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CANTO XV PARADISO

L’incontro con Cacciaguida e la missione di Dante


Il dialogo con l’avo Cacciaguida è preparato da una attesa trepidante. I beati, che nel cielo di Marte raffi
gurano una croce, interrompono la danza e il canto melodioso di lode per invogliare il pellegrino a pregarli.
Nella pausa di silenzio, il poeta vede una delle luci splendenti scendere velocemente ai piedi della croce e
rivolgersi a lui con tono particolarmente aff ettuoso, rivelandogli di aver atteso da molto tempo il suo
predestinato arrivo (vv. 49-54).
Dante come Enea e san Paolo
Sorge così con naturalezza la similitudine con l’ombra di Anchise quando si mosse incontro ad Enea, giunto
a visitarlo nei Campi Elisi. Sia nel poema virgiliano sia in quello dantesco, durante il colloquio con un
antenato viene rivelata ai pellegrini una missione: Enea ascolta dal padre la profezia sulle soff erenze da aff
rontare prima di porre le fondamenta di quella che diventerà Roma e Dante riceve dal proprio capostipite la
consacrazione del destino assegnatogli da Dio di riscatto spirituale per l’umanità intera. La grandezza
dell’evento è sottolineata anche dall’espressione latina (sanguis meus, v. 28), che ripete quella rivolta da
Anchise a Enea e conferisce ai versi una tonalità epico-sacra. Nelle successive parole in latino pronunciate
dal trisavolo c’è un implicito riferimento a san Paolo, rapito al terzo cielo per ricevere forza nella sua opera
di diff usione della fede tra le genti: allo stesso modo Dante ha il privilegio di vedersi aprire due volte la
porta del cielo (sicut tibi cui / bis unquam celi ianüa reclusa, vv. 29-30), attingendo la certezza del suo
futuro e la conferma della missione di un rinnovamento morale affi datogli dalla Provvidenza.
Il modello storico-morale della Firenze antica
Ma per questo compito occorre un esempio storico che diventi modello per gli uomini ed emblema del
mondo: il passato di Firenze dentro la cerchia delle antiche mura, fondata su valori che investono il ruolo
della famiglia e della donna, la vita civile, politica e morale (vv. 31-148): sobrietà, misura, pace, in cui si
custodivano l’onestà, l’eroismo e le virtù antiche della cavalleria. L’idealizzazione della Firenze in pace
sobria e pudica (v. 99) si accompagna al contromodello della Firenze trecentesca, del tempo di Dante,
moderna e corrotta, desolata immagine di decadimento e rovina dove la cupidigia disgrega l’unità familiare,
allontana dai doveri e diff onde disordine e sopraff azione (Non era vinto ancora Montemalo / dal vostro
Uccellatoio, che, com’è vinto / nel montar sù, così sarà nel calo; vv. 109-111). Secondo il poeta la smania
mercantile di guadagno maturata nel corso del Duecento ha corrotto i costumi, la civiltà comunale e la
mancata concordia tra Chiesa e Impero hanno distrutto l’unità politica. Ma il passato non è
irrimediabilmente perduto, anzi Dante lo propone come esempio recuperabile per un futuro di pace,
attraverso una riforma morale e politica. Investito da Dio, il poeta è portavoce di un messaggio di
redenzione e di riscatto dalla degenerazione attuale e del bisogno di ancorare la società ai valori eterni
dell’uomo.
L’exemplum cristiano di Cacciaguida
Il modello positivo della Firenze onesta e austera è il presupposto della vita stessa di Cacciaguida, che
incarna la fi gura del perfetto cristiano: nasce mentre la madre invocava la Madonna, diventa cavaliere,
muore in battaglia per la difesa della fede durante la seconda crociata in Terra Santa, al seguito
dell’imperatore Corrado III di Svevia, approda alla beatitudine dei cieli come un martire cristiano (e venni
dal martiro a questa pace, v. 148). In defi nitiva la sua condotta di vita è exemplum universale di valori
familiari, religiosi e politici vissuti con semplice eroismo.
Varietà linguistica e similitudini
La varietà dei registri lessicali, dalle citazioni latine (vv. 28-30) alla lingua sublime e divina (vv. 37-42), al
linguaggio dotto della teologia (vv. 55-60), ai termini domestici e quotidiani (vv. 97-126), conferiscono al
canto una particolare originalità. Le similitudini astronomiche e delle pietre preziose indicano i beati e gli
astri celesti. In particolare, attraverso una doppia similitudine (vv. 13–24), Dante unisce umano e divino,
sottolineando da un lato la carità collettiva dei beati, in sintonia con la volontà di Dio, dall’altra l’amore con
cui il trisavolo lo sta accogliendo.
COMMENTO AL CANTO XV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"
(Benigna volontade in che si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quietar le sante corde,

che la destra del cielo allenta e tira.)


Il canto XV inizia coi beati del cielo di Marte che smettono di cantare. La volontà del bene in cui si
manifesta (liqua deriva dal latino liquat, che significa "manifestarsi") l'amore ispirato dalla legge
divina, così come nel falso amore (cupidità) si manifesta la volontà di fare il male, impone che si
fermi il canto dei beati ("silenzio puose a quella dolce lira") e pone fine a quella musica suonata
direttamente dalla volontà di Dio (la destra del cielo); Dante trasforma con la metafora le anime
cantanti nelle corde suonate dal musicista, che è Dio. Visto questo spettacolo, l'autore attraverso
una domanda fa capire che delle anime così pie da interrompere l'eterno canto solo per farlo
parlare non possono essere sorde alle preghiere dei mortali ("Come saranno a' giusti prieghi sorde
/ quelle sustanze che, per darmi voglia / ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?"), poi afferma che
merita le pene eterne chi si priva dell'amore divino per inseguire i beni terreni ("Bene è che sanza
termine si doglia / chi, per amor di cosa che non duri, / eternalmente quello amor si spoglia"). 
A un certo punto, una delle anime si muove dal braccio destro e scende ai piedi della croce,
apparendo come la stella cadente che nella notte tersa sorprende l'osservatore e gli fa credere che
un astro si sia spostato, solo che niente si è mosso dal punto in cui è apparsa e poi la luce
sparisce in un attimo. L'anima (la gemma) nel suo tragitto non si stacca dal disegno della croce
(dal suo nastro), ma seguendolo si avvicina a Dante, sembrandogli come il fuoco dietro l'alabastro;
il suo movimento richiama alla mente del poeta l'episodio narrato da Virgilio (nostra maggior musa)
nell'Eneide in cui Anchise corre incontro al figlio Enea nei Campi Elisi. 
L'anima avvicinatasi a Dante gli si rivolge in latino, lo chiama "sangue mio" e accenna, oltre che al
suo viaggio nell'aldilà, anche a quello di san Paolo. Dante guarda prima il beato e poi Beatrice,
venendo stupefatto sia dalle parole del primo che dal sorriso ardente negli occhi della donna.
Vedendo gli occhi di Beatrice, il poeta si sente come se avesse toccato l'apice della grazia e della
beatitudine ("Così quel lume; ond' io m'attesi a lui; / poscia rivolsi a la mia donna il viso, / e quinci e
quindi stupefatto fui; / ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch'io pensai co' miei toccar lo
fondo / de la mia grazia e del mio paradiso"). Pieno di gioia, lo spirito dice delle cose che Dante
non riesce a capire; tale discorso è oscuro non per volontà di chi parla, ma perché esprime verità
non comprensibili dall'intelletto umano. Quando l'ardore della carità ha effuso gli alti concetti che
aveva bisogno di esprimere (quando l'arco de l'ardente affetto fu sì sfocato), il poeta inizia a capire
ciò che lo spirito dice; la prima cosa che intende è una lode alla Trinità, che è stata così benevola
nei confronti della sua progenie. Terminata la sua lode, lo spirito si rivolge al poeta e gli rivela di
essere felice che finalmente si sia compiuto ciò che aveva letto nel grande volume dove nulla si
aggiunge e nulla si cancella (metafora del futuro letto attraverso la volontà divina), cioè che lui sia
giunto lì grazie all'aiuto di Beatrice (colei ch'a l'alto volo ti vestì le piume); detto questo, pur
sapendo ciò che Dante pensa (perché le anime, vedendo in Dio, vedono i pensieri)  e consapevole
che egli non chieda perché consapevole di questa proprietà dei beati, lo invita comunque a
chiedergli come mai sia più felice di vederlo rispetto alle altre anime di quel cielo, così sara meglio
adempiuta la volontà divina, e gli spiega infine che la sua risposta è già preordinata (decreta). 
Dante si gira verso Beatrice e questa con un sorriso mette le ali alla sua volontà, cioè lo spinge a
manifestare apertamente la propria curiosità. Il poeta esordisce ricordando allo spirito che, mentre
per loro beati la capacità di comprendere è uguale perché vedono in Dio, lui è un mortale e per
l'imperfezione del suo intelletto non può capire allo stesso modo, perciò lo ringrazia di cuore per la
festosa accoglienza e lo supplica, rivolgendosi a lui come vivo topazio che questa gioia preziosa
ingemmi, di rivelargli la sua identità. 
Lo spirito, che dichiara di essersi compiaciuto anche solo aspettandolo, gli rivela di essere il
capostipite della sua famiglia, poi gli dice che Alighiero, colui da cui la famiglia ha preso il nome, è
suo figlio e bisnonno di Dante, e gira da più di cent'anni nella prima cornice del Purgatorio; dettogli
ciò, lo esorta a pregare per Alighiero così da accorciargli il cammino verso il Paradiso ("...Quel da
cui si dice / tua cognazione e che cent'anni e piùe / girato ha 'l monte in a prima cornice, / mio figlio
fu e tuo bisavol fue: / ben si convien che la lunga fatica / tu li raccorci con l'opere tue ").
Dopo essersi presentato, l'antenato di Dante inizia il racconto della sua vita intrecciandolo con
quella della Firenze antica, dando così modo al poeta di manifestare attraverso le sue parole la
nostalgia per i tempi che furono. Ai suoi tempi Firenze si estendeva ancora tutta all'interno della
sua cinta muraria, dove la chiesa di Badia scandiva le ore per l'osservanza delle preghiere, ed era
pacifica, sobria e pudica; non c'erano catenelle, diademi (corona), né gonne lavorate con fregi
ricamati, né cinture più preziose e appariscenti di chi le indossava (il succo è: il lusso non era
ancora penetrato in città); le figlie alla nascita non davano angoscia ai padri, essendo che ai tempi
si sposavano all'età e con la dote giusta; non c'erano case quasi disabitate (non c'era lusso, le
case non erano enormi) e non erano ancora in voga i costumi perversi in camera da letto (lo spirito
evoca Sardanapalo, penultimo re assiro divenuto proverbiale per la sua lussuria); Montemario non
era ancora superato in bellezza dall'Uccellatoio, quindi la grandezza di Firenze non aveva ancora
oscurato Roma per poi, così rapidamente come l'aveva superata, crollare; Bellincione Berti,
appartenente a una famiglia molto nobile, andava in giro vestito senza ricercatezze, con una
cintura di cuoio dalla fibia d'osso, e sua moglie non girava truccata, così come altre famiglie
importanti, i Nerli e i Vecchietti, si accontentavano di vestire semplicemente con pelli mentre le loro
mogli provvedevano a filare la lana. Fortunate erano quelle donne, che vivevano sicure del loro
destino e senza essere abbandonate dai mariti, fuggiti a cercare maggiori ricchezze col commercio
in Francia; una faceva addormentare il figlio nella culla, usando il linguaggio infantile che diverte i
padri e le madri, un'altra raccontava alla sua famiglia le gesta dei Troiani, di Fiesole e di Roma.
Persone malvagie come Cianghella della Tosa (donna lasciva e sfrontata) e Lapo Saltarello
(giudice avvezzo al lusso e ai vizi, esiliato per baratteria) allora avrebbero destato stupore così
come nella Firenze contemporanea lo susciterebbero persone virtuose come Lucio Quinzio
Cincinnato (dittatore romano) e Cornelia (madre dei Gracchi). In una comunità così pacifica e
virtuosa, sua madre lo mise al mondo invocando nel travaglio il nome di Maria, poi nell'antico
battistero di San Giovanni fu battezzato e chiamato Cacciaguida. Ebbe come fratelli Moronto ed
Eliseo, sua moglie venne dalla Valpadana e da lei ebbe origine il cognome di Dante. Cacciaguida
infine racconta che seguì l'imperatore Corrado III di Svevia alla seconda crociata e per il suo
corretto agire fu fatto cavaliere; andò a combattere contro l'Islam, il cui popolo (i Saraceni) usurpa i
territori in Terrasanta (la seconda crociata fu causata dalla caduta del principato di Edessa) a
causa dei papi che li trascurano, e dai Saraceni fu liberato dalla sua vita terrena, per amore della
quale molte anime si rovinano, e salì alla pace del Paradiso.
Questo canto ha come scopo quello di introdurre la figura di Cacciaguida, che sarà centrale nei
canti seguenti. In questi versi Cacciaguida è stato usato dall'autore per rievocare la bellezza della
Firenze del passato, virtuosa e priva dei malcostumi contemporanei.
Dell'avo di Dante le notizie biografiche si limitano a quelle che il poeta riporta nella Commedia.  

Paradiso canto 15 Analisi e Commento


Analisi del canto

-I canti di Cacciaguida
È il primo «atto» di un'unica sequenza lirico-narrativa, nota come «i canti di Cacciaguida», che
comprende i canti xv, xvi e xvii (con un'appendice ai primi 51 versi del canto xviii). Si tratta di
uno dei passaggi cruciali del poema, ed è significativo il fatto che occupi esattamente la parte
centrale della cantica. Il tema fondamentale è quello del significato provvidenziale del destino
di Dante; e la sua vicenda personale viene posta in rilievo sullo sfondo storico-morale di
Firenze antica. Il «trittico» di Cacciaguida è così strutturato: canto xv, incontro di Dante con il
suo illustre progenitore, descrizione morale dell'antica Firenze e definizione genealogica della
famiglia Alighieri; canto xvi, descrizione storica dell'antica Firenze; canto xvii, rivelazione del
destino di esilio di Dante, e sua investitura a cantore della verità per la missione riformatrice
cui vuole dedicarsi con la sua opera.
-Le costanti strutturali
Riconosciamo nel canto alcuni elementi costanti nella costruzione narrativa e poetica del
Paradiso:
1. modalità di apparizione delle anime del cielo di Marte, con la danza, il coro e la
concorde volontà dei beati (vv. 16); 
2. i beati leggono in Dio il pensiero di Dante (vv. 28-48); 
3. l'invito di Cacciaguida a Dante a esprimere i propri desideri, e l'assenso di Beatrice (vv.
64-72).
-L'incontro con Cacciaguida
La sacralità, l'importanza e l'emozione dell'incontro del poeta con il progenitore Cacciaguida
sono rilevabili dai molti elementi che ne caratterizzano la preparazione e le prime battute:
l'ambientazione che prepara al riconoscimento, con lo sfolgorare della croce di Marte (e su di
essa la figura di Cristo) e con il sospeso silenzio che accompagna l'avvicinarsi della luce dell'avo
ai piedi della croce (vv. 124); l'analogia con l'incontro tra Enea e il padre Anchise (vv. 25-27);
l'altezza del linguaggio, necessaria per esprimere la tensione del momento, con l'esordio in
latino (vv. 28-30) e quindi con parole tanto ineffabili da risultare incomprensibili all'umano
Dante (vv. 37-42); la lunga attesa di Cacciaguida per il predestinato viaggio di Dante (vv. 49-
54); le espressioni ardenti e insieme rispettose che i due personaggi si scambiano (vv. 3787).
-Il tema politico-morale
La celeberrima rievocazione della Firenze sobria e pudica dei tempi antichi (vv. 97-129), che
proseguirà nel canto xvi, è l'esemplificazione più alta dell'ideale vita civile per il poeta, quella
per cui si parla della sua utopia rivolta al passato: un passato in cui la concordia fra Chiesa e
Impero permetteva una vita semplice e raccolta delle varie comunità, in cui si preservavano i
valori della tradizione, dell'onestà, della morigeratezza, e in cui si conservavano le virtù antiche
della cavalleria. La lode della Firenze antica evoca immediatamente il confronto con il
presente, e provoca la polemica morale e politica contro la Firenze attuale, moderna e corrotta.
Il passato celebrato da Cacciaguida non ha però solo i connotati della nostalgia per
l'irrimediabilmente perduto, bensì si propone come modello ancora recuperabile di società.
-Il tema autobiografico
Più che in ogni altro momento del poema, i canti di Cacciaguida sono quelli in cui il tema
autobiografico diventa reale protagonista della poesia e della vicenda. A conferirgli alta dignità
è la figura eroica di Cacciaguida, cui Dante affida la nobilitazione della propria ascendenza
familiare: l'uno è radice di quella «pianta», cioè la discendenza, di cui Dante è la fronda
prediletta (vv. 88-90); quindi, il lungo digiuno, cioè la lunga attesa di Cacciaguida, enfatizza
l'eccezionalità e provvidenzialità della venuta di Dante in Paradiso (vv. 49-54); e ancora, tutta
la rievocazione della Firenze antica e il confronto con l'attualità ci collocano all'interno del
mondo ideale e reale dell'esperienza civile di Dante, cui non è estranea la nostalgia dell'esiliato
(vv. 97-129); infine, proprio in questo canto, abbiamo la dichiarazione della genealogia del
poeta (vv. 89-96 e 130-148). Si prepara in questo modo il momento culmine
dell'autobiografismo dantesco: annunciato fin dal primo canto dell'Inferno, nel canto xvii verrà
esplicitamente dichiarato il suo futuro esilio.
-I registri linguistici: dal sublime al domestico
La magia di questo canto si riflette nell'estrema varietà dei registri lessicali impiegati, che si
fondono senza contrasti. Si passa dai toni rarefatti di una lingua divina e sublime,
incomprensibile all'uomo (vv. 37-42), alla citazione latina (vv. 28-30) e alla dotta formulazione
teologica (vv. 55-60), per arrivare al linguaggio domestico e tecnico del quotidiano (vv. 97
sgg.). Dal punto di vista espressivo, potremmo suddividere il canto in due parti: la prima
caratterizzata da un prodotto linguistico più alto e dotto (vv. 1-96); la seconda costruita con il
lessico e la retorica della domesticità e dell'epica arcaica (vv. 97-148).
-Le costanti formali
La similitudine astronomico-paesaggistica (vv. 13-21); la metafora delle pietre preziose per
indicare i beati e gli astri celesti (vv. 85-87).
-Commento
La radice e la fronda
Il canto XV ha due centri poetici: l'incontro di Dante con il trisavolo Cacciaguida e l'invettiva
contro la Firenze contemporanea al poeta, contrapposta alla Firenze sobria e pudica del
passato. Il primo tema è svolto in uno sfavillare di luce, in un continuo di metafore, di
dichiarazioni iperboliche. Si tratta di un momento particolare del percorso di Dante, di una
situazione che ha il carattere dell'eccezionalità, di frasi dette e fatte intuire, di realtà che
continuamente si confondono e rimandano ad altro. Al di sotto dei versi si coglie una grande
emozione: c'è il piacere di Dante di conoscere la propria radice, l'orgoglio di discendere da un
antenato illustre, la consapevolezza del proprio valore, la forza di chi non si arrende alle
circostanze ma lotta con l'unica arma di cui dispone: la poesia. È un momento di profonda
riconciliazione con se stesso e col mondo: ora Dante riesce a conoscere il padre da sempre
desiderato e riceve l'investitura della sua missione di salvezza. Il riso di Beatrice, così
traboccante d'amore, crea un'atmosfera di ardente scambio affettivo, che suggella la
conquistata pienezza interiore. Sfilano, nel ricordo di Cacciaguida, gli antenati di Dante; solo
l'accenno all'avo Alighiero, che vaga per il girone dei superbi, introduce una nota di riflessione
autobiografica: la superbia è forse un marchio di famiglia dal quale anche il poeta non è esente.
È così che Cacciaguida lo invita paternamente a pregare per Alighiero, perché possa accorciare
il tempo dell'espiazione in Purgatorio. In un momento di alta commozione fronda (Dante) e
radice (Cacciaguida) si incontrano nella realtà suggestiva della luce del Paradiso, in un
abbraccio di Spiriti Magni che consegnano ai posteri un messaggio di eternità. Poi, d'un tratto,
l'atmosfera allusiva e accattivante nella quale Dante e Cacciaguida si sono confusi nella
comunanza di valori e del destino di salvazione, si perde nella concreta e realistica descrizione
della Firenze del buon tempo antico. Cacciaguida s'abbandona ai ricordi, e la sua rievocazione
ha il sapore caustico di un'invettiva contro la corruzione presente. La descrizione si addentra
nei particolari minuti dell'abbigliamento femminile, nella denuncia dei matrimoni d'interesse,
della lussuria e dell'ostentazione del denaro, in cui s'intravede un presagio di morte. Ecco gli
abitanti della Firenze di un tempo: forse un po' rudi ma autentici, sinceri, buoni mariti e buoni
padri. Ecco le donne, contente di un vivere semplice e casalingo, descritte mentre assolvono al
compito di madri con tenerezza e competenza: in ogni uomo c'era un Cincinnato di romana
memoria, in ogni donna c'era la nobile Cornelia, famosa madre dei Gracchi. Un ambiente di
pace e di armonia travolto dai "sabiti guadagni". Dante denuncia i suoi contemporanei, che
hanno trasformato una cittadinanza fida, un cosí dolce ostello in una città corrotta, teatro di
lotte fratricide. Egli è tra i figli espulsi da Firenze e costretti a girovagare per il mondo; la sua
ansia di giustizia può solo placarsi nell'abbandono fiducioso in Dio in cui ritrova, tra gli altri, la
sua radice.

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