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-Purgatorio

Uscito dall’Inferno con la guida di Virgilio, Dante riemerge sulla spiaggia di un’isola su cui si innalza la montagna
del Purgatorio.

Il Purgatorio è quindi la seconda delle tre cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso) che compongono la Divina
Commedia di Dante Alighieri.

La nascita del Purgatorio

Il Purgatorio non ha sempre fatto parte dell’immaginario e della teologia della cristianità. La Bibbia, infatti, parla di
Inferno e di Paradiso, ma non di un luogo intermedio, in cui le anime dei defunti si purificano per accedere alla gloria
eterna. Il Purgatorio infatti fu riconosciuto come argomento di fede solo nel Concilio di Lione del 1274.

Purgatorio e Inferno di Dante a confronto


Il Purgatorio dantesco è in molti modi contrapposto all’Inferno dantesco:

Prima di tutto in senso fisico: alla cavità a imbuto dell’Inferno corrisponde, nell’emisfero opposto, il monte del
Purgatorio; il secondo regno è dunque un calco esatto del primo.

In senso morale, poi: nell’Inferno Dante scende verso il centro della Terra, verso i peccati peggiori fino a Lucifero; nel
Purgatorio sale verso il cielo purgando peccati via via più lievi.

E ancora: se l’Inferno e il Paradiso sono mondi fuori dal tempo, il Purgatorio conosce l’avvicendarsi del giorno e della
notte ed è destinato a estinguersi dopo il Giudizio Universale.

Infine, se l’Inferno è il regno della dannazione e della disperazione, il Purgatorio è il regno della salvezza; l’atmosfera
del Purgatorio è serena: le anime sono miti, rassegnate, preganti, soffrono pazienti, parlano dolcemente, sperano nella
liberazione e l’attendono lodando Dio.

Esse però, essendo anime ancora da purificarsi, non hanno perso l'attaccamento alla loro vita mortale e alle cose
materiali. La cosa è manifesta già dall'inizio, nel canto II, quando avviene l'incontro di Dante e Virgilio con il musico
Casella. Nel Purgatorio è dunque sempre presente una sorta di "dualità" tra elementi materiali e spirituali.

Anche il comportamento di Virgilio è differente, perché appare qui più vicino ai timori di Dante, e a volte anche
rattristato (come accade per esempio nel canto 1, quando compaiono grandi spiriti che hanno invano cercato la verità,
ma disgiuntamente da Dio). Nell'Inferno, infatti, Virgilio era conscio di essere superiore ai dannati. Adesso si trova
invece a percorrere un regno di salvezza che a lui non spetterà Inoltre a Dante il percorso e necessario per
comprendere molte cose, mentre Virgilio non può sperare di trarre alcun giovamento in quel lungo cammino per la sua
condizione. 
Come già accaduto nell'Inferno, anche in questa cantica Dante avrà modo di nominare spesso personaggi epici o citare
miti. All'epoca questi erano infatti noti a tutti, poiché ampiamente diffusa era anche una sorta di "tradizione orale"
sugli argomenti epici.

Purgatorio dantesco: la struttura


Nel Purgatorio dantesco gli spiriti purganti passano da una balza all’altra e si purificano delle tendenze peccaminose (i
peccati sono già stati perdonati) attraverso un triplice mecccanismo: la pena (anche qui attribuita secondo il criterio
del contrappasso ); la preghiera; gli esempi di persone che si sono distinte nella virtù contraria.
Man mano che espiano le loro colpe, i penitenti risalgono la montagna, fino a quando raggiungono la cima. In cima al
monte, c’è il Paradiso Terrestre, dove scorrono due fiumi: il Letè, che fa dimenticare le colpe commesse, e l’Eunoè,
che fa ricordare il bene compiuto. Dopo essersi bagnate in questi due fiumi, le  anime purificate possono finalmente
entrare nel Paradiso.

Il Purgatorio dantesco è costituito dall’Antipurgatorio e da 7 cornici.

L’Antipurgatorio comprende la parte più ripida della montagna. Accoglie le anime dei negligenti, ossia coloro che si
pentirono solo in punto di morte: gli scomunicati, i pigri a pentirsi, i morti di morte violenta, i principi che in vita si
dedicarono più alle cure della politica che a quelle dell’anima. Tutte queste anime devono attendere un certo periodo
di tempo prima di accedere al Purgatorio: gli scomunicati trenta volte il tempo che durò la loro vita, gli altri tanti anni
quanto vissero.

Canto I
-Sintesi
-Versi 1-12. Dopo aver lasciato il terribile mare dell’Inferno, Dante è pronto a cantare con più tranquillità il
secondo regno dell’Oltretomba, il Purgatorio, nel quale l’anima si purifica per poter accedere al Paradiso. Il
poeta invoca l’aiuto delle Muse e in particolar modo di Calliope, chiedendole di assisterlo con lo stesso
canto col quale sconfisse le Piche.   
Catone scambia Dante e Virgilio per due dannati in fuga dall'Inferno
-Versi 13-48. Dante gioisce nell’osservare l’azzurro del cielo: ad illuminarlo c’è Venere, che si trova nella
costellazione dei Pesci. Voltandosi verso il cielo australe, il poeta riesce a scorgere quattro stelle la cui luce è
stata visibile solo a due esseri umani: Adamo ed Eva. Non appena distoglie lo sguardo da esse, scorge un
vecchio venerando accanto a sé: si tratta di Catone Uticense il quale, credendo Dante e Virgilio due dannati
in fuga dall’Inferno, chiede loro chi siano e come mai si trovino lì. 
-Versi 49-108. Virgilio, allora, fa inginocchiare Dante di fronte a Catone e prende parola, rispondendo ai
dubbi dell’anima veneranda. Gli spiega, quindi, che egli è stato incaricato da una donna beata a
soccorrere Dante e a guidarlo attraverso l’Oltretomba. Aggiunge, inoltre, che Catone dovrebbe gradire la sua
venuta: il poeta fiorentino cerca la libertà, che è qualcosa di assai prezioso, come sa bene chi per essa arriva
a rinunciare alla propria vita. Conclude, infine, dicendo che i due sono svincolati dalle leggi infernali –
Virgilio è un’anima del Limbo, Dante è un vivente – e di farli passare in nome di Marzia, moglie di Catone.
L’uomo risponde che concederà loro il passaggio non per Marzia ma grazie alla donna del cielo che li ha
messi in viaggio; prima, però, Virgilio dovrà lavare il volto di Dante e cingere la sua vita con un giunco.

-Versi 109-136. Al termine del suo discorso, Catone scompare. Dante e Virgilio, tornando sui loro passi,
giungono in un punto della spiaggia dove l’erba è bagnata dalla rugiada. Con questa, Virgilio lava le guance
di Dante. Dopodiché, giunti nella parte bassa della spiaggia, il maestro si china a cogliere un giunco – che,
una volta strappato, subito ricresce vigoroso – con il quale cinge i fianchi di Dante. 
-Analisi

Abbiamo visto come il Canto I e il II dell’Inferno avevano assunto un ruolo proemiale, rispettivamente, della
Commedia e della sua prima cantica. Il Canto I del Purgatorio, aprendo le porte a un diverso regno
ultraterreno, inevitabilmente presenta le caratteristiche di un nuovo esordio, e sviluppa il suo proemio sulla
bipartizione canonica dei poemi classici: 
 Protasi, dove viene esposto l'argomento che verrà trattato; nel caso del primo Canto del
Purgatorio corrisponde ai versi 1-6;
 Invocazione alle Muse, in questo Canto rintracciabile nei versi 7-12.

