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La Divina Commedia è costituita da tre cantiche: Inferno, Purgatorio, e Paradiso.

Il primo canto di ciascuna


sezione comprende un proemio nel canto I, ad eccezione del Paradiso, che ne possiede uno nel primo e uno
nel secondo canto. Relativamente al confronto tra i 4 proemi della Divina Commedia, individuiamo delle
differenze in ambito strutturale e contenutistico.

Per quanto riguarda la struttura, i versi contenuti nel proemio dell’Inferno e del Purgatorio sono 12,
numero simbolo della perfezione di un popolo (12 sono le tribù di Israele, così come gli apostoli di Gesù),
sconosciuta alle anime della prima cantica, ambita da quelle della seconda.

Il numero di versi del primo proemio del Paradiso (Pd I, 1-36) è il prodotto della perfezione umana e divina.
36 si ottiene infatti moltiplicando 12 per 3.

Gli elementi costitutivi di un proemio in età classica erano tre: propositio, invocatio, dedicatio. La propositio
è la premessa di ciò che verrà narrato all’interno dell’opera; la invocatio è l’invocazione alla Musa, mentre
con dedicatio l’autore esplicita in onore di chi o cosa è stata scritta la sua poesia.

Premessa l’inesistenza della dedicato all’interno del Poema, nel proemio infernale troviamo solamente uno
di questi tre elementi, la proprositio: il Poeta descriverà le cose che ha visto nel corso del suo viaggio, che
come meta ha il “ben”. È nel Purgatorio che incontriamo sia la proprositio che la invocatio: attraverso la
prima il poeta annuncia che canterà “il secondo regno dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel
diventa degno” (vv1-12), mentre l’invocazione alle muse attribuisce al poema un’aria solenne e mitologica.
Davanti al modello della perfezione terrena, Dante inizia a prendere consapevolezza del proprio limite di
poeta oltre che di uomo, chiedendo pertanto aiuto alla musa Calliope. Nel Paradiso la proprositio occupa 12
versi, contro i 9 delle altre cantiche, numero simbolo della perfezione universale, poiché prodotto di 3 e 4.
La dedicatio assume nella terza cantica un aspetto molto più solenne, in quanto elevata prima a un dio,
Apollo, poi alla virtù e in terzo luogo ai lettori. Al dio delle arti, Dante chiede l’aiuto che dalle sole muse è
insufficiente, nonché l’incoronazione a sommo poeta: Apollo è in realtà anche allegoria di Cristo: la divinità
greca simboleggiava il sole, emblema trasmesso nella cristianità per indicare il Padre o, più comunemente,
il Figlio. Dante, nonostante espliciti la sua inettitudine (delle sua mente, quindi del suo essere limitato) nel
descrivere il Regno di Dio, è in realtà consapevole del grande ruolo che è chiamato a svolgere, e chiede
dunque ad Apollo di essere incoronato con l’alloro.

Nel quarto proemio il poeta si rivolge ai lettori, che più che invocati vengono allertati della pericolosità del
viaggio che stanno per intraprendere insieme alla loro guida. È questo un invito da parte di Dante a non
cadere della superbia di cui Ulisse è peccatore: per arrivare a Dio, non si può pretendere di attraversare il
mare utilizzando solo la propria ragione, “piccioletta barca” nel Paradiso. Si fa dunque riferimento alla
costante della navigazione del canto XXVI dell’Inferno, ripresa da Dante già nel proemio del purgatorio e
immagine molto amata dai medievali. E dal cristianesimo delle origini: ricordiamo infatti che il simbolo
arcaico di Cristo è un pesce. L’immagine della nave che esce dalle tenebre infernali è nel Purgatorio simbolo
della resurrezione: essa trasporta dunque il lettore fino al paradiso.
Nel nostro viaggio da Inferno a Paradiso sempre più scompaiano le coordinate temporali, spaziali e
materiali. Nell’Inferno abbiamo una chiara definizione del quando “Nel mezzo del cammin di nostra vita” (If
I, 1) e del dove “in una selva oscura” (If I, 2): i riferimenti sono tutti quelli del mondo terreno, dunque
Dante, in quanto uomo, è pianamente inserito in un contesto a lui comune. Abbiamo anche una chiara
descrizione del luogo in cui Dante si è svegliato: si tratta di una selva oscura e paurosa, da cui si intravede
fioca la luce del sole e un monte in lontananza. Queste connotazioni spazio-temporali saranno costanti in
tutta la cantica, per poi lasciarsi sostituire da complesse perifrasi astronomiche, deducibili solo attraverso la
contemplazione di un limpido cielo. Il linguaggio si fa meno grezzo e più sciolto, ricco di immagini che
rimandano agli astri e all’elevazione spirituale. La scomparsa delle connotazioni cronologiche e geografiche
è direttamente proporzionale alla complessità e aulicità del linguaggio paradisiaco. Le figure retoriche di
ordine intrecciano i lemmi, i quali non fanno riferimento a oggetti concreti ma a elementi della spiritualità,
nonché alle divinità. Non esistono sensazioni fisiche, e il contenuto a fondo mitologico nulla ha a che
vedere con l’impostazione empirica del proemio infernale, importata inoltre in modo schematico come una
moderna narrazione. Tante sono le sensazioni e le paure nell’Inferno, completamente trasfigurate nel
Paradiso: Dante introduce la terza cantica da autore staccandosi, dal punto di vista dell’argomentazione
filosofica e teologica, dalla narrazione relativa al personaggio, che si abbandonerà totalmente, con le sue
insicurezze e dubbi, nella sua guida Beatrice.

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