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Letteratura italiana

Alcuni concetti base della comunicazione e testo letterario

Il linguaggio è un sistema di segni che servono per comunicare e si definisce verbale se i segni di
cui si serve sono parole. Esistono anche dei segni non linguistici (come il semaforo rosso che è un
segno, perché sappiamo cosa ci indica per convenzione) e linguaggi non verbali (come linguaggio
di immagini, musica o animali che vivono in comunità, ad esempio le api che usano sistemi di segni
per comunicare tra loro).

Le lingue sono dei sistemi grammaticale che stanno nel linguaggio verbale e consentono la
comunicazione tra membri di società e comunità di parlanti. Una distinzione ormai antica è
introdotta nel corso di linguistica generale da Ferdinand de Saussure: langue (lingua) è prodotto
sociale che si fonda su convenzioni; parole è la parte individuale della lingua che dipende dalla
volontà e dalla creatività dell’individuo. Ognuno ha un proprio modo individuale e creativo di
usare la langue e si esprimono tramite proprie parole. Le singole parole sono segni arbitrari e
convenzionali.

Non c’è nessun motivo cogente che un oggetto non si esprima tramite una catena di suoni.
Esempio della luna, sostantivo femminile in latino: inglese moon (neutro), spagnolo luna,
portoghese lua, tedesco mond (maschile) etc. Convenzionalmente si chiama un oggetto in un certo
modo, ma non c’è alcun rapporto di necessità, si cerca di capire se esiste legame (come termini
onomatopeici) ma non c’è un rapporto di necessità tra parola e oggetto.

Il modello di Jakobson (1958) descrive il linguaggio come insieme di funzioni riferite ai vari fattori
costitutivi della comunicazione. Gli elementi che servono affinché la comunicazione avvenga sono
mittente (chi parla) e destinatario (chi ascolta), il messaggio è ciò che passa da mittente a
destinatario e per essere compreso dobbiamo avere in comune un contesto di riferimento
(contatto/canale) e ci vuole un codice, per esempio la lingua italiana che a lezione condividiamo.
Se qualche fattore viene meno, la comunicazione non funziona: il messaggio, ad esempio, può non
passare perché non si condivide il codice o viene meno il contatto.

Qual è la specificità del messaggio poetico? Capita che una funzione prevalga se il messaggio si
rivolga ad uno dei due fattori. Esistono varie funzioni del linguaggio in base alla focalizzazione su
uno dei due elementi: ad esempio, se ci si concentra sul canale, si parla di funzione fatica, avviene
uno scambio di formule per verificare il funzionamento del canale (ad esempio, al cellulare si dice
“mi senti?”). La funzione poetica della comunicazione avviene quando il focus è sul messaggio,
cioè sulla catena di parole: in questo caso il messaggio non è un oggetto di comunicazione che
passa da mittente a destinatario, ma è carico di significato e attira l’attenzione di chi ascolta su di
sé. Ad essere messi in evidenza sono i segni, i significanti.

La comunicazione letteraria è una comunicazione che non vede compresenti mittente e


destinatario (es. Divina Commedia di Dante, messaggio letterario che ha mittente, Dante, e
destinatario: Dante non la legge, non la recita, non esiste compresenza tra i due membri, si

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scompone la triade nello spazio/tempo). Altri ostacoli sono la labilità del contatto, mancanza di
conoscenza del contesto (come in un testo antico se non si conosce l’argomento) e differenza di
codici tra mittente e destinatario.

Lausberg, Rethorik und Dichtung, 1967: ha adoperato una distinzione tra discorso di consumo
(verbrauchsrede) e discorso di riuso (wiedergebrauchsrede). La lingua poetica è un messaggio che
non è fatto per essere consumato, non passa e và, ma rimane e resta e si imprime nella memoria
della comunità e vuole essere riadoperato. Per ottenere questo scopo, per diventare memorabile,
il messaggio deve “farsi bello”.

I requisiti minimi per far funzionare il discorso letterario sono: correttezza (puritas), a meno che
non stia riportando il parlato della società (Pasolini, Ragazzi di Vita), chiarezza (perspicuitas),
bellezza (ornatus), come efficacia, capacità di attrarre attenzione, di meravigliare, commuovere
etc.

La retorica è importante per ottenere la bellezza del discorso letterario, è l’insieme delle “arti del
dire”. È formata da varie categorie, le figure retoriche, e la classificazione delle figure retoriche del
Gruppo m (mi greco).

Le pubblicità forniscono esempi per riflettere sugli effetti speciali della lingua per attirare
attenzione e usano lingua per trasformare il discorso di consumo in discorso di riuso (es. spot
pubblicitario della Mercedes del 2010). Linguisticamente, questo spot si fondava su cinque figure
retoriche: anafora (ripetizione frasettine all’inizio del verso), asindeto (collegare parole senza
congiunzione o virgola), ellissi (sintesi, dove con poche parole si comprende comunque il discorso),
metonimia, aforisma (frutto di una meditazione brillante).

Un altro esempio è lo slogan pubblicitario: Fiesta ti tenta tre volte tanto. Qua sono presenti
allitterazione, ripetizione della T, consonanza, ripetizione suoni consonanti nella parte finale di due
parole (t-tnt), isocolia, corrispondenza ed equilibrio tra i membri di uno stesso periodo (cola, come
il colon composto da tanti tratti).

La poesia si sviluppa la maggior parte delle volte tramite struttura metrica: il verso è un segmento
del discorso non motivato da un significato. A differenza dai versi latini e greci, che sono
determinati in base alla lunghezza e brevità di sillabe e vocali, i versi romanzi sono definiti dai
numeri delle sillabe (se non verso libero): la sillaba è un fonema o un insieme di fonemi che
costituiscono un gruppo stabile e ricorrente nella catena parlata. Il fonema, invece, è un’unità
minima distintiva di suono nell’ambito di una data lingua che consente di formare dei significanti e
di fare una distinzione fra di essi. Esistono casi in cui il computo delle sillabe diventa complicato
(es. piano può essere considerato bisillabo e trisillabo) e questo vale sia nella lingua parlata sia nel
discorso in versi. Nel secondo dipende dall’autore e dal lettore (es. viaggio è bisillabo e trisillabo:
Gozzano, in Signorina Felicita, considera questa parola trisillabo e si capisce perché il verso è
endecasillabo e pronunciare viaggio come trisillabo è obbligatorio. Montale, per lo stesso motivo,
considera viaggio come bisillabo).

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Il metro più diffuso nella poetica italiana è l’endecasillabo: è un verso abbastanza lungo e
prediletto perché consente di chiudere un discorso articolato nel verso e può avere 10/11/12
sillabe. È chiamato così perché due serie di sillabe sono numericamente uguali se l’ultima sillaba
tonica è nella stessa posizione (Alberto Sordi in Stanlio e Ollio, imita inglese che sbaglia cento
mettendolo sulla penultima sillaba, es. stupìdo).

Il secondo verso più usato è il settenario, può avere 6/7/8 sillabe e ha l’accento diverso sulla sesta
sillaba. I versi italiani si compongono per formare le forme metriche, ad esempio la terzina usata
nella Divina Commedia e c’è sempre una scelta strategica. I cavallereschi usano le ottave e sarebbe
strano trovare il contrario: le forme metriche di ogni genere sono stati scelti per traghettare
discorsi e, dunque, ogni genere ha la propria forma metrica. La maggior parte delle forme
metriche usano la rima, l’identità di sonno nella parte finale di due parole, a partire dall’ultima
vocale tonica compresa. La rima imperfette sono l’assonanza (uguaglianza di sole vocali, sempre a
partire dall’ultima sillaba tonica compresa) e la consonanza (uguaglianza di sole consonanti ).

Questioni Dantesche

2021: settecentesimo anniversario di morte di Dante Alighieri. La visione politica di Dante e


la sua mutazione: c’è molta confusione, si dice che era guelfo, ma nei Sepolcri di Foscolo
viene definito come ‘’ghibellin fuggiasco’’, non semplice nemmeno capire la divisione tra
queste due fazioni e perché così importante. È necessario contestualizzare la Commedia in
luogo e tempo in cui è stata scritta.

Ci troviamo a Firenze, tredicesimo secolo: la divisione di Guelfi e Ghibellini si instaurò nella


Pasqua del 1216, una frattura nata in un periodo di svolta, quando il nobile cavaliere
Buondelmonte de’ Buondelmonti viene ucciso presso Ponte Vecchio mentre andava in
chiesa. Era un delitto d’onore, perché aveva rotto la promessa di matrimonio con la figlia
degli Amidei, fece questa promessa per rimediare al litigio con i Fifanti, alleati degli Amidei.
Decise di sposare la figlia della famiglia Donati, nemica dei Fifanti e per questo nasce una
rottura tra queste famiglie: Amidei, Uberti, Fifanti decisero di uccidere Buondemnto
(episodio evocato nel 13 dell’Inferno e nel 16 del Paradiso).

È un evento importante per la nascita della discordia fiorentina insanabile, non solo,
perché diverrà un conflitto non solo fiorentino, ma i Buondelmonti, i Donati etc cercarono
appoggio fuori Firenze da parte di Ottone IV di Baviera e vennero chiamati Guelfi (Welf,
capostipite della casa di Baviera). Amidei etc si appoggiarono a Federico di Svevia e si
chiamarono Ghibellino (Wibeling, castello degli Hohenstaufen).

L’imperatore era una carica elettiva, il primo fu Carlo Magno nell’800, ma successivamente
non regnerà su tutta la cristianità. Ottone IV era stato deposto da papa Innocenzo III e
aveva ceduto la corona a Federico II: nasce così la discordia tra le due casate che si
contendevano il titolo imperiale.
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Questi schieramenti si scontrano più volte e prevalgono l’uno sull’altro, l’alternanza
dipende dalle fortune dei due partiti: nel 1260, la sconfitta di Montaperti (località vicino
Arezzo) dichiara la vincita ghibellina perciò molti membri di questo partito dovettero
lasciare Firenze perché mandati in esilio (es. Brunetto Latini, retore e scrittore e mentore di
Dante). Nel 1266 però la battaglia di Benevento pone i presupposti dell’allontanamento
definitivo dei ghibellini da Firenze, che già da tempo si era contraddistinta come città
guelfa, ma nonostante ciò vi erano altre divisioni interne.

Dopo il 1293 e gli ordinamenti di giustizia*, le due più importanti famiglie fiorentine di
parte magnatizia (famiglie con solidità economica e nobili), entrambe guelfe, entrano in
conflitto tra loro per motivi di interesse economico e supremazia interna: nasce la
distinzione tra guelfi BIANCHI (che fanno capo alla famiglia Cerchi) e NERI (che fanno capo
alla famiglia Donati). Dante fa parte dei Bianchi, ma sposerà Gemma ed era una Donati,
imparentato dunque con i Neri.

*Era una legge varate dalla parte popolare che avevano impedito ai Grandi di essere eletti
nei vari organi di governo della Signoria, compreso il Priorato (coloro che governano il
comune, solitamente nobili e magnatizi, il popolo si ribella e Giano della Bella riesce a far
approvare questa legge). Della Bella venne esiliato con l’accusa di aver fomentato un
tumulto contro il podestà e, nel luglio del 1295, venne fatta una correzione alla legge e
viene data la possibilità di partecipare alla vita politica ai Grandi se iscritti ad un’”Arte”
(corporazioni). Dante si iscriverà a quella dei Medici e Speziali, perché ne sapeva poco di
medicina ma sapeva molto di filosofia e ciò gli consente di arrivare a cariche importanti, tra
cui il Priorato.

La vita politica di Dante ha un’evoluzione importante: comincia la sua funzione politica


dopo l’iscrizione all’Arte, ma nel 1295 sale al soglio pontificio Bonifacio VIII, il quale non si
schiera in maniera definitiva né con Bianchi né con Neri. Emana una bolla per non far
rientrare Giano della Bella e la parte nera inizia ad appoggiarsi alla figura papale,
accusando i Cerchi di fiancheggiare la politica ghibellina.

1° Maggio 1300: durante una festa cittadina, il contrasto tra bianchi e neri esplode e
durante una rissa si arriva al sangue. Durante questa fase, Dante è eletto tra i priori,
cercando dai avviare una politica pacifista. Il sacro romano impero diviene una compagine
sempre più ristretta: la parte francese si stacca e si costituisce come Stato nazionale che ha
una monarchia che non è eletto come imperatore, ma è una carica ereditaria. In quel
momento erano gli Angiò. I papi erano oppositori dell’imperatore perché rivendicavano la
volontà di essere una carica anche politica, cercando alleanze e Bonifacio la ritrova negli
Angiò. Bonifacio VIII si avvicina alla Francia per prendere sempre più potere politico e a

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Dante questo non fa piacere, il quale promuove una politica di autonomia del Comune
dall’Ingerenza papale e angioina.

Tutti i capi Neri sono espulsi da Firenze con accusa di congiura, il papa manda in missione
Carlo di Valois, che prende le parti dei Neri, volendosi assicurarsi un’ingerenza nelle parti
della toscana per aumentare il suo potere. I fiorentini si rendono conto delle sue volontà e
mandano degli ambasciatori a Roma, tra cui Dante e il 1° novembre Carlo entra a Firenze
con le armi. Dante è mandato in esilio ma non si trovava a Firenze per rispondere
all’accusa avanzata contro lui e pagare la multa, ma a Roma trattenuto da Bonifacio, e la
sua condanna di esilio si trasforma in condanna a morte: se mai fosse tornato a Firenze,
sarebbe stato bruciato. Dante non rientrerà mai in questa città.