E In particolar modo, Dante decide di iniziare la seconda cantica della Commedia con un’invocazione a
Calliope, musa protettrice della poesia epica che era stata invocata anche da Virgilio nel Libro IX
dell’ Eneide. Attraverso questa figura, Dante può rievocare il mito delle figlie di Pierio, il re di Tessaglia (o
di Macedonia). Esse, secondo la mitologia, ebbero l’ardire di sfidare le Muse in una gara di canto e furono
vinte proprio dalla voce melodiosa di Calliope che, per punirle, le trasformò in piche, cioè in gazze dal
gracchiare stridulo. In questo modo, il poeta pone il Canto I del Purgatorio – e, con esso, l’intera cantica –
sotto l’ammonimento nei confronti della superbia. Senza l’umiltà, infatti, non potrebbe compiersi la salvezza
delle anime, fine ultimo del secondo regno ultraterreno.
-Marco Porcio Catone viene chiamato l’Uticense per distinguerlo dall’omonimo antenato, Catone il Censore

-Parafrasi
Per solcare acque migliori alza ormai le vele
la piccola nave del mio ingegno, che lascia
dietro a sé un mare così crudele; e canterò di quel secondo regno, dove
l’anima umana si purifica e diviene degna di
salire al Cielo. Ma qui la poesia che [ha cantato] la morte
risorga, o sacre Muse, poiché sono vostro;
e qui Calliope si elevi di molto, accompagnando il mio canto con quella
melodia con cui le sventurate Piche subirono
un colpo tale da far loro perdere la speranza del perdono. Un dolce colore azzurro come lo zaffiro
orientale, che si diffondeva nella serena
atmosfera, puro fino all’orizzonte, ridiede gioia ai miei occhi, non appena io
uscii dall’aria tetra [dell’Inferno] che mi
aveva rattristato gli occhi e il cuore. Il bel pianeta che induce ad amare illuminava
tutto l’oriente, nascondendo la costellazione dei Pesci che gli era vicina. Io mi girai verso destra, e volsi il
mio
pensiero all’altro polo, e vidi quattro stelle
che furono scorte solo dai primi uomini. Il cielo sembrava gioire della loro luce: oh
emisfero settentrionale orfano di quella luce,
dal momento che sei privato della possibilità di ammirarle! Come io allontanai da esse il mio sguardo,
rivolgendomi un poco verso l’altro polo, là dove il Carro era già sparito, mi accorsi vicino a me di un
vecchietto solitario, degno, a vedersi, di tanta riverenza che nessun figlio ne deve al padre una
maggiore. Portava una lunga barba brizzolata, simile ai
suoi capelli, dei quali scendevano sul petto
due ciocche. I raggi delle quattro stelle sante incorniciavano il suo volto di luce tanto che io lo vedevo come
se fosse di fronte al sole. «Chi siete voi che risalendo al contrario il
fiume sotterraneo siete fuggiti alla prigione eterna?»,
egli disse, muovendo la venerabile barba. «Chi vi ha guidati, o chi vi illuminò, per uscire
fuori dalla notte profonda che rende sempre
buia la valle infernale? Sono state a tal punto infrante le leggi
infernali? Oppure in Cielo è cambiata la legge, così che, voi dannati, giungete ai miei lidi?» La mia
guida allora mi prese, e con le parole,
con le mani e con i cenni mi fece
inginocchiare e abbassare lo sguardo, in segno di riverenza. Dopodiché rispose lui: «Non venni di mia
iniziativa: una donna scese dal cielo, per le
cui preghiere soccorsi costui con la mia compagnia. Ma poiché è tuo volere che meglio venga
spiegata la nostra condizione per come
veramente è, il mio volere non può essere
che [tale spiegazione] ti si neghi. Questi non vide mai il giorno della morte; ma per la sua colpa fu così
vicino ad essa, che pochissimo tempo sarebbe passato [prima che ciò accadesse]. Così come io dissi, fui
mandato da lui per salvarlo; e non vi era altra via che questa che ho intrapreso. Gli ho mostrato tutta la
gente dannata; ed ora intendo mostrargli quegli spiriti che si purificano sotto la tua custodia. Sarebbe
lungo raccontare come io l’abbia guidato; dall’alto scende una virtù che mi aiuta a condurlo a vederti e ad
ascoltarti. Ora ti sia grata la sua venuta: va cercando la libertà, che è così preziosa, come sa chi per lei
rinuncia alla vita. Tu lo sai, perché per lei non ti fu amara la morte ad Utica, dove lasciasti il corpo che
nel gran giorno sarà così luminoso. Le leggi eterne non sono state infrante da noi, perché lui è vivo ed io
non sono sottoposto alla giurisdizione di Minosse; io sono [un’anima] del cerchio in cui si trovano gli occhi
casti della tua Marzia, che nel suo aspetto ti prega ancora, o venerabile uomo, che tu la consideri sempre
tua: per il suo amore quindi esaudisci il nostro desiderio. Lasciaci proseguire per le tue sette cornici;
ringrazierò lei per la tua magnanimità, se ritieni sia degno nominarti laggiù». «Marzia piacque tanto ai miei
occhi mentre io fui in vita», disse egli quindi, «che ogni volta mi chiese un favore, io acconsentii. Ora che
dimora al di là del fiume infernale, non può più commuovermi, per quella legge che fu fatta quando io ne
uscii fuori. Ma se una donna del Cielo ti guida e ti sprona, come dici tu, non c’è bisogno di lusinghe: basta
che tu me lo richieda in nome suo. Vai dunque, e fai in modo che costui si cinga la vita di un giunco liscio e
si lavi il viso, così che venga cancellato ogni sudiciume; perché non sarebbe decoroso, con gli occhi
offuscati da qualche impurità, presentarsi di fronte al primo servitore [di Dio], che appartiene a quelli del
Paradiso. Questa isoletta lungo la riva, laggiù nel punto dove viene colpita dalle onde, presenta dei giunchi
sopra la molle sabbia: nessun’altra pianta che producesse fronde o avesse un tronco rigido, potrebbe
crescere, perché non asseconda le percosse delle onde. In seguito non sia di qui il vostro ritorno; il sole,
che ormai sorge, vi mostrerà dove salire sul monte per una salita più agevole». E così [Catone] sparì; ed io
mi alzai senza parlare, e tutto mi avvicinai alla mia guida, e volsi lo sguardo verso lui. Egli cominciò:
«Figliolo, segui i miei passi,
volgiamoci indietro, perché qui scende
la pianura verso il suo punto più basso». L’alba vinceva il buio dell’ultima ora della notte che fuggiva
dinnanzi ad essa, così che da lontano riconobbi il tremolio delle onde del mare. Noi camminavamo per la
pianura solitaria come un uomo che ritorna verso la strada smarrita, e gli sembra di camminare invano
finché non la raggiunge. Quando noi giungemmo là dove la rugiada resiste al sole, poiché è nel luogo in cui,
all’ombra, evapora lentamente, entrambe le mani aperte il mio maestro appoggiò sulla tenera erba in
maniera soave: per cui io, che compresi il suo gesto, rivolsi verso di lui il mio viso pieno di lacrime; lì mi rese
interamente visibile quel colore naturale che l’Inferno mi aveva nascosto. Giungemmo poi alla spiaggia
deserta, che non vide mai solcare le sue acque nessun uomo che fosse capace di ritornare. Qui mi cinse i
fianchi così come l’altro volle: oh meraviglia! Perché la pianta umile che egli scelse,
così ricrebbe immediatamente là dove l’aveva strappata.
-Canto II

