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Canto I

Il Canto I dell’Inferno di Dante Alighieri ha una doppia funzione: apre la prima cantica
della Commedia, quella di ambientazione infernale, ma assume anche il ruolo di prologo
dell’intero poema. È qui, infatti, che Dante presenta la situazione iniziale e illustra le
motivazioni del suo viaggio nei tre regni ultraterreni dell’Inferno, del Purgatorio e
del Paradiso: smarritosi, all’età di trentacinque anni in una foresta buia e impervia (la foresta
rappresenta l'allegoria del peccato), Dante racconta di esserne uscito solo dopo un lungo
viaggio, in un percorso di purificazione e redenzione spirituale. Ad accompagnare il Sommo
Poeta per due terzi di questo percorso troviamo il poeta latino Virgilio, che fa la sua prima
comparsa nel poema proprio in questo canto; dopo Virgilio, a guidare Dante, sarà un’anima
più degna che sappiamo essere Beatrice.

Nel primo Canto dell’Inferno Dante illustra:


 La situazione iniziale: la perdita della «diritta via», con il conseguente smarrimento
nella selva del peccato, e l’inizio del viaggio redentore in compagnia di una
guida, Virgilio, emblema della ragione. Attenzione però, la via è smarrita, non perduta
definitivamente. E infatti, alla fine della Divina Commedia, ovvero del suo percorso
di redenzione, Dante riacquista la grazia divina. Il bosco buio, fitto e tenebroso
rappresenta i mali della società: il cattivo governo, la corruzione della Chiesa, la
decadenza dell'umanità.
 Le motivazioni del viaggio: la purificazione dell’anima di Dante, ma non solo. Il
percorso di redenzione intrapreso dal poeta deve, infatti, rappresentare un modello per
l’intera umanità. Il pellegrinaggio di Dante, dunque, rappresenta il cammino
dell'intera umanità.
 La struttura dell’intero poema:Dante, per bocca di Virgilio, illustra per sommi capi
l’itinerario del suo viaggio attraverso i regni ultraterreni dell’Inferno, del Purgatorio e
del Paradiso.

Il I Canto dell’Inferno, in quanto canto proemiale dell’intera opera, come prima cosa ci
presenta il protagonista della Commedia, Dante, accompagnato da colui che costituirà la sua
guida per due terzi del viaggio, il poeta latino Virgilio. Altri personaggi di fondamentale
importanza, per la comprensione non solo del Canto in questione ma del poema intero, sono
le tre fiere, esse rappresenterebbero lussuria (lonza), superbia (leone) e cupidigia-avarizia
(lupa), le tre colpe più diffuse nel Medioevo, belve che precludono a Dante il cammino.

Fin dal primo Canto dell’Inferno emerge chiaramente l’idea – tipicamente cristiana e
appartenente, soprattutto, al Cristianesimo medievale – di vita umana come itinerarium
mentis, cammino di redenzione ed espiazione dei propri peccati in un percorso di ascensione
verso Dio. Dante, paradigma dell’umanità intera, intraprende il suo viaggio ultraterreno
partendo dal basso, dal buio della selva, per poi giungere alla visione di Dio. Il poeta si
prefigura quindi, al pari di ogni uomo, come viator, pellegrino in cammino verso la salvezza
eterna, essere imperfetto alla ricerca della perfezione divina. Per questo motivo, nel Canto I
dell’Inferno prevalgono immagini e lessico appartenenti al viaggio e al movimento.

la «selva» diviene, per il poeta, allegoria del peccato in cui un uomo può cadere nel corso
della propria vita

La profezia del Veltro, presente nel Canto I dell’Inferno, appartiene alla seconda tipologia,
ben più rara della prima. In essa viene predetto l’arrivo del Veltro, un cane che si nutre di
«sapienza, amore e virtute» e che salverà «quella umile Italia» uccidendo la bestia che è
causa dei mali dell’intero Paese: la Lupa, una delle tre fiere che appaiono a Dante nella
selva.

