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Dante Alighieri è il poeta italiano più conosciuto al mondo

Durante di Alighiero nasce a Firenze nel 1265 e muore a Ravenna in esilio nel 1321

Nei primi dieci anni perde la madre e vive con il padre guelfo e la matrigna

Viene, a 12 anni, promesso in sposa a gemma, figlia di Manetto donati di parte guelfa, da cui ebbe 3 o 4
figli: Pietro, Jacopo, Antonio e forse Giovanni.

Intorno al 1283 dante era già dedito all’arte del dire parole per rima, in questo periodo stringe amicizia con
un altro poeta fiorentino, guido cavalcanti, e si giova degli ingegnamenti di brunetto lantini. Egli aveva al
centro del suo interesse le seguenti poesie: la volgare italiana, la provenzale e la latina. La sua prima
probabile opera fu “il fiore” anche se la sua data di composizione non è certa. Nel 1274 a soli 9 anni, Danti
incontra Beatrice e la incontra nel 1283, a 18 anni. Da là nasce “Vita Nova”, opera dedicata alla fanciulla.
Nel 1290, quando morì beatrice, dante si dedicò agli studi filosofici per poter offuscare il dolore. “Vita nova”
viene composta tra il 1292 e il 1293. Nel 1289 Dante combatte nella battaglia di campaldino, guelfi si
assicurano la vittoria contro i ghibellini. Dal 1295 era possibile candidarsi agli alti uffici del comune,
iscrivendosi ad una delle arti, dante sceglie quella dei medici e degli speziali; dunque, inizia qui la sua vita
politica. Il potere era nelle mani dei guelfi che si erano scissi in due fazioni: i guelfi bianchi, capeggiati da
Vieri dei Cerchi; i guelfi neri, capeggiati da Corso Donati. Dante si schiera con i guelfi bianchi, meno
facinorosi, e da questa sua esperienza nascerà il “convivio” (1303-1308). Durante la sua carriera politica,
insieme ad altri priori, è costretto ad esiliare il suo amico guido cavalcanti, accusato di disordini tra le due
scissioni guelfe. Questo fa sì che dante venga visto come un traditore ed un opportunista e dunque il
declino della sua carriera è inevitabile e veloce. Nel 1301 Dante viene inviato a Roma da papa Bonifacio VIII,
mandando a Firenze Carlo di Valois che aveva richiamato i guelfi neri dall’esilio e aveva destituito i guelfi
bianchi dal governo cittadino, questo perché il papa voleva avere sotto il suo comando la città toscana. I
guelfi bianchi vengono esiliati a vita da Firenze. Il 27 gennaio 1302 dante viene accusato di essere un
falsario ed un barattiere; perciò, viene esiliato perpetuamente dalla città di Firenze. Forlì, Verona, Lunigiana
furono alcune delle tappe dell’esilio di dante nelle quali scrisse una delle sue più famose opere: il “de
vulgari eloquentia” (1303-1304). La lontananza dagli uffici e dalla politica permette a Dante di comporre la
sua più grande opera, la divina commedia, tra il 1304 e il 1321. Nel 1318/1320 è ospite a Ravenna, dove
muore il 14 settembre 1321.

La divina commedia:

la più grande opera di dante e forse la più grande opera letteraria della storia della lingua italiana è
sicuramente la divina commedia, una produzione per la quale dante impiegò, secondo gli storici, un arco di
tempo che va dal 1304/7 al 1321, ovvero gli anni del suo esilio. Il nome dell’opera in principio,
probabilmente, era “comedia”, l’appellativo “divina” venne datogli in seguito alla morte di dante, diversi
anni dopo. L’opera per la quale il poeta viene ricordato in tutto il mondo, è un poema spirituale, è la storia
di un viaggio all’interno dei tre mondi dell’aldilà cristiano, con una visione dell’epoca completamente
diversa da quella che conosciamo oggi o che si conoscerà dopo il concilio di Trento del XVI secolo. Dante
compie un viaggio quindi in questi 3 mondi accompagnato da 2 figure in particolare, Virgilio e Beatrice, la
sua amata. L’opera, allo studio, risalta come un’opera dove i numeri sono essenziali. Partiamo dalla
struttura di essa:

l’opera è divisa in 3 sezioni (cantiche)da 33 canti ciascuna, più una prefazione. La ripetizione del 3, una
prefazione, 100 canti in totale, questi numeri, per una persona qualsiasi, potrebbero sembrare casuali ma
sono frutto di una cristianità ferrea da parte di Dante. Il 3 sta a rispecchiare la trinità, l’uno rispecchia Dio,
del quale avrà la visione alla conclusione dell’ultimo canto del paradiso. È interessante vedere come tutte le
3 cantiche finiscano con la parola stelle (“e quindi uscimmo a veder le stelle”, “puro e disposto a salir le
stelle”, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”)
Durante il suo viaggio, soprattutto nell’inferno, Dante incontrerà tantissimi personaggi storici, di invenzione
letteraria e contemporanei ancora vivi, inseriti probabilmente all’inferno per antipatie da parte del poeta
(vedi filippo argenti). L’inferno dantesco è suddiviso in cerchi (9 cerchi, alcuni hanno i gironi, le zone o le
bolge) per i quali si scende verso il centro della terra e più si scende, più ci si avvicina a lucifero, più i cerchi
sono destinati a peccatori peggiori (si parte dal limbo per arrivare ai traditori “fraudolenti verso chi si fida”).
L’inferno è caratterizzato dalla legge del contrappasso, ovvero una rigorosa corrispondenza della pena alla
colpa; in Dante, il rapporto per cui la pena cui sono sottoposti i peccatori dell'Inferno e del Purgatorio
riproduce, in estensione o in contrasto, i caratteri della colpa da loro commessa in vita, o alcuni di essi.

È importante sottolineare come Dante nell’Inferno segua la partizione dei peccatori sulla falsariga di
Aristotele, mentre seguirà la disciplina cristiana nello strutturare i peccatori nel Purgatorio.

Il Limbo è il primo cerchio: in esso si trovano le persone che, non avendo ricevuto il battesimo ed essendo
stati privi della fede, non possono gioire della visione di Dio (sono esclusi da tale girone i grandi padri e i
profeti dell’antico testamento, ma anche alcune anime pure) ma non possono neanche essere puniti per un
qualche peccato; la loro condizione ultraterrena ha molti punti di contatto con la concezione classica dei
Campi Elisi. Nell’antinferno invece si trovano le anime degli ignavi, ovvero coloro che non hanno mai saputo
prendere una decisione o tutti coloro che cambiavano decisione e idea continuamente (troviamo anche gli
angeli che non trovarono schieramento tra Dio e Satana). Il loro contrappasso è quello di seguire un cartello
che cambia direzione di volta in volta e sono punti da vespe che fanno colare loro il sangue, nutrendo la
terra piena di vermi. Al suo interno possiamo trovare personaggi come Omero, Ettore, Enea, Caio Giulio
Cesare, Aristotele, Saladino, Socrate, Platone, Cicerone, Seneca, Ippocrate…

Nel secondo cerchio troviamo i lussuriosi, ma prima troviamo minosse che giudica i dannati e quindi ci
ritroviamo effettivamente dentro il vero e proprio inferno. I lussuriosi sono trascinati per l’aria, sbattuti
dalla bufera infernale (evidente contrappasso della passione che li travolse in vita), ritroviamo achillee,
Paride, Tristano e Isotta, Elena, Cleopatra, Paolo e Francesca…

Nel terzo cerchio abbiamo i golosi: essi sono immersi nel fango maleodorante, sotto una pioggia incessante
di grandine e neve, e straziati da cerbero (che a differenza della mitologia classica, dove era guardiano
dell’inferno, qui è a guardia del solo terzo cerchio. Il contrappasso qui è più complesso, si vede, nel fango,
l’antitesi del lusso raffinato che fecero del senso del gusto, della vista e dell’olfatto. È quindi potenziato al
massimo l’aspetto bestiale dell’avidità del cibo. Vediamo punito Ciacco, personaggio letterario di cui ancora
non abbiamo la certezza storica.

Quarto cerchio, avari e prodighi: condannati a spingere massi enormi, divisi in due schiere che quando si
incontrano si ingiuriano rinfacciandosi la colpa contraria: la grandezza del peso che li opprime simboleggia
la quantità dei beni terreni che accumularono o sperperarono in vita. Il guardiano del cerchio è Pluto, dio
della ricchezza, che Dante forse confonde anche con Plutone, re dell’Averno e Signore dell’Ade.

Quinto cerchio, iracondi e accidiosi: i primi immersi e i secondi sommersi nella palude Stige; i primi furono
in vita immersi nel fango della loro rabbia e ora si percuotono cercando di liberarsi per l’eternità, mentre i
secondi dissiparono la vita nell’immobilità dello spirito, e per questo sono sommersi, privati di aria e parole
come in vita si privarono delle opere. Il custode del cerchio è flegias, allegoria dell’ira (incendiò il tempio di
Delfi per vendicarsi di apollo che gli aveva sedotto la figlia). Troviamo punito filippo argenti (personaggio
contemporaneo di dante)

Sesto cerchio, eretici ed epicurei. Il cerchio è racchiuso nelle mura della città di Dite, sorvegliata da diavoli e
dalle furie (megera, aletto e tisifone), le dee della vendetta. I condannati sono riposti in sepolcri infuocati
per l’eternità, l’idea è probabilmente ripresa dalla pena a cui erano sottoposti gli eretici dai tribunali terreni,
ovvero il rogo, in quanto il fuoco era considerato simbolo di purificazione e corrispondeva forse alla falsa
luce che essi pretendevano di spandere con le loro dottrine. Sono qui puniti Papa Anastasio II, Federico II di
Svevia, Cavalcante dei Cavalcanti….

Settimo cerchio, i violenti. Nel settimo cerchio si accede dopo aver sperato i resti di una frana, provocata
dal terremoto che scosse la terra alla morte di cristo. Da qui in poi, i dannati dei cerchi sono consapevoli di
aver posto malizia nelle loro cattive azioni. Il settimo cerchio è custodito dal minotauro che rappresenta la
“matta bestialità”, ovvero la violenza che rende l’uomo simile a bestie: e infatti a essere dannati qui sono i
violenti, divisi in tre gironi.

1. Omicidi: i violenti contro il prossimo ovvero gli omicidi, i predoni, i tiranni e i briganti, sono immersi
nel Flegetonte, fiume di sangue bollente che simboleggia il sangue da loro versato in vita, e sono
tormentati dai centauri che rappresentano la violenza e la forza bestiale; da specificare che i
dannati sono immersi nel fiume in proporzione alla gravità della colpa (tiranni occhi, omicidi collo,
predoni petto) e sono colpiti dalle frecce dei centauri se cercano di uscire dal sangue più di quanto
sia stabilito. Sono qui puniti Attila, Sesto Pompeo, Guido di Montfort, Rinieri da Corneto….
2. Suicidi e scialacquatori: i violenti contro se stessi sono divisi in due categorie distinte: i suicidi sono
trasformati in albero per aver rinunciato volontariamente alla loro natura umana, non potranno
mai recuperare la loro natura (giudizio universale, restituzione dei propri corpi, essi dovranno
appenderli ai rami della loro nuova forma), sono tormentati dalle arpie; gli scialacquatori, che in
vita distrussero e dilaniarono le loro sostanze, sono qui lacerati da cagne fameliche con uguale
ferocia; essi sono distinti dai prodighi del quarto cerchio, in quanto non sono non hanno avuto
misura nel gestire il proprio patrimonio, ma anno anche infierito su di esso, distruggendo se stessi
attraverso le proprie sostanze, sono quindi vittime di una caccia infernale e in tal modo accrescono
ancora la sofferenza dei suicidi in quanto i loro rami vengono spezzati dagli inseguiti e dagli
inseguitori. Sono qui puniti Pier della Vigna, Lano da Siena e Giacomo da Sant’Andrea.
3. Bestemmiatori, sodomiti e usurai: i violenti contro dio, natura e arte sono divisi in tre schiere: i
bestemmiatori stanno chinati sulla sabbia infuocata, immobili sotto un’incessante pioggia di fuoco; i
sodomiti corrono continuamente sotto il fuoco; gli usurai sono accovacciati sotto la pioggia di
fuoco. Non vi è un guardiano specifico per questo girone. Il contrappasso ancora una volta si
richiama alle pene ordinariamente inflitte, nell’uso medievale, per i reati contro la divinità, il rogo.
Sono qui puniti Capaneo, Brunetto Latini, Guido Guerra, un Gianfugliazzi, un Obriarchi e uno
Scrovegni.

Ottavo cerchio (malebolge), fraudolenti verso chi non si fida. L’ottavo cerchio ha una forma molto
particolare che Dante descrive con cura: si trova infatti in un fosso molto profondo, nel mezzo del quale è
presente un pozzo; tra il pozzo e la ripa sono scavati 10 immensi fossati, collegati tra loro da scogli rocciosi
che fungono da ponti: questi 10 fossati sono le bolge dell’ottavo cerchio, detto complessivamente
“Malebolge”, termine coniato da Dante così come i nomi dei diavoli che custodiscono alcune bolge, come i
Malebranche della quinta. Il custode di Malebolge è Gerione, simbolo della frode, ha faccia di uomo giusto
e corpo di serpente, la sua coda biforcuta rappresenta la suddivisione tra ottavo e nono cerchio, mente la
sua pelle multicolore rappresenta la multiformità dell’inganno, come vediamo nelle dieci bolge.

1. Ruffiani e seduttori: coloro che sedussero per conto di altri e per conto proprio, sono suddivisi in
due schiere che percorrono la bolgia, sferzate da “demoni cornuti”, il contrappasso è alquanto
generico, in quanto la fustigazione nel medioevo era una punizione comune a molti tipi di reati
minori, Dante sottolinea la nudità di questi peccatori, sono costretti quindi a correre nudi mentre
sono seguiti da demoni armati. Sono qui puniti Venedico Caccianemico, Giasone….
2. Adulatori e lusingatori: essi giacciono nello sterco umano, degno contrappasso per la sconcezza
morale del loro peccato, sono custoditi dai demoni cornuti come nella prima bolgia. Sono qui puniti
Alessio Interminielli e Taide.
3. Simoniaci: fecero mercimonio dei beni spirituali e in particolare delle cariche ecclesiastiche. Essi
sono capovolti in buche dalle quali fuoriescono solo con i piedi, lambiti dalle fiamme, sono così fitti
nelle borse che in vita vollero riempire di denaro, capovolgendo i loro doveri in favore di beni
meramente terreni e non divini. La fiamma che lambisce loro i piedi richiama la fiamma dello spirito
santo. È qui punito Papa Niccolò III, si profetizza la venuta di Bonifacio VIII, dante fa riferimento
anche ad un terzo papa di cui non fa il nome (si pensa a Clemente V).
4. Maghi e indovini: camminano con il volto distorto all’indietro, in antitesi con la loro pretesa di
vedere avanti nel futuro: si arrogavano, ingannando l’ascoltatore, di avere poteri riservati
esclusivamente a Dio. Non si devono però confondere gli astrologi con gli indovini. L’astrologia nel
medioevo veniva considerata una scienza che trattava degli astri e delle loro influenze, qui si insiste
sull’aspetto dell’inganno, della pretesa di poter vedere e modificare il futuro, cosa ovviamente
falsa. Qui sono puniti Anfiarao, Tiresia, Arune, Michele Scotto, Calcante….
5. Barattieri: la quinta bolgia è composta da un lago di pece bollente nel quale sono immersi i
barattieri, coloro che trassero profitti illeciti dalle loro cariche pubbliche. A custodia della bolgia sta
un gruppo di demoni denominati Malebranche, che straziano con i loro uncini i dannati che tentino
di uscire dalla pece e dante ne nomina alcuni (Malacoda, Calcabrina, Cagnazzo, Draghignazzo,
Graffiacane…). L’immersione nella pece allude all’agire coperto che essi praticarono in vita, mentre
la sostanza sarà giustificata dalla sua vischiosità, che richiama il modo in cui essi invischiarono il
prossimo, ingannandolo. Qui sono puniti un anonimo Lucchese, Frate Gomita…
6. Ipocriti: procedono vestiti di pesanti cappe di piombo, dorate all’esterno, con evidente allusione al
contrasto tra l’apparenza “dorata”, piacevole, che gli ipocriti esibiscono nei confronti del mondo
esterno, e la loro interiorità falsa, gravata dai cattivi pensieri. Una sottocategoria particolare degli
ipocriti è costituita dai membri del sinedrio che condannarono Cristo: con evidente contrappasso
essi sono crocifissi in terra, di traverso alla via, in modo che gli ipocriti che procedono con le cappe
di piombo li calpestino passando. Qui sono puniti Catalano dei Malavolfi, Caifa, Anna e i farisei.
7. Ladri: posti in mezzo a serpenti, con le mani legate da serpenti, essi sono trasformati in tali. Questi
animali sono il simbolo per eccellenza del demonio, dell’inganno, come si vede nella genesi; in
questo particolare caso l’uso di quest’animale sarà giustificato dalla natura subdola del peccato dei
ladri, le cui mani sono legate perché in vita furono loro causa di reato; inoltre, la sottrazione dalla
loro figura umana può essere interpretata come un contrappasso, in quanto appunto la loro natura
è l’unico bene che essi possiedono ancora, ma vengono derubati anche di quella. Custode e
dannato di questa bolgia è Caco, ladro e omicida mitologico, che Dante raffigura come centauro.
Sono qui puniti Francesco de’ Cavalcanti, Vanni Fucci, Cianfa Donati…
8. Consiglieri Fraudolenti: vagano racchiusi in fiammelle, la lingua di fuoco è immagine della lingua
con cui essi peccarono, dando consigli ingannatori, e infatti hanno anche difficoltà a parlare come si
vede nel dialogo tra Ulisse e Virgilio prima, tra Dante e Guido da Montefeltro dopo.
9. Seminatori di Discordia: responsabili di scismi o di guerre civili o discordie tra gli uomini e nelle
famiglie, essi sono mutilati da un demone che riapre le loro ferite non appena esse si chiudono, per
sottolineare con la spaccatura dei loro corpi le perenni divisioni che in vita arrecarono all’umanità.
Sono qui puniti Maometto, Mosca dei Lamberti, Pier da Medicina….
10. Falsari: sono afflitti da orrende malattie che li sfigurano, i falsificatorii di cose dalla lebbra, quelli di
persona dalla rabbia, quelli di monete dall’idropisia e quelli di parola dalla febbre. Queste malattie li
sfigurano, rendono diversa e falsificano la loro natura come essi in vita vollero contraffare la figura
della verità. Sono qui puniti Grifolino d’Arezzo, Capocchio, Mirra, Mastro Adamo, Sinone.

Nono cerchio, traditori (fraudolenti verso chi si fida). Il nono cerchio è staccato dai cerchi precedenti da un
immenso pozzo, e nella struttura stessa del poema esso è messo in risalto dall’inserzione di un canto per
così di re di passaggio, ma molto importante. In questo pozzo sono puniti i giganti (sono al di fuori della
struttura ternaria dell’inferno come sono estranei alla natura umana seppur somigliandovi) che sono
dannati e custodi dell’ultimo cerchio, che è in tal modo inquadrato da titaniche figure di ribelli contro la
divinità, i Titani e Lucifero. Per contrasto all’aver voluto elevarsi usurpando un potere on loro, queste figure
sono immobili nel più profondo dell’inferno. L’ultimo cerchio è costituito da un immenso lago di ghiaccio,
detto Cocito, reso tale dal vento causato dal movimento delle ali di lucifero. Sono qui puniti i traditori verso
chi si è fidato, simboleggiati dalla freddezza del ghiaccio così come furono freddi i loro cuori e le loro menti
nell’ordire il peccato, in contrapposizione alla carità, tradizionalmente simboleggiata con l’ardore del fuoco,
si può notare però un contrappasso anche nella materia stessa del poema: se il loro isolamento è
sottolineato dall’inserimento di un canto e da un nuovo proemio all’inizio del successivo, il clima proditorio
nel quale agirono in vita questi dannati è ben rappresentato dal clima che Dante ricrea, climi di silenzi e di
non-detti, ce non dice quasi mai apertamente il peccato per il quale sono dannati, e che anche quando si
dilunga in un discorso più vasto sembra voler nascondere i dettagli importanti, come nel discorso del Conte
Ugolino, che narrando distesamente della sua morte on ci dice in realtà quale fu la sua colpa né in che
modo l’arcivescovo si macchiò di tradimento nei suoi confronti. Il Cocito è suddiviso in quattro zone,
eppure, in contrasto con i cerchi precedenti, è sostanzialmente uniforme: quasi uguale è la pena come
uguale fu la colpa: si nota che al di là della superficiale suddivisione di questi dannati in quattro zone, essi si
sono resi colpevoli in vita di più di un tradimento, oppure questa colpa riguarda più zone.

1. Zona Caina, dal nome di caino che uccise il fratello Abele, qui sono puniti i traditori dei parenti,
immersi nel ghiaccio fino al capo con il viso all’ingiù. Vediamo qui puniti Alessandro e Napoleone
degli Alberti, Mordret e, secondo Paolo e Francesca, ci finirà Gianciotto Malatesta che uccise moglie
e fratello.
2. Zona Antenora: da Antenore che tradì troia, troviamo traditori della patria e del partito, immersi
nel ghiaccio con il viso all’insù. Sono qui puniti Bocca degli Abati, Ugolino della Gherardesca,
Ruggieri degli Ubaldini…
3. Zona Tolomea: dal re egizio Tolomeo che tradì Gneo Pompeo Magno, qui sono puniti i traditori
degli ospiti, immersi nel ghiaccio con il capo riverso in modo che si congelino le lacrime negli occhi
impedendo loro di sfogare il dolore nel pianto. Sono qui puniti Frate Alberigo e Branca d’Oria.
4. Zona Giudecca, dal nome di Giuda Iscariota, qui si trovano i traditori dei benefattori, immersi
interamente nel ghiaccio, ma in varie posizioni (a giacere tradito loro pari, con la testa verso l’alto
tradito loro maggiori, quelli con i piedi verso l’alto tradito loro minori, i piegati in due tradito
entrambi. Attribuzione di quattro significati secondo Francesco da Buti)

Nel più profondo inferno, puniti da Lucifero stesso, il primo grande traditore, stanno i traditori delle
istituzioni supreme, create secondo il volere divino per il bene dell’umanità. I traditori sono tre, e tre quindi
le bocche di Lucifero nelle quali sono maciullati, in apparente analogia con il concetto dell’unità e della
Trinità di Dio. Lucifero, principio di ogni male, ha nella bocca centrale Giuda Iscariota, lacerato sul corpo che
fuoriesce dai denti del demonio. Nelle bocche laterali, con il capo all’esterno delle stesse, stanno Marco
Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, che congiurarono contro Cesare e perciò traditori dell’autorità
imperiale. “Le due massime podestà sono entrambe preordinate da Dio come guide all’umanità per
conseguire rispettivamente la felicità ultramondana e quella terrena” (N. Sapegno).

Dante, nella seconda Cantica della Divina Commedia, descrive il purgatorio, dividendolo in cornici, che sono
significativamente sette, sulla scorta del Moralia in Job di Gregorio Magno. La costruzione morale del
purgatorio è spiegata dal poeta nel canto XVII.

I due viaggiatori arrivano nel Purgatorio attraverso la “natur burella” che parte dal centro della terra, cioè
dal fondo dell’inferno, e che lo congiunge con l’emisfero australe, su cui sola in mezzo alle acque si erge la
montagna del purgatorio. Qui si soffermano sulla spiaggia, custodita da Catone, figura nobile e austera
simbolo di libertà, necessaria per la caduta del peccato e per la sua espiazione. Nell’Antipurgatorio, formato
da due balze, si trovano le anime dei negligenti, ovvero coloro che attendono di poter iniziare la loro
espiazione. In seguito, incontrano le anime di coloro che morirono per morte violenta, costretti a
permanere nell’antipurgatorio tanti anni quanti furono quelli della loro esistenza terrena. Infine, superano
la porta del Purgatorio, custodita dall’angelo portinaio con le due chiavi e iniziano la salita della montagna.

1. Sulla prima cornice espiano le anime dei superbi, che camminano gravati dal peso di enormi massi e
recitando il Padre Nostro. Il peso che sono costrette a portare corrisponde all’alterigia della loro
condotta: ora si trovano chini nello sforzo sostenerlo, mentre in vita stavano diritti a testa alta;
partecipa al contrappasso anche la recita della preghiera, che presuppone umiltà nel supplicare Dio
perché abbia misericordia. La cornice è custodita dall’angelo dell’umiltà che canta la beatitudine
“Beati i poveri di Spirito”. Gli exempla della prima cornice sono scolpiti nel marmo, ma con un’arte
divina che li fa parere scene viventi. Essi sono:
 Esempi di umiltà: l’Annunciazione, l’umiltà di David nel cantare e ballare di fronte all’Arca
dell’Alleanza, il dialogo tra l’imperatore Traiano e la vedova che gli chiedeva vendetta per il
figlio ucciso.
 Esempi di superbia punita: Lucifero precipitato da cielo, Briareo vinto da Giove, I giganti
sconfitti dagli dèi, Niobe tra i figli uccisi, Aracne trasformata in ragno, Troia distrutta…
2. Sulla seconda cornice espiano le anime degli invidiosi, coperti con il cilicio e con gli occhi cuciti di fil
di ferro, a punizione dello sguardo carico d’invidia che hanno rivolto in vita contro il prossimo,
mentre il colore del cilicio allude al viso livido dal desiderio; essi sono seduti appoggiati l’uno
all’altro, al contrario che in vita, quando tentavano di rovinarsi a vicenda: infine cantano le litanie
dei santi. A guardia sta l’Angelo della Misericordia che canta la beatitudine “beati i misericordiosi” e
“Godi tu che vinci”. Gli exempla della cornice sono gridati da voci aeree, conformemente al fatto
che le anime hanno gli occhi cuciti, e sono:
 Esempi di carità: Maria alle nozze di Cana, Pilade che tenta di morire al posto di Oreste, la
massima “amate da cui male aveste”
 Esempi di invidia punita: caino uccisore di Abele, Aglauro tramutata in sasso per invidia
della sorella.
3. Sulla terza cornice espiano le anime degli iracondi, che camminano in un denso fumo, simbolo
dell’ira che acceca e offusca le capacità intellettuali, essi cantano l’Agnus Dei. Il custode è l’Angelo
della mansuetudine che canta “Beati Pacifici”. Gli exempla della terza cornice compaiono in visioni
estatiche, e sono:
 Esempi di mansuetudine: Maria quando ritrova Gesù nel tempio, Pisistrato che perdona il
giovane che aveva abbracciato in pubblico la figlia, Santo Stefano che perdona chi o
martirizza.
 Esempi di ira punita: Procne tramutata in rondine, Aman crocifisso, Amata suicida.
4. Sulla quarta cornice espiano le anime degli accidiosi, che corrono senza tregua, per contrasto alla
pigrizia nell’amore per i beni spirituali. L’anglo della sollecitudine custodisce questa cornice,
cantando “Beati qui Lugent”. Gli exempla in questa cornice sono gridati dalle anime stesse e sono:
 Esempi di sollecitudine: Maria che rende visita a Elisabetta, Giulio Cesare che accorre in
Spagna.
 Esempi di accidia punita: Gli ebrei che rimasero nel deserto, i troiani che non seguirono
Enea.
5. Sulla quinta cornice espiano insieme le anime degli avari e dei prodighi, che giacciono in terra con le
mani e i piedi legati: così come in vita non volsero gli occhi, in vita, ai beni celesti, ora sono costretti
a guardare in terra, come prima erano rivolti esclusivamente ai beni terreni. Essi cantano il salmo
CXIX. L’Angelo della giustizia è il custode e canta la beatitudine “Beati qui sitiunt”. Gli exempla sono
pronunciati dalle anime stesse anche in questa cornice e sono:
 Esempi di povertà e liberalità: Maria che partorì in una stalla, San Nicola che salvò tre
fanciulle dalla prostituzione, Gaio Fabrizio Luscinio che rifiutò la corruzione.
 Esempi di cupidigia punita: Pigmalione, Mida, Acan ucciso da Giosuè per il bottino di Gerico,
Marco Licinio Crasso…
6. Nella sesta cornice troviamo i golosi, che corrono senza sosta, sotto alberi carichi di frutti e sulle
rive di limpidi ruscelli che però non possono toccare. Sono irriconoscibili per la loro magrezza,
affamati e assetati; il contrappasso in questo caso deriva direttamente dal mito di Tantalo (descritto
da Virgilio nell’Eneide. A guardia troviamo l’Angelo dell’astinenza che canta la beatitudine “Beati
qui exuriunt iustitiam”. Gli exempla sono gridati dagli alberi a cui i golosi si accalcano e sono:
 Esempi di temperanza: Maria alle nozze di Cana, san Giovanni battista nel deserto, l’età
dell’oro, Daniele che rifiutò il cibo di Nabucodonosor, le antiche donne romane astemie
secondo la leggenda.
 Esempi di golosità punita: i centauri che alle nozze di Ippodamia si ubriacarono, gli ebrei
che bevvero troppo nel deserto.
7. Nell’ultima cornice troviamo i lussuriosi, che camminano nel fuoco e sono divisi in due schiere, a
seconda che abbiano peccato di amore secondo natura o di amore contro natura (sodomia).
Quando le due schiere si incontrano si scambiano un casto bacio sulla rapidità del quale dante pone
particolarmente l’accento. Cantano il Summae Deus Clementiae. L’Angelo della castità ne è la
guardia, e canta la beatitudine “Beati mundo corde”. Gli exempla sono pronunciati dalle anime
stesse e sono:
 Esempi di castità: Maria che proclama “Virum non cognosco”, Diana che scacciò la ninfa
Elice, donne e mariti casti secondo la legge del matrimonio
 Esempi di lussuria punita: Sodoma e Gomorra, Pasifae che generò il minotauro.