- Sintesi

-vv. 1-36: Il sole si trova sull'orizzonte di Gerusalemme, all'estremo occidente della terra, e la notte è sul
Gange, all’estremo orientale; perciò agli antipodi, nel purgatorio, il bianco dell'alba e il rosso dell'aurora si
confondono ormai nel colore dorato del primo mattino. I due poeti sono ancora sulla riva del mare, e
pensano alla via da percorrere, quando, simile all'immagine di Marte quando rosseggia sul mare a ponente,
per la densità dei vapori che lo circondano, velato dalla luce del mattino, appare un lume che si avvicina
velocissimo sulle onde: nel breve tempo in cui Dante ne distoglie lo sguardo per interrogare Virgilio, esso è
già diventato più grande e più lucente; poi comincia a vedersi ai due lati e al di sotto di questo lume qualcosa
di bianco; poi ancora si capisce che ciò che biancheggia ai lati sono le ali di un angelo. A quel punto Virgilio
fa inginocchiare Dante, dicendogli che quello è il primo degli angeli che egli incontrerà nel purgatorio, e
mostrandogli come quello navighi senza remo né vele, ma col solo aiuto delle ali che tiene diritte verso il
cielo, e sono eternamente incorruttibili.
-vv. 37-75: Avvicinandosi, l'angelo diviene sempre più splendente, tanto che l'occhio di Dante non ne
sostiene più la vista, e si abbassa; e l'angelo approda con una navicella svelta e leggera, che non affonda
minimamente in acqua. L'angelo è a poppa, immagine di beatitudine; più di cento spiriti si trovano a bordo,
cantando tutti insieme il salmo In exitu Israel de Aegypto, e quando l'angelo fa loro il segno della croce si
gettano tutti sulla spiaggia, mentre quello riparte velocemente com'è venuto. Mentre il sole, ormai alto
sull'orizzonte, ha già sospinto il Capricorno oltre il meridiano, le anime sulla spiaggia mostrano di non
conoscere il luogo e, visti i due poeti, chiedono loro quale sia la via da seguire. Virgilio risponde spiegando
la condizione di loro due e la via che hanno percorsa, tanto difficile e dolorosa che proseguire sembrerà ora
un gioco. Intanto le anime si sono accorte che Dante è vivo, perché respira, e, impallidendo per la
meraviglia, gli si accalcano come intorno a un messaggero che porta un ramo d'olivo in segno di buone
notizie, quasi dimenticando di andare verso la loro purificazione. 
-vv. 76-117: Il canto di CasellaDante vede farglisi incontro in atto di abbracciarlo una di quelle anime, con
tanto affetto da indurlo a fare lo stesso; ma per tre volte stringe invano le braccia in quel gesto,
perché l’ombra non ha corpo. Sorridendo per la Meraviglia che gli vede dipinta in volto, l'anima gli dice
dolcemente di desistere, egli parla, cosicché Dante riconosce in essa l'amico Casella, che gli manifesta lo
stesso affetto che nutriva per lui quand'era in vita: gli spiega allora la ragione del suo viaggio, e gli chiede
perché, pur essendo morto qualche tempo prima, giunga solo ora alla spiaggia del purgatorio. Casella
risponde che non gli si è fatto alcun torto, se l'angelo ha negato più volte di trasportarlo sulla sua navicella,
perché egli sceglie secondo la sua volontà, che è la volontà stessa di Dio; ma da tre mesi egli accoglie tutte
le anime (grazie all’indulgenza del Giubileo), e così ha accolto anche lui, che si trovava alla foce del Tevere.
Là sta ora ritornando l'angelo: quello è il punto dove si raccolgono tutte le anime che non sono
dannate. Dante prega allora l'amico, se nessuna legge divina gliene toglie la memoria o la facoltà, di
confortarlo dell'asprezza del viaggio con il canto, come con il canto lo confortava in vita: e Casella si mette a
cantare la canzone di Dante Amor che ne la mente mi ragiona con tanta dolcezza che Virgilio e Dante stesso
e tutti gli spiriti presenti rimangono così estatici nel canto, come se non pensassero più a nient'altro.  
-vv. 118-133: Mentre tutti sono così rapiti nell'ascolto del canto di Casella, sopraggiunge Catone, che li
rimprovera aspramente della loro negligenza, e ordina loro di correre verso il monte per purificarsi dalla
scorza del peccato che impedisce loro di vedere Dio. Come i colombi raccolti quietamente a beccare biada o
loglio, se appare qualcosa che li spaventi, fuggono velocemente abbandonando il cibo, così Dante vede
fuggire le anime verso la costa del monte, sebbene non sappiano dove andare; e i due poeti si allontanano
altrettanto velocemente. 

-Analisi

Le descrizioni del paesaggio sono quanto di più bello ci sia nel Purgatorio. Alla fine del canto precedente
Dante aveva descritto l’alba sulla riva del mare che circonda l’isola-montagna. Il canto secondo comincia
con il trascolorare dell’aurora (che Dante personifica in Aurora, l’antica Eos greca) dal bianco al rosso al
dorato. Il sole infatti è all’orizzonte e si sta alzando rapidamente e nell’altro emisfero sta invece
tramontando: Dante si prodiga in queste perifrasi astronomiche per fissare il tempo che passa poiché sul
Purgatorio vige il tempo terrestre, cronologico, fatto di giorni e di notti, di anni, di secoli, in attesa
dell’incontro fatale con Dio.
Il viaggio sta cominciando nella mattina presto, come cominciano tutti i viaggi: sono sicuro che anche tu,
anche solo per partire in vacanza, ti sei alzato di buon’ora e hai magari visto sorgere l’alba davanti a te con
la promessa del grande viaggio che ti aspetta. L’umanità con cui Dante registra questo dato psicologico è
davvero commovente: Dante-personaggio e Virgilio, senza parlarsi, guardando lo spettacolo del cielo che si
colora, pensano al lungo viaggio che li attende senza parlarsi: «Noi eravam lunghesso mare ancora, / come
gente che pensa a suo cammino, / che va col cuore e col corpo dimora» (vv. 12-14).
L’arrivo dell’angelo nocchiero Mentre si soffermano su questi pensieri, l’angelo nocchiero arriva
dall’orizzonte rosseggiando come Marte: sta portando sulla sua leggerissima navetta i pellegrini penitenti.

Questo canto riflette in parte il canto III dell’Inferno. Lì Dante-personaggio apprende che tutte le anime
morte nel peccato si raccolgono sulla riva dell’Acheronte in attesa di essere portate a cospetto di Minosse ed
essere condannate. L’elemento fluviale c’è anche per il Purgatorio: le anime di chi è stato lento a pentirsi, di
chi è stato giusto ma non troppo, si raccolgono sulle rive del Tevere in attesa che l’angelo nocchiero arrivi a
prenderle. Decide lui quando ciascuna salirà.
Come si arriva al Purgatorio: la spiegazione di CasellaPotrebbe esserci anche una necessità narrativa nel
decidere teologicamente questo aspetto: Dante vuole incontrare Casella nel Purgatorio, e forse proprio
all’inizio; ma il suo amico musicista era morto già da alcuni anni e quindi avrebbe già dovuto da tempo
cominciare il suo percorso di purificazione. È lo stesso Casella a spiegare al Dante-personaggio come si
arriva in Purgatorio e perché è arrivato solo dopo alcuni anni e precisamente nel 1300 anno del giubileo in
cui c’è stata un’amnistia generale per le anime in attesa di essere prese. Quest’accenno è importante anche
per la datazione dell’opera.

Si può abbracciare un’anima?

La fisionomia delle animeImpalpabili o no, le anime descritte da Dante? Nell’universo dantesco la


fisionomia delle anime cambia di continuo. Nell’inferno le anime sono particolarmente corporee:
sanguinano, soffrono, piangono, urlano. Esistono in quanto corpo, basti ricordare che Brunetto Latini prende
Dante per il lembo della sua veste e che Dante lo accarezza in viso. O anche che il poeta strappa dalla testa
di Bocca degli Abati diverse cicche di capelli. L’esempio più importante è però quello di Virgilio che prende
Dante per mano, che lo prende sulle spalle, che lo cinge con il giunco.
Casella impalpabileQuando Dante riconosce Casella prova ad abbracciarlo ma finisce con l’abbracciare il
vuoto, in una citazione rinnovata del VI libro dell’Eneide di Virgilio in cui Enea aveva provato ad
abbracciare il padre Anchise: “Tre volte allora volle gettargli al collo le braccia, tre volte, invano afferrata,
sfuggì dalle mani l’immagine, pari ai venti impalpabili, simile al sogno alato” (VI, 700-702). Dunque
Casella è impalpabile, eppure ben presto conoscerà la sofferenza e sarà una sofferenza del corpo secondo le
leggi del contrappasso già viste nell’Inferno. Il purgatorio, in fondo, è un inferno a tempo.
Si possono toccare le anime? Dunque le anime si possono toccare, abbracciare, accarezzare? Sì. No.
Entrambe le risposte vanno bene e così ci troviamo davanti a contraddizioni e incoerenze davvero evidenti.
Non dispiaceva a Dante e di sicuro non dispiace a noi lettori, perché le ragioni della poesia hanno portato il
poeta in vie sempre nuove in cui l’universo da lui immaginato finisce con il rimodularsi.