Metrica
Metrica italiana è una metrica accentuativa, e i metri si riferiscono in base al numero delle
sillabe.
1. Endecasillabo: verso più diffuso e abbastanza lungo. È il verso prediletto perché
consente di chiudere un discorso abbastanza articolato. Può avere o 10 o 11 o 12
sillabe. Allora perché endecasillabo?
Consideriamo un endecasillabo regolare o piano quello che termina con la parola
sull’accento sulla penultima sillaba.
In italiano le parole sono quasi tutte piane, ovvero accento sull’ultima sillaba, invece in
francese tronche perché la maggior parte sull’ultima sillaba.
Endecasillabo tronco: 10 sillabe, accento sulla decima sillaba.

2. Settenario: può avere 6 o 7 o 8 sillabe. Accento sulla penultima sillaba, ovvero la sesta
sillaba.
I versi italiani si compongono a formare forme metriche. Terzina è il metro della divina
commedia, la scelta delle forme metriche è una scelta strategica: ad esempio i metri
narrativi per raccontare, metri lirici che espressione poetica per altre finalità
i generi letterari sono tradizionalmente legati a forme metriche precise: poema
cavalleresco usa le ottave, otto versi endecasillabi on rima abababcc. I metri servono
forme metriche prescelte per far passare un discorso poetico. Ad un genere letterario
di solito corrisponde ad una forma metrica.

Rima: identità di suono della parte finale di due parole, a partire dall’ultima vocale
Assonanza: uguaglianza delle sole vocali, sempre a partire dall’ultima sillaba tonica
compresa
Consonanza: stesso meccanismo ma con le consonanti

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DIVINA COMMEDIA.
La Divina Commedia è un’opera assolutamente nuova, un’opera così non è stata mai scritta
prima, tanto che Dante si aspetta di essere incoronato poeta e quindi tornare a Firenze.
Questo lo dice nel 1 e nel 25 canto del Paradiso, in cui parla di questo desiderio che però
non sarà mai esaudito.
Vuole essere incoronato poeta nl battistero di san Giovanni a Firenze, è un progetto molto
ambizioso, perché l’incoronazione poetica era toccata veramente a nessuno o quasi prima
di Dante, tocca nel natale del 1315 ad un letterato e uomo politico Albertino Mussato di
Padova viene incoronato poeta e storiografo per i meriti soprattutto che aveva acquisito
con un’opera dedicata ad Arrigo VII, che era stato incoronato re dei romani e nel 1312
imperatore a Roma; anche nel 1341 Petrarca incoronato poeta.
Opera mai vista prima, per scrivere questa opera che deve essere una sintesi della sua
formazione filosofica, poetica e della sua vita attiva politica a Firenze. Dante si inventa un
metro che prima non esiste, si chiama infatti terzina dantesca, terza rima o terzina
incatenata, è una forma metrica il cui uso è documentato per la prima volta nella Divina
Commedia.
Nella terzina tutti i versi sono endecasillabi e rimano ABA BCB CDE etc. (Rima incatenata). Il
testo finisce con due occorrenze di coppie di rime.
Novità? Ha creato un metro molto compatto che può andare avanti all’infinito e permette
il distendersi di un discorso molto articolato e potenzialmente infinito. Prima erano
utilizzati. Sonetto, Canzone componimento strofico che non ha mai più di 10 strofe. Tranne
il Rerum Vulgarum Fragmenta che invece è molto lungo.
La Divina Commedia è in versi, ma è un’opera narrativa: ci racconta qualcosa, il viaggio del
poeta nell’aldilà. Diverso è dalla lirica moderna (dopo Petrarca) in cui è l’io che parla di sé,
della sua interiorità, parla dei suoi sentimenti, dei suoi pensieri (spesso lirica d’amore) in
cui il soggetto si espone, mette sé stesso al centro del testo.
Tempo
Si svolge in un tempo simbolico, in uno spazio che Dante inventa, ovvero durante il periodo
della Settimana Santa del 1300, nel periodo della passione.
Quando Dante dice nel mezzo del cammin di nostra vita, aveva 35 anni e intende il 1300.
Inizia la notte del Giovedì Santo (7 o 8 aprile) e dura circa 7 giorni.
La mattina di Pasqua il pellegrino è sulla spiaggia del Purgatorio.
Il mezzogiorno del mercoledì è arrivato nell’eden, paradiso terrestre, e poi da qui ascende
in Paradiso e a quel punto la dimensione del tempo si annulla, non c’è più una scansione
del racconto in giornate.
Il viaggio dio d comincia quando dante si dichiara smarrito nella selva che allegoricamente
rimanda all’esperienza del peccato, del rischio della morte spirituale e prosegue attraverso
un’esperienza di riscatto e resurrezione, fino all’ascesa al cielo. Quale tempo migliore per

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raccontare un’esperienza di riscatto e risurrezione se non Pasqua come tempo simbolico,
della settimana Santa. MORTE-PASSIONE-RESURREZIONE.
Dante immagina è per questo viaggio uno spazio immaginario fatto di 3 dimensione:
dimensione infernale purgatoriale e paradisiaca.
Dante si immagina l’inferno come una voragine di forma conica - suddivisa in 9 cerchi e in
varie grandi zone contenete una diversa tipologia di peccato - che si è aperta quando la
terra si è ritratta spaventata di fronte alla caduta di uno degli angeli più belli. Al vertice del
cono vi si trova Lucifero, conficcato nel lago ghiacciato del Cocito.
Le prove che affronta Dante scendendo la voragine sono sempre più difficili, procedendo
andando da destra verso sinistra in modo circolare. Anche questo ha un significato
allegorico, ovvero vuol dire andando dalla parte del bene (destra) e dirigendosi verso il
peccato (sinistra). Infatti nel Purgatorio, la montagna la scalerà proseguendo da sinistra
verso destra.
È suddiviso in antinferno, basso e alto inferno.
Alto Inferno: sono puniti i peccatori di incontinenza, (cerchi da 1 a 5).
Basso Inferno: racchiuso entro le mura della città di Dite, si trovano altre tre zone:
il 6° cerchio riservato agli eretici.
Il nel 7° cerchio, suddiviso in tre gironi, sono puniti violenti.
L’8° cerchio racchiude i fraudolenti ‘contro chi non si fida’ ed è diviso in 10 bolge. (cercare
differenza e significato di bolgia, gironi e cerchi)
Nel 9° cerchio sono puniti i traditori, o fraudolenti contro chi si fida, nell’ordine: contro i
parenti, i compatrioti, compagni di partito, gli ospiti e benefattori.

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CANTO VI
La commedia è strutturata secondo delle linee di continuità: vi è una distribuzione della
materia politica fra i canti sesti delle 3 cantiche.
a distribuzione della materia politica nei canti collocati al VI posto di ogni cantica
Inferno: Ciacco, punito fra i golosi, uomo di corte noto a Firenze e al corrente delle vicende
fiorentine: è il primo personaggio della Commedia con cui Dante parla di Firenze, e il primo
ad accennargli una profezia.
Purgatorio (anzi anti-Purgatorio): la figura chiave è un trovatore italiano, Sordello da Goito,
attivo a Verona, nella Marca Trevigiana e in Provenza, alla corte di Raimondo Berengario e
poi di suo genero Carlo d'Angiò, che seguì in Italia nella spedizione contro Manfredi. Il suo
incontro col conterraneo Virgilio dà a Dante il destro per la celebre invettiva contro la
corruzione dell'Italia.
Paradiso: monologo di Giustiniano imperatore, che traccia la storia dell'impero romano a
partire dalla sua origine mitica (la fuga di Enea da Troia), fino all'impasse rappresentato
dalla contrapposizione guelfi- ghibellini e da quella (che i due schieramenti sono arrivati a
rispecchiare) fra potere papale e potere imperiale: una contrapposizione nell'ideologia
dantesca.
Come possiamo vedere man a mano che sale nel suo viaggio ultraterreno il suo sguardo si
allarga sempre di più, passando da una città, Firenze, a una nazione, Italia fino ad una
grande entità sovranazionale (impero).
Inferno VI: sequenze
 il terzo cerchio e la 'piova etterna' (1-21: ai vv. 13-18 la descrizione di Cerbero)
 Virgilio ammansisce Cerbero (22-33)
 l'incontro col dannato detto 'Ciacco' e la sua prima risposta (34-57)
 tre domande di Dante (58-63)
 la profezia sulla 'città partita', i 'due giusti' e i vizi di Firenze (64-75)
 i grandi Fiorentini dannati e il congedo di Ciacco (76- 93)
 Virgilio risponde alla domanda di Dante sul destino delle anime dopo il Giudizio
Universale 95-115)

1-5: quando ripresi i sensi, (al tornar de la mente, usa il termine mente per definire la
capacità percettiva). Dante è svenuto perché alla fine del V canto si è talmente commosso
per la storia di Paolo Malatesta e Francesca Rimini, dunque la capacità di vedere e sentire
sono venute meno. Usa la metafora dell’aprirsi e del chiudersi, riferito ai sensi, alla
capacità di vedere e sentire, dinanzi alla pietà dei due cognati.
PIETA: metonimia, sta ad indicare il racconto che Francesca aveva fatto e che aveva mosso
a pietà nell’ascoltatore Dante. (figura retorica che consiste nell’usare invece che il termine
proprio un termino vicino che ha un rapporto di quantità o consequenzialità).
Quindi quando ripresi i sensi che si erano chiusi davanti al racconto doloroso dei due
cognati che mi aveva confuso, che mi aveva fatto confondere, sconvolto, per l’estrema
tristezza che aveva generato in me, mi vedo in torno (mi veggio intorno), qui c’è un
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presente narrativo molto forte, mi vedo intorno dei nuovi tormenti (punizioni) e nuovi
dannati, comunque io mi muova e mi giri e ovunque punti lo sguardo. Dante riprendendo i
sensi si trova quasi miracolosamente in un’altra dimensione. È passato dal cerchio
secondo, cerchio dei lussuriosi, al terzo cerchio, il cerchio dove sono tormentati i peccatori
di gola.
In questa seconda terzina c’è un uso insistito dell’anafora (ripetizione di un termino o di
una catena di termini all’inizio di un segmento testuale) novi, com’io, ch’io, come che sono
tutte ripetizioni di termini che generano un effetto di insistenza e amplificazione. Vuole
enfatizzare sulla stranezza: novo vuol dire mai visto prima, non vuol dire solo nuovo nel
senso di diverso di quello che aveva visto in precedenza, ma vuol dire strano.
6-9: ripresa del termine nova. Mi trovo nel terzo cerchio dell’inferno. La pena dei golosi è
dover giacere eternamente senza potersi riparare sotto la sferza di una pioggia che è
insieme pioggia, neve, acqua, fango, grandine. È lo scatenarsi degli elementi, come una
bomba d’acqua senza fine. Continuamente sferzati, questa acqua e pioggia è eterna,
maledetta, fredda, greve (pesante) non cambia mai per ritmo e per tipo (regola e qualità)
non cambia mai, non è mai NOVA, mai diversa.
10-12: attraverso l’aria oscura pervasa dalle tenebre si riversa una grandine grossa, acqua
scura e neve. È un miscuglio pesante doloroso.
La terra che assorbe questo misto di acqua, ghiaccio e fango PUTE, ovvero puzza, manda
un odore nauseabondo. Questo canto è il primo canto in cui Dante fa una descrizione
multisensoriale dell’esperienza infernale.
Dove è stato Dante fino ad adesso? Fino ad adesso Dante e il ‘’duca suo’’ sono stati nel
limbo, uno spazio particolare in cui risiedono le anime che non hanno creduto in Cristo,
nati prima di Cristo, bambini non battezzati. Dunque tutte quelle anime che non hanno
potuto vedere nella grazia di Dio.
13-15: questa esperienza sconvolge anche l’udito, poiché il custode del terzo cerchio è un
cane a tre teste: Cerbero, che ‘’caninamente latra’’. Cerbero è il custode dell’Ade anche nel
racconto dell’Eneide quando Virgilio racconta la discesa di Enea agli inferi, dove doveva
incontrare suo padre, dove egli profetizzerà la sua sorte (costruire Roma).
I guardiani che ha incontrato per ora sono 3: Caronte, traghettatore infernale e Minosse, il
giudice che assegna il giusto luogo di pena ai dannati che si presentano davanti a lui e
incontrerà altri custodi infernali nell’alto inferno: Pluto e Flegia.
Dunque Cerbero, cane orribile, fiera crudele e diversa (mostruosa in questo caso) che con
tre gole latra caninamente, come se fosse un cane; sovra la gente che quivi è sommessa,
latra infierendo sulle persone che sono lì sommerse, ovvero punite, ma anche sommerse in
questo fango.
16-18 parte descrittiva di Cerbero: gli occhi a vermigli, rossi come iniettati di sangue, i peli
neri (ATRA), peli unti e scuri come un cane, ha grossi unghione e grande pancia, graffia con
le sue unghione e infierisce non solo con il latrato, ma anche con questi artigli e SCUIOA e
SQUARTA le anime dei dannati.

