Sei sulla pagina 1di 24

PROFILO DELLE LETTERATURE ROMANZE MEDIEVALI

CAPITOLO 1: LA LETTERATURA FRANCESE ANTICA


1.1 LE ORIGINI E LA POESIA AGIOGRAFICO-RELIGIOSA
Il primato della letteratura francese, nel senso specifico di letteratura in lingua d’oïl, su tutte le letterature
romanze del Medioevo è innanzitutto un primato cronologico. Risale infatti al IX secolo, ancora in piena età
carolingia, il più antico testo letterario in lingua d’oïl, che è anche, contemporaneamente, il più antico testo
letterario romanzo: è la cosiddetta Sequenza di Sant’Eulalia, un componimento poetico di 29 versi, raggruppati
in 14 distici assonanzati più un emistichio finale isolato, che narrano il martirio dell’omonima santa spagnola
avvenuto nel 304. La definizione di “sequenza”, data dagli studiosi moderni, si riferisce proprio alla particolare
forma metrica, e conseguentemente musicale, del componimento, che ricalca quella della sequentia
mediolatina usata nella liturgia dell'epoca, sviluppatasi proprio in Francia nello stesso IX secolo. Non a caso,
nel codice unico che la conserva, la Sant’Eulalia volgare è preceduta da una sequenza latina dedicata alla
medesima martire, di analoga struttura. Questa circostanza mostra chiaramente quale sia il primo e principale
ambito di produzione e diffusione della nuova letteratura in volgare e quanto essa sia legata alla cultura latina
radicata in tale ambito: la Chiesa, il convento, in pratica il mondo dei chierici e dei monaci. Seguono altri due
poemetti agiografici, assai più lunghi ed elaborati, ma anche più insipidi, che formano insieme all’Eulalia il
primitivo lascito letterario francese: la Vie de Saint Léger, dedicata alla vita e al martirio di san Leodegario
vescovo di Antun, e la Passione di Cristo (Passion) detta di Clermont-Ferrand, dalla località in cui è
conservato il manoscritto che ci ha tramandato entrambi testi, con relativa notazione musicale. Databili alla
fine del X secolo, i due poemetti di Clermont-Ferrand sono interessanti per tre motivi: da un lato, confermano il
legame con la produzione latina dell'epoca; dall'altro, mostrano come la nuova versificazione volgare si stia
definitivamente consolidando, i testi si articolano infatti in strofe regolari di octosyllabes assonanzati; infine, la
loro forma linguistica fortemente ibrida apre importanti spiragli sulla circolazione interregionale, attraverso la
rete dei monasteri, di questa produzione paraliturgica in volgare, dai centri monastici del Nord della Francia a
quelli del Sud. In particolare la Vie de Saint Léger, è stata composta in una varietà linguistica oitanica nord-
orientale a cui si è parzialmente sovrapposta la patina dialettale propria del copista, di marca sud-occidentale.
La figura del santo è descritta secondo i moduli canonici del racconto agiografico, egli è descritto infatti come
un vegliardo di grande saggezza, la cui tragica sorte esalta l'esemplarità delle sue virtù; la figura invece del
suo antagonista e persecutore, Ebroino, è campione di qualità negative, che trama nella cerchia dei baroni, ed
è bramoso di potere e ricchezze; il martirio di Leodegario è particolarmente enfatizzato, senza risparmiare
dettagli macabri delle torture, proprio per sottolineare lo spirito di sopportazione in nome degli ideali religiosi e
la natura eccelsa dell'eroe cristiano, armato solo della croce e del proprio coraggio. La Passion invece
presenta caratteristiche linguistiche originarie pittavine; le fonti del suo anonimo autore sono principalmente
identificabili con i Vangeli e gli atti degli apostoli, ma si percepisce una ricerca artistica maggiore rispetto alla
Vie de Saint Léger, vòlta specialmente alla narrativizzazione degli eventi, con un gusto per le dinamiche di
combattimento e la scelta di costruzioni formulari, che anticipano tratti destinati a diventare caratteristici della
chanson de geste. Nel solco della letteratura didattico-allegorica mediolatina, dove si hanno numerosi esempi
di contrasti tra Cristo e il Diavolo, o battaglie tra le personificazioni delle Virtù e dei Vizi, in questo poemetto la
Pentecoste è descritta come uno scontro tra l'esercito del Bene, rappresentato dagli Apostoli e dai discepoli di
Gesù, che diffondono il Verbo nel mondo, e l'esercito del Male, simbolicamente capitanato da Satana, che
ispira la malvagia condotta di tutti coloro che cercano di soffocare nel sangue l'avanzata del Cristianesimo.
Bisogna arrivare alla metà circa dell'XI secolo per trovare, a un ben diverso livello di consapevolezza letteraria
e stilistica, il primo grande capolavoro della letteratura francese, la Vie de Saint Alexis, sempre appartenente a
quel genere agiografico-religioso. Per certi aspetti, il Saint Alexis, è - e rappresentò all’epoca, a giudicare dai
testimoni e dai rifacimenti di cui fu oggetto (oggi possediamo sette manoscritti che tramandano diverse
redazioni dell’Alexis) - la quintessenza dell’agiografia volgare del Medioevo, sia nel profondo spirito ascetico
che lo anima, sia nella rigorosa struttura metrica e compositiva in cui si articola nelle redazioni e nei testimoni
più antichi autorevoli. L’Alexis è composto da 125 strofe ognuna di 5 décasyllabes assonanzati. Il décasyllabe
diventerà ben presto il verso principe della poesia epica: e non a caso tra la Vie de Saint Alexis e le più antiche
chansons de geste sono stati notati numerosi e significativi punti di contatto, come mostra ad esempio, il
lamento della moglie sul cadavere di Alessio, che ricorda quello di Carlo Magno sul corpo di Orlando. Più in
generale, la storia di Alessio, che disattende le aspettative del padre, il nobile romano Eufemiano, di
continuare la sua discendenza, preferendo staccarsi dei beni mondani in nome dell'aspirazione alla conquista
di più alti beni celesti, è importante per due ragioni: da un lato, riflette la volontà della Chiesa di
indottrinamento dei ceti più elevati della società; dall'altro, getta le basi per lo sviluppo dell'ideologia religiosa
sottesa alle chansons de geste, da cui germinerà la figura epico-rolandiana del paladino armato difensore dei
valori cristiani contro gli Infedeli, all'epoca delle Crociate. Il passo nel quale Alessio abbandona il tetto
coniugale la prima notte di nozze, sancisce l'ideale investitura del protagonista al servizio di Dio: Alessio rifiuta
le agiatezze terrene e aspira al perfetto amore celeste; rinuncia ai piaceri della carne e del denaro
spogliandosi dei due simboli per eccellenza del potere feudale, la spada e l'anello; e si lancia in una vera e
propria quête, la ricerca della redenzione interiore che temprerà e purificherà il suo spirito con prove di umiltà
e di sopportazione della miseria e della sofferenza. Dopo diciassette anni passati in Oriente, Alessio rientra in
patria da pellegrino e, reso irriconoscibile dagli stenti della penitenza, chiede e ottiene il permesso di alloggiare
nel sottoscala della casa di famiglia; qui vive per altri diciassette anni come mendicante, finché dopo la sua
morte, una lettera da lui lasciata ne rivela l'identità e ne assicura la santificazione, tra le celebrazioni del
popolo e delle autorità religiose e civili. La santità di Alessio è descritta come ricompensa della sua fedeltà e
della sua ascesi in nome di Dio, l'unico vero Signore, che ammette alla sua corte e premia con la gloria eterna
le anime di chi, in vita, gli ha prestato un “buon servizio”.

