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Canto 11

Il Canto è dedicato in gran parte alla figura di san Francesco ed ha struttura speculare
rispetto al XII, in quanto qui è il domenicano san Tommaso a pronunciare il panegirico di
Francesco e a biasimare i difetti del proprio Ordine, mentre nel Canto seguente sarà il
francescano san Bonaventura a tessere le lodi di san Domenico e a criticare le mancanze dei
Francescani (i due episodi formano una sorta di «chiasmo» e sono entrambi stilisticamente
elevati). Tommaso prende spunto dal dubbio di Dante circa le sue parole alla fine del Canto
X, quando parlando dei domenicani (v. 96) aveva detto u' ben s'impingua se non si
vaneggia, per cui la agiografia del santo di Assisi servirà soprattutto a mettere in luce la
corruzione diffusa tra i membri degeneri dell'Ordine domenicano: del resto il Canto si apre
con l'accusa di Dante contro l'insensata cura de' mortali, che anziché ricercare i beni celesti
si affannano dietro a quelli terreni, a differenza del poeta che è libero ormai da tutte queste
lusinghe ed è accolto in gloria insieme a Beatrice nell'alto dei Cieli. Tommaso sceglie di
raccontare la vita di Francesco in quanto sia lui sia san Domenico hanno perseguito il
medesimo fine di assistere la Chiesa e agevolarne il cammino, entrambi ordinati dalla
Provvidenza come suoi principi e campioni: l'immagine era frequente nella letteratura
trecentesca, così come il ritratto dei due santi che erano visti in modo complementare,
Francesco acceso di ardore di carità e Domenico pieno di sapienza divina, paragonati anche
da Tommaso a un Serafino e a un Cherubino.
La biografia di Francesco si apre con una grandiosa descrizione geografica di Assisi; Dante
indica Francesco come un Sole che è nato per illuminare il mondo, come il Sole vero e
proprio quando sorge nell'estremo Oriente (il Gange) nell'equinozio di primavera ed è più
benefico, giocando forse sul nome Ascesi che era diffuso nell'Italia centrale del tempo e che
può indicare anche l'elevazione spirituale. Segue poi la descrizione della sua vita, per la
quale Dante si è certo rifatto alle fonti diffuse nel primo Trecento (come gli Actus beati
Francisci e la Legenda maior di san Bonaventura), anche se il poeta trascura gli elementi più
popolari e aneddotici, per concentrarsi soprattutto sulle metaforiche nozze con la Povertà
e, quindi, descrivendo Franscesco come una figura esemplare di uomo di Chiesa che
perseguì un ideale di povertà evangelica, in contrasto con la corruzione ecclesiastica e la
ricerca di ricchezze. Ciò è coerente sia con l'apertura del Canto, sia col finale dedicato alla
rampogna di Tommaso contro i domenicani corrotti: Francesco entra in contrasto col padre
per sposare la Povertà, rimasta senza marito dopo la morte di Cristo, si spoglia
pubblicamente di tutti i beni e, dopo le mistiche nozze, ama la sposa di giorno in giorno più
intensamente (fin dall'inizio è evidente l'imitatio Christi da parte del santo, che Dante
descrive come alter Christus soprattutto per la scelta di vivere poveramente e in umiltà).
Attorno a Francesco e alla sua sposa si raccoglie una famiglia di seguaci che si fa via via più
numerosa, per cui i frati imitano il loro maestro spogliandosi di ogni cosa e seguendolo
scalzi, cingendo i fianchi con l'umile capestro (il cinto francescano) che sarà simbolo della
loro scelta di vita. La severa Regola francescana riceverà poi tre «sigilli» che ne sanciranno
la validità, i primi due da parte dei papi Innocenzo III e Onorio III, l'ultimo (il più importante)
da parte dello Spirito Santo attraverso le stimmate, segno più evidente dell'imitatio Christi:
da rilevare che, se Dante segue la biografia di Bonaventura nelle linee essenziali, anche
invertendo l'ordine di alcuni eventi, nondimeno dipinge Francesco come una figura
altamente regale e dignitosa a dispetto della sua umiltà, come nel momento in cui si
presenta di fronte a papa Innocenzo per sottoporgli la sua Regola; qualcosa di simile
avviene anche nell'incontro col Sultano d'Egitto, qui presentato come sovrano superbo di
fronte al quale Francesco si presenta per desiderio di martirio, non riuscendo tuttavia a
convertire quei popoli ancora immaturi e restii ad ascoltare il messaggio evangelico.
Tornato in Italia, dopo l'episodio delle stimmate e quando a Dio piacque di chiamarlo a sé,
ancora una volta il santo raccomanda ai suoi confratelli la fedeltà alla sposa-Povertà (quindi
alla severità della Regola) e poi si fa seppellire nudo nella nuda terra senza altra bara, a
sottolineare in quell'ultimo gesto la sua volontà di vivere privo di qualunque ricchezza; va
ricordato che Bonaventura, nella sua rampogna ai francescani degeneri, spiegherà proprio
che essi si divisero fra spirituali e conventuali, ovvero tra coloro che inasprirono e
attenuarono la Regola contrariamente alla volontà del fondatore, che venne quindi
fraintesa in entrambi i casi.
Il finale del Canto è occupato dal rimprovero di Tommaso contro i confratelli del suo
Ordine, che vengono accusati soprattutto di aver tradito la Regola di san Domenico per
desiderio di ricchezze e beni terreni, per cui il gregge al quale il beato appartenne in vita si è
allontanato dal pastore e va in cerca di altri pascoli in quanto ghiotto di altro cibo: la
metafora evangelica serve a Dante per criticare la corruzione assai diffusa proprio fra i
domenicani, specie attraverso la vendita delle indulgenze e l'intepretazione capziosa del
diritto canonico, per cui le parole di Tommaso si rifanno a quelle di Folchetto nel finale del
Canto IX (dove aveva parlato di pecore e... agni deviati e allontanatisi dal pastore diventato
un lupo, a causa della sete di ricchezze alimentata dal maladetto fiore, il fiorino). Il discorso
di Tommaso si rifà al tema, assai frequente nella III Cantica, della corruzione della Chiesa.

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