-Parafrasi

Il sole si era già levato sull'orizzonte il cui meridiano sovrasta Gerusalemme con il suo più alto punto; e la notte, che
gira opposta al sole, sorgeva dal Gange congiungendosi con la Bilancia, cosa che non accade quando la sua durata
eccede quella del giorno; così le guance bianche e vermiglie (rosse) della bella Aurora, là dove mi trovavo io,
diventavano arancioni per lo scorrere del tempo. Noi eravamo ancora sula spiaggia, come qualcuno che pensa al
cammino con il proprio cuore, ma indugia con il corpo.
Ed ecco, come quando Marte, velato dalla mattina, splende rosso si scioglie nei densi vapori verso ovest sulla
superficie del mare, così mi apparve (e mi sembra ancora di vederla!) una luce proveniente dal mare, tanto veloce a
muoversi quanto nessun uccello è capace con il suo volo. Non appena smisi di guardarla per chiedere informazioni al
mio maestro, la rividi subito più splendente e più grande. Poi su ogni suo lato mi parve di vedere un biancore diffuso,
e poco a poco al di sotto un altra luminescenza ancora apparve. Il mio maestro non disse nulla, almeno fin quando fu
chiaro che il primo biancore erano delle ali; riconosciuto il nocchiero, mi gridò: «Su, su, piega le ginocchia. Ecco
l'angelo di Dio: giungi le mani in preghiera; da adesso in poi vedrai ministri di questo tipo. Guarda come fa a meno
degli strumenti umani, niente remi, né altra vela che non siano le sue ali, pur in luoghi così lontani. Vedi come tiene
dritte le ali verso il cielo, fendendo l'aria con le piume eterne che non cadono come penne mortali». Dunque, quando
l'uccello divino ci fu più vicino, apparve più chiaramente: i miei occhi non potevano sostenerne lo sguardo così da
vicino, così fui costretto a tenerli bassi; e quello giunse alla riva con una navicella stretta e leggera, che neanche
affondava un poco nell’acqua. Il divino timoniere stava a poppa, così bello da rendere beati al solo descriverlo; più di
cento spiriti sedevano dentro la barca. Tutti insieme cantavano a una voce il Salmo «Nella fuga di Israele dall'Egitto»,
anche con i versi seguenti. Poi fece loro il segno della croce ed essi scesero tutti sulla spiaggia; e se andò, veloce
come era venuto. Il gruppo di anime lì rimaste sembrava inesperto del luogo, e si guardava intorno come chi
sperimenta una novità. Il sole spandeva il giorno in ogni dove, avendo già cacciato con le frecce infallibili la
costellazione del Capricorno dal punto mediano del cielo, quando i nuovi arrivati si rivolsero a noi, e ci dissero: «Se
voi la sapete, mostrateci la via per arrivare al monte». E Virgilio rispose loro: «Forse voi ci credete esperti di questo
luogo; in verità siamo pellegrini come voi. Siamo appena arrivati, appena prima di voi, attraverso un'altra strada che
fu talmente difficile che la salita al monte in confronto ci sembrerà piuttosto facile». Le anime, accortesi che io ero
vivo poiché respiravo, sbiancarono per lo stupore. E come una bella folla si raduna intorno al messaggero che porta il
rametto dell’ulivo (segno di pace), e tutti fanno a gara ad accalcarsi, allo stesso modo quelle anime fortunate si
assieparono tutte intorno al mio viso, dimentiche di essere giunte lì per purificarsi. Vidi una di loro avanzare per
abbracciarmi, con tale affetto da spingermi a ricambiare. Ah, ombre inconsistenti, tranne che nell'aspetto! Tentai tre
volte di abbracciarla con le mani, e altrettante volte ritrovai le mani vuote al mio petto. Dovetti restare molto
stupito; allora l'ombra mi sorrise e si tirò in disparte, e io seguendola mi sporsi ancora oltre. Con dolcezza mi disse di
fermarmi; allora lo riconobbi e lo pregai di fermarsi almeno un po’ a parlarmi. Mi rispose: «Come ti ho amato da vivo,
così ti amo ora che sono un'anima: per questo mi fermo, ma tu come mai sei qui?» Io dissi: «Casella mio, faccio
questo viaggio per tornare ancora qui dove sono adesso; ma come mai tu giungi soltanto ora?» Rispose: «Non ho
ricevuto alcun torto, se l’angelo – il quale prende quando e chi vuole – più volte mi ha negato di salire a bordo; il suo
volere è conforme a quello divino: tuttavia da tre mesi ha accolto sulla barca tutti quelli che hanno voluto salirci,
senza opporsi. Allora io, rivolto al mare dove il Tevere diventa salato, fui con favore accolto da lui. Ora si sta
dirigendo verso quella foce, dato che tutte le anime non destinate all'Inferno si raccolgono sempre lì». E io: «Se una
nuova legge non ti priva della memoria o dell'abitudine al canto d’amore che soleva placare tutti i miei desideri, ti
prego con quello di consolare un poco la mia anima, che venendo qui con nel corpo si è tanto stancata». Allora
Casella cominciò a cantare “Amor che ne la mente mi ragiona” così dolcemente, che la dolcezza di quel canto ancora
risuona dentro di me. Il mio maestro e io e quelle anime che erano con lui sembravamo tutti così contenti,
dimenticando qualunque altro affanno. Eravamo tutti intenti alla musica, quando ecco arrivare il vecchio austero
gridando: «Che significa questo, spiriti pigri? che negligenza, che indugio è questo? Correte al monte a levarvi la
scorza del peccato che vi impedisce di vedere Dio». Come quando i colombi, beccando biada o loglio, radunati per il
pasto, tranquilli e senza mostrare il consueto orgoglio, se appare qualcosa che li spaventa lasciano subito il cibo
perché assaliti da una preoccupazione maggiore; così io vidi quelle anime appena giunte lasciare il canto, e correre
verso la montagna alla rinfusa; e anche la nostra fuga non fu meno precipitosa.

-Canto 3

-Sintesi

Versi 1-45. Dopo i rimproveri di Catone e la subitanea fuga delle anime verso la montagna, Dante di
accosta a Virgilio, consapevole che senza la sua guida non potrebbe proseguire il viaggio. Si ritrova però
smarrito nel momento in cui vede, sul terreno, solo la sua ombra; la sua guida lo rincuora, spiegandogli che
le anime possono provare sensazioni fisiche, ma non fanno ombra perché i raggi del sole le oltrepassano.
Virgilio, allora, raccomanda agli uomini di non tentare di comprendere i misteri della fede con la sola
ragione, come fecero Aristotele e Platone.   
Versi 46-66. Dante e Virgilio, intanto, giungono ai piedi del monte del Purgatorio; la parete è decisamente
ripida e sembra essere impossibile da scalare. Virgilio non conosce la via che possa consentire una salita più
agevole; mentre si interroga, da sinistra Dante scorge un gruppo di anime a cui chiedere aiuto.   
Versi 67-102. Le anime sono quelle degli scomunicati; esse, dopo essersi accorte della presenza dei due
poeti, inizialmente si addossano alle rocce. Virgilio allora ne approfitta per chiedere loro di mostrargli la
salita più agevole. Poi la schiera inizia ad avvicinarsi ai due, ma si arresta nel momento in cui si accorgono
dell’ombra proiettata da Dante. Virgilio allora gli confessa che il suo assistito è vivo, ma non è contro il
volere divino che cerca di scalare il monte. Le anime, allora, dicono ai due di tornare indietro e di procedere
davanti a loro.   
Versi 103-145. Una delle anime si rivolge quindi a Dante: si tratta di Manfredi che, rivelando il proprio
nome, chiede al poeta di raccontare alla figlia Costanza che egli è salvo, e non dannato all’Inferno.
Manfredi, infatti, si è pentito in punto di morte dei suoi gravissimi peccati, guadagnandosi il perdono da
parte di Dio che è misericordia infinita. Racconta, inoltre, che il suo corpo è stato disseppellito dal vescovo
di Cosenza e abbandonato lungo il fiume Garigliano. Spiega, infine, che le anime degli scomunicati
dovranno attendere nell'Antipurgatorio un tempo superiore trenta volte al periodo trascorso nella scomunica,
a meno che tale tempo non venga abbreviato dalle preghiere dei vivi

-Analisi
La colpa: la scomunica
Pur essendo già salve, le anime giunte in Purgatorio devono espiare le colpe commesse in vita per ascendere
al Paradiso. Nel Canto III del Purgatorio ci troviamo di fronte, nello specifico, alle anime scomunicate e poi
pentitesi in punto di morte, di cui Manfredi, unico spirito a prendere parola, è rappresentante. Esse, dal
momento che in vita furono ribelli verso la Chiesa, si ritrovano ora a procedere mansuetamente come
pecorelle (vv. 79-84): si tratta di un contrappasso per analogia. Queste anime, inoltre, devono attendere fuori
dalla porta del Purgatorio un tempo pari a trenta volte quello che hanno vissuto nella scomunica.  
Dietro la salvezza delle anime scomunicate e poi pentitesi in punto di morte c’è inoltre un monito, da parte
di Dante, alla Chiesa e agli esseri umani: la prima non deve pensare di poter prevaricare, con le proprie
leggi, l’infinita misericordia di Dio; i secondi, invece, devono tenersi lontani dal formulare giudizi affrettati
sulla condotta degli altri, perché nessuno è in grado di conoscere quel che accade all’interno della coscienza
dell’uomo.  

4.2 L’insufficienza della ragione


Un’attenzione particolare, all’interno del Canto III del Purgatorio, è posta alla figura di Virgilio. Egli, non
trovandosi più in un regno di cui ha conoscenza diretta – com’era per l’Inferno – è sottoposto, esattamente
come le anime, a un processo di maturazione. Egli si troverà, qui e più avanti, a doversi scontrare con
problemi a cui non riesce a trovare immediata soluzione: è il limite della ragione umana, condizione
necessaria ma non più sufficiente per ascendere verso il Paradiso. C’è bisogno, infatti, anche della Grazie
divina, della comunione con i fedeli e dell’aiuto sacramentale della Chiesa per proseguire nel viaggio di
redenzione.
È in quest’ottica che si pone il nascosto rimprovero di Dante auctor, per bocca di Virgilio, a quelle anime
– Platone, Aristotele, ma anche lo stesso autore dell’Eneide e gli altri dannati del Limbo – che seppur colme
di saggezza hanno invano creduto di poter giungere alla completa conoscenza dei misteri divini attraverso la
sola ragione umana e sono state, quindi, escluse dalla salvezza. Da qui si può ben comprendere
l’atteggiamento malinconico che assume, all’interno del terzo Canto del Purgatorio, Virgilio: è il turbamento
di chi è eternamente escluso dalla conoscenza di Dio.   

4.3 La dinastia sveva


Attraverso la figura di Manfredi, Dante nel Canto III del Purgatorio celebra la dinastia sveva, depositaria –
nel Duecento – dell’idea di Impero, istituzione portatrice di ordine e giustizia e, secondo il poeta, di pari
dignità rispetto al papato. Già nel De Vulgari Eloquentia (I, XIII, 4), l’autore della Commedia aveva indicato
Manfredi e suo padre Federico II come gli ultimi veri principi italiani.
Se, però, Manfredi nomina con orgoglio sua nonna Costanza d’Altavilla, presentandosi degnamente come
suo «nepote» (v. 113), egli non fa cenno a suo padre. Dietro questa scelta c’è una una motivazione teologica:
se Costanza – come vedremo nel Canto III del Paradiso – è beata nel Cielo della Luna, tra gli spiriti difettivi
per inadempienza di voto, Federico II è invece dannato nel sesto Cerchio dell’Inferno, tra gli epicurei (come
abbiamo visto nel Canto X dell’Inferno).
La dinastia sveva si estende così sulle tre cantiche della Commedia, mostrando così le diverse sfaccettature
dell’utilizzo del potere.   

-Parafrasi

Sebbene l’improvvisa fuga avesse disperso per la spiaggia le anime, in direzione del monte dove la Giustizia


divina ci tormenta, io mi avvicinai al mio fidato compagno: e come sarei potuto avanzare senza di lui? Chi
mi avrebbe condotto su per la montagna? Egli mi pareva tormentato da un cruccio personale: o coscienza
nobile e pura, come anche un piccolo sbaglio è per te amaro rimorso! Quando i suoi passi ebbero
abbandonato la fretta, che priva ogni gesto di dignità, la mia mente, che prima era tutta concentrata, estese i
suoi orizzonti, così come desiderosa [di conoscere], e rivolsi il mio sguardo sul monte che più alto si
innalza verso il cielo emergendo dalle acque. La luce del sole, che dietro splendeva rosseggiante, era rotta
dinnanzi alla mia figura, poiché aveva in me un ostacolo ai suoi raggi. Io mi volsi di lato con il timore di
essere stato abbandonato, quando io vidi solo davanti a me la terra scurita [dall’ombra]; ed il mio conforto:
«Perché ancora diffidi?», cominciò a dirmi tutto rivolto verso di me; «Non credi che io sia con te e che ti
guidi? È già sera là dov’è sepolto il corpo dentro al quale io facevo ombra: è a Napoli, vi è stato trasportato
da Brindisi. Ora, se davanti a me non si crea alcuna ombra, non ti meravigliare più del fatto che i cieli non
impediscono dall’uno all’altro il passaggio dei raggi. La Virtù divina dispone che questi corpi soffrano
tormenti, caldo e gelo, ma non vuole che ci venga rivelato come ciò accada. Folle è colui che spera che la
ragione umana possa percorrere l’infinita via divina che stringe una sostanza in tre persone. Accontentatevi,
uomini, di conoscere i fatti: poiché, se aveste potuto sapere tutto, non ci sarebbe stato bisogno che Maria
partorisse; e vedeste desiderare invano coloro ai quali il desiderio sarebbe stato appagato, e invece gli è dato
come pena eterna nel Limbo: io parlo di Aristotele, di Platone e di molti altri»; e a questo punto chinò la
fronte, e altro non disse, e rimase turbato. Noi giungemmo intanto ai piedi del monte, e qui trovammo la
costa rocciosa così erta, che invano le gambe sarebbero state pronte a salire. La strada più impervia e
inaccessibile tra Lerici e Turbia è, rispetto a quella, una scala agevole e larga. «Ora chi sa da quale parte la
costa [della montagna] è meno ripida», disse il mio maestro fermando il suo andare, «così che possa salire
anche chi non ha le ali?». E mentre egli tenendo lo sguardo basso esaminava il cammino da prendere, ed io
guardavo in alto intorno al monte, dal lato sinistro mi apparve una schiera di anime, che dirigevano i passi
verso di noi, ma non sembrava, tanto si muovevano lente. «Alza lo sguardo, maestro», dissi io, «ecco da
questa parte chi ci darà consiglio, se tu da solo non puoi trovarlo». Guardò allora e con il volto rinfrancato
rispose: «Andiamo verso loro, che essi si muovono piano; e tu tieni salda la speranza, dolce figliolo». Quella
schiera di anime era ancora lontana, dopo che avevamo percorso circa un miglio, quanto un buon lanciatore
potrebbe scagliare un sasso con la mano, quando tutti si accostarono alle dure rocce dell’alta costiera, e
stettero vicini e fermi, come sta fermo e osserva chi è colto dal dubbio. «O morti in grazia di Dio, o spiriti
eletti», cominciò Virgilio, «in nome di quella pace che io credo sia attesa da tutti voi, ditemi dove la
montagna è meno ripida, così che sia possibile salire; perché perdere tempo spiace di più a chi è più
saggio». Come le pecorelle escono dal recinto a una, a due, a tre per volta, e le altre restano intimidite
tenendo rivolti a terra gli occhi e il muso; e ciò che fa la prima, lo fanno anche le altre, addossandosi a lei, se
lei si ferma, obbedienti e docili, e non sanno il perché; così allora vidi io muoversi la prima fila di quella
schiera di spiriti eletti, umile in volto e composta nel procedere. Non appena coloro che stavano davanti
videro la luce [del sole] interrotta in terra dal mio lato destro, così che l’ombra si estendeva da me alla
grotta, si fermarono, e indietreggiarono un poco, e tutti gli altri che venivano loro dietro, non sapendo il
motivo, fecero altrettanto. «Senza alcuna vostra domanda io vi rivelo che questo che vedete è un corpo
umano; perciò la luce del sole a terra è interrotta. Non vi meravigliate, ma sappiate che non senza una Grazia
che viene dal Cielo egli cerchi di superare questa parete rocciosa». Così [disse] il maestro; e quelle anime
elette dissero: «Tornate indietro e procedete dunque dritto», facendo segno con il dorso delle mani. Ed uno
di loro iniziò: «Chiunque tu sia, continuando a camminare, volgi lo sguardo [verso di me]: cerca di ricordare
se in Terra mai mi vedesti». Io mi volsi verso lui e lo guardai attentamente: era biondo e bello e di aspetto
nobile, ma uno dei due sopraccigli era stato tagliato da un colpo [di spada]. Quando gli ebbi cortesemente
negato di averlo mai visto, egli disse: «Ora guarda»; e mi mostrò una ferita nella parte superiore del
petto. Poi sorridendo disse: «Io sono Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza; perciò io ti prego, quando
ritornerai, di andare dalla mia bella figlia, madre dei sovrani di Sicilia e d’Aragona, e di raccontarle la
verità, se le dicerie sono altre. Dopo che il mio corpo fu trafitto da due ferite mortali, io mi rivolsi,
piangendo, a Colui che volentieri concede il perdono. Furono orribili i miei peccati; ma la misericordia
infinita ha braccia così grandi che accoglie chiunque si rivolga ad essa. Se il vescovo di Cosenza, che allora
fu mandato da Clemente IV a perseguitarmi, avesse ben compreso questo aspetto di Dio, le ossa del mio
corpo sarebbero ancora all’inizio del ponte presso Benevento, sotto la custodia del pesante cumulo di
pietre. Ora la pioggia le bagna e le muove il vento al di fuori del Regno, quasi lungo il fiume Verde,
dove egli le fece spostare con i ceri spenti. In seguito alla scomunica però non si perde, al punto che non si
possa riacquistare, l’amore divino, fino a quando la speranza ha ancora un barlume di verde. È vero che chi
muore scomunicato dalla Santa Chiesa, anche se si pente in punto di morte, è necessario che stia al di fuori
di questo monte, per un tempo pari a trenta volte quanto egli è rimasto nel suo errore, a meno che questo
tempo non diventi più breve grazie alle preghiere dei buoni. Vedi ormai se tu mi puoi allietare, rivelando alla
mia buona figlia Costanza la condizione in cui mi hai visto, e anche questo divieto; perché qui, grazie a chi è
in Terra, si progredisce molto».
Canto VI

-Sintesi

Versi 1-57. Dante si allontana dalle anime dei morti di morte violenta, che lo circondano chiedendogli
suffragi. Una volta liberatosi dalla pressa, sottopone a Virgilio un dubbio che lo attanaglia: nell’Eneide,
infatti, è chiaramente scritto che le preghiere non possono piegare la Volontà divina; è quindi vana la
speranza delle anime che chiedono a Dante proprio questo? Virgilio spiega al poeta fiorentino che le
preghiere, pronunciate con ardore di carità, possono abbreviare il tempo della pena ma non cambiano la
sentenza di Dio. Aggiunge, inoltre, che nell’Eneide la colpa non poteva essere lavata dalla preghiera perché
a pronunciare questa era un’anima pagana, quindi lontana da Dio. Infine, esorta Dante a porre questa
questione anche a Beatrice, che incontrerà sulla vetta del monte del Purgatorio. 

Versi 58-75. Virgilio indica a Dante un'anima solitaria, che potrà loro indicare la via più rapida per salire.
Lo spirito, però, non risponde alla domanda dei poeti, ma chiede loro chi siano e da dove vengano. Non
appena Virgilio pronuncia il nome «Mantova», l’anima – che si presenta come Sordello da Goito,
anch’esso mantovano – si slancia per abbracciare l’autore dell’Eneide.  

Versi 76-126. Al ricordo di questa scena, di questo affetto mosso solo dall’essere concittadini, Dante autore
pronuncia un’indignata invettiva contro la mancanza di pace dell’Italia, resa schiava e abbandonata da chi
dovrebbe prendersi cura di lei. L’accusa di Dante è rivolta ad Alberto d’Austria, che non si è curato del Bel
Paese, e agli ecclesiastici, che ne hanno approfittato per ottenere il potere temporale, che invece non
appartiene loro. 
Versi 127-151. Dante autore si rivolge infine a Firenze: ironicamente, osserva come la città può sentirsi
fiera del non essere toccata da questa digressione. In realtà, l’apostrofe ironica è utile al poeta per elencare i
mali che attanagliano Firenze, come la mancanza di giustizia e i continui mutamenti politico-sociali. 

-Analisi
Come già accaduto nel Canto VI dell’Inferno e come accadrà anche nel Canto VI del Paradiso, anche
il Canto VI del Purgatorio presenta una forte tematica politica. Se nella prima cantica l’interesse di Dante
auctor era puntato sul Comune, qui, in un crescendo di prospettiva, l’invettiva è rivolta all’Italia tutta; si
passerà poi nell’ultima cantica all’esaltazione dell’Impero.
Nel Canto VI del Purgatorio, in un seguendo di apostrofi, Dante – dopo aver paragonato l’Italia ad una
schiava, privata della propria libertà – rivolge la sua critica prima alla popolazione italiana, tutta volta a farsi
la guerra e quindi causa della mancanza di pace all’interno della penisola, per poi passare all’accusa verso la
Chiesa e verso Alberto d’Asburgo, colpevole di aver abbandonato l’Italia a sé stessa e di averla lasciata
priva di un imperatore. Infine, Dante auctor prosegue con l’ironica invettiva a Firenze, exemplum massimo
di instabilità politica, di scissione interna, di popolazione in perpetua lotta intestina.
Secondo Dante, quindi, le cause dell’instabilità politica dell’Italia sono da ritrovarsi nella mancanza di un
imperatore, nella corruzione politica e nelle mire espansionistiche delle Signorie, e infine nelle ingerenze
della Chiesa volta ad ottenere il potere temporale senza riuscire poi ad esercitarlo.  
-L’importanza della preghiera
Come abbiamo visto nei Canti precedenti, nel Purgatorio la preghiera assume un’importanza cruciale, tanto
che ogni anima sottopone a Dante la medesima richiesta: chiedere ai vivi, una volta tornato sulla Terra, di
pregare per lei. Nel passo finale del Canto III scopriamo la motivazione di questa supplica: è Manfredi
stesso a dichiarare che, attraverso le preghiere dei vivi (a patto che essi siano in Grazia di Dio), gli spiriti
penitenti possono veder ridotta la propria pena.
Solo nel Canto VI del Purgatorio, però, ci viene spiegato il valore etico-teologico che la preghiera assume
all’interno della seconda cantica della Commedia. È Dante stesso a porre il quesito dottrinale al suo
maestro Virgilio, sottolineando come nell’Eneide si affermi che nessuna preghiera può piegare la Volontà
divina. Virgilio spiega dunque a Dante che la sentenza di Dio, come quella di un giudice, è immutabile: le
preghiere dei vivi non possono incidere sull’entità della condanna divina, ma soltanto sugli anni di
permanenza dell’anima all’interno del Purgatorio. Aggiunge inoltre come, all’interno dell’Eneide, Dio non
potesse esaudire la preghiera, perché a pronunciarla era Palinuro, un pagano.  

-Parafrasi
Quando si conclude il gioco della zara, colui che ha perso rimane amareggiato, ripetendo i tiri [del dado], e deluso
impara; con il vincitore se ne vanno tutti gli spettatori; chi gli cammina davanti, chi lo afferra da dietro, e chi al suo
fianco gli si raccomanda; ma egli non si ferma, e ascolta gli uni e gli altri; a chi egli porge la mano, questi smette di
pressarlo, e così si difende dalla massa. Nella stessa situazione ero io in quella fitta schiera [di anime], volgendo loro
lo sguardo, di qua e di là, e facendo promesse mi liberavo da essa. Là vi era l’Aretino che fu ucciso dalle feroci mani
di Ghino di Tacco, e l’altro che annegò inseguendo i nemici. Là pregava con le mani protese Federigo Novello, e quel
pisano che fece sembrare il virtuoso Marzucco forte. Vidi il conte Orso e colui la cui anima fu divisa
dal suo corpo per odio e per invidia, come egli
diceva, non per una colpa commessa; parlo di Pierre de la Brosse; e a questo provveda mentre è ancora in vita
la donna di Brabante, così da non finire in una schiera peggiore. Appena mi fui liberato da tutte quante quelle anime
che mi pregavano solo perché altri pregassero [per loro], così che s’accelerasse la loro purificazione, io cominciai:
«Mi sembra che tu, o mia luce, neghi esplicitamente nella tua opera che le decisioni del Cielo possano essere piegate
dalla preghiera; ma queste anime pregano solo per questo: sarebbe dunque vana la loro speranza, o non mi sono ben
chiare le tue parole?». Ed egli a me: «Il mio testo è semplice, e la speranza di costoro non è vana, se ben si esamina
con la mente sgombra [da errori]; perché l'altezza del giudizio [di Dio] non si abbassa per il fatto che il sentimento di
carità dei vivi esaurisca in un istante ciò deve espiare chi si trova qui; e nel passo in cui io io parlai di questo
argomento, non si espiava, grazie alla preghiera, la pena, perché la preghiera era separata da Dio. Tuttavia non
fermarti di fronte a un dubbio così profondo, se non te lo dice colei che farà la luce tra la Verità e l’intelletto. Non so
se capisci: parlo di Beatrice; tu la vedrai più in alto, sulla vetta di questo monte, sorridente e felice». Ed io: «Signore,
procediamo più in fretta, perché già mi stanco meno di prima, e vedi che ormai il monte proietta la propria
ombra». «Noi proseguiremo con la luce di questo giorno», rispose, «ormai quanto più potremo; ma la situazione è
diversa da quel che pensi. Prima di arrivare lassù, vedrai tornare colui che già si nasconde dietro la parete [del monte],
così che tu non interrompi più i suoi raggi. Ma vedi là un’anima che, posta sola soletta, guarda verso di noi: quella ci
indicherà la via più veloce [per salire]». Ci avvicinammo a lei: o anima lombarda, come te ne stavi fiera e disdegnosa
e come eri onesta e pacata nel muovere il tuo sguardo! Essa non ci diceva nulla, ma ci lasciava avanzare, limitandosi a
guardare come un leone quando sta in riposo. Tuttavia Virgilio si avvicinò a lei, pregandola di mostrarci la salita più
agevole; e quella non rispose alla sua domanda, ma ci chiese il nostro paese di provenienza e la nostra identità; e la
mia dolce giuda cominciò: «Mantova…» e l’anima, tutta chiusa in se stessa, si slanciò verso di lui dal luogo dove
stava prima, dicendo: «O Mantovano, io sono Sordello, della tua città!» e si abbracciavano l’un l’altro. Ahimè Italia,
fatta schiava, albergo di dolore, nave senza nocchiere in mezzo ad una grande tempesta, non più donna di popoli, ma
prostituta! Quell’anima nobile fu così veloce, solo per [aver udito] il dolce nome della sua città, a far festa al suo
concittadino; mentre adesso nei tuoi confini i tuoi abitanti non riescono a stare senza farsi la guerra, e l’un l’altro si
combattono coloro che sono racchiusi in un unico muro e in un unico fossato. Cerca, o misera, lungo le coste i
tuoi territori marini, e poi guarda i tuoi territori interni, se esiste alcuna parte di te che gode della pace. A cosa serve
che Giustiniano abbia riaggiustato il freno [dell’autorità], se il trono è vuoto? Senza questo fatto la vergogna sarebbe
minore. Ahimè gente che dovresti essere devota [a Dio], e lasciare sedere l’imperatore sul trono, se ben comprendi
quello che Dio ti insegna, guarda come questa bestia è divenuta indomabile per non essere governata dagli speroni, da
quando hai preso in mano la briglia. O Alberto d’Austria che abbandoni costei che è divenuta indomabile e selvaggia,
mentre dovresti salire sulla sua sella, un giusto castigo dal Cielo ricada sulla tua stirpe, e sia straordinario ed evidente,
tale che il tuo successore ne abbia timore! Perché tu e tuo padre avete sopportato, presi dalla brama di conquista della
Germania, che il giardino dell’Impero fosse abbandonato. Vieni a vedere i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i
Filippeschi, o uomo incurante: i primi già decaduti, gli altri timorosi! Vieni, o crudele, vieni, e osserva l’oppressione
dei tuoi vassalli, e ripara i loro errori; e ti accorgerai di com’è decaduta Santafiora! Vieni a vedere la tua Roma che
piange, vedova e abbandonata, e giorno e notte invoca: «Imperatore mio, perché non mi accompagni?». Vieni a vedere
quanto si ama la gente! E se ciò non ti muove ad alcuna compassione verso di noi, vieni a vergognarti almeno della
tua fama. E se mi è lecito, o Cristo che fosti crocifisso per noi in Terra, sono i tuoi giusti occhi rivolti altrove? O forse
è una preparazione che tu disponi, nell’abisso della tua mente, ad un futuro bene del tutto estraneo alla nostra
comprensione? Perché le città d’Italia sono tutte piene di tiranni, e ogni villano che si pone alla testa di un partito
diventa un Marcello. Firenze mia, puoi essere ben contenta di questa digressione che non ti riguarda, grazie al tuo
popolo che si dà da fare. Molti hanno il senso della giustizia nell’animo, ma tardi viene manifestato perché non venga
attuato senza la giusta riflessione; ma il tuo popolo ce l’ha sulle labbra. Molti rifiutano le cariche pubbliche; ma il tuo
popolo prontamente risponde senza essere chiamato, e grida: «Io accetto!». Ora sii felice, perché tu ne hai ben motivo:
tu ricca, tu in pace, tu saggia! Se io dico il vero, i fatti non lo nascondono. Atene e Sparta, che scrissero le antiche
leggi e furono così civilizzate, diedero per il bene comune un piccolo contributo rispetto a te, che crei così sottili
provvedimenti, che a metà novembre non giunge ciò che avevi emanato ad ottobre. Quante volte, del tempo che
ricordi, hai cambiato leggi, moneta, istituzioni e consuetudine, e hai rinnovato i cittadini! E se ti ricordi bene e vedi
con chiarezza, ti vedrai simile a quella malata che non può trovare pace sulle piume [del letto], ma voltandosi
continuamente cerca sollievo dal dolore.
CANTO 8 PURGATORIO: RIASSUNTO
 
L’atmosfera di nostalgia apre il canto del ricordo e del rimpianto, che si concentrano intorno a due eventi: uno terreno,
l’altro cosmico.
Le anime, ancora legate alla vita terrena, paiono attardarsi nel desiderio della passata condizione, ora che scende la
sera e un nugolo di ricordi s’affolla alla mente.
Nino Visconti, il primo spirito che incontra Dante, si trattiene infatti a ripensare il suo passato di signore e di marito,
nel rimpianto di una condizione di perduta felicità: sua moglie Beatrice D’Este, la quale invece che piangere la
scomparsa, si è affrettata a nuova nozze. Il fatto offre a Dane l’occasione di un’osservazione negativa nei confronti
delle donne, non nuova nella commedia e nella cultura del tempo, ad attestare l’ambivalenza affettiva di cui spesso è
stata ed è oggetto la figura femminile.

La situazione comunque è dominata dall’attesa di un avvenimento sacro che si ripete ogni sera: l’arrivo del serpente e
della sua sconfitta per opera di due angeli muniti di spade fiammeggianti, prive della punta. Il rito rimanda a un fatto
mitico-religioso anticipato dalla comparsa nel cielo di tre stelle presenti nel paradiso terrestre, e ora invisibili all’uomo
sulla terra.

CANTO 8 PURGATORIO: TEMI


 
La costellazione, che fa pensare alla tre virtù teologali (fede, speranza, carità), rinvia ad una felicità perduta, alla
pienezza di un momento i cui l’uomo e Dio vivevano in stretto rapporto di amicizia, prima che giungesse il serpente
tentatore. Anche questa sera giunge il “nemico” e, come allora, prova a stuzzicare l’orgoglio e la superbia di coloro
che furono potenti in vita (i principi) nell’ormai vano tentativo di riportare una vittoria che un tempo, nell’Eden, fruttò
all’uomo la perdita dei privilegi quali l’eternità, la non sofferenza , la perfette felicità.
Ma, nell’assoluto domini di Dio, in cui l’uomo ha già scelto il bene, nulla può il serpente, e le spate spuntate degli
angeli celebrano il rito di nuova sconfitta avvenuta. La pausa rituale s’interrompe con le parole di Corrado Malaspina,
principe di Lunigiana, che chiede a dante notizie della sua terra.
Il poeta coglie l’occasione per elogiare la famiglia Malaspina, presso la quale Dante presto avrà modo di soggiornare.
Il canto della nostalgia, del ricordo di eventi terreni, di fatti che segnarono eternamente il destino dell’uomo,
accompagnato dalle tenere note del “Te lucis ante,”conclude il percorso d’attesa di Dante che tra breve si troverà
davanti alla porta del Purgatorio per iniziare la scalata che lo condurrà a Dio.

Parafrasi
Era già l'ora che ridesta nei naviganti la nostalgia (della patria lontana), (ricordando) il giorno in cui hanno detto addio
ai dolci amici, e in cui l'amore punge il cuore di chi è da poco in viaggio, se sente in lontananza il suono delle
campane (compieta) che sembrano piangere la morte del giorno;
quando io iniziai a non ascoltare più con attenzione e a osservare una delle anime che si era alzata e che chiedeva
ascolto col cenno delle mani.
Essa unì e sollevò entrambi i palmi, fissando l'oriente e sembrando dire a Dio: 'Non mi importa di nient'altro'.
Le uscì di bocca l'inno Te lucis ante con tanta devozione e con note così dolci, che assorbì tutta la mia attenzione;
e anche le altre anime la seguirono con devozione e dolcezza per la durata intera dell'inno, fissando il cielo.
O lettore, aguzza lo sguardo con attenzione al vero, poiché il velo allegorico è qui così sottile che è facile passarvi
attraverso.
Io vidi quella nobile schiera di anime, dopo, guardare verso l'alto come in attesa, pallide e umili;
e vidi scendere giù dal cielo due angeli con spade fiammeggianti, tronche e prive di punte.
Indossavano vesti verdi come foglie appena nate, che portavano dietro colpite e ventilate da penne verdi.
Uno si sistemò sopra di noi e l'altro scese dalla parte opposta, così che le anime si raccolsero al centro.
Io vedevo bene i loro capelli biondi, ma il mio sguardo si smarriva nel loro volto, come quando la potenza visiva è
sopraffatta da qualcosa di troppo superiore.
Sordello disse: «Entrambi vengono dal grembo di Maria, a custodire la valle dal serpente che arriverà tra poco».
Allora io, che non sapevo da che parte sarebbe giunto, mi guardai intorno e mi strinsi alla mia guida fidata, tutto
raggelato.
E Sordello proseguì: «Ormai possiamo scendere nella valle tra le grandi ombre e parleremo loro; gli sarà piacevole
incontrarvi».
Credo di essere sceso solo tre passi, e fui di sotto: vidi uno spirito che mi guardava con insistenza, come se mi volesse
riconoscere.
Ormai l'aria si faceva scura, ma non al punto che tra il nostro reciproco sguardo non diventasse manifesto ciò che
prima era celato (ci riconoscessimo).
Egli mi si fece incontro e io mi avvicinai: o nobile giudice Nino (Visconti), quanto fui lieto di vedere che non eri tra i
dannati!
Ci salutammo con grande cortesia, poi lui chiese: «Da quanto sei giunto ai piedi del monte attraverso le acque
lontane?»
Io gli risposi: «Oh! sono arrivato stamattina attraverso l'Inferno e sono ancora in vita, sebbene facendo questo viaggio
io acquisti quella eterna».
E non appena fu sentita la mia risposta, lui e Sordello si trassero indietro come gente improvvisamente smarrita.
Sordello si rivolse a Virgilio, e Nino a un'anima che sedeva lì accanto, gridando: «Su, Corrado! vieni a vedere cosa
Dio ha permesso per la sua grazia».

Poi, rivolto a me, disse: «In nome di quella particolare gratitudine che tu devi a Dio, che ci nasconde la ragione prima
del suo operare e non ci permette di conoscerla,
quando sarai tornato sulla Terra, di' a mia figlia Giovanna che preghi per me là (in Cielo) dove si risponde agli
innocenti.
Non credo che sua madre mi ami più, da quando ha cambiato le bianche bende del lutto e che, poveretta!, dovrà
rimpiangere.
Con il suo esempio si capisce facilmente quanto poco duri il fuoco d'amore in una donna, se la vista o il tatto non lo
ridesta spesso.
La vipera che costituisce lo stemma dei Milanesi non ornerà il suo sepolcro così bene, come avrebbe fatto il gallo di
Gallura».
Diceva così, con un'espressione che mostrava quel giusto sdegno che gli ardeva con misura nel cuore.
I miei occhi avidi andavano continuamente al cielo, là dove le stelle ruotano più lente (al polo), come fa una ruota più
vicino al suo asse.
E il mio maestro: «Figliolo, cosa guardi lassù?» E io: «Quelle tre stelle che illuminano col loro splendore tutto il cielo
australe».
Allora mi disse: «Le quattro stelle splendenti che vedevi stamattina sono calate dietro il monte, e queste sono sorte al
loro posto».
Mentre lui parlava, Sordello lo tirò a sé e disse: «Guarda là il nostro avversario (il demonio)»; e puntò il dito per
indicarglielo.
Da quella parte da dove la valletta non ha difesa, c'era una biscia del tutto simile, forse, a quella che diede ad Eva il
frutto proibito.
Il malefico serpente strisciava tra l'erba e i fiori, volgendo indietro talvolta la testa e leccandosi il dorso come una
bestia quando si liscia la pelle o il pelo.
Io non vidi, quindi non posso riferire, come gli sparvieri celesti si mossero; ma vidi con chiarezza che entrambi si
erano mossi.
Sentendo che le verdi ali fendevano l'aria, il serpente fuggì e gli angeli se ne andarono, volando insieme alle loro sedi.
L'anima che si era accostata al giudice Nino quando l'aveva chiamata, durante tutto quell'assalto, non smise mai di
guardarmi.
Poi iniziò: «Possa la fiaccola che ti conduce in alto trovare nella tua volontà tanta cera, quanta ne servirà per portarti
alla cima smaltata del monte (l'Eden); se hai notizie di Val di Magra o di un luogo lì vicino, dimmele, poiché io fui là
un uomo potente.
Fui chiamato Corrado Malaspina: non il Vecchio, anche se sono un suo discendente; amai i miei familiari con un
amore eccessivo, che qui si purifica».
Io risposi: «Oh! non sono mai stato nelle vostre terre, ma dove si può andare in tutta Europa senza che esse siano
note?
La fama che onora il vostro casato è celebrata dai signori e dal popolo, cosicché ne è a conoscenza anche chi non c'è
stato;
e io vi giuro (possa arrivare in cima al monte) che la vostra gente onorata non ha mai perso il pregio della borsa e della
spada.
La consuetudine cavalleresca e le qualità naturali la privilegiano a tal punto, che se anche il mondo continua a volgere
il capo al male, essa sola va dritta e disprezza ogni cammino malvagio».

E lui: «Ora va': il sole non si congiungerà altre sette volte con la costellazione dell'Ariete nella quale si trova ora
pienamente, prima che questa cortese opinione ti sia inchiodata al centro della testa con argomenti (chiodi) più efficaci
che non i discorsi altrui, se i decreti divini non muteranno».

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