1.2 LA CHANSON DE GESTE: LA CHANSON DE ROLAND


Le chansons de geste ‘canzoni di gesta’, sono i vasti poemi epici dedicati alle gesta di Carlo Magno e dei suoi
paladini, e ai conflitti interni e alle vicende delle grandi dinastie feudali di Francia. Il rapporto con tradizioni orali
e con performances di tipo giullaresco si vede comunque bene nelle strutture formali dell'epica antico-
francese, che esibiscono, all'interno di contenitori metrici standardizzati ma anche flessibili, procedimenti
stilistici legati alle tecniche ben note del parallelismo, della ripetizione formulare, delle simmetrie, dei clichés
sintattici e così via. Tutti i principali ingredienti dello stile epico sono già presenti al massimo grado, e con esisti
spesso insuperabili per intensità e vigore, nel più antico e insieme più alto esempio del genere, la Chanson de
Roland, composta verso la fine del Mille, e comunque a ridosso immediato della prima Crociata (1096), e
tramandata in forme e redazioni diverse dai vari manoscritti, il più antico è autorevole di quali è il celeberrimo
codice Digby 23 della Biblioteca Bodleiana di Oxford. Questo codice fu trascritto in Inghilterra da un copista
anglonormanno, forse lo stesso Turoldo che si firma alla fine del poema, a meno che non si tratti proprio del
nome dell’autore. Possiamo notare che anche il Saint Alexis, ci è giunto in una redazione anglonormanna: così
come del resto altri capolavori della più antica letteratura francese, copiati nell'Inghilterra francesizzata dopo la
conquista normanna del 1066. La narrazione si sviluppa in quattro grandi episodi, i cui titoli ideali potrebbero
essere: il tradimento, la battaglia, la rivincita, la punizione. L'imperatore Carlo Magno è in Spagna da ormai
sette anni; gli resiste ancora Saragozza retta dal saraceno Marsilio. In un consiglio di guerra, viene deciso di
inviare un’ambasceria a Marsilio, che finge di aspirare alla pace, e Orlando propone che ne sia a capo il
patrigno Gano che, consapevole del rischio mortale che questa missione comportava, giura vendetta,
accordandosi con Marsilio. Il suo tradimento mette in moto la macchinazione, che prevede la finta
sottomissione dei Saraceni e la conseguente ritirata in Francia di Carlo, che sfocerà nell’agguato di
Roncisvalle sui Pirenei, dove Orlando e l’intera retroguardia dell'esercito franco da lui comandata trovano la
morte, non senza dare prova di estrema prodezza guadagnando così gloria e fama. Questa perdita verrà
vendicata dall'imperatore che, tornato a Roncisvalle con il grosso del suo esercito, sbaraglia definitivamente i
Saraceni sconfiggendo poi anche l’emiro Baligante, chiamato in aiuto da Marsilio. Rientrato ad Aquisgrana,
Carlo Magno fa processare e condannare a morte Gano per il suo tradimento. I fatti narrati scaturiscono da un
episodio storico documentato, ma la loro trasposizione letteraria neri visita e amplifica la portata, conferendo
alla vicenda un valore nuovo e completamente diverso. Gli Annales qui dicuntur Einhardi attestano che nel
778 l’esercito franco di ritorno da una spedizione durata pochi mesi, subì un'imboscata da parte dei Baschi:
non i Saraceni, dunque, per cui sia Marsilio che Baligante sono un’invenzione, così come non vi fu nessuno
scontro tra Cristiani e Musulmani; anche di Gano e del tradimento non vi è traccia, e nemmeno di Roncisvalle;
non compare nemmeno l’élite militare a cui appartiene Orlando. Le innovazioni introdotte dal racconto epico
possono essere spiegate con l’ideologia e la mentalità del tempo in cui la Chanson de Roland fu prodotta:
siamo nella seconda metà dell’XI secolo, gli Arabi hanno vasti dominii nel Mediterraneo che i Cristiani sono
impegnati a riconquistare, e la Crociata, indetta dal Papa diventa una “guerra santa” per la liberazione di
Gerusalemme e dei territori d'Oltremare dagli Infedeli. Come la Terrasanta, anche la Spagna è attraversata da
un'importantissima via del pellegrinaggio, quella verso il santuario di san Giacomo a Compostela, in Galizia:
sicché la vittoria di Carlo Magno è vista come una tappa del più generale piano di liberazione di terre
importanti per la Cristianità. Come sottolineato da Segre, la Chanson de Roland esprime “il principio
dell’assoluzione a chi muore per difendere o estendere il cristianesimo”. Stabilita questa equazione tra
l’esercito imperiale e l’”esercito di Cristo”, la critica ha poi evidenziato notevoli corrispondenze tra lo sviluppo
narrativo e stilistico del poema e gli antecedenti poemetti agiografici, individuando anche numerosi possibili
paralleli con passi delle Sacre Scritture; un esempio è dato dai prodigi che, in Francia, annunciano la morte
imminente di Orlando, analoghi a quelli che accompagnano, nella narrazione evangelica, la morte di Cristo sul
Golgota. Quanto allo stile, la Chanson de Roland supera però nettamente qualunque ipotizzabile modello
precedente: la struttura del poema si fonda su precise e raffinate strategie di parallelismo tra scene affini o
speculari, mentre la coesione narrativa è garantita da collegamenti a distanza che marcano gli snodi
dell'azione e la descrizione dei personaggi e li contesti. Il consiglio dei baroni saraceni convocato all'inizio da
Marsilio è, per esempio, assai simile al successivo consiglio dei baroni franchi. E viceversa la scena della
nomina di Orlando (su proposta Gano) a capo della retroguardia, è esattamente speculare a quella della
nomina di Gano (su proposta di Orlando) a capo dell’ambasceria. Questo avanzamento per “lasse similari” e
per Leitmotive si coniuga con la ripetizione di più piccole unità, aventi una duplice funzione: quella di riepilogo,
perché è una formulazione ripetuta più o meno identica, ma con opportune variazioni, aiuta a richiamare alla
memoria e all'attenzione qualcosa che è già stato esposto; e quella di mise en relief, per cui scene simili sono
collegate da articolazioni sintattiche e lessicali simili, oppure scene importanti sono descritte progressivamente
su più lasse in maniera quasi identica o mediante sinonimia, per aumentarne la drammaticità. Il procedimento
è magistralmente applicato, ad esempio, all'episodio cruciale della morte di Orlando. Tutte e tre le lasse, che si
aprono sulla figura di Orlando, ne ripetono dettagliatamente gli ultimi gesti, conferendo alla narrazione un
andamento lento e solenne che sembra dilatare il poco tempo di vita rimasto all'eroe. In questa sequenza la
progressione avviene per minimi scatti: prima, orlando si apparta e si accascia; poi, accasciato, rimette la
propria anima a Dio; infine spira, nel ricordo dei beni a lui più cari e invocando il Signore. Il personaggio del
paladino assurge così a rango di vero e proprio “campione della fede”, portando a compimento l’incarico
terreno affidatogli da Carlo Magno, come prefigurazione del più elevato disegno divino. Anche da questo punto
di vista, che risente della complessa realtà del tardo XI secolo, la Chanson de Roland si rivela figlia del suo
tempo, quello appunto della prima Crociata e della conseguente ideologia, quale traspare, oltre che dalla
rappresentazione della morte di Orlando, dalla pregnante formula che riassume lo spirito dell'opera, ovvero
l'opposizione tra i Cristiani che “hanno ragione”, e i Pagani che “hanno torto”. L'impossibilità di scendere a patti
con il nemico è, del resto, anche il pretesto del fatale all'antagonismo tra Orlando e il patrigno Gano: all'inizio
del poema Gano caldeggia la pace con i Saraceni, contrastato ovviamente da Orlando, e il cui ammonimento
a non prestar fede alle proposte di Marsilio cade tuttavia nel vuoto. Per inciso, ricordiamo che alcuni critici
hanno interpretato queste due prese di posizione come la trasposizione in chiave letteraria di due orientamenti
sociopolitici della Francia del tardo XI secolo: Orlando e i paladini come “portavoce” degli alti ufficiali del re,
che mediante le campagne militari miravano ad assicurarsi possedimenti e ricchezza, Gano come
incarnazione dei grandi feudatari, già detentori di vasti territori, poco inclini all'instabilità legata ad uno stato di
guerra e più autonomi nei confronti del potere centrale. Delegato a riferire a Marsilio le risoluzioni del collegio
franco, Gano medita vendetta contro Orlando che lo ha proposto a capo della pericolosissima ambasceria.
Con l'ambiguità della profezia, che annuncia senza completamente svelare ciò che accadrà, conferendo un
senso di fatalità agli eventi successivi, viene anticipato l'inganno di Gano, ne chiarisce la motivazione
(vendicarsi di Orlando), rivela la più profonda natura giuridica della sua colpa (il tradimento all’imperatore), che
gli varrà la condanna finale. Le gravi implicazioni connesse al gesto di Gano saranno infatti esposte dal
barone Teodorico durante il processo, alla fine del poema, quando peraltro solo il “giudizio di Dio” (cioè un
duello risolutore tra il “campione” di Gano e un “campione” dell'imperatore) varrà a convincere definitivamente
il consiglio dei Franchi della colpevolezza di Gano. Rivalendosi su Orlando, e vendendo la retroguardia
cristiana al nemico, Gano non ha semplicemente compiuto una vendetta personale (riprovevole, ma
ammissibile secondo il diritto feudale), ma ha danneggiato l'intero esercito imperiale, venendo meno al patto di
fedeltà che lo vincolava al suo signore, Carlo Magno. La punizione del traditore Gano risolve così gli squilibri e
i contrasti interni alla corte di Carlo, consolidandone in modo definitivo il potere, già peraltro rafforzato dalla
rivincita dei Franchi a Saragozza, quando sconfiggono l'esercito saraceno dell'emiro Baligante e conquistano
la città. La Chanson de Roland, pur essendo, con i suoi 4000 versi, di lunghezza inferiore alla maggior parte
delle chansons de geste conosciute, eccezion fatta per il ciclo di Guillaume e pochi altri casi, non è forse del
tutto immune da quelle interpolazioni e da quei rimaneggiamenti che poi si moltiplicheranno nelle versioni
successive. La critica è, del resto, concorde nell’ammettere come più che probabile la circolazione di una
versione della storia di Orlando anteriore a quella tramandata dal codice O, e forse ancora più corta, priva cioè
dalla seconda parte, in cui compare l’emiro Baligante. La cosiddetta Nota emilianense, una glossa in latino
apposta sui margini di un codice spagnolo, che riporta un breve riassunto della vicenda rolandiana, ne è la
conferma, ma resta il fatto che, per quanto fondata su fonti e tradizioni precedenti, la versione del codice di
Oxford non può essere disgiunta da una potente personalità creatrice che ha trasformato una serie di
suggestioni narrative di spunti epico-lirici in uno straordinario affresco.

