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Nel 1896 Tommaso Casini, nel corso di una ricerca nell’Archivio comunale di
Ravenna di nuovi documenti sulle memorie dantesche in terra di Romagna, si im-
battè in un codice membranaceo contenente atti notarili1. Il protocollo, prove-
niente dal convento cisterciense di S. Severo, si trova attualmente nell’Archivio
di Stato di Ravenna2, Fondo Corporazioni religiose soppresse, con la segnatura
Vol[ume] (o Reg[istro]) di Classe 12.
Il documento contiene una serie di «scritture per concessioni e rinnovazioni
enfiteutiche di terreni e case possedute dal monastero di San Severo nei territori
e nelle città di Forlì e Forlimpopoli»3. Gli atti, molti dei quali segnalati nel mano-
scritto da un segno di paragrafo posto sul margine sinistro di ciascuno, coprono
un periodo che va dal 1277 fino al 1283, e sono redatti tutti da un’unica mano,
che è la stessa della coperta membranacea, da identificare senz’altro con tale An-
drea Rodighieri [Andreas de Rodigeriis], il quale compare anche in un altro libro
proveniente da San Severo, il Liber novus de Forumpopilio et Scloa4.
Il protocollo contiene, allo stato attuale, due fascicoli di due carte ciascuno
(cc. 1r-4v)5, racchiusi da una coperta membranacea con scritte su tutt’e quattro
* Relazione tenuta al convegno di studi danteschi «Mia donna venne a me di Val di Pado», svoltosi a
Fidenza il 31 maggio 2002 [programma del convegno disponibile all’indirizzo internet: http://www.cen-
trodantesco.it/italiano/Fidenza2002.htm].
1. Si veda TOMMASO CASINI, Scritti danteschi, Città di Castello, Lapi 1913, pp. 39-50. Ma la prima no-
tizia in assoluto la si deve a VITTORIO CIAN, Lettera dantesca al professore A. D’Ancona, «Giornale di let-
teratura, storia e arte», I, 2, Melfi (1898); quindi vi alluse FRANCESCO TORRACA (su comunicazione orale
del Casini) nella lettura del Canto XXVII dell’Inferno, in Lectura Dantis Sansoni, Firenze 1901, pp. 12-3
(citazione poi ripresa nel Chronicon di PIETRO CANTINELLI, Città di Castello, Lapi 1902, p. 17 n. 6); altro
fugace accenno in TOMMASO CASINI, Il canto I dell’Inferno, in Lectura Dantis Sansoni, Firenze 1905, p.
24, il quale poi riproduce il testo in ID., Letteratura italiana. Storia ed esempi per le scuole secondarie supe-
riori, Roma, Albrighi, Segati e C., 1909, I, parte II, pp. 457-9. GIULIO BERTONI infine lo cita più volte ne
Il Duecento, Milano, Vallardi 1911, pp. 121-2, 251, 274.
2. Dopo la soppressione del convento cisterciense di S. Severo, nel corso del XV secolo, e la sua an-
nessione al vicino monastero camaldolense di S. Apollinare in Classe, il protocollo, unitamente ai libri e
alle carte del convento di S. Severo, divenne proprietà dell’Archivio Classense e quindi, dopo la soppres-
sione post-unitaria delle corporazioni religiose, dell’Archivio Comunale di Ravenna. Da qui infine all’Ar-
chivio di Stato di Ravenna, conservando però nella segnatura l’indicazione della provenienza (cfr. CASINI,
Scritti danteschi, pp. 39-40).
3. CASINI, Scritti danteschi, p. 40.
4. Per l’identificazione CASINI, Scritti danteschi, pp. 41-2.
5. Mi limito a registrare come CASINI, Scritti danteschi, p. 40, sostenga che il protocollo è costituito da
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11 carte, laddove AVALLE [per il quale cfr. ultra, p. 3] ne registra 22 (fraintendimento dovuto probabil-
mente all’ambiguità terminologica di Casini che parla di 11 ‘fogli’, ma in precedenza aveva specificato
trattarsi di due quaderni mutili). Comunque sia di tutto ciò non rimane traccia nell’attuale conservazio-
ne. La cosa meriterebbe quantomeno un supplemento di indagine impossibile in questa sede.