Canto II
Il secondo Canto dell’Inferno ha un'importante funzione, quella proemiale - ovvero
introduttiva - nei confronti però solo della prima cantica, cosìcome il primo Canto costituiva
l’introduzione dell’intero poema della Commedia. La tematica infernale qui viene
sottolineata dall’invocazione delle Muse (vedi paragrafo 4.1) e dall’enunciazione del
tema.
In linea generale, potremmo dividere il Canto in tre macro-sezioni:

1. Il proemio (vv. 1-9);


2. L’esposizione dei dubbi da parte di Dante circa la sua predisposizione a compiere un
viaggio di simile importanza (vv. 10-42);
3. La risposta di Virgilio, che spiega al poeta la natura divina dell’itinerario che i due
stanno per compiere e il conseguente convincimento di Dante (vv. 43-142).

Il secondo Canto dell’Inferno si prefigura come un canto quasi prettamente informativo e,


proprio in virtù di questa sua caratteristica, fondamentale: in esso vengono date indicazioni
che sono indispensabili all’architettura stessa della Commedia. Vi troviamo, infatti,
le premesse di natura storico-teologica della missione di Dante nell’aldilà.

Oltre a Dante e Virgilio, già protagonisti del Canto I dell’Inferno, fanno qui la loro comparsa
all’interno della Commedia «tre donne benedette»: Beatrice, la donna amata da Dante e
cantata nella Vita Nova, Santa Lucia e la Vergine Maria. Vengono inoltre nominati,
all’interno del II Canto dell’Inferno, Enea e San Paolo.

Preoccupato di non essere all’altezza del cammino che sta per intraprendere, anzi quasi
considerandolo empio, Dante viene confortato dalle parole di Virgilio: a desiderare che egli si
avvii sulla via della redenzione che, attraversando i tre regni dell’Oltretomba, conduce alla
visione di Dio, sono nientemeno che Beatrice, Santa Lucia e la Vergine Maria.
Il II Canto dell’Inferno si apre con un’invocazione alle Muse che – insieme all’enunciazione
dell’argomento, ovvero il cammino tra le anime dannate – dona al Canto un carattere
proemiale. Infatti, se il I Canto dell’Inferno aveva assunto il ruolo di prologo
dell’intera Commedia, il successivo può essere considerato il vero proemio della cantica
dell’Inferno. Per questo motivo, in linea con la tradizione classica, Dante apre con
un’invocazione alle Muse.

Il poeta invoca anche l’aiuto del suo «alto ingegno» (v.7), sottolineando come l’atto poetico
sia una sintesi delle doti innate del poeta (l’ingenium) e dell’attento studio delle tecniche
retorico-formali indispensabili per elaborare un componimento in perfetto stile (l’ars).

Se nel Canto proemiale della Commedia Dante aveva trovato, come ostacoli al proprio
cammino, tre belve feroci – che, seppur allegoria del peccato, erano presenti in tutta la loro
concretezza – nel secondo Canto dell’Inferno l’impedimento è interiore: si tratta, nello
specifico, del timore nutrito da Dante di non essere pronto ad intraprendere un simile viaggio,
di non essere all’altezza della missione di cui è investito.
È il confronto con due nomi straordinari, stavolta non più allegorizzati ma figure concrete e
storicizzate, a spaventarlo: Enea e San Paolo, entrambi protagonisti di un viaggio
nell’oltretomba. Si tratta di due personaggi straordinari della tradizione classico-cristiana, le
cui missioni nell’aldilà hanno assunto un valore inestimabile per l’intera umanità, in quanto
fondamentali per la nascita dell’Impero e della Chiesa.
La discesa di Enea agli inferi è legata alla successiva fondazione di Roma, futuro centro
dell’Impero romano e futura sede del Papato; il viaggio di San Paolo nell’aldilà è invece
volto alla diffusione del Cristianesimo e della Parola di Dio. In quest’ottica, diventa
particolarmente significativo il famosissimo verso 32 del II Canto dell’Inferno, in
cui Dante dice a Virgilio: «Io non Enea, io non Paulo sono»: egli si sente inadeguato, al
cospetto di queste due grandi figure, a compiere l’impresa che è stata pensata per lui.

Dante, però, il cui viaggio è permesso dalla grazia divina (che, come abbiamo visto, è
allegorizzata nelle tre donne benedette), diventa il terzo nella triade dei personaggi illustri che
hanno potuto visitare l’aldilà e, come i due precedenti, anch’egli ha un importantissimo
compito che porterà beneficio all’umanità intera: riferire agli uomini quel che ha visto e
sentito in modo che anch’essi possano ritrovare la «diritta via» smarrita, in un percorso di
redenzione universale.
Il suo essere eroe non ha nulla a che vedere con la spada, com’era stato per Enea, o con la
militanza religiosa, com’era stato per San Paolo: egli viene scelto in quanto uomo che, grazie
al proprio ingegno, è stato in grado di uscire «de la volgare schiera» (v.105) costituendo un
modello per gli altri uomini.
Canto III

I primi due canti della Divina Commedia fungono da introduzione, rispettivamente, al poema
il primo, e alla cantica il secondo. Nel Canto III dell’Inferno di Dante ci troviamo invece
finalmente nell’Oltretomba, e a darci il “benvenuto” è nientemeno che la porta infernale, che
reca sulla sua sommità una minacciosa scritta.
Il luogo in cui si svolge il Canto 3 dell'Inferno, nello specifico, è quello dell’Antinferno
(anche detto Vestibolo), connotato dall’oscurità e dal terribile riecheggiare di lamenti, urla e
pianti: a popolarlo sono gli ignavi, coloro cioè che nella vita non sono stati in grado di
prendere posizione, macchiandosi così irrimediabilmente di viltà.

Pur non essendo propriamente dannati – il Vestibolo, infatti, è il luogo che precede
l’Inferno – essi sono condannati ad una severa pena. Non si tratta, però, delle uniche anime
che incontriamo all’interno del terzo Canto dell’Inferno: vi sono, infatti, anche i dannati che
attendono sulla riva dell’Acheronte di essere trasportati verso l’Inferno vero e proprio. A
traghettarli è Caronte, figura demoniaca di reminiscenza virgiliana.

Nella sua materia narrativa, il III Canto dell'Inferno è quindi suddivisibile in tre sezioni:
La porta dell’Inferno, che segna l’ingresso vero e proprio all’interno della tematica infernale.
Voluta e creata dalla Trinità, la porta sancisce l’immutabilità della condanna divina, non
permettendo ad alcuna anima di tornare indietro una volta varcata la sua soglia (vedi
paragrafo 4.1);
L’incontro con le anime degli ignavi, per cui Dante nutre profondissimo disprezzo, al punto
tale che – oltre alla descrizione della loro colpa e della loro pena – non è dato loro alcuno
spazio di intervento e di interazione (vedi paragrafo 4.2);
La figura di Caronte, vero protagonista del terzo Canto, dalla duplice funzione didattica e
profetica (vedi paragrafo 2.1).
Il Canto 3 dell’Inferno è, inoltre, il più fitto di echi virgiliani di tutta la Commedia.

Oltre a Dante e Virgilio, l’unico personaggio a cui, nel terzo Canto dell’Inferno, l’autore
ritaglia uno spazio considerevole è Caronte, il traghettatore delle anime dannate. È una figura
appartenente alla mitologia pagana: figlio di Erebo di Notte egli è tradizionalmente
lo psicopompo dell’Ade, colui cioè che sulla sua imbarcazione trasporta i defunti attraverso
l’Acheronte, il fiume che divide il mondo dei vivi da quello dei morti.
Il primo “personaggio” a fare realmente ingresso all’interno del terzo Canto dell’Inferno è
la porta d’accesso al primo dei regni dell’Oltretomba. Quasi personificato, è l’oggetto stesso
a “parlare”, avvisando – attraverso una scritta posta sopra di esso – che si sta per accedere al
luogo dell’«etterno dolore» e che, una volta entrati, non vi è alcuna speranza di tornare
indietro. Nell’incisione viene inoltre specificato che, a creare la porta, è stato Dio stesso, nelle
sue tre manifestazioni: Padre, suprema Potenza; Figlio, suprema Sapienza; e Spirito Santo,
supremo Amore.

Nel Canto III dell’Inferno troviamo il primo gruppo di peccatori della Commedia. Si tratta
degli ignavi, di coloro cioè che in vita non sono stati in grado di prendere mai posizione,
eludendo un compito fondamentale per l’essere umano: quello di prendere posizione. Il
disprezzo di Dante per queste anime è totale: essi sono venuti meno ad una prerogativa
morale dell’uomo che riguarda tanto la sfera teologica (la scelta tra il Bene e il Male) quanto
quella politico-sociale (lo schieramento politico e la vita attiva all’interno del Comune).

Sottraendosi al suo compito primario, l’essere umano che si macchia della colpa di Ignavia
non merita alcuna considerazione: per questo motivo, Dante auctor non si sofferma –
all’interno del terzo Canto dell’Inferno – su alcuna anima, accennando solamente a «colui /
che fece per viltade il gran rifiuto» (vedi paragrafo Il gran rifiuto).
C’è però da precisare che la loro non è una colpa teologicamente riconosciuta: non avendo
preso alcuna decisione, essi hanno vissuto senza meriti ma anche senza demeriti, e di fatto
non hanno in questo modo commesso peccato. Quella all’Ignavia diventa, perciò, una
condanna morale, terrena, probabilmente dettata dall’esperienza personale del poeta.
Per questo motivo, per non opporsi alla dottrina cristiana, Dante colloca le anime degli ignavi
non propriamente all’Inferno, ma in una zona che lo precede, l’Antinferno, che si prefigura in
questo modo come luogo del giudizio dell’uomo.

Alle anime degli Ignavi, pur non trattandosi propriamente di dannati, Dante auctor infligge
una dura pena: quella di correre incessantemente, nudi, dietro un’insegna priva di significato,
tormentati dalle punture di vespe e mosconi fino a sanguinare; il loro sangue è, infine,
raccolto da vermi raccapriccianti che si muovono ai loro piedi.
Si tratta solo della prima di una lunga serie di condanne che verranno inflitte alle anime
dell’Inferno – e, come vedremo, anche a quelle del Purgatorio, sebbene in forme più lievi. La
descrizione della pena risulta sempre molto realistica, ricca di particolari duri, crudi e spesso
ripugnanti. Le condanne scelte da Dante auctor per le anime peccatrici
dell’Oltretomba seguono tutte una regola ben precisa, che il poeta riprende dalla Bibbia e
dalla giurisprudenza medievale: si tratta della cosiddetta legge del contrappasso, secondo la
quale le pene vengono distribuite in rapporto ai peccati commessi in vita.

Due sono le tipologie:


Contrappasso per analogia: la pena è simile al peccato (ad esempio: come in vita la loro
esistenza è stata ripugnante, perché priva della scelta che dà significato all’agire dell’essere
umano, così a raccogliere il loro sangue e le loro lacrime ci sono dei vermi ripugnanti);
Contrappasso per contrasto: la pena rovescia le caratteristiche del peccato (ad esempio: come
in vita non sono stati in grado di seguire alcun ideale, così gli ignavi ora sono costretti a
correre incessantemente nudi dietro a un’insegna priva di significato).
Celeberrimi, all’interno del terzo Canto dell’Inferno, sono i versi 59-60: «colui / che fece per
viltade il gran rifiuto». Nei secoli, diverse sono state le ipotesi che si sono susseguite circa
l’identità di questo personaggio: si potrebbe trattare di Ponzio Pilato che, lavandosene le
mani, rifiutò di giudicare innocente Gesù Cristo lasciando la scelta della sua condanna al
popolo, o anche Esaù che, per un piatto di lenticchie, rinunciò all’eredità e alla benedizione
del padre Isacco, vendendo la sua primogenitura al fratello Giacobbe.

L’ipotesi più accreditata, però, vuole che si tratti di Papa Celestino V.

Il terzo canto dell'Inferno nella Divina Commedia è fondamentale perché introduce i lettori
all'Inferno vero e proprio, delineando il concetto di giustizia eterna attraverso le parole
"Giustizia mosse il mio alto fattore" scritte sull'ingresso dell'Inferno. Questo canto pone le
basi per l'esplorazione di temi come la libera volontà, la giustizia divina e le caratteristiche
morali delle scelte terrene.

Canto IV

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