1.4 IL ROMANZO CORTESE: I ROMANZI “ANTICHI”


Successivamente allo sviluppo della letteratura epica e parallelamente alla sua massima espansione, si
registra il primo fiorire del cosiddetto romanzo “cortese”, ripartito già dai contemporanei in due grandi filoni: la
matière de Rome, la ‘materia di Roma’, e la matière de Bretagne, la ‘materia di Bretagna’. In taluni casi la
distinzione tra i due gruppi appare problematica, e non meno rilevanti sono, a partire dal XII secolo, le
tangenze e le interferenze con l’epica propriamente detta, ovvero la matière de France. Spunti e motivi epici
sono ben presenti nei tre grandi romanzi “antichi”, il Roman d’Eneas, il Roman de Thèbes e il Roman de Troie,
composti poco dopo la metà del Millecento sulla scorta di Virgilio, Stazio e altri autori classici e postclassici:
ma il nuovo genere che essi inaugurano, e che si differenzia dall’epica anche dal punto di vista metrico, non
più il décasyllabe, ma una serie ininterrotta di distici rimati di octosyllabes, è caratterizzato piuttosto dalla
massiccia introduzione delle tematiche amorose, e delle sottili analisi psicologiche dei protagonisti: qui il
modello è Ovidio, letto alla luce della nuova mentalità cortese che fa capo alla lirica dei trovatori. Gli eroi della
tradizione antica si trasformano così in dame e cavalieri medievali, e regna sovrano un incantevole
anacronismo, ulteriormente complicato dall'introduzione del magico e del meraviglioso. Il Roman de Thèbes,
‘Romanzo di Tebe’, ci è giunto anonimo in tre redazioni, una lunga, una più breve, e una intermedia che è
considerata la più prossima all'originale ed è trasmessa da un solo manoscritto. Più arretrata
cronologicamente rispetto agli altri due romanzi di materia antica, e più arcaica anche dal punto di vista
formale, l'opera si ispira alla Tebaide di Stazio per raccontare la storia della città di Tebe, dalla vicenda
incestuosa e tragica di Edipo, fino alla guerra fratricida tra Eteocle e Polinice, con il susseguente insediamento
sul trono di Creonte. Il prologo, che sintetizza gli estremi della storia, contiene interessanti dichiarazioni di
intenti e di poetica: l'autore rivendica l'importanza della trasmissione dei saperi e del recupero delle
conoscenze antiche; nomina alcuni dei maestri classici ritenuti fondamentali nella propria formazione culturale;
individua nelle classi colte gli artifici e i fruitori di questa produzione letteraria; e prende, infine, le distanze dei
generi più popolari, richiamando per la propria opera un argomento “alto” e di un’esemplarità quasi epica. Il
Roman d’Eneas ‘Romanzo di Enea’, anch’esso anonimo, si rifà invece all’Eneide di Virgilio, di cui riprende
sostanzialmente la trama, con aggiunte e variazioni personali che danno maggiore spazio agli elementi
romanzeschi e alla dimensione psicologica dei personaggi. La rilettura in chiave cavalleresca e cortese del
mito antico impegna tutta l'opera, e gli eroi classici diventano paladini medievali, inseriti nel contesto
contemporaneo dell'autore e del suo pubblico: così ad esempio, Enea diventa un cavaliere; Cartagine è una
città dotata di castelli turriti; il duello tra Turno e Pallante rispecchia i canoni dell’affrontamento epico. Ha
goduto di una particolare fortuna il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure che, narra la storia di Troia,
dalla spedizione degli Argonauti alla caduta definitiva della città, compreso lo sventurato ritorno in patria dei
principali eroi greci. Nel prologo l’autore ribadisce l’importanza di diffondere le conoscenze attraverso la
consapevole scelta della lingua volgare, per arrivare ad un pubblico il più ampio possibile, così che le storie
pagane, filtrate e reinterpretate dalla cultura religiosa del suo tempo, possano servire da modelli e da esempi
di virtù perennemente valide. Dietro gli sfarzosi interni, le intrepide lotte, e raffinati sentimenti e gli illustri
personaggi descritti da Benoît, non è difficile intravedere figure e atmosfere della corte di Enrico II di Inghilterra
e della moglie Eleonora d'Aquitania, protettrice di poeti e letterati. In questa antichità immaginaria si
rispecchiano problemi e visioni politico-sociali di viva attualità, da ricondurre più o meno direttamente alla
formazione e all'affermazione, tra Inghilterra e Francia, del vasto dominio dei Plantageneti. Non a caso, il
chierico Wace, contemporaneo di Benoît e legato anch'egli la corte plantageneta, si cimenta sia nel romanzo
di materia arturiana, il Roman de Brut, incentrato sulle gesta dei bretoni, sia nella fictio pseudo-storica, il
Roman de Rou, cioè ‘di Rollone’, che esalta e legittima la dinastia normanna attraverso la storia del suo
fondatore. Un cenno a parte merita, anche per via dello straordinario successo, il Roman d’Alexandre, la cui
materia (vita e imprese di Alessandro Magno) venne ripetutamente ripresa e rielaborata nel corso del
Millecento da diversi autori, i più importanti dei quali sono Alberic de Pisançon e Alexandre de Paris. Di Alberic
de Pisançon, importante per l’alta cronologia, ci è giunto il frammento iniziale di un poema che anticipa, per
temi e stile, posizioni destinate a diventare programmatiche nei romanzi di materia antica successivi. L’opera
di Alberic, la cui originale ossatura possiamo ricostruire sulla scorta dell’Alexanderlied del prete tedesco
Lamprecht, costituisce il primo anello a noi noto di una lunga concatenazione che sfocerà nell'ampia
rielaborazione di Alexandre de Paris, in cui confluiscono almeno quattro diverse redazioni parziali (dette
branches) del racconto: la prima branche è individuata nel cosiddetto Alexandre dècasyllabique, poema
redatto da un anonimo e che racconta la prima giovinezza di Alessandro Magno; dall’Alexandre
dècasyllabique derivano tre narrazioni, oggi perdute, delle quali però ci danno testimonianza altrettanti testi
che ancora possediamo: il Feurre de Gadres ‘La razzìa di Gaza’, di un certo Eustache, sui saccheggi degli
uomini di Alessandro dopo l’assedio della città di Tiro (branche II); l’Alessandro in Oriente (branche III); e la
Morte di Alessandro, sulla fine dell’eroe a Babilonia (branche IV). Assemblando tutti questi materiali, con
rimaneggiamenti e ampliamenti personali, Alexandre de Paris li ha organizzati unitariamente secondo la
cronologia biografica del sovrano macedone. Le suture tra una branca e l’altra non sono di norma dichiarate,
ad eccezione del trapasso tra la seconda e la terza sezione del romanzo, dove la fonte utilizzata viene
esplicitamente identificata. D'altra parte, le fonti che concorrono nel corso dei secoli, alla costituzione della
storia di Alessandro Magno sono innumerevoli ed eterogenee: su tutte il “romanzo” greco dello pseudo-
Callistene e i suoi compendi medievali, che raccolgono e combinano filoni leggendari greci ed egiziani
riguardanti la figura del Macedone. Quello che qui più importa è che la statura del protagonista e il fascino
spesso esotico delle sue meravigliose avventure hanno garantito la fortuna del suo mito per tutto il Medioevo,
anche perché gli scrittori “cortesi” francesi hanno incarnato in questo campione assoluto di sapienza e
prodezza, giustizia e larghezza, i “valori fondativi della civiltà del XII secolo”. È al “romanzo di Alessandro”, dal
quale deriva, non a caso, il suo nome, che si deve anche la definitiva affermazione di un tipo di verso destinato
a straordinaria fortuna: l’alessandrino. Nel poema si disegna il profilo “perfetto” di Alessandro Magno. Dal
resoconto delle enfances (cioè l’infanzia e l’età giovanile) dell’eroe, apprendiamo che le doti cavalleresche del
Macedone sono tali da consentirne l’investitura quando è ancora adolescente, cerimonia che si svolge,
benché anacronistico, nel pieno rispetto del rituale feudale (detto adoubement). La bravura come cavaliere,
che si coniuga con un'educazione affidata ai sapienti del regno, tra i quali spicca Aristotele, consolida il vincolo
tra virtù del corpo e dello spirito, e trovo ideale trasposizione nel sodalizio tutto medievale di clergie e
chevalerie, sapere e prodezza. La dialettica tra il maestro-guida e l’allievo modello assume così le forme,
ideologiche e letterarie, di quello che può essere considerato un vero e proprio miroir du prince (uno ‘specchio
del principe’), ossia un sistema ordinato di regole di comportamento per il “perfetto reggitore”. Le innumerevoli
imprese che costellano tutto il corso della vita di Alessandro tracciano un simbolico cammino di formazione e
consapevolezza dell'eroe, dalla semplice gloria terrena, fino alla rivelazione dei limiti umani, oltre i quali anche
la più grande volontà non può spingersi. Fallito il suo tentativo di sondare i territori al di là delle colonne
d'Ercole, confine emblematico del mondo conosciuto, di fronte agli alberi parlanti del Sole e della Luna,
Alessandro sperimenta la propria finitezza, ricevendo due oracoli di capitale e funesta importanza per il suo
destino: l'albero della Luna gli annuncia che la sua morte è prossima, l'albero del Sole gli rivela la macchia da
cui si è segnato per colpa della madre, che lo ha illegittimamente concepito con il mago Neptanebo. I “limiti”
posti ad Alessandro mantengono la figura dell'eroe e la sua vicenda entro i confini stabiliti dall'ortodossia
religiosa occidentale: la smisurata curiosità, l'orgoglio dell'uomo che tutto vuole conoscere e tutto crede di
poter controllare si infrangono contro la superiorità ineffabile del Fato; e il peccato di adulterio della madre
(sottaciuto per tutto il romanzo) trova infine la sua adeguata, anche se dolorosa, riparazione, riequilibrando la
dinamica di colpa/espiazione vigente nel sistema di valori morali cristiani.