6. Il verso dell’ultima faccia della coperta è però del tutto slavato ed illeggibile ad occhio nudo.
7. La scrittura è oggi illeggibile a occhio nudo; non così al Casini che ne dà testimonianza.
8. La lettura «Forumpopilio», in parte deducibile, è testimoniata anch’essa dal C ASINI , Scritti
danteschi,. p. 40.
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dere un passo può aver commesso. Su tutti al v. 14 la banale rottura della rima
(facilmente ripristinabile in «camini» o, secondo la proposta di Contini, «lor ca-
mini» a sanare eventualmente l’ipometria); allo stesso v. 14 il manoscritto trascri-
ve «en plane de montagna» da correggere senz’altro, con tutti gli editori, in «en
plan ed e[n] montagna»; al v. 18 dopo la parola «ditu» Andrea inserisce l’abbre-
viazione «ul» per «vel» (che però espunge subito con un tratto di penna e surro-
gandolo con la sovrapposizione della e successiva) certamente per introdurre una
variante di testo o di lettura. A questa prima categoria di errori, più o meno
emendabili, si può aggiungere la crux al v. 18 dove il testo ha indubbiamente «Iu-
rarà», ma il senso non torna, e solo gli strumenti della divinatio potrebbero resti-
tuirlo. Si notino infine i banali trascorsi di penna, dovuti a fraintendimento, cau-
sa cattiva lettura, di una lettera al posto di un’altra, altrettanto indicativi però di
uno stato di copiatura: al v. 11 «bedogna» corretta solo in un secondo momento
in «besogna»; «Gueffi» per «Guelfi» al v. 13 (anch’esso poi corretto); al v. 42
«veltro» (parola difficile) scritta in un primo momento «jeltro», con la v mala-
mente trascritta come j lunga, errore puntualmente sanato in seguito tramite l’ag-
giunta di un biforcamento alla stessa j lunga; tutti errori che dimostrano che An-
drea Rodighieri trascriveva sul suo codice copiando da un antigrafo che aveva fi-
sicamente davanti agli occhi. Riconosciuto pertanto ad Andrea Rodighieri lo sta-
tus di copista in luogo di quello di autore del componimento, buona norma sarà
il provvedere alla ripulitura del testo, almeno dalle mende più vistose.
Il serventese fu edito per la prima volta da FRANCESCO TORRACA, A proposito
di Bonifazio VIII, «Rassegna critica della Letteratura italiana» XVI (1911), pp. 28-
32; quindi procurò un’edizione lo scopritore (TOMMASO CASINI, Scritti danteschi,
Città di Castello, Lapi 1913, pp. 39-50); ALDO FRANCESCO MASSÈRA prima (Il ser-
ventese romagnolo del 1277, «Archivio Storico Italiano» LXXII, I [1914], pp. 3-
17) e GIULIO BERTONI poi (recensione a Massèra, «Romania» XLIV [1915-1917],
pp. 117-20 e «Archivum Romanicum» II [1918], p. 274 e fac-simile del serventese
alla pag. 275) diedero importanti contributi. Oggi si può leggere agevolmente in
GIANFRANCO CONTINI, Poeti del Duecento, Milano, Ricciardi 1960, vol. I, pp. 879-
81, edizione procurata per cura di EZIO RAIMONDI; e D’ARCO SILVIO AVALLE,
Concordanze della lingua poetica delle Origini, Milano, Ricciardi 1992, pp. 53-4.
Cito il testo da Avalle:
Venutu m’è in talento de contare per rema9
el novo asalimento che façunu insta prima
col’òr de tradimento, taglad’ a surda lima:
ayda, Deo10!
spedizione avvenuta nell’estate del 1273: nel lasso di tempo fra i due episodi potrebbe cadere la composi-
zione del serventese. Per il riferimento a un tradimento ai danni dei forlivesi, si veda ultra al v. 3. «Façu-
nu»: «esito alquanto insolito da < FACIUNT» (Contini).
11. «Questa è la congiura ordita dal pellegrino romano [bisticcio fra ‘romeo’ = pellegrino, e l’allusione a
Roma] il quale è trascinato in maniera sottile a seconda del moto della trottola [?. Forse a dire: ‘segue le
correnti del potere come una trottola’]: talora infatti il matto è reputato saggio, e il buono malvagio». Al di
là della oggettiva esegesi del passo, chiaro è il riferimento al tradimento perpretato da colui che la glossa in
margine al v. 3 ci informa essere Guido da Polenta, reo di un accordo con il papa. Massèra situa il viaggio
a Roma del «piligrino» al 1277 laddove GIULIO CESARE TONDUZZI (Historie di Faenza, Faenza, Gioseffo
Zarafagli 1675 [rist. anastatica Bologna, Forni 1967]) e CAMILLO SPRETI (Notizie spettanti all’antichissima
scola de’ Pescatori, Ravenna 1820) lo situano nel 1278. «Ordene varrà congiura, trama» (Contini).
12. «I guelfi di Bologna […] come voi ben sapete, è necessario che paghino il dazio delle terre ai loro
vicini». «Pag[h]e» è singolare « che può riferirsi anche a un soggetto plurale come in romagnolo odierno
ch’i’ pèga » (Casini).
13. «I guelfi di Romagna, dell’Italia settentrionale e fiorentini han preso ad avanzare fra le le pianure e
le montagne; è necessario un aiuto dalla Germania per i ghibellini, con grande necessità (‘en gran meste-
re’)». Il riferimento è probabilmente a Rodolfo d’Absburgo che, eletto Imperatore nell’ottobre 1273,
avrebbe potuto soccorrere i forlivesi contro il «novo asalimento» dei bolognesi.
14. «Se venisse il re Carlo, o mandasse truppe, sappia già [divinando, col Torraca, ‘saça ça’] Carlo di
non farlo, che ciò che si dice (‘dit<t>u’) è falso: se infatti Carlo ci attacca i pensieri di molti verranno
smentiti». Si tratta di Carlo I d’Angiò capo riconosciuto della parte guelfa. Si corregga pure «de mult’e’
penseri». Al v. 18 Massèra legge (ma congettura) «façara», ma è plausibile «lu re ça de’» [= dee], ben
spiegabile paleograficamente («Iu-ra-ra» / «lu-re-ça») oltre che stilisticamente per la costruzione simme-
trica della strofa (v. 17 «lu re Callu»; v. 18 [«lu re»]; v. 19 «Carlu»).
15. Stanza difficile: «A questo ‘asalidore’ [cioè il ‘novo asalimento’ del v. 2] giunsero [solito singolare
per plurale come al v. 11] ordini religiosi (di frati e suore) e movimenti di crociati da oltremare [vale a di-
re tutte le forze guelfe in campo] che [si integri <ch>e al v. 21] sono i (‘li’) più potenti (‘maiore’), seguiti e
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creduti da molti». Non è necessario leggere, con il Casini, «li» come locativo. Per «seróre» = «sorore»
(‘sorelle’, ‘suore’) vedi SALVATORE BATTAGLIA, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, Utet
1962-2002 s.v. «seróre».
16. «Pronti a quest’assalto, arguti nel dire e nell’agire, [sono giunti, ‘çunse’, probabile integrazione per
simmetria con la stanza precedente] dei [si legga ‘de’’] personaggi sconosciuti (‘mescunti’) che stanno an-
cora muti [agiscono cioè nell’ombra], che [si] schivano per calcoli (‘ punti’) e che non vogliono ancora
rivelarsi». A chi si riferisca il testo è arduo determinare. «Mescunti» dal fr. méconnus, prov. mesconogutz.
17. «(C’è) chi (‘che’) porta ghirlande, chi fa fortezze e mura, chi <le> disfa». Probabile l’integrazione al
v. 32 di <le> dopo che a ripristino del quinario, altrove sempre rispettato. «G[h]irlande» più che «corone
per la vittoria» andrà interpretato, con Casini, nel senso militare di «gironi di castella», «cinte fortificate».
18. «Sì» (cfr. supra, v. 10).
19. «L’aquila è salita in alto [‘tròno’, ‘tuono’] e ha rivoltato il nido, e vuole essere vituperata (‘onida’) da
uno che è uscito (‘osidu’) da lì (‘n’è’, dal nido)», oppure «da uno che provenga dalla stessa zona (‘ch’è ne
lo sidu’)». Il senso, alquanto oscuro, è che l’aquila (guelfa dei Da Polenta) sarà svergognata da un perso-
naggio del luogo, Guido da Montefeltro. «Onida»: fr. honnie ‘vituperata’.