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19-21 i dannati che giacciono in questo fango continuamente sferzati dalla pioggia e
torturati da cerbero, ululano come cani similitudine come cani, che ci esprime e trasmette
al lettore l’orrore di questo lamento, non è un lamento umano quello dei golosi il lamento
dei golosi non è un lamento umano, ululano come cani. Cerbero è un cane che li tortura:
passaggio da umanità a animalità .
‘’ de l’un di lati fanno a l’altro ‘’schermo’’: cercano continuamente di cambiare lato con la
pioggia che li sferza continuamente per cercare di trovare un leggero sollievo alla
dannazione eterna.
Termine profani: primo termine del canto, ma la commedia ne è disseminata, può
assumere due significati diversi
 Esclusi dalla presenza di Dio
 Dediti ai piacere della carne (più probabile)
Peccato di incontinenza: non saper tenere a freno delle disposizioni che se si tenessero a
freno no sarebbero peccaminose, come lussuria, indulgere troppo all’amore carnale
dandogli preminenza. Se riesci a contenere questo istinto carnale durante la vita sulla terra
era considerata una virtù nel medioevo.
Gola: anche saper gustare il cibo è una virtù, ma quando si arriva all’incontinenza diventa
qualcosa di peccaminoso. Fino a questo verso vi è una parte puramente descrittiva.
22-24 : Cerbero apre le sue terribili fauci quando vede Dante e Virgilio e gli mostra i denti
delle tre bocche, si agita ì, il corpo di cerbero trema.
Gran vermo: o desinenza arcaica per il termine verme, lo chiama VERME, nella Bibbia
indica figurativamente il tormento che roderà i dannati in eterno, i dannati sono consumati
dai vermi in eterno, appellerà vermo anche Lucifero successivamente.
25-27: Cerbero latra e apre la bocca, allo stesso tempo Virgilio per acquetare cerbero (il
duca mio, chiamato così molto spesso da Dante) distese le sue spanne (mani), si china e
prende un po’ di fango e lo getta nella bocca di Cerbero. Qui sono puniti i golosi e qui getta
del fango nelle gole di Cerbero: pervasività del campo semantico della bocca, del pasto, gli
fa mangiare la terra. Queste due manate di fango placano la fame di Cerbero.
28-33 qui c’è una similitudine, paragone fra il comportamento di cerbero e il
comportamento di un cane, che abbaiando chiede di mangiare (agogna, vuol qualcosa da
mangiar) e si calma quando MORDE IL PASTO, perché si preoccupa solamente di
masticarlo, si dedica solamente a divorare quello che gli è stato gettato e combatte
(PUGNA) cioè che si dedica a quello che gli p stato tirato e magari combatte per mangiarlo
(immagine molto efficace, non mangia educatamente o compostamente, quasi litiga con
quello che sta mangiando, violento) e come quel cane si placa per il pasto che gli è stato
tirato, le facce sporche (lorde) del demonio Cerbero si chiusero sulle manciate di fango che
Virgilio gli aveva tirato e si concentrò su quello.
Una parte del tormento delle anime è anche acustica, olfattiva perché il fango puzza, tattile
perché la pioggia li sferza e li fa urlare ed è anche uditiva perché Cerbero continuamente
latra. In quel momento l’atto di Virgilio produce quasi una sospensione del tormento.
Perché cerbero come un cane finalmente nutrito si dedica a masticare il fango e per un po’
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smette di latrare e questo dà la possibilità a Dante e Virgilio di parlare con i dannati,
precisamente con un dannato.
34-36: Dante e Virgilio quasi come un gesto di irriverenza, che però è inevitabile,
camminano sulle anime dei golosi,
adona: affatica
le anime dei morti dei golosi sono OMBRE, sono vane, inconsistenti, ma hanno l’aspetto di
corpi veri e propri . dante riprende ciò dalla tradizione classica, dalle immagine dell’Ade
che riprende dall’Eneide virgiliana. Sono corpi aerei, fatti di aria, ma hanno questa
caratteristica, che possono soffrire o gioire come se fossero corpi reali.
Dunque passando sulle anime dei golosi, i corpi aerei dei golosi recano un’ulteriore offesa
e tormento.
37-39: le anime giacciono e stanno sdraiate per terra e continuamente si voltano cercando
di ripararsi da questa pioggia che li sferza, ma ad un certo punto un anima si alza a sedere
e parla con Dante.
improvvisamente = ratto (v.38) non è un aggettivo, ma è usato in senso avverbiale e vuol
dire improvvisamente e sta col che all’inizio del v. 39.
40-42: tu che ti dirigi per questo inferno, riconoscimi, tu sei nato prima della mia morte
Fare e disfare= metafora, mettere al monto (fare) e essere disfatto (decomporre,
riferendosi al corpo)
43-48: dante non riconosce il dannato, sa che Dante è nato prima della sua morte quindi in
qualche modo lo ha incrociato, lo mette alla prova ma non lo riconosce.
49-57: ‘’forse questa tua pena ti sfigura tanto che io non riesco a metterti a fuoco e me
sembra di non averti mai visto, ma dimmi chi sei dato che sei posto in un luogo di tanta
sofferenza e devi subire una pena così fatta, che se ci sono tante maggiori nessuna è più
spiacevole di questa’’. Ci troviamo di forte un dante ingenuo che non ha ancora ‘’visto
niente’’.
Il personaggio è Ciacco, e lui gli rispose: ‘’ la tua città, Firenze è piena di invidia, tanto che
trabocca di odio Firenze, è colma di odio tanto che non riesce quasi a contenerle ( già
trabocca il sacco), Firenze mi ha ospitato nella vita serena, quando era ancora vivo, voi
cittadini mi chiamavate Ciacco. (Ciacco non si sa se è un soprannome, che vuol dire maiale
e porco oppure se è un nome proprio di persona) non si sa un gran che di Ciacco,
sicuramente aveva frequentato Firenze.
Ciacco spiega che è lì perché la pioggia sferzante è la pena per chi si è macchiato della
colpa della gola e aggiunge ‘’io anima peccatrice non sono sola perché tutte queste che
sono insieme a me stanno a simil pena per simil colpa, si sono macchiati della stessa colpa
e hanno la stessa pena.
58-63 Dante dice che gli dispiace e Dante fa una domanda che chiaramente lo assilla ‘’che
sta succedendo e che succederà a Firenze’’. I dannati conoscono il futuro, non conoscono il
presente però.
Gli fa tre domande. Dante sa che sta facendo questo viaggio nell’aprile del 1300, è un
momento di confusione, di grandissima incertezza politica a Firenze e vuole saper da uno
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che Firenze l’ha conosciuta e che ora la guarda dall’aldilà, vuole sapere come andrà a finire,
dove arriveranno, nella città PARTITA, divisa in due. Allude chiaramente ai conflitti sempre
più aspri tra guelfi bianchi e guelfi neri.
Ci sono delle persone buone a Firenze? E qual è la causa (CAGIONE) della discordia di
Firenze?
Dante sa benissimo quale siano le cause, ma Dante personaggio chiede a Ciacco così
almeno in questo modo il giudizio di Firenze può venire dall’aldilà.
64-66 Ciacco risponde in ordine a queste tre domande. Ciacco per rispondere alla prima
domanda fa un Riferimento precisissimo a quello che era accaduto recentemente rospetto
alla prospettiva di Dante il 1° maggio del 1300 (una rissa tra bianchi e neri scoppiati in un
momento di festa viene ferita gravemente un giovane della famiglia Cerchi, ha il naso
mozzato ): dopo un lungo contrasto le due fazioni andranno al sangue. Ciacco profetizza un
fatto che accadrà subito dopo aprile. La parte selvaggia è la parte dei Cerchi, dei guelfi
bianchi, selvaggia perché i Cerchi a differenza dei Donati che erano un a famiglia
magnatizia con tradizioni nobiliari, i Cerchi non avevano questa origine illustre, erano
arrivati a Firenze dal contado ed era gente più rustica e meno raffinata, per questo definiti
selvaggi. I Cerchi avrebbero cacciato i donati (i bianchi i neri) con molta OFFENSIONE
(offesa, aggressività) e questo sarebbe accaduto nel giugno del 1301. Quindi Ciacco fa una
profezia che è naturalmente una profezia post-eventum. Quello che Ciacco dice a dante
che accadrà in realtà nel tempo storico è già accaduto e Dante nella profezia di Ciacco
inserisce dei riferimenti molto precisi alla crisi fiorentina del 1302-1303.
67- 72 poi è destino che dopo che questa, la parte bianca, la parte ce aveva cacciato l’altra,
cada IN FRA TRE SOLI (prima che passano tre anni) cadranno, le loro sorti si invertiranno e i
neri avranno la meglio (SORMONTI) con l’aiuto/supporto di uno che TESTE (ora) si
barcamena, non ha preso ufficialmente partito. Sta parlando di Bonifacio VIII.
….. qui si riferisce al comportamento dei neri: la parte dei neri terrà testa alta per molto
tempo su Firenze mentre l’altra perseguiterà la parte bianca crudelmente anche se la parte
bianca si Dorrà si sentirà offesa, ma dei sentimenti dei bianchi no convinceranno i neri a
riammetterli a Firenze. Così risponde Ciacco alla pria domanda che Dante gli ha fatto,
Ciacco profetizza l’esplodere tragico e le immediate conseguenze che saranno gravissime
per dante delle discordie interne a Firenze.
Poi risponde alla seconda domanda, se ci sono dei cittadini onesti.
73- 75 Giusti son DUE (non letteralmente ma metaforicamente, gli uomini onesti sono
pochi e punti) e nessuno li considera, nessuno dà loro credito. E poi fa un elenco dei vizi
delle colpe che opprimono Firenze e nomina tre vizi, tre peccati capitali che hanno portato
Firenze alla rovina.
La superbia o lussuria= Leone
L’invidia = lince
L’avarizia o cupidigia= lupa
Riprendono le tre grandi peccati captali che Dante aveva citato nel primo canto dell’inferno
tramite l’immagine delle tre fiere. Secondo un interpretazione moderna stanno a indicare
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le tre disposizioni peccaminose punite nell’inferno. Incontinenza, violenza e frode
rispettivamente dalla lupa, leone e lonza. Indipendentemente da come si vogliano
interpretare è che Dante sta freneticamente ragionando sui problemi che affliggono la
società.
70 sta parlando della parte nera che ha cacciato la parte bianca grazie all’aiuto di Bonifacio
VIII. Metafora che rimanda a questa immagine di tenere la fronte alta, ovvero dominare,
ma anche tenendo l’altra (parte bianca) sotto gravi pesi, sempre metafora ovvero che
schiaccia la parte avversa.

*Allegoria*
Versi 62-63: terza domanda di Ciacco
Le tre cause che hanno portato al divampare la discordia sono superbia invidia e avarizia.
Queste peccati, disposizioni cattive che Ciacco attribuisce ai fiorentini riprendendo i 3
peccati capitali che sono chiamati allegoricamente secondo l’interpretazione tradizionale,
alle 3 fiere del I canto che impediscono la fuga dal peccato; ha bisogno di qualcuno che lo
aiuta: Virgilio.
Interpretazione Moderna: rappresentano non i peccati capitali ma i 3 grandi macro-peccati
ai quali sono riconducibili tutti i peccati che sono espiati nell’Inferno: frode, violenza e
incontinenza.
La lince non sta a significare la lussuria, ma la frode, il peccato che ricomprende tutti quelli
puniti nel basso inferno, ottavo e nono cerchio, i fraudolenti e i traditori.
I leone starebbe a rappresentare la violenza, che viene punita nel settimo cerchio
La lupa rappresenterebbe i peccati di incontinenza che vengono puniti nell’alto inferno dal
secondo al quinto cerchio.

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Metafora figura retorica pervasiva e molto frequente; la Divina Commedia nasce e si
configura come un poema allegorico.
Molto spesso negli antichi manuali di retorica, la metafora veniva spiegata come una
similitudine abbreviata. In realtà il procedimento è più complicato della soppressione della
congiunzione come, perché il figurante e figurato si compenetrano. (figurante è il leone, la
virtù del coraggio è il figurato). Se dico Achille è come un leone è una similitudine.

Dante non ha compiuto realmente questo viaggio, perdersi in un bosco cosa possibilissima
e anche incontrare un animale feroce. Se un lettore inizia a leggere la divi commedia e non
conosce il codice allegorico che Dante usa, può pensare che il racconto può iniziare
davvero con lo smarrimento in un bosco. Ma se uno conosce il significato allegorico, sa che
non deve essere interpretato alla lettera, messaggio non è esplicito, ma il significato sta
dietro.
Cornice viatoria: insieme di tutte le parti del testo in cui racconta come si è mosso
all’interno dei 3 mondi. È una grande allegoria. Perché quando dante spunta il giorno di
pasqua nell’anno del 1300 sulla spiaggia del Purgatorio, esce da una conca da un baratro
oscuro (inferno) e vede la luce sulla spiaggia, è certamente un’allegoria.
Tutto l’impianto narrativo della commedia è un impianto allegorico,

76-84 : Ciacco dopo aver risposto a tutte le domande di Dante, Ciacco tac. Ma Dante non si
accontenta delle risposte di Ciacco e quindi fa un’altra domanda e interrompe il suo
discorso che muoveva dante a commozione. Il termine suono sta per discorso, ed è una
metonimia (sta nell’indicare una entità col nome di un’altra che sta con la prima in un
rapporto di causa ed effetto o di dipendenza logica o di dipendenza fisica, ad esempio
contenente per il contenuto (facciamoci un bicchiere, oppure autor per opera: avete
portato Dante stamattina? , ma anche la metonimia per sineddoche: parte per il tutto.
Ritornare al tetto natio vuol dire ritornare a casa.