1.5 IL ROMAN DE TRISTAN. GAUTIER D’ARRAS


Se la saga di Alessandro Magno è il risultato composito di materiali diversi, frutto di accumuli e contaminazioni
plurisecolari e pluristratificati, e invece del tutto originale l'invenzione, anche se è basata su spunti risalenti a
tradizioni celtiche e bretoni, della leggenda celeberrima di Tristano e Isotta, storia di una passione fatale che
infrange ogni regola etica e sociale e si conclude con la morte struggente dei due amanti. Le due più antiche
importanti redazioni francesi giunte fino a noi sono ampiamente frammentarie (il Roman de Tristan del poeta
anglonormanno Thomas, e il Tristan del poeta normanno Béroul), ma la storia è ricostruibile nel suo
complesso grazie anche ad altre fonti, in particolare i poemi antico-medio-tedeschi di Eilhard von Oberg e di
Goffredo di Strasburgo. Tristano, figlio di Rivalen di Leonois e di Blancheflor, sorella di Marco, re di
Cornovaglia, viene accolto, educato e trattato come un figlio dallo zio Marco. In occasione delle imminenti
nozze di quest'ultimo con la principessa irlandese Isotta, Tristano è incaricato di scortare la futura sposa in
Cornovaglia; durante il viaggio di ritorno per mare, Brangania, l’ancella di Isotta, serve per errore ai due
giovani il filtro d'amore che avrebbe dovuto garantire l'indissolubilità del matrimonio con re Marco e che così,
invece, lega fatalmente Isotta a Tristano. Questo amore costituisce il fulcro di tutte le vicende seguenti, fino
alla morte di Tristano: questi, nel tentativo inutile di dimenticare la moglie di suo zio, Isotta “la Bionda”, aveva
sposato l’omonima figlia del duca di Bretagna, Isotta detta “dalle Bianche Mani”; quando Tristano, colpita da
una freccia avvelenata, contro i cui effetti letali solo la “vera” Isotta conosce il rimedio, avrebbe bisogno del
soccorso dell’amata, la moglie gli fa credere che la sua richiesta di aiuto non ha trovato risposta, e lo lascia
morire. Giunta troppo tardi, Isotta muore a sua volta abbracciando il corpo dell’amato. Del Roman de Tristan di
Thomas, composto tra il 1150 e il 1170, ci sono conservati 10 frammenti, relativi perlopiù alla seconda parte
della leggenda. Più o meno contemporaneo è il Tristan di Béroul, i cui versi rimasti riguardano la parte centrale
della storia, dato che l'unico manoscritto a tramandarcela è mutilo dell'inizio e della fine. A differenza che in
Thomas, dove l'effetto del filtro è permanente, l'azione della pozione magica bevuta dagli amanti di Béroul
dura solo tre anni, cosicché tristano e Isotta si dovranno confrontare con il “ritorno alla normalità”. Rispetto alla
versione di Béroul, più disorganica ma anche ricca di chiaroscuri drammatici e di scene spettacolari, quella di
Thomas, permeata dalla nuova cultura “cortese”, si caratterizza per l'approfondimento psicologico dei
sentimenti e dei conflitti erotici, ed è marcata da un'intensa tragicità, che raffigura la passione amorosa come
un vero e proprio patimento anche a livello fisico. Gli eroi indagano nei più profondi recessi della loro anima
per trovare una spiegazione razionale alla forza travolgente dei loro sentimenti è una soluzione al disordine
che sovverte il loro codice di comportamento, personale e civile; ma poiché la rottura dell'equilibrio è causata
da un elemento soprannaturale, il filtro magico, non c'è cura possibile, e anzi ogni tentativo in questo senso si
rivela una vana illusione. La circolarità di questo meccanismo emerge in tutta la sua forza lirica ed
emblematica nel monologo di Tristano. Tristano è dilaniato dei dubbi, si confonde, si corregge, si contraddice:
mette in discussione l'amore di Isotta per lui, ma poi la giustifica; è geloso dei privilegi matrimoniali di cui può
godere re Marco, ma ne riconosce il diritto; vuole dimenticare Isotta, ma finisce per sposarne una “copia”,
ovviamente imperfetta. L'alternanza tra il discorso diretto del personaggio e quello indiretto del
narratore/autore, le domande retoriche, l'articolazione narrativa per duplicazione progressiva di enunciati simili
conferiscono drammaticità ai moti interiori di Tristano, ne determinano e spiegano il folle agire, acuendo il
contrasto tra la profondità del dolore e l'illusorietà della consolazione, opponendo fin’amor (l’amore totalizzante
per la vera Isotta) a fals’amor (l’amore effimero per l’altra Isotta). Béroul, meno introspettivo e più incline alla
teatralizzazione della vicenda, privilegia una sintassi lineare, velocizzata dal largo impiego di frasi brevi e
semplici, spesso coincidenti con la lunghezza del verso, cui corrisponde sul piano della narrazione, un
avanzamento della storia di Tristano per blocchi di episodi concatenati, ma ciascuno in sé ben strutturato e
dotato di una sua propria fisionomia. L’amore non è rappresentato, come in Thomas, nelle sue implicazioni più
personali; è piuttosto un “affare di corte” e l’adulterio di Isotta è un fattore destabilizzante del potere regale, per
cui esso viene analizzato nei suoi risvolti pubblici e posto in relazione con le dinamiche ufficiali della società.
Questo spiega anche la funzione e il rilievo che hanno figure minori del seguito di re Marco, come i baroni
(pronti a ricattare il sovrano minato nella sua credibilità) e i malvagi consiglieri (bramosi di smascherare la
tresca degli amanti). Un perfido nano Frocino tese una trappola a Tristano: una sera re Marco, d'accordo con
Frocino, inventa per il nipote una finta missione da compiere il mattino immediatamente successivo; intuendo
che nottetempo Tristano andrà a prendere “degno congedo” da Isotta, il nano cosparge di farina il pavimento
della stanza della regina, in modo da rendere visibili le impronte dell'incauto visitatore. Aggirato con astuzia il
tranello di Frocino, Tristano non si accorge però che, a causa di una ferita non ancora rimarginata, egli lascia
sulle lenzuola di Isotta delle tracce di sangue che lo incolperanno e ne provocheranno l’arresto. In questo caso
si riscontrano pressoché tutti i tratti più tipici dell’opera e del suo autore: la sapiente costruzione dell'intreccio
fatta di anticipazioni, colpi di scena, effetti di suspense, è sorretta dallo stile secco e scattante, con frasi
cortissime, che accelerano il ritmo dell'azione, e sono inframmezzate da richiami al lettore, o da commenti del
narratore, che lo pongono dentro il racconto, palesemente a favore dell’amante colpevole. Non sappiamo
come Béroul abbia trattato, se l’ha trattato, l'episodio della morte degli amanti, e di Isotta in particolare. È
probabile che anche sul piano stilistico la sua scelta sia stata diversa da quella, dolorosamente partecipe e
quasi attonita, di Thomas, che tanto ha nutrito l'immaginario collettivo europeo sul binomio amoremorte. Altri
episodi della leggenda tristaniana sono narrati da alcuni poemetti minori, tra cui il Lai du chevrefeuille di Marie
de France, e le due anonime Folies Tristan, ‘Le follie di Tristano’. Queste ultime due si concentrano su un
episodio particolare della vicenda, quello della finta pazzia di Tristano per la forzata lontananza da Isotta. La
critica ha ipotizzato che questi due testi non siano degli stralci estravaganti dei due romanzi maggiori, ma una
possibile testimonianza della fase più antica di circolazione della leggenda tristaniana, che si sarebbe dunque
costituita a partire da forme narrative brevi, incentrate su singole aventures. Questi due testi raccontano di
Tristano, già metaforicamente “pazzo per amore” di Isotta, distante, decide di fingersi pazzo sul serio;
vestendosi, comportandosi e sproloquiando come un vero stolto, egli potrà illudere i controlli di re Marco,
infiltrarsi a corte e rivedere l’amata. La fortuna della storia di Tristano e Isotta è poi testimoniata, oltre che da
una più tarda compilazione francese in prosa, il Tristan en prose, dalle versioni antico-tedesche, nonché da
quelle italiane e da quelle iberiche. Una posizione particolare tra narrativa di materia “antica” e nuova narrativa
cortese cavalleresca occupano i romanzi d’amore e d’avventura, Eracle e Ille et Galeron, di Gautier d’Arras,
che fu contemporaneo e concorrente di Chrétien de Troyes nelle corti della Champagne. Le scarse
informazioni sul suo conto si desumono dalle sue stesse opere: fu verosimilmente un clerc; le due opere di
quest'ultimo rispecchiano la volontà dell'autore di aumentare di una presunta storicità le avventure dei suoi
protagonisti, cosicché il meraviglioso viene scientemente ripudiato a vantaggio di un maggiore realismo
descrittivo e la costruzione del racconto entro una cornice storicamente verificabile permette di instaurare più
o meno velati parallelismi con le vicende coeve, conferendo uno spessore documentario e morale diverso
rispetto ai correnti modelli di romanzo.