20. «Solo uno stolto potrebbe resistergli, poiché poco è per lui l’agone del Montefeltro» (Contini, con
riserve); a seguire: «Il leone si è fatto avanti come una lepre (‘en levere’) e ha attaccato il veltro, ma è co-
me mettere sullo stesso piano, in quanto a sapienza, l’oro e il vile peltro». Il leone codardo è forse Maghi-
nardo Pagani da Susinana, signore di Faenza e Imola, il cui emblema è appunto un leone bianco in cam-
po azzurro; il veltro, probabilmente Guido da Montefeltro. Si corregga il testo al v. 42 «el [il] leon’
[sogg. di ‘s’è avantatu’], e asalì».
21. Pressocché imposibile la decifrazione dell’ultima strofa stante la presenza di una grossa macchia
d’inchiostro che la ricopre per buona parte.
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22. Cito dall’edizione di GIORGIO PETROCCHI, La Commedia secondo l’antica vulgata, Milano, Monda-
dori 1966-67 (rist. Firenze, Le Lettere 1994).
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23. Onde Benvenuto chiosa: «Vult enim dicere, quod iste Guido Novellus fovet et protegit ravennates sub
umbra alarum suarum, sicut aquila filios suos» [BENVENUTI DE RAMBALDI DE IMOLA, Comentum super
Dantis Aldigherii Comoediam nunc primum integre in lucem editum, a c. di GIACOMO FILIPPO LACAITA,
Firenze, Barbèra 1887, ad locum].
24. Lo stesso tiranno a Purg. XIV 11 è definito un demonio («Ben faranno i Pagan, da che ’l demonio /
lor sen girà; ma non però che puro / già mai rimagna d’essi testimonio»).
25. Cfr. PETROCCHI, La Commedia…, vol. I, Introduzione p. 83, poi pp. 334 e sgg.
26. DANTE ALIGHIERI, Rime a c. di DOMENICO DE ROBERTIS, Firenze, Le Lettere 2002, 3 voll., 5 tomi,
vol. III, pp. 15-33 [testo pp. 29-33].
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lima sorda che rode senza far rumore»27. La locuzione quindi andrà spie-
gata come riferimento al subdolo e silenzioso tradimento perpetrato dal
«piligrino romeo» che la glossa in corrispondenza del v. 5 del serventese ci
indica essere «Guido de Pole[n]ta»;
3) Serventese v. 6 «sutilmente è trattu se tortu va ’l paleo» con Par. XVIII 37
et 41 «io vidi per la croce un lume tratto […] e letizia era ferza del paleo»,
quest’ultimo termine unica attestazione nella lingua antica.
Tutto ciò depone, a mio modo di vedere, a favore di una conoscenza del serven-
tese da parte di Dante, ulteriore conferma del legame strettissimo del poeta con
la Romagna in generale. Dove e quando Dante avrebbe potuto conoscere il no-
stro componimento?
La trascrizione di Andrea Rodighieri dimostra come il componimento fosse
diffuso nell’area forlivese; d’altronde la sua sopravvivenza in un codex unicus, che
è peraltro un protocollo, ha tutti i caratteri della marginalità, e fa quindi presup-
porre, almeno di non postulare un improbabile naufragio di altri testimoni, che il
serventese fosse diffuso localmente nella Romagna, all’interno dei circoli ghibelli-
ni ai quali era destinato. Forlì fu in effetti il centro del ghibellinismo romagnolo
come è dimostrato dal fatto che Guido da Montefeltro ne fece il centro delle sue
operazioni dal 1274 al 1284; successivamente, a partire dal 1302-1303, Forlì di-
venta, sotto gli Ordelaffi, il ritrovo degli esuli e degli sbandati toscani, guelfi
bianchi e ghibellini28. In tale quadro non è pertanto da escludere la diffusione,
probabilmente per via orale, di un componimento quale il nostro serventese. Se-
condo Biondo Flavio, storico forlivese (Historiarum decades II, IX), che asserisce
di aver visto delle lettere di Pellegrino Calvi, segretario di Scarpetta Ordelaffi,
Dante fu proprio a Forlì almeno in due occasioni: una prima volta nel febbraio-
marzo 1303 in veste di Cancelliere del Consiglio dell’Università dei Bianchi, e co-
me tale in stretti rapporti con Scarpetta Ordelaffi che ricopriva il grado di «Capi-
taneus partis Alborum extrinsecorum civitatis Florentiae» in vista di una guerra
contro i Neri29; e una seconda volta, nel 1310, in previsione della discesa di Arri-
27. DANTE ALIGHIERI, Rime della maturità e dell’esilio a c. di MICHELE BARBI e VINCENZO PERNICONE,
Firenze, Le Monnier 1969, p. 571 nota 23.
28. Cfr. AUGUSTO VASINA, Forlì, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana
1970-76, 5 voll., vol. II [1970], pp. 967-9.
29. «At apud Florentiam, pulsis Albarum partium civibus, et Carolo Valesio ob eam indignitatem ad Boni-
facium, sicut ostendimus, reverso, multa sunt secuta, quae Dantis Aldegerii, poetae florentini, verbis dictata
certioris notitiae sunt, quam a Villano Ptolemaeoque lucensi referri videamus. Dantes, in Alborum partibus
adnumeratus, urbe Florentia simul cum aliis profugus, Forolivium se contulit, quo ceteri quoque Albi, et
paulo post Ghibellini pridem Florentia extorres, confluxerunt. Una enim ex duabus factionibus est conflata,
acceptusque est ab utraque in belli ducem Scarpetta Ordelaffus, vir nobilis et Ghibellinorum in Forolivio
princeps. […] Innuunt autem nobis Peregrini Calvi foroliviensis, Scarpettae epistularum magistri, extantes
litterae, crebram Dantis mentionem habentes…» [citato in MICHELE BARBI, Sulla dimora di Dante a Forlì,
«Bullettino della Società Dantesca Italiana», 1ª serie, n. 8, pp. 21-8; poi in Problemi di critica dantesca, I
serie (1893-1918), Firenze, Sansoni 1934, pp. 189-95 (cit. pp. 189-90)].
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go VII in Italia, da dove avrebbe scritto un’epistola a Cangrande della Scala invo-
candone l’aiuto30. Nella prima di queste occasioni, troppo alta infatti la seconda
come datazione per la composizione del ventisettesimo canto dell’Inferno31, Dan-
te potrebbe essersi imbattuto nel nostro serventese e, con la memoria ritentiva
che lo caratterizzava, aver focalizzato sintagmi e immagini del componimento32.
In conclusione, se, come pare, Dante può aver tratto ispirazione per alcuni
luoghi del suo poema dal Serventese romagnolo, è possibile avanzare due propo-
ste di lavoro: la ripresa puntuale della triplice rima «Feltro/veltro/peltro» dei vv.
41-3 del serventese a Inf. I 101-5 può essere una prova a favore di quanti hanno
sostenuto, ed è l’«opinione più largamente accolta»33, una derivazione diretta del
metro della Commedia da una particolare forma di serventese; la terzina, forma
metrica, ricordiamolo, mai attestata prima di Dante, deriverebbe dal serventese
che Antonio da Tempo chiama serventesius caudatus: due o tre versi lunghi, gene-
ralmente endecasillabi, baciati (AA o AAA) più un verso breve, quinario (b), col-
legato rimicamente alla strofa successiva (BBc o BBBc, ecc.)34. Partendo da que-
sta forma primigenia Dante avrebbe alterato la rima intermedia (ABA) da cui
prende avvio la strofa successiva (BCB, ecc.) con effetto finale la possibilità teori-
ca della reduplicazione all’infinito35.
30. «Dantes Aldegerius, Forolivii tunc agens, in epistula ad Canem Grandem Scaligerum veronensem, par-
tis Albae extorrum et suo nomine data, quam Peregrinus Calvus scriptam reliquit, talia dicit…» [BARBI, Sul-
la dimora…, p. 193].
31. Sugli elementi che spingono a rintenere concluso l’Inferno non oltre il 1309, e in generale per più
puntuali riferimenti alla questione della datazione della Commedia, cfr. ENRICO MALATO, Dante¸ Roma,
Salerno Editrice 1999, pp. 229-42.
32. Ulteriore conferma della possibile permanenza a Forlì da parte di Dante è, oltre ai numerosi accen-
ni sparsi qua e là un po’ in tutta la Commedia, anche il passo del De Vulgari Eloquentia I XIV 3 dove si
definisce la città quale fulcro linguistico di tutta la Romagna di quella «vocabulorum et prolationis molli-
ties», quasi un ‘parlare effeminato’ in netta contrapposizione alla virile «garrulitas» del bolognese: «Hoc
Romandiolos omnes habet, et presertim Forlivienses, quorum civitas, licet novissima sit, meditullium tamen
esse videtur totius provincie. Hii deuscì affirmando locuntur, et Oclo meo et Corada mea proferunt blan-
dientes» [Il Trattato De Vulgari Eloquentia, a c. di PIO RAJNA, Firenze, Le Monnier 1896 (rist. Milano,
Mondadori 1965)].
33. IGNAZIO BALDELLI, Terzina, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana
1970-76, 5 voll., vol. V [1976] pp. 583-94 (citazione p. 585).
34. Le altre forme del serventese sono, a detta del metricista, il serventesius simplex et cruciatus (ABAB
tutti endecasillabi); e il serventesius duplex et duatus (AA, BB, oppure AAA, BBB, ecc., endecasillabi)
[ANTONIO DA TEMPO, Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis a c. di RICHARD ANDREWS, Bologna,
Commissione per i testi di lingua 1977, pp. 77-81]. L’ipotesi più economica della generazione della terzi-
na sarebbe tuttavia dal sermontesius simplex et cruciatus, spesso strutturato in terzine, si badi, di soli en-
decasillabi a rima alternata (passaggio da ABAB CDCD a ABA/B CD/ CD…). La difficoltà è che tale
forma di serventese è, almeno nella poesia italiana, estremamente rara. Si noti infine che il Serventese ro-
magnolo è proprio, come nota lo stesso Baldelli, una «forma particolare» di sermontesius caudatus.
35. Fu lo stesso Antonio da Tempo insieme a Gidino da Sommacampagna fra i primi a parlare, a pro-
posito della terzina dantesca, di derivazione da una forma particolare di serventese (proprio il servente-
sius caudatus). In tal metro potrebbe del resto essere stato scritto il celebre serventese delle cento donne
più belle di Firenze, cui accenna Dante a Vita Nuova 2, 11 [ed. GUGLIELMO GORNI, Torino, Einaudi
1996] («E presi li nomi di .lx. le più belle donne della cittade ove la mia donna fu posta dall’Altissimo Si-
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re, e compuosi una pistola sotto forma di serventese, la quale io non scriverò») e Rime 35, 9-10 («E mon-
na Vanna e monna Lagia poi / con quella ch’è sul numer de le trenta» [ed. a c. di DOMENICO DE ROBER-
TIS, Firenze, Le Lettere 2002, 3 voll., 5 tomi, vol. III pp. 304-7 [testo p. 307]. Altre proposte invece sono
ad esempio di una derivazione dalla sestina arnaldesca (p.e. GIOVANNI MARI, La sestina di Arnaldo, la ter-
zina di Dante, «Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere» serie 2, XXXII, 1899, pp. 953-
85); o dalle terzine incrociate del sonetto, magari con la mediazione del Fiore (TOMMASO CASINI, Per la
genesi della terzina e della Commedia dantesca, in Miscellanea di studi storici in onore di Giovanni Sforza,
Torino, Bocca 1923, pp. 689-97; GIANFRANCO CONTINI, Il Fiore e Il detto d’Amore attribuibili a Dante
Alighieri, Milano, Mondadori 1994); un’ipotesi più che altro metrico-sintattica è la proposta di Fubini
circa una relazione della terzina con la proposizione sillogistica: I premessa-II premessa-conclusione
(MARIO FUBINI, Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli 1962, pp. 185-221).
36. Rispettivamente nelle edizioni Milano, Hoepli 19299 (con commento di GIOVANNI ANDREA SCAR-
TAZZINI) e Bologna, Zanichelli 1949 (ristampa con presentazione di FRANCESCO MAZZONI, Firenze, San-
soni 1957). Si attiene invece alla lezione tràdita dall’Urbinate latino 366 FEDERICO SANGUINETI (Dantis
Alagherii Comedia, Tavarnuzze <Firenze>, Edizioni del Galluzzo 2001) e legge: «e sua nazion sarà tra ’l
feltro e ’l feltro» (Urb: «tral feltro el feltro»).
37. Il commentarium di Pietro Alighieri nelle redazioni ashburnhamiana e ottoboniana, a c. di ROBERTO
DELLA VEDOVA e MARIA TERESA SILVOTTI, Firenze, Olschki 1978, p. 53.
38. Nel suo commento alla Commedia, Venezia 1544, ad locum.
39. Per una identificazione del «veltro» dantesco con una generica figura di estrazione imperiale si veda
dello scrivente Il “veltro” di Dante e la Chanson de Roland, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana» V, 2
(2002) pp. 213-26.