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IL CONTRASTO TRA ANIMA E CORPO

Le anime dell’Inferno dantesco soffrono pene corporali, oltre a quelle dell’anima, pur non avendo più il corpo
e sono condannate infatti eternamente, quelle del Purgatorio invece affrontano un percorso di purificazione
e non più una condanna eterna.

La loro ascesa avviene non solo con l’anima ma anche con il corpo mortale.

Il tema dell’anima è molto presente nel quarto canto dove i primi versi pongono, in forma breve ma
risolutiva, il problema dell’unicità dell’anima.

Il Canto si apre con una sottile dissertazione di Dante sulla natura dell'anima umana, che egli ritiene una sola,
anche se possiede tre distinte potenze o virtù fondamentali, quella vegetativa, quella sensitiva e quella
intellettiva.

La teoria esposta da Dante, che controbatte quella platonica e averroistica della triplice anima umana
(concupiscibile, irascibile, razionale), può sembrare solo un'arida divagazione filosofica, ma si inserisce in un
complesso discorso sul trascorrere del tempo che è centrale nel Canto e che avrà il suo momento culminante
nell'incontro col protagonista Bellacqua.

Il tempo è dimensione fondamentale nel Purgatorio, che è un luogo eterno come Inferno e Paradiso ma in cui
le anime devono compiere un percorso di espiazione e sono quindi ansiose di poter accedere alle pene, per
abbreviare il più possibile la loro permanenza lì prima di essere ammesse in Paradiso (e il passare del tempo
è rappresentato visivamente dal corso del sole, citato da Dante in apertura di episodio, nell'ampia e
complessa spiegazione astronomica posta al centro del Canto e alla fine, con l'avvertenza che è già
mezzogiorno e che la notte è giunta all'estremo occidente dell'emisfero boreale).

Dopo essersi separati dai contumaci, i due poeti iniziano quindi ad ascendere verso la parte alta del monte e
la salita è inizialmente molto faticosa ed è allegoria del percorso morale dell'anima umana verso la virtù e la
salvezza, che è naturalmente un percorso difficile, anche se poi Virgilio spiegherà che l'ascesa è ardua solo
all'inizio e diviene poco alla volta più agevole, fino ad essere semplice come seguire la corrente di un fiume.

Quando il corpo muore le facoltà intellettive, nell’anima, sono più intense una volta conosciuta la
destinazione da raggiungere nell’aldilà, intorno all’anima si dispone una forza formatrice, che le dà un
aspetto di «ombra», simile alla figura umana, rendendola così capace di provare piacere e/o dolore.

Da lì l’idea dantesca di ritrarre tutte le anime, da lui collocate nei tre regni ultraterreni, in forma di figure
umane, in una posa riconoscibile.

Tale originalissima soluzione, sulla consistenza corporea dell’anima (il così detto corpo aereo), consente a
Dante, innanzitutto, di risolvere una necessità di finzione artistica (incontrare le anime, dialogare con loro,
descrivere la loro condizione ultraterrena, in modo che il lettore le possa vedere e riconoscere), ma consente
pure di comprendere l’idea dantesca di perfetta unione tra materia e spirito, tra corpo e anima. Per Dante,
infatti, l’anima irraggia intorno a sé un altro corpo («così l’aere vicin … / l’alma che ristette», 94-6).

Nell’idea di Dante, dunque, il corpo (morto) si spiritualizza, si raffina, divenendo molto simile all’anima,
prendendo cioè forma e consistenza intorno a lei.

Le immagini che Dante utilizza, per questa sua geniale soluzione, ripeto, soluzione dalla doppia valenza,
artistica e teologica, sono due.

La prima, è quella dell’arcobaleno, impresso dal sole nell’aria, che è umida di pioggia:
[E come l’aria umida, se riflette un raggio di sole, / si abbellisce dei diversi colori dell’arcobaleno; / così, là,
l’aria si dispone in quella forma, e modella, / con la sua virtù formativa, l’anima che si è fermata] (Pg, XXV, 91-
6)

La seconda immagine, è quella della fiamma, che è proiettata nell’aria dal fuoco:

[e simile, poi, alla fiammella che segue il fuoco, / ovunque esso si sposti, il nuovo corpo aereo / segue
l’anima] (97-9)

Secondo la scienza medievale, la fiamma, infatti, è la forma impressa nell’aria dal fuoco, che è materia senza
forma.

La fiamma come forma del fuoco. Esattamente come accade, nell’idea avanzata da Dante, tra il corpo aereo e
l’anima separata.

In Paradiso, il problema della fisicità delle anime muterà leggermente, rispetto all’Inferno e al Purgatorio,
visto che lì le anime non soffriranno più pene corporali.

I beati, infatti, avvolti nelle fiamme, mostreranno a Dante la loro contentezza, il loro ridere, attraverso il
balenio della luce.

Il canto XXV del Purgatorio è, dunque, uno dei canti più dottrinali di tutta la seconda cantica. Esso è collocato
tra due canti, il XXIV e il XXVI, caratterizzati da riflessioni sulla poesia.

Nel canto XXIV, com’è noto, comparirà Bonagiunta da Lucca; nel XXVI, Guido Guinizelli.

Rappresentanti, rispettivamente della vecchia e della nuova poesia.

Nel XXV, collocato al centro di questo trittico, Dante affronta, in modo sublime, il problema dell’anima, della
fisicità della così detta anima separata.

La collocazione di questo canto, sbrigativamente definito non poetico perché dottrinale, da molta critica
dantesca, non è, però, una collocazione casuale, o, peggio, indifferente, rispetto agli altri due, dal momento
che in esso Dante, con uno sforzo retorico e stilistico notevolissimo, fornisce al lettore un esempio di poesia
del sublime.

Il poeta è impegnato a dimostrare come l’unione di un elemento terrestre, con un elemento immateriale e
non terrestre dia vita a una nuova sostanza, cioè, al vino. Proprio come accadrà tra corpo e anima.

Nel canto XXV, compare pure la così detta poesia dell’indicibile, tipica del Paradiso, nel momento in cui
Stazio, descrivendo la generazione dell’uomo, afferma:

Per aggiungere, poco dopo, a conclusione dell’intero suo ragionamento sulla fisicità delle anime, e sul
mistero per il quale è permesso a Dante (e a ciascun lettore) di vedere quei corpi aerei, fino a sentirne i
sospiri, le lacrime, e tutti «li altri affetti», due terzine fulminati, ma caratterizzate da un registro altissimo.

[Così, noi possiamo parlare, e ridere; / da ciò, ricaviamo le lacrime, e i sospiri / che devi aver sentito lungo il
monte. / A seconda di come ci stimolano i desideri / e gli altri sentimenti, il corpo aereo si atteggia; / e questa
è la causa di quel fenomeno che ha destato la tua meraviglia]

Esigenza artistica e riflessione teologica, dunque, hanno consentito a Dante di inventare il «corpo aereo»,
grazie al quale l’anima sente le pene e i tormenti, ma grazie al quale, pure, il lettore vede quelle anime, in
forma di selfie.

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