1.6 CHRÉTIEN DE TROYES E IL ROMANZO ARTURIANO


La leggenda e la letteratura arturiana, che storicamente fanno capo alla celebrazione delle gesta dei Celti (o
Bretoni) che, guidati da re Artù, resistettero all’invasione della Britannia da parte degli Angli e dei Sassoni, ha
origini relativamente recenti. Suo iniziatore è un chierico inglese, Goffredo di Monmouth che, tra il 1135 e il
1137, compone, in latino e in prosa, l’Historia Regum Britanniae, che riscosse molto successo nel mondo
clericale e cortese. All’Historia Rerum Britanniae, si ispira, anzi, ne è una sorta di traduzione- rifacimento in
versi, il Roman de Brut, cioè “di Bruto”, fondatore del regno dei Bretoni, nipote di Enea, del poeta
anglonormanno Wace, scritto per la corte plantageneta di Enrico II. Di Artù, Wace ci dice che era figlio di Uther
Pendragon e della contessa di Cornovaglia; che aveva una sorella, Anna; e che il suo regno durò dal 516 al
542. Al di là dell’attendibilità storica di tali informazioni, Wace ha il merito di aver introdotto nella letteratura
volgare la matière de Bretagne, col suo fantastico universo di luoghi, imprese, prodigi e personaggi,
discendenti in parte dalla mitologia celtica. Nonostante un andamento generale della narrazione influenzato
dai moduli del genere cronachistico, lo stile di Wace è di una sobria efficacia espressiva (movimentata da
osservazioni personali di tipo morale o filosofico, massime popolari, incisi rivolti direttamente al pubblico, ecc.),
è dettagliato e allo stesso tempo dinamico nelle descrizioni: su tutte, quella dei tre giorni di festa per
l'incoronazione di Artù, che si estende per quasi 500 versi e concorre ad aumentare l'impressione di coerenza
e organicità dell'insieme, nonostante le numerose libertà romanzesche che l'autore si concede nei confronti
della sua fonte. L’invenzione più importante è quella della Tavola Rotonda, che traduce e attua l’ideale
rapporto simbolico di armonia e uguaglianza tra il sovrano e i suoi cavalieri, stabilendo un codice etico ed
estetico cavalleresco-cortese fondato sulla “cortesia” (nel senso di ‘attitudine spirituale e comportamentale
ispirata ai principi dell’onore, della gentilezza e della virtù’), destinato a diventare il modello di riferimento della
società e della letteratura medievali. Il Roman de Brut ebbe vasta circolazione ed ebbe due grandi meriti:
quello di introdurre personaggi “nuovi” rispetto ai tradizionali eroi classici o classicheggianti; quello di avere
fornito un canone di valori altrettanto nuovo rispetto a quello dell’epica e fondato sull’interazione tra amore e
cavalleria. Ma il vero maestro e più geniale creatore del romanzo cortese arturiano è Chrétien de Troyes, il più
grande scrittore medievale prima di Dante. Della vita di Chrétien, come d’altronde della vita di molti autori
medievali, pressoché nulla è noto, ad eccezione delle notizie dallo stesso fornite nei prologhi dei suoi romanzi,
o ricavabili dei rari accenni dei suoi successori. La prima di queste notizie è appunto il nome: al v. 9 di Erec et
Enide egli rivendica orgogliosamente la paternità di questa sua opera, che per noi è insieme il suo primo
romanzo conservato e il primo romanzo arturiano. La sua attività è collocabile tra gli anni ’60 e la fine degli
anni ’80 del 1100, e si svolge entro e per l’ambiente della corte dei conti di Troyes, prospera città della
Champagne. In questo periodo, grazie al patronato di Enrico I detto il Liberale e della sua consorte, la
contessa Marie de Champagne, la corte di Troyes partecipa con un ruolo di primo piano alla promozione della
nascente produzione letteraria cortese. Chrétien è un letterato, ossia un “chierico” di corte, e se egli si nomina
come autore è per distinguere la propria opera da quella di coloro che erano stati i diffusori tradizionali del
patrimonio narrativo volgare, ovvero i giullari, i cantori e i rielaboratori spesso incònditi e senza pretese di un
repertorio collettivo di storie e leggende. La formazione del nostro autore ha comportato invece un rigoroso
tirocinio sui classici dell'antichità latina: l'elenco delle sue opere precedenti che, come una sorta di biglietto da
visita, apre il suo secondo romanzo conservato, Cligés, include espressamente quattro volgarizzamenti o
rifacimenti da Ovidio, oggi in gran parte perduti. L’Art d’amors è l’Ars amandi, che tratta delle tecniche di
seduzione; i Comandemanz d’Ovide sono, con ogni probabilità, i Remedia amoris, che invece istruiscono a
diffidare delle lusinghe dell'amore per non cadere in balìa di un sentimento incontrollabile e mortifero; il Morso
della spalla e la Metamorfosi dell’upupa, della rondine e dell'usignuolo rimandano invece a due episodi mitici
del sesto libro delle Metamorfosi ovidiane, rispettivamente quello della spalla di Pelope, mangiata da Demetra,
e miracolosamente sostituita con una spalla di avorio, e quello di Filomela e Procne trasformate in uccelli
perché colpevoli di omicidio e infanticidio. È notevole comunque che l’elenco si apra con la menzione di
un’opera tutta “moderna”, non basata su fonti latine, e innovativa, cioè Erec et Enide, e che in esso si inserisca
addirittura la recentissima materia tristaniana, trattata da Chrétien in un’opera andata purtroppo perduta, la
storia ‘del re Marco e d’Isotta la Bionda’. Ma è certo sulla padronanza dell'arte retorica di derivazione antica,
assunta in età medievale a principio primo dell'apprendistato intellettuale, che lo scrittore cortese fonda la sua
capacità di trasformare degli intrecci narrativi di sparsa tradizione orale in opere organiche e compiute,
composte secondo tutte le regole dell’arte. All'inizio di Erec et Enide Chrétien spiega molto bene la differenza
che esiste tra la generica storia, ridotta e identificata con la sua trama, passibile di smembramenti e
alterazione ad opera di giullari e cantori di professione, e la propria versione di quella stessa storia, degna di
imprimersi nella memoria dei posteri perché più profondamente e coerentemente originale. A questo lavoro di
ri-creazione Chrétien dà il nome di conjointure, termine approssimativamente traducibile con ‘composizione’,
‘architettura’, nel senso di articolazione organica dei contenuti del romanzo. In questo passo è anche
implicitamente fornita la definizione del genere letterario cui appartengono tutti i romanzi di Chrétien: essi sono
“racconti di avventure”. Il sostantivo avanture (o aventure) ha una grande densità semantica ed è un vocabolo
chiave dell'universo romanzesco di Chrétien e in genere medievale: derivato dal lat. AD-VENTURA “cose che
devono ancora succedere”, esso è passato ad indicare l’“avvenire”, la “sorte”, il “caso”; traslato nel contesto
del romanzo, esso indica “ciò che capita”, cioè la serie di prove che l’eroe – il cavaliere – deve compiere e
superare per realizzare con successo la propria missione. Quindi, da un lato, l’aventure è il meccanismo
stesso dell’azione narrativa, dall’altro, essa rappresenta il percorso di formazione e affermazione del
protagonista. Il “repertorio collettivo” dei contes d’aventure offre quindi solo la matiere, cioè i materiali da
rielaborare e da cui ricavare una particolare struttura narrativa, che è per l'appunto la conjointure. Le
conjointures arturiane che Chrétien de Troyes ha ricavato dal fondo mitico-folklorico bretone sono: Erec et
Enide (1169-70), Cligés (1176-77), Yvain o Li Chevaliers au Lyon (Ivano o Il Cavaliere del Leone), Lancelot o
Li Chevaliers de la Charrete (Lancillotto o Il Cavaliere della Carretta, composto, in dittico con il precedente, tra
il 1177 e il 1181), Perceval o Li Contes del Graal (Perceval o Il racconto del Graal, rimasto interrotto intorno al
1190 o poco prima). Queste 5 opere, composte in versi octosyllabes a rime baciate (AA BB CC ecc.) senza
suddivisioni strofiche, dal caratteristico andamento rapido e discorsivo, propongono alla civiltà cortese
l’immagine ideale della splendida corte di Artù come cornice letteraria per la rappresentazione della ricerca di
un modello esemplare di comportamento aristocratico, entro un universo estetico ed etico che è frutto
dell’intima fusione di cavalleria e amore: la cavalleria ispirata dall’amore e l’amore sostenuto e reso perfetto
dalle virtù cavalleresche e cortesi. Tale è il “senso” profondo del disegno letterario di Chrétien, che mira a far
scaturire dalla semplice matiere narrativa per l’appunto un sen capace di rendere la significativa per un
raffinato pubblico di corte. Il binomio matiere e sen/ san “materia” e “senso” compare in realtà solo nel prologo
del Lancelot, all'interno della dedica a Marie de Champagne, alla quale Chrétien, in un sottile gioco di omaggi
e reticenze, attribuisce la scelta del soggetto (la matiere) e l’idea (il san) direttrice secondo cui svilupparlo.
Nell'ultimo e più complesso romanzo, Li Contes del Graal, Chrétien ricorre invece, tramite la corrispondente
forma verbale, al concetto di senefiance ‘significazione’, che pur applicato, come di norma, all’interpretazione
delle Sacre Scritture, viene implicitamente a suggerire il corretto modus interpretandi della propria opera.
L’autore, quindi, fa ricorso ad un procedimento tipico dell’esegesi biblica medievale, quello di scavare oltre il
senso letterale delle parole per scoprire il valore figurato e simbolico ch’esse contengono. Analogamente, la
coppia matiere e sen traduce, sul piano letterario del romanzo, la stessa relazione che la coppia di termini
littera e sententia applica all’ermeneusi dei testi sacri: è dunque dietro la facciata di narrazione dilettevole che
va ricercata la sostanza psicologica e morale del messaggio di Chrétien. Abbiamo già detto che l'arte narrativa
del romanziere medievale si applica ad una materia in certa misura preesistente e già circolante presso le corti
di lingua francese, che è quella designata fin da allora col nome collettivo di matière de Bretagne. Ma le
avventure dei personaggi tradizionali lasciano trasparire anche le vestigia più o meno confuse di un sistema
mitico che affonda le sue radici nelle tradizioni celtiche: un sistema certo non più attuale per il pubblico delle
corti medievali francesi, ma abilmente riplasmato dalla penna dello scrittore cortese in modo da conservarne il
fascino misterioso e al contempo disegnare il percorso di esperienze individuali che permettano di
approfondire i valori cavallereschi fino a prenderne le distanze per poi rifondarli. I protagonisti dei romanzi di
Chrétien, giovani cavalieri e nobili dame, si muovono così in un mondo dove il meraviglioso ereditato dalle
fonti mitiche sfocia nella sfera morale; dove il caso si fa destino, e l’erranza avventurosa, tra foreste e solitarie
lande gravide di pericolosi incontri, punteggiate di castelli che si aprono al passaggio del cavaliere per
sottoporlo a rischiose prove, si fa mezzo e simbolo di un cammino interiore.

