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Purgatorio

Dante immagina che il Purgatorio sia un’isola circondata dal mare nell’emisfero australe,
che nell’universo di dante credeva che ci fosse solo acqua, mentre dante immagina che ci
sia un’isola che è il corrispettivo che sorge alle antipodi della voragine infernale.
Quando lucifero è stato precipitato sulla terra allontanato per sempre dal cielo e si fosse
conficcato al centro della terra, la terra si è ritratta e inorridita ed è spuntato un monte con
la cifra piatta dove sia collocato il paradiso terrestre.
Quando dante lascia l’inferno lo fa prima scendendo e poi arrampicandosi lungo il corpo
peloso di lucifero rappresentato come un gigantesco pipistrello, risalgono nell’emisfero
australe e si ritrovano sulla spiaggia che circonda il monte del purgatorio dove è
naufragato Ulisse. Virgilio non può arrivare in cielo ma accompagna dante nel paradiso
terrestre.
Struttura
Monte diviso in 7 balze o 7 gironi. Per salire dall’uno all’altro girone dante e Virgilio devono
arrampicarsi e trovare la strada. La salita è sempre più agevole man mano che si sale,
(allegoria). Allegoricamente perché man mano che ci si libera dalla condizione di peccato si
va su sempre più leggeri. Simmetria rispetto dalla struttura dell’inferno, 9 cerchi per
inferno, 9 cieli per paradiso, così il purgatorio è costituito da 9 zone. 7 cornici nelle quali
scontano i loro peccati i peccatori, e poi ci sono 2 zone, ultima è il paradiso terrestre e
l’antipurgatorio che è la zona iniziale.
Antipurgatorio è una fascia che sta ai piedi del monte e qui devono sostare i peccatori che
hanno tardato a pentirsi e sono divisi in 4 tipologie. Scomunicati, pigri (pentiti tardi, hanno
peccato di occuparsi troppo poco e tardi della vita spirituali), morti violente, e principi
negligenti.
Questi peccatori non è che non debbano attraversare tutte le balze, ma devono aspettare
per essere ammessi alla pena.
Invenzione nell’invenzione dantesca: problema del tempo.
Nell’inferno e paradiso tempo è bloccato ed eterno, ma non c’è niente da aspettare, non
c’è una condizione in movimento in inferno e paradiso, le ombre dei dannati si muovono
ma il loro stesso moto è una condanna perché non porta a niente nella loro condizione.
Le anime del paradiso danzano e quindi si muovono.
Il purgatorio è un luogo di mezzo che non esisterà dopo il Giudizio Universale, ci si deve
muovere solo in un’unica direzione e cammino purgatoriale è un cammino d’ascesa che ci
può dedicare aspe
Non si po' andare troppo veloce, o lento, o frastullare, non ci si può muovere quando viene
buio, viene ripristinato un ritmo luce buio, inferno solo tenebre, ma luce come sulla terra
sorge e tramonta, ma non è il sole vero, ma è un astro che allegoricamente rappresenta la
grazia divina, le anime del purgatorio sono in parte legate dalla grazia divina.
Allegoricamente rappresenta che le anime purgatoriali iniziano già a vederla ama devono
compiere cammino di espiazione dei loro peccati, possono entrare in purgatorio. Anime
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Anti purgatoriali Possono entrare nella montagna solo dopo che hanno scontato queste
pene più gravine. Attraverseranno tutte le sette balze.
Anime dell’inferno non s muovono ma vengono balestrati da minosse, mentre le anime del
purgatorio, dante sa che dovrà stare più a lungo nella cornice dei superbi.
Gli scomunicati dovranno attendere un tempo pari al tempo in cui sono stati scomunicati in
terra moltiplicato per 30, tempo della purgazione è fissato dalla provvidenza.
Canto V
1-9: Le anime dei pigri a pentirsi si stupiscono per l'ombra del corpo di Dante
Dante si era già allontanato dal gruppo dei pigri a pentirsi, la seconda delle schiere dei
penitenti dell'Antipurgatorio, seguendo i passi di Virgilio, quando alle sue spalle ode il
commento di una delle anime che si stupisce e richiama l'attenzione delle altre sul fatto
che il corpo di Dante produca un'ombra alla sua sinistra.
Lo spirito comprende che si tratta di un vivo, l’unico in un mondo di spiriti, che si arrampica
con fatica sulla montagna.
La precisazione astronomica par relativa alla direzione del sole rispetto al percorso di
Dante prosegue quella linea di geometrico realismo che caratterizza la cantica: il sole
precedentemente proveniva rispetto ai due pellegrini da sinistra, ma ora i raggi sono
orientati nella direzione opposta perché i poeti, per salire sul monte, hanno girato le spalle
all'astro luminoso. Dante si volta e scorge le anime che lo osservano con meraviglia e con
insistenza. Si tratta dello stesso stupore manifestato dai purganti nel canto III, e che ancora
si ripeterà lungo le balze del Purgatorio con accenti e toni diversi.
10-19: Virgilio invita Dante a non perdere tempo e ad essere forte
Virgilio invita Dante a non indugiare, a lasciare che le anime bisbiglino alle sue spalle senza
curarsi di loro e senza rallentare il passo e lo esorta a seguirlo. Virgilio aggiunge alle
precedenti esortazioni una delle similitudini che meglio rendono la sostanza dello stoico
animo dantesco, quello di un uomo colpito duramente dalle avversità, ma in grado di
sopportarle con fermezza, come una torre che non ondeggia al soffiare dei venti.
La guida chiosa questa sua lezione morale con la considerazione che un individuo in cui un
pensiero germoglia (rampolla, v. 16) continuamente sopra un altro, allontana di necessità il
proprio traguardo da sé, perché l'energia di una nuova riflessione indebolisce (insolla, v.
18) sempre quella del pensiero precedente. In altre parole chi affolla la propria mente di
troppe elucubrazioni perde alla fine di vista l'obiettivo che si era prefisso di raggiungere
con l'ausilio della ragione. Dante doveva aver ben conosciuto fin da giovane questi
momenti di indecisione e di conflitto interiore, come racconta efficacemente nel capitolo
XIII della Vita Nova.
19-21: Dante arrossisce
Turbato da questo meritato rimprovero, Dante non sa cosa rispondere al suo maestro se
non che è disposto a obbedirgli, ma non può trattenersi dall’arrossire di vergogna e
pentimento, atto sufficiente a ottenere in genere il perdono nel caso di colpe non gravi.
Un rossore analogo aveva cosparso le guance di Dante quando era stato ripreso da Virgilio
per essersi attardato ad ascoltare il duello verbale tra due falsari e più in generale, Dante
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aveva elogiato il rossore di vergogna dei fanciulli nel suo Convivio (IV, XIX, 10) come tratto
di nobiltà.
22-27: Un nuovo gruppo di anime si stupisce per la non trasparenza del corpo di Dante:
i morti di morte violenta
Conclusa la parte iniziale del canto, ancora incentrata sulla presenza delle anime dei pigri a
pentirsi, Dante e Virgilio vedono ora una nuova folla che sta scendendo trasversalmente il
fianco del monte su un ripiano leggermente più rialzato, mentre loro stanno salendo dal
basso verso l'alto, per cui finiscono per trovarsela di fronte. È questa la terza e ultima
schiera delle anime dell''Antipurgatorio, quella di coloro che hanno perso la vita per morte
violenta, che hanno avuto solo un breve istante per potersi pentire prima di spirare e che
non hanno potuto quindi ricevere l'estrema unzione che assolve dai peccati. Questo nuovo
gruppo di anime sta percorrendo il monte in senso antiorario, mentre Dante e Virgilio
stanno salendo in senso orario, ossia ruotando verso destra: questo sarà il loro modo di
procedere per l'intero Purgatorio, all'opposto del loro cammino nell'Inferno, generalmente
rivolto a sinistra.
Già nella Bibbia il cammino verso sinistra presenta connotazioni negative, mentre quello
verso destra è segnato al contrario da valori positivi. Le anime che giungono cantano il
salmo Miserere (è l’incipit del salmo L), quello in cui re Davide chiede perdono per i suoi
peccati; si tratta quindi di un salmo di espiazione. Questo canto è il primo che si ode nel
Purgatorio, dopo quello intonato dai penitenti sulla barca dell’angelo. Sarà un motivo
ricorrente dell’intera cantica la presenza di una preghiera coerente con la particolare
condizione delle anime, a significare come canto e preghiera siano l'accompagnamento del
percorso di salvezza.
24: L’espressione a verso a verso allude al modo responsoriale di intonare i salmi, in cui il
popolo dei fedeli alternava con il clero la salmodia. Quando le anime vedono che il corpo di
Dante impedisce il passaggio dei raggi del sole, trasformano il loro canto liturgico in suono
vocalico continuo, in un’interiezione di meraviglia (oh!, v. 27), prodotta con una voce che
con la sua fiochezza esprime esterrefatto stupore (lungo e roco, v. 27).
Paura, commento, vocalizzazioni: in vari modi ciascuna delle tre schiere delle anime
dell’Antipurgatorio reagisce alla sorpresa procurata dalla diversità di condizione del
pellegrino Dante, essere vivo tra i defunti, un corpo in un mondo di spiriti.
28-36: Virgilio spiega alle anime che il corpo di Dante è veramente vivente
Due anime si staccano dal loro gruppo e si dirigono verso Dante e Virgilio con ruolo di
messaggeri; si noti la forma messaggi per “messaggeri", attestata nell'italiano del tempo di
Dante). La loro ambasceria ha lo scopo di ricevere spiegazioni, da comunicare poi agli altri
penitenti, circa l'eccezionalità dell'ombra prodotta da Dante.
A tale domanda, che riguarda la condizione di entrambi i poeti, e cioè il fatto che soltanto
uno di loro si oppone alla luce del sole, Virgilio risponde che Dante è dotato di reale
corporeità, non fittizia come quella dei corpi eterei dei penitenti ('l corpo di costui è vera
carne, v. 33).

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Si noti l’uso tecnico del verbo ritrarre, v. 32, con il significato di “riferire" come spesso
usato nel linguaggio diplomatico dell'epoca. Quindi, se le anime si sono meravigliate di
fronte all'ombra di Dante, prosegue Virgilio, ora conoscono la ragione della non
trasparenza del suo corpo (assai è lor risposto, v.35).
Anzi esse devono rendergli onore anche in funzione di un eventuale vantaggio futuro (ed
esser può lor caro, v. 36), in quanto il poeta potrà sollecitare in terra le preghiere dei
viventi, allo scopo di ridurre il loro tempo di permanenza nel Purgatorio (sul tema si era già
espresso Manfredi in Purg. III, v. 145).
37-45 Le anime si avvicinano velocemente a Dante
La rapidità con cui le due anime messaggere tornano al gruppo delle altre, ferme ad
aspettare, è paragonata, con una similitudine iperbolica, a fenomeni naturali caratterizzati
da straordinaria velocità: le stelle cadenti e i lampi, entrambi collegati, secondo la scienza
del tempo, all'esistenza di vapori infuocati. La sintassi diventa qui molto contratta.
Tenendo presente che secondo la fisica di allora sia le cosiddette stelle cadenti (piccoli
meteoriti) che i lampi erano considerati fenomeni della stessa natura, ossia prodotti da
vapori immessi dal sottosuolo nell'atmosfera e poi entrati in combustione nel salire verso
la sovrastante sfera del fuoco, Dante rivela di non aver mai visto delle stelle cadenti
(Vapori accesi, v. 37) solcare un cielo sereno nelle prime ore delle notti d'agosto né dei
lampi saettare da una nuvola all’altra al tramonto del sole (sol calando, v. 39) con una
velocità superiore a quella con cui le due anime messaggere fanno rientro al loro gruppo
(che color non tornasser suso in meno, v. 40). I penitenti si voltano verso i due poeti,
dirigendosi verso di loro come un esercito in corsa sfrenata (come schiera che scorre sanza
freno, v. 42). Adesso sono consapevoli che potranno beneficiare di riduzioni di pene
purgatoriali tramite il vivente Dante e per questo si accalcano intorno a lui. Comprendendo
la loro ansia, Virgilio esorta l'amico a prestare attenzione alle loro preghiere (e in andando
ascolta, v. 45).
46-57: Gli spiriti dei morti di morte violenta
La schiera si rivolge a Dante e a Virgilio collettivamente e con viva partecipazione.
L'atteggiamento, come sempre in Purgatorio, è gentile e affettuoso, per cui le anime
augurano al poeta di raggiungere la beatitudine sulla cima della montagna (che vai per
esser lieta, v. 46). Gli spiriti annunciano a Dante quello che ancora non possono conoscere,
ma che è la verità. Questi continua a camminare e al tempo stesso ad ascoltare, come gli
ha richiesto di fare Virgilio (v. 45). La speranza delle anime è che Dante possa riconoscere
qualcuna di loro e raccomandarla presso parenti e discendenti affinché intercedano per lei
(sì che di lui di là novella porti, v. 50): la stessa richiesta era stata fatta da Manfredi (cfr.
Purg. III, vv. 103-105). Con ansia perfino insistente i penitenti chiedono a Dante di fermarsi
ad ascoltarle (perché non t'arresti, v. 51): si tratta dei morti per morte violenta (tutti già
per forza morti, v. 52), che, grazie alla misericordia di Dio, hanno comunque, avuto la
possibilità di pentirsi un attimo prima di spirare. Dovranno attendere nell'Antipurgatorio
prima di iniziare il loro cammino di espiazione. Nella struttura della cantica il Purgatorio in
senso stretto inizia infatti al canto IX, oltre la porta custodita dall'angelo portiere, e tutte le
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anime incontrate prima sono per un motivo o per l'altro condannate a un periodo di attesa
preliminare prima di potervi accedere. Solo grazie al tempestivo e illuminante intervento di
Dio, queste persone uccise dalla violenza altrui presero finalmente coscienza di sé e delle
loro colpe negli ultimi istanti fatali della loro vita (quivi lume del ciel ne fece accorti, v. 54).
Così, essendosi pentiti e avendo perdonato allo stesso tempo i loro uccisori, poterono
morire riappacificati con Dio ed essere ammessi da lui alla salvezza eterna; ora però Dio
costantemente li affligge instillando in loro il desiderio di vederlo (del disio di sé veder
n’accora, v. 57). Si noti l'uso assoluto dei due verbi al gerundio pentendo e perdonando, il
primo con valore riflessivo e il secondo con valore passivo.
58-63: Dante promette di intercedere per le anime
Sebbene Dante osservi attentamente questi spiriti nel volto, non ne riconosce alcuno, ma
promette comunque che farà tutto ciò che è in suo potere per aiutarli (voi dite, e io farò, v.
61) in nome di quella pace divina che è da lui invocata muovendosi nei regni
dell'oltretomba (di mondo in mondo v. 63). Si tratta di un giuramento espresso in favore di
spiriti ben nati (v. 60), destinati alla salvezza (al contrario nell’Inferno era usata
l’espressione mal nati per i suoi abitatori), e dunque meritevoli di totale appoggio morale
da parte del poeta pellegrino.
64-72: Iacopo del Cassero
Una delle anime inizia a parlare dicendo che non occorre giurare, dal momento che tutti si
fidano e confidano comunque nell’aiuto del poeta, questo, beninteso, purché egli abbia la
possibilità materiale di farlo.
Lo spirito che coraggiosamente inizia a parlare per primo è quello di Iacopo del Cassero (E
uno incominciò, v. 64), nato a Fano nelle Marche nel 1260 da famiglia guelfa e divenuto
eminente uomo politico e condottiero militare della zona. Partecipò assieme ai guelfi
marchigiani alle guerre di Firenze contro la ghibellina Arezzo. Divenne podestà di Bologna
nel 1296 e ostacolò con successo i progetti di dominio del marchese Azzo VIII d'Este, il
quale lo fece quindi uccidere dai suoi sicari. La morte di Iacopo, che è poi il culmine poetico
del suo discorso (vv. 73-84), avvenne infatti nel 1298 durante il suo viaggio a Milano per
assumerne il ruolo di podestà: nel tentativo di evitare di passare dal pericoloso territorio
ferrarese del marchese d'Este, Iacopo si era diretto prima per mare a Venezia, e poi da lì
avrebbe contato di raggiungere Milano passando per le terre padovane. Ma fu ucciso ad
Oriaco (v. 80) vicino a Padova in un'imboscata tesagli dai padovani che si erano
segretamente alleati con il marchese stesso: il fatto era talmente noto a tutti i
contemporanei di Dante che il personaggio non ha qui neppure bisogno di essere
nominato. Iacopo prega dunque Dante di intercedere presso i suoi parenti ed amici a Fano,
in modo che i buoni possano pregare per lui e così ridurre i tempi necessari alla purgazione
dei suoi peccati (pur ch'i’ possa purgar le gravi offese, v. 72). Fano era situata nella Marca
anconetana, territorio che confinava a nord con la Romagna e a sud con il regno di Napoli
(quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo, vv. 68-69), all'epoca sotto Carlo d'Angiò:
colpisce, in questa bella perifrasi a designare la Marca anconetana, l’uso della stessa forma

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verbale siede (v. 69) che aveva già impiegato Francesca a indicare Ravenna (cfr. Inf. V, vv.
97-99).
73-84: Il tradimento dei padovani e la morte di Iacopo
Iacopo rivela dunque di essere originario di Fano, e che la sua morte ebbe luogo presso
Padova, dove gli furono inferte le ferite mortali dalle quali uscì il sangue in cui si trovava
l'anima stessa.
I padovani sono detti Antenori (v. 75) con riferimento a Antenore, il troiano che, secondo
una leggenda, tradì la sua patria vendendosi ai Greci e fondò poi Padova: egli è per Dante il
prototipo del traditore, tant'è che la sezione di Cocito (IX cerchio dell'Inferno) riservata ai
traditori della patria prende nome proprio da lui (cfr. Inf. XXXII, v. 88). Iacopo sta dunque
dicendo che i Padovani, in quanto discendenti di Antenore, lo hanno tradito vilmente
vendendosi al marchese nemico.
74: L'espressione sangue in sul quale ‘’io sedea’’ va riferita alla scienza medica del tempo di
Dante che riteneva il sangue sede dell'anima. Di grande suggestione poetica è poi
l'immagine di quei fori sanguinanti, dove l'anima scorre fuori dal corpo morente, in una
terra insidiosa e traditrice, acquitrinosa, come sarà ripreso, quasi con effetto di ripetizione
ossessiva, ai vv. 82-84. L'assassinio dunque avviene inaspettatamente, in un territorio che
Iacopo considerava il più sicuro (là dopo io più sicuro esser credea, v. 76) e viene
perpetrato da quel marchese d'Este che provava un odio più grande di quanto gli stessi
codici
della vendetta ammettessero (vv. 76-78). Dante non accetta infatti la legge del taglione,
come modo di risolvere le controversie, e ritiene che neppure la logica della vendetta,
sancita dal diritto medievale, possa lontanamente giustificare il passaggio di Azzo d'Este
dallo scontro politico al vile assassinio. Nello struggente ricordo di quel tragico momento
espresso da un periodo ipotetico (Ma s'io fosse, v. 79) Iacopo ritiene che se, una volta
giunto ad Oriaco, fosse invece scappato verso Mira (paese tra Venezia e Padova) sarebbe
forse ancora vivo: invece il destino o il caso hanno voluto che Iacopo del Cassero corresse
affannato verso la palude, dove le canne e il fango lo impigliarono (e 'l braco m’impigliar,
vv. 82-83) e dove cadde, vedendo lucidamente con i suoi occhi nell'ultimo attimo di vita le
sue vene diventare in terra un lago di verso sangue (vv. 82-84).
Attimi fatali dunque, scelte immediate e azioni serrate (fuggito, sovragiunto, corsi,
m’impigliar, caddi, vid’, farsí) che fanno la differenza tra la vita e la morte, ma del corpo,
mai dell'anima. La poesia di Dante qui tocca il sublime descrivendo una scena
raccapricciante basata sulla rappresentazione di liquidi putridi, e rese con una lingua
poetica e narrativa concreta e materica fatta di fori, sangue, palude, cannucce, braco,
vene, terra,..
85-90: Bonconte da Montefeltro
Terminato il discorso di Iacopo del Cassero, un altro personaggio si rivolge a Dante.
È questa l'anima di Bonconte da Montefeltro, che augura al poeta di poter salire sulla cima
del monte della salvezza come desidera, e allo stesso tempo lo prega di intercedere
pietosamente per lui (con buona pietate aiuta il mio, v. 87).
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Bonconte si presenta dividendo il suo nome in due parti: una consegnata al passato, e una
al presente (Io fui di Montefeltro, io son Bonconte, v. 88). La provenienza geografica del
casato nobiliare non ha più senso in Purgatorio, ma il nome di battesimo, con cui il
bambino assume un’identità redenta, rimane.
Storicamente Bonconte nacque tra il 1250 e il 1255 e fu educato alla guerra divenendo un
abile condottiero: nel 1287 cacciò i guelfi da Arezzo, nel 1288 guidò l'attacco alla Pieve del
Toppo contro i Senesi (episodio rammentato in Inf. del Toppo contro i XIII, v. 121) e fu tra i
capitani ghibellini che combatterono per Arezzo contro la guelfa Firenze nella famosa
battaglia Campaldino (1289), alla quale partecipò anche Dante come feditore a cavallo
(cavaliere armato di lancia delle prime linee).
Bonconte da Montefeltro fu figlio del conte Guido da Montefeltro, il protagonista del
canto XXVII dell'Inferno, dove è presentato come consigliere fraudolento del papa.
Evidentemente esiste una simmetria tra quel canto infernale di Guido e questo
purgatoriale di Bonconte, caratterizzati entrambi dalla disputa, come vedremo, tra una
figura angelica e una figura diabolica per il possesso delle loro anime: entrambe le scene
mostrano delle tenzoni tra messi celesti (san Francesco angelo) e messi satanici (diavoli):
questi personaggi duellano con una viva drammaticità che ricorda molto da vicino quella
delle cosiddette “sacre rappresentazioni" del tempo di Dante messe in scena dai giullari
nelle chiese e nelle piazze. È un fatto storico che Bonconte sia caduto in quel
combattimento e che il suo corpo non sia mai stato ritrovato, fatto dal quale si origina
l'invenzione poetica di questo episodio. Sebbene salvo spiritualmente, Bonconte resta
comunque un personaggio malinconico (e una certa malinconia, assente all’Inferno, spira
in molte scene del Purgatorio), che soffre per la negligenza dimostrata dai suoi discendenti
in terra, che non lo onorano con i ricordi e non fanno celebrare quelle messe in suffragio
che lo agevolerebbero nell'ascesa del monte (altri non ha di me cura, v. 89). Dunque
Bonconte si mostra a testa bassa, triste, perché si vergogna del fatto che né la moglie
Giovanna né gli altri parenti più stretti (la figlia Manentessa e il fratello Federico, podesta
di Arezzo) abbiano più memoria di lui (vv. 89-90).
85: se ottativo,
88: polittoto
91-93: Morte di Bonconte a Campaldino
Dante e Bonconte appartenevano a schieramenti opposti, durante la battaglia che si svolse
nella pianura di Campaldino l'11 giugno 1289; ma l'odio politico è ora dimenticato. Anzi,
Dante chiede a Bonconte quale violenza o quale caso fortuito lo abbia condotto così fuori
da Campaldino da disperdere il suo corpo (non si seppe mai tua sepultura, v. 93). In effetti,
il corpo di Bonconte non fu mai ritrovato dopo la battaglia, per cui Dante immagina che sia
stato travolto da un fiume in piena durante una tempesta causata dalla vendetta del
diavolo sconfitto nella lotta per il possesso della sua anima.
94-102: La misteriosa scomparsa del corpo di Bonconte
La risposta arriva anticipata da un’esclamazione (Oh. v. 94) che rievoca la partecipazione e
il pathos di quella misteriosa sparizione. La descrizione geografica è esattissima, e racconta
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la fine tragica di Bonconte travolto dalle acque del fiume Archiano, un affluente dell’Arno
che nasce nei monti dell’Appennino sopra l'eremo di Camaldoli (che sovra l’Ermo nasce in
Appennino, v. 96) e che attraversa tutta la valle del Casentino (la regione del Valdarno
superiore, tra Firenze e Arezzo) prima di confluire nell'Arno. Si tratta di luoghi ben noti a
Dante che aveva trascorso presso i conti Guidi di Battifolle nel Casentino i primi anni del
suo esilio. Bonconte racconta di essere stato disarcionato e di essere fuggito a piedi dalla
pianura di Campaldino per arrivare al punto in cui l'Archiano si immette nell’Arno e il suo
nome diventa inutile a designarlo (Là 've ’l vocabol suo diventa vano, V. 97) in quanto
scompare nel fiume più grande (come il corpo del condottiero); Bonconte vi giunge ferito a
morte alla gola (forato ne la gola, v. 98), e sanguinante a tal punto che l'intera vallata
sembra insanguinata da questa ferita (sanguinando il piano, v. 99).
Il suo tragico racconto presenta delle immagini molto simili a quelle descritte da Iacopo del
Cassero (vv. 73-84). Analogamente al pentimento dell’ultimissima ora di Manfredi (, anche
Bonconte riesce a salvare la sua anima grazie a un'invocazione che permette il decisivo
inter vento divino (vv. 100-102). Con la vista ormai annebbiata e la voce soffocata
dall'arrivo imminente della morte, Bonconte spira pronunciando il nome di Maria, la
madre di Gesù, la sola speranza di salvezza e di intercessione presso Dio per il peccatore
che vuole alfine redimersi.
103-108: Un angelo e un diavolo si contendono l'anima di Bonconte
Morto il corpo, l'anima di Bonconte è contesa tra un angelo e un diavolo. Bonconte sa che
questa lotta è del tutto eccezionale, e sottolinea a Dante la veridicità di ciò che gli riferisce,
invitandolo a comunicare il suo racconto ai viventi in modo che cresca in terra la fiducia
nella misericordia di Dio onnipotente.
L'angelo prende allora l'anima di Bonconte (l’Angel di Dio mi prese , v. 104), mentre il
diavolo, in opposizione all'angelo, si infuria per quella lagrimetta, v. 107 (il diminutivo
assume un senso dispregiativo nella bocca del diavolo) di pentimento che era stata
sufficiente a salvarlo. Stizzito dalla privazione dell'anima di Bonconte, definita l'etterno (v.
106) in quanto è la parte immortale di un individuo, il diavolo promette allora per
vandalica ritorsione di fare strazio de l'altro (v. 108), cioè della parte finita di Bonconte,
ossia del corpo. Come per Manfredi (cfr. Purg. III, v. 120), il pianto sincero è segno di
pentimento e sufficiente alla salvezza; il diavolo sminuisce il valore di tale segno di
contrizione (la lagrimetta appunto), ma non può far altro che umiliare il corpo, perché la
sua battaglia contro il perdono di Dio è perduta.
109-124: tempesta diabolica sul Valdarno
Proseguendo il suo discorso, Bonconte descrive la tempesta che, causata dal diavolo, si
abbatté sulla piana di Campaldino provocando straboccamenti fluviali che determinarono
lo spostamento violento del suo corpo. L'anima richiama Dante alla sua conoscenza della
fisica aristotelica (Ben sai, v. 109), secondo la quale il vapore acqueo evapora nell'aria e là
rimane fino a che non sale più in alto nell'atmosfera dove l'aria è più fredda (tosto che sale
dove 'l freddo il coglie, v. 111) e fa trasformare nuovamente in acqua il vapore che così
ricade sulla terra. Ciò detto, Bonconte spiega a Dante che il diavolo aveva mosso il vapore
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acqueo e il vento scatenando una tempesta con la forza che gli derivava dalla sua stessa
natura soprannaturale (per la virtù che sua natura diede, v. 114). Alla base di questa scena
stava la credenza che i diavoli, originariamente intelligenze angeliche, avessero la
possibilità di interagire direttamente con le forze della natura, come accadeva anche per le
streghe e in generale per tutti coloro che operavano nella sfera del magico e dell'occulto.
Secondo il racconto di Bonconte, al calar della sera (come 'l di fu spento, v. 115), il diavolo
ricoprì di nebbia la vallata di Campaldino tra i due contrafforti montuosi di Pratomagno e
della Giogaia (vv. 115-117) e rese poi il cielo così addensato di vapori da trasformare l'aria
gravida e gonfia in acqua che cadde sulla terra come pioggia a scroscio (e a' fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse, vv. 120-121): ma non riuscendo la terra ad assorbire
tutta questa pioggia, l’acqua si riversò poi nei fossi, dai quali tracimò nei ruscelli e da li
pervenne ai fiumi principali per poi strabordare nell'Arno così velocemente da travolgere
tutto con sé (che nulla la ritenne, v. 124). All’esito drammatico della storia di Bonconte da
Montefeltro tutti gli elementi della natura concorrono a comporre questa grande pagina di
poesia "romantica".
125-130: Lo strazio del corpo di Bonconte
Il corpo del condottiero ghibellino si trova ora abbandonato e gelido sulla nuda terra, e
viene quindi raggiunto e trascinato con sé dal fiume Archiano, detto con un latinismo
rubesto (v. 126) cioè forte e impetuoso. Elemento fondamentale della narrazione è il
pentimento estremo di Bonconte che invoca il nome di Maria (v. 101) e raccoglie le sue
braccia in forma di croce al momento in cui, vinto dal dolore delle ferite, muore (sciolse al
mio petto la croce, v. 127).
L’invocazione a Maria e la croce formata con le braccia, che testimonia la fede in Cristo
risorto, sono i segni visibili e corporei che permettono a Bonconte di ottenere la salvezza
della sua anima, e che non salvano però il suo corpo dalla rapina delle acque che lo
travolgono fino a ricoprirlo dei detriti ammassati dal fiume nell’inondazione (poi di sua
preda mi coperse e cinse, v. 130).
131-137: Pia de' Tolomei
Conclusi questi versi tempestosi, entra ora in scena il terzo e ultimo personaggio del canto,
Pia de’ Tolomei, cui Dante riserva solo due terzine, ma tra le più belle dell’intero poema.
Storicamente Pia era senese e andò in sposa a Nello Pannocchieschi della Pietra, signore di
alcune terre in Maremma e capitano della parte guelfa dal 1284.
Nello la uccise, probabilmente gettandola giù dallo spalto di un suo castello in Maremma,
per gelosia, o per follia, o forse già con il progetto di sposare in seconde nozze la ricca
Margherita Aldobrandeschi. Sono comunque poche le testimonianze dei cronisti sul
personaggio di Pia, anche se la sua storia, a livello di commento popolare, infarcita da
abbellimenti ed esagerazioni, doveva essere arrivata all'orecchio di Dante già al tempo
della sua giovinezza fiorentina. Il tono di Pia è delicato e gentile; l'anima si rivolge a Dante
con una premura quasi materna, augurandogli di tornare sulla terra e di potersi riposare
del lungo cammino compiuto nei regni dell'oltre vita (e riposato de la lunga via, v. 132).

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Prima di parlare di sé, Pia esprime la sua compassione per Dante che si rivela uomo solo,
povero e bisognoso di riposo e ristoro dalla sua durissima vita di esule vagante.
Come tutte le anime del Purgatorio, anche Pia, che ora si presenta con il suo solo nome di
battesimo, prega Dante stesso di ricordarla in terra per avere aiuto nella sua ascesa
purgatoriale, e in questa richiesta accorata di non essere dimenticata sembra quasi di
avvertire la voce di un'innamorata che teme l'abbandono.
Pia infatti è sola e non ha nessuno che preghi per lei. Si riassumono qui le fasi essenziali
della vita di Pia. Con un'espressione lapidaria divenuta celebre, Pia dice di essere nata a
Siena e di aver trovato la morte in Maremma, quasi lei fosse una pianta nutrita dalla sua
terra e poi seccatasi in un'altra, un verso questo che gioca sull'opposizione semantica di
“fare" e “disfare".
Nella terzina finale, l'autobiografia della Pia senese contiene anche la rivelazione della
omicida violenza domestica del marito, che comunque lei preferisce ricordare nel
momento dell’amore e del matrimonio, indissolubile davanti a Dio, durante il quale le
aveva offerto la fede nuziale. Il marito dunque sa bene che lei è stata uccisa in Maremma
(salsi, v. 136, è forma sincopata per sallosi, “lo sa") e in questa sua presa di coscienza e
consapevolezza della sua colpa imperdonabile deve consistere la sua stessa condanna,
espressa da Pia con voce delicata eppure ferma. Il matrimonio è qui descritto nei suoi due
atti giuridici fondamentali, lo sposare vero e proprio in cui l’uomo assume la donna in
legittima consorte, e la successiva consegna dell'anello (v. 137). La purezza di questi versi
ha colpito innumerevoli lettori (furono realizzati, come per Francesca, perfino dei
pionieristici film muti su questo soggetto di amore e morte): evidentemente Dante, da par
suo, era ben consapevole dell'effetto sublime di chiudere un canto, tutto guerresco e
maschile, con accenti più pacifici e femminili fino a scrivere la parola gemma (v. 137). Forse
un omaggio alla propria infelice moglie, Gemma Donati, rimasta sola a Firenze, anche lei
vittima innocente della violenza altrui

Pagine libro:344-345-357-358

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CANTO VI

1-12: Il gioco dei dadi e la ressa delle anime


In questo esordio di canto le anime sono paragonate ai postulanti che chiedono denaro a
un vincitore nel gioco dei dadi (la zara, v. 1), ennesimo esempio di quella insaziabile avidità
umana che Dante tante volte descrive realisticamente nella sua Commedia; il perdente
rimane triste (colui che perde si riman dolente, v. 2) e ripete mentalmente i suoi tiri, si
rende conto di aver giocato male e vorrebbe aver agito diversamente (e tristo impara, v.
3). Tutti gli spettatori assillano dunque il vincitore: c'è chi gli va davanti, chi lo segue (qual
va dinanzi, e qual di dietro, v. 5), chi lo affianca chiedendogli qualcosa, dato che era usanza
del tempo che egli regalasse una mancia ad amici e conoscenti. Questi, assediato dalla
folla, deve quindi procedere senza fermarsi, prestando un attimo di ascolto a ciascuno dei
parassiti che gli si fanno intorno e regalando qualche moneta in modo da allontanare i più
fastidiosi (e così da la calca si difende, v. 9). Allo stesso modo il povero Dante deve
schermirsi dalla ressa di anime (Tal era io in quella turba spessa, v. 10), girandosi di qua e
di là, promettendo ora a questo ora a quello. L'aspetto più simpatico e vivido della
similitudine tra i postulanti denaro e i postulanti preghiere consiste nel riferimento
specifico alla zara, un gioco di origine araba (zahr) di grande diffusione che veniva praticato
su tavolini improvvisati velocemente nelle piazze e nelle vie delle città: il giocatore
chiamava un numero ad alta voce e poi tirava i dadi dopo averli voltati e rivoltati dentro un
bossolo; se il punteggio dei dadi corrispondeva al numero chiamato, il giocatore vinceva.
Tutto era interamente affidato al caso e estremamente rischioso, e nessuna abilità
particolare era richiesta ai praticanti: per questo motivo dalla parola araba zahr deriva
l'italiano “azzardo" (in provenzale azar, in francese antico hasard, da cui l'inglese hazard).
Più esattamente, la zara si effettuava tra due partecipanti che lanciavano tre dadi, per cui i
punti che venivano fuori potevano andare dal 3 al 18; i numeri 3, 4, 17 e 18 erano
solitamente esclusi in quanto troppo improbabili ed erano pertanto chiamati “azari"; si
chiamava quindi solitamente un numero compreso tra il 5 e il 16, ed erano il 10 e l'11 le
combinazioni più ricorrenti.
13-24: Altre anime di morti violentemente
Segue adesso un catalogo di nomi di anime che si approcciano a Dante, tutti accomunati
dal fatto di essere morti di morte violenta. Il primo a essere nominato è Benincasa da
Laterina, nato nel Valdarno (v. 13), che divenne giudice a Bologna e che condannò a morte
per furto e violenze due parenti di Ghino di Tacco, nobiluomo senese che, bandito dalla
città per i suoi crimini, aveva preso residenza in un remoto castello della Maremma. In
tutta risposta alla condanna del giudice Benincasa, Ghino andò a Bologna e lo decapitò (da
le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, vv. 13-14) mentre sedeva sul suo banco di
giudice, portando con sé la sua testa come fosse un trofeo. Segue nella rassegna lo spirito
di Guccio dei Tarlati di Pietramala, capo della parte ghibellina di Arezzo, che trovò la morte
cadendo da cavallo e annegando (ch’annegò correndo in caccia, v. 15) mentre veniva
inseguito dopo la disfatta di Campaldino, la battaglia cruciale cui Dante partecipò e che
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vide coinvolto anche il protagonista del canto precedente, Bonconte da Montefeltro. Con
le mani protese in avanti (Quivi pregava con le mani sporte, v. 16), secondo una movenza
di supplica, appare ora Federigo Novello, della famiglia dei conti Guidi del Casentino, che fu
ucciso dalla famiglia dei Bostoli di Arezzo per aver aiutato i Tarlati di Pietramala.
Segue l'anima del pisano Gano degli Scornigiani, che fu fatto uccidere dal conte Ugolino
della Gherardesca nel 1288 per aver sostenuto il suo nemico politico Nino Visconti: il padre
di Gano, Marzucco, era un uomo influente di Pisa che si fece frate francescano nel 1286, e
fu conosciuto da Dante a Firenze a Santa Croce tra il 1290 e il 1300; Dante lo chiama qui
forte, v. 18, perché, raccontano i cronisti del tempo, sopportò, senza cercare vendette, il
dolore dell’uccisione del figlio. Dopo le due terzine, che aprono con l'anafora Quivi, segue
una terzina aperta da Vidi (v. 19) che ha come oggetto l'anima di Orso degli Alberti conte di
Mangona, figlio di Napoleone degli Alberti, che fu ucciso per vendetta dal cugino Alberto,
figlio di Alessandro (cfr. Inf. XXXII, vv. 55-60). Chiude la serie degli incontri un penitente
francese, Pierre de la Brosse, nobiluomo della Tourenne e ciambellano di Filippo III re di
Francia, che fu ingiustamente impiccato nel 1278 in seguito all'accusa di tradimento
mossagli dalla regina, Maria di Brabante. In effetti, Pierre de la Brosse (Pier da la Broccia, v.
22) aveva scoperto che la regina, per assicurare il trono a uno dei suoi diretti discendenti,
aveva fatto assassinare il figlio che il re aveva avuto dalla sua prima moglie cui spettava
legittimamente il regno. L'ammonimento di Dante si rivolge dunque alla regina di
Brabante, la quale, in Terra, deve ora fare penitenza per questa grave colpa, per non
rischiare di finire nella schiera degli spiriti infernali (sì che però non sia di peggior greggia,
v. 24). Le storie di violenza che si celano dietro i nomi delle anime incontrate qui dal poeta
rendono chiaro il clima di odi e di ferocia che in quegli anni regnava in Italia e anticipa il
tema che dominerà la seconda parte del canto.
25-33: Domanda di Dante a Virgilio sull'efficacia delle preghiere
Liberatosi finalmente dalla calca fastidiosa delle anime, Dante si rivolge a Virgilio, chiamato
luce mia, per esprimere i suoi dubbi circa l'efficacia delle preghiere dei mortali ai fini dei
mutamenti dei destini oltremondani dei defunti. Il riferimento del poeta è all'Eneide (VI, v.
376), all’episodio in cui la Sibilla cumana rifiuta di traghettare l'insepolto Palinuro al di là
dell'Acheronte e dice: desine fata deum flecti sperare precando (“smetti di sperare di poter
piegare i decreti degli dèi con le preghiere", qui liberamente tradotto al v. 30). Dante
esprime quindi un po' di incertezza sulla questione e chiede se dunque le anime del
Purgatorio sperino vanamente in una riduzione di pena, o se lui abbia invece frainteso o
non compreso a fondo la questione (sarebbe dunque loro speme vana, v. 32).
34-42: Chiarimento di Virgilio
Virgilio spiega a Dante che il proprio testo è chiaro e comprensibile, e d'altra parte la
speranza di queste anime non è errata se la si osserva attentamente con la mente lucida
(se ben si guarda con la mente sana, v. 36). Non c'è contraddizione tra ciò che egli scrive
nell’Eneide (le preghiere non cambiano le decisioni divine) e ciò che avviene in Purgatorio
(gli spiriti si affidano alle preghiere dei viventi perché queste possono mutare le sanzioni

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celesti). L'immagine è quella della cima di un albero che si piega sotto il peso di forze
esterne.
Ma il giudizio divino non si piega, resta immutato: la preghiera di chi ama ancora in terra il
defunto soddisfa per la forza dell'amore quel debito che l'anima dovrebbe scontare sul
monte. In questi versi emerge con evidenza il tema cristiano dell'amore umano dal quale
Dio stesso desidera farsi vincere. Su questa idea poggia l'intera dottrina dei suffragi che è
alla base della stessa concezione del Purgatorio. Inoltre, prosegue Virgilio, ciò che è
cantato nei suoi versi, le preghiere cui fa cenno la Sibilla, sono disgiunte dal pensiero di Dio
in quanto ancora non rivelato dal sacrificio di Cristo. In conclusione non esiste
contraddizione tra il pensiero dell’Eneide e quanto rivelato sul monte, poiché tra il mondo
antico e quello contemporaneo sta la redenzione operata dal figlio di Dio.
43-48: Virgilio preannuncia la visione di Beatrice
Virgilio comprende i limiti della ragione umana ad affrontare filosoficamente e
razionalmente temi così profondi come il fatto che Dio si lasci vincere, per amore,
dall'amore dell'uomo. Egli rinvia allora alle spiegazioni di ordine superiore che Dante
riceverà da Beatrice, la guida celeste del poeta in Paradiso e identificata fino dai primi
commentatori della Commedia con la teologia, in grado di dare luce all'intelletto nella sua
indagine del vero. La misteriosa creatura prima indicata con il pronome quel- la viene
evocata dando enfasi al suo nome, Beatrice (vv. 44-46), che, annuncia Virgilio, sarà visibile
solo una volta giunti in cima alla montagna, radiosa nella sua bellezza felice (tu la vedrai di
sopra... ridere e felice, vv. 47-48).
49-57: Mancano ancora due giorni di viaggio per l'arrivo sulla cima della montagna
Dante, come ode il nome di Beatrice, chiede alla sua guida di avanzare il più velocemente
possibile (andiamo a maggior fretta, v. 49): il raggiungimento della donna da lui tanto
amata in Terra coincide in Dante con la ricerca del bene. Adesso il sole si trova dietro alla
montagna, alla destra dei due poeti e sta declinando verso l'occidente (mentre il mare è
invece a oriente), ed è quindi ormai pomeriggio. Virgilio spiega che è necessario proseguire
nel cammino in corso solo fin quanto sarà possibile, cioè fino a che durerà la luce diurna
(con questo giorno innanzi, v. 52), e che le cose stanno diversamente da quanto Dante
giudichi (stanzi, v. 54) riguardo all'arrivo sulla cima alla fine della giornata; infatti il poeta
vedrà di nuovo e non una sola volta, lungo la strada, sorgere il sole che ora è invece
coperto dalla costa del monte, per cui il corpo di Dante adesso non ne interrompe più i
raggi (sì che ’suoi raggi tu romper non fai, v. 57).
58-66: Un nuovo incontro: Sordello
Virgilio indica a Dante un'anima solitaria, raccolta nel suo silenzio, che guarda verso di loro:
a lei si potrà chiedere il cammino più rapido per salire il monte (ne 'nsegnerà la via più
tosta, v. 60). Questo personaggio appartato e austero è Sordello, il più celebre dei
trovatori italiani. Dante era stato influenzato fin dalla giovinezza dai trovatori, i poeti della
Provenza che scrivevano in occitanico (la lingua d'oc, diffusa nel sud della Francia), e
colloca alcuni di essi nella Commedia.

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Sordello, che pure era italiano, aveva deciso di abbandonare il suo linguaggio nativo, per
comporre la sua opera poetica in provenzale, sulla linea di quella tradizione molto
ammirata in tutta Europa.
67-75: Sordello e Virgilio si abbracciano
Dante e Virgilio si dirigono verso Sordello, che li accoglie impassibile e in silenzio,
accennando soltanto un lento e solenne volgere dello sguardo, composto e concesso in
ritardo, quale si addice a un personaggio importante; il poeta provenzale si mostra con la
stessa terribilità di un leone in riposo (a guisa di leon quando si posa, v. 66) che non si
muove e non si cura di chi gli passa attorno se non seguendolo con lo sguardo,
consapevole della sua forza. L'immagine solenne di quel solitario spirito preannuncia
l'importante discorso profetico che egli pronuncerà. Virgilio gli chiede di mostrare loro la
strada.
Sordello però risponde chiedendo a sua volta, con tono di superiorità e con prudenza,
quale sia la città di nascita e la storia della vita dei due interlocutori (ma di nostro paese e
de la vita, v. 70). Virgilio riesce solo a pronunciare la parola Mantua (v. 72) come suo luogo
di nascita, secondo la dicitura del celebre epitaffio apposto alla sua tomba a Napoli che
Sordello, anch'egli originario della stessa patria, subito si commuove. Scambia allora un
abbraccio fraterno con il poeta antico: colpisce il simbolismo di questo gesto che inneggia
all’amor patrio e che suscita, per contrasto, la condanna da parte di Dante dello stato
degradato e fratricida dell’Italia del suo tempo. Secondo una logica di simmetrica
ripetizione, Dante fa del canto VI di ogni cantica della Commedia il luogo deputato per
esporre il proprio pensiero politico: si pensi alla Firenze di Ciacco nel canto VI dell’Inferno,
ora qui all'Italia di Sordello, infine alla storia del mondo allora conosciuto narrata
dall'imperatore Giustiniano nel canto VI del Paradiso.
76-81: Ahi serva Italia..!
L'apostrofe di Dante all’Italia si apre con un'esclamazione di dolore, sentimento che
pervaderà l'intero canto. Storicamente, il concetto di Italia risale al tempo della Roma
classica e il poeta lamenta il ruolo decaduto del proprio paese che, al tempo dell’Impero
romano dominava tutti i popoli del Mediterraneo e dell’Europa continentale, mentre ora è
ridotta a serva di dominatori stranieri, governata al suo interno da tiranni ignobili e
insanguinata da una costante guerra civile tra fazioni, per cui è diventata la casa del dolore
(di dolore ostello, v. 76). Per Dante l'unica soluzione politica risiede nella ricostituzione, in
chiave cristiana, dell'antico dominio romano sotto l'egida dell'imperatore di Germania
(come più volte espresso nella Commedia, e definito a livello teorico nell'opera
Monarchia). L’Italia è infatti priva di una guida politica legittima, per cui il paese è ora come
una nave senza nocchiero in una grande tempesta (nave sanza nocchiere in gran tempesta,
v. 77). Secondo un modulo di personificazione che sarà ripreso anche da Petrarca e
successivamente da Leopardi, Dante raffigura ora l’Italia come una donna sventurata,
decaduta dal ruolo regale di signora delle nazioni a quello di squallida meretrice: è
l'emblema di un paese che ha infatti perduto la sua dignità e il suo potere, ed è diventata
luogo di prostituzione, in quanto le cariche politiche ed ecclesiastiche si comprano e si
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vendono come in un bordello (v. 78). All'opposto Sordello, con sincero amor patrio,
festeggia prontamente Virgilio al solo richiamo alla sua terra natale (di fare al cittadin suo
quivi festa, v. 81).
82-27: Le città dilaniate dalla guerra civile
Adesso la guerra civile dilania il cuore di ogni città, i loro abitanti vivono in uno stato di
lotta permanente e si divorano gli uni con gli altri con ferocia.
Tutto il discorso, intriso di profonda amarezza, è rivolto ad un'Italia personificata dal
pronome personale tu (in te, v. 82) e dai possessivi corrispondenti (tuoi, v. 83). Questo
modulo retorico, che consiste nel parlare a cosa inanimata (ad esempio una città) come
fosse viva, è particolarmente caro a Dante, che dimostra di averlo in pregio fino dai tempi
della Vita Nova. Il poeta invita allora l'Italia a scrutare per ogni dove nel suo territorio,
metaforicamente assimilato al corpo di una donna, e constatare che non c'è pace in nessun
luogo, né lungo litorali marini, né nell’entroterra, inteso il seno (v. 86) di questo corpo
sofferente. Le leggi in Italia non vengono applicate (88-90) Che valore ha avuto l'opera di
Giustiniano che pose [ti racconciasse] un freno ai disordini se è vuoto il trono [la sella]
(dell'imperatore)? Senza questo freno la tua vergogna sarebbe (fora] minore. Con una
interrogativa retorica, Dante chiede a cosa sia servito che l'imperatore Giustiniano avesse
fatto compilare un Corpus di leggi, se poi queste leggi non vengono applicate e rispettate.
Giustiniano difatti (come lui stesso esporrà ampiamente nel canto VI del Paradiso) aveva
fatto comporre dai suoi giuristi la summa dell’intero diritto romano, fornendo così le basi
per la moderna giurisprudenza. La metafora sottesa in questi versi è quella della cavalla e
del cavaliere, in cui la cavalla è Italia che, nonostante abbia avuto chi le ha riordinato e
stretto il freno, cioè le leggi necessarie per una condotta civile, non ha ora un cavaliere che
la guidi (se la sella è vòta, v. 89), una istituzione cioè che quelle leggi faccia rispettare.
91-96: La Chiesa usurpa il potere politico
La Chiesa dovrebbe rispettare il volere di Cristo espresso nei vangeli, dove si chi gestire il
potere temporale e politico sulla terra, e quello della Chiesa, sposa di Dio, nel gestire
quello spirituale. Ma ora la Chiesa, intromettendosi negli affari politici che non le
competono, ha infranto la legge divine (se bene intendi ciò che Dio ti nota, v. 93). Chiaro il
riferimento ad alcuni passi dei vangeli, che sanciscono la divisione tra la sfera politica e
quella spirituale, e richiedono assoluta povertà alla Chiesa .
Come espresso in sede teorica e concettuale nel Monarchia (III, XII-XIV), Dante crede
fermamente nella necessità di dividere il potere politico (Stato) da quello spirituale
(Chiesa): se dunque l'avida Chiesa ascoltasse la voce di Dio, dovrebbe lasciare
all'imperatore il ruolo di cavaliere e condottiero dell'Italia (lasciar seder Cesare in la sella, v.
92). Anzi, proprio a causa delle ingerenze della Chiesa il paese è diventato una cavalla
imbizzarrita e indomita (fella, v. 94) perché non c'è chi, come l’imperatore, la cavalchi
adoperando correttamente gli sproni (con cui si dirige e si lancia un cavallo colpendone i
fianchi); la Chiesa può guidarla invece solo per le briglie (predella, v. 96) in modo del tutto
improprio. Ma senza l'ausilio degli sproni la cavalla appare sempre più ribelle.

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97-105: Invettiva contro gli imperatori di Germania
L'invettiva è ora rivolta all’imperatore di Germania che, come guida suprema del Sacro
Romano Impero, dovrebbe occuparsi attivamente degli affari italiani. Il bersaglio è Alberto I
d'Austria, figlio di Rodolfo d'Asburgo, eletto imperatore nel 1298 e ucciso a tradimento nel
1308. Dante lo chiama tedesco, (v. 97) forse a sottolineare l'attenzione che rivolge alle sole
questioni interne alla Germania; a causa del suo disinteresse nei riguardi della nostra
penisola, questa infatti è divenuta ormai un luogo del tutto selvaggio e ribelle (ch’è fatta
indomita e selvaggia, v. 98). Violenta è la maledizione scagliata dal poeta contro Alberto,
per essere venuto meno al dovere imperiale: a lui e alla sua discendenza augura disgrazie e
lutti, come effetti di un giusto castigo di Dio (giusto gindicio da le stelle caggia, v. 100). In
effetti Alberto fu ucciso nel 1308 e il figlio primogenito Rodolfo morì di una malattia
fulminante a soli 26 anni, nel 1307: Dante in realtà compone questi versi di maledizione a
fatti avvenuti, dopo il 1308. Il poeta si rivolge già al suo successore, Arrigo VII di
Lussemburgo eletto il 27 novembre 1308, che invita a scendere col suo esercito in Italia,
per ricostituire il Sacro Romano Impero e riportare l'indomita Italia sotto la guida sicura del
legittimo Cesare. In effetti, Arrigo VII aveva espresso, nella dieta di Spira del maggio 1310, il
suo progetto di affrontare le vicende interne del nostro paese e a questo fatto cruciale
Dante si ricollega qui per sollecitarlo all’impresa. Dunque l'accusa di Dante rivolta a Arrigo
VII e al padre Rodolfo (cfr. Purq. VII, v. 94) è quella di aver tollerato, per cupidigia di
guadagni a favore della sola Germania, l'abbandono dell'Italia, la regione invece più bella
dell'impero e dunque con commozione chiamata 'l giardin de lo ’mperio (v. 105).
106-117: Esortazione all'imperatore Alberto
Quando Dante scrive questi versi, come detto, Alberto è morto (1308), e Arrigo VII ha già
annunciato (1310) di aver intenzione di scendere in Italia con il suo esercito per rendere
effettivo il proprio titolo di rex romanorum. Dunque la presente esortazione va riferita
implicitamente a Arrigo VII; tuttavia, il tempo narrativo della fictio è, come si sa, il 1300,
per cui Dante (per mantenere la coerenza della cronologia) si rivolge ad Alberto. Le quattro
terzine comprese dal verso 106 al verso 117 sono caratterizzate da un’anafora (Vieni.) che
ha lo scopo di sollecitare una presa di posizione da parte di Alberto. Inizia quindi una
rassegna di nomi di famiglie nemiche e di luoghi che stigmatizzano la grave situazione a lui
contemporanea: intorno ai Montecchi, famiglia ghibellina di Verona, si era raccolta la
fazione imperiale, mentre intorno ai Cappelletti una famiglia guelfa di Cremona quella
antimperiale e la loro lotta aveva sconvolto per molti anni l'intera Lombardia; i Monaldi e i
Filippeschi, due famiglie eminenti di Orvieto, ghibellina la prima e guelfa la seconda
avevano a lungo combattuto per il predominio nell'Italia centrale. i Monaldi avevano
perduto le loro città perché vinti dalla famiglia nemica (color già tristi, v. 108), ma anche i
Filippeschi già sentivano l'angoscia di una loro fine imminente. Dante richiama l'attenzione
dell’imperatore sulla condizione dei suoi feudatari (vedi la pressura d’i tuoi gentili, vv. 109-
110), che dominavano su territori dell’Italia per conto dell’imperatore stesso, condizione
resa più debole dall'espandersi della nuova civiltà comunale. Emblematico è il caso di
Santa Fiora (v. 111), feudo degli Aldobrandeschi, sul monte Amiata, famiglia che aveva
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dominato su tutta la Toscana meridionale, ma in cui potere ormai era schiacciato dalla
crescente potenza di Siena. E infine Roma, la città un tempo sede dell'impero, è ora come
una vedova che piange notte e giorno per l'assenza del suo legittimo sposo (Cesare mio,
per ché non m’accompagne, v. 114).
L’apostrofe all'imperatore si chiude con il riferimento ironico a scendere nella penisola se
non per pietà degli Italiani, almeno per fendere il proprio onore di legittimo erede
dell'impero, umiliato dai nuovi poteri emergenti (a vergognar ti vien dide la tua fama, v.
117).
118-126: Invocazione a Dio
Dante si rivolge a Dio chiedendogli perché non giunga a soccorrere un paese ormai allo
sfacelo (si noti che Dante nei versi 118-119 definisce Dio con una perifrasi ardita che
assimila il termine classico di sommo Giove (v. 118), il Dio padre dei Romani, con
l’espressione che fosti in terra per noi crucifisso (v. 119), riferita invece a Cristo, figlio di
Dio. Il poeta si chiede ancora se lo sguardo divino è rivolto altrove, oppure il male di cui
facciamo esperienza nelle vicende politiche delle nostre città non è altro che la
prefigurazione di un bene futuro che l’uomo, nella limitatezza delle propria mente e nella
impossibilità di sondare la profondità infinita del pensiero divino, non può scorgere (de
l’accorger nostro scisso, v. 123). La situazione politica è infatti penosa, perché in ogni città
d’Italia ci sono dei tiranni che hanno usurpato il potere: l’allusione a Marcel (v. 125) è al
console Claudio Marcello, avversario di Cesare (e dunque, nella visione di Dante, del
legittimo potere imperiale), di cui raccontano Lucano nel suo Bellum civile e Orosio nelle
sue Storie. E come Claudio Marcello ogni uomo, anche della più bassa condizione (e un
Marcel diventa ogne villan, v. 125-126), può ambire a guidare una città, con la stessa
arroganza e superbia dell’uomo politico romano.
127-135: Invettiva contro Firenze (127-135)
L’ultima grande invettiva è rivolta a Firenze, ed è segnata da profonda amarezza e tristezza.
Dante si esprime col sarcasmo come fa in genere quando tratta di questioni legate al
dramma della sua città; dichiara subito in apertura che la sua digressione non riguarda
Firenze, che questa può ritenersi felice di non essere nominata nella reprimenda che
precede e questo grazie ai suoi cittadini, che si danno da fare per migliorare le cose; ma
non è così: Firenze è la peggiore tra tutte le città italiane. Si noti qui l’uso del possessivo
Fiorenza mia (v. 127) a stabilire un legame affettivo con la sua terra di origine, che non ha
ricambiato però il suo amore, al pari di una madre snaturata.
Segue un’anafora (Molti...) che lega le due terzine dei vv. 130-135. I Fiorentini, sottolinea
Dante con ironia, sono diversi dagli altri cittadini d’Italia perché mentre altrove molti
hanno il senso di giustizia nel loro cuore, ma per prudenza e solo dopo matura riflessione,
lo rivelano con le parole, essi lo conoscono bene e lo dichiarano subito (ma il popol tuo l'ha
in sommo de la bocca, v. 132). A Firenze la giustizia è patrimonio comune.
La metafora usata è quella della freccia che tocca con la sua punta l'arco quando la corda è
nella massima tensione, e poi scocca, cioè si stacca quando l'arciere la lascia per far sì che
la freccia schizzi via. I Fiorentini sono dunque, detto ancora con ironia, più giusti e rapidi
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degli altri. Inoltre mentre in altre città sono rifiutati gli incarichi pubblici onerosi, il popolo
di Firenze risponde anche senza essere chiamato, sempre disposto a caricarsi di un peso,
mosso da una spontanea vocazione al sacrificio di sé a favore della comunità (ma il popol
tuo solicito risponde, v. 134, si noti qui l’uso del verbo sobbarcarsi che nella lingua del
duecento significava “alzarsi le vesti per disporsi agilmente a un lavoro di fatica").
136-151: La sofferenza di Firenze
Firenze può ritenersi serena e soddisfatta di sé, e a ragion veduta perché è una città ricca,
in pace, e piena di intelligenza e cultura! Firenze in realtà non ha né pace né senno e la sua
ricchezza materiale è proprio la causa della sua infelicità. Addirittura, Dante confronta le
leggi e la qualità della vita della sua città con quelle di Sparta e Atene (Atene e
Lacedemona, v. 139), giudicando la Firenze superiore ai due centri dell’antica Grecia (che a
partire dalle costituzioni di Licurgo a Sparta e di Solone ad Atene sono divenute i modelli
dei sistemi giuridici occidentali). In questi versi il sarcasmo raggiunge i suoi massimi effetti.
Adesso il tono cambia nuovamente e il linguaggio di Dante diventa finalmente scoperto e
desolatamente tragico. A Firenze, infatti, le leggi sono tanto sottili (v. 142), cioè “fini" e
“astute", ma anche "fragili" (si noti la voluta ambiguità semantica del termine), che prima
della metà di novembre sono già decadute quelle deliberazioni che il Comune aveva
stabilito in ottobre. È questa una chiara allusione ad un episodio centrale della vita del
poeta: egli fu infatti eletto alla carica di priore per il bimestre il 15 ottobre 1301, ma fu
costretto a dimettersi dai guelfi Neri il 7 novembre per poi essere esiliato nel gennaio 1302.
La realtà è dunque quella di una assoluta instabilità politica e giuridica: non è possibile
secondo il poeta governare e tutelare gli interessi dei cittadini se le leggi cambiano
continuamente e in modo arbitrario. Tutto è dunque effimero a Firenze, e, nel tempo, la
città ha cambiato leggi, moneta (il nuovo fiorino d'argento fu introdotto nel 1296), cariche
pubbliche, stile di vita e sono cambiati pure i cittadini a causa di esilio e immigrazioni
continue.
A proposito delle cariche pubbliche è storicamente accertato che nella seconda metà del
Duecento Firenze passò dal sistema con due podestà a quello con quattordici buonuomini
e poi a quello con sei priori, il tutto nel giro di pochi anni tumultuosi. Riguardo alle
immigrazioni dal contado, Dante si mostra conservatore nel giudicare negativamente
qualsiasi cambiamento che potesse alterare la primitiva consistenza e natura della
popolazione: questa mutava anche in seguito alle continue sentenze di esilio che
determinavano un susseguirsi di cacciate e di rientri (i guelfi furono cacciati nel 1248 e
rientrarono nel 1250, ghibellini furono cacciati nel 1258 e rientrarono nel 1260, i guelfi
ritornarono nel 1267 e cacciarono i ghibellini). Dunque Firenze conserva ancora la capacità
di guardare dentro se stessa, si vedrà nella condizione infelicissima di una donna malata
che si gira nel letto cercando inutilmente di lenire un dolore costante (quella inferma che
non può trovar posa in su le piume, vv. 149-150). Dunque il canto si chiude con una scena
desolante, esempio manifesto del male che domina l'amata patria del poeta.
Pagine libro 1: 360-361-371-372

18
Canto XVI

1-9: Il fumo dell'ira


Il canto ha inizio con un piano andamento narrativo e descrittivo. Ci troviamo nella terza
cornice del Purgatorio, quella riservata agli iracondi e abbiamo assistito, alla fine del canto
precedente, al diffondersi improvviso di un fumo densissimo che toglie completamente la
vista delle cose. Tale fumo rende fisicamente il significato degli effetti dell'ira, cieca
passione furiosa che brucia nell'animo e produce per allusione una spessa coltre che
ottenebra la mente. Ecco che il buio che Dante aveva incontrato nell''Inferno (Buio
d’inferno, v. 1) e il nero della notte quando il cielo, coperto di nubi, è privo di ogni astro
luminoso e di ogni ricchezza celeste (notte privata d'ogne pianeto, vv. 1-2), non erano stati
per i suoi occhi un ostacolo così insormontabile come quel fumo dal quale viene avvolto,
tanto irritante al contatto da non permettere di mantenere sollevate le palpebre.
Il saggio e fidato Virgilio gli si avvicina allora e gli offre la sua spalla come sostegno (I’omero
m’offerse, v. 9).
10-15: Una similitudine per chiarire l'aiuto di Virgilio
Il poeta, come il cieco si affida alla sua guida per seguire il giusto cammino ed evitare
impedimenti che fargli male o ucciderlo (o forse ancida, v. 12), avanza in quello spazio,
respirando un'aria acre e sporca; ed obbedisce alle parole del suo duca che lo esorta a non
allontanarsi da lui. Si noti come in questo inizio di canto le rime offrano, a livello di suono,
una analogia con la sensazione fastidiosa e secca che produce il contatto del fumo con gli
occhi, richiamando una dimensione infernale (coperse-sofferse-offerse, cozzo-sozzo-
mozzo); non a caso la parola inferno appare già nel primo verso del canto, emblema e nota
dominante di questo incipit.
16-21: Dante ascolta il canto dell'Agnus Dei
Il poeta ode ora risuonare delle voci, ognuna delle quali prega, per avere pace e
misericordia, l'Agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo. E Agnello di Dio sono le parole
di inizio della preghiera (le loro essordia, v. 19, latinismo dal neutro exordium), cantate
dalle anime con una sola emissione di parole e con identica intonazione (modo, v. 20), in
assoluta concordia (v. 21), in opposizione alla discordia che quelle stesse anime, durante la
vita, avevano generato con la loro rabbiosità. Si ripensi alla scena di Inf. III, vv. 1-30, dove
Dante, pur nell’oscurità dell'ambiente, sente provenire, dal basso oscuro della terra, le voci
di sofferenza dei dannati e inizia ad avere coscienza di ciò che lo circonda, con una
percezione acustica ancor prima che visiva. L'Agnus Dei (Agnello di Dio, v. 19), fa parte
della liturgia quotidiana della messa. Il testo canonico recita: Agnus Dei, qui tollis peccata
mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui
tollis peccata mundi, dona nobis pacem (“Agnello di Dio, che togli i peccati dal mondo, abbi
pietà di noi. Agnello di Dio, che togli i peccati dal mondo, abbi pietà di noi. Agnello di Dio,
che togli i peccati dal mondo, dona a noi la pace"). Si tratta quindi di un’invocazione diretta
a quella misericordia e a quella pace che possono essere evocate solo dall’Agnello di Dio,
ossia Gesù Cristo, che offrendo la propria vita, come l'animale sacrificale, ha salvato
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l'umanità dal peccato originale. Tecnicamente, si tratta del canto all'unisono usato per le
antifone, ovvero breve recitazione in musica proposta al salmo, dove la presenza di molte
voci che eseguono la stessa partitura crea un arricchimento della gamma timbrica e un
aumento del volume di suono complessivo.
22-27: Dal canto alle parole: un'anima si rivolge a Dante
Il poeta chiede a Virgilio se quelli che ascolta cantare siano spiriti e la sua guida risponde
che essi sono le ombre di coloro che stanno pagando, in quel luogo, il debito dell'ira,
paragonato a un nodo da sciogliere per liberarsi dal vincolo di un pagamento (d’iracundia
van solvendo il nodo, v. 24); tutto ciò avviene mediante il canto di preghiere di pace, un
antidoto della rabbia furiosa che è il peccato che le opprime. Improvvisamente emerge una
voce che domanda a Dante, con tono perentorio, chi sia e perché si trovi fra loro, così
avvolto dal fumo che taglia col corpo; e ciò che lo meraviglia è che parli dei penitenti come
se ancora calcolasse il tempo che scorre in mesi e anni (partissi ancor lo tempo per
calendi?, v. 27) come accade in terra tra i vivi (questi infatti non sono ancora entrati nella
dimensione eterna e quindi scandiscono il tempo per calende, che sono i primi giorni del
mese secondo l'antico calendario romano).
28-45 Nel buio, Dante chiede all'anima chi sia
Virgilio esorta Dante a rispondere e a domandare a sua volta se la direzione da loro presa
conduca correttamente alla cornice superiore (se quinci si va sùe, v. 30). Il poeta, rivolto
all'ombra, confessa che si sta purificando dalle sue colpe per raggiungere Dio in Paradiso e
gli annuncia, se lo spirito lo seguirà senza fermarsi, parole che desteranno la sua meraviglia
(maraviglia udirai, se mi secondi, v. 33). L’ombra ribatte che asseconderà la richiesta di
Dante, per quanto possibile, poiché alle anime degli iracondi non è concesso uscire dallo
spazio occupato dalla coltre di fuliggine e che se il fumo impedirà loro di vedersi, saranno
le voci a tenerli vicini (l'udir ci terrà giunti in quella vece, v. 36). Il poeta racconta di essere
in viaggio per la montagna del Purgatorio, dopo aver provato l'angoscia delle pene infernali
(per l’infernale ambascia, v. 39), con quel corpo di vivente che avvolge l'anima ed è
destinato a dissolversi con la morte. E se Dio gli ha concesso tanta grazia da consentirgli di
raggiungere il Paradiso, in un modo del tutto inconsueto, l'ombra non gli nasconda chi è
stata prima di morire (non mi celar chi fosti anzi la morte, v. 43) e gli dica se la strada che
sta seguendo, per salire la montagna, sia quella giusta; le sue parole saranno guida, in quel
buio opprimente, al suo cammino (vv. 40-45, si notino il vocabolo varco, a indicare il
passaggio alla quarta cornice sovrastante e la forma sincopata dilmi equivalente a “dillo a
me"). Dante sottolinea ancora una volta l'eccezionalità del suo viaggio celeste, privilegio
concesso in passato solo a san Paolo.
46-48 L'anima è quella di Marco Lombardo
Lo spirito rivela essere Marco Lombardo e di aver avuto esperienza del mondo e amato le
virtù civili e della cavalleria; la metafora qui impiegata è quella del tendere o allentare
l'arco (disteso larco, v. 48), nel senso di mirare o no ad uno scopo. Marco intende: oggi
l'arco non è più utilizzato per mirare ai valori umani e cavallereschi ma solo a conseguire i
propri interessi personali. Marco era originario della Lombardia, che allora designava tutta
20
l'Italia settentrionale, cioè il territorio che era stato dominato dai Longobardi e il cui nome
a volte indicava l'Italia intera; per questo motivo a Londra, Lombard street è la via dove si
trovavano i banchi dei nostri mercanti. Si hanno poche notizie certe sul personaggio che fu
probabilmente noto al tempo di Dante come uomo di colte: il suo nome è citato nel
Novellino, raccolta di novellette fiorentine spiritose del Duecento, e in alcuni passi della
Cronica di Giovanni Villani, dove figura come cortigiano amante della pace e alieno ai
compromessi. Visse presso vari signori nel Nord e molto probabilmente dimorò a lungo
presso il palazzo di Gherardo da Camino a Treviso, nominato in questo canto al verso 124
(7 buon Gherardo).
49-54: Marco, alter ego di Dante
La figura di Marco Lombardo svolge un ruolo fondamentale nella elaborazione di alcune
delle principali tematiche politiche e religiose del poema: il personaggio diventa il
portavoce di Dante in merito alle questioni del libero arbitrio, della corruzione del mondo,
del rapporto tra l'Impero e la Chiesa. Anche rispetto alla architettura generale della
Commedia, il dialogo tra il poeta e Marco si situa in posizione assolutamente centrale: si
svolge infatti al canto XVI della seconda cantica, precedendo dunque 49 canti e
seguendone altri 50. L'ombra, rivolta adesso a Dante lo esorta a seguire la via diritta se
vuole intraprendere il giusto cammino, non dimenticando di pregare per lui quando sarà in
Paradiso (che per me prieghi quando sù sarai, v. 51). Dante promette di fare ciò che lui
domanda, ma un dubbio ancora lo preme, così forte da doverlo sciogliere per non
rimanerne tormentato (ma io scoppio dentro ad un dubbio, vv. 53-54).
55-63: Dante chiede a Marco Lombardo la causa della corruzione del mondo
La grave incertezza di Dante era già affiorata nell'ascoltare le parole di Guido del Duca sulla
corruzione dell'umanità (cfr. Purg. XIV, vv. 37-40); ma ora essa si rinforza dopo aver udito
le parole di Marco (ne la sentenza tua, v. 56) e riguarda il tema della corruzione del mondo.
Se quel mondo è davvero privo di ogni virtù, come afferma lo spirito, ed e colmo nel
profondo e in superficie di ogni malizia, gli riveli la causa di tanto male (m’addite la
cagione, v. 61), così che il poeta a sua volta la possa comunicare agli uomini con la sua
opera. Alcuni infatti credono che la corruzione sia dovuta all’influsso degli astri (ché nel
cielo uno, v. 63), altri invece che risieda nella volontà dell’uomo.
64-72: L'origine della corruzione è nelle scelte degli uomini
Lo spirito, con un profondo sospiro che si chiude in un doloroso e sonoro gemito («uhi!», v.
64), si rivolge a Dante chiamandolo fratello e gli rivela che se il mondo è cieco, cioè lontano
dalla verità, allo stesso modo lo è lui che da quel mondo proviene (e tu vien ben da lui, v.
66). Coloro che vivono in Terra attribuiscono ogni causa di ciò che accade all'influenza delle
stelle (ogne cagion recate pur Suso al cielo, vv. 67-68), come se gli eventi che si succedono
fossero provocati necessariamente dal moto dei cieli. Se fosse davvero così non
esisterebbe per l'uomo il libero arbitrio e non avrebbe senso premiare con le gioie del
Paradiso chi compie il bene e punire con l’Inferno i colpevoli del male (per male aver lutto,
v. 72). Dante segue, in questo processo logico, il metodo delle questiones universitarie
medievali, esercizi di esame dove lo studente doveva replicare alle affermazioni del
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professore, per convalidarle alla fine di un complesso ragionamento, dopo aver tentato per
assurdo di dimostrarne il contrario; la tesi è infatti qui condotta attraverso un periodo
ipotetico della irrealtà: Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto (vv. 70-72) Ha inizio ora la dimostrazione in positivo,
dopo aver negato quella iniziale.
73-81: Marco, portavoce del pensiero teologico di Dante
Gli astri determinano invero la prima inclinazione negli affetti umani (Lo cielo i vostri
movimenti inizia, v. 73), aggiunge Marco Lombardo; dunque, entro una certa misura,
Dante crede agli influssi delle stelle. Però, non tutti i moti dell'animo sono soggetti ad essi,
perché ne esistono altri che sono causati da consuetudine o istinto; e comunque, ammesso
che i cieli influenzino l'esordio di ogni movente umano, l'individuo ha sempre in sé la luce
della ragione che può fargli discernere tra bene e male, e soprattutto possiede il libero
arbitrio (libero voler, v. 76); e quest’ultimo all’inizio deve combattere con affanno gli istinti
determinati dagli astri, ma se ben alimentato (se ben si notrica, v. 78) ed educato dalla
buona consuetudine, sconfigge ogni maliziosa tendenza. Il poeta qui si richiama alla
tradizionale distinzione tra l’intelletto che ha il compito di giudicare e la volontà che invece
lo di scegliere. L’uomo libero deve soggiacere ad una forza migliore e ad una natura più
potenti (A maggior forza e a miglior natura, v. 79) di quelle dei cieli, cioè a Dio stesso che
ha creato in lui l'anima razionale fatta di intelletto e volontà, che le stelle non sono in grado
di dominare. In altre parole l'anima dell’uomo dipende direttamente da Dio e non è
soggetta (come lo sono invece gli appetiti), agli influssi astrali. L'uomo è libero di fare le
proprie scelte e al tempo stesso soggiace a Dio nella consapevolezza dell’uso buono o
cattivo delle stesse. Gli animali invece, almeno nella visione teologica di san Tommaso cui
Dante qui si allinea, non posseggono questa facoltà e per questo sono privi di
responsabilità morali, in quanto dotati solo di istinto: per loro non esiste vita nell'aldilà.
82-93: L'innocenza dell'anima al suo nascere
A conclusione di quanto ha detto fino ad ora, Marco Lombardo spiega che se il mondo è
orientato su una strada sbagliata, è nell’uomo la causa, ed è nell’uomo che va cercata (in
voi si cheggia, v. 83). Lo spirito rivelerà adesso a Dante come accada che il male vinca la sua
battaglia. Con un’immagine delicata, Dante paragona la nascita dell'anima ad una fanciulla
che, come i bambini, piange e ride senza che i suoi atti siano determinati da una volontà
razionale (fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, vv. 86-87): nasce dalle mani di
Dio, che l'ammira come la più bella cosa creata, prima ancora che sia collocata nel tempo;
essa, semplice e ingenua, non compie alcuna azione perché non conosce niente e non ha
alcuna idea se non quella spontanea di cercare la felicità (volontier torna a ciò che la
trastulla, v. 90) in quanto originata da una dimensione divina di letizia assoluta. La
similitudine qui proposta è molto dolce, con Dio come padre che emana da sé una nuova
vita fragile e ignara (si noti il lessico affettuoso e quasi in sottovoce: vagheggia, fanciulla,
pargoleggia, semplicetta). Dal punto di vista teologico, Dante prende posizione nell'ambito
del dibattito culturale del tempo: in accordo con san Tommaso, secondo cui le anime sono
generate da Dio ogni volta che nasce un essere umano, rifiuta al contrario la posizione di
22
Aristotele, secondo cui l'anima alla nascita è una tabula rasa, o quella di Platone, per il
quale essa non contiene alcuna idea innata che preceda l'apprendimento di ogni
conoscenza in vita. Inizialmente, come un bambino, aggiunge Dante, l’anima avverte il
fascino di piccole cose che cerca di ottenere; ma cade facilmente in inganno (quivi
s’inganna, v. 92), se non è presente una guida o un freno che le indichi il giusto cammino
verso il bene. Su questo argomento scrive Dante nel Convivio (IV, XII, 14-18): «E la ragione
è questa: che lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare
a lo suo principio. E però che Dio è principio de le nostre anime e fattore di quelle simili a
sé [...], essa anima massimamente desidera di tornare a quello. [...] così l'anima nostra,
incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al
termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno
bene, crede che sia esso. E perché la sua conoscenza prima è imperfetta, per non essere
esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a
desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più
procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo
cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più […..]».
94-114: Dalla concezione teologica a quella politica dei due soli; il distacco di Dante dalla
posizione della Chiesa (94-114)
Per questo motivo, osserva Marco, fu istituita nel mondo una legge che indicasse la
volontà divina e agisse da freno, e fu creata una guida, cioè un re (convenne rege aver, v.
95), che avesse la facoltà di riconoscere da lontano almeno la torre della città ove dirigersi,
ovvero sapesse orientare l'umanità verso la pace e la libertà. Marco Lombardo risale alla
storia dell’Impero romano che permise la diffusione del cristianesimo. Roma, avendo
conquistato tutto il mondo allora conosciuto, aveva creato un’unità territoriale che
permetteva una buona disponibilità alla ricezione del messaggio evangelico. In tale
situazione di pace e di dominio universale (la pax augustea) e con la successiva conversione
di Costantino al cristianesimo, emergono, nella visione dantesca, due soli (v. 107), cioè due
poteri distinti che operano in due direzioni diverse, ma non opposte, quella della politica
terrena guidata dall’imperatore e quella mirata alla salvezza dell’anima sotto l'egida del
pontefice. Il fine dell'umanità intera è quello della beatitudine, quella temporale,
illuminata dal sole del re e quella eterna, raggiungibile per mezzo delle dottrine rivelate
con l'opera del papa. Aderendo a questa concezione, Dante prende decisamente le
distanze dalla dottrina politica professata dalla Chiesa del suo tempo secondo la quale il
pontefice era in verità l’unico sole e l'imperatore niente altro che un astro che brilla di luce
riflessa, quindi senza un reale potere sugli uomini. Tale posizione aveva portato alla lotta
per le investiture (XI-XII secolo), in seguito alla pratica, inaugurata da Carlo Magno nella
notte di Natale dell'anno '800, dell’incoronazione dell’imperatore del Sacro Romano
Impero da parte del papa, per legittimarne il potere assoluto. In questo caso era il
pontefice a vivere di luce riflessa dal sole dell'impero. Per la verità, al tempo di Dante tali
questioni erano ormai superate, perché la frammentazione territoriale dei Comuni e
l'ascesa della borghesia mercantile avevano ridimensionato le pretese di universalità del
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potere imperiale. In effetti, corre nel Purgatorio un senso di nostalgia e di rimpianto per un
mondo feudale e cavalleresco che non poteva più essere nella realtà. Ora, prosegue Marco
Lombardo, l'autorità papale, il primo sole, ha spento la luce dell’altro sole, quello dell'
autorità imperiale; si è voluto che la spada (v. 109) del re e il pasturale (v. 110), simbolo del
potere ecclesiastico, fossero unite nella stessa mano e i due poteri, tenuti insieme a forza
contro il volere divino, necessariamente procedono male, poiché l'uno non ha più timore
dell’altro. Marco Lombardo per avvalorare il suo dire chiede a Dante di osservare quali
sono stati gli effetti di questa unione, dato che ogni erba si riconosce dal seme che l'ha
originata. (ch’ogn’ erba si conosce per lo seme, v. 114); quest’ultima espressione è
sostanzialmente traduzione da Luca VI, 44: unaquaeque arbor de fructu suo cognoscitur
(“ciascun albero si riconosce dal suo seme").
115-120: Esempi di decadenza del Nord Italia per colpa dei due soli
Marco Lombardo spiega che nella regione corrispondente all'antica Italia superiore,
l'odierna Lombardia, attraversata dai fiumi Po e Adige, era possibile in passato trovare corti
dove regnavano valori civili e cortesi, prima che l'imperatore Federico II iniziasse la sua
contesa con il papato (prima che Federigo avesse briga, v. 117); oggi può passare per quel
territorio qualunque reo, senza paura di arrossire per la vergogna nell’avvicinarsi ai giusti
(di ragionar coi buoni, v. 120) o parlare con loro, dato che questi non esistono più e tutti
sono malvagi. L'imperatore Federico II in particolare, ammirato da Dante per la sua
produzione poetica e per aver riunito tanti poeti nella sua corte pugliese di Castel del
Monte e tuttavia condannato all’Inferno per il suo ateismo (Inf. X, v. 119), era visto come
l’ultimo imperatore dei Romani; fu infatti re di Napoli e di Sicilia dal 1215 al 1250, e dovette
cimentarsi instancabilmente in una guerra costante con i papi Onorio III, Gregorio IX e
Innocenzo IV lasciando un’amara eredità ai suoi successori, in particolare al figlio Manfredi,
che fu sconfitto nella battaglia di Benevento. Così ebbe fine sui territori italiani il potere
dell’impero, sostituito da quello papale, che si arrogò il potere politico affiancando e
spesso calpestando quello spirituale. Di qui lo sconvolgimento delle virtù antiche, i lutti
cittadini, gli eserciti di paesi stranieri in terra d'Italia, il fiorire e il fruttificare dei peggiori
vizi nell’animo della gente, capaci di umiliare gli uomini onesti e buoni. Solo tre nobili
vecchi conservano ancora il valore antico (121-129) È vero che esistono [v'èn] ancora tre
vecchi il cui comportamento d'un tempo è in evidente contrasto [rampogna] con la nuova
età i quali non vedono l'ora che Dio li chiami a miglior vita: Sono Corrado da Palazzo, il
buon Gherardo e Guido da Castello meglio noto [mei si noma] col soprannome francese
[francescamente], il semplice Lombardo. Puoi dunque concludere [Dì] che oggi la Chiesa di
Roma per riunire in sé i due poteri [reggimenti] (materiale e spirituale), cade nel fango e
imbratta sé [sé brutta] e tutto il suo carico». Marco prosegue con tono sempre più
tragicamente nostalgico e rivela a Dante che ci sono tuttavia ancora tre vecchi signori nei
quali vive il ricordo della felice età antica e che rimproverano con il loro agire il
comportamento dei giovani; tre vecchi ai quali pare troppo lungo il tempo che Dio ha loro
assegnato in vita prima di passare alla felicità eterna (e par lor tardo che Dio a miglior vita li
ripogna, vv. 122-123), e sono: Corrado dei conti di Palazzo di Brescia, podestà di Firenze nel
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1276, capitano di parte guelfa a Firenze nel 1277 e podestà di Piacenza nel 1288, famoso
per la civiltà delle sue maniere e del suo stile di governo; segue il buon Gherardo (v. 124)
da Camino di Treviso, nato attorno al 1240 e capitano generale di Treviso dal 1283 fino alla
sua morte nel 1306, sostenitore a Firenze di Corso Donati e noto per la ospitalità offerta ai
poeti, e dal quale Dante fu molto probabilmente accolto durante i primi anni dell'esilio; il
terzo infine è Guido da Castello della famiglia guelfa dei Roberti di Reggio Emilia, nato tra il
1233 e il 1238 e ancora vivente attorno al 1315, che fu forse ospitato insieme a Dante a
Verona da Cangrande della Scala; uomo leale e generoso, aveva offerto rifugio e aiuto
eoonomico a molti cavalieri italiani e francesi rimasti senza sostentamento materiale e per
questo Marco Lombardo lo chiama francescamente, il semplice Lombardo (v. 126), ossia
"l'italiano leale". Al tempo di Dante infatti, il termine "lombardo" aveva spesso
connotazioni negative e stava a designare all'estero il carattere astuto e raggiratore tipico
degli italiani; ma nel caso di Guido l'aggettivo semplice va inteso in senso positivo, come
nel francese simple, cioè "candido", “franco", "leale" (francescamente significa infatti "in
francese", “alla francese"). Marco Lombardo conclude dicendo che la Chiesa di Roma, nel
desiderio di tenere insieme il potere spirituale e quello temporale (la soma, v. 129), perde
la propria dignità e dimostra di non saper sostenere il peso che si è voluta assumere.
130-135: Corretta la legge ebraica che distingue tra poteri finanziari e poteri religiosi
Dante esprime tutta la sua dolorosa consonanza al discorso dell'amico (bene argomenti, v.
130) e dichiara di comprendere finalmente meri XVIII, 20-24), in base alla quale agli
appartenenti della tribù di Levi, ministri del tempio e sacerdoti, furono esclusi dal possesso
di beni nella terra promessa (li figli di Levi furono essenti, v. 132). Secondo quanto stabilito
il potere sacerdotale era privato di ogni gestione di denaro, mentre a quello finanziario era
impedita la facoltà di sacerdozio; si evitava così la pericolosa miscela di interessi spirituali e
temporali causa prima del degrado al tempo di Dante.
136-145 La lode a Gherardo da Camino
Ciò detto, il poeta chiede chi sia quel Gherardo che lo spirito dice essere esempio di quella
gente nobile e civile ormai scomparsa e anche un rimprovero per il tempo presente privo
di virtù (del buon Gherardo nulla senta, v. 138). Considerati i rapporti intercorsi tra
Gherardo da Camino e Corso Donati a Firenze, Marco Lombardo risponde che Dante vuole
trarlo in inganno quando asserisce di non conoscerlo; o forse il poeta vuole accertare se lui
stesso davvero lo conosce; non è possibile infatti che chi parla con accento toscano non
sappia niente o non abbia sentito nulla di Gherardo. L'ombra aggiunge che l’unico
aggettivo con cui crede giusto qualificarlo è buono, se non fosse ricordato anche per essere
padre di Gaia. L'aggettivo buon era piuttosto consueto per designare i sovrani; un altro
appellativo al buon Gherardo da Camino, aggiunge Marco Lombardo, può essere ricavato
dal nome della figlia, Gaia (v. 140), dunque il gaio, che significa “gioioso", “leggiadro", e che
ricorda la liberalità di Gherardo verso i trovatori e l'allegria che si respirava presso la sua
corte, quando il marchesato di Treviso era chiamato la Marca Gioiosa: Dante usa il termine
sopranome (v. 139) nella sua doppia valenza di “nome di famiglia" e “soprannome", come
per far coincidere il cognome al buon Gherardo con il nome della figlia, ossia Gherardo il
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Gaio, cioè il felice, il leggiadro cavaliere. In realtà non sappiamo chi fosse nella realtà Gaia
da Camino (figlia di Gherardo e di Bella della Torre, morta nel 1311), ma ciò che conta è
che il suo nome è ideale per definire la natura solare e positiva di Gherardo. Marco
Lombardo conclude bruscamente il suo discorso e comunica al poeta che non intende
accompagnarlo più nel cammino (ché più non vegno vosco, v. 141), augurandogli di
proseguire nella grazia e con l'aiuto di Dio (secondo la formula biblica del Dominus
vobiscum). Il paesaggio di quella cornice adesso inizia a mutare aspetto: un chiarore si fa
strada nella coltre densa di fumo e occorre che Dante si allontani prima di diventare
visibile all'angelo del perdono (l’angelo è ivi, v. 144), che autorizza il passaggio alla cornice
superiore solo dopo che le anime hanno ultimato la purificazione nella cornice riservata a
questo peccato. Marco Lombardo dopo aver pronunciato le sue ultime parole, si volta e
più non ascolta le domande del poeta.

Potere temporale→ potere materiale, politico, un potere finito e non terno come quello spirituale,
. cioè del papato.
Il dialogo poi tra Marco e Dante verte sulla differenza tra la Lombardia nell’antichità e sulla
Lombardia contemporanea a Dante→ Marco parla dei valori ormai smarriti nell’attuale
. Lombardia.
Questo discorso→ è importante perché fa da ponte tra due canti, il quattordicesimo del
. purgatorio e il sedicesimo del paradiso. Nel quattordicesimo canto del
. purgatorio, il protagonista è Guido del duca, e il protagonista del canto sedici
. del paradiso è Cacciaguida. Questi tre personaggi sono rappresentanti di
. un’area o zona in decadenza.
vv.113→ Marco dice a Dante di guardare le conseguenze che il potere temporale e spirituale
. hanno avuto, e dei frutti cattivi che hanno dato. Poi parla della Lombardia, ed evidenzia
. il fatto che non esistono più valori come quello della cortesia.
Dante autore→ dice che tutto è iniziato ad andare male da quando Federico II ottenne la corona
. imperiale. La riceve nel 1215, dopo che Ottone di Baviera fu costretto a cederla, e
. nell’anno dopo, 1216, a Firenze è iniziato un periodo di lotta e decadenza a causa
. dell’uccisione di Buondelmonte.
Marco dice→ che ci sono ancora tre vecchi in cui si possono ritrovare i valori ormai perduti, ma
. nessuno li ascolta più data la loro età. Questi sono Corrado da Palazzo, Gherardo da
. Camino e Guido da Castello. Tutti e tre questi uomini fanno parte di famiglie che
. politicamente fanno capo ai Donati.
Perché Dante omaggia la famiglia Donati→ durante il suo esilio, Dante percorre un cammino di
. meditazione, mettendo in dubbio le fazioni politiche e
. la figura dell’impero. Durante questo suo periodo,
. aveva anche cercato di rientrare a Firenze con l’aiuto
. della moglie, Gemma Donati. Capisce che entrambe le
. fazioni di Firenze avevano sbagliato.

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