Superato il muro di fiamme, Dante e Virgilio incontrano un altro angelo che invita i poeti a salire cantando
“venite, benediscti patris mei”: egli sta a guardia del paradiso terrestre, ove giungono le anime che hanno
compiuto l’espiazione dei loro peccati. Qui scorrono due fiumi: il Lete che toglie la memoria del male
commesso e l’Eunoè che rinnova la memoria del bene compiuto, che le anime bevono, scortate da
Matelda, allegoria dello stato d’innocenza dell’uomo prima del peccato originale, purificandosi così prima di
salire in paradiso.

Dante divide il Paradiso in cieli, che sono nove e ricalcano il sistema cosmologico aristotelico-tomistico: i
primi sette, infatti, corrispondono ciascuno a un pianeta del sistema solare. Si noti che la sede propria dei
beati è l’Empireo, ma a essi la grazia divina ha concesso di spartirsi nei cieli inferiori per manifestarsi a
Dante a seconda del loro operare terreno e delle loro inclinazioni. La disposizione delle anime viene piegata
in parte nel canto III e nel canto IV, mentre la corrispondenza con le gerarchie angeliche è spiegata nel
canto XXVIII. Dal Paradiso terrestre, Dante e Beatrice ascendono al paradiso attraverso la Sfera del Fuoco,
che separa il mondo contingente da quello incorruttibile ed eterno.

1. Primo cielo, Luna, Spiriti mancanti ai voti. Il primo è il cielo della Luna, (La luna veniva
considerato un pianeta nel medioevo) il cui influsso dominante è l’incostanza, l’arrendevolezza,
la cedevolezza: risiedono qui infatti le anime di coloro che mancarono ai propri voti, non per
scelta, bensì per costrizione altrui contro la quale essi non seppero opporsi con sufficiente
fermezza. Queste anime appaiono a Dante come immagini riflesse da vetri trasparenti e tersi, o
da acque nitide e tranquille, o anime piene di foschia. Le intelligenze angeliche che muovono
questo cielo sono gli angeli che appartengono alla prima schiera angelica.
2. Il secondo cielo è mercurio, vi risiedono gli spiriti attivi per la gloria, che si connota per l’amore
per la gloria e la fama terrena: le anime che risiedono qui infatti sono quelle che si attivarono a
tale scopo. Esse appaiono a Dante come splendori fiammeggianti che danzano e cantano. In
questo cielo vengono affrontate le seguenti questioni teologiche: la morte di Cristo, perché dio
abbia redento il genere umano con la morte di cristo, la corruttibilità e l’incorruttibilità delle
creature e la resurrezione dei corpi. Le intelligenze motrici sono gli arcangeli, che appartengono
alla seconda schiera angelica.
3. Terzo cielo, spiriti amanti. il cielo di venere è caratterizzato dall’amore, e dove infatti risiedono
le anime di coloro che amarono. Queste appaiono a dante come splendori che si muovono
rapidamente in circolo. Si affrontano le seguenti questioni teologiche: come da buoni genitori
possano nascere figli cattivi, le ragioni delle diverse indoli umane. Le intelligenze motrici sono i
principati e appartengono alla terza gerarchia.
4. Quarto cielo, spiriti sapienti. Il cielo del sole è caratterizzato dalla sapienza, sono beati di questo
cielo le anime dei sapienti e dei Dottori della Chiesa, esse appaiono disposte in corone
concentriche di vivi splendori, che danzando in giro cantando. Le questioni teologiche,
filosofiche e morali qui affrontate sono: l’ordine della creazione e le sue conseguenze, la
corruzione dell’ordine dei domenicani, la corruzione dell’ordine dei francescani, la sapienza di
Adamo e di Cristo e quella di Salomone, la fallacia dei giudizi umani, lo splendore delle anime
beate dopo la resurrezione dei corpi. Le intelligenze motrici sono le potestà che appartengono
alla terza schiera angelica.
5. Quinto cielo, spiriti combattenti per la fede. Nel cielo di Marte risiedono le anime di coloro che
combatterono e morirono per la fede. Esse appaiono come splendori vivissimi e rosseggianti
che cantano e si muovono formando una croce greca al centro della quale brilla Cristo, colui
che per primo morì per dare la fede all’umanità. Le intelligenze motrici sono le virtù, che
appartengono alla quinta schiera angelica.
6. Sesto cielo, spiriti giusti. Il cielo di Giove ha come caratteristica la virtù della giustizia. Il cielo è
infatti sede delle anime di principi saggi e giusti, essi appaiono a Dante come luci che volano e
cantano, formando lettere luminose che compongono la frase “Digite iustitiam qui iudicatis
terram”, dopo le lettere i beati, a partire dall’ultima m, danno anche forma all’immagine di
un’aquila, allegoria dell’Impero. Le questioni filosofiche e teologiche qui trattate sono:
l’imperscrutabilità della giustizia divina (perché sono condannati coloro che non poterono
conoscere Cristo), la predestinazione divina. Le intelligenze motrici sono le dominazioni,
appartenenti alla seconda gerarchia.
7. Settimo cielo, gli spiriti contemplanti. Il cielo di saturno è caratterizzato dalla meditazione, qui
infatti si trovano le anime di coloro che si diedero alla vita contemplativa. Esse appaiono come
splendori che salgono e scendono sui gradini di una scala celeste, luminosa, dal colore di oro
splendente, così alta che non se ne vede la sommità, è l’allegoria della sapienza. La questione
teologica e filosofica che si affronta qui è l’insondabilità del volere divino. Le intelligenze motrici
qui sono i troni, appartenenti alla prima gerarchia.
8. Ottavo cielo, trionfo di Cristo e Maria. Il cielo delle stelle fisse non è più un cielo dove si
ripartono i vari beati, ma qui si trovano le anime trionfanti, che appaiono come innumerevoli
lucerne illuminate dai raggi che fa piovere la grande luce di Cristo. Un altro degli splendori che
qui trionfano è Maria, attorno alla quale volteggia cantando l’arcangelo Gabriele. Qui Dante
subisce una specie di esame sulle tre virtù teologali, dopo una preghiera di beatrice, infatti, San
Pietro lo interroga sulla Fede, San Giacomo Maggiore sulla Speranza, San Giovanni sulla Carità.
Le intelligenze motrici sono i cherubini che appartengono alla prima gerarchia.
9. Nono cielo, trionfo degli angeli. Il cielo cristallino è detto anche Primo Mobile in quanto è il
primo a muoversi, ricevendo tale movimento da Dio e trasmettendolo ai cieli sottostanti. Sopra
al primo mobile c’è solo l’Empireo che è immobile in quanto perfetto (la mobilità era
inconciliabile con la perfezione in quanto il movimento è un cambiamento). La potenza divina
che ha sede nell’empireo, centro dell’universo, imprime ai cieli sottostanti un movimento
rotatorio, rapidissimo ne Primo mobile e poi via via sempre più lento filo alla Terra.
Nell’empireo risiedono le gerarchie angeliche, che appaiono distribuite in nove cerchi di fuoco
giranti attorno ad un punto piccolissimo ma luminosissimo, cioè Dio. Le questioni filosofiche e
teologiche qui affrontate sono: la costruzione e il moto del Primo mobile, la corrispondenza tra
i nove cieli e i nove ordini delle intelligenze motrici, la creazione degli angeli. Le intelligenze
motrici di questo cielo sono i serafini e appartengono alla prima gerarchia.

Al di sopra dei nove cieli vi è l’Empireo, dove ha sede Dio circondato dagli angeli e dalla Rosa dei
beati, che qui risiedono normalmente.

Analisi del VII canto dell’inferno.

Il canto settimo si svolge nel quanto e nel quinto cerchio (avari e prodighi, iracondi e accidiosi),
venne scritto tra l’8 e il 9 aprile (Sabato Santo) del 1300. Per la prima volta, in questo canto,
troviamo una rottura dello schema girone-canto, cioè la segmentazione poetica non corrisponde
più a quella dei cerchi infernali.

Il canto inizia in modo sinistro con la minacciosa invocazione di Pluto “Pape Satàn, pape Satàn
aleppe”, interrotta da Virgilio che fa tacere il mostro con una variante del “Vuolsi così colà dove si
puote” dicendo “vuolsi né l’altro là dove Michele fé la vendetta del superbo stupro”, riferendosi alla
cacciata di Lucifero dal Paradiso, avvenuta per mano dell’arcangelo Michele. Dante non farà più
usare a Virgilio questa frase, usata già con Caronte e Minosse, per non far scadere la drammaticità
degli ostacoli infernali, evitando d’ora in poi questo paradigmatico passe-partout. Pluto è qui posto
probabilmente in quanto dio pagano della ricchezza. Una similitudine chiude l’episodio di Pluto:
come le vele gonfie al vento che cadono giù quando si spezza l’albero di una barca, così si quietò “la
fiera crudele”.

Una volta scesi nella quarta lacca (fossa) Dante è quasi sorpreso da quello che vede ed esclama:
"Giustizia divina! Ma chi ordinerebbe così tante pene (morali) e travagli (fisici) sempre strani e
nuovi?". Parafrasando con molta approssimazione in parole attuali forse l'invocazione suonerebbe
come "Nessuno avrebbe più fantasia della giustizia divina nel predisporre e assegnare le pene". A
una frase magari un po' "frivola", Dante aggiunge subito una nota di rimprovero: "E perché noi
umani ci riduciamo alle colpe che ci portano alla dannazione?". Segue una similitudine che
introduce la pena dei dannati: come le onde che davanti a Cariddi, si scontrano con quelle che
provengono dal mare opposte, così qui la gente sembrava presa in un ballo. Dopo aver notato
l'enorme quantità di persone, Dante inizia a descriverne la pena: spingere pesi con il petto lungo la
circonferenza del cerchio, ma non in tondo; un gruppo occupa un semicerchio e l'altro gruppo un
altro e girano in modo da scontrarsi in due punti estremi diametralmente opposti. In quei punti essi
si ingiuriano dicendosi reciprocamente "Perché tieni?", "Perché burli (cioè sperperi)?", poi si
voltano e rifanno il semicerchio nella direzione opposta. Dante non chiede di quali peccatori si
tratti, forse lo ha intuito dal loro grido, ma rivolgendosi a Virgilio domanda se tutte le persone con
la chierica, che vede a sinistra, siano chierici, cioè prelati. Virgilio conferma che si tratta di religiosi,
papi e cardinali, macchiatisi della colpa dell’avarizia; non di meno quelli della schiera destra furono
coloro che spesero senza misura. Tradizionalmente si indica questi peccatori come gli avari e i
prodighi. Per la prima volta vengono puniti nell’inferno due peccati analoghi ma opposti nello
stesso girone, legati all’incontinenza di chi spagliò nel troppo o nel troppo poco, in questo caso
nello spendere. Fino ad ora, infatti, Dante non aveva incontrato casi di peccati punibili anche in
difetto: la mancanza di lussuria è infatti la castità, comportamento che nella dottrina cristiana è
assimilato alla santità e alla disciplina religiosa, mentre nel medioevo non esisteva un contraltare
per la gola. Di solito i nomi dei peccati e peccatori in Dante sono convenzionali, poiché non indicati
dal poeta ma dalla critica successiva. Questa affermazione è vera per i prodighi, ma nel caso degli
avari egli cita il peccato dell’avarizia esplicitamente (v. 48). In ogni caso il significato del peccato è
leggermente più ampio del senso che comunemente si attribuisce oggi a questa parola: non solo
taccagneria, ma avidità, rapacità di denaro, ricchezza e potere in generale. Questo peccato secondo
Dante p uno dei più grandi mali della sua epoca ed è tipico degli uomini di chiesa, ma a soffrirne
sono in molti: nel canto VI esso è per esempio indicato da Ciacco come una delle tre cause della
sventura di Firenze, mentre l’avarizia è anche generalmente indicata come simboleggiata dalla lupa
del primo canto. Qui, comunque, Dante assimila l’avarizia a tutta la categoria degli uomini di Chiesa,
intesa quindi come peccato caratterizzante la maggior parte di questi religiosi. Un’accusa così
diretta e grave poteva essere formulata dal poeta dall’alto della saldezza della sua fede religiosa, e
in conformità con l’alta considerazione che egli nutriva per la missione sacerdotale. Dopotutto in
Paradiso XI egli esalterà l’amore di San Francesco d’Assisi per la povertà, celebrata come suprema
virtù cristiana. La “prodigalità” va intesa come peccato di incontinenza, cioè di chi “con misura nullo
spendio ferci”, cioè non spese mai con misura: sono gli accumulatori di beni, i “consumisti”
diremmo oggi, da distinguere dagli “scialacquatori”, i dissipatori di patrimoni e i violenti contro i
propri beni, che Dante colloca nel II girone del VII cerchio assieme ai suicidi. Sul perché il poeta
scelga come simbolo del loro peccato il cranio rasato, che essi mostreranno al tempo della
resurrezione, forse può illuminare un passo di Sant’Ambrogio che dice come radere i capelli sia
come recidere dal pensiero le cose mondane e superflue. Il contrappasso di questi dannati non è
chiarissimo, comunque si può interpretare per analogia, come nato dal fatto che essi si sono lasciati
sormontare dai beni terreni ai quali in vita diedero la massima priorità: nell’Inferno quindi essi sono
obbligati all’inutile ronda di spostare in perpetuo degli ammassi di materia inerte, simbolo
dell’inutilità vana delle loro azioni. Dante chiede a Virgilio se può riconoscere alcuno tra questi
peccatori, come aveva fatto nei cerchi precedenti, ma il suo maestro lo ragguaglia su come ciò sia
impossibile, tanto questi spiriti sono imbruniti come contrappasso della loro “sconoscente vita”
cioè la loro vita dissennata (conoscenza è usato come sinonimo di misura, cfr. Convivio). Una
citazione da parte di Virgilio circa la fugacità (“la corta buffa”, letteralmente la breve ventata) dei
beni materiali che sono legati alla fortuna, per i quali l’umanità si azzuffa, fa introdurre appunto il
tema della fortuna stessa. Dante chiede chi o che cosa sia questa entità che tiene in mano i beni del
mondo, e Virgilio si prodiga in una spiegazione, che associa la fortuna alle altre entità celesti che
muovono i cieli: essa ha il dovere di muovere i beni terreni ed il suo giudizio è “occulto”,
imperscrutabile, come i serpentelli che strisciano nascosti nell’erba. Molti la maledicono, anche se
dovrebbero ringraziarla, ma essa è una creatura beata e non ode certe imprecazioni: sta con le altre
creature celesti, gira la sua sfera lieta e beatamente gode della sua condizione. Questo passo è un
primo esempio di poesia di carattere didascalico e dottrinale, che diventerà ben più frequente
soprattutto nelle due cantiche seguenti. Prima di proseguire il cammino, Virgilio fa notare come le
stelle stiano tramontando rispetto a quando sono partiti, quindi sia circa mezzanotte. I due poeti,
passando al cerchio successivo, incontrano una fonte dalla quale sgorgano acque nere che
ribollono, che alimentano la palude dello Stige. Qui Dante vede genti ignude immerse nel pantano,
prese dalla furia che le fa picchiare tra di loro con tutto il corpo: mani, piedi, testa e denti. Virgilio
chiarisce presto che si tratta delle “anime di color cui vinse l’ira”, ma anche sott’acqua è pieno di
dannati, gli accidiosi o “iracondi amari” coloro che covarono dentro di sé la propria rabbia e che
adesso fanno ribollire la palude con i loro tristi pensieri. Camminando, i due poeti arrivano quindi ai
piedi di una torre, nel punto in cui il canto si interrompe.
Testo Parafrasi

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,  «Oh, Satana, oh, Satana, re dell'Inferno!» cominciò a dire
cominciò Pluto con la voce chioccia;  Pluto con la voce roca; e quel nobile saggio che seppe ogni
e quel savio gentil, che tutto seppe,                                3 cosa, per confortarmi disse: «Non farti sopraffare dalla
paura, poiché, per potere che abbia questo demone, non ci
disse per confortarmi: «Non ti noccia  impedirà di scendere questa roccia».
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia, 
non ci torrà lo scender questa roccia».                          6

Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,  Poi si rivolse a quel volto gonfio d'ira e disse: «Taci,
e disse: «Taci, maladetto lupo!  maledetto lupo! consuma dentro di te con la tua rabbia.
consuma dentro te con la tua rabbia.                             9

Non è sanza cagion l’andare al cupo:  Non è senza ragione il nostro viaggio verso il fondo
vuolsi ne l’alto, là dove Michele  dell'Inferno: si vuole così in Cielo, dove l'arcangelo Michele
fé la vendetta del superbo strupo».                                12 vendicò il supremo peccato di Lucifero».

Quali dal vento le gonfiate vele  Come le vele gonfiate dal vento cadono ravvolte, se
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,  l'albero della nave si spezza, così cadde a terra la belva
tal cadde a terra la fiera crudele.                                    15 crudele.

Così scendemmo ne la quarta lacca 


pigliando più de la dolente ripa  Allora scendemmo nel IV Cerchio, procedendo più in basso
che ’l mal de l’universo tutto insacca.                            18 in quella dolorosa voragine che contiene tutto il male del
mondo.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa 
nove travaglie e pene quant’io viddi? 
e perché nostra colpa sì ne scipa?                                21 Ahimè, giustizia divina, chi mai ammassa tante pene e
tormenti quanti ne vidi io in quel luogo? e perché la nostra
Come fa l’onda là sovra Cariddi,  colpa ci strazia in tal modo?
che si frange con quella in cui s’intoppa, 
così convien che qui la gente riddi.                                24 Come fa l'onda presso Cariddi, quando si infrange con
quella che proviene da Scilla, così quei dannati devono
Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,  danzare la ridda.
e d’una parte e d’altra, con grand’urli, 
voltando pesi per forza di poppa.                                    27
Qui vidi più dannati che in qualunque altro luogo d'Inferno,
Percoteansi ’ncontro; e poscia pur lì  che da una parte e da quella opposta facevano rotolare
si rivolgea ciascun, voltando a retro,  massi con la forza del petto, urlando.
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».             30
Andavano a cozzare gli uni contro gli altri, quindi ciascuna
Così tornavan per lo cerchio tetro  schiera si voltava indietro e gridavano reciprocamente:
da ogne mano a l’opposito punto,  «Perché tieni stretto il masso?» e «Perché lo fai rotolare?»
gridandosi anche loro ontoso metro;                            33
Così tornavano indietro nel Cerchio buio da ogni lato al
poi si volgea ciascun, quand’era giunto,  punto opposto, continuando a gridare le parole ingiuriose;
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra. 
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,                             36 poi, una volta arrivati dall'altra parte, tornavano a voltarsi
e ricominciavano la giostra. E io, che avevo il cuore gonfio
dissi: «Maestro mio, or mi dimostra  di angoscia, dissi: «Maestro mio, mostrami che dannati
che gente è questa, e se tutti fuor cherci  sono questi e se questi alla nostra sinistra che hanno la
questi chercuti a la sinistra nostra».                             39 tonsura furono tutti chierici».

Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci  E lui a me: «Tutti quanti in vita ebbero la mente
sì de la mente in la vita primaia,  ottenebrata, così che non fecero alcuna spesa con misura.
che con misura nullo spendio ferci.                              42
La loro voce lo esprime chiaramente quando giungono ai
Assai la voce lor chiaro l’abbaia  due punti del Cerchio, dove la loro colpa opposta li separa
quando vegnono a’ due punti del cerchio  in due schiere distinte.
dove colpa contraria li dispaia.                                       45
Questi, che non hanno i capelli sul capo, furono chierici, e
Questi fuor cherci, che non han coperchio  papi e cardinali, in cui l'avarizia esercita il suo eccesso».
piloso al capo, e papi e cardinali, 
in cui usa avarizia il suo soperchio».                            48 E io: «Maestro, io dovrei certo riconoscere alcuni fra questi
dannati, che si macchiarono di queste colpe».
E io: «Maestro, tra questi cotali 
dovre’ io ben riconoscere alcuni  E lui a me: «Il tuo pensiero è vano: la vita dissennata che li
che furo immondi di cotesti mali».                                 51 fece peccare, ora li rende del tutto irriconoscibili.

Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:  Verranno a cozzare in eterno: gli avari risorgeranno dalla
la sconoscente vita che i fé sozzi  tomba col pugno chiuso, i prodighi coi capelli tagliati.
ad ogne conoscenza or li fa bruni.                                 54
Il troppo spendere e il troppo risparmio ha tolto loro il
In etterno verranno a li due cozzi:  Paradiso, e li ha posti a questa contesa: non uso altre
questi resurgeranno del sepulcro  parole per descrivere la loro pena.
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.                    57
Ora, figliuolo, puoi vedere la corta durata dei beni che
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro  sono affidati alla fortuna, per cui l'umanità si affanna
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:  tanto;
qual ella sia, parole non ci appulcro.                             60
infatti, tutto l'oro del mondo e che già fu in passato, non
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa  potrebbe far acquietare neppure una di queste anime».
d’i ben che son commessi a la fortuna, 
per che l’umana gente si rabbuffa;                                63 Io dissi: «Maestro mio, ora spiegami: questa fortuna di cui
tu mi parli, e che ha i beni del mondo tra i suoi artigli, che
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna  cos'è?»
e che già fu, di quest’anime stanche 
non poterebbe farne posare una».                                66 E lui mi rispose: «O uomini sciocchi, quanta ignoranza vi
danneggia! Ora voglio che ascolti attentamente le mie
«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:  parole.
questa fortuna di che tu mi tocche, 
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».        69 Colui la cui sapienza supera tutto (Dio) creò i cieli, e
dispose delle intelligenze angeliche per governarli, così che
E quelli a me: «Oh creature sciocche,  la sua luce si rifletta di cielo in cielo e si riverberi
quanta ignoranza è quella che v’offende!  egualmente nell'Universo. Allo stesso modo, dispose
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.                     72 un'intelligenza per governare e amministrare i beni terreni,
che li trasmutasse al momento opportuno tra le varie
Colui lo cui saver tutto trascende,  famiglie e le varie stirpi, al di là dell'opposizione del senno
fece li cieli e diè lor chi conduce  degli uomini;
sì ch’ogne parte ad ogne parte splende,                      75

distribuendo igualmente la luce. 


Similemente a li splendor mondani 
ordinò general ministra e duce                                       78
perciò una famiglia prospera e un'altra decade, in base al
giudizio della fortuna che è nascosto, come il serpente che
che permutasse a tempo li ben vani 
si annida tra l'erba.
di gente in gente e d’uno in altro sangue, 
oltre la difension d’i senni umani;                                  81
La vostra sapienza non la può contrastare: essa provvede,
giudica e attua i suoi decreti, proprio come le altre
per ch’una gente impera e l’altra langue, 
intelligenze angeliche.
seguendo lo giudicio di costei, 
che è occulto come in erba l’angue.                              84
Le sue trasmutazioni non hanno tregua; deve essere veloce
per ottemperare il volere divino; così succede spesso che vi
Vostro saver non ha contasto a lei: 
siano mutamenti di condizione.
questa provede, giudica, e persegue 
suo regno come il loro li altri dèi.                                   87
La fortuna è colei che è tanto criticata anche da coloro che
Le sue permutazion non hanno triegue;  dovrebbero elogiarla, e che invece la biasimano e insultano
necessità la fa esser veloce;  a torto:
sì spesso vien chi vicenda consegue.                          90
ma lei è felice e non sente tutto ciò: lieta, insieme agli altri
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce  angeli, fa girare la sua ruota e gode la sua serenità.
pur da color che le dovrien dar lode, 
dandole biasmo a torto e mala voce;                            93 Ora è tempo di scendere a una angoscia maggiore; ormai
sta tramontando ogni stella che sorgeva quando lasciai il
ma ella s’è beata e ciò non ode:  Limbo (sono passate dodici ore) e non possiamo perdere
con l’altre prime creature lieta  troppo tempo».
volve sua spera e beata si gode.                                    96

Noi attraversammo il Cerchio fino all'argine opposto, sopra


Or discendiamo omai a maggior pieta; 
una sorgente che ribolle e si riversa lungo un fossato che
già ogne stella cade che saliva 
inizia da essa.
quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».               99

L'acqua era molto scura e noi, seguendo le onde nere,


Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva 
scendemmo lungo una via malagevole.
sovr’una fonte che bolle e riversa 
per un fossato che da lei deriva.                                   102
Questo triste ruscello va nella palude chiamata Stige, una
volta che è sceso ai piedi di quel tetro pendio infernale.
L’acqua era buia assai più che persa; 
e noi, in compagnia de l’onde bige, 
E io, che guardavo attentamente, vidi dei dannati immersi
intrammo giù per una via diversa.                                 105
in quel pantano fangoso, tutti nudi e con aspetto crucciato.
In la palude va c’ha nome Stige 
Essi si colpivano non solo con le mani, ma con la testa, il
questo tristo ruscel, quand’è disceso 
petto, i piedi, strappandosi la carne a morsi.
al piè de le maligne piagge grige.                                108

Il buon maestro disse: «Figlio, ora  vedi le anime che


E io, che di mirare stava inteso, 
furono sopraffatte dall'ira; e voglio anche che tu creda per
vidi genti fangose in quel pantano, 
certo che sotto l'acqua ci sono anime che sospirano, e
ignude tutte, con sembiante offeso.                              111
fanno gorgogliare la superficie dell'acqua, come puoi
vedere ovunque volgi lo sguardo.
Queste si percotean non pur con mano, 
ma con la testa e col petto e coi piedi,  Coperti dal fango dicono: "Noi fummo tristi nell'aria dolce
troncandosi co’ denti a brano a brano.                         114 che trae allegria dal sole, covando dentro l'animo un'ira
inespressa: ora ci rattristiamo nel fango nero". Fanno
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi  gorgogliare queste parole in gola, poiché non possono
l’anime di color cui vinse l’ira;  pronunciarle con voce chiara».
e anche vo’ che tu per certo credi                                  117

che sotto l’acqua è gente che sospira, 


e fanno pullular quest’acqua al summo, 
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.                           120 Così costeggiammo quella sozza palude per un grande
arco, tra l'argine roccioso e l'acqua, con gli occhi rivolti alle
Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo  anime immerse nel fango. Alla fine giungemmo ai piedi di
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,  una torre
portando dentro accidioso fummo:                               123

or ci attristiam ne la belletta negra". 


Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, 
ché dir nol posson con parola integra».                      126
Così girammo de la lorda pozza 
grand’arco tra la ripa secca e ’l mézzo, 
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.

Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.                      130

Analisi del canto VIII dell’inferno

Il canto ottavo dell’inferno si svolge nel quinto cerchio, ove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi;
siamo nella notte tra l’8 e il 9 aprile o tra il 25 e il 26 marzo.

Il canto inizia con un verso che ha dato adito a molte speculazioni: “Io dico, seguitando…”. Il poeta,
infatti, non riprende la narrazione da dove l’aveva lasciata nella chiusura del canto precedente,
dall’arrivo ai piedi della torre prima della palude dello Stige, ma da poco tempo prima quando i due
poeti ancora da lontano notano un segnale luminoso sulla torre stessa, al quale risponde un
segnale analogo da una torre più lontana. Questo insolito salto indietro, unito alla formula di
apertura, ha fatto supporre alcune ipotesi circa una possibile censura tra i canti precedenti e
questo. Il fatto che non si abbia la datazione esatta della stesura dell’Inferno, ci da le soluzioni ad
alcuni quesiti che tutti gli storici studiosi di Dante si sono posti nel corso dei secoli, quali: la
mancanza di accenni all’esilio di Dante nella profezia pronunciata da Ciacco, l’attacco a ritroso
dell’VIII canto, appunto, con la marcata ripresa come se si trattasse di un lavoro interrotto e una
generale maturazione stilistica tra i primi canti e la parte successiva (spiegabile comunque come
un’evoluzione naturale dello stile poetico via via che si procedeva nella creazione del poema).
Boccaccio, a sostegno della sua tesi (stesura dei primi sette canti precedente al 1301), illustrò anche
con dovizia di particolari un aneddoto, che oggi è in genere ritenuto falso dagli studiosi. Secondo la
sua ricostruzione, nel 1306 ca., un parente del poeta trovò rovistando accidentalmente un
quadernuccio dove erano trascritti i primi sette canti dell’inferno. Dopo averlo consegnato a Dino
Frescobaldi, a sua volta poeta, quest’ultimo rimase meravigliato dalla bellezza dei versi e inoltrò il
plico al marchese Moroello Malaspina al Castello di Fosdinovo, in Lunigiana, dove veniva ospitato
allora Alighieri. Il marchese allora, a sua volta colpito dall’opera iniziata e abbandonata, avrebbe
persuaso il poeta affinchè non linciasse “senza debito fine sì alto principio”. Secondo Boccaccio
quindi la giuntura tra l’opera sarebbe riconoscibile proprio da quel “seguitando”, anche se studi
moderni hanno messo in luce come siano frequenti in Dante riprese di questo tipo, soprattutto a
inizio di capitolo (ne abbiamo degli esempi in Vita Nuova, nel Convivio e nella Monarchia).

Mentre i due poeti si stanno avvicinando alla torre, quindi, Dante nota dei segnali luminosi dalla sua
sommità, ai quali rispondono alcuni segni analoghi, appena scrutabili da un’identica torre più
lontana. Domandandone il significato a Virgilio, Dante riceve in risposta che presto lo vedrà egli
stesso nel fumo della palude dello Stige. Infatti, più veloce di qualsiasi freccia, arriva una piccola
barca, con un solo rematore (”galeoto”), che si presenta urlando ai due pellegrini: “Or se’ giunta,
anima fella!”, al quale poi Virgilio risponde “Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vuoto, disse lo mio segnore,
questa volta più non ci avrai che sol passando il loto (fango)”. Flegias è un personaggio mitologico
mutuato dall’Eneide e dalla Tebaide di Stazio, simbolo dell’ira violenta e del fuoco, infatti, secondo
il mito, questi incendiò il tempio di Apollo a Delfi per vendicarsi del dio che gli aveva sedotto la figlia
Coronide. Flegiàs può essere anche visto come simbolo di irriverenza verso la divinità. Le sue
sembianze non vengono descritte e anche il suo ruolo è taciuto. Se sembra improbabile che sia un
traghettatore per i peccatori di passaggio ai cerchi inferiori, essendo le anime spedite direttamente
dopo il giudizio di Minosse, forse potrebbe essere colui che prende gli iracondi e li getta al centro
della palude. In ogni caso, Dante, si preoccupa solo di citare la sua sovraeccitazione, data dalle sue
grida sia all’arrivo che alla discesa dei due poeti sulla sua veloce barca. Dante non manca di
sottolineare come la barca sia insolitamente appesantita dal peso del suo corpo di uomo vivo,
mentre Flegiàs e Virgilio da soli non la fanno nemmeno affossare nell’acqua.

Durante la traversata un dannato si rivolge a Dante. I due iniziano un serrato battibecco,


sottolineato dalla ripetizione degli stessi versi nello stile di botta e risposta (vieni/vengo, non
rimango/ti rimani, se’/son, piango/piangere). Dante ha un contegno molto sdegnato nei confronti
del dannato: è un chiaro esempio di quello che egli intendeva per “sdegno”, cioè ira giusta contro il
male, contrapposta all’ira vera e propria dei dannati. Il dannato allora si attacca con le mani alla
barca e viene scacciato con prontezza da Vigilio, il quale poi rassicura Dante abbracciandolo e
baciandolo. A questo punto c’è un passo che ha destato perplessità per la sua durezza sin dai
commentatori antichi: Dante manifesta il desiderio di vedere quell’anima che lo aveva attaccato
sprofondare nella palude prima di terminare la traversata, e Virgilio lo loda per il suo desiderio di
vendetta e gli assicura che presto sarà soddisfatto; infatti, presto, gli altri dannati si accalcano tutti
contro gridando a quell’anima “A Filippo Argenti!”, il quale, pazzo di ira, non può far altro che
mordersi con i suoi stessi denti (solo a questo punto viene indicato il nome del personaggio, nel
momento più infamante). Dante, a differenza degli altri dannati finora incontrati verso i quali aveva
provato indifferenza o sentimenti di pietà fino alle lacrime (Paolo e Francesca, Ciacco), qui
manifesta per la prima volta odio e compiacimento per la cattiva sorte altrui, usando un episodio
con tratti eccessivi, quasi brutali, rispetto all’affronto di Filippo Argenti. È proprio da episodi come
questo che si vede come egli non idealizzi la sua persona, ma anzi manifesti anche le sue bassezze,
le sue paure, le sue stizze così umane, dando alla sua Commedia quel vigore vitale che ancora oggi
la rende universalmente godibile. Dante, in seguito, sarà crudele anche con Vanni Fucci, Bocca degli
Abati, Franco Alberigo e Branca Doria, ma in nessun altro caso, a parte questo, ritroveremo la
clamorosa approvazione di Virgilio, che nel poema simboleggia la ragione, suggellata addirittura
dall’unico bacio della Divina Commedia. Esiste una palese sproporzione tra il peccato di Argenti in
vita, o il suo comportamento nell’Inferno dantesco (in fondo solo uno scatto d’ira di uno spirito che
Dante stesso definisce bizzarro, cioè facile a scatti d’ira) e l’odio di Dante, con un episodio descritto
come sotto la volontà di perpetrare una duratura ignominia. A rigor di logica, quindi, si è pensato
che tra i due personaggi esistessero degli attrici personali: gli antichi commentatori riportano
alcune circostanze, delle quali però non esiste documentazione (come l’episodio di uno schiaffo a
Dante, o il fatto che l’Argenti fosse solito cavalcare con le punte dei piedi all’esterno colpendo una
volta il poeta sul viso, il quale lo denunciò e lo fece condannare dalla magistratura), mentre l’odio
verso la famiglia degli Adimari (ai quali Argenti apparteneva) è sottolineato anche in un passo del
Paradiso, quando Cacciaguida li definisce come l’”oltracotata schiatta che s’indraca/ dietro a chi
fugge”, cioè come quella “famigliaccia” che ha la furia tipica dei draghi verso coloro che sono in
difficoltà. Siamo davanti, quindi, ad un caso di vita fiorentina minore, legato a piccole angherie
personali, rivalità e borie. Spesso viene anche riferito che gli Adimari si adoperano perché non fosse
revocato l’esilio a Dante, o che essi incamerarono alcuni dei beni confiscati agli Alighieri, notizie
però scarsamente documentate, se non da redazioni posteriori alla pubblicazione della Commedia,
un’altra interpretazione, sostenuta da commentatori più moderni, sostiene che l’Argenti
rappresenti quel tipo di persona detta “magnate-non magnanimo”, dedita a violenza, ira e
superbia, l’ira “buona” di Dante (secondo l’etica nicomachea aristotelica ci sono due tipi di ira, mala
e buona, quest’ultima è detta mansuetudine e quindi per essa ci si adira con quelle persone contro
le quali è lecito adirarsi) andrebbe intesa quindi non solo contro Filippo, ma contro quell’intera
categoria di uomini. Storicamente si presume che Filippo Argenti fosse nato intorno al 1266-67 e
morto nel 1298 circa, con ciò possiamo dedurre che egli sia un altro tra i personaggi ancora in vita
alla stesura della Commedia, ma comunque inseriti da lui tra le anime dei defunti (vedi Frate
Alberigo e Branca Doria, Guido Cavalcanti). Questo ci fa capire che probabilmente l’astio di Dante
verso Filippo era così forte da inserirlo nell’Inferno seppur ancora vivo. Un altro fattore che incalza
l’ipotesi dell’astio del poeta è il fatto che Argenti in vita fu un politico schierato dalla parte dei
Guelfi neri. Ritroveremo Filippo anche in una novella del Decameron di Boccaccio. L’ira di Dante
verso il suo contemporaneo, per alcuni lettori e commentatori, può essere spiegata non solo
dall’astio provato in vita per questa persona, ma anche da fatto che esso entri in contatto con il
peccato stesso dell’ira, quasi per comprenderlo a fondo e purificarsi da esso, anche se ciò non basta
a giustificare la ferocia di Dante e il godimento e la soddisfazione di entrambi i poeti nel vederlo
immerso nella palude. Dante non vuole più parlare dell’Argenti e inizia a vedere le mura della città
di Dite e a sentire i lamenti dei dannati che vi sono rinchiusi. Vede torri infuocate, che sputano dalle
mura come minareti e intanto approdano al fossato che cinge le mura, nelle quali si apre una porta
protetta da una miriade di diavoli. I diavoli sono sorpresi di vedere una persona viva e Virgilio
chiede di parlare con loro in privato. I diavoli rispondono che venga pure, ma chiedono che Dante
torni indietro a piedi da solo. Qui Dante si rivolge direttamente al lettore per manifestargli la sua
paura, ma anche inconsciamente per rassicurarlo in quanto egli adesso sta scrivendo; quindi, la sua
avventura si deve essere conclusa necessariamente con il superamento dell’ostacolo (rottura della
quarta parete, il personaggio interagisce con il lettore spezzando quella narrazione continuativa che
tiene i personaggi in un mondo, narrativo, a sé stante). Dante implora Virgilio di non abbandonarlo,
ma il “duca” lo rassicura e va a parlare con i diavoli. Essi in tutta risposta gli chiudono la porta della
città dei morti in faccia, e Virgilio torna da Dante adirato, ma lo rassicura che la loro missione ha da
compiersi, e che è normale l’opposizione dei diavoli: essi negarono l’ingresso anche al Cristo
quando entrò nell’Inferno, ed egli dovette distruggere la porta principale degli inferi, quella dove
Dante aveva letto la minacciosa scritta “Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate”. Il canto si
interrompe, ma la scena ha il suo diretto continuo nel canto successivo, dove oltre ai diavoli
arrivano le tre Erinni ad attaccare i poeti per impedire loro l’accesso nella città di Dite.

Non è molto chiaro quale sia la funzione delle due torri che si scambiano segnali luminosi all'inizio
del Canto, salvo ipotizzare che ciò serva a richiamare Flegiàs con la sua barca. Ben poco si sa poi di
questo personaggio e del suo ruolo, che potrebbe essere quello di traghettatore degli iracondi nello
Stige, o degli eresiarchi nella città di Dite, o di tutte le anime destinate al basso Inferno.
Il breve scambio di battute fra Dante e l'Argenti rimanda alla tradizione della poesia comica e
sembra quasi una «tenzone»: il dannato dice a Dante che arriva anzitempo all'Inferno,
predicendone cioè la dannazione, ma Dante ribatte che se viene non è certo per rimanere come
tocca invece a lui. Il poeta chiede poi il nome del dannato, irriconoscibile perché brutto, sporco di
fango, e alla risposta ambigua dell'Adimari (Vedi che son un che piango) ribatte che è giusto che
rimanga nel pianto e nel lutto, essendo uno spirito maledetto. Uno scambio assai simile, anche se
condotto su un piano stilistico più alto, avverrà nel Canto X con Farinata.
Le torri e gli spalti della città demoniaca di Dite sono paragonati alle meschite (v. 70), le moschee di
una città islamica (ciò per l'evidente condanna della fede musulmana da parte del Cristianesimo nel
Medioevo). La descrizione fa uso dell'allitterazione insistita della f, di foco uscite..., fossero, il foco
etterno... l'affoca, l'alte fosse, che ferro fosse.
La speranza di Virgilio di ridurre i diavoli a più miti consigli viene disattesa e la reazione della guida
di Dante sarà di grande disappunto, come avverrà nell'episodio dei Malebranche (Canti XXI, XXII e
XXIII).
I versi 125-126 alludono alla discesa di Cristo risorto all'Inferno, per trarre dal Limbo le anime dei
patriarchi biblici: la porta citata da Virgilio è quella dell'Inferno (III, 1 ss.), che nell'occasione fu
abbattuta da Cristo e si trova ancora sanza serrame, senza i battenti che la chiudevano.
Il v. 130 allude al messo celeste, già in procinto di scendere all'Inferno per ridurre all'obbedienza i
demoni di Dite.
Testo Parafrasi
Io dico, seguitando, ch’assai prima  Proseguendo, io dico che assai prima di giungere ai piedi
che noi fossimo al piè de l’alta torre,  dell'alta torre, i nostri occhi andarono alla sua cima e
li occhi nostri n’andar suso a la cima                             3 videro che qualcuno vi aveva posto due fiammelle, mentre
un'altra torre più lontana, tanto che si poteva scorgere a
per due fiammette che i vedemmo porre  malapena, aveva risposto.
e un’altra da lungi render cenno
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.                            6

E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; 


dissi: «Questo che dice? e che risponde  Io mi rivolsi a Virgilio, il cui senno è ampio come il mare, e
quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».             9 dissi: «Cosa vuol dire questo segnale? e quell'altro cosa
risponde? e chi ha fatto tutto questo?»
Ed elli a me: «Su per le sucide onde 
già scorgere puoi quello che s’aspetta,  E lui a me: «Lungo le acque torbide già puoi vedere colui
se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».                    12 che stiamo aspettando, se il vapore del pantano non lo
nasconde alla vista».
Corda non pinse mai da sé saetta 
che sì corresse via per l’aere snella,  La corda di un arco non scoccò mai una freccia che
com’io vidi una nave piccioletta                                      15 fendesse l'aria così veloce, come io vidi una piccola barca
venire verso di noi in quel momento nell'acqua, governata
venir per l’acqua verso noi in quella,  da un solo timoniere, che gridava: «Finalmente sei arrivata,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,  anima malvagia!»
che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».                   18

«Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto», 


disse lo mio segnore «a questa volta: 
più non ci avrai che sol passando il loto».                   21 Il mio maestro disse: «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi invano
questa volta: verremo con te solo per attraversare la
Qual è colui che grande inganno ascolta  palude».
che li sia fatto, e poi se ne rammarca, 
fecesi Flegiàs ne l’ira accolta.                                         24
Come colui che ascolta un grande inganno che gli è stato
Lo duca mio discese ne la barca,  fatto, e poi se ne rammarica, così fece Flegiàs ardendo
e poi mi fece intrare appresso lui;  d'ira.
e sol quand’io fui dentro parve carca.                            27

Tosto che ’l duca e io nel legno fui,  La mia guida salì sulla barca e poi mi fece salire dopo di lui;
segando se ne va l’antica prora  e solo allora la barca sembrò avere un carico (affondò
de l’acqua più che non suol con altrui.                         30 nell'acqua).

Mentre noi corravam la morta gora, 


dinanzi mi si fece un pien di fango,  Non appena io e Virgilio fummo sulla barca, essa ripartì
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».                     33 fendendo l'acqua più di quanto non sia solita fare con altri.

E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango; 


ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».  Mentre percorrevamo quella palude stagnante, mi si
Rispuose: «Vedi che son un che piango».                  36 avvicinò un dannato pieno di fango che disse: «Tu chi sei,
che giungi all'Inferno prima del tempo?»
E io a lui: «Con piangere e con lutto, 
spirito maladetto, ti rimani;  Io risposi: «Se vengo, non rimango certo; tu invece chi sei,
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».                          39 che sei reso irriconoscibile?» Rispose: «Vedi bene che sono
un'anima afflitta».
Allor distese al legno ambo le mani; 
per che ’l maestro accorto lo sospinse,  E io a lui: «Ed è bene che tu resti afflitto e in lutto, spirito
dicendo: «Via costà con li altri cani!».                            42 maledetto; infatti ti riconosco, benché tu sia tutto sporco di
fango».
Lo collo poi con le braccia mi cinse; 
basciommi ’l volto, e disse: «Alma sdegnosa, 
benedetta colei che ’n te s’incinse!                                45 Allora il dannato si protese con ambo le mani verso la
barca; il maestro, accorto, lo spinse via dicendo: «Va' via di
Quei fu al mondo persona orgogliosa;  qui, torna con gli altri cani!»
bontà non è che sua memoria fregi: 
così s’è l’ombra sua qui furiosa.                                    48 Poi mi abbracciò al collo con le braccia, mi baciò il viso e
disse: «O anima disdegnosa, benedetta colei che rimase
Quanti si tegnon or là sù gran regi  incinta di te!
che qui staranno come porci in brago, 
di sé lasciando orribili dispregi!».                                  51
Quello nel mondo fu una persona orgogliosa; non c'è
E io: «Maestro, molto sarei vago  alcuna sua buona azione che renda onore alla sua
di vederlo attuffare in questa broda  memoria, così la sua anima è qui, furiosa.
prima che noi uscissimo del lago».                              54
Quanti uomini si credono in vita dei grandi re, mentre qui
Ed elli a me: «Avante che la proda  all'Inferno saranno come porci nel fango, lasciando di sé un
ti si lasci veder, tu sarai sazio:  orribile ricordo!»
di tal disio convien che tu goda».                                   57

Dopo ciò poco vid’io quello strazio  E io: «Maestro, avrei gran desiderio di vederlo sprofondare
far di costui a le fangose genti,  in questa melma, prima di lasciare la palude».
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.                            60

Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;  E lui a me: «Prima che avvisteremo la proda, sarai
e ’l fiorentino spirito bizzarro  soddisfatto: è opportuno che tale desiderio sia appagato».
in sé medesmo si volvea co’ denti.                                63

Quivi il lasciammo, che più non ne narro;  Poco dopo vidi che i dannati immersi nel fango fecero di lui
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,  un grande strazio, cosa di cui ancora lodo e ringrazio Dio.
per ch’io avante l’occhio intento sbarro.                        66

Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,  Tutti i dannati gridavano: «Addosso a Filippo Argenti!»; e


s’appressa la città c’ha nome Dite,  quel bizzarro spirito fiorentino si mordeva da sé coi denti.
coi gravi cittadin, col grande stuolo».                             69

E io: «Maestro, già le sue meschite  Lo lasciammo qui, né dirò altro di lui; ma ecco che le mie
là entro certe ne la valle cerno,  orecchie percepirono un coro lamentoso, per cui drizzai
vermiglie come se di foco uscite                                    72 allarmato lo sguardo.

fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno  Il buon maestro disse: «Ormai, figliuolo, si avvicina la città
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,  chiamata Dite, coi suoi afflitti abitanti, col grande stuolo di
come tu vedi in questo basso inferno».                        75 diavoli».

Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse 


che vallan quella terra sconsolata:  E io: «Maestro, scorgo già le sue moschee distinte in
le mura mi parean che ferro fosse.                                78 lontananza, rosse come se fossero uscite dal fuoco». E lui
mi disse: «Il fuoco eterno che le arroventa all'interno le fa
Non sanza prima far grande aggirata,  diventare di quel colore, come tu vedi in questo basso
venimmo in parte dove il nocchier forte  Inferno».
«Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».                                 81
Io vidi più di mille in su le porte 
da ciel piovuti, che stizzosamente 
dicean: «Chi è costui che sanza morte                         84 Noi arrivammo nei profondi fossati che circondano quella
terra dolorosa: le mura mi sembravano fatte di ferro.
va per lo regno de la morta gente?». 
E ’l savio mio maestro fece segno 
di voler lor parlar segretamente.                                     87 Non prima di aver percorso un largo giro, giungemmo in un
punto dove l'orribile traghettatore gridò: «Scendete,
Allor chiusero un poco il gran disdegno,  l'ingresso è qui».
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada, 
che sì ardito intrò per questo regno.                              90
Io vidi sulle porte più di mille diavoli piovuti dal cielo, che
Sol si ritorni per la folle strada:  dicevano con stizza: «Chi è costui che, ancora vivo, osa
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai  andare nel regno dei morti?» E il mio saggio maestro fece
che li ha’ iscorta sì buia contrada».                               93 segno di voler parlare con loro separatamente.

Pensa, lettor, se io mi sconfortai 


nel suon de le parole maladette, 
ché non credetti ritornarci mai.                                        96
Allora placarono un poco il loro sdegno, e dissero: «Vieni
«O caro duca mio, che più di sette  tu solo, mentre quell'altro se ne vada, visto che ha avuto il
volte m’hai sicurtà renduta e tratto  coraggio di entrare in questo luogo.
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,                             99
Ritorni da solo lungo la strada che ha percorso follemente,
non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;  se ne è capace: infatti tu resterai qui, visto che gli hai fatto
e se ’l passar più oltre ci è negato,  da guida nel cammino oscuro».
ritroviam l’orme nostre insieme ratto».                        102
Pensa, lettore, se non mi sconfortai sentendo quelle parole
E quel segnor che lì m’avea menato,  maledette: credetti di non fare mai ritorno sulla Terra.
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo 
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.                         105
Io dissi: «O cara mia guida, che tante volte mi ha dato
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso  sicurezza e mi hai salvato da un grave pericolo che mi
conforta e ciba di speranza buona,  minacciava, non mi lasciare in questa situazione; e se ci è
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».                        108 negato di passare più oltre, affrettiamoci a tornare sui
nostri passi».
Così sen va, e quivi m’abbandona 
lo dolce padre, e io rimagno in forse, 
che sì e no nel capo mi tenciona.                                  111

Udir non potti quello ch’a lor porse;  E quel maestro che mi aveva condotto fin lì mi disse: «Non
ma ei non stette là con essi guari,  aver paura, dal momento che nessuno può opporsi al
che ciascun dentro a pruova si ricorse.                       114 nostro viaggio, voluto da Dio.

Chiuser le porte que’ nostri avversari  Ora aspettami qui, e conforta il tuo spirito prostrato con
nel petto al mio segnor, che fuor rimase,  buona speranza, poiché non ti lascerò certo nell'Inferno».
e rivolsesi a me con passi rari.                                      117

Li occhi a la terra e le ciglia avea rase  Così il dolce padre se ne andò e mi lasciò lì, pieno di dubbi,
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:  incerto su cosa sarebbe successo.
«Chi m’ha negate le dolenti case!».                             120

E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,  Non fui in grado di sentire quello che disse ai diavoli; ma
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,  non rimase a lungo a parlare, poiché ciascuno di loro tornò
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.                          123 di corsa dentro le mura.

Questa lor tracotanza non è nova;  Quei nostri nemici chiusero le porte in faccia al mio
ché già l’usaro a men segreta porta,  maestro, che rimase fuori e tornò verso di me a passo
la qual sanza serrame ancor si trova.                          126 lento.

Sovr’essa vedestù la scritta morta: 


e già di qua da lei discende l’erta,  Aveva lo sguardo a terra e gli occhi privi di ogni sicurezza, e
passando per li cerchi sanza scorta, sospirando diceva: «Chi mi ha negato l'accesso alla città
dolente!»
tal che per lui ne fia la terra aperta».                             130

E a me disse: «Tu non perderti d'animo, anche se io sono


adirato, poiché io vincerò la prova, qualunque sia la difesa
che approntano dentro la città.

Questa loro alterigia non è cosa nuova; la usarono per


difendere una porta meno nascosta, la quale è tuttora
senza battenti.

Su di essa tu hai letto la scritta minacciosa: e già da essa sta


scendendo lungo la china un messo celeste, che passa per i
Cerchi senza scorta, che farà in modo di aprirci il
passaggio».

Analisi canto XVI purgatorio

Il sedicesimo canto del purgatorio si svolge sulla terza cornice, quella delle anime degli iracondi. Il canto
inizia con delle similitudini: il fumo che Dante deve affrontare all’ingresso della terza cornice viene
paragonato e reso ancora peggio al buio dell’Inferno e di una notte senza stelle oscurata dalle nuvole;
questo fumo è talmente pungente che Dante non riesce a tenere gli occhi aperti e lo paragona ad un panno
ruvido. Virgilio si avvicina dunque a Dante e gli offre la sua spalla, raccomandandogli di non perdersi. Man
mano che avanza, Dante sente delle voci che stanno pregando l’Agnus Dei, per ottenere pace e
misericordia. Diversamente da come accade nella vita terrena, il canto qui è intonato ed in perfetta
armonia. Dante, non riuscendo a vedere nulla, chiede alla sua guida se, ciò che sente, siano delle voci.
Virgilio risponde dicendogli che ciò che ode sono le anime che stanno scontando le pene per peccato di
iracondia. Una voce anonima domanda a Dante chi sia, avendo il presentimento che si tratti di un vivente.
Virgilio suggerisce a Dante di domandare allo spirito dove si trovi l’accesso più vicino alla cornice successiva.
Dante si rivolge a Marco Lombardo iniziando il dialogo con una captatio benevolentiae: egli si sta
purificando e quindi avvicinando a Dio. Poi gli dice che avrebbe udito cose incredibili se avesse ricevuto il
suo aiuto. Lo spirito risponde che, nonostante il fumo denso impedisca la vista, lo aiuterà, mantenendo un
contatto tramite la voce. Il poeta racconta che, per volere di Dio, sta viaggiando attraverso il purgatorio per
poi arrivare a contemplare il Paradiso, infine gli domanda chi egli sia e come fare a raggiungere la cornice
successiva. Egli si presenta come Marco Lombardo. Considerandolo come una specie di alter ego, dante gli
affida la discussione riguardante il libero arbitrio, l’origine della corruzione nel mondo e il rapporto tra
potere temporale e spirituale. Il penitente, che si presenta come conoscitore di quella virtù che oramai non
è più presente sulla terra, gli chiede in cambio di pregare per la propria ascesa in Paradiso. In tutta risposta
il poeta chiede a Lombardo di confermare un suo dubbio che durante questo incontro è raddoppiato. Il
mondo ora è privo di ogni virtù, come dichiara l’anima penitente, e pieno di malvagità; constatato questo, il
poeta vorrebbe sapere il motivo di ciò, affinché possa rivelarlo agli uomini in terra, i quali sono troppo
confusi se la causa sia il libero arbitrio o l’influsso che hanno gli astri sull’uomo. Prima di rispondere,
Lombardo sospira (moto di commiserazione per la situazione umana) e poi geme per aver respirato un
fumo così pungente. Inizia il discorso chiamandolo “fratello”, dicendo che dall’affermazione di Dante si
capiva chiaramente che egli venisse dalla terra; però, la ragione umana, essendo offuscata, attribuisce la
causa di tutto solamente al cielo. Secondo tale convinzione, le influenze archeologiche determinano ogni
comportamento. Se così fosse, non ci sarebbe la giustizia divina che premia con la beatitudine chi ha agito
bene e con la dannazione chi ha agito male. Poi Lombardo spiega che in realtà gli astri non possono
influenzare del tutto l’animo umano, non la parte razionale in particolare (di natura spirituale poiché creata
da Dio) e quindi non possono condizionare le decisioni di un individuo. La ragione ci è stata data da Dio per
distinguere il bene dal male e, se viene correttamente condotta, resiste all’influenza degli astri. Perciò, se il
mondo non segue la retta via, la colpa è solo negli uomini. L’anima è stata creata da Dio, che l’ha
contemplata prima ancora della sua esistenza, e si comporta come una fanciulla, alternando momenti felici
e momenti tristi senza motivo. Essa, ignara di tutto tranne di essere stata creata da Dio, si rivolge a tutto
quello che le reca più felicità. All’inizio assapora i piaceri, poi, credendo di non poterne fare a meno, cerca
in tutti i modi di raggiungerli, se ciò però non viene impedito da qualcuno che la rimandi sulla retta via, la
via dell’amore. Per questo motivo, per frenare l’impulsività dell’animo e per guidarla verso il bene, sono
state inventate le leggi (imperatore) ed è necessario un supervisore che vegli sulla Chiesa (Papa).
Quest’ultimo però possiede la capacità di interpretazione delle scritture ma non possiede la capacità di
distinguere il bene dal male. Da qui il popolo, che vede la sua guida nutrirsi di beni terreni, è tentato a
seguire il suo pastore, autore della cattiva condotta. Dei tanti uomini buoni che vi erano un tempo ne sono
rimasti pochissimi, tutti vecchi, che rimproverano continuamente la condotta di vita dei giovani. Essi
sperano di passare presto a miglior vita e sono: Corrado da Palazzo, noto per la sua virtù; Gherardo III da
Camino, lodato da Dante per la sua virtù; Guido da Castello, ancora vivo al momento della stesura
dell’opera. Lombardo conclude il suo discorso affermando che la chiesa, se vuole sia il potere spirituale che
quello temporale, che devono stare ben distinti, è destinata a cadere nel fango e a sporcare sé stessa e il
suo potere. Dante capisce che proprio per tale motivo i Leviti, una delle dodici tribù d’Israele, sacerdoti, non
potevano ereditare alcun bene materiale. Dante domanda chi sia Gherardo, che Lombardo aveva citato
poco prima. Avendo riconosciuto dalla pronuncia il luogo di provenienza di Dante, egli trova strano che il
poeta non conosca Gherardo, noto in toscana per i suoi rapporti con Corso Donati, in seguito capo dei Neri
fiorentini. Non sa come spiegare chi sia se non dicendo che è il padre di Gaia. Poi gli dice “dominus
vobiscum”, poiché non può più accompagnarli, essendo arrivati al limite della cornice, oltre la quale non gli
è concesso andare. Essi vedono in lontananza una luce oltre le tenebre e poi un angelo (davanti agli angeli
che custodiscono le cornici gli spiriti non possono comparire se non dopo la purificazione). Poi Lombardo
scompare, come aveva fatto improvvisamente Ciacco nell’Inferno.

Il sedicesimo canto si trova esattamente a metà dell’intera opera, si tratta del cinquantesimo canto. I primi
versi ci riconducono all’atmosfera cupa e buia dell’Inferno (che è nominato nel verso iniziale): Dante e
Virgilio si trovano nella terza cornice, dove gli iracondi vagano avvolti da un denso fumo, acre e irritante,
che annebbia loro la vita. Torniamo al contrappasso, che in questo caso, l’accecamento, è dovuto al fatto
che furono accecati in vita dell’ira. Dante stesso è partecipe di questa pena, essendo a sua volta ostacolato
dal fumo; l’ira, infatti, è uno dei tre peccati dei quali Dante ritiene di essersi macchiato e che il pellegrino,
dopo la profezia di Caronte della sua venuta in Purgatorio alla sua morte, condivide assieme ai purganti. In
mezzo alla nuvola di fumo, Virgilio offre la sua spalla a Dante, invitandolo a non separarsi da lui mentre lo
guida. Allegoricamente, ciò rappresenta che la Ragione può contrastare e addirittura vincere il sentimento
dell’ira. La prima anima di questa cornice capisce subito che Dante è vivo per due motivi: perché fende il
fumo denso con il suo fisico e perché parla come se dividesse ancora il tempo in mesi, cosa che le anime
non fanno perché soggette alla dimensione temporale divina, diversa da quella terrena. Marco risponde al
dubbio di Dante avvalendosi della definizione tomistica, appresa dallo scrittore dalla Summa Theologiae di
Tommaso d’Aquino. La teoria afferma che gli astri danno effettivamente una prima influenza alle azioni
umane, ma la volontà personale può vincerla: infatti, Dio ha conferito all’umanità la facoltà del libero
arbitrio. Dunque, con il famoso ossimoro “liberi soggiacete”, Marco Lombardo spiega che l’uomo, pur
essendo soggetto ad una forza invasiva superiore a quella astrale, ossia quella divina, ha comunque la
possibilità di decidere il meglio per sé stesso. Di conseguenza, la causa della corruzione del mondo è da
cercare nell’animo umano, e non nel cielo. Ad un certo punto, quando parla dei poteri temporali e
spirituali, il discorso muta da teologico a politico. Qui Dante riprende le dottrine esposte nel terzo libro del
De Monarchia, volte a risolvere l’annosa disputa sulla preminenza dell’uno o dell’altro potere manifestatasi
sin dalla cosiddetta lotta per le investiture.
Testo Parafrasi

Buio d’inferno e di notte privata  Il buio dell'Inferno, o di una notte priva di qualunque stella, sotto
d’ogne pianeto, sotto pover cielo,  un cielo oscuro quanto può esserlo quello di una notte coperta da
quant’esser può di nuvol tenebrata,                               3 nubi, non velò la mia vista come quel fumo che lì ci avvolse, né
mi irritò gli occhi al punto da non poterli tenere aperti; allora la
non fece al viso mio sì grosso velo  mia saggia guida mi si avvicinò e mi offrì il suo braccio.
come quel fummo ch’ivi ci coperse, 
né a sentir di così aspro pelo,                                          6

che l’occhio stare aperto non sofferse; 


onde la scorta mia saputa e fida 
mi s’accostò e l’omero m’offerse.                                   9
Come il cieco segue la sua guida per non perdersi e non urtare
qualcosa che gli faccia del male o forse lo uccida, così io
Sì come cieco va dietro a sua guida 
procedevo in quell'aria amara e oscura, ascoltando il mio
per non smarrirsi e per non dar di cozzo 
maestro che mi diceva di continuo: «Fa' in modo di non separarti
in cosa che ‘l molesti, o forse ancida,                           12
da me».
m’andava io per l’aere amaro e sozzo, 
ascoltando il mio duca che diceva 
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».               15

Io udivo delle voci, e ognuna sembrava pregare per la pace e la


Io sentia voci, e ciascuna pareva 
misericordia l'Agnello di Dio, che toglie i peccati dal mondo.
pregar per pace e per misericordia 
l’Agnel di Dio che le peccata leva.                                  18

Le parole iniziali erano sempre 'Agnus Dei'; tutti dicevano la


Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia; 
stessa cosa e in modo tale che sembrava esserci una totale
una parola in tutte era e un modo, 
concordia.
sì che parea tra esse ogne concordia.                          21

«Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?», 


Io dissi: «Maestro, sono degli spiriti quelli che sento?» E lui a me:
diss’io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi, 
«Dici il vero, ed essi scontano la pena per la loro iracondia».
e d’iracundia van solvendo il nodo».                             24

«Or tu chi se’ che ‘l nostro fummo fendi, 


«E tu chi sei, che attraversi il fumo della nostra Cornice e parli di
e di noi parli pur come se tue 
noi come se tu dividessi ancora il tempo (se fossi vivo)?»
partissi ancor lo tempo per calendi?».                          27

Così per una voce detto fue; 


Così fu detto da una voce; allora il mio maestro disse: «Rispondi,
onde ‘l maestro mio disse: «Rispondi, 
e chiedi se da questa parte si sale».
e domanda se quinci si va sùe».                                   30

E io: «O creatura che ti mondi 


E io: «O anima che ti purifichi, per tornare bella a Colui che ti
per tornar bella a colui che ti fece, 
creò, se mi segui sentirai qualcosa di straordinario».
maraviglia udirai, se mi secondi».                                 33
«Io ti seguiterò quanto mi lece», 
rispuose; «e se veder fummo non lascia,  Rispose: «Io ti seguirò finché mi sarà permesso; e se il fumo non
l’udir ci terrà giunti in quella vece».                                36 ci permette di vederci, il suono delle parole ci terrà uniti».

Allora incominciai: «Con quella fascia 


che la morte dissolve men vo suso,  Allora iniziai: «Me ne vado in alto con quell'involucro (corpo) che
e venni qui per l’infernale ambascia.                             39 la morte dissolve, e sono venuto qui attraverso l'Inferno.

E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso, 


tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte  E se Dio mi ha accolto nella sua grazia, al punto che vuol
per modo tutto fuor del moderno uso,                           42 mostrarmi il suo regno in un modo del tutto diverso dall'uso
moderno, non nascondermi il tuo nome prima della tua morte,
non mi celar chi fosti anzi la morte,  ma dimmelo, e dimmi se vado nella giusta direzione verso
ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;  l'accesso alla Cornice seguente; e le tue parole saranno la nostra
e tue parole fier le nostre scorte».                                  45 guida».

«Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco; 


del mondo seppi, e quel valore amai  «Io fui Lombardo, e il mio nome era Marco; conobbi il mondo e
al quale ha or ciascun disteso l’arco.                            48 amai quella virtù cortese alla quale oggi ciascuno ha disteso
l'arco (che ognuno ha abbandonato).
Per montar sù dirittamente vai». 
Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego  Per salire su, vai nella giusta direzione». Così rispose, e aggiunse:
che per me prieghi quando sù sarai».                          51 «Io ti prego di pregare per me, quando sarai in Paradiso».

E io a lui: «Per fede mi ti lego 


di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio  E io a lui: «Io ti prometto che farò ciò che mi chiedi; ma io
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.              54 scoppio se non riesco a liberarmi di un dubbio che mi assilla.

Prima era scempio, e ora è fatto doppio 


ne la sentenza tua, che mi fa certo  Prima era un dubbio semplice, mentre ora è raddoppiato a causa
qui, e altrove, quello ov’io l’accoppio.                             delle tue parole, che mi confermano, qui e altrove, ciò che ho già
57 udito (da Guido del Duca).

Lo mondo è ben così tutto diserto  Il mondo è del tutto privo di ogni virtù cortese, come tu mi dici, e
d’ogne virtute, come tu mi sone,  pieno di ogni malizia;
e di malizia gravido e coverto;                                          60

ma priego che m’addite la cagione,  ma ti prego di indicarmene la causa, così che io la comprenda e
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;  la mostri agli altri; infatti alcuni la pongono nelle influenze
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».                     63 celesti, altri nei comportamenti umani».

Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,  Dapprima emise un profondo sospiro, che poi si tramutò in
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,  «uhi!»; poi iniziò: «Fratello, il mondo è cieco e tu dimostri di
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.                           66 venire da lì.

Voi che vivete ogne cagion recate 


pur suso al cielo, pur come se tutto  Voi che siete in vita riconducete la causa di tutto al Cielo, come
movesse seco di necessitate.                                        69 se esso determinasse ogni cosa necessariamente.

Se così fosse, in voi fora distrutto 


libero arbitrio, e non fora giustizia  Se fosse così, in voi non ci sarebbe più il libero arbitrio, e non
per ben letizia, e per male aver lutto.                             72 sarebbe giusto essere premiati per la virtù, ed essere puniti per la
colpa.
Lo cielo i vostri movimenti inizia; 
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica, 
lume v’è dato a bene e a malizia,                                   75
Il Cielo inizia i vostri movimenti, e neppure tutti; ma anche
ammettendo ciò, voi siete in grado di distinguere il bene dal
e libero voler; che, se fatica 
male, e avete il libero arbitrio; il quale, se anche incontra
ne le prime battaglie col ciel dura, 
difficoltà nelle prime battaglie con gli influssi astrali, poi vince
poi vince tutto, se ben si notrica.                                     78
ogni cosa, purché venga ben nutrito.
A maggior forza e a miglior natura 
liberi soggiacete; e quella cria 
la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura.              81

Però, se ’l mondo presente disvia,  Voi siete soggetti, liberi, a una forza maggiore e a una natura
in voi è la cagione, in voi si cheggia;  migliore (Dio); e quella crea in voi l'intelletto, che il cielo non ha
e io te ne sarò or vera spia.                                              84 in suo potere.

Esce di mano a lui che la vagheggia  Perciò, se il mondo attuale pecca, la ragione è in voi e a voi deve
prima che sia, a guisa di fanciulla  essere attribuita; e io ora te ne darò una dimostrazione.
che piangendo e ridendo pargoleggia,                         87

l’anima semplicetta che sa nulla,  L'anima semplice, che non sa nulla, esce dalle mani di Colui (Dio)
salvo che, mossa da lieto fattore,  che la ama, prima di essere formata, come una fanciulla, che
volontier torna a ciò che la trastulla.                               90 piange e ride senza saperne il motivo, salvo che, mossa da un
lieto Creatore, torna volentieri a ciò che le dà piacere.
Di picciol bene in pria sente sapore; 
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, 
se guida o fren non torce suo amore.                            93

Onde convenne legge per fren porre;  Dapprima sente il sapore dei beni di scarso rilievo; qui s'inganna
convenne rege aver che discernesse  e corre dietro ad essi, a meno che una guida o un freno non
de la vera cittade almen la torre.                                     96 distolga il suo amore mal riposto.

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?  Per questo fu necessario porre dei freni con le leggi; fu
Nullo, però che ’l pastor che procede,  necessario avere un re che distinguesse almeno la torre della
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;                      99 vera città.

per che la gente, che sua guida vede 


pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta,  Le leggi ci sono, ma chi le fa rispettare? Nessuno, dal momento
di quel si pasce, e più oltre non chiede.                      102 che il pastore (il papa) che guida il gregge può ruminare, ma non
ha le unghie fesse;
Ben puoi veder che la mala condotta 
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,  quindi la gente, che vede la sua guida ricercare quei beni terreni
e non natura che ’n voi sia corrotta.                             105 di cui essa è ghiotta, si nutre di quelli e non chiede nient'altro.

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo, 


due soli aver, che l’una e l’altra strada  Puoi capire bene che la cattiva guida dei pontefici è la ragione
facean vedere, e del mondo e di Deo.                         108 che ha corrotto il mondo, non certo la vostra natura influenzata
dai Cieli.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada 
col pasturale, e l’un con l’altro insieme 
per viva forza mal convien che vada;                            111 Roma, che costruì il mondo virtuoso, era solita avere due soli,
che indicavano entrambe le strade, del mondo e di Dio.
però che, giunti, l’un l’altro non teme: 
se non mi credi, pon mente a la spiga, 
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.                           114 L'uno ha spento l'altro; e la spada si è unita al pastorale, ed è
inevitabile che le due cose stiano male insieme, unite in modo
In sul paese ch’Adice e Po riga,  forzato;
solea valore e cortesia trovarsi, 
prima che Federigo avesse briga;                                117 infatti, uniti, l'un potere non teme l'altro: se non mi credi, pensa
alla spiga (alle conseguenze), poiché ogni pianta si riconosce dal
or può sicuramente indi passarsi  suo seme.
per qualunque lasciasse, per vergogna 
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.                         120 Nel paese (Pianura Padana) che è attraversato da Adige e Po,
valore e cortesia erano soliti essere presenti, prima che Federico
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna  II fosse ostacolato (dalla Chiesa);
l’antica età la nova, e par lor tardo 
che Dio a miglior vita li ripogna:                                     123 ora può passare di lì senza timore chiunque non volesse parlare
con gli uomini virtuosi o avvicinarsi a loro, per vergogna.
Currado da Palazzo e ‘l buon Gherardo 
e Guido da Castel, che mei si noma 
francescamente, il semplice Lombardo.                     126 Ci sono ancora tre vecchi in cui l'età antica rimprovera la nuova,
e si augurano che Dio li faccia passare presto a miglior vita:
Dì oggimai che la Chiesa di Roma, 
per confondere in sé due reggimenti, 
cade nel fango e sé brutta e la soma».                       129 Corrado da Palazzo, il buon Gherardo (da Camino) e Guido da
Castello, che i Francesi indicavano come il semplice Lombardo.
«O Marco mio», diss’io, «bene argomenti; 
e or discerno perché dal retaggio 
li figli di Levì furono essenti.                                           132 Concludi che ormai la Chiesa di Roma, per accentrare in sé i due
poteri, cade nel fango e sporca sé e il suo incarico».
Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio 
di’ ch’è rimaso de la gente spenta, 
in rimprovèro del secol selvaggio?».                           135 Io dissi: «O Marco mio, tu hai ragione; e adesso capisco perché i
discendenti di Levi furono esclusi dall'eredità dei beni.
«O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta», 
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco, 
par che del buon Gherardo nulla senta.                      138 Ma chi è quel Gherardo che tu dici che è rimasto come esempio
dell'antico popolo, come rimprovero del secolo decaduto?»
Per altro sopranome io nol conosco, 
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia. 
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.                   141 Mi rispose: «O le tue parole mi ingannano o mi stuzzicano;
infatti, parlando con accento toscano, sembra che tu non sappia
Vedi l’albor che per lo fummo raia  nulla del buon Gherardo.
già biancheggiare, e me convien partirmi 
(l’angelo è ivi) prima ch’io li paia».  Io non lo conosco attraverso un altro soprannome, a meno di non
indicarlo come il padre di Gaia. Dio sia con voi, perché non posso
Così tornò, e più non volle udirmi.                                145 più seguirvi.

Vedi la luce che filtra attraverso il buio e già biancheggia, e io


devo separarmi da voi prima che io appaia all'angelo, che è lì».
Così se ne andò, e non volle più starmi a sentire.

Analisi canto XIII del Paradiso

Il canto tredicesimo del Paradiso si svolge nel cielo del Sole, dove risiedono gli spiriti sapienti.
Il Poeta invita il lettore a immaginare che le quindici stelle di prima grandezza (secondo Tolomeo), poi l’Orsa
Maggiore, e due stelle dell’Orsa Minore si siano suddivise in due costellazioni (ciascuna di dodici stelle), che
siano concentriche e si muovano in senso opposto l’una dall’altra: il lettore potrà avere una vaga idea delle
due corone che danzando e cantando circondano Dante. Quando il canto e la danza si concludono
contemporaneamente, i beati si volgono a Dante. Nel silenzio, si leva la voce di San Tommaso d’Aquino.
Egli, che già due canti prima aveva risposto ad un dubbio suscitato in Dante nel verso 96 del canto X, si
appresta a sciogliere un altro dubbio dello stesso, relativo a Salomone del quale Tommaso, nel verso 114
del canto X ha detto: “a veder tanto non surse ‘l secondo”. Dante infatti crede che la sapienza di Adamo e di
Gesù non possano essere superate da alcuna sapienza umana. Tommaso preannuncia che dalla sua
spiegazione, Dante, ricaverà la certezza che non vi è contraddizione tra quanto egli crede e quanto
Tommaso ha detto. Tutta la realtà, corruttibile ed incorruttibile, è un riflesso di Dio uno e trino; da Dio
provengono i nove cieli, e da questi le influenze che raggiungono gli elementi più basso, ovvero le realtà
contingenti. La materia delle cose contingenti e i cieli che la plasmano non si trovano sempre nelle stesse
condizioni; per questo l’impronta divina traluce in modo omogeneo nei vari esseri. Ad esempio, un albero
può dar frutti migliori e peggiori, così come gli uomini nascono con indole diversa. Se la materia fosse nelle
condizioni più favorevoli e se il cielo fosse nel pinto in cui meglio esercita la sua influenza, si vedrebbe
interamente l’impronta divina; ma questa viene riflessa sempre parzialmente dalla materia, come accade
all’artista che non riesce a tradurre nell’opera la sua idea. La piena perfezione della natura umana si ebbe
all’origine della Creazione, in Adamo, e, con l’incarnazione, in Gesù. È dunque giusta la convinzione di
Dante. Tommaso poi procede invitando Dante a riflettere sulla condizione di Salomone e sulla ragione che
lo indusse a chiedere a Dio la sua Sapienza. Tommaso ricorda che, dicendo “surse”, ha alluso alla condizione
regale di Salomone, il quale chiese il dono della Sapienza non per finalità astratte o teoretiche, ma per
esercitare rettamente il suo compito di sovrano. Tanti infatti sono i re, ma pochi sono quelli veramente
buoni e benedetti da Dio. La frase, dunque, si riferisce alla superiore sapienza dei Salomone rispetto agli
altri re, e non in assoluto. Compiuta la spiegazione, Tommaso esorta Dante a procedere con prudenza
dinanzi a questioni non chiare, astenendosi da affermazioni o negazioni che non considerano le opportune
distinzioni. Chi senza capacità va a “pescare” la verità si allontana da riva non solo inutilmente, ma con
danno, così accade agli antichi Parmenide, Melisso, Brisso e altri; come pure agli eretici Sabellio, Ario e altri
che straziarono le Sacre Scritture deformandone i veri lineamenti. Gli uomini si astengano da giudizi
avventati, come chi crede di poter giudicare in anticipo il valore del raccolto: spesso le previsioni umane si
dimostrano errate. E dunque “donna Berta e ser Martino”, vedendo uno che ruba e un altro che fa offerte,
non credano di poter già leggere il giudizio di Dio: il ladro può salvarsi, il devoto può cadere in peccato. Qui
possiamo vedere appunto anche il pensiero della Chiesa odierna sulla misericordia e sul giudizio divino: la
Chiesa non ha mai parlato di nessuna anima giacente all’inferno, neppur di Giuda, il più grande peccatore
della storia come traditore e come suicida, perché nell’atto della morte potrebbe essersi pentito dinanzi a
Dio e, pertanto, egli, con la sua immensa misericordia, potrebbe averlo ammesso, un giorno, tra i beati.

Il canto è dedicato alla spiegazione di un dubbio di Dante; ha quindi una manifesta impronta dottrinale,
rafforzata dall’identità del personaggio che si assume questa spiegazione, San Tommaso. Si tratta di uno dei
pilastri della formazione teologica di Dante, oltre che un maestro della filosofia medioevale definita
Scolastica. L’argomentazione svolta in questo canto si snoda in tre questioni: la sapienza di Adamo e Gesù,
la sapienza di Salomone, la fallacia del giudizio umano. La maggior parte del canto è di alto registro, con il
ricorso al lessico tipico del linguaggio filosofico ed antiche espressioni latine. Tutto il ragionamento è
punteggiato di espressioni che accompagnano gradualmente Dante, e il lettore, verso la comprensione.
Abbiamo anche un neologismo “s’intrea”. Il registro alto caratterizza anche l’elaboratissimo proemio, nel
quale l’anafora “imagini…;imagini…;imagini… (versi 1-10) scandisce il procedimento tutto mentale di una
ricomposizione e scomposizione di stelle, 24 in totale, due gruppi circolari di 12, cui si aggiunge una
comparazione in sé assurda tra il lentissimo corso del fiume di Chiana e il moto velocissimo del Primo
Mobile. Il proemio si conclude con un dotto richiamo agli inni pagani rivolti a Bacco e ad Apollo, in contrasto
con gli inni dedicati alla trinità e all’incarnazione. La prevalenza dell’alto registro non deve tuttavia far
trascurare esempi del registro familiare o addirittura basso (comico dantesco), che emerge nella metafora
della paglia, nelle similitudini dell’albero e dell’artista, e soprattutto nella parte finale, animata da un
accento polemico, dove risaltano un modo di dire come “E questo ti sia sempre piombo ai piedi” e versi la
cui espressività riflette esperienze comuni. La terzina finali, con l’uso di nomi proverbiali come “donna
Berta” e “ser Martino”, conclude, in forma colloquiale e diretta, l’invito ad essere prudenti nel giudicare.

Il canto costituisce una parentesi didascalica come lo erano i canti II, IV, V e VII, essendo dedicato in gran
parte alla questione dottrinale della vera natura della sapienza di Salomone: può sembrare un argomento
ozioso e di scarso interesse anche per i contemporanei del poeta, ma in realtà Dante affronta la questione
assai più delicata dei limiti della sapienza umana rispetto al giudizio divino, che da un lato si collega al suo
“traviamento” intellettuale tante volte evocato, dall’altro anticipa il grande tema della giustizia divina che
sarà trattato nel cielo di Giove. La descrizione delle due corone è il consueto tema della visione
inesprimibile con parole umane, per cui Dante è costretto a ricorrere a complesse e intellettualistiche
similitudini per rappresentare solo una traccia di quanto ha visto, ma è anche il preannuncio del tema al
centro del Canto, ovvero il limite insuperabile della sapienza (e dunque della ragione) umana, che non può
conoscere tutto, come nel caso di complesse questioni filosofiche e scientifiche e del delicato problema
della salvezza che sarà ampiamente discusso dall’aquila nel canto XX. Dante sottolinea anche che il canto
dei beati va al di là di ogni realtà umana; quindi, non si può descrivere col solo ausilio della parola poetica,
anche perché esso inneggia alla Trinità il cui mistero, pochi versi più avanti, sarà soggetto della dotta
spiegazione di San Tommaso. L’affermazione al verso 114 del canto X trae spunto dal passo biblico in cui
Dio appare in sogno al re d’Israele e gli chiede cosa desideri, al che Salomone risponde di volere la saggezza
necessaria a giudicare il suo popolo e distinguere il bene dal malo; Dio esaudisce la sua richiesta e dichiara
“dedi tibi cor sapiens et intelligens, in tantum ut nullus ante similis tui fuerit nec post te surrecturus sit (“ti
ho dato un cuore saggio e sapiente, al punto che nessuno è stato simile a te in precedenza, né alcuno
nascerà in futuro). Il dubbio di Dante nasce dal fatto che egli sa in base alla dottrina che la massima
sapienza fu quella infusa da Dio in Adamo e in Cristo-uomo, che erano perfetti in quanto creati
direttamente da Dio, quindi ciò sembra contraddire il passo scritturale, ma Tommaso dimostra con una
lunga e complessa spiegazione filosofica che così non è, partendo dal mistero della Trinità che non spiega
perché inconcepibile dall’uomo, ma che gli permette di illustrare come solo ciò che è creato direttamente
da Dio è perfetto, cosa che non si può dire per Salomone. Tommaso sottolinea dunque il limite invalicabile
della ragione umana, che deve arrestarsi di fronte agli argomenti superiori alle sue forze come quelli della
fede, per cui sembra di leggere un riferimento abbastanza trasparente al cosiddetto “traviamento” di
Dante, al suo tentativo di arrivare alla piena conoscenza solo grazie alla ragione e all’intelletto: da qui,
probabilmente, nasce il monito finale del beato contro i giudizi precipitosi e superficiali, siano essi su
argomenti filosofici o sulla salvezza. Tommaso ribadisce che solo Dio, nella sua infinita saggezza, conosce in
anticipo il destino escatologico delle persone: è il delicatissimo problema della predestinazione, che sarà
ampiamente spiegato dall’aquila nel cielo di Giove, dove vedremo due clamorosi esempi di salvezza
imprevedibile, Traiano e Rifeo, che saranno tra i beati dell’occhio dell’aquila e che la sola sapienza umana,
con tutti i limiti che San Tommaso ha ben evidenziato in questo canto, non può pretendere di comprendere
razionalmente.

Le quindici stelle citate al v. 4 sono le più luminose della volta celeste, ovvero quelle di prima grandezza
catalogate nell'Almagesto di Tolomeo (Dante conosceva questo trattato di astronomia per via indiretta).
Il carro citato al v. 7 è l'Orsa Maggiore, che essendo una costellazione circumpolare non tramonta mai e
resta sempre nel polo artico.
I vv. 10-12 si riferiscono all'Orsa Minore, descritta come un corno la cui punta coincide con la Stella Polare,
mentre la parte bassa (la bocca) è formata dalle due stelle più basse dell'Orsa. La Stella Polare si trova
sull'asse sul quale Dante immagina che ruoti il Primo Mobile (la prima rota).
I vv. 12-14 alludono al mito di Arianna, la cui ghirlanda venne tramutata da Bacco nella costellazione della
Corona: Dante si rifà certo a Ovidio (Met., VIII, 177-182), anche se attribuisce la trasformazione ad Arianna
morente.
Il v. 18 viene interpretato nel senso che le due corone ruotano in senso opposto, ma alcuni pensano che
quella esterna semplicemente ruoti più velocemente dell'altra.
La Chiana (v. 23) è un fiume della Toscana, che al tempo di Dante si impaludava nella Val di Chiana
(ricordata come luogo di malaria in Inf., XXIX, 47) e scorreva lentissimo. Il ciel che tutti li altri avanza è il
Primo Mobile, che ruota più rapidamente di tutti gli altri.
Al v. 25 Peana indica l'inno che si cantava in onore di Apollo; quindi, per metonimia indica il dio stesso.
I vv. 34-36 alludono alla trebbiatura del grano, le cui spighe vengono battute sull'aia e le cui sementi sono
poi riposte nel granaio. Tommaso vuol dire che, dopo aver risolto il primo dubbio di Dante, è pronto a
risolvere il secondo.
Ai vv. 36 ss. Adamo è indicato come il petto da cui fu tratta la costola che creò Eva, la bella guancia / il cui
palato a tutto 'l mondo costa (il riferimento è al peccato originale), mentre Cristo-uomo è il petto forato da
la lancia sulla croce che, morendo, riscattò lo stesso peccato originale. In entrambi venne infusa da Dio la
massima sapienza.
I vv. 50-51 indicano che le due affermazioni fanno parte della stessa verità, come tutti i punti del cerchio
sono alla stessa distanza dal centro.
I vv. 52 ss. illustrano il mistero della Trinità: il Figlio è idea, «logos», del Padre, che la genera amando (con lo
Spirito Santo); il Figlio o Verbo Divino (quella viva luce) deriva dal Padre (dal suo lucente) ed è da Lui
inscindibile, come lo è lo Spirito Santo che s'intrea, si unisce a Loro come terzo. Mea è latinismo, nel senso
di «procede», mentre s'intrea è neologismo dantesco come s'incinqua di IX, 40.
I vv. 58 ss. contengono molti termini tecnici della Scolastica: le nove sussistenze sono i nove cori angelici,
le ultime potenze sono gli elementi del mondo sublunare e materiale, le contingenze sono le cose che
possono essere e non essere; quindi, le cose create in modo effimero.
I vv. 79-81, di difficile interpretazione, vogliono probabilmente dire: «ma se lo Spirito Santo dispone e
suggella il Verbo del Padre, nella natura si ottiene tutta la perfezione». Tommaso intende che solo ciò che è
creato direttamente da Dio è perfetto.
Il v. 93 si riferisce al passo biblico in cui Salomone chiese la sapienza (III Reg., III, 5-12).
I vv. 97-102 elencano quattro problemi insolubili per la mente umana: quale sia il numero degli angeli, una
quesione di logica aristotelica, l'esistenza di un primo moto non generato da altro moto e se in un
semicerchio si può inscrivere un triangolo non rettangolo.
Al v. 104 impàri è aggettivo («impari», «senza pari») e non verbo come inteso da alcuni commentatori.
Il v. 106 chiarisce che il senso di surse nelle parole di Tommaso (X, 114) era «fu innalzato alla dignità di re» e
non semplicemente «nacque».
Al v. 125 sono citati alcuni filosofi greci: Parmenide di Elea (V sec. a.C.), autore di un poema
didascalico Sulla natura, oggi perduto; Melisso di Samo (metà V sec. a.C.), discepolo di Parmenide e
anch'egli autore di un poema con lo stesso titolo; Brisone di Eraclea, figlio di Erodoto e discepolo di Socrate,
che tentò di risolvere la quadratura del cerchio. Dante li critica in quanto tentarono di trovare risposte su
questioni inconoscibili per l'uomo.
Al v. 127 sono citati l'eretico Sabellio (III sec. d.C.), autore di una dottrina che negava la Trinità, e Ario (IV
sec. d.C.), che negava la natura divina di Cristo; entrambi, dunque, negavano i due articoli di fede citati da
Dante ai vv. 26-27. I vv. 128-129 vogliono dire che furono come spade la cui lucida superficie deformò,
riflettendole, le verità scritturali, oppure che le mutilarono orrendamente.
Berta e Martino (v. 139) sono nomi convenzionali di uso assai frequente nella lett. medievale, a indicare
persone qualunque (come i nostri Tizio e Caio); i titoli donna e ser vogliono forse indicare saccenteria
presuntuosa.
Il vb. offerere (v. 140) indica «fare pie offerte» e contiene forse un riferimento polemico alla vendita delle
indulgenze.
Testo Parafrasi
Imagini, chi bene intender cupe  Chi desidera capire bene ciò che io vidi, immagini (e mentre parlo
quel ch’i’ or vidi - e ritegna l’image,  tenga fissa l'immagine nella sua mente, come una roccia), quindici
mentre ch’io dico, come ferma rupe -,                            3 stelle che in diversi punti del cielo lo illuminano in modo tale da
vincere ogni nebulosità;
quindici stelle che ‘n diverse plage 
lo ciel avvivan di tanto sereno 
che soperchia de l’aere ogne compage;                       6

imagini quel carro a cu’ il seno  immagini poi il Carro dell'Orsa Maggiore, a cui lo spazio del nostro
basta del nostro cielo e notte e giorno,  polo è sufficiente per il moto diurno e notturno, cosicché al volgere
sì ch’al volger del temo non vien meno;                         9 del suo timone non tramonta mai;

imagini la bocca di quel corno  immagini la parte bassa di quel corno (l'Orsa Minore) che ha il
che si comincia in punta de lo stelo  vertice nella punta (la Stella Polare) dell'asse attorno a cui ruota il
a cui la prima rota va dintorno,                                        12 Primo Mobile, come se queste 24 stelle avessero formato due
corone in cielo, simili a quella in cui Arianna, vicina alla morte, si
aver fatto di sé due segni in cielo,  tramutò;
qual fece la figliuola di Minoi 
allora che sentì di morte il gelo;                                     15

e l’un ne l’altro aver li raggi suoi,  e immagini che queste due corone, concentriche, ruotino in modo
e amendue girarsi per maniera  che ciascuna proceda in una direzione opposta;
che l’uno andasse al primo e l’altro al poi;                  18

e avrà quasi l’ombra de la vera  e avrà quasi un'ombra della vera costellazione (le due corone di
costellazione e de la doppia danza  beati) e della doppia danza che circondava il punto dove ero io:
che circulava il punto dov’io era:                                     21

poi ch’è tanto di là da nostra usanza,  infatti quello spettacolo trascende a tal punto le cose del mondo,
quanto di là dal mover de la Chiana  quanto lo scorrere lento della Chiana è superato dal Primo Mobile, il
si move il ciel che tutti li altri avanza.                             24 Cielo più veloce di tutti.

Lì si cantò non Bacco, non Peana,  Lì non si inneggiava agli dei Bacco o Apollo, ma alle tre persone
ma tre persone in divina natura,  della Trinità e alla duplice natura di Cristo.
e in una persona essa e l’umana.                                 27

Compié ‘l cantare e ‘l volger sua misura;  Il canto e la danza dei beati si compì; e quelle sante luci si rivolsero
e attesersi a noi quei santi lumi,  a noi, gioiose di passare da una cura (il canto e la danza) a un'altra
felicitando sé di cura in cura.                                           30 (risolvere i dubbi di Dante).

Ruppe il silenzio ne’ concordi numi  In seguito a rompere il silenzio di quei beati concordi fu la luce (san
poscia la luce in che mirabil vita  Tommaso) che prima mi aveva raccontato la meravigliosa vita del
del poverel di Dio narrata fumi,                                       33 poverello di Dio (san Francesco), e disse: «Quando una parte delle
spighe è stata trebbiata e le sementi riposte nel granaio, il dolce
e disse: «Quando l’una paglia è trita,  amore di Dio mi invita a trebbiare l'altra parte.
quando la sua semenza è già riposta, 
a batter l’altra dolce amor m’invita.                                36

Tu credi che nel petto onde la costa  Tu credi che nel petto di Adamo, da dove fu presa la costola per
si trasse per formar la bella guancia  creare la bella guancia (Eva) il cui palato è costato all'umanità il
il cui palato a tutto ‘l mondo costa,                                 39 peccato originale (per aver gustato il frutto proibito), e nel petto di
Cristo che, forato dalla lancia, redense tutti gli uomini vissuti prima e
e in quel che, forato da la lancia,  dopo dallo stesso peccato originale, fosse infusa tutta la sapienza
e prima e poscia tanto sodisfece,  che è lecita alla natura umana, da Dio stesso che creò l'uno e l'altro;
che d’ogne colpa vince la bilancia,                                42

quantunque a la natura umana lece 


aver di lume, tutto fosse infuso 
da quel valor che l’uno e l’altro fece;                             45

e però miri a ciò ch’io dissi suso,  e perciò ti meravigli di quanto ho detto prima, quando ho spiegato
quando narrai che non ebbe ‘l secondo  che il beato (Salomone) chiuso nella quinta luce non ebbe un altro
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.                           48 pari a lui.

Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo,  Ora ascolta bene quello che ti spiegherò e vedrai che la tua
e vedrai il tuo credere e ‘l mio dire  convinzione e le mie parole fanno parte della stessa verità.
nel vero farsi come centro in tondo.                               51

Ciò che non more e ciò che può morire  Ciò che è incorruttibile e ciò che è corruttibile non è altro che riflesso
non è se non splendor di quella idea  di quell'Idea (il Figlio) che il nostro Signore (il Padre), amando,
che partorisce, amando, il nostro Sire;                         54 genera con lo Spirito Santo;

ché quella viva luce che sì mea  perché quella viva luce (il Figlio) che promana da chi la genera (il
dal suo lucente, che non si disuna  Padre), che non si disunisce da Lui né dallo Spirito Santo che si
da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea,                              57 inserisce come terzo fra Loro, per la sua bontà raccoglie i suoi raggi
nei nove cori angelici, come specchiandosi, restando eternamente
per sua bontate il suo raggiare aduna,  una sola persona.
quasi specchiato, in nove sussistenze, 
etternalmente rimanendosi una.                                    60

Quindi discende a l’ultime potenze  Da qui scende in basso alle creature materiali, di Cielo in Cielo,
giù d’atto in atto, tanto divenendo,  riducendosi al punto che produce solo cose effimere;
che più non fa che brevi contingenze;                            63

e queste contingenze essere intendo  e intendo che queste cose effimere sono le cose generate, che i
le cose generate, che produce  Cieli col loro movimento creano con seme (gli esseri viventi) o
con seme e sanza seme il ciel movendo.                    66 senza (gli esseri inanimati).

La cera di costoro e chi la duce  La materia di queste creature e l'influsso celeste non sono uguali; e
non sta d’un modo; e però sotto ‘l segno  dunque esse riflettono in maggiore o minor misura l'idea divina che
ideale poi più e men traluce.                                           69 le suggella.
Ond’elli avvien ch’un medesimo legno,  Per questo accade che alberi della stessa specie fanno frutti in
secondo specie, meglio e peggio frutta;  modo migliore e peggiore; e voi uomini nascete con indole
e voi nascete con diverso ingegno.                               72 differente.

Se fosse a punto la cera dedutta  Se la materia fosse la migliore possibile e il Cielo esercitasse la sua
e fosse il cielo in sua virtù supprema,  virtù al massimo grado, allora la luce divina apparirebbe in modo
la luce del suggel parrebbe tutta;                                   75 perfetto;

ma la natura la dà sempre scema,  ma la natura presenta la materia sempre in modo imperfetto,


similemente operando a l’artista  operando come l'artista che ha la mano tremante mentre esercita la
ch’a l’abito de l’arte ha man che trema.                        78 sua arte.

Però se ‘l caldo amor la chiara vista  Dunque, se lo Spirito Santo imprime la luce della potenza divina,
de la prima virtù dispone e segna,  allora la cosa creata è pienamente perfetta.
tutta la perfezion quivi s’acquista.                                   81

Così fu fatta già la terra degna  Così la Terra fu creata degna di tutta la perfezione degli esseri
di tutta l’animal perfezione;  animati (quando fu creato Adamo); così la Vergine fu resa incinta di
così fu fatta la Vergine pregna;                                        84 Cristo-uomo;

sì ch’io commendo tua oppinione,  pertanto approvo la tua opinione, che la natura umana non fu mai
che l’umana natura mai non fue  perfetta né mai lo sarà come in quelle due persone (Adamo e
né fia qual fu in quelle due persone.                             87 Cristo-uomo).

Or s’i’ non procedesse avanti piùe,  Ora, se io non dicessi altro, tu obietteresti: 'Dunque, come può
‘Dunque, come costui fu sanza pare?’  essere che Salomone fu senza pari?'
comincerebber le parole tue.                                          90

Ma perché paia ben ciò che non pare,  Ma affinché questa verità risalti chiaramente, pensa chi era e quale
pensa chi era, e la cagion che ‘l mosse,  ragione lo spinse a chiedere la sapienza quando Dio lo invitò a
quando fu detto "Chiedi", a dimandare.                        93 chiedere cosa volesse.

Non ho parlato sì, che tu non posse  Non ho parlato in modo che tu non possa capire che egli fu re, e
ben veder ch’el fu re, che chiese senno  che chiese la sapienza per svolgere in modo adeguato il suo ufficio
acciò che re sufficiente fosse;                                         96 di sovrano;

non per sapere il numero in che enno  (chiese la sapienza) non per sapere il numero degli angeli, o se una
li motor di qua sù, o se necesse  premessa necessaria e una contingente hanno mai prodotto una
con contingente mai necesse fenno;                             99 conseguenza necessaria;

non si est dare primum motum esse,  non per sapere se è ammissibile un primo moto non generato da
o se del mezzo cerchio far si puote  altro moto, o se in un semicerchio si può inscrivere un triangolo non
triangol sì ch’un retto non avesse.                                102 rettangolo.

Onde, se ciò ch’io dissi e questo note,  Allora, se pensi a questo e a quello che ho detto prima, ecco che
regal prudenza è quel vedere impari  quella sapienza senza pari che ho voluto intendere non è altro che
in che lo stral di mia intenzion percuote;                     105 la sapienza di un re;

e se al "surse" drizzi li occhi chiari,  e se ripensi a quando ho detto "surse", capirai che volevo solo
vedrai aver solamente respetto  riferirmi ai re, che sono molti, mentre i re buoni sono rari.
ai regi, che son molti, e ‘ buon son rari.                       108

Con questa distinzion prendi ‘l mio detto;  Interpreta le mie parole con queste distinzioni e così si accordano
e così puote star con quel che credi  perfettamente con ciò che credi del primo padre (Adamo) e del
del primo padre e del nostro Diletto.                             111 nostro Diletto (Cristo).

E questo ti sia sempre piombo a’ piedi,  E questo ti induca sempre a procedere coi piedi di piombo, con la
per farti mover lento com’uom lasso  cautela di chi cammina lentamente e stanco, quando giudichi di
e al sì e al no che tu non vedi:                                        114 qualcosa che non riesci a comprendere:

ché quelli è tra li stolti bene a basso,  infatti è decisamente stolto colui che afferma o nega una cosa
che sanza distinzione afferma e nega  senza riflettere, sia in un caso che nell'altro;
ne l’un così come ne l’altro passo;                               117

perch’elli ‘ncontra che più volte piega  e avviene spesso che l'opinione corrente spinge verso una falsa
l’oppinion corrente in falsa parte,  convinzione, e poi l'amore per la propria idea impedisce all'intelletto
e poi l’affetto l’intelletto lega.                                          120 di ragionare.

Vie più che ‘ndarno da riva si parte,  Non solo invano ma anche con danno lascia la riva chi va a pesca
perché non torna tal qual e’ si move,  del vero e non ne è capace, perché non torna nella condizione con
chi pesca per lo vero e non ha l’arte.                            123 cui è partito.

E di ciò sono al mondo aperte prove  E questo nel mondo è dimostrato da Parmenide, Melisso e Brisone,
Parmenide, Melisso e Brisso e molti,  che procedettero senza sapere dove andavano;
li quali andaro e non sapean dove;                              126

sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti  così fecero Sabellio, Ario e quegli stolti che furono come spade
che furon come spade a le Scritture  verso le Scritture, deformando i volti regolari.
in render torti li diritti volti.                                                129

Non sien le genti, ancor, troppo sicure  Le genti, inoltre, non siano troppo frettolose a giudicare, come colui
a giudicar, sì come quei che stima  che calcola il valore delle messi quando non sono ancora mature
le biade in campo pria che sien mature;                     132 nel campo;

ch’i’ ho veduto tutto ‘l verno prima  infatti io ho visto il pruno tutto l'inverno stare rinsecchito e sterile, e
lo prun mostrarsi rigido e feroce;  poi in primavera fare sbocciare una rosa sul suo ramo;
poscia portar la rosa in su la cima;                               135

e legno vidi già dritto e veloce  e ho visto una nave procedere rapida e veloce lungo la sua rotta,
correr lo mar per tutto suo cammino,  per poi affondare all'entrata nel porto.
perire al fine a l’intrar de la foce.                                    138
Non creda donna Berta e ser Martino,  Non credano donna Berta e ser Martino che, se vedono un uomo
per vedere un furare, altro offerere,  che ruba e un altro che fa pie offerte, essi siano già giudicati da Dio;
vederli dentro al consiglio divino; infatti il primo può salvarsi, l'altro può finire dannato».

ché quel può surgere, e quel può cadere».                142

Francesco Petrarca
Francesco Petrarca nasce nel 1304 ad Arezzo e muore nel 1374 nella sua casa di Arquà. Il padre di Petrarca,
detto Petracco, nobile giurista fiorentino, fu esiliato da Firenze essendo guelfo bianco; perciò, francesco
nacque fuori dalla sua città di origine. La famiglia Petrarca si trasferì molto presto ad Avignone che dal 1305
era sede papale. Dal 1316 al 1320, a Montpellier, Petracco avvia agli studi giuridici i figli, nel 1320 li fa
continuare a bologna, dove francesco rimane insieme al fratello minore per 6 anni. Si appassiona al diritto
civile, amplia la sua cultura latina e conosce scrittori di poesie volgari. Nel 1326 torna ad Avignone per la
morte del padre. Il 6 aprile 1327, Venerdì Santo, nella chiesa di Santa chiara, Petrarca incontra una giovane
donna, laura, e se ne innamora. Essa diventa il fulcro della sua narrazione poetica. Nel 1330 prende il
cammino ecclesiastico assumendo l’incarico di chierico, diventando in seguito cappellano della famiglia
colonna. Tra il 1336 e il 1337 compie il suo primo viaggio a Roma ed inizia a pensare ad opere più
impegnative, in latino, alle quali si dedica una volta tornato ad Avignone tra il 1337 e il 1340, nella sua
casetta di campagna, lontano dalla mondanità della corte papale. Nel suo isolamento Petrarca compone il
de viris illustribus, da avvio alla stesura dell’africa, scrive molte delle epistole metrice e compone circa 40
delle liriche in volgare incluse nel canzoniere. Nell’8 aprile del 1341 riceve un riconoscimento, esso viene
incoronato d’alloro nel palazzo del senato, a Roma. Tra il 1341 e il 1353 sono anni di viaggi, incontri e studi.
1342 monacazione del fratello Berardo, 1343 nascita della figlia francesca, 1347 impresa di cola di Rienzo,
1348 morte di laura, 1350 incontro con Giovanni boccaccio. Con la morte di clemente VI Petrarca lascia
definitivamente la Provenza e si trasferisce, nel 1353, a Milano sotto la protezione del vescovo Giovanni
visconti, fino al 1361, anno in cui è costretto a fuggire dalla città per scappare alla peste. Si trasferisce a
Padova e nel 1362 a Venezia, dove si impegna a donare la sua biblioteca alla repubblica veneziana. Nel
1363 riceve una visita da boccaccio. Nel 1368 si trasferisce nuovamente a Padova. Tra il 1370 e il 1374
costruisce una casa ad Arquà dove resterà fino alla sua morte, dedicandosi alla revisione delle sue opere,
prima tra tutte il canzoniere. Termina e compone le sue ultime opere lasciando incompiuta la sua ultima
opera, le “seniles”.

Il Rerum Vulgarium Fragmenta


Il Canzoniere (titolo completo Francesci Petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta) è l’opera più
conosciuta del poeta, sulla quale impiegò gran parte della sua vita letteraria. L’opera è la storia, raccontata
attraverso la poesia, della vita interiore del Poeta stesso. Composto dal 1336 al 1374, il Canzoniere
comprende 366 componimenti in versi italiani ed è una delle opere principali della letteratura italiana per la
profondità del linguaggio, del pensiero, della sofferenza interiore e per la speranza di una redenzione.
Inoltre, ha segnato per secoli il modello poetico letterario italiano grazie alla azione di Pietro Bembo. La
ricostruzione della storia dell’opera è tutt’altro che semplice, dal momento che la stesura si svolge per
quasi tutta la vita del Petrarca. Grazie alla ricostruzione effettuata da Marco Santagata e da Ernest Wilkins si
può schematizzare la creazione dell’opera nelle sue varie fasi. Ipotizzando che il giovane Petrarca abbia
realizzato in un corpus non organico 22 liriche tra il 1336 e il 1338, messo poi in ordine nel 1342, bisogna
però aspettare il 1356 prima che il poeta aretino metta assieme tutte le liriche fin lì composte e le dedichi
all’amico e protettore Azzo da Correggio, signore di Parma, in quella che viene definita la redazione di
Correggio. Il vero e proprio lavoro di redazione, revisione e conclusione della raccolta di poesie iniziò a
partire dagli anni ’60 quando, nella quiete di Arquà e aiutato dal copista Giovanni Malpaghini, Petrarca
realizzò il codice su cui si studia il Canzoniere, ossia il codice Vaticano Latino 3195, impegnandosi
nell’aggiunta e nella selezione delle liriche sia nella sezione in vita che in morte di Laura. Le aggiunte
successive di mano dello scrittore (tra il 1367 ed il 1374) consistono nell’aggiunta della canzone dedicata
alla Vergine e ad alcune indicazioni per la sistemazione definitiva delle liriche anche se, come sottolinea
Michelangelo Picone, egli non riuscì mai a dare una forma definitiva alla sua raccolta in quanto “la fabula
[…] è affidata alla gestione dell’io, e non posta nelle mani di Dio”. Dal punto di vista critico, il codice è stato
riprodotto diplomaticamente da Ettore Modigliani. Di esso ha procurato il testo critico Giuseppe Savoca nel
2008. Tuttavia, esistono altre versioni del Canzoniere che ci inducono ad ipotizzare la sua diffusione in certi
ambienti elitari:

1. Il codice Vaticano Chigiano L.V. 176, di Giovanni Boccaccio.


2. Il codice Laurenziano XLI 17, la cui genesi si riscontra in una lettera inviata da Petrarca al signore di
Rimini, Pandolfo II Malatesta.
3. La Raccolta queriniana, conservato alla Biblioteca Queriniana di Brescia.
4. Il Codice Vaticano Latino 3196, detto anche “codice degli abbozzi” in quanto riportante non solo le
liriche di Petrarca, ma anche altre sue opere e le annotazioni in latino.
5. Per stabilire la forma pre-definitiva del codice originale si fa riferimento anche al codice
Laurenziano XLI 10 e al Parigino Italiano 551.

Il Titolo “Canzoniere” compare in campo editoriale per la prima volta nel 1515, per diventare
estremamente comune dall’800 in poi, quando in realtà per tutto il XV secolo non si diede un nome
specifico alla raccolta di liriche dell’opera del poeta aretino. Oltre alle denominazioni ufficiali provenienti
dalla filologia e dall’ecdotica, si sa che Petrarca chiamava scherzosamente tutta la sua produzione volgare,
in un’ottica diminutiva dal sapore leggermente dispregiativo, col nome latino di “nugae”, termine utilizzato
già a suo tempo dal poeta Catullo.

La raccolta comprende 366 componimenti: 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali. Non
raccoglie tutti i componimenti poetici dell’autore, ma solo quelli che il poeta scelse con grande cura; altre
rime andarono perdute o furono incluse in altri manoscritti. La maggior parte delle rime del Canzoniere è
d’argomento amoroso, mentre una trentina sono di argomento morale, religioso o politico. Per lungo
tempo si è pensato che le due parti in cui risulta diviso il manoscritto originale del Canzoniere,
premettessero di distinguere le rime “in vita” dai componimenti “in morte” di Madonna Laura. Attualmente
si è propensi a credere che la bipartizione della raccolta rispecchi, in chiave simbolica, le distinte fasi di un
tormentato percorso di maturazione del poeta, che volle e seppe passare dall’infatuazione giovanile per
l’Amore e la Gloria ad una matura e più cristiana dedizione ai valori della Carità e della Virtù. Secondo alcuni
studiosi la struttura del Canzoniere istituirebbe uno stretto legame simbolico fra l’intera vita del poeta e
l’anno solare: le rime del canzoniere sono infatti 365 (escludendo il sonetto introduttivo, da considerarsi a
sé stante), come i giorni che trascorrono dall’inizio di un anno (la vita terrena) al ritorno della medesima
data (principio di una nuova esistenza dell’anima). Secondo queste ipotesi calendariali, alcune date
acquisirebbero un valore particolare per la struttura dell’opera. Prima fra tutte il 6 aprile, giorno in cui il
poeta si innamorò di Laura, ma anche giorno in cui la sua amata cessò la sua esistenza terrena.
Fondamentali, inoltre, risulterebbero il 20 luglio (compleanno) e l’8 aprile (incoronazione a Roma): tra l’uno
e l’altro trascorrono 263 giorni e giustappunto 263 sono le rime che compongono la prima parte del
Canzoniere. Infine, la collocazione della poesia non rispecchia l’ordine reale di composizione, ma risponde
all’esigenza di concludere in maniera esemplare la vicenda del poeta con il rifiuto delle tentazioni terrene e
dell’amore per Laura. Figura dominante nella produzione della lirica petrarchesca del Canzoniere, oltre la
stessa dell’autore, è la donna di nome Laura. Laura potrebbe essere un nome fittizio per esprimere l’alloro
poetico, la pianta del lauro: “Laura, infatti, si identifica e si confonde con il lauro, la pianta di Apollo e della
poesia, la pianta trionfale con cui lo stesso Petrarca venne coronato Poeta nel 1341”. Laura rappresenta
tutte quelle caratteristiche seducenti che fanno soffrire l’autore in nome di una sensualità e di una forza
provocatrice che sfiniscono l’animo del poeta aretino teso verso la redenzione e la pace interiore. Questo lo
si vede chiaramente nella descrizione fisica della donna, nel suo sorriso, nei suoi occhi, nei suoi “capei d’oro
a l’aura sparsi” o nelle “belle membra” della canzone Chiare, fresche e dolci acque ove v’è l’apoteosi della
bellezza della donna e del suo carattere sovrannaturale. Come si è detto. La bipartizione del Canzoniere è
dovuta, da un primo punto di vista telematico, con la morte di Laura. Da qui le rime in vita e in morte di
Laura. Questa divisione suscita nell’economia del Canzoniere dei cambiamenti della figura della donna
amata e temuta al contempo. Se nella prima parte la figura di Laura è indifferente alla passione del poeta,
nella seconda parte Laura appare al poeta più affettuosa e compassionevole. Tutto sommato, però, il ruolo
che la donna possiede nella vita del poeta è struggente e terribile, il “ruotare intorno all’immagine assoluta
di Laura […] esprime la perdita di sé, l’oscillazione perpetua che nega ogni pace al poeta”. Questo stato
d’animo è espresso già bene nel sonetto Era il giorno ch’al sol si scoloraro (III) ove il poeta, sotto il dominio
di Amore, incontra per la prima volta Laura nel giorno del Venerdì Santo e si sente colpito, ferito dallo
stesso Amore e dalla donna, esprimendo così una natura cruda e dolorosa del sentimento amoroso. La
stessa natura del dominio amoroso di Laura non si rompe neanche in seguito alla sua morte, avvenuta ad
Avignone nel 1348, il 6 aprile, stessa data nella quale si conobbero. Nel sonetto 263, ovvero la fine della
prima parte del Canzoniere, Petrarca dà il suo commiato a Laura, espressa sotto la figura fitomorfa del
lauro, in una riflessione sulla caducità dei beni terreni e sulla stessa fugacità del tempo. Nella seconda metà
del Canzoniere, la figura di Laura sembra mutata: non più capricciosa, crudele e vana, sembra ora dare dei
consigli all’antico amante, chiarendo anche che il fatto di non essersi concessa a lui fosse necessario per la
sua sopravvivenza spirituale. Nella poesia CCCII, ad esempio, Laura prende per mano il poeta e gli spiega
che lo attende nel Cielo di Venere per poter trascorrere il resto dell’esistenza con lui. La figura di Laura
appare lontana da quelle angelicanti e salvifiche di una Beatrice. Questo denota nell’opera un
discostamento dallo stilnovismo. Se per Dante, Beatrice, era il simbolo della Salvezza, della Redenzione, qui
invece Laura, assumendo la dimensione della temporalità e una visione quasi sadica dell’esperienza
amorosa, espressione invece dell’amore terreno con tutte le sue contraddizioni. Sono anche significativi
però gli influssi della poetica provenzale e successiva che renderanno la figura di Laura un modello che si
imporrà per secoli.

Il sonetto introduttivo, considerato proemiale in relazione al numero dei componimenti che andrebbero a
riallacciarsi a ciascun giorno dell’anno, esprime tutto il dolore dell’uomo Petrarca nell’essersi abbandonato
al “primo giovanile errore”, ossia all’amore per Laura. Il tono dolente e patetico, in cui Petrarca cerca
conforto presso i lettori cui è destinato il libro, si basa su un ondeggiamento lessicale determinato dalla
congiunzione o dalla ripetizione della parola e dal soggetto sottinteso che, secondo le parole del critico
Lodovico Castelvetro, genera turbamento nel cuore del lettore. L’io del poeta è turbato e scisso tra ideali e
sconfitte, che non può mai avere soddisfazione, sempre perdente e agogna quella pace e quella serenità
dovuta al pentirsi per tutto quello che di caduco ha da offrire il mondo, aprendo in tal modo, quasi come se
fosse una “composizione ad anello”, alla canzone alla Vergine che chiude l’opera. Con la canzone Vergine
bella, che di sol vestita, nella quale il poeta implora perdono ed esprime un intenso desiderio di superare
ogni conflitto, spera di trovare finalmente la pace. E “pace” è appunto l’ultima emblematica parola della
canzone, la parola che chiude e suggella il libro. La lirica, frutto di una forte devozione mariana che Petrarca
aveva sviluppato negli ultimi anni di vita, presenza una forte tensione spirituale ed ha il tono di una
confessione verso Maria invocata dal poeta a giustificare gli errori commessi: Petrarca vive tra il peccato e
le ansie di redenzione, tra una solenne tensione spirituale e il ricordo delle passioni terrene. I versi sono
contraddistinti da espressioni liturgiche e da accenti mistici. Il vocativo Vergine è la parola iniziale del primo
e del nono verso di ogni stanza, cosicché il ritmo è quello di un’invocazione strutturata rigorosamente. Nel
congedo il poeta non si rivolge alla Canzone, ma ancora alla Vergine perché lo accolga nella pace eterna. Il
Canzoniere può essere considerato alla strega di un’autobiografia spirituale del poeta, come le Confessioni
di Sant’Agostino, scrittore e teologo che fu modello spirituale per Petrarca. Si dice infatti che tutta la lirica di
Petrarca sia un sommesso colloquio del poeta con la propria anima. La sua poesia ha un carattere
psicologico, senza toni realistici o narrativi. Il tema dominante è il dissidio interiore che il poeta prova tra
l’attrazione verso i piaceri terreni e l’amore per Laura, e la tensione spirituale verso Dio. Dall’idea di amore-
peccato del primo sonetto, egli giunge alla conclusione dell’opera con la canzone alla Vergine che è una
palinodia (termine che indica ogni componimento poetico che si configura come una ritrattazione di parole
o idee precedentemente espresse) religiosa che chiude l’opera secondo una parabola spirituale ascendente
tipicamente medievale. Il messaggio petrarchesco, nonostante la sua presa di posizione a favore della
natura umana, non si dislega dalla dimensione religiosa: difatti, il legame con l’agostinismo e la tensione
verso una sempre più ricercata perfezione morale, sono chiavi costanti all’interno della sua produzione
letteraria e filosofica. Rispetto, però, alla tradizione medievale, la religiosità petrarchesca è caratterizzata da
tre nuove accezioni prima d’ora mai manifestate: la prima, il rapporto intimo tra l’anima e Dio, un rapporto
basato sull’autocoscienza personale alla luce della verità divina; la seconda, la rivalutazione della tradizione
morale e filosofica classica, vista in un rapporto di continuità con il cristianesimo e non più in chiave di
contrasto o di mera subordinazione; la terza, infine, il rapport esclusivo tra Petrarca e Dio, che rifiuta la
concezione collettiva propria della Commedia di Dante. Possiamo trovare frequenti riferimenti biblici
all’interno del Rerum Vulgarium Fragmenta. Spesso il verso petrarchesco ricalca passi della Bibbia, come ad
esempio nel sonetto LXXXI egli riprende il vangelo di Matteo (XI,28) e la terzina finale riprende il salmo
LIV,7. Petrarca si sente smarrito tra realtà e sogno, immerso nell’angosciosa solitudine, ricercatore di un
isolamento dal mondo, aspiratore a una dimensione spirituale che però è difficile da conquistare. Egli
riconosce, già alla fine del primo sonetto, che frutto del suo seguire le vanità terrene sono la vergogna, il
pentimento ed il riconoscere che “quanto piace al mondo è breve sogno”, riecheggiando così il biblico
vanitas vanitatum dell’Ecclesiase (Qoelet 2). Alcuni componimenti hanno il carattere di splendide
preghiere, come i sonetti Padre del ciel, Tennemi Amor, Io vo piangendo, la canzone alla Vergine. La
canzone Chiare fresche e dolci acque mostra un’anima tra l’angoscia della realtà e la dolce malinconia del
sogno. Come in questa canzone o nel sonetto O cameretta che già fosti porto, la valle piena dei suoi lamenti
e l’aria calda dei suoi sospiri ed il dolce sentiero, l’usignolo. I dolci colli ed il vago augelletto non
rappresentano una natura esteriore, ma creature di un mondo interiorizzato, vagheggiato
nell’immaginazione, confidenti delle pene recondite del poeta che spesso si rifugia in un clima di sogno e di
immaginazione. Il paesaggio è funzionale ai moti dell’anima ed esprime tutta la vaghezza del sentimento
amoroso.

Un gruppo diversificato e a sé stante nel Canzoniere sono i cosiddetti sonetti “avignonesi”. Petrarca, tra il
1320 e il 1351, risiedette principalmente ad Avignone, dove il padre aveva trovato un’occupazione presso la
corte papale, la quale si era trasferita lì nel 1309 con Clemente V. il poeta, divenuto intimo della famiglia
romana di Colonna e presi quindi gli ordini sacri, entrò a far parte della corte pontificia avignonese. Con il
passare degli anni, però, in Petrarca iniziò a maturare, insieme ad una più intima adesione ai valori classici,
anche una conversione interiore maturata sull’insegnamento di Agostino d’Ippona e quindi sul
neoplatonismo cristiano. Nel decennio del 1340, distaccatosi progressivamente dai Colonna e ritiratosi a
Valchiusa, maturò una profonda avversione verso la mondanità della Chiesa scrivendo tra il 45 e il 47, tre
sonetti contro la corte papale. I sonetti, inseriti poi nell’opera, vengono definiti “avignonesi” o “babilonesi”
e mostrano uno slancio di indignazione civile e religiosa di forte intensità in cui la curia avignonese è
paragonata alla grande meretrice dell’Apocalisse. Petrarca nel Canzoniere si dedica anche alla letteratura
civile. Nel ‘300 l’Italia era divisa in tanti Stati in lotta fra di loro e su di essa imperversava la minaccia
dell’invasione straniera e della decadenza civile e spirituale. Le due più significative sono le canzoni Spirto
gentil e Italia mia. Nella prima canzone (LIII) Petrarca si aspetta un condottiero, un “signor valoroso, accorto
e saggio”, capace di risollevare le sorti di Roma e così dell’intera nazione italica. Dietro a questo
personaggio ci sono varie personificazioni, tra cui la figura di Cola di Rienzo, con il quale lo scrittore era in
relazione dopo un’ambasciata di Cola ad Avignone. Nella seconda canzone citata, invece, i reggenti delle
signorie italiane sono invitati a chiamare a raccolta il popolo, erede delle virtù romane, contro i soldati
mercenari germanici discendenti dai barbari sconfitti dai Romani. Per definire il Canzoniere dal punto di
vista linguistico, il critico Contini ha utilizzato il termine unilinguismo, contrapposto al plurilinguismo della
Divina Commedia. Con questa espressione, il critico, intende uno stile medio che evita sia il registro alto, sia
il registro popolare, nonché i toni accesi. Si registra quindi uno stile mediano, moderato, incentrato sulla
scelta ben definita dei vocaboli da utilizzare che non cadano né nell’aulicismo, né nel registro comico-
popolare. Bisogna inoltre ricordare che il volgare, per Francesco, non aveva quel valore artistico e di
celebrazione della propria figura presso i posteri che voleva consegnare tramite l’Affrica e altre opere
latine. La prima edizione a stampa del Canzoniere si ebbe nel 1470 a Venezia, e di questa edizione
principale si trovano poco meno di trenta copie, conservate avidamente in biblioteche italiane, europee e
americane. Nelle decine di altre stampe dell’ultimo trentennio del 1400, si distingue, per il notevole valore
filologico, quella del 1472. Questa edizione, nonostante gli errori di lettura e di trascrizione, si rivela
condotta direttamente sull’originale vaticano. Fondamentale per la costituzione della vulgata petrarchesca
è stata l’edizione aldina, stampata a Venezia del 1501 e curata da Pietro Bembo. L’edizione veniva
presentata come fondata sull’originale del poeta, ma in realtà si tratterebbe di una riproduzione di una
copia manoscritta del canzoniere, pervenutaci come codice Vaticano Latino 3197, che non deriva
direttamente dall’originale. Il Canzoniere non fu immediatamente recepito tra la produzione più
significativa di Petrarca: l’età dell’umanesimo, incentrata sul monolinguismo latino e sul valore dei classici
latini e greci, recepì invece il Petrarca dell’Affrica e del De viris illustribus. La situazione cominciò a mutare
quando, verso l’ultimo quarto del XV secolo, si assistette alla rinascita del volgare grazie agli sforzi di
Lorenzo il Magnifico, e si procedette alla valutazione dell’opera volgare petrarchesca, destando in questi
uomini l’ammirazione per il Canzoniere, come testimoniato dalla Raccolta Aragonese del 477. Ne seguì un
rinnovato interesse generale per il “Petrarca volgare”. Alla consacrazione di Petrarca a supremo modello di
arte poetica, però, si assistette al principio del XIV secolo ad opera del letterato e futuro cardinale Pietro
Bembo. Egli, già curatore delle Rime petrarchesche nel 1501, con le Prose della volgar lingua del 1525
procedette alla canonizzazione di Francesco come maestro di poesia volgare. La lezione di Bembo diede
adito alla nascita del Petrarchismo, che trovò come movimento reagente l’antipetrarchismo di Pietro
Aretino. Dopo la parabola discendente del ’600 barocco ed il recupero parziale della lezione stilistica e
metrica durante l’età neoclassica con l’Accademia dell’Arcadia, Petrarca ebbe una rinascita di serio
interesse a partire dall’età romantica, come testimoniata dai saggi di Ugo Foscolo e dalla riflessione di
Giacomo Leopardi. Con essi si fondò la critica petrarchesca, seguita poi da degni discepoli. Petrarca, nel
corso del Novecento ebbe due grandi critici: Contini che coniò il termine monolinguismo o unilinguismo
petrarchesco; Billanovich studiò il carattere elitario di nume protettore dell’umanesimo.

Commento canzone: Vergine bella, che di sol vestita.

“Vergine bella, che di sol vestita”, conosciuta anche come “Vergine bella” è l’ultima canzone e anche ultimo
componimento del Canzoniere (CCCLXVI) e assume quindi un ruolo di fondamentale importanza nella
struttura dell’opera e nel senso della poetica dell’autore. È una canzone di preghiera, in cui egli chiede alla
Madonna di “liberarlo” dall’amore terreno per Laura, per lui motivo di innumerevoli patimenti, e di
intercedere presso Dio affinchè accolga il suo spirito in pace. La Canzone presenta il seguente sviluppo
tematico:

 Nela prima stanza il poeta celebra la bellezza della Vergine e la prega di soccorrerlo, affinché possa
liberarsi dal peccato: la Vergine accoglie sempre le preghiere di chi ha la fede nell’invocarla.
 Nella seconda stanza il poeta loda la saggezza della Vergine e la supplica di illuminare il suo animo
incerto e senza guida: la Vergine protegge gli uomini contro le avversità del peccato e della fortuna.
 Nella terza stanza il poeta glorifica la purezza della Vergine e la implora di redimerlo dal peccato: la
Vergine aiuta l’uomo a salvarsi nel momento della morte.
 Nella quarta stanza il poeta loda la perfezione della Vergine e le chiede di guidarlo verso la salvezza:
la Vergine porta gioia.
 Nella sesta stanza il poeta magnifica la Vergine stella luminosa nel mare tempestoso ella vita
terrena e la prega di salvarlo.
 Dalla settima stanza al Congedo, il poeta rievoca il proprio amore per Laura; si dice pentito e, con la
consapevolezza dell’approssimarsi della morte, chiede alla Vergine di prendere il posto di Laura per
condurlo dalla vita terrena a quella ultraterrena: la Vergine può mettere fine alla sofferenza del
poeta e purificarlo da tutti i suoi peccati.

La lirica presenta una forte tensione spirituale ed ha il tono di una confessione verso Maria invocata dal
poeta a giustificare gli errori commessi: Petrarca vive tra il peccato e le ansie di redenzione, tra una solenne
tensione spirituale e il ricordo delle passioni terrene. I versi sono contraddistinti da espressioni liturgiche e
da accenti mistici ed il vocativo Vergine, come già detto in precedenza, è la prima parola del primo e del
nono verso di ogni stanza.

La struttura metrica appare semplice per poi divenire complessa con il prolungarsi della canzone: si tratta di
una canzone di dieci strofe (o stanze), ciascuna di tredici versi, dieci endecasillabi e tre settenari, con rime
secondo lo schema ABC BAC nella fronte, CddCEfE nella sirma, collegata alla fronte dalla chiave (C). l’ultimo
endecasillabo di ogni stanza ha una rima nel mezzo con il settenario precedente. Il Congedo ripete lo
schema della sirma. Ogni stanza quindi si apre sempre con il vocativo "Vergine”, in molti casi seguito da un
aggettivo ("bella", "saggia", "pura", "santa", "sola", "chiara", "humana"), così come avviene nel terzo verso
della sirma di ogni strofa. Il penultimo verso di ogni stanza presenta rima al mezzo col verso successivo,
come avviene nel congedo. La lingua presenta i consueti numerosi latinismi, tra cui "extrema" (v. 10),
"humane" (v. 10 e altrove), "et" (v. 13 e altrove), "afflicte" (v. 17), "trïumpha" (v. 19), "electa" (v. 34),
"gratia" (v. 37), "humiltate" (v. 41), "exempio" (v. 53), eccetera. Proprio secondo le ideologie medievali,
Maria viene invocata dal poeta in nome della sua purezza e come soccorritrice dei peccatori in virtù della
grazia di cui è ripiena, inoltre è designata come la donna che ha avuto l’altissimo privilegio di consentire
l’incarnazione di Cristo, madre e figlia del suo Creatore. Ella viene definito anche come esempio fulgido di
umiltà e astro in grado di guidare gli uomini in terra proprio come un astro guida i marinai durante la
tempesta, secondo il motivo assai diffuso “Stella maris” e riprendendo in parte l’immagine usata da
Petrarca nel sonetto 272, in cui in realtà le stelle ormai spente che non possono più salvare il poeta dalla
burrasca sono gli occhi di Laura (dal sonetto La vita fugge, et non s’arresta una hora). Petrarca, dal verso 81,
in termini ambigui di condanna morale e rievocazione nostalgica, fa comprendere che il rimpianto espresso
in questa canzone è dovuto in larga parte all’amore peccaminoso per Laura: egli rammenta come abbia
sparso vanamente lacrime e preghiere per una “Mortal bellezza” che lo ha distolto dal bene e dalla virtù,
condannandolo a una vita raminga e priva di pace, mentre Laura viene poi ricordata come “terra”, quindi
come creatura mortale che ormai è morta e sepolta, e, più avanti, come “poca mortal terra caduca” (v.
121), di fatto contrapponendola a Maria in quanto è stata per lui fonte i tentazione e deviazione morale. La
donna viene tuttavia elogiata anche in quanto ha opposto un rifiuto alla corte del poeta, cosa che gli ha
causato enorme afflizione ma ha anche preservato la salvezza dell’anima di lui non gettando discredito sulla
reputazione di lei, per cui si arriva al paradosso che Petrarca rimpiange ciò che non è avvenuto; tuttavia, è
lieto perché questo non ha causato danno alla sua anima pur avendogli provocato pena e dolore per lo
struggimento di questo amore impossibile. L’autore confessa in ogni caso di serbare “mirabil fede” alla
memoria di Laura, per cui appare chiaro che il contrasto interiore non è interamente risolto e che, Petrarca,
pur essendo consapevole dell’errore morale del suo amore per la donna, non riesce a liberarsene del tutto
neppure anni dopo la morte di lei e nell’imminenza del proprio trapasso che lo induce appunto a rivolgersi
alla Vergine con questa sorta di preghiera. I versi 111-112 descrivono Laura come una nuova “Medusa” che
ha trasformato Petrarca in un “sasso”, ovvero lo ha fatto divenire insensibile e torpido, che tuttavia fa
uscire “umor vano stillante” (lacrime), con un’immagine bizzarra, l’acqua che esce dalla roccia, che verrà
anche ripreso da Ariosto nel Furioso. Tra i moltissimi riferimenti scritturali e innografici presenti nella
canzone, non si può evitare di prendere in considerazione quello dei versi 14-16 in cui Maria viene definita
la prima e più saggia delle “vergini savie”, le protagoniste della parabola evangelica in cui dieci vergini
attendono l’arrivo dello sposo con una lampada. Considerando l’interpretazione allegorica del brano
evangelico, l’accostamento con Maria acquista ancora maggior rilievo, soprattutto quando, pochi versi
dopo, Petrarca ricorda il martirio di Gesù e lo strazio della Vergine nel vedere la “spietata stampa” sul corpo
del figlio.

Vergine bella, che di sol vestita.

Vergine bella, che di sol vestita, O Vergine bella, che rivestita di sole e coronata di
5 coronata di stelle, al sommo Sole stelle sei piaciuta al sommo sole [Dio] al punto
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose, che ha nascosto in te la sua luce, l'amore mi
amor mi spinge a dir di te parole: spinge a parlare di te: ma non so iniziare senza il
ma non so ’ncominciar senza tu’ aita, tuo aiuto, e di Colui [Cristo] che amando si pose
et di Colui ch’amando in te si pose. in te [si incarnò]. Invoco colei che ha sempre
10 Invoco lei che ben sempre rispose, risposto benevolmente a chi l'ha invocata con
chi la chiamò con fede: fede: Vergine, se mai l'estrema miseria delle cose
Vergine, s’a mercede umane ti ha mosso a pietà, chinati alla mia
miseria extrema de l’humane cose preghiera e vieni in soccorso alle mie pene, anche
già mai ti volse, al mio prego t’inchina, se io sono una creatura mortale e tu la regina del
soccorri a la mia guerra, cielo.
15 bench’i’ sia terra,   et tu del ciel regina.

Vergine saggia, et del bel numero una


de le beate vergini prudenti,
anzi la prima, et con piú chiara lampa; O Vergine saggia, una del bel numero delle beate
20 o saldo scudo de l’afflicte genti vergini savie e anzi la prima, con una lampada
contra colpi di Morte et di Fortuna, più luminosa; o saldo scudo delle persone afflitte
sotto ’l qual si trïumpha, non pur scampa; contro i colpi della morte e della fortuna, sotto il
o refrigerio al cieco ardor ch’avampa quale non solo si trova scampo ma si trionfa; o
qui fra i mortali sciocchi: refrigerio al cieco ardore [della passione] che
25 Vergine, que’ belli occhi avvampa qui tra gli sciocchi mortali: o Vergine,
che vider tristi la spietata stampa rivolgi quei begli occhi che, tristi, videro le
ne’ dolci membri del tuo caro figlio, terribili piaghe nelle dolci membra del tuo caro
volgi al mio dubbio stato, figlio [Cristo], alla mia incerta condizione poiché,
che sconsigliato   a te vèn per consiglio. non sapendo che fare, vengo a te per avere
consiglio.
30 Vergine pura, d’ogni parte intera,
del tuo parto gentil figliola et madre,
O Vergine pura, intatta in ogni tua parte, figlia e
ch’allumi questa vita, et l’altra adorni,
madre del tuo nobile parto, che illumini questa
per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre,
vita e adorni quella eterna, grazie a te il figlio tuo
o fenestra del ciel lucente altera,
e del sommo Padre [Cristo], o lucente e altissima
35 venne a salvarne in su li extremi giorni;
finestra del cielo, venne a salvarci negli ultimi
et fra tutt’i terreni altri soggiorni
giorni; e tu sola fosti scelta tra tutti gli altri
sola tu fosti electa,
soggiorni terreni [tra le altre donne], o Vergine
Vergine benedetta,
benedetta, che trasformi in gioia il pianto di Eva.
che ’l pianto d’Eva in allegrezza torni.
Fammi degno della grazia di Dio, visto che puoi,
Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno,
tu che sei beata senza fine, già incoronata nel
40 senza fine o beata,
regno superbo.
già coronata   nel superno regno.

O Vergine santa piena di ogni grazia, che per


Vergine santa d’ogni gratia piena,
vera ed altissima umiltà sei salita al cielo da dove
che per vera et altissima humiltate
ascolti le mie preghiere, tu hai partorito la fonte
45 salisti al ciel onde miei preghi ascolti,
di pietà [Cristo] e il sole della giustizia, che
tu partoristi il fonte di pietate,
rasserena il mondo pieno di errori oscuri e fitti; in
et di giustitia il sol, che rasserena
te hai riunito tre nomi dolci e cari, quello di
il secol pien d’errori oscuri et folti;
madre, di figlia e di sposa: o Vergine gloriosa,
tre dolci et cari nomi ài in te raccolti,
sposa del Re che ha sciolto i nostri legami e ha
50 madre, figliuola et sposa:
reso il mondo libero e felice, io ti prego di
Vergina glorïosa,
appagare il mio cuore nelle sue sante piaghe, o
donna del Re che nostri lacci à sciolti
vera beatrice.
et fatto ’l mondo libero et felice,
ne le cui sante piaghe
O Vergine unica e senza altro esempio al mondo,
prego ch’appaghe   il cor, vera beatrice.
che hai fatto innamorare il cielo con la tua
55
bellezza, rispetto alla quale nessun'altra donna
Vergine sola al mondo senza exempio,
simile fu superiore né prossima, i tuoi pensieri
che ’l ciel di tue bellezze innamorasti,
santi, i tuoi atti pietosi e casti fecero nella tua
cui né prima fu simil né seconda,
feconda verginità un sacro e vivo tempio al vero
santi penseri, atti pietosi et casti
Dio. Grazie a te la mia vita può essere felice, se
60 al vero Dio sacrato et vivo tempio
alle tue preghiere, o Maria, dolce e pia Vergine,
fecero in tua verginità feconda.
la tua grazia è generosa dove il peccato è stato
Per te pò la mia vita esser ioconda,
grande. Con le ginocchia della mente chinate, ti
s’a’ tuoi preghi, o Maria,
prego di farmi da scorta e di indirizzare a un
Vergine dolce et pia,
buon fine la mia strada deviata.
65 ove ’l fallo abondò, la gratia abonda.
Con le ginocchia de la mente inchine,
O Vergine luminosa e ferma in eterno, stella di
prego che sia mia scorta,
questo mare in tempesta, guida fidata di ogni
et la mia torta   via drizzi a buon fine.
navigatore fedele, pensa in quale orribile
tempesta mi trovo da solo, senza timoniere, e
Vergine chiara et stabile in eterno,
sono ormai vicino a emettere le ultime grida [alla
70 di questo tempestoso mare stella,
dannazione]. Ma la mia anima (peccatrice, non
d’ogni fedel nocchier fidata guida,
lo nego) confida solo in te, Vergine; ma ti prego
pon’ mente in che terribile procella
i’ mi ritrovo sol, senza governo, affinché il tuo nemico [il demonio] non rida della
et ò già da vicin l’ultime strida. mia dannazione: ricordati che i nostri peccati
75 Ma pur in te l’anima mia si fida, indussero Dio ad assumere carne umana [a
peccatrice, i’ no ’l nego, diventare uomo] nel tuo chiostro virginale
Vergine; ma ti prego [venendo concepito in te].
che ’l tuo nemico del mio mal non rida:
ricorditi che fece il peccar nostro,
prender Dio per scamparne,
O Vergine, quante lacrime, quante lusinghe e
80 humana carne   al tuo virginal chiostro.
quante preghiere ho già sparso invano, solo per il
mio dolore e con mio grave danno! Da quanto
Vergine, quante lagrime ò già sparte,
sono nato sulle rive dell'Arno [da padre
quante lusinghe et quanti preghi indarno,
fiorentino], viaggiando ora in questo ora in quel
pur per mia pena et per mio grave danno!
luogo, la mia vita non è stata altro che affanno.
85 Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
Una bellezza umana, gesti e parole [di Laura] mi
cercando or questa et or quel’altra parte,
hanno totalmente occupato l'anima. Vergine
non è stata mia vita altro ch’affanno.
sacra e nobile, non tardare a venire, poiché sono
Mortal bellezza, atti et parole m’ànno
forse giunto alla fine della mia vita. I miei giorni
tutta ingombrata l’alma.
se ne sono andati più veloci di una freccia tra
90 Vergine sacra et alma,
miserie e peccati, e solo la Morte mi aspetta.
non tardar, ch’i’ son forse a l’ultimo anno.
I dí miei piú correnti che saetta
O Vergine, una donna [Laura] è diventata terra
fra miserie et peccati
[è morta] e ha causato dolore al mio cuore, dopo
sonsen’ andati,   et sol Morte n’aspetta.
che che da viva lo ha tenuto in pianto e non
sapeva neppure uno dei miei molti mali: e se
95 Vergine, tale è terra, et posto à in doglia
anche lo avesse saputo, sarebbe successo proprio
lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne
quel che è avvenuto, poiché ogni altro suo
et de mille miei mali un non sapea:
desiderio sarebbe stato per me la morte
et per saperlo, pur quel che n’avenne
dell'anima e per lei cattiva reputazione. Ora tu,
fôra avenuto, ch’ogni altra sua voglia
signora del cielo, tu nostra dea (se si può ed è
10 era a me morte, et a lei fama rea.
opportuno dirlo), Vergine di alti sentimenti, tu
0 Or tu donna del ciel, tu nostra dea
vedi ogni cosa; e ciò che altri non potevano fare
(se dir lice, e convensi),
è un nonnulla alla tua grande virtù, poni fine al
Vergine d’alti sensi,
mio dolore; ciò sarà un onore per te e per me la
tu vedi il tutto; e quel che non potea
salvezza.
far altri, è nulla a la tua gran vertute,
por fine al mio dolore;
O Vergine, in cui ripongo tutta la mia speranza
10 ch’a te honore,   et a me fia salute.
che tu possa e voglia aiutarmi nel momento del
5
bisogno, non mi abbandonare in punto di morte.
Vergine, in cui ò tutta mia speranza
Non guardare me, ma Colui [Dio] che si degnò di
che possi et vogli al gran bisogno aitarme,
crearmi; non guardare il mio valore, ma la Sua
non mi lasciare in su l’extremo passo.
alta sembianza che è in me ti spinga a soccorrere
Non guardar me, ma Chi degnò crearme;
un uomo tanto misero. Medusa [Laura] e il mio
11 no ’l mio valor, ma l’alta Sua sembianza,
peccato mi hanno tramutato in un sasso da cui
0 ch’è in me, ti mova a curar d’uom sí basso.
sgorga un inutile umore [le lacrime]: Vergine, tu
Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso
riempi il mio cuore spossato di lacrime sante e
d’umor vano stillante:
pie, così che almeno l'ultimo pianto sia devoto,
Vergine, tu di sante
privo di fango terreno, come invece il primo fu
lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso,
pieno di follia [per l'amore di Laura].
11 ch’almen l’ultimo pianto sia devoto,
5 senza terrestro limo,
come fu ’l primo   non d’insania vòto. O Vergine umana, nemica dell'orgoglio, l'amore
della nostra comune origine ti spinga: abbi pietà
Vergine humana, et nemica d’orgoglio, di un cuore umile e pentito. Infatti, se continuo
del comune principio amor t’induca: ad amare con fedeltà mirabile un pugno di terra
miserere d’un cor contrito humile. mortale e destinata a perire [Laura], cosa dovrò
12 Che se poca mortal terra caduca fare verso di te, nobile creatura? Se io risorgo dal
0 amar con sí mirabil fede soglio, mio stato misero e vile grazie alle tue mani, o
che devrò far di te, cosa gentile? Vergine, in nome tuo io consacro e depuro il mio
Se dal mio stato assai misero et vile pensiero, il mio ingegno e la mia penna, la
per le tue man’ resurgo, lingua, il cuore, le lacrime e i sospiri. Conducimi
Vergine, i’ sacro et purgo al guado più sicuro e accetta benevolmente i miei
12 al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile, mutati desideri.
5 la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri.
Scorgimi al miglior guado, Il giorno [della mia morte] si avvicina e non può
et prendi in grado   i cangiati desiri. essere lontano, a tal punto il tempo corre e vola,
Vergine sola e unica, e il mio cuore è punto ora
Il dí s’appressa, et non pòte esser lunge, dalla coscienza, ora dalla morte. Raccomandami
13 sí corre il tempo et vola, al tuo figliolo [Cristo], vero uomo e vero Dio,
0 Vergine unica et sola, affinché accolga in pace il mio ultimo respiro.
e ’l cor or coscïentia or morte punge.
Raccomandami al tuo figliuol, verace
homo et verace Dio,
ch’accolga ’l mïo   spirto ultimo in pace.

13
5

Commento sonetti 61-62

Il sonetto è composto secondo il seguente schema metrico: ABBA. ABBA, CDC, DCD. Il tema è la
celebrazione dell’amore per Laura, espresso in una forma quasi liturgica perché ricalca la forma di
benedizione presente nella religione cattolica. Ogni aspetto di tale amore, che viene personificato perché
scritto con la A maiuscola, è giudicato in modo positivo: perfino gli affanni diventano dolci, come pure le
ferite, le lacrime ed i sospiri. La struttura del sonetto è abbastanza semplice: si tratta di una lunga
enumerazione degli aspetti, dei luoghi (Petrarca conobbe Laura il Venerdì Santo del 1327, nella chiesa di
Santa Chiara ad Avignone) e dei vari momenti dell’esperienza amorosa del Petrarca, attraverso una serie di
sostantivi, via via ampliati con delle relative. Questo elenco si regge su di un’anafora: benedetto, benedette.
e viene utilizzata la tecnica dell’accumulazione di elementi, tramite la figura sintattica del polisideto, cioè il
collegamento di un periodo con numerose e ripetute congiunzioni (e…e…e).
Da notare, tuttavia, la presenza di alcuni termini in antitesi con il piacere e la gioia che di solito dà l’amore:
piaghe, lacrime, affanno. La loro presenza all’interno di una lode all’amore trova una spiegazione nella
sensibilità del poeta e soprattutto nel contrasto interiore e nell’amore non corrisposto. Nella prima stanza
Petrarca inizia col benedire tutto ciò che riguarda il tempo e lo spazio del momento in cui conobbe la sua
amata; interessante vedere però come non faccia il suo nome in questo sonetto che è palesemente
dedicato alla gioia che egli ebbe durante il loro primo incontro. Un aspetto che mi ha sempre colpito è
leggere, alla fine del verso 4, il termine “legato”: considerando la Canzone finale della raccolta del poeta,
questo termine rispecchia i suoi sentimenti contrastanti verso Laura, ovvero quell’amore così forte e malato
da condurlo in una via errata, dove non si riesce a pensare ad altro che alla persona amata, senza capacità
di discernere sulle verità importanti della vita, un amore malsano che distoglie il poeta dall’amore verso la
Virtù e la Gloria. Il poeta però non rinnega e non denigra i sentimenti provati per Laura, tant’è che passando
alla successiva stanza possiamo leggere: “e benedetto sia […] l’arco e le frecce da cui sono stato trafitto”.
Questi versi avvalorano ciò che dicevo pocanzi, ossia che il poeta provasse un amore così malato da ferirsi
costantemente, ma, nonostante sapesse del dolore che andava provocandosi, continuò, imperterrito, ad
amare la stessa donna per tutto il resto della sua vita, benedicendo addirittura il suo pensiero e continua
consolidando il possesso dei suoi pensieri da parte dell’amata dicendo “che è soltanto suo, nessun’altra
donna vi trova posto”.

Il sonetto successivo segue lo schema metrico ABBA, ABBA, CDE, CDE, proprio come il precedente.
Per comprenderne meglio l’importanza e collocarlo adeguatamente all’interno del pensiero del Petrarca, il
sonetto deve essere considerato come antitetico rispetto all’ altro BENEDETTO SIA ‘L GIORNO, ‘L MESE, ET
L’ANNO.
Questo accostamento è utile per capire l’oscillazione dell’animo del poeta che, se da un lato, è totalmente
soggetto alla passione, dall’altro è pronto a chiedere perdono a Dio per il tempo passato a correre dietro a
cose indegne. Questa insistenza a volte è presente nello stesso componimento poetico, se non addirittura
nello stesso verso.
La struttura del sonetto è piuttosto lineare.
Nella prima quartina dopo aver invocato Dio, il poeta ricorda il proprio passato per mettere in evidenza la
vanità dell’esperienza amorosa ed il tormento che ne deriva.
Nella seconda quartina, dopo essersi ricollegato all’ invocazione precedente, esso si rivolge verso il futuro
per contemplare nella preghiera la pace spirituale tanto desiderata.
Nella prima terzina, il poeta constata quanto il suo tormento amoroso duri ancora, benché siano passati
undici anni di vita colpevole.
Infine, nell’ultima quartina, il Petrarca rivolge una triplice invocazione a Dio, ricorrendo a tre imperativi:
Miserere. Reduci i pensier' Vaghi. Ramenta lor.
Nel sonetto non esiste alcun cenno a Laura: di lei sono ricordati solo gli atti leggiadri e seducenti per il
poeta, causa della passione amorosa di cui egli ora si sta pentendo. La particolarità di questo sonetto che mi
lascia riflettere, è come il poeta riesca a mettere insieme quell’amore e quell’odio, dovuti entrambi allo
stesso motivo, l’infatuazione per Laura. In questo sonetto egli utilizza dei termini forti, aspri, dettati dal
dolore, quasi come se veramente fosse affranto da questo amore che egli ha provato, prova e proverà per
tutta la vita. Una delle frasi che mi affascina in questo sonetto, la ritroviamo nella seconda stanza, quarto
verso, “il mio duro adversario se ne scorni” (il mio duro avversario risulti sconfitto). Il termine avversario in
questo caso viene utilizzato da Petrarca per riferirsi all’amore per Laura, che, come possiamo leggere poco
prima, ha teso invano le reti (per catturarlo n.d.r.). Subito dopo, nella seguente stanza, leggiamo come il
Poeta sia stato “sommesso al dispietato giogo che sopra i più soggetti è più feroce” (sottomesso allo
spietato giogo dell’amore che è tanto più crudele quanto più a lui si è sottomessi). Questa è una frase molto
dura e molto complicata, che fa capire veramente quanto il poeta fosse distrutto da quest’amore folle che
lo soggiogava e lo tratteneva in una situazione così soffocante da dover chiedere perdono per l’aver amato.
Un altro verso degno di nota è quello alla fine della quarta stanza: “ramenta lor come oggi fusti in croce”
(ricorda loro che in questo giorno tu sei morto in croce). Il poeta qui vuole che Dio conduca i suoi pensieri
non più agli obbiettivi falsi della vita (amore soggiogante), ma al ricordo della morte di cristo per l’umanità.
L’utilizzo dell’avverbio temporale “oggi” ci fa capire che probabilmente questo sonetto sia stato scritto il
Venerdì Santo, lo stesso giorno, 11 anni dopo, che ebbe il primo incontro con Laura.
5. LXI. Siano benedetti il giorno, il mese e l’anno,
Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno, e la stagione, e il tempo, e l’ora e il momento preciso,
e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto, ed il bel paese ed il luogo in cui io fui catturato
e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto dai due begli occhi che mi hanno legato;
da’ duo begli occhi che legato m’hanno; e benedetto sia il primo dolce affanno
e benedetto il primo dolce affanno che provai per il fatto di essermi innamorato,
e l’arco e le frecce da cui sono stato trafitto,
ch’i’ebbi ad esser con Amor congiunto,
e le ferite che mi giungono fino al cuore.
e l’arco, e le saette ond’i’ fui punto,
e le piaghe che ’nfin al cor mi vanno. Benedette siano le numerose parole che io
chiamando il nome della mia donna ho sparto
Benedette le voci tante ch’io e i sospiri, e le lacrime, e il desiderio
chiamando il nome de mia donna ho sparte,
e i sospiri, e le lagrime, e ’l desio; e benedette siano tutte le poesie (i fogli di carta su cui scrivo
poesie)
e benedette sian tutte le carte mediante le quali io divento famoso, ed il mio pensiero
ov’io fama l’acquisto, e ’l pensier mio, che è soltanto suo, cosicché nessun’altra donna vi trova posto.
ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’ha parte. O padre del cielo [questa invocazione ricorda il Pater noster
6. LXII. qui es in caelis], dopo aver dissipato giorni,
dopo aver dissipato notti, inseguendo vane passioni,
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
con quella prepotente passione che si accese nel mio cuore,
dopo le notti vaneggiando spese,
quando, per mia sventura, contemplai gli atti così leggiadri [di
con quel fero desio ch’al cor s’accese, Laura],
mirando gli atti per mio mal sì adorni,
che ti piaccia, in virtù della tua illuminazione, che io ritorni
piacciati omai col Tuo lume ch’io torni ad una vita del tutto diversa e ad azioni più belle,
ad altra vita et a più belle imprese, affinché, dopo aver invano teso le reti [per catturarmi]
sì ch’avendo le reti indarno tese, il mio duro avversario risulti sconfitto.
il mio duro adversario se ne scorni.
Sono ormai passati undici anni, o mio Signore,
Or volge, Signor mio, l’undecimo anno da quando io fui sottomesso allo spietato giogo dell’amore
ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo che è tanto più crudele quanto più si è a lui sottomessi.
che sopra i più soggetti è più feroce. Abbi misericordia del mio indegno affanno;
conduci i miei pensieri, che inseguono falsi obiettivi, verso un
’’Miserere’’ del mio non degno affanno;
oggetto più degno;
reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo; ricorda loro che in questo giorno tu sei morto in croce.
ramenta lor come oggi fusti in croce.
Giovanni Boccaccio
Giovanni boccaccio nasce nel 1313 a Firenze (o Certaldo) e muore nel 1375 a Certaldo. Figlio di una
relazione illegittima (figlio di donna ignota), si trasferisce nel 1327 a Napoli, fino al 1340. Napoli è il luogo
della sua prima formazione culturale. Madonna Fiammetta fu la sua donna amata, equiparata a beatrice e
laura. Scrisse tante opere e poesie tra il 1330 e il 1340. Nel 1340 torna a Firenze, recupera il contatto con la
tradizione fiorentina e approfondisce il suo culto per dante. A Firenze ha una grossa produzione letteraria,
tra il 1341 e il 1346. Al termine di queste prove letterarie inizia un viaggio alla ricerca di una fissa dimora,
Ravenna, Forlì e poi di nuovo Firenze nel 1348 durante la peste nera che provoca la morte del padre e della
matrigna. Subito dopo la peste scrisse il Decamerone, finito nel 1351. Nel 1350 torna a Ravenna con il
compito di consegnare 10 fiorini alla figlia di dante come ricompensa per le opere del padre. Egli
considerava Petrarca come “magister”. Ebbe 5 presunti figli illegittimi da altrettante donne, e la morte di
una delle sue figlie lo segnò particolarmente. Nel 1360 accede alla condizione di chierico, Innocenzo VI lo
autorizza in una bolla. Ebbe un grosso periodo di crisi che culminò con il suo ritiro a Certaldo nel 1361. A
Certaldo inizia un periodo di studio e meditazione, scrive in latino e in volgare. Durante la vecchiaia, tra
obesità e studio, i suoi viaggi continuano, nel 1373 venne chiamato a Firenze per una lettura della divina
commedia che portò avanti per poco, fino alla sua morte, nel 1375, a Certaldo.

Il Decamerone

Composto probabilmente tra il 1349 e il 1351 (o il 1353), il Decameron, o Decamerone, è una raccolta di
cento novelle, scritta da Giovanni Boccaccio, considerata una delle opere più importanti della letteratura
del Trecento europeo. In quest’opera, il Boccaccio, raffigura l’intera società del tempo, integrando l’ideale
di vita aristocratico, basato sull’amor cortese, la magnanimità, la liberalità, con i valori della mercatura:
l’intelligenza, l’intraprendenza, l’astuzia. L’opera racconta di un gruppo di giovani, Sette donne e tre uomini,
che per dieci giorni si trattengono fuori da Firenze per sfuggire alla peste nera che in quel periodo
imperversava sulla città, e che a turno si raccontano delle novelle di taglio spesso umoristico e con
frequenti richiami all’erotismo bucolico del tempo. Per l’ultimo aspetto preso in questione, l’opera fu
tacciata di immoralità o di scandalo, in alcune epoche non venne spesso adeguatamente considerato nella
storia della letteratura, o addirittura venne censurato. Si può notare, come per Dante, la ricorrenza dei
numeri: già solo dal titolo e presentando l’opera possiamo notare come si ricorra al numero dieci, vedi
“Decameron” parola composta dal greco deca (dieci) e hemeron (genitivo di hemera, giorno), vedi i dieci
ragazzi che stanno fuori da Firenze per 10 giorni, vedi la composizione dell’opera, che contiene cento
novelle, ovvero dieci volte dieci.

Il titolo deriva quindi dal greco, ed è un rimando all’Exameron di Sant’Ambrogio (6 giorni), una
riformulazione in versi della Genesi. Il titolo in greco è anche sintomo dell’entusiastica riscoperta dei classici
ellenici, non filtrati in latino prima della Roma imperiale e poi da quella cristiana. L’intenzione del Boccaccio
è costruire un’analogia tra la propria opera e quella di Sant’Ambrogio: come il santo narra la creazione del
mondo e dell’umanità, allo stesso modo il Decamerone narra la “ri-creazione” dell’umanità, che avviene per
mezzo di dieci protagonisti e del loro novellare, in seguito al flagello della peste abbattutasi a Firenze nel
1348, anno precedente alla stesura del libro. A mano a mano che si susseguono racconti dei protagonisti,
tramite essi vengono ricostruiti l’immagine, le strutture relazionali e i valori dell’umanità e della società che
altrimenti sarebbero perduti, dal momento che la città è sotto l’effetto distruttivo e paralizzante della peste.
Si tratta di una metafora importante, in quanto esprime la concezione preumanistica di Boccaccio nella
quale le humanae litterae hanno la facoltà di rifondare un mondo distrutto e corrotto. In particolare, è
notevole la capacità del poeta di passare dal sublime al triviale e viceversa, senza soluzione di continuità,
pur mantenendo costante la sua estrema avversione rispetto alle aberrazioni e ai soprusi.

All’interno della sua opera, Boccaccio immagina che, durante il periodo della peste nera a Firenze, una
brigata di dieci giovani, tutti di elevata condizione sociale, decidano di cercare una possibilità di fuga dal
contagio spostandosi in campagna. Questi giovani trascorrono il tempo secondo precise regole, tra canti,
balli, giochi e preghiere. Per occupare le prime ore pomeridiane, i giovani decidono di raccontare una
novella ciascuno, tranne il venerdì e il sabato (per questo i giorni che trascorreranno insieme non saranno
esattamente dieci, ma quattoridici9, secondo precisi rituali: ad esempio, vi era l’elezione quotidiana di un re
che fissava il tema della giornata a cui tutti gli altri narratori dovranno ispirarsi nei loro racconti. Al solo
Dioneo, per la sua giovane età, è concesso di non rispettare il tema delle giornate; dovrà però raccontare la
novella per ultimo, tutti i giorni. Solo la prima e la nona giornata non hanno un tema definito come le altre.
Si sono date molteplici interpretazioni degli strani nomi attribuiti da Boccaccio ai dieci narratori, le più
condivise sono:

1. Dioneo, lussurioso;
2. Filostrato, vinto d’amore;
3. Panfilo, il Tutto amore, racconta spesso novelle ad alto contenuto erotico;
4. Elissa, l’altro nome di Didone, la regina dell’Eneide di Virgilio, l’amore tragico;
5. Emilia, l’orgogliosa della sua bellezza;
6. Fiammetta, la donna amata da Boccaccio, la fanciulla che arde d’amore come una fiamma;
7. Filomena, amante del canto, o colei che è amata;
8. Lauretta, come Laura de Noves, la donna simbolo di Petrarca, il cui nome viene da alloro, la pianta
simbolo della Gloria;
9. Neìfile, nuova amante
10. Pampìnea, la rigogliosa.

Nell’opera, le cento novelle, pur avendo spesso in comune il tema, sono diversissime l’una dall’altra, poiché
il poeta vuol rappresentare la vita di tutti i giorni nella sua grande varietà di tipi umani, di atteggiamenti
morali e psicologici, di virtù e di vizio; ne deriva che il Decameron offre una straordinaria panoramica della
civiltà del Trecento: in quest’epoca l’uomo borghese cercava di creare un rapporto fra l’armonia, la realtà
del profitto e gli ideali della nobiltà cavalleresca ormai finita. Come scritto nella conclusione dell’opera, i
temi che Boccaccio voleva illustrare al popolo sono essenzialmente due. Innanzi tutto, egli voleva mostrare
ai fiorentini che è possibile rialzarsi da qualunque disgrazia si venga colpiti, proprio come fanno i dieci
giovani con la peste che si abbatte nella loro città. Il secondo tema, invece, è legato al rispetto e ai riguardi
del poeta nei confronti delle donne: egli, infatti, scrive che quest’opera è dedicata a loro che, a quel tempo,
erano le persone che leggevano maggiormente e avevano più tempo per dedicarsi alla lettura delle sue
opere. Riguardo alla struttura complessiva dell’opera, sono state formulate numerose interpretazioni.
Un’ipotesi interessante è quella di Vittore Branca, filologo, che ipotizzò una struttura ascensionale
dell’opera, in cui vengono contrapposti l’esempio negativo fornito da ser Ciappelletto, protagonista della
prima novella della prima giornata, con quello positivo fornito da Griselda, personaggio dell’ultima novella
dell’opera (e, in generale, dai protagonisti di tutta la decima giornata, in cui si trattano esempi di liberalità e
magnificenza). Altri italianisti hanno ipotizzato una strutturazione per “grappoli tematici”, formati da più
giornate caratterizzate da tematiche simili. Un’altra ipotesi interessante è quella di dividere l’opera in due
sezioni di cinque giornate ciascuna, per le quali la prima e la sesta giornata fungono da introduzione alle
sezioni.

Il libro si apre con un proemio che delinea i motivi della stesura dell’opera. Il poeta afferma che il libro è
dedicato a coloro che sono afflitti da pene d’amore, allo scopo di dilettarli con piacevoli racconti e dare loro
utili consigli. L’autore specifica anche che l’opera è rivolta in particolare alle donne, più precisamente a
quelle che amano. Il destinatario dell’opera è la borghesia cittadina, che si contrappone all’istituto della
corte, sviluppatosi soprattutto in Francia, la novella, dunque, essendo caratterizzata da uno stile semplice,
breve e immediato, tende ad interfacciarsi con il nuovo ceto sociale, la borghesia laica, benestante e
acculturata di cui Boccaccio ne è espressione. Sempre nel proemio, egli racconta di rivolgersi alle donne per
rimediare al peccato della Fortuna: le donne possono trovare poche distrazioni dalle pene d’amore rispetto
agli uomini. Alle donne, infatti, a causa delle usanze del tempo, erano preclusi certi svaghi che agli uomini
erano concessi, come la caccia, il gioco, il commerciare; tutte attività che possono occupare l’esistenza
dell’uomo. Quindi nelle novelle le donne potranno trovare diletto e utili soluzioni che allevieranno le loro
sofferenze. Sin dal proemio, il tema dell’amore mostra la propria importanza: in effetti gran parte delle
novelle tocca questa tematica, che assume anche forme licenziose e che susciterà reazioni negative da
parte di un pubblico retrivo: per questo motivo, Boccaccio, nell’introduzione alla IV giornata e nella
conclusione dell’opera, rivendicherà il suo diritto ad una letteratura libera ed ispirata ad una concezione
naturalistica dell’Eros. L’utilizzo della cornice narrativa in cui inserire le novelle è di origine indiana. Tale
struttura passò in seguito nella letteratura araba e in occidente. La cornice è costituita da tutto ciò che si
trova al di fuori delle novelle ed in modo particolare dalla Firenze contaminata dalla peste dove un gruppo
di dieci giovani decide di ritirarsi in campagna per trovare scampo dal contagio. È per questo che Boccaccio
all’inizio dell’opera fa una lunga e dettagliata descrizione della malattia che colpì Firenze nel 1348; oltre a
decimare la popolazione, l’epidemia distrusse tutte quelle norme sociali, quegli usi e costumi che gli erano
cari. Al contrario, i giovani creano una sorta di realtà parallela quasi perfetta per dimostrare come l’uomo,
grazia all’aiuto delle proprie forze e della propria intelligenza, sia in grado di dare un ordine alle cose, che
poi sarà uno dei temi fondamentali dell’Umanesimo. In contrapposizione al mondo uniforme di questi
giovani si pongono poi le novelle, che hanno vita autonoma: la realtà descritta è soprattutto quella
mercantile e borghese; viene rappresentata l’eterogeneità del mondo e la nostalgia verso quei valori cortesi
che via via stanno per essere distrutti per sempre; i protagonisti sono moltissimi ma hanno tutti in comune
la determinazione di volersi realizzare per mezzo delle proprie forze, tutto ciò fa del Decameron un’opera
unica, poiché non si tratta di una semplice raccolta di novelle: queste sono tutte legate fra di loro attraverso
la cornice narrativa, formando una sorta di romanzo. La concezione della vita morale nel Decameron si basa
sul contrasto tra Fortuna e Natura, le due ministre del mondo. L’uomo si definisce in base a queste due
forze: una esterna, la Fortuna, che condiziona l’uomo ma che può anche essere posta a proprio favore;
l’altra interna, la Natura, con istinti e appetiti che egli deve riconoscere con intelligenza. La Fortuna nelle
novelle appare spesso come evento inaspettato che sconvolge le novelle, mentre la Natura si presenta
come forza primordiale la cui espressione prima è l’Amore come sentimento invincibile che domina insieme
l’anima e i sensi, che sa ugualmente essere pienezza gioiosa di vita e di morte. L’amore, per Boccaccio, è
una forza insopprimibile, motivo di diletto ma anche di dolore, che agisce nei più diversi strati sociali ed è
per questo che spesso si scontra con pregiudizi culturali e di costume. La virtù in questo contesto non è
mortificazione dell’istinto, ma capacità di appagare e dominare gli impulsi naturali. Nell’opera il tema della
follia compare a più riprese e si intreccia con altre tematiche, come quella della beffa e quella della follia
per amore, per la quale uno dei due amanti giunge fino alla morte. Durante tutta la IV giornata vengono
narrate novelle che trattano di amori che ebbero fine infelice: si tratta di storie in cui la morte di uno degli
amanti è inevitabile perché le leggi della Fortuna trionfano su quelle naturali dell’Amore. All’interno della
giornata, le novelle 3, 4 e 5 rappresentano un trittico che illustra in modi diversi l’amore come follia.
L’elemento che le accomuna è la presenza della Fortuna coniugata come diversità di condizione sociale:
prevale infatti la tematica dell’amore che travalica le leggi della casta e del matrimonio, che diventa una
follia sociale e motivo di scandalo. Un esempio è costituito dalla quinta novella della IV giornata, ovvero la
storia di Lisabetta da Messina e il vaso di basilico. In questa novella si sviluppa il contrasto Amore/Fortuna:
Lorenzo è un semplice garzone di bottega, bello e gentile, con tutte le qualità cortesi per suscitare amore;
Lisabetta, che appartiene a una famiglia di mercanti di San Gimignano, incarna l’energia eroica di chi resiste
all’avversa fortuna solo con la forza del silenzio e del pianto; i tre fratelli sono i garanti dell’onore della
famiglia, non tollerano la relazione della sorella con qualcuno di rango inferiore. Sono costretti ad
intervenire per riportare le cose in ordine e per ristabilire l’equilibrio sovvertito dalla pazzia amorosa di
Lisabetta. Ella è un esempio di amore dagli aspetti tragici ed elegiaci e nell’opera di Boccaccio sono presenti
altre figure femminili tragiche in cui lo scrittore vede realizzarsi pienezza di vita ed intelligenza che egli
chiama “grandezza d’animo”. Ad esempio, si possono menzionare la moglie di Guglielmo Rossiglione (IV, 9),
la quale, costretta dal marito a mangiare il cuore del suo amante, si toglie la vita gettandosi da una finestra
del castello, oppure Ghismonda di Salerno (IV, 1) che, uccisole dal padre il giovane valletto di cui si era
innamorata, si suicida stoicamente. Boccaccio affronta il tema dell’Amore mostrando con perfezione il
gioco degli istinti e dei sentimenti, senza compiacimenti per la materia sessuale, fornendo invece esempi in
cui l’Amore cozza contro il Caso o le leggi delle convenzioni sociali. Mentre per Dante la Fortuna è
un’intelligenza angelica che agisce nell’ambito di un progetto divino, la Fortuna presente nel Decameron è il
“caso”. L’opera boccacciana non è ascetica ma laica, svincolata dal teocentrismo che invece sta alla base
della Divina Commedia e della mentalità medievale della quale l’opera rappresenta l’”autunno”. L’ingegno
umano è un altro motivo ricorrente. Troviamo il gusto della beffa (Chichibio, VI, 4), la spregiudicatezza
empia di Ciappelletto (I,1), la dabbenaggine (eccessiva semplicità di mente e di animo, credulità,
sprovvedutezza) di Andreuccio da Perugia (II, 5) e Calandrino, l’arguzia e l’imbroglio (Frate Cipolla, VI, 10),
gli aspetti maliziosi e ridanciani (racconto delle monache e della badessa, novella del giudice marchigiano
beffato). Incontriamo anche l’arguzia gentile di Cisti fornaio (VI, 2), l’intelligenza pronta di Melchisedech (I,
3) e l’ingegno di Giotto (VI, 5), la signorilità venata di arguzia e bizzarria del brigante Ghino di Tacco (X, 2).
Due giornate sono consacrate ai motti, cioè alla prontezza dello spirito, quattro sono dedicate alle astuzie di
ogni genere, volte a conquistare l’amore o a vendicarlo o a beffare l’intelligenza altrui o, soprattutto, a
trarsi d’impaccio, mediante l’immediata intuizione, dalle situazioni più difficili e strane. L’opera presenta
una duplice “anima”. La prima è realistica, riflette la mentalità e la cultura della classe borghese-mercantile,
la seconda è aristocratica ed in essa sono presenti le virtù cavalleresche proprie dell’aristocrazia feudale,
del mondo cortese-cavalleresca: cortesia, magnanimità, munificenza, lealtà, virtù umana fino al sacrificio.
Federico degli Alberighi (V, 9) è un esempio di dignità cavalleresca, mentre tra le novelle dell’ultima
giornata emergono la magnanima cortesia di Natan (X, 3), la saggezza malinconica di re Carlo (X, 6), la virtù
di Griselda (X, 10). Vittore Branca dice che Boccaccio pone senza alcuna esitazione accanto al modo solenne
e dorato dei re e dei cavalieri, la società operosa e avventurosa degli uomini della sua età. È scomparso il
Medioevo mistico e idealizzante e al suo posto è presente la vita terrena riscoperta con un senso di gioia e
di prorompente vitalità, un intenso interesse per tutte quelle manifestazioni che legano l’uomo
all’esistenza, intesa non solo sotto il profilo materiale ma anche spirituale, pur nell’assenza di
preoccupazioni morali e religiose. Il Decameron si conclude con una giornata in cui domina appunto il
motivo della virtù, seguendo quindi una parabola morale ascendente secondo lo schema della poetica
medievale. Si tratta di un percorso riscontrabile anche nella Commedia e nel Canzoniere, dove però è
presente il motivo religioso e teologico che invece manca nelle virtù terrene del laico Boccaccio. Oltre ai
temi principali esposti ampiamente nell’opera, è possibile distinguere anche altri contenuti, meno
argomentati, ma non per questo da considerarsi di poco conto. Uno di questi è il tema dell’individualità,
ovvero il complesso di qualità che caratterizza l’individuo e lo distingue dagli altri membri della stessa
società, in quanto capace di agire e pensare secondo modalità proprie e non conformate alle altrui. Infatti,
nelle varie novelle troviamo spesso una figura di riferimento che sembra assumere un ruolo primario nella
svolta della vicenda: essa contribuisce, attraverso le proprie azioni, i propri sentimenti, impulsi e
ragionamenti, a modificare la scena. Oltretutto questo personaggio è pronto alle conseguenze derivanti dal
proprio comportarsi, delle quali si assume, tranne in qualche eccezione, la piena responsabilità. Le sue
decisioni, giuste o errate che siano, spesso si estendono alla folla, che, in contrapposizione, si rivela essere
facilmente adulabile dall’individuo singolo. La “massa” non ha, infatti, capacità di decisione propria nei vari
ambiti, accetta semplicemente ciò che viene proposto per quanto assurdo possa sembrare; assiste talvolta
alle scelte della figura di riferimento senza però esprimere la propria idea. Boccaccio sembra configurare gli
appartenenti ai gruppi sociali più elevati nella veste di personaggio individuale, mentre identifica la classe
contadina nella folla priva di carattere. Diversi sono gli esempi inerenti a tale affermazione:

 In Ser Ciappelletto (I, 1) il protagonista della vicenda assume su di sé le responsabilità per le proprie
azioni blasfeme condotte nei confronti della Chiesa Cattolica; pur senza essere costretto a
compierle, decide di eseguirle. Ciò deriva dal desiderio di espiare i propri peccati in punto di morte
al fine di non recare danno alla reputazione dei mercanti fiorentini suoi ospitanti, per una ragione
di favore tra classi sociali congrue;
 In Federigo degli Alberighi (V, 9) il personaggio principale rinuncia a tutti i propri averi, anche al
simbolo della nobiltà, al fine di conquistare una donna che amava. Tali comportamenti andranno ad
intrecciarsi con i valori appartenenti al ceto aristocratico, quali la dignità ed il vizio dello sperpero, e
alla mentalità della borghesia nascente, incentrata sull’ascesa economica e sociale;
 Nella Badessa e le brache del prete (IX, 2), le due donne protagoniste della novella, agiscono in
modo proprio, senza seguire le regole e il pudore imposto dalla comunità. Nonostante questa
caratteristica comune, le due procedono per vie differenti: infatti, Isabetta non nega le proprie
colpe una volta scoperta, mentre la badessa, non accorgendosi di avere come copricapo un
indumento del prete con il quale aveva intrattenuto un coito e pensando quindi di non essere stata
scoperta nel proprio peccato, ammonisce con ipocrisia la monaca colpevole delle sue stesse colpe.
A dispetto di ciò, rimane l’autonoma decisione di tradire il voto di castità. Ance in questo caso la
novella unisce altre tematiche, quali l’ipocrisia ecclesiastica;
 In contrapposizione ai personaggi principali, si oppone la folla intesa come gruppo omogeneo, con
un’ideologia la quale non è discussa e argomentata dagli appartenenti stessi. Infatti, nella novella
“Ser Ciappelletto” si può notare come sia facile che la “massa” accetti di buon grado anche una
santificazione prematura e infondata;
 Nella medesima novella, vi è anche la rappresentazione di un personaggio che rimanda ad una
categoria più vasta, come nel caso del frate che allude al clero. Tale personaggio è facilmente
raggirato da ser Ciappelletto, a simboleggiare un’assoluta mancanza di parametri razionali in un
atto così sacro come quello della santificazione; questo grave errore commesso dal frate raffigura
l’incapacità dello stesso nel prendere decisioni secondo criteri propri e non seguendo quelli
accordati dal mondo ecclesiastico.

Vari aspetti del Decameron anticipano l’Umanesimo quattrocentesco: l’interesse per l’uomo e la vita
sociale, l’esaltazione dell’intelligenza e di altre doti umane; l’amore considerato come sentimento naturale;
la natura rappresentata come luogo di pace e serenità.

La struttura del Decameron affonda le sue radici in tradizioni lontane: il ricorso alla cornice era tipico al
novellare orientale e arabo; l’idea di una brigata di dieci persone che conversa dopo pranzo per alcuni
giorni è già nei Saturnalia di Macrobio; storie di varie avventure sono nel filone greco e poi latino delle
Satire menippee che influenza le Metamorfosi di Apuleio, opera in cui compare anche il tema del novellare
in una situazione di pericolo, di fronte alla morte. Come repertorio tematico delle varie novelle, Boccaccio
ha utilizzato poi numerose fonti medievali: i fabliaux, i lais, i cantari dei giullari, le raccolte di exempla, le
vidas dei trovatori, le commedie elegiache in latino, le fiabe orientali… Egli riprende talora lo stesso
materiale del Novellino e qualche volta le novelle stesse di questa raccolta. D’altra parte, il Novellino
costituisce il primo serio tentativo di affermazione della novellistica prima del Decameron, ed è normale
che Boccaccio lo tenesse costantemente presente; ma nel Decameron siamo ormai al d là delle strutture
narrative, ancora gracili e approssimative, di questo libro. Alla multiforme varietà degli ambienti, dei
personaggi e dei luoghi, si adegua la lingua usata da Boccaccio in quest’opera. Il periodare è talvolta ampio
e solenne, ricco di subordinate, di incisi, di inversioni e costrutti latineggianti; altre volte è invece più rapido.
Il lessico varia da una scelta aulica ed elegante a un dire pittoresco e gergale. Esistono nell’opera tre livelli di
narrazione: Boccaccio, l’autore, è narratore onnisciente di primo livello; i narratori delle novelle sono quelli
di secondo livello, mentre i protagonisti delle novelle che raccontano a loro volta una storia (es.
Melchisedech) sono i narratori di terzo livello. Nell’opera in genere fabula ed intreccio coincidono, ma non
mancano le analessi. Per ciò che concerne il tempo della storia ed il tempo del racconto, frequente è il
ricorso ad accelerazioni effettuate con sommari od ellissi, oppure a rallentamenti risultanti da digressioni o
pause descrittive. A partire dalla metà del XVI secolo il sistema di controllo delle scritture andò
organizzandosi e istituzionalizzandosi per poter far fronte alla lotta contro l’eresia. Fu così istituito l’Indice
dei libri proibiti, voluto da Papa Paolo IV Carafa nel 1559, come filtro per poter fronteggiare le accuse,
anche se velate, degli scrittori del tempo. Il Decameron apparve nell’Indice alla lettera B nel seguente
modo: «Le decadi di Boccaccio o Cento Novelle che finora sono state stampate con errori intollerabili e che
in futuro saranno stampate con i medesimi errori.». Nel 1573 l’Inquisizione commissionò a degli esperti
fiorentini, i Deputati, il compito di sistemare il testo fiorentino per eccellenza. Non si sa nulla sui Deputati
posti alla revisione del Decameron. Essi, comunque, ricevuto dalla Chiesa il Decameron segnato nei passi da
modificarsi, procedettero con armi diverse, con ragioni culturali, tradizionali, filologiche e retoriche alla
difesa dell’opera, tentando di salvare il salvabile. Quindi alla Chiesa di Roma spettò la censura vera e
propria, mentre la specializzazione linguistica e filologica spettò ai deputati. Il 2 maggio del 1573 tornò a
Firenze la copia ufficiale autorizzata dall’Inquisitore di Roma per la stampa, ma solo il 17 agosto dell’anno
successivo il testo venne stampato. L’opera conobbe un’altra edizione nel 1582 a cura di Salviati, che spinse
la curia romana a chiedere una nuova censura dell’opera. Il Decameron di Salviati, piuttosto che una vera e
propria edizione fondata sui risultati di ricerche originali, appare una correzione dell’edizione precedente:
mentre i Deputati si limitarono a tagliare e quindi intervennero sul testo, egli modificò e intervenne la
lettura censurandola, facendo ricorso a glosse marginali, per svolgere apertamente una funzione di
mediazione tra il testo ed il lettore, per dare un’interpretazione univoca. Con questa operazione Salviati
modificò 52 novelle, lasciano intatte le 48 rimanenti.

Commento giornata sesta, novella quarta


Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l’ira di Currado volge in riso e sé campa
dalla mala ventura minacciatagli da Currado.

Tacevasi giá la Lauretta e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile impose che
seguitasse; la qual disse:

Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti ed utili e belle, secondo gli accidenti, a’ dicitori, la
fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de’ paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone che mai, ad animo
riposato, per lo dicitore si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo di dimostrarvi.

Currado Gianfigliazzi, sí come ciascuna di voi ed udito e veduto puote avere, sempre della nostra cittá è stato notabile
cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani ed in uccelli s’è dilettato, le sue
opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un suo falcone avendo un dí presso a Peretola una gru
ammazzata, trovandola grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco il quale era chiamato Chichibio ed era
viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l’arrostisse e governassela bene. Chichibio, il quale, come nuovo bergolo
era, cosí pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo giá presso
che cotta e grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la quale Brunetta era chiamata e
di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina, e sentendo l’odor della gru e veggendola, pregò caramente
Chichibio che ne le desse una coscia. Chichibio le rispose cantando, e disse: — Voi non l’avri da mi, donna Brunetta, voi
non l’avri da mi. — Di che donna Brunetta essendo turbata, gli disse: — In fé di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai
mai da me cosa che ti piaccia. — Ed in brieve le parole furon molte; alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna,
spiccata l’una delle cosce alla gru, gliele diede. Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru
senza coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio, e domandollo che fosse divenuta l’altra coscia
della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose: — Signor mio, le gru non hanno se non una coscia ed una
gamba. — Currado allora turbato disse: — Come diavol non hanno che una coscia ed una gamba? Non vidi io mai piú
gru che questa? — Chichibio seguitò: — Egli è, messer, come io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi. —
Currado per amore de’ forestieri che seco avea non volle dietro alle parole andare, ma disse: — Poi che tu di’ di farmelo
veder ne’ vivi, cosa che io mai piú non vidi né udii dir che fosse, ed io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti
giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sará, che io ti farò conciare in maniera, che tu con tuo danno ti ricorderai,
sempre che tu ci viverai, del nome mio. — Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente, come il giorno
apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l’ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli
fossero menati: e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana alla riva della quale sempre soleva in sul
far del di vedersi delle gru, nel menò, dicendo: — Tosto vedremo chi avrá iersera mentito, o tu o io. — Chichibio,
veggendo che ancora durava l’ira di Currado e che far gli conveniva pruova della sua bugia, non sappiendo come
poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe
fuggito: ma non potendo, ora innanzi ed ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero
che stessero in due piè. Ma giá vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello
ben dodici gru le quali tutte in un piè dimoravano, sí come quando dormono soglion fare. Per che egli, prestamente
mostratele a Currado, disse: — Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se
non una coscia ed un piè, se voi riguardate a quelle che colá stanno. — Currado veggendole disse: — Aspèttati, che io ti
mostrerò che elle n’hanno due — e fattosi alquanto piú a quelle vicino, gridò: — Hohò ! — Per lo qual grido le gru,
mandato l’altro piè giú, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire; laonde Currado, rivolto a Chichibio, disse: —
Che ti par, ghiottone? Parti che elle n’abbian due? — Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si
venisse, rispose: — Messer sí, ma voi non gridaste «hohò!» a quella d’iersera: ché se cosí gridato aveste, ella avrebbe
cosí l’altra coscia e l’altro piè fuor mandato come hanno fatto queste. — A Currado piacque tanto questa risposta, che
tutta la sua ira si converti in festa e riso, e disse: — Chichibio, tu hai ragione: ben lo doveva fare. — Cosí adunque con la
sua pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col suo signore.

Traduzione
Cichibio, cuoco di Corrado Gianfigliazzi, con un’arguta risposta in sua discolpa, trasforma in riso l’ira di Corrado e
scampa sé stesso dalle minacce di Corrado.

Finito il racconto di Lauretta, piacevolmente commentato, la regina diede ordine di continuare a Neifile.

La giovane cominciò dicendo che, sebbene l’ingegno pronto offrisse parole belle e utili a chi parlava, la fortuna, alcune
volte aiutava i paurosi, offrendo loro sulla lingua parole che chi parlava non avrebbe mai potuto trovare in situazioni
tranquille, come voleva, appunto, dimostrare con la sua novella.     

Corrado Gianfigliazzi, come tutte loro avevano udito e veduto, era stato in Firenze un cittadino importante che si era
dilettato di fare vita cavalleresca, andando continuamente a caccia con i suoi cani.
Egli con un suo falcone aveva ammazzato una gru, presso Peretola. Vedendo che era bella grassa e giovane, la mandò
al suo cuoco veneziano, chiamato Chichibio, dicendogli che la arrostisse ben bene per la cena.
Chichibio, che sembrava un sempliciotto, preparò la gru, la mise sul fuoco e, prontamente, la cominciò a cuocere.
Quando la gru era quasi cotta e mandava un ottimo profumo, una donnetta della zona, di nome Brunetta, di cui
Chichibio era molto innamorato, entrò in cucina e, sentendo l’odore della gru e vedendola, pregò insistentemente
Chichibio di dargliene una coscia.
Chichibio rispose, in veneziano, che non l’avrebbe mai avuta da lui.
Brunetta, offesa, ribatte che se non gliel’avesse data, non avrebbe avuto più niente che gli piacesse da lei.
Alla fine, il giovane, per non rattristare la sua donna, staccata una delle cosce della gru, gliela diede.
Servì, poi, a cena a Corrado e ad un suo ospite la gru senza una coscia.
Corrado, meravigliatosi di ciò, gli domandò dove fosse finita l’altra coscia della gru.
Il veneziano bugiardo, prontamente, rispose che le gru avevano una sola coscia e una sola gamba.
Corrado, turbato, rispose che non era possibile e che non era la prima volta che vedeva una gru.
Chichibio insistette e aggiunse che, se il gentiluomo avesse voluto, glielo avrebbe fatto vedere dal vivo.
Corrado, per amore dei suoi ospiti, non volle continuare a discutere. Disse, comunque, che quella mattina stessa voleva
andare a verificare se quello che il cuoco diceva e che egli non aveva mai visto né sentito era vero. Giurava, sul corpo di
Cristo, che se Chichibio aveva detto una menzogna lo avrebbe fatto conciare in tal maniera che ,finché fosse rimasto in
vita, non avrebbe più dimenticato il nome di Corrado.
La mattina dopo, sul far del giorno, Corrado, la cui ira non era ancora svanita per il sonno, si alzò e comandò che
fossero portati i cavalli.
Fatto montare Chichibio su un ronzino, lo condusse verso il fiume, sulla cui riva ogni giorno all’alba si vedevano le gru.
Precisò che avrebbero presto visto chi aveva mentito la sera precedente se Chichibio o egli stesso.
Chichibio, vedendo che l’ira di Corrado ancora durava e che doveva dar prova di aver detto la verità, non sapendo
come fare, cavalcava dietro al padrone, pieno di paura. Se avesse potuto, sarebbe fuggito, ma non potendo, guardava
ora avanti, ora indietro, sicuro di vedere tutte le gru poggiate su due piedi.
Ma, giunti vicino al fiume, vide sulla riva ben dodici gru, le quali erano tutte ritte su un solo piede, come erano solite
fare quando dormivano. Immediatamente le mostrò a Corrado dicendogli “Messere, potete ben vedere come ieri sera
io dissi la verità, che le gru hanno una sola coscia e un sol piede, come vedete guardando quelle che stanno là”.
Corrado gli disse di aspettare, perché gli avrebbe dimostrato che di gambe, le gru, ne avevano due. E, fattosi più vicino
a loro, gridò “Ho, ho”.
A quel grido le gru, mandato giù l’altro piede, cominciarono a fuggire...
Allora Corrado rivolto a Chichibio gli disse che era un imbroglione e doveva ammettere che le gru di gambe ne avevano
due.
Chichibio, sbalordito, non sapendo egli stesso da dove gli venisse la risposta, replicò “Messere, è vero, ma voi ieri sera
non gridaste “Ho, ho”; che se aveste gridato come adesso, la gru, sicuramente, avrebbe mandato fuori l’altra coscia e
l’altro piede, come hanno fatto queste”.
 A Corrado quella risposta piacque tanto che trasformò in allegria e in riso tutta la rabbia e rispose, che Chichibio aveva
proprio ragione, così avrebbe dovuto gridare la sera prima.
Così, dunque, la pronta e divertente risposta evitò a Chichibio la cattiva sorte e lo rappacificò con il suo padrone.

Questa è la quarta novella della sesta giornata del Decamerone, sotto il reggimento di Elissa. Il tema
principale della novella è nuovamente la Fortuna, i cui effetti devono essere colti al volo da chi è dotato
della virtù dell’intelligenza. Per i personaggi boccacciani, e per la visione del mondo dell’autore che si cela
dietro loro, il motto di spirito è una pratica per regolare i rapporti interpersonali, mettendo in luce arguzia e
prontezza nel piegare a proprio vantaggio delle circostanze difficili. Cos’, una battuta pronta ed efficace può
mettere sullo stesso piano figure appartenenti a livelli diversi della scala sociale: chi è più potente non potrà
riconoscere l’intelligenza che si trova anche nelle persone più umili. La scelta della tematica della sesta
giornata condiziona così anche la struttura di queste novelle, spesso attinte dall’aneddotica della città di
Firenze, ovvero da un insieme di racconti brevi emblematici di una figura o di un ambiente. Le novelle sono
spesso particolarmente brevi, come per concentrare l’effetto comico e l’attesa del lettore sul finale, dove
compare la battuta di spirito e dove si assiste tradizionalmente alla ricompensa del protagonista principale.
Questa breve novella è basata sul motto di spirito finale con cui Chichibio, uomo di umili condizioni, riesce a
placare l’ira del suo padrone e ad evitarne la punizione. Ancora una volta uno dei temi “secondari”
principali è proprio l’arguzia dei personaggi di estrazione sociale bassa che riescono a comportarsi alla pari
con i nobili, grazie alla loro furbizia ed abilità verbale. È evidente che si tratta di una parificazione fittizia: il
divario sociale, infatti, non viene colmato, ma solo posto da parte dalla battuta del cuoco, in questa novella,
la caratterizzazione del protagonista non si appoggia solo sulla sua inventiva e sulla sua capacità di
comporre “alcun leggiadro motto” per levarsi dall’impiccio; Chichibio, veneziano d’origine, si esprime
spesso nel suo dialetto nativo, come quando risponde a Brunetta che gli chiede la coscia della gru: “Voi non
l’avrì da mi, donna Brunetta, voi non l’avrì da mi”. Nella novella Brunetta è la donna scaltra e tentatrice,
sicura della sua capacità di seduzione, che utilizza per ottenere favori. Brunetta rappresenta insomma il
sacrificio dettato dal sentimento amoroso, sacrificio che viene compiuto nonostante possa portare a delle
conseguenze funeste. In questo caso Chichibio, personaggio arguto, riesce grazie alla sua furbizia a farsi
benvolere dal suo padrone, evitando così la punizione per la sua sventatezza. Con questa novella ci si trova
di fronte all’illustrazione di due mondi completamente diversi: da una parte si ha la nobiltà e dall’altra il
mondo popolare. Nel mondo della nobiltà risiede una certa cortesia, come quella che Corrado dimostra di
avere sempre nel corso di tutta la novella; mentre nel mondo popolare si hanno delle tonalità
completamente diverse, come ad esempio il fatto che la scena amorosa si svolga nella cucina.
Successivamente si può notare il fatto che Chichibio è veneziano e viene descritto piuttosto frivolo e
vanitoso, e non è però l’unico veneziano all’interno del Decameron che viene descritto in questo modo,
questo perché è presente una certa rivalità tra Venezia e Firenze, a causa di motivazioni commerciali e
politiche. Infine, questa novella si può definire, come già detto, di motto, per il gioco novellistico su una
battuta, su un motto o su un’arguta risposta conclusiva che stravolge le intenzioni e i sentimenti dei
personaggi, risolvendo una situazione difficile portando così alla luce l’intelligenza del protagonista. Ci sono
diversi elementi che, seppur non apparendo istantaneamente, ci fanno notare le differenze di classe
sociale:
 La descrizione iniziale dei personaggi: Neifile utilizza diverse belle parole per esplicare la figura di
Corrado Gianfigliazzi mentre introduce il personaggio di Chichibio inizialmente denominandolo
come “suo cuoco veneziano” (riferendosi a Corrado), seguendo poi con appellativi poco onorevoli
come “sempliciotto” (poco onorevoli forse per l’astio tra Venezia e Firenze);
 L’incontro tra Chichibio e Brunetta che avviene in cucina, quasi per segnalare che le classi sociali
inferiori, abituate a lavorare per i padroni quasi tutto il giorno, svolgessero anche le loro attività e i
loro piaceri, oltre il lavoro, nel luogo di servizio;
 La facilità con cui la classe sociale media si lascia corrompere dalla donna: a mio avviso una
rappresentazione del fatto che chi, in povertà o in una situazione economica non sufficientemente
adatta alla borghesia, trovasse una donna da amare e con la quale concepire prole (tenendo quindi
la dinastia, seppur di classe sociale inferiore, per altre generazioni), avesse paura di perdere questa
donna e non sarebbe riuscito a trovarne un’altra da amare;
 L’integrità di Corrado che, dinanzi alle falsità proferite da Chichibio, resta calmo ed evita di
continuare a discutere col suo cuoco, forse anche come segno di superiorità rispetto al suo servo;
 Il montare di Corrado su un cavallo e di Chichibio su un ronzino denota la differenza sociale anche
sull’utilizzo del mezzo di trasporto.

Una frase degna di nota è, parafrasando, “non sapendo egli stesso da dove gli venisse la risposta,
replicò”: questa frase ci fa vedere come la Fortuna, come già detto abbondantemente nell’introduzione
all’opera, sia così influente nella vita dell’uomo, nel bene (come in questo caso) o nel male.

Alessandro Manzoni
Considerato uno dei maggiori romanzieri italiani di tutti i tempi per il suo celebre romanzo I Promessi Sposi,
elemento di spicco della letteratura italiana ed europea, Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni
nasce a Milano il 7 marzo del 1785 da madre di famiglia illustre, Giulia Beccaria (nipote del celebre Cesare
Beccaria, che incontrò solo una volta) e da padre di famiglia più modesta: Don Pietro Manzoni discendeva
da una nobile famiglia di Barzio, in Valsassina. Nonostante il padre legittimo fosse Pietro Manzoni, è molto
probabile che il padre naturale di Manzoni fosse Giovanni Verri, un amante della madre di Alessandro. Egli
trascorse i primi anni della sua vita nella cascina Costa di Galbiate, passando anche diverso tempo nella villa
rustica di Caleotto, dove tornerà da adulto e che venderà nel 1818. Egli venne educato in collegi religiosi,
iniziando la sua formazione il 13 ottobre 1791 in un collegio dei Somaschi, dove rimase per 5 anni, sofferti
per la mancanza della madre e per la presenza di compagni violenti, tanto quanto gli insegnanti che lo
punivano frequentemente. Nel 1796 passa in un collegio di Lugano per 2 anni, in seguito passa al collegio
gestito dai Barnabiti dove non è chiara la sua permanenza. La formazione culturale di Manzoni è imbevuta
di mitologia e letteratura latina, come appare chiaramente dagli scritti adolescenziali. Prediligeva
maggiormente Virgilio e Orazio come classici, Dante e Petrarca come italiani, come contemporanei è da
considerare l’importanza di Parini e di Alfieri. Degno di nota è il suo soggiorno di 8 mesi, dal 1803 al 1804, a
Venezia, da un parente, durante il quale ebbe modo di conoscere una nobildonna che a suo tempo fu musa
di Foscolo, e di scrivere tre dei quattro Sermioni. Il compiacimento neoclassico del tempo gli ispirò le prime
composizioni di un qualche rilievo, modulate sull’opera di Vincenzo Monti, ma oltre questi, Manzoni si
volge a Parini, a Foscolo, a Lomonaco e a Cuoco. La vicinanza a quest’ambiente lo spinsero a seguire dei
corsi all’università di Pavia, tra il 1802 e il 1803, tenuti dal suo campione Vincenzo Monti. Nel 1805 viene
invitato dalla madre e da Carlo Imbonati a Parigi. Dopo la morte dello stesso, Manzoni scoprì di avere una
madre, con la quale le vite non di divideranno mai fino alla dipartita della donna, nel 1841. Alessandro a
Parigi entra in contatto con la cultura francese classicheggiante, assimilando il sensismo, le teorie
volterriane e l’evoluzione del razionalismo verso posizioni romantiche. Il 20 marzo del 1807, quando era in
procinto di partire per Torino, venne a sapere che il padre era gravemente malato (anche se in realtà era
morto da due giorni), e durante il tragitto verso Milano egli apprese della morte di Pietro.

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