Erec et Enide
Racconta di Erec, nobile cavaliere della Tavola Rotonda che un giorno, durante la tradizionale caccia al cervo
bianco, viene offeso dal nano del conte Yder e, deciso a chiedere riparazione, si mette in cammino per
partecipare alla giostra dello sparviero. Strada facendo, conosce la figlia di un valvassore, Enide, dalla
bellezza e dalla grazia impareggiabili, se ne innamora e, conclusa vittoriosamente la sua sfida, riporta la
fanciulla con sé a corte, per sposarla. La letizia che il matrimonio arreca alla coppia distoglie però Erec dalle
attività cavalleresche, cosa che gli attira le critiche dei compagni; Enide, sentendosi responsabile, gli confida
costernata ciò che ha sentito dire. Per rimediare, Erec parte all’avventura, facendosi però accompagnare dalla
stessa Enide. Sono otto le prove che lo aspettano: 1. lo scontro prima con tre, 2. poi con cinque cavalieri
briganti, 3. il duello con il conte Galoain, invaghitosi di Enide, 4. il combattimento contro il re Guivret, 5. la
scaramuccia con Keu, seguita da un pernottamento a corte, 6. la lotta contro due giganti, vinta con un
disperdio di energia tale che l'eroe perde i sensi e viene creduto morto, 7. il combattimento con il conte Oringle
de Limors che, pensandolo morto, vuole condurre all’altare con la forza Enide, 8. un nuovo affrontamento con
Guivret, organizzato con l'inganno all'insaputa dei due avversari. A questo punto, il valore di Erec è ristabilito,
così come la fiducia tra marito e moglie; ma c’è ancora la prova decisiva da affrontare: sconfiggere il possente
cavaliere Maboagrain, sottomesso ai voleri di una misteriosa dama e messo a guardia di un giardino fatato. Il
buon esito finale assicura ad Erec la consacrazione definitiva e, dopo che la coppia è stata riaccolta
trionfalmente a corte, Erec succede al padre re Lac, da poco deceduto, e viene incoronato dallo stesso Artù.
Basato su materiali popolari preesistenti che rivelano la matrice leggendaria e folklorica, questo romanzo
intavola l’ideologia portante della poetica di Chrétien: la bontà della storia, indissociabile dalla sua utilità, in
quanto espressione delle qualità artistiche e morali dell’autore. Questo implica che la validità della conjointure
si realizza pienamente là dov’è accompagnata e sostenuta dall’originalità del messaggio. La struttura del
romanzo è tripartita: una situazione iniziale di equilibrio provvisorio viene destabilizzata da un fattore di crisi,
che costringe i protagonisti all’azione, allo scopo di ristabilire in modo definitivo, la situazione di equilibrio
perduto. La crisi è la molla dell’aventure e, parallelamente, il motore del perfezionamento interiore dei due
protagonisti che, attraverso le tappe progressive dell’aventure, fortifica e consacra le loro virtù. Chrétien ha il
merito di aver raccordato virtù cavalleresche e virtù coniugali, armonizzando due valori inizialmente antitetici:
l’amore assoluto che distoglie dalla pratica cavalleresca e la pratica cavalleresca totalizzante che non
ammette distrazioni sentimentali. L’amore diventa la condizione necessaria al pieno manifestarsi del valore
guerriero. Non è un caso che l’aventure coinvolga anche l’eroina sua consorte. La perfezione è raggiunta solo
quando la coppia è in armonia al suo interno e al suo esterno (cosa che avviene dopo le prove), cioè
equilibrata e organica rispetto alla società, e questo avverrà solo dopo l'ultima è più importante prova, quella
della Joie de la Cort. Riassumendo brevemente, poco distante dal castello di re Evrain, in giardino magico,
abita suo nipote Maboagrain, un poderoso cavaliere che ha giurato fedeltà e sottomissione alla sua bella, la
quale lo tiene difatti asservito in quel luogo fatato e lontano dal mondo, e così sarà sempre finché un più forte
cavaliere, capace di batterlo a duello, non suonerà il corno lì custodito, sciogliendo il funesto patto d'amore e
rompendo l'incantesimo. A questo compito è chiamato proprio Erec, che per sua libera scelta penetra nel
giardino e affronta il cavaliere. Le analogie tra la “prigionia d’amore” di Maboagrain e il dorato isolamento di
Erec dopo le nozze sono lampanti, tant’è che la prova finale può essere letta come una trasposizione
allegorica: il verziere fantastico rappresenta le seduzioni sensuali che fanno dimenticare i doveri sociali; la
promessa di fedeltà richiesta dalla dama è, in realtà, una trappola, e il giuramento di fedeltà tra i due amanti
non è motivo di letizia e di armonia, ma di dolore e morte. Il cavaliere sconfitto da Erec rappresenta una vera e
propria personificazione dell’amore irrazionale, chiuso in un egoistico piacere dei sensi, superato dall’amore
nobile, aperto al servizio degli altri. Ecco perché il successo di Erec ha una così grande ricaduta sull’intera
corte di Evrain: perché la prova e il suo esito positivo mostrano che gli effetti dell’agire regolato da sentimento
e prodezza dell’eroe hanno un senso non più solo personale, ma collettivo.

Cligés
Prende il titolo dal nome del suo protagonista e si apre con una specie di flashback, che racconta la storia
della famiglia di Cligés. Egli è figlio di Alessandro, erede al trono imperiale di Costantinopoli, armato cavaliere
da re Artù, e di Soredamor, una damigella della regina Ginevra; a causa della falsa notizia della morte di
Alessandro, suo fratello Alis ha usurpato il trono; e sul trono rimarrà, anche dopo la ricomparsa del legittimo
sovrano, a condizione ch’egli non si sposi e non abbia quindi una discendenza. Morto Alessandro, Alis cede
alle pressioni dei baroni e chiede la mano della figlia dell’imperatore tedesco, la bellissima Fenice, senza
sapere che la fanciulla ha già concesso il suo amore al valoroso Cligés. Costretta dunque alle nozze con
l’imperatore, Fenice è dibattuta tra gli obblighi di sposa verso Alis e i veri desideri del proprio cuore: per evitare
di giacere con il consorte, berrà una pozione magica preparata dalla fedele ancella Tessala che farà credere
ad Alis ogni notte di avere accanto a sé nel talamo la moglie. Una successiva pozione aiuterà i giovani amanti
a realizzare il loro sogno d’amore, senza macchiarsi della colpa di tradimento e di adulterio: Fenice beve un
filtro che le dà una morte apparente e viene sepolta in una torre fatata dove si ricongiunge con Cligés.
Purtroppo la felicità della coppia non è destinata a durare: Fenice viene scoperta, ma gli innamorati riescono a
fuggire grazie a nuovi stratagemmi di Tessala. Riparano in Bretagna, presso la corte di Artù, il quale si
impegna ad allestire un esercito per punire Alis; questi, però, nel frattempo è morto per la rabbia di essere
stato raggirato, cosicché Cligés può tornare in patria ed essere legittimamente proclamato imperatore di
Costantinopoli. Più complessa e macchinosa dal punto di vista strutturale, di Erec et Enide, l’opera innesta
l’avventura romanzesca sull’impianto del romanzo dinastico (Cligés deve fondare una dinastia esemplare),
moltiplica i luoghi dell’intreccio (dall'Oriente bizantino alla Bretagna della Tavola Rotonda, passando per la
Germania), problematizza le relazioni e la psicologia dei personaggi (non una coppia, ma un triangolo
amoroso, in più l’aiutante) e, di conseguenza, dilata lo spazio della riflessione intellettuale e dottrinale (con
molti dialoghi, lunghi monologhi e abbondanti incisi esplicativi). Come in Erec et Enide, lo snodo della vicenda
principale è un matrimonio, che ora però instaura un parallelo strettissimo con la storia di Tristano e Isotta, al
punto che la critica ha definito il Cligés come un “anti-Tristan” o “neo-Tristan”; e in effetti di fronte all'attuazione
negata del proprio amore, i comportamenti e le risoluzioni di Cligés e Fenice sono speculari rispetto a quelli
degli amanti di Cornovaglia: solo che Fenice, a differenza di Isotta, non si concede a due uomini, ma si
conserva per il solo che veramente ama. Ella rifiuta di fuggire con Cligés, per non rendersi colpevole - come
saranno giudicati invece Tristano e Isotta - agli occhi della comunità, di infedeltà e slealtà. Aiutata dall’abile
Tessala (non come Isotta da una maldestra), Fenice ricorre al giusto filtro, non d’amore ma di morte, che la
libera dai vincoli matrimoniali senza averne violate le regole. La “rinascita” della protagonista non può che far
pensare all'uccello leggendario che ne porta il nome, la fenice, descritto dai bestiari medievali come capace di
rivivere dalle proprie ceneri; e se si considera che esso rappresentava, in chiave allegorica, Cristo risorto, non
pare del tutto fuori luogo rilevarne le affinità con il passaggio dell'eroina, vittima di un matrimonio ingiusto, ad
una “nuova vita” nella gioia del vero amore. È solo nel quadro dei nobili valori cristiani professati e difesi da
Fenice che si può trovare una giustificazione plausibile alle arti magiche della sua governante, Tessala, le cui
azioni, messe al servizio di una giusta causa, diventano uno strumento di salvezza. Inoltre, diversamente da
quanto accade nelle leggende tristaniane, dove il filtro è simbolo di una tragica e ineluttabile fatalità, cui gli
amanti devono rassegnarsi, nel Cligés esso non intacca la volontà di Fenice, ma, anzi, ne consolida e
potenzia le risoluzioni, esaltando l’importanza del libero arbitrio nelle scelte, meditate e sofferte, che gli eroi
devono compiere. Tra l'innamoramento di Cligés e Fenice e la messa in atto della morte apparente, è tutto un
susseguirsi e alternarsi di duelli tra cavalieri, rapimenti sventati, tormenti interiori e disquisizioni sulla natura
dell'amore, queste ultime caratterizzate da uno spiccato intellettualismo dottrinario che riprende questioni di
casistica amorosa, tipiche dei dibattiti poetici di matrice trobadorica: così ad esempio le riflessioni teoriche del
narratore sulla fenomenologia dell'amore trovano applicazione pratica nel dissidio tra ragione e sentimento
che drammatizza il soliloquio di Fenice. È stato detto che il Cligés è il “romanzo della fin’amor”; ma non si
dimentichi che l’amore dei trovatori, come quello di Tristano e Isotta, è un amore adultero, a cui Chrétien
oppone la sacralità e onorabilità del matrimonio, in quanto unione fondata sulla spontanea reciprocità dei
sentimenti, in velata polemica con le politiche dinastiche dell'epoca, che facevano dei matrimoni un mezzo per
acquisire e consolidare possedimenti territoriali e alleanze militari. Liceità e sincerità dell’unione sono quindi
condizioni necessarie all’amore di Cligés e Fenice per convalidare la gloria futura della loro discendenza:
poiché essi non sono legati da “necessità di Stato” (come Alis), e non hanno trasgredito il codice della morale
e della legge (come Tristano e Isotta), la loro proclamazione imperiale, alla fine del romanzo, funge anche da
metaforica celebrazione del loro statuto di eroi e capostipiti perfetti. La matiere è composita: Chrétien afferma
nel prologo di essersi basato su un “libro molto antico” rinvenuto nella cattedrale di Beauvais. Il manoscritto in
questione è ignoto, o forse non è mai esistito; la sua invenzione sarebbe cioè un espediente meta-letterario
introdotto per rafforzare l’autorità della storia, derivata da fonti popolari e orali. Tra queste, spiccano i materiali
tristaniani: quali conoscesse e usasse Chrétien è difficile da stabilire. Attenendoci alla cronologia, il Cligés
sarebbe posteriore al Tristan di Thomas, ma non forse a quello di Béroul; sappiamo però che le versioni
circolanti dalla leggenda, anche in forma orale, erano varie e la stessa storia di “re Marco e Isotta” che
Chrétien si attribuisce nel prologo del Cligés, è una testimonianza in questo senso. Ci sono poi i materiali
celtici, che riallacciano la trama del Cligés alle tradizionali narrazioni leggendarie delle lotte contro l'usurpatore
e per la conquista della sovranità, instaurando significative corrispondenze con singoli episodi del romanzo.
C’è infine l’influsso della “materia antica”, rispecchiata dalla scelta dei nomi e dei luoghi: il padre di Cligés si
chiama Alessandro, come il sovrano macedone di tanta produzione medievale; e parte cospicua del romanzo
è ambientata nell'Oriente bizantino. L’originalità della conjointure del Cligés risiede nella combinazione di
queste diverse componenti geografiche e letterarie nella struttura organica di un romanzo di marca arturiana,
con l’intento di spostare definitivamente nella Francia dei cavalieri bretoni l’epicentro di irradiazione dei valori
tradizionali di chevalerie e clergie “cavalleria” e “cultura”, prodezza e sapienza. Il senso del romanzo è così
svelato dal disegno programmatico del suo autore: coniugandosi con prodezza e sapere, la storia d’amore di
Cligés e Fenice rinnova i fondamenti della fin’amor e rappresenta una nuova etica amoroso-cortese
cavallerescamente praticabile nel rispetto dei valori coniugali, all’interno di un sistema culturale e morale
collettivamente condiviso, prerogativa di una Francia vista come degna erede della civiltà antica.

Yvain o Li chevaliers au Lyon


Racconta di Yvan, cavaliere della Tavola Rotonda che, per vendicare il disonore patito dal cugino Calogrenant
nella foresta misteriosa di Broceliande, parte all’avventura; alla fontana magica di Barenton, teatro del
precedente scacco di Calogrenant, Yvain sconfigge il signore e guardