sfilata nella tradizione greca può restituirci
l’originario timore della morte dietro l’imperturbabile rimozione
del corpo (ovvero della sua temporalità). Rifletteremo sul
significato della gestualità del Sileno-Socrate nelle ore che
precedono il tramonto (oltre la mimesis del linguaggio materno
della filosofia platonica) e qui vi ritroveremo la lotta e la
resistenza con e del corpo. La stessa superiorità dell’idea del
Bene reclama, poi, una valorizzazione dell’esistenza (pure entro
l’indifferenza per la nascita e la morte) nella misura in cui la vita
nelle Isole dei Beati dipende dalla condotta su questa terra. E non
solo per il carattere erotico del desiderio dell’amante ma, come
ricorda Fedro nel Simposio (180a), per l’affetto che spinge
l’amato ad accettare la morte per l’amante. Come Achille che
rinuncia, per Patroclo, alla propria vita scegliendo non solo di
morire per lui ma di morire dopo di lui già morto. La virtù
d’amore salva dalla morte: gli dèi gli regaleranno la vita nel
luogo più delizioso dell’Ade; per Alcesti, poi, ne spalancheranno
le porte perché l’anima, riscattata dall’amore, viva anche per
l’amore. L’attenzione, nel dialogo socratico, più volta al soggetto
che all’oggetto della discussione, mostra tutta la sua valenza
morale. Ogni argomento, infatti, sembra buono purché per esso
si giunga a rendere conto di sé, risvegliando la coscienza: «Io
non vedo nessun male nel fatto che mi si ricordi che ho agito o
che agisco in una maniera che non è buona. Colui che non lo
evita sarà necessariamente più prudente per il resto della vita». 0
Solo chi si ascolta (e Socrate ha imparato a farlo per rivelazione
divina, da Apollo, a Delfi), può coltivare uno stile religioso di
vita, pur suscitando qualche perplessità quando va a infilarsi nei
vestiboli delle case altrui o se ne resta in piedi un giorno e una
notte, in piena battaglia (Simposio). È da tale solitudine che si
può infatti risalire alla via dell’incontro, entro un esercizio
dialogico che approda alla confessione dell’ostinazione di non
voler essere ciò che pure siamo chiamati a essere. Come
l’ammissione di Alcibiade, costretto a prendersi cura di sé una
volta che ha riconosciuto la propria omissione: «Socrate mi
costringe a confessare a me stesso che, mentre sono così carente
per tanti punti, persisto a non curarmi di me stesso».0
Nel rimuovere il timore della morte nella negazione della
nascita (dunque anche nella rimozione del corpo e in particolare
0
PLATONE, Lachete, 187 e - 188 b.
0
ID., Simposio,216 a.
105 Mnemosinya nascita acquatica
morte da un’anima che già ne aveva pregustato la dolcezza nella vita ascetica e
speculativa. Possiamo riconoscere nella lettura femminile secondo l’ordine
dell’essere, per la prima volta espresso in un logos vissuto accanto agli uomini, la
ricomposizione simbolica del dualismo interno all’uomo. Perché il segno del
dolore umano, che ogni scissione comporta, si configura sempre in una sorta di
mancanza di ordine, di unità tra sé e sé e tra sé e il mondo. Il logos si offre, già
qui, come una nuova e peculiare forma di rituale funebre volta a riunificare l’io
con il proprio nome, ovvero con la parola che lo esprime.
Nelle pitagoriche il logos, nella forma metaforica del telaio, propone la
valorizzazione dell’individuato: il figlio riceve ufficialmente l’identità dalla
donna-madre che gli tesse l’abito (il vestito come riconoscimento di un ruolo-
identità sociale). Preparare anzitempo il corredino per il piccolo è iniziarlo ad
avere un pieno inserimento nel mondo; d’altro canto pure il telo che avvolge nel
sudario un defunto è cura, amore e custodia per un corpo individuato. E a tesserlo
sono ancora le donne che iniziano con il lenzuolo l’ingresso dell’uomo nella
nuova e definitiva vita: il parto simbolico di ogni figlio messo al mondo come
colui che deve, per necessità ontologica, passare in altro mondo. Nel silenzio e
nella solitudine (siamo già nel raccoglimento filosofico-religioso, orfico e
pitagorico) delle sue stanze (quelle della tessitura anima/corpo di un proprio
linguaggio femminile) queste non indossano le <vesti bianchissime> dell’anima
che fugge (come nel frammento di Euripide) ma quelle scure del mistero della
mortalità umana.
Alcune pitagoriche, soprattutto Miia e Aresa di Lucania,
oltrepassando il significato negativo del dualismo sofferto entro
la persona approdarono, poi, a una nuova ermeneutica del
soffrire. L’accettazione della scissione, quale dimensione
originaria dell’essere dell’uomo, si tradusse in un impegno etico
a vivere secondo valori educando alla verità. Umiltà e pensiero
dell’umiltà che dislocò l’eros filosofico in accoglienza materna
delle ceneri titaniche: questa la verità riconosciuta nell’interiorità
e condivisa nelle loro relazioni epistolari. La valorizzazione del
corpo come grembo materno, custodia dell’essere divino, le
spinse a ritradurre il concetto di “armonia” quale prima “virtù
femminile” del vivere secondo “giustizia” e “temperanza” nella
dimensione privata della famiglia.
Fu soprattutto Miia (le fonti la indicano come figlia o
sorella di Pitagora) a valorizzare la tensione (un tendere-a simile
a quello catartico-filosofico) all’armonia entro la cura domestica.
Traendo dal pitagorismo la concezione ontico-cosmologica
dell’unità, la ritradusse nel rapporto con la servitù (novità
assoluta, per i tempi), nella sobrietà dell’abbigliamento (contro
certa frivolezza socialmente intesa quale cifra del femminile) e
nell’educazione dei figli. La cura per la persona, per la sua
107 Mnemosinya nascita acquatica
Coraggio reale significa sapere che si è collocati in un posto […] Il compito di esistere
può farsi molto difficile. C’è la rivolta contro il dover essere se stessi: perché mai devo?
Ho forse chiesto d’essere? […] Così l’atto dell’essere se stessi alla sua radice diviene
ascesi: debbo rinunciare al desiderio d’essere altrimenti da come sono o addirittura un
altro da quello che sono […] debbo riconoscere i miei limiti e rispettarli. Ciò non
significa rinunzia alla tensione verso l’alto. Questa mi è permessa e doverosa; ma lungo
la linea di quanto m’è assegnato.0
0
R. GUARDINI, Die Annahme seiner selbst. Den Menschen erkennt nur, wer von Gott weib,
1987 (trad.it.in R. Guardini, Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, cit., p.17).
0
Ivi., cit., p. 14.
0
Ivi., cit., pp. 15-16 (sottolineatura nostra).
109 Mnemosinya nascita acquatica
I misteri di Dioniso sono difatti assolutamente inumani. Intorno a lui ancora fanciullo si
agitano in una danza armata i Cureti , ma i Titani si insinuano con l’astuzia: dopo di
averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi, ecco che questi Titani lo sbranarono,
sebbene fosse ancora un bambino0
0
CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrettico 2, 17 (cfr. Giorgio Colli, La sapienza greca, vol.I, ,
Adelphi, Milano 1977, cit., p.245).
111 Mnemosinya nascita acquatica
I Titani, che appunto lo avevano sbranato, dopo di aver posto un labete su un tripode e di
avervi gettato dentro le membra di Dioniso, dapprima lo fecero bollire e in seguito,
infilzatele in piccoli spiedi, le “tennero sopra Efesto”. E infine Zeus , mostratosi…rovina
con la folgore i Titani e affida le membra di Dioniso al figlio Apollo, perché lo
seppellisca. E costui certo non disubbidì a Zeus: portando il cadavere sbranato sul
Parnaso, gli dà sepoltura.0
0
Ibid.,2,18 (cfr. p.247).
112 Capitolo VII
pensare che il divino è amabile pure se non ama l’uomo: chi può realmente ardire
a tanto? E come si può amare, poi, ciò che non si possiede se non nella forma del
possesso, l’unico che è giustificabile solo entro il sentimento impetuoso di chi
desidera? Soltanto in un innamorato tale hybris la si può concedere, salvo poi
voler amare chi si autogiustifica nella forma della dialettica erotica del logos. Il
desiderio di possesso misconosce l’ascolto, in sé e nell’altro, del dolore non
risolvibile per la scissione -mancanza di ordine- che ci fa figli; né accompagna
questi figli nell’urna né vuole ascoltare il lamento delle madri in lutto, ai piedi
dei sepolcri. In quel ruotare tutt’attorno a sé e al proprio desiderio d’immortalità
(quella che, da madre, non abbiamo ricevuto perché la madre mette al mondo
figli mortali, come la povera madre di Eros che, pure tra qualche astuzia, non può
generare un Dio) si realizza una profonda fuga dal mondo. Ancora un riferimento
a Guardini:
I primi uomini non accettarono se stessi nell’ora in cui furono messi alla prova, vollero
invece essere ciò che eternamente non potevano essere. Non vollero esser immagine ma
archetipo; non creati e dati da Dio, ma di se stessi. Però l’effetto fu che entrarono in
disaccordo con la loro essenza, perdendo attraverso di ciò la conoscenza di se stessi. Il
loro essere dimenticò il proprio nome. D’allora in poi il nome e l’essere andarono l’uno in
cerca dell’altro senza più trovarsi.0
L’eros, pure come dialettica del logos, non conosce la parola che ricompone
l’unità, perché tale parola non è desiderio ma amore. La riflessione sulla cenere
di un grembo materno che partorisce cenere, però, aveva già inaugurato una
salutare provocazione…peccato che la storia l’abbia rimossa. Ripensando al mito
orfico di Dioniso-Zagreo, poi, possiamo comprendere quanto, nel silenzio in cui
fu confinato quell’umile carteggio di donne, abbiamo perso della pace d’essere
figli. Il mito ci ‘dice’ (lo può dire entro la dimensione materna) che non c’è nulla
di male nel non essere padri o madri del mondo: Dioniso stesso, e pure Apollo,
sono figli. La ‘colpa’ (possiamo dire che sta nell’aver ucciso un bambino anziché
un dio immortale? tanto per ritornare nell’ordine del mistero delle cose
veramente umane, quelle da cui sorge la bella filosofia) è espiata nella nascita
del figlio. Come prole dei Titani, infatti, non siamo già il nuovo inaugurato
sull’antico ordine del crimine dell’hybris? Perché non accoglierci così come
siamo (l’accettare se stessi dell’ethos materno) senza, di nuovo, voler essere ciò
che non siamo, ovvero dèi? Le pitagoriche scrissero sull’educazione dei figli
perché in questi riconobbero, dobbiamo pur pensarlo, non la punizione ma il
dono per una colpa espiata. Pure se lontani dalla rivelazione cristiana di un Dio
Amore, che viene a servirci come figli, antropologicamente qui si inaugura un
pensiero differente dall’eros (che desidera il sublime per sé ) nell’amore materno
che vuole il figlio in quanto figlio.
Aresa di Lucania nel suo Libro sulla natura umana (circa cinquanta righe in
0
R. GUARDINI, op.cit., , p.30.
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