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Dante chiede l’informazione sulla sorte di alcuni personaggi fiorentini, ghibellini e guelfi,
della generazione precedente a Dante, che Dante ritroverà nel suo cammino nell’Inferno,
anche se dante personaggio non lo sa ancora, e chiede: ‘’ma tutti quei personaggi che si
sono dati da fare per Firenze, dimmi dove sono e fa che io li conosca perché ho grande
desiderio di sapere se godono le dolcezze del paradiso o se l’inferno li avvelena’’. (tossicum
vuol dire veleno). Verso celeberrimo e metafora bellissima.

85-93:‘’Egli son tra le anime più nere’’ , tra i peccatori che si sono macchiati dei peccati più
gravi ci sono questi 5 personaggi, e per questo sono spinti giù in fondo alla voragine
infernale e se scendi fino a laggiù li potrai vedere.
Ciacco si raccomanda di ricordarsi di lui chiede di richiamare la sua memoria in terra. Ci
sono anime che desiderano di essere ricordate e altre di essere dimenticate.
Ciacco come Pier delle Vigne, canto XIII, chiede di riscattare la sua memoria.
Ciacco si limita ad affidare a Dante un ricordo.
Ciacco ha esaurito la sua possibilità di parlare e ricade nel fango.
Terzina impostata sulle immagini e metafore della vista: nel mondo cieco e nel mondo
scuro per un po’ racquista vita, parla della sua vita terrena e guarda dante negli occhi, ma
poi distoglie lo sguardo e guarda dante di sbieco e poi china la testa e tutto il corpo allo
stesso livello e sprofonda di nuovo in terra, in questo misto di pioggia e anime morte su cui
Dante e Virgilio vi posano i piedi.
94-99 Virgilio dice a Dante, ecco Ciacco ha parlato, si è svegliato e alzato, ma ora non si
sveglierà più prima di sentire il suono delle trombe angeliche fino al giorno del giudizio
(quando verrà la nimica podesta) , ovvero la potenza divina che è nemica dei dannati. Vi è
una spiegazione importante

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I dannati, come i beati, smetteranno di essere solo anime nel giorno del giudizio
riprenderanno le loro immagini originali e ascolteranno, tornati completi, tornate insieme
anime e corpo, il giudizio eterno (quel che etterno rimbomba). Salvi o dannati.
100-102 Dante e Virgilio riprendono il loro cammino in questa mescolanza di zozza e
sporca aria, camminano a passi lenti in questo spazio dove le anime stanno nel fango
toccando un po’ il discorso della vita dopo la morte (metafora, la vita futura) . Dante vuole
un supplemento di spiegazione
103-105 vuole sapere se dopo il giudizio universale e le anime sono ricongiunte al corpo, le
pene cresceranno o diventeranno ‘’fier minori’’ o saranno intense e cocenti come adesso?
106- 108 Virgilio rimprovera Dante implicitamente perché dovrebbe già conoscere la
risposta, torna allea tua scienza (filosofia, a quello che sai, filosofia aristotelica). Dante
aveva studiato la scolastica e quindi la risposta doveva già conoscerla e doveva sapere che
secondo la filosofia scolastica, un individuo quanto più è perfetto sente il bene o il male.
Se un essere è perfetto, più è articolato più sente il bene o il male. La risposta è già
implicita. (si parla di perfetti dannati, ossimorico *)
109-111 non potranno mai arrivare a vedere Dio, perfetti non saranno mai, ma la pienezza
del loro essere (essere non è un verbo, a sostantivo che si può parafrasare la pienezza del
lor essere) ci sarà dopo il giudizio universale , ovvero dopo il Giudizio Universale anche i
dannati arriveranno ad una compiutezza del loro essere, e saranno compiutamente
dannati, loro sentiranno di più il male.

*Una cosa perfetta è una cosa compiuta, viene da perficio, che vuol dire compiutezza,
quindi i dannati avranno una perfezione negativa e soffriranno di più.

113-115 Dante riprende la cornice viatoria: ‘’riprendemmo a camminare percorrendo la


circonferenza del cerchio parlando molto più approfonditamente di quel che io riferisco e
tornammo nel punto in cui si scende’’
Perché dante nell’imbuto infernale fanno un percorso a spirale e ci sono dei punti di
passaggio tra un cerchio e l’altro, e incontreranno un altro guardiano, Pluto, che si oppone
alla loro discesa. Virgilio si scaglia su di lui, come aveva zittito Cerbero, così zittisce Pluto,
caronte e minosse e lasciaci passare perché questo viaggio è voluto dal cielo. Virgilio usa
quasi delle formule magiche, delle parole di passo, parola d’ordine che permette di andare
avanti o placare l’ira di questi custodi infernali.

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Canto XIII
Dante parla con un personaggio importante, Pier delle Vigne, segretario di Federico II che
aveva avuto un ruolo importantissimo nella politica italiana e ‘’europea’’ e perché nella
parte finale del canto Dante torna sui problemi di Firenze e sulle discordie interne della
città.
La cornice viatoria si modella su un’esperienza agghiacciante: Dante fa esperienza di
un’altra selva, una seconda selva infernale; è un bosco che non è un bosco, fatto di alberi
mostruosi sui quali si annidano bestie orrende, le arpie, e su questi alberi non crescono
frutti, ma spine avvelenate. Gli alberi sono proprio le anime dannate, i suicidi. Pier delle
Vigne spiega a Dante nel corso del canto che ai suicidi il giorno del giudizio universale
spetterà una sorte diversa: il corpo non verrà più loro restituito dato che lo hanno
straziato, non si ricongiungeranno al corpo perché hanno rifiutato la loro corporeità, e i
loro corpi di impiccati verranno attaccati alla pianta in cui eternamente verrà rinchiusa
l’anima del dannato.
Come ci arrivano? In groppa ad un centauro, perché la selva è circondata da un ruscello di
sangue, Flegetonte, dove vi è sangue che bolle, dove stanno immersi a vari livelli più o
meno i profondità a seconda della gravità della loro colpa, i violenti* contro gli altri e le
loro cose (omicidi e predoni) hanno versato il sangue degli altri o impossessati con violenza
dei loro beni.

Violenza seconda disposizione peccaminosa punita nell’inferno, tutti i violenti puniti nel
settimo cerchio, suddiviso in tre gironi, che corrispondono a spazi di paesaggio diversi:
violenti contro il prossimo e i suoi beni sono immersi nel Flegetonte.
All’interno del primo girone sta il secondo girone, dove sono puniti i violenti contro sé
stessi e le proprie cose, i suicidi e gli scialacquatori, e al terzo girone dove sono puniti i
violenti contro dio, bestemmiatori e usurai.

Dante e Virgilio non possono attraversare il Flegetonte a piedi e si fanno aiutare dai
guardiani: Centauri sono dei guardiani del settimo cerchio, sono degli animali mezzo uomo
mezzo cavallo, questa loro natura umana e animale allegoricamente corrispondono al
peccato della violenza, perché nell’XI canto Virgilio spiega a Dante che chi si macchia del
peccato di violenza è chi lascia la che parte ferina abbia a meglio sulla parte razionale.
Quando si mette da parte il dono massimo che il cielo ci ha fatto, la ragione, e ci si lascia
trasportare dalla parte ferina. Perfettamente congruente con il sistema dei peccati che ha
dante, della filosofia scolastica, e in base alla concezione del peccato, Dante sceglie i
custodi infernali.
Analisi
1-3: esso non aveva ancora fatto in tempo a ritornare indietro dal fiume di sangue, quando
noi ci trovammo in una selva in cui non ci sono sentieri. Poi comincia una descrizione della
selva, un anti logus amenus.

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Nesso è il centauro che nel I girone del VII cerchio porta in groppa Dante e gli fa
attraversare il Flegetonte. I centauri sono creature mitologiche che appartenevano al mito
classico e si armavano di arco e frecce, e avevano il corpo di uomo fino alla cintola e dalla
cintola in giù corpo di equino. Nell’inferno colpiscono con i loro dardi le anime che tentano
di fuoriuscire dal fiume di sangue bollente.
Paesaggio boscoso, privo di qualsiasi sentiero e vegetazione morta e che non ha comune
somiglianza con i luoghi della terra.
4-9 descrizione selva, che è un anti paradiso, non è accogliente ed è agghiacciante. È un
bosco dove non c’erano foglie, rami verdi, ma di colore scuro, la pianta era scura e nera, i
rami non erano dritti, ma nodosi e involti, contorti, non vi erano frutti (pomi) ma stecchi
( spine) avvelenate (tosco). Il bosco infecondo, senza colore, né luce e dove
apparentemente non vi è nessuna anima.
Nemmeno i cinghiali che fuggono nei luoghi in Maremma, vivono in una macchia
mediterranea così folta e spinosa e intricata. La similitudine tra questo bosco e il paesaggio
maremmano è realistica, dominata dall’immagine degli sterpi, che anticipano quegli stessi
sterpi che sono i suicidi e da quella dei cinghiali, ‘’le fiere selvagge’’ che anticipano la
presenza delle arpie nelle due terzine successive.
In questo bosco orribile si annidano le brutte arpie, creature mitologiche orrende, miste di
natura umana e a natura animale, perché sono grossi uccelli da preda, civette pennute, che
hanno il viso umano.
La descrizione si sviluppa in una tripla negazione, seguite da un’avversativa che rivela il
preziosismo artificio stilistico quasi in preparazione all’incontro con Pier delle Vigne.
L’anafora della negazione NON (v 1-4-7) e la netta divisione della seconda terzina in due
emistichi (mezzi versi), separati dalla virgola e la congiunzione avversativa ma, fanno
comprendere al meglio il rovesciamento da un bosco reale ad un bosco estraniato, in cui
non c’è n’e una foglia verde, ma soltanto rami spinosi e velenosi.

10- 15: queste creature infernali, le Arpie, sono riprese dall’Eneide virgiliana, nel 3 libro che
ha una fonte che torna più avanti nel canto, quella dell’uomo pianta.
Libro terzo E Virgilio aveva raccontata la prima parte del viaggio di enea lontano e in fuga
da troia. Enea, eroe troiano, riesce a scappare e salvarsi dalla devastazione degli Achei a
troia, e Enea compie un viaggio che lo porterà sulle coste del Lazio, dove la missione divina
che gli è stata affidata farà sì che enea s stanzierà, troverà la nuova moglie, Lavinia e darà e
diventerà progenitore di una stirpe, da cui verrà la a gens Julis, Ottaviano augusto. È una
genealogia fantasiosa, per attribuire , ad Ottaviano Augusto una lontana genealogia
estremamente illustre.
L’Eneide è composta di 12 canti, nei primi 6 viaggio di enea, in quelli successivi si
raccontano i combattimenti e lotte e traversie militari che enea racconta per insediarsi
nelle coste del Lazio per mettere i presupposti
Nel terzo libro racconta, prima di andare da Didone, racconta del viaggio che ha fatto fino a
Roma, dalla distruzione di Troia nel canto II e la fuga nel Canto II. Enea quando fugge da
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Troia non sa dove andrà, vuole andare e trovare un posto dove fermarsi con i compagni e i
familiari e padre e figlio che è riuscito a portare in salvo, anche se Anchise morirà durante il
viaggio; e si ferma nella isole Strofadi, e in queste isole enea e i suoi compagni approdano
e cercano di capire se si possono fermare. Apparecchiano e si dispongono, devono
mangiare, allestiscono delle mense e arrivano successivamente questi orrendi uccelli, le
arpie, che sporcano la mensa e imbrattano la mensa con il loro sterco e preannunciano
sventura a enea che a quel puto smonta le mense e riparte con i suoi compagni.
Questo ipotesto, questa fonte era ben chiara a Dante che vuole esplicitamente richiamare
nei suoi lettori la memoria del terzo libro dell’Eneide.
Anche nel girone dei suicidi ci sono le arpie, si lamentano (non cantano) e fanno dei versi
orrendi sugli alberi strani, alberi deformi e molto particolari.
16-27 A quel punto Dante viene avvertito da Virgilio su ciò che lo attende nel II girone, e
dovrà rimanerci fino a quando non approdano ‘’orribil sabbione’’.
(v.18 mentre che qui non vuol dire nel tutto il tempo i cui, ma fino a quando non ) arriverai
orribile sabbione: ovvero la distesa di sabbia infuocata dove sono puniti i violenti contro
Dio, natura e arte.
v.20: ‘’però’’ in questo caso non è congiunzione avversativa ma congiunzione conclusiva,
cioè questo però vuol dire Perciò.
Perciò guardati bene intorno e vedrai delle cose che toglierebbero credibilità a quel che io
ti dico ( se io te le dicessi e basta tu non ci crederesti)
22 infatti dante sente qualcuno che si lamenta, lo lasciano sconcertato perché non vede
nessuno.
Terzina dal verso 25 :polittoto, Dante descrive il proprio smarrimento e quasi il pensiero di
Virgilio: nella sua tortuosità, rivela lo smarrimento e la confusione di Dante. Le ripetizioni
del verbo credere rimandano ad altrettanti livelli di significato: uno letterale, come segnale
dell’eccezionalità della situazione in cui il pellegrino si è ritrovato; l’altro sembra anticipare
la grandezza del personaggio pier delle Vigne; un altro esprime nuovamente il sentimento
di smarrimento del poeta.
‘’Io credo che a quel punto Virgilio abbia pensato che io credessi che quelle voci che si
sentivano fra i cespugli venissero da qualcuno che si nascondeva nei cespugli stessi per non
farsi vedere da noi’’, perciò disse il maestro, il duca invita dante a rompere un rametto, e
guardare cosa succede. Dante rompe un rametto e insieme escono sangue e un soffio di
voce attraverso il aule parla appunto il personaggio che si presenta come Pier delle Vigne.

28-39 Virgilio interviene nuovamente per fugare ogni dubbio del suo discepolo sollecitando
Dante a troncare un rametto e solo allora Dante personaggio si renderà conto delle su
supposizioni erano sbagliate.
Durezza delle allitterazioni: soprattutto le s delle consonanze, con la prevalenza di suoni
duri r e t che nelle terzine hanno reso l’asprezza delle immagini , permangono nel discorso
di Virgilio, come le parole finali bronchi, tronchi, monchi.

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La durezza fonica continua nelle terzine successive che vedono l’ingresso in scena di PDV:
le parole schiante, scerpi, sterpi, serpi presentano consonanze dure e sibilanti, volte a
sottolineare il movimento meccanico con cui esce la voce di PDV dopo il ramo spezzato di
Dante.
PIETADE (v.36) : in questa atmosfera dominata dalle arpie, risuona nella voce del dannato
la parola pietà, a significare che nell’Inferno, lo spirito dannato afferma la sua identità di
uomo (uomini fummo v.37). La pietà è un sentimento e un dono che emerge più volte
all’interno del viaggio infernale.
La pietà è suscitata in Dante dal dolore e dalla sofferenza delle anime , per chi ha smarrito
la strada e ora affronta il dolore eterno.
UOMINI (V.37) : nell’inferno le anime, ora ridotte all’umiliazione più profonda, ricordano
con dolcezza il tempo della gloria in vita.
SERPI (v.39): il serpente nella tradizione biblica è l’essere più abietto e infido che esista.
L’individuo paragonato alla serpe perde ogni sua dignità e umanità, smarrisce ogni sua
capacità intellettuale. Le anime dell’inferno, costrette in questa realtà di perdizione,
difendono come far Pier delle Vigne, quella dignità che ebbero in vita.
40-54: il poeta associa l’evento straordinario cui ha assistito, cioè il ramo spezzato da cui
escono le parole di sangue, al fenomeno naturale della linfa che sgorga e geme dal lato
opposto di un verde ramo cui è stato dato fuoco. Come spesso accade nella Divina
commedia nell’uso delle similitudini, Dante coglie le cose terrene, forme e d espressioni
che rimandano a qualcosa di familiare e quotidiano.
Eneide nella Commedia
Una fonte importante per l’invenzione della selva è il canto terzo dell’Eneide, ma ‘è un
altro passo precedente dell’Eneide che è importante per l’invenzione dell’uomo-pianta.
Si racconta come Enea si fermi sulle coste della Tracia e raccoglie dei ramoscelli di mirto
per l’altare da sacrificare agli dei. Enea fugge e si ferma, e siccome è pius, ovvero devoto
della religione e della patria vuole fare una sacrificio agli dei, coglie dei ramoscelli di mirto
e vuole anche un ramo, ma vede del sangue scendere dalla pianta : è suo cugino Polidoro…
Priamo aveva mandato via suo figlio più giovane dal teatro di guerra , viene mandato verso
la reggia di un re amico per stare lontano dal teatro di guerra e viene affidato il tesoro della
città di Troia. Ma quando era arrivata in tracia la notizia che troia era stata espugnata,
Polimestre aveva fatto uccidere Polidoro e si era preso il tesoro, ucciso trafitto dalle lance
di Polimestre e non aveva avuto la sepoltura ottenuta. Capisce che deve andarsene subito
da lì, terra non più amica dei troiani e riparte e lascia il luogo pericoloso.

Dante mostra di essere nuovamente smarrito e timoroso per la seconda volta (la prima
quando sete anime gemere ma non le vede). Adesso si trova di fronte ad un ramo che
sanguina e si lamenta.
L’intervento di Virgilio in questo punto a recare un’atmosfera di maggiore distensione tra
Dante e lo spirito.

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V48: Virgilio si rivolge all’anima co parole garbate e richiama i suoi versi, che Dante
certamente conosceva, che narravano di Polidoro.
È impossibile per Dante sanare l’offesa recata, ma è possibile per lui ricordare l’anima
dannata nel mondo terreno.

*PIER DELLE VIGNE*


È un personaggio molto importante perché era dei poeti e dei funzionari alla corte di
Federico II e uno dei primi grandi lirici italiani, scrive poesie e diversi sonetti di PDV, ma
soprattutto era un uomo politico, come Dante era un poeta e uomo politico. Aveva avuto
ruolo importante a questa corte perché era il logoteta: colui che scriveva i discorsi ufficiali
per Federico II e quindi teneva ‘’tutte e due le chiavi del cuore di Federico’’ e aveva e
conosceva tutti i suoi segreti. Ma proprio per questo aveva attirato su di sé l’invidia di altri
cortigiani.
‘ io son colui che tenea le chiavi del cor di Federico’’v.58) quindi non dice sono Pier Delle
Vigne ma si perenta con questa perifrasi. Pier delle Vigne diventa l’uomo più vicino a
Federico II.
Pier delle Vigne dice una cosa molto importante nella storia non solo letteraria ma proprio
della storia medievale, perché Dante si schiera con questi versi esplicitamente da parte
degli innocentisti, dalla parte di coloro che non avevano creduto all’accusa che era stata
mossa a Pier delle Vigne.
Egli infatti era stato rovinato dall’invidia dei cortigiani era stato accusato di tradimento.
L’accusa era stata ritenuta valida da Federico II e Pier delle vigne era stato giudicato
colpevole, condannato a morte e rinchiuso nella rocca di San Miniato al tedesco, e prima di
subire la condanna a morte per ‘’disdegnoso gusto’’, per affermare con gesto estremo la
propria innocenza Pier delle vigne si era suicidato fracassandosi la testa sulle pareti della
cella dove era stato rinchiuso.
Figura tragica che implora dante perché possa tornare nel mondo e riabilitarlo e giura (v.
73-78) di essere innocente e chiede a Dante di ricordarlo. Attraverso PDV parla anche di
una figura importante nella storia medioevale, Federico II, che era contro i papi e quindi
sostenitore della parte ghibellina, ma della quale dante lentamente capisce e ne comincia
ad abbracciare le ragioni.
In questa orribile selva sono puniti anche colore che hanno dissipato fatto violenza contro
le proprie cose; gli scialacquatori devono correre e sono continuamente inseguiti e
azzannati da cagne nere e nel tentativo vano di sfuggire a questo supplizio cascano negli
sterpi, e fanno male a loro stessi e anche li fanno scempio, perché sono anime corpo
perché subiscono e sentono dolore.
Come fa parlare Pier? Modella le parole del personaggio che erano proprie dell’autore Pier
delle vigne, noto soprattutto come epistolografo ed era un abilissimo retore, capace di
usare la lingua con alta raffinatezza, e si esprime in una maniera particolarmente alta e
ricercata, registro del suo discorso è molto elevato e sostenuto, usa molte metafore ma
che tiene il registro alto. Il personaggio letterario Pier delle vigne parla con una lingua
21
modellata dal personaggio reale. Dante conosce Pier delle vigne. Nicola della Rocca aveva
scritto un elogio a Pier delle vigne, dice che come san Pietro ha le chiavi del paradiso e lui
di Federigo.
Nativo di Capua, la vigna è l’allegoria della fruttifera vita cristiana. Ha sicuramente in
mente questo elogio perché ha in mente l’immagine delle chiavi e prende spunto da
questa interpretatio nominis e trasforma questa vigna fruttifera n un albero morto e
produce solo degli stecchi con tosco.

55-63 Adescare e invischiare appartengono i due termini al lessico della caccia, alla caccia
del falcone, attacco di discorso molto potente, la caccia col falcone era l’arte dei nobili per
eccellenza, attività ricreativa dei nobili e dei re. Aveva scritto ‘’….’’ È molto significativo che
Pier apra il suo discorso con queste immagini che rimandano all’arte della falconeria è
come se il personaggio ritornasse sempre col desiderio all’ambiente di corte dove aveva
ben operato, ama la corte e rafforzano il suo delle metafore l’identificazione i Pier, e lo
presentano perfettamente, fedelissimo uomo di corte.
CHIAVI (v.58): simbolo antichissimo per indicare lo strumento capace di consentire o
negare l’accesso alle cose più preziose. Pier delle Vigne ha le chiavi per accedere ai
sentimenti e segreti più profondi di Federico II. Le chiavi quindi indicano grande potere ma
anche grande responsabilità.

64-78 Invidia: Pier della Vigne dice che è la sua rovina e la chiama MERETRICE.
La meretrice è la prostituta che non allontanò mai i suoi occhi putti, il suo sguardo
disonesto che non distolse mai l’ospizio di cesare (la reggia), morte comune (epiteto
riferito alla meretrice), l’invidia è la rovina della vita di corte.
L’invidia aizzò gli animi di tutti i cortigiani contro di me e gli animi/cortigiani travolti
dall’invidia, riversarono la loro invidia con Augusto e si rivolsero all’imperatore e lo
‘’contagiarono con il loro fuoco’’ e credette l’imperatore ciò che avevano detto i cortigiani
e incastrarono Pier delle vigne, e i suoi onori (ovvero la sua posizione di straordinario
rilievo) si trasformano in tristi lutti.
Virgilio nell’episodio d Polidoro si riferisce all’avidità di ricchezza, ora Dante per bocca di
Pier delle Vigne si scaglia contro la malizia dell’invidia che appunto chiama meretrice.
Quello che era in Virgilio una colpa generalizzata, che accumuna l’umanità intera, qu è un
vizio che colpisce un ambiente particolare, quello delle corti, un ambiente che anche Dante
conosceva molto bene: aveva ricoperto degli incarichi politici dove era stato ingiustamente
accusato di connivenza con i nemici di Firenze. Ne deriva una piena concordanza con
questo personaggio che a causa dell’atteggiamento dell’invidia fu costretto a subire
l’atteggiamento di sospetto del suo signore e imprigionato e costretto al gesto estremo.
V73 ritorna il legame con l’albero in cu è racchiuso, nel giuramento sulle recenti radici del
virgulto, nato in seguito alla caduta dell’anima del bosco e la rivendicazione della fedeltà
del suo re.

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Dall’affinità della situazione che accumuna Piero e Dante nasce la pena per quel ‘’giusto’’,
ma emerge anche l giudizio morale e la diversità. Affascinato dai valori umani, Piero non si
innalza alla morale religiosa: non conosce né pentimento, né il perdono e ignora la
misericordia di Dio. Resta vittima di un senso dell’onore che si identifica con l’orgoglio.
Sono evidenziati qui i limiti del mondo cavalleresco e il diverso concetto di virtù e di umiltà
in Dante.
Pier delle Vigne, come ha fatto farinata nel canto XI, dovrà spiegare la pena delle anime
dannate insieme a lui.

78-90 dante al tacere del dannato attende un istante prima di parlare quasi preferisse una
pausa di riflessione per se stesso e Dante (v.79 un poco attese ) ma è Dante stesso che lo
prega, come si prega un buon maestro o un padre, di proseguire il dialogo con Pier, in
quanto lui è turbato dal racconto del dannato e oppresso dalla commozione e pietà.
Virgilio accetta e chiede ancora garbatamente all’anima il legame terribile che unisce in
quel cerchio dannato il suo tronco.

91-102: A questo augurio segue la precisa richiesta (come l'anima si lega in questi nocchi,
vv. 88-89) a cui l'anima-albero risponde quasi con fatica (Allor soffiò il tronco forte, v. 91);
una fatica che non era stata messa in luce nel colloquio precedente, impreziosito da
termini estremamente raffi- nati. Ora invece i termini usati non sono più quelli
appartenenti ad registro linguistico elevato, ma quelli adatti ad un discorso rivolto ad un
pubblico generico e desideroso di sapere: (‘’Brievemente sarà risposto a voi, v. 93).
Nel momento in cui l'anima che ha compiuto un atto malvagio contro se stessa col suicidio,
si divide dal corpo, sradicandolo da esso con violenza (ond’ella stessa s'è disvelta, v. 95),
come si fa quando si estirpa una radice, Minosse, il demone giudice dell'Inferno la destina
alla settima porta dell'Inferno, ovvero al settimo cerchio.
L'atto che il suicida ha compiuto è così esecrabile che a differenza di quanto accade per
altri dannati e per altre colpe, non è assegnato al suo spirito un luogo preciso nel cerchio (e
non l'è parte scelta, v. 97), ma viene lanciata in esso come si getta un sasso con la balestra
in un campo, senza una direzione precisa, perché non vi sono gerarchie di colpe in questo
gesto: tutti i suicidi sono colpevoli allo stesso modo. L'ombra cade dove capita in mezzo
alla selva e come un seme germoglia facilmente, come accade al germe di gramigna che
attecchisce ovunque (quivi germoglia come gran di spelta, v. 99) anche in terreni infecondi.
In seguito l'anima, proprio come un seme, cresce e diventa una pianta selvatica di cui si
cibano le Arpie, provocando ferite dolorose ai rami, che corrispondono alle membra stesse
del dannato. Qui vediamo in scena le Arpie nel loro ruolo di esecutrici della giustizia divina,
mentre prima ne udivamo solo i lamenti.
103-108: Il Giudizio Universale offre un altro terribile aspetto della sorte riservata a queste
anime. I suicidi infatti si riapproprieranno del loro corpo, del quale, però, avendolo
disprezzato con il suicidio, non potranno rivestirsi (v. 105); allora lo appenderanno
ciascuno ai rami del cespuglio in cui è chiusa la propria anima. A questo punto si svela la
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natura del contrappasso in questo cerchio: come l'anima ha sradicato da sé il corpo in vita,
nell'oltre-mondo non lo potrà mai più ricongiungere ad esso, neppure nel giorno del
Giudizio Universale, quando tutte le anime si riuniranno alle loro membra.
109-117: Pier delle Vigne ha appena terminato il suo racconto, quando un improvviso
rumore coglie l'attenzione dei due pellegrini. Anche in questa seconda parte del canto
l'introduzione di nuovi personaggi e di nuovi eventi avviene, dunque, attraverso elementi
uditivi: (quando noi fummo d'un rumor sorpresi v. 111).
È un fragore simile a quello che avverte il cacciatore quando il cinghiale si avvicina al luogo
dove è atteso a la sua posta (v. 113), assalito dai cani che gli corrono dietro. Al rumore si
associa, subito dopo, la vista di due anime che, nude e piene di graffi, corrono e si fanno
strada fra gli sterpi, superando ogni ostacolo (de la selva rompieno ogne rosta, v. 117).
Sono due scialacquatori, che insieme ai suicidi hanno la loro sede in questo cerchio.
Lo scialacquatore è colui che dissipa le proprie ricchezze e annienta le proprie cose con
l'intento preordinato di distruggere, attraverso le sue proprietà, se stesso; si differenzia dai
prodighi perché in loro questo comportamento non è frutto di intenzione, non di volontà
ragionata, ma di eccesso di istintualità, di incontinenza.
Il contrappasso nella pena degli scialacquatori si configura in questi termini: come in vita
essi smembrarono e dilapidarono i propri beni con ostinata e rapida ricerca, nell'Inferno le
loro anime sono inseguite da velocissime cagne fameliche, simboli della povertà e del
bisogno, che fanno scempio e dilaniano le loro membra. Alla immobilità dei suicidi,
divenuti tronchi radicati nel terreno, si oppone la frenesia di questi dannati, costretti ad
un'eterna corsa perché inseguiti da bestie voraci. La loro condizione di eterni fuggitivi
impedisce loro di parlare direttamente con Dante, ma se ne desume l'identità dalle parole
che essi pronunziano durante l'affannosa corsa.
118-129 Il primo scialacquatore, probabilmente anima di Lano di Ricolfo Maconi, grida
invocando la morte che lo liberi dall’atroce tormento dei morsi delle cagne, lui che in vita
aveva ugualmente inseguito la morte per liberarsi dalle angustie della miseria, dopo aver
dilapidato tutti i suoi averi. Egli aveva fatto parte in vita della cosiddetta “brigata
spendereccia" di Siena e in breve tempo si era ridotto in estrema povertà: si narra che
nella battaglia delle Giostre del Toppo, combattuta da Senesi e Aretini presso Pieve al
Toppo, Lano avesse cercato deliberatamente la morte, gettandosi nella mischia, per poter
fuggire dalla situazione di estrema indigenza in cui si era calato. E il dannato che è con lui
ricorda proprio questo episodio, accennando ironicamente al fatto che la sua corsa non era
stata così veloce in battaglia per evitare la morte (non furo accorte le gambe tue a le
giostre dal Toppo, vv. 120-121).
Chi parla è Jacopo da Sant'Andrea originario del contado di Padova, in vita uomo
ricchissimo, riguardo al quale Boccaccio racconta che desiderando vedere un grande e bel
fuoco fece ardere una sua bella e ricca villa. Ora nell’Inferno, di fronte a Dante, segue Lano
ma più lento nella corsa e più affaticato si avvinghia ad un cespuglio che cela l'anima di un
altro dannato e con questi crea un unico nodo (d’un cespuglio fece un groppo, v. 123). Ma

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il suo destino è segnato per l'eternità: la selva è di nere belve, demoni ingordi e pieni di
foga come cani da caccia che a lungo incatenati vengano improvvisamente liberati.
Le cagne si gettano su di lui, nascosto nel cespuglio e ne lacerano le carni portandosene via
ciascuno un pezzo ancora dolente. Si conclude così la caccia infernale, motivo ricorrente
nelle leggende medievali, a cui sicuramente si è ispirato Dante. Nelle cacce infernali
protagonista è il demonio, che rincorre il peccatore per portarselo all’Inferno. Qui siamo
già nell’Inferno e le cagne sono i ministri della giustizia che infliggono una pena perenne,
sempre nuova e sempre uguale, ai dannati. L'elemento visivo è adeguato a quello
narrativo. Esse hanno lo stesso ruolo della bufera infernale che voltando e percotendo
molesta i lussuriosi (Inf. V) o della greve pioggia che opprime i golosi (Inf. VI). Più
drammatico è, nell'episodio degli scialacquatori, il ruolo delle cagne per la capacità delle
loro fauci, la mobilità del loro corpo che si avventa sui dannati dilaniandoli e dilaniando con
essi anche gli sterpi dei suicidi fra i quali essi cercano riparo.
130-151: Gli scialacquatori hanno abbandonato la scena, ma Dante e Virgilio si recano
verso il cespuglio che è stato protagonista dell'ultimo straziante episodio: il dannato piange
e si lamenta perché le sue membra, che corrispondono ai rami, sono spezzate, sanguinanti
e divise dal tronco senza motivo (le rotture sanguinenti in vano, v. 132). Si rivolge allo
scialacquatore in fuga chiamandolo per nome e rivelando così la sua identità, fino allora
nascosta a Dante e al suo maestro, chiedendo perché ha voluto sovrapporre le sue pene a
quelle che già egli deve scontare (che colpa ho io de la tua vita rea, v. 135) .
Virgilio chiede al dannato la sua storia, lui che esprime il suo dolore dalle punte dei rami
spezzati, unendo il sangue alle parole. L'anima risponde con una preghiera: loro che hanno
osservato lo strazio che ha reso osceno il suo corpo, raccolgano pietosamente quei rami
estirpati dal suo tronco, che sono parte di lui e della dignità che vuole conservare pur in
quell'orribile pena (raccoglietele al piè del tristo cesto, v. 142).
L'anima è quella di un uomo vissuto a Firenze, la città el mutò protettore da Marte a san
Giovanni Battista (che Batista mutò ’l primo padrone, vv. 143-144). E forse pronrie per
questo, dice l'anima, Marte, dio della guerra, irato con la città, ne sollecita la rovina
attraverso le lotte fratricide (ond’ei per questo sempre con l'arte sua la farà trista, vy. 144-
145). Al tempo di Dante esisteva sul Ponte Vecchio (v. 146) la base di una statua che la
gente diceva essere stata quella di Marte. Se non ci fosse ancora un frammento della
statua innalzata in onore del dio Marte, rammenta il cespuglio a cui si è aggrappato Iacopo
da Sant’Andrea, oggi la città non esisterebbe più e invano avrebbero lavorato quelli che la
ricostruirono dopo la distruzione di Attila (sovra 'l cener che d’Attila rimase, V. 149). In
realtà Attila non distrusse Firenze; fu il re dei Goti, Totila, che l'assediò e la distrusse nel
542. L'accenno alla statua del dio Marte, evocatrice di guerra e di lotte, una statua prima
abbattuta poi conservata in una sua parte, vuole significare la vocazione di Firenze all’odio
fratricida e alle risse, quasi fosse un destino ineluttabile stabilito nelle sue origini e nel suo
futuro. Dopo la distruzione longobarda la città fu ricostruita grazie a Carlo Magno e papa
Leone nell’801 ma la loro opera non sarebbe servita ad evitare nei secoli a venire nuove
disgrazie. Il dannato che non ha rivelato il suo nome ma si presenta unicamente come
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fiorentino, simbolo di una realtà di violenza, conclude con una frase breve e terribile che
riassume la sua colpa: fece della sua casa il suo patibolo (Io fei gibetto a me de le mie case,
V. 151). Sullo sfondo si individua una visione anch’essa negativa dello spazio in cui la
vicenda si è compiuta: sulla peri- frasi che indica Firenze con il nome del suo patrono (san
Giovanni Battista) predomina l'immagine della città partita: il richiamo alla violenza
prepara, anticipandolo, l'ultimo verso.

Polittoto v102 mescolato con una metafora, punto di vista sta raccontando come nascono
gli uomini pianta e si trasformano in questi orrendi cespugli spinosi e le arpie si nutrono
delle foglie secche e velenose, e fanno ancora più dolore e aprono ferite nei rami secchi e
diventa punto di uscita del lamento dei dannati.

Questione dei suicidi e scialacquatori


Nell’ultima parte del canto prende parola un anonimo fiorentino, è un uomo pianta che è
stato straziato e ferito, rami spezzati da uno scialacquatore che ..
Uomo pianta chiede dante e v di raccogliere i rametti sparpagliati perché lo scialacquatore
ne ha fatto un disastro e vuole che i frammenti della sua anima siano raccolti ai piedi il
tronco di quell’infelice cespuglio.
Usa interessante perifrasi per presentarsi, fa riferimento a una tradizione di quando
Firenze era ancora la città pagana, e la divinità protettrice di Firenze era Marte dio della
guerra. Quando cristianesimo diffuso a Firenze ha cambiato patrono e si è affidata a San
Giovanni battista a cui è stato intitolato anche il battistero. Qui il fiorentino per dire che è
di Firenze usa una perifrasi e una metafora: Firenze è la città che ha abbandonato Marte e
si è affidata Giovanni battista, da dove (onde, in senso figurato) motivo per cui Marte con
l’arte sua . Firenze come una città sempre in guerra perché Marte offeso per
l’abbandonamento di Firenze la perseguiterà sempre con la propria ‘’arte’’, ovvero quella
della guerra.
Dante commette un errore nei suoi riferimenti, doveva parlare di Totila mentre parla di
Attila, che è capo dei Goti, barbari che avevano combattuto e assediato Firenze e avevano
minacciato di raderà al suolo e Firenze ha rischiato di essere distrutta e rasa al suolo e i
cittadini che la rifondarono e l’assedio che avevano subito, e non si fosse risollevata
Firenze se Marte non si fosse deciso di infierire, ma avevano lasciato sull’Arno i fiorentini
una sua immagine.
Esistette ed era stata conservata una statua ai tempi di Dante a mezzo busto che
rappresentava Marte. Quindi pur sdegnato contro i fiorentini perché i fiorentini avevano
conservato una sua città.
Fedeltà a Giovanni battista si può ironizzare. Moneta su un lato immagine di san Giovanni,
su l’altra c’è il giglio fiorentino. Questa è un moneta e sta sul denaro san giovani protettore
della città. Quindi quando il fiorentino fa un’affermazione può essere interpretata come
allusione ironica che il protettore della città di Firenze pensa ai soldi, pensano solo ad

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accumulare e così si ‘’prendono cura’’ di san Giovanni (posto su una faccia della moneta
vigente ai tempi di Dante).
Parte canto XVIII si riferisce al papa Giovanni XXII così avido che era arrivato a
scomunicare e cancellare in cambio il denaro. Era così malato di cupidigia.
Circolare discorso di Dante sui momenti di svolta negativa di Firenze e anche sui luoghi,
battistero di san Giovanni e ponte vecchio è il centro storico della città di Firenze, divisa tra
il vecchio e nuovo patrono, che è stato abbandonato e per questo perseguita la città e il
nuovo patrono che dovrebbe essere protettore grande, ma i fiorentini fanno pasticci e
commettono errori: hanno messo immagine sulle monete, degenerazione che sempre
meno pensa alle cose sacre e sempre più al denaro.

Il fiorentino suicida non dice perché si è suicidato, ma dice una cosa che ci fa capire il
perché, ovvero si è rovinato economicamente . V: io fei gibetto (patibolo) a me de le mie
casa ( si è impiccato). Qui casa vuol dire luogo dell’impresa. Capiamo la considerazione
amara del suicida di Firenze che si affidato ai soldi, lui è andato in rovina perché ha
puntato tutto sulla economicità.

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Canto XXVII

Dominato fra dialogo fra Dante e Guido da Montefeltro ed è canto contiguo a quello del
canto di Ulisse.
Siamo nell’ottavo cerchio, nelle ‘’male bolge’’. Nel basso inferno fatto da male bolge e lago
Cocito. Nelle Male Bolge ci sono i fraudolenti contro chi non si fida, coloro che hanno usato
la frode e la ragione il sommo dono di Dio portando danno a persone che no avevano
motivo di fidarsi di loro. Lago sono puniti i fraudolenti contro chi si fida, nei confronti di
persone particolarmente care che non si aspettavano il male. Son puniti traditori dei
parenti, della patria, del partito, degli ospiti e dei benefattori (questi del peccato più grave
in assoluto) e sono Bruto e Cassio, omicidi di Cesare e Giuda che ha tradito Cristo. Essi sono
maciullati nelle bocche di lucifero e mastica per l’eternità le anime di questi dannati.
Nella nona bolgia si sono soffermati a dialogare con Ulisse, punito fra i consiglieri di frode,
ha usato la ragione per ingannare e portare alla rovina i suoi nemici. Il più importante è
l’inganno del cavalo, punito insieme al suo amico Diomede.
*Il mito di Ulisse è un mito che dante cambia, ha delle caratteristiche prima di Dante e
dopo dante diverse. Dante non conosceva omero perché la letteratura greca non era
conosciuta e non circolavano i testi al tempo di dante, il grande ritorno dei testi classici
arriva dopo il concilio, dopo la disfatta di Costantinopoli. Dante non sa come è morto
Ulisse, non a che Ulisse è tornato a Itaca, non sa come va a finire la storia a Itaca. Sa ce ha
ricevuto dall’indovino Tiresia e questa profezia gli ha detto che sarebbe ornato a casa e
sarebbe ripartito e arrivato molto lontano in una terra dove no conosce il mare e con u
remo lo avrebbero scambiato per il ventilabro. (per aizzare il fuoco). Profezia che c’è
nell’Odissea, ma va a finire diversamente da come la sa Dante. Lui però appunto non lo
conosce sa solo che è arrivato fino Circe, attuale Gaeta sulle coste dell’Italia centrale.
Questa idea Ulisse eroe della conoscenza è un’invenzione dantesca, perché Ulisse è l’eroe
dell’astuzia, colui che con La sua parola e sottigliezze riesce a convincere il suo prossimo e
ad ingannarlo.
‘’Orazion picciola’’ 9 versi celeberrimi. Ulisse ha usato la sua parola per ingannare, questo
eroe dell’astuzia qui parla ai suoi compagni, ma non li vuole ingannare e li esorta a andare
verso l’ignoto, perché la conoscenza è più forte di qualsiasi altra cosa. Ulisse qui diventa
l’eroe della conoscenza ma non è così prima di Dante.

Dante accosta molto spesso personaggi del mito e personaggi della storia. Dopo aver
dedicato un canto inter al consigliere di frode mitologico, ora lo dedica a guido da
Montefeltro. Era morto in anni quando dante era già attivo, nel 1298, prima del viaggio di
Dante. Riceve nel canto VI dell’inferno un tassello di profezia, e attraversando inferno e
purgatorio e il primo a pronunciare la profezia è ciacco, ma il discorso profetico per dante
personaggio, e Cacciaguida nel paradiso gli dirà la sua sorte. Ciacco primo fiorentino con
cui dante parla e primo personaggio che pronunci una profezia.

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Pena del contrappasso dei fraudolenti: dante immagina che le anime dei consiglieri di
frode non siano visti con un corpo, ciacco ha una fisionomia, anche se dante non riconosce
ma ciacco ha un volto e degli occhi, i sodomiti che dante incontra sul sabbione infuocati
solo pelati e bruciati, le loro anime invece sono avvolte nelle lingue di fuoco.
Contrappasso per analogia, come le loro lingue hanno portato dolore hanno peccato
imbrogliato il loro prossimo, così sono avvolti in un lingua di fuoco, sono diventati lingue di
fuoco e che brucia. Queste lingue si muovano nel fondo della bolgia, dante li scavalca
usando dei ponti di pietra che collegano una bolgia all’altra e osserva queste lingue di
fuoco nel fondo della bolgia e sono come fiaccole, queste lingue di fuoco non rischiarano,
ma ardono e basta.

Analisi canto
1-30: Incontro con Guido da Montefeltro, la fiamma che racchiude Ulisse e Diomede si allontana
mentre un’altra si avvicina, da que
V1: poiché, mentre lo spirito incarcerato parla, la fiamma si muove come se fosse la sua lingua , il
fatto che si drizzi e rimanga ferma vuol dire che lo spirito tace.
per non dir più: «perché non parlava più». Per il complemento di causa, espresso con per + infinit.
sen gia: se ne andava
3. con... poeta: «con il permesso di Virgilio». Le parole con cui Virgilio accomiata Ulisse saranno
riportate più oltre al v. 21 (vedi nota).
6. confuso suon: il fenomeno della voce che cerca l'uscita dalla fiamma è già stato indicato nel
canto precedente ai vv. 85-90, ma viene meglio chiarito attraverso la similitudine che segue.
7-12: l’ateniese Perillo aveva costruito de, tiranno di Agrigento, un bue di rame, la cui bocca era
fatta in modo che le grida di dolore dei torturati che vi venivano rinchiusi sembrassero muggiti
quando lo strumento di tortura veniva posto sul fuoco e arroventato. Falaride usò per la prima
volta il bue ai danni dello stesso inventore. Dante trae l'episodio da Ovidio, che narra il fatto nei
Tristia.
7. cicilian: siciliano.
8. colui: Perillo, che l'aveva fabbricato con i suoi strumenti (temperato con sua lima).
ciò fu dritto: «ciò fu giusto»; è reminiscenza ovidiana: «Fu giusto l'uno e l’altro: non c'è legge più
giusta / che far perire della propria arte gli artefici di morte».
10. mugghiava: «soleva mugghiare», perché dopo che venne ucci- so Perillo (per cui il bue
mugghiò) lo strumento di tortura fu usato altri infelici.
12. pur... trafitto: egli solo sembrava muggire per il dolore.
13-15. così... grame: così le parole dolorose (grame) per non trovare dapprima (dal principio) né
via né foro (forame) nel fuoco si convertivano nel suo linguaggio (cioè nel linguaggio del fuoco), in
un confuso suon.
18. che... passaggio: «la voce», cioè, aveva impresso quel moto vibratorio (guizzo) che nel
passaggio aveva dato alla lingua. Cfr. If XXVI 89: come fosse la lingua che parlasse.
20. mo: ora.
21. Istra: voce lucchese e dell'Italia settentrionale, vale: ‘’ora, adesso’’. Vallone («Lettere italiane»
XI 2, pp. 224-227) propone la lezione istrà, nel senso di «addio»; ma in tal caso il sintagma ten va a
inizio di frase è inammissibile per la già citata (cfr. If III 5) legge Tobler-Mussafia. t'adizzo

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22. perch'io: «per il fatto che», o anche «sebbene». L'anima teme di essere arrivata tardi, e che il
suo interlocutore non possa fermarsi oltre, essendosi già a lungo trattenuto a parlare con Ulisse. E
un primo vago accenno a ciò che verrà detto più avanti (vv. 25-26, vv. 61-66): Guido crede che si
tratti di un dannato.
24. e ardo!: «eppure ardo!». Inciso doloroso come l’inizio (v. 15 le parole grame) e la fine (vv. 131-
132) dell'episodio. Vedi La lettura di Umberto Bosco.
25. pur mo: proprio ora.
mondo cieco: cfr. If IV 13 e X 58-59. 26. caduto se': vedi nota al v. 22.
26-27. dolce terra latina: «l'Italia». L'espressione affettuosa è sottolineata dall'enjambement.
ond'io... reco: «di dove porto tutte le mie colpe», perché «la memoria della dolce terra sua si
affaccia insieme con quella della colpa, di tutta la sua colpa, che vi commise e per cui patisce il
castigo eterno» (Torraca).
28. dimmi... guerra: non è domanda generica, come i più intendono. Vedi La lettura di Umberto
Bosco. 29-30. ch'io fui... si diserra: nacqui nel Montefeltro, regione posta tra Urbino (Orbino) e il
monte (1 giogo) da cui scaturisce (si diserra) il Tevere (propriamente il monte Coronaro).
31. Io era... chino: Dante è ancora proteso e sporto dal ponte.
32. mi tentò di costa: «mi toccò nel fianco». Per «tentare» in tal senso.
33. latino: «italiano» (cfr. v. 27). Virgilio invita Dante a parlare con questo spirito perché non solo è
italiano, ma appartiene all'età moderna; mentre con l'antico Ulisse («greco») aveva parlato lui.
38. ne' cuor: perché nei cuori dei vari tiranni romagnoli albergano le invidie, i rancori e le rivalità.
tiranni: è parola quasi tecnica per designare i signori della valle padana; il termine aveva una
indubbia sfumatura polemica già in greco e in latino, che si accentuò nel corso dei secoli XIV e XV.
40-42. Ravenna... vanni: rapida e vigorosa sintesi della condizione di Ravenna nella primavera del
1300, così come nelle terzine seguenti Dante farà altrettanto per le altre città della Romagna.
Guido il Vecchio da Polenta, il padre di Francesca da Rimini, s'impadronì di Ravenna nel 1275; per
questo Dante dice che la città è nella stessa situazione da molti anni. Lo stemma dei da Polenta era
un'aquila (aguglia) vermiglia in campo d'oro (Lana): di qui l'immagine di quell'uccello che cova
(cioè tiene sotto di sé con ogni cura) la città, estendendo le sue ali (vanni) a ricoprire Cervia, cioè
tenendo sotto il suo dominio anche questo ricco borgo sull'Adriatico.
43-45. Forlì, la città ghibellina che sostenne un lungo assedio dal 1281 al 1283 (la lunga prova) da
parte delle truppe guelfe inviate da Martino IV, e che fece strage (sanguinoso mucchio) dei
francesi giunti in aiuto degli assedianti, era nel 1300 sotto il dominio degli Ordelaffi. Il fatto a cui si
allude al v. 44 avvenne il 1° maggio 1282: il ricordo è quanto mai significativo perché a comandare
le truppe ghibelline forlivesi era proprio Guido da Montefeltro, che dimostrò in quell'occasione
una straordinaria abilità tattica e strategica. Compiuta un'ardimentosa uscita dalla città assediata,
sconfisse il grosso dell'esercito nemico, e poi, con un rapido rientro, fece strage dei cavalieri
francesi che nel frattempo erano entrati in città. Le branche verdi sono gli artigli del leone verde
rampante in campo d'oro che era l'insegna araldica degli Ordelaffi.
46-48: la terzina sintetizza non solo la condizione del dominio riminese dei Malatesta, ma
sottolinea la crudeltà dei due «tiranni», Malatesta il Vecchio e Malatestino, sia con la felice
immagine dell'uso dei denti come succhiello (succhio), per mordere e dilaniare gli avversari
politici, sia nell'indicare espressamente un atto della loro crudeltà (v. 47), compiuto nei confronti
del ghibellino Montagna dei Parcitati. In quanto alla denominazione di mastini data ai due
Malatesta, quasi tutti i commentatori ritengono trattarsi di un'immagine per indicarne la feroce

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crudeltà. Chimenz fa osservare che sembra strano che, in un contesto tutto intessuto di
preziosismo araldico rigorosamente storico, solo per questi due Dante usi un simbolo allusivo e di
pura invenzione. Ma le ipotesi sulla testa di mastino nell'emblema araldico, o del nome Mastino
come sincope di Malatestino, non reggono. Non resta quindi che ritornare alla vecchia
interpretazione. Malatesta il Vecchio ('1 mastin vecchio), padre di Malatestino, di Paolo e di
Gianciotto (cognato e marito rispettivamente di Francesca da Polenta), s'impadronì di Rimini nel
1295 vincendo la resistenza dei ghibellini a capo dei quali era Montagna dei Parcitati, che fu fatto
prigioniero e poi ucciso. Tenne la signoria di Rimini fino alla morte (1312) e gli successe il
primogenito Malatestino (1 mastin nuovo), detto «dell'Occhio» perché guercio. Quest'ultimo è
anche ricordato in If XXVIII 85 ss. per un altro tradimento.
49-51. Faenza e Imola, situate rispettivamente l'una sul fiume Lamone e l'altra vicino al Santerno,
erano governate da Maghinardo Pagani da Susinana, il cui stemma era un leone azzurro in campo
(nido) bianco. Maghinardo, ghibellino di famiglia, pare che si comportasse da guelfo con i
fiorentini, e da ghibellino in Romagna: l'espressione dantesca vuol forse iperbolicamente indicare il
vario glie e fazioni della Romagna stessa. Maghinardo è detto demonio e discorde comportamento
anche nei confronti delle varie famiglie e fazioni della Romaga stessa. Marghinando è detto il
diavolo in Pg XIV 118.
52-54. di Cesena, bagnata dal fiume Savio, Dante indica qui la precaria condizione politica, che in
realtà era di un po' tutte queste città romagnole, così facilmente oppresse da improvvise tirannidi.
Cesena nel 1300 era retta già da quattro anni dal podestà Galasso da Montefeltro, che per la lunga
durata della carica pareva un effettivo signore, ma che in realtà, come podestà e capitano del po-
polo, lasciava la città in un'apparente condizione di libero comune.
53. sie': «siede»; questo mutamento fonetico è detto apocope e prevede la caduta di uno o più
elementi terminali.
54. stato franco: libera condizione.

56. «non esser restio (duro) a raccontare più che non sia stato io nel rispondere alla tua
domanda». Si è già visto che altri e altrui designano, nella lingua del tempo, persona determinata:
qui vale «io». Sembra la migliore interpretazione anche se, secondo alcuni commentatori, significa
«altri dannati».
57. se 'l... fronte: «così possa il tuo nome, la tua fama, durare nel tempo (tegna fronte)». Il se ha
valore ottativo. 58. rugghiato: «ruggito, mugolio».
59. al modo suo: «come suol fare questo tipo di fiamma». Cfr. i riferimenti al verso precedente.
60. cotal fiato: tale soffio (che si modula in parole).
61. credesse: credessi (desinenza arcaica).
62. a persona... mondo: Guido crede di parlare a un dannato. Questi spiriti, avvolti nelle fiamme,
non possono accorgersi, come gli altri dannati, che Dante è vivo. Si noti poi come in genere nel
basso Inferno, tranne qualche eccezione, i dannati non desiderano essere ricordati, anzi neppure
riconosciuti.
63. questa... scosse: «non parlerei più». Staria forma arcaica e poetica di condizionale per
«starebbe».
64. di questo fondo: dall'Inferno.
65. s'i' odo il vero: formula di valore assertivo, non dubitativo.

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66. sanza... rispondo: la colpa di Guido, avvenuta dopo la sua conversione, è evidentemente ignota
al mondo, ed egli non vuole che la fama di una sua presunta salvezza possa venir distrutta dal
racconto di un vivo. Di qui l'astuta prudenza, in realtà sconfitta. Vedi La lettura di Umberto Bosco.
67. Io fui... cordigliero: bella e rapida sintesi della propria vita: «Guido prima fu guerriero e poi
frate». Cordiglieri erano detti i francescani (in Francia cordeliers) dal cordone di cui erano cinti.
68. credendomi... ammenda: nel passo del Convivio ricordato in Guido da Montefeltro, Dante loda
la conversione di Guido, che là designa come «lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano».
69. venìa intero: si sarebbe attuato, avverato.
70. il gran prete: propriamente «il maggiore dei sacerdoti», cioè «il papa», ma l'espressione,
specie in questo contesto, ha tono dispregiativo: si tratta di Bonifacio VIII.
a cui mal prenda!: l'odio e il rancore di Guido nei confronti di Bonifacio lo fanno uscire in questa
imprecazione volgare, psicologicamente naturale anche e soprattutto perché intercalata in un
discorso retto da una raffinata sostenutezza lessicale.
71. ne le prime colpe: mi fece ricadere nel vecchio peccato di fraudolenza.
72. come e quare: in che modo e perché.
73-74 «mentre vissi» cioè mentre io, anima, fui unita al corpo. Secondo la dottrina scolastica
forma vale «principio informativo», e tale è l'anima, che parla, nei confronti del corpo (ossa e...
polpe).
75. non... volpe: Dante sottolinea più l'astuzia che il valore di Guido, ai fini dell'episodio, anche se il
personaggio era assai noto per valore guerriero. Ciò d'altronde era necessario sia per la condanna
all'Inferno, sia per la luce sinistra che Dante voleva gettare su Bonifacio VIII. L’immagine della
volpe e del leone, di ascendenza ciceroniana, ma non pota forse a Dante e ricavata piuttosto dalla
novellistica medievale, sarà ricordata e ripresa da Machiavelli nel famoso capitolo XVIII del
Principe: Quomodo fides sit servanda.
76. Li accorgimenti... vie: le astuzie e gli infingimenti.
77. sì menai lor arte: seppi usare l'arte della volpe, l'astuzia.
78. al fine... uscie: «la fama (suono) giunse fino ai confini (fine) della Terra». L'immagine è di
ascendenza biblica (Salmi, XVIII 4) e fu usata, proprio a proposito del condottiero, da papa Martino
IV, quando bandì la crociata contro i ghibellini forlivesi comandati da Guido, ed è riecheggiata nella
Cronica di Compagni (II 33): «il buono conte Guido da Montefeltro, di cui graziosa fama volò per
tutto il mondo». Uscie con la solita epitesi ine, caratteristica del toscano.
79. mi vidi giunto: l'espressione, invece di «giunsi», «rivela un lento processo di meditazione sulla
vita passata e sulla morte che avanzava» (Chimenz).
79-81. in quella parte... sarte: «la vecchiaia». La frase riecheggia, anche nelle singole parole, il
luogo già citato del Convivio a proposito di Guido da Montefeltro. Le sarte sono le «sartie», cioè le
corde che fermano le vele alle antenne della nave.
82. ciò... piacëa: cioè «le astuzie e le frodi».
83. pentuto e confesso: dopo essermi pentito e dopo aver confessati i miei peccati.
mi rendei: «mi feci frate»: il verb0 «rendersi», usato assolutamente, valeva «entrare in un ordine
monastico» e corrispondeva al francese antico soi rendre e al provenzale se rendre con lo stesso
significato (dal latino se reddere)
84. ahi... sarebbe: «il sospiro è immediatamente troncato, acuito dalla forma assoluta del
condizionale irreale».

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85. Lo principe... Farisei: dopo il gran prete, già con sfumatura di disprezzo, ora Bonifacio VIII
diventa il capo dei novi Farisei, di sacerdoti cioè che, come i farisei antichi, erano i rappresentanti
di una religione puramente formale. Bonifacio viene a poco a poco illuminandosi di una luce
sinistra e finirà per diventare il vero protagonista dell'episodio.
86. presso a Laterano: «in Roma» e anzi nel «cuore stesso della Chiesa», perché il Laterano era
allora la residenza papale: allusione alla lotta tra Bonifacio e la famiglia romana dei Colonna.
87. e non... Giudei: lotta non contro i nemici della religione cristiana, ma contro i cristiani stessi.
89-90. e nessun... Soldano: il sarcasmo si fa amaro: nessuno di coloro contro cui Bonifacio
combatteva era stato all'assedio di San Giovanni d'Acri, l'ultima città del regno cristiano di
Gerusalemme e l’ultimo baluardo cristiano in Palestina, caduto in mano dei Saraceni nel 1291. Chi
avesse partecipato all'assedio della città sarebbe stato un rinnegato della fede cristiana
schierandosi dal- la parte degli infedeli. Nessuno inoltre era stato a mercanteggiare in terra
musulmana (in terra di Soldano) contro l'espresso divieto della Chiesa. Non c'erano dunque scuse
o attenuanti nella lotta di Bonifacio.
91. sommo officio: «la dignità di pontefice», che, come capo della Chiesa, aveva obblighi
particolari nei confronti dei credenti. ordini sacri: la qualità di sacerdote.
92. capestro: «il cordone francescano». Il papa non ebbe riguardo né alla sua dignità di pontefice e
di sacerdote, né all'abito francescano che Guido portava.
93. che... macri: maliziosa battuta ironica nei confronti dell'ordine francescano: «il cordone un
tempo faceva più magri (mach). per le astinenze e le penitenze, i fianchi dei frati, cosa che ora non
avviene più». La corruzione del papato investe tutta la Chiesa.
94. chiese: «mandò a chiamare». Si allude qui alla leggenda molto diffusa nel Medioevo, secondo
la quale Costantino, malato di lebbra, ispirato da un sogno, mandò a chiamare papa Silvestro I, che
si nascondeva, a causa delle persecuzioni, nelle grotte del monte Soratte (Siratti), e fu da questo
battezzato e istantaneamente guarito.
95. Siratti: «il monte Soratte», nella Sabina. guerir: «guarire», forma arcaica.
lebbre: accanto a lebbra, come ala e ale, febbre e febbra ecc.
96. maestro: era il titolo con cui ci si rivolgeva ai medici.
97. superba febbre: «febbre di superbia»: è il male di Bonifacio, che vuole abbassare i nemici per
cupidigia di potere, effetto della superbia; e «altero e superbo» fu detto Bonifacio da Villani.
99. ebbre: «da ubriaco». Così dovettero sembrare le parole del pontefice al nuovo frate, parole da
insensato; per questo il silenzio di Guido.
100. ridisse: Bonifacio incalza, di fronte al silenzio del frate. non sospetti: «non abbia timore». Cfr.
sospetto, con tale significato in If XXII 127. 101.
102. sì... getti: il modo di abbattere Palestrina (Penestrino).
103. Lo ciel... diserrare: cfr. Matteo XVI 19: ‘’tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e
tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli’’
104. come tu sai: come cristiano e come religioso. son due le chiavi: le due chiavi, simbolo della
doppia potestà papale, non andranno confuse con le due chiavi (la bianca e la gialla) dell'angelo
portinaio (Pg IX), perché il simbolo di queste si riferirà alla sola confessione .
105. antecessor: «Celestino V». L'accenno all’antecessor non sembra delicato e rispettoso»
(Casini-Barbi), ma nemmeno di «feroce ironia»; piuttosto non manca di una sottile malizia.

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106. pinser: spinsero. li argomenti gravi: nelle parole del papa non c'era solo la concessione
anticipata dell'assoluzione, ma anche una velata minaccia. Qui argomenti vale «mezzi, strumenti»
per ottenere un determinato fine, come in Convivio III .
là... peggio: mi spinsero fino al punto in cui (là 've) il tacere, cioè il non dargli il consiglio, mi parve
(fu avviso) la cosa peggiore (cfr. La lettura di Umberto Bosco).
108-109. Padre... deggio: la formula usuale (padre) qui suona per il lettore terribilmente ironica.
Porena fa notare che «Guido ripete a sé e al papa, per assodare di nuovo bene tale condizione, che
se s'induce a peccare è per la convinzione di essere anticipatamente assolto». Infatti questo
preambolo al consiglio è da un lato co- scienza di commettere un peccato, e di esservi stato
costretto, ma dall'altro un ribadire ciò che il papa ha con sicurezza affermato. Tanto più perciò
Bonifacio diventa veramente il sinistro protagonista dell'episodio.
110-111. lunga... seggio: «promettete molto, mantenete poco delle promesse fatte»: sono le
parole riferite dallo storico Riccobaldo da Ferrara. Seguendo il consiglio di Guido, Bonifacio
promise il perdono agli avversari; questi vennero a Rieti, dove si trovava in quel momento la corte
papale, e prostratisi davanti al papa vennero assolti dalla scomunica e fu loro promesso che
avrebbero riavuto la loro dignità e i loro possessi. Invece Bonifacio fece distrugge- re Palestrina e
ricominciò a perseguitarli. Vedi anche La lettura di Umberto Bosco. l'alto seggio: il trono pontificio.
112. Francesco: «san Francesco», perché Guido era del suo Ordine.
113. per me: per prendere la mia anima. un d'i neri cherubini: uno dei diavoli.
114. Non portar: è sottinteso l'oggetto come in Pg XXI 132. Era uso frequente con l'imperativo.
115. meschini: servi.
117. dal quale... crini: «dopo il quale gli son sempre stato vicino, pronto ad acciuffarlo per i
capelli». È conforme alle leggende popolari l'immagine del diavolo che sta a fianco del peccatore,
subito dopo il peccato, pronto a ghermirlo; come lo è quella della disputa fra l'angelo o un santo e
il diavolo per il possesso dell'anima.
118-119. non si dà assoluzione senza penti- mento, né questo è possibile nell’atto stesso di
peccare (vedi nota al v. 120).
pentere: è forma normale dell'italiano antico vicina al latino nitere.
120. per... consente: «pentirsi di un peccato e volerlo commettere al tempo stesso è
contraddizione inammissibile», per la legge di «non contraddizione», uno dei principi della logica
aristotelica.
121. mi riscossi: «mi risvegliai dalla mia sicurezza di essere salvo grazie all'assoluzione papale».
Guido si scopre finalmente vittima del tradimento di Bonifacio.
122. forse: si noti la malizia di questo avverbio; il tono è canzonatorio.
123. löico: «logico», in grado di distinguere fra sillogismi giusti e sbagliati. Scrive Anna Maria
Chiavacci Leonardi: «uno che conosce i principi della logica fra cui quello di non contraddizione»
espresso al v. 120. Questo diavolo filosofo rientra nel gusto della rappresentazione popolare, come
prima la disputa per l'anima di Guido. In sede filosofica invece Dante aveva negato al diavolo la
capacità di filosofare (Convivio III XIII 2).
124. mi portò: in If V 8-12 le anime si presentano da sole al giudice infernale, ma qui,
coerentemente con tutta la narrazione, e conforme alle leggende medievali, è il diavolo stesso che
all'Inferno il dannato.
125. otto volte: per indicare l'ottavo cerchio.
126. e poi... morse: il gesto è inconsueto.

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127. furo: ladro, perché ogne fiamma un peccatore invola.
128. son perduto: sono dannato in eterno.
129. vestito: avvolto dalla fiamma.
mi rancuro: «mi dolgo». Torraca cita Chiaro Davanzati: «Di ciò pensando temo e mi rancuro» .
131. dolorando si partio: è connotazione dolorosa che caratterizza, come è detto nella Lettura di
Umberto Bosco, la figura di Guido da Montefeltro.
partio: con la solita epitesi ino della terza persona singolare ossi- tona del perfetto della terza
coniugazione.
132. dibattendo: agitando. corno aguto: la punta acuta della fiamma.
134. scoglio: il ponticello che sovrasta l'ottava bolgia. l'altr'arco
135. 'l fosso: la nona bolgia.
136. a quei «da quelli», complemento di agente, come si intende per lo più. Castellani («Rivista di
cultura classica e medievale» VII (1965), 1-3, pp. 308-320) lo intende vero e proprio dativo perché
ha dimostrato che fio significa «salario» e quindi l'espressione vale «si paga il salario, ovvero che si
fa pagare la pena giusta.
scommettendo: è il contrario di «commettere» (= congiungere, unire) e vale quindi
«disgiungendo»: così si indicano coloro che si i peccato (acquistan carco) seminando discordia,
disgiungendo, disgiungendo ciò che deve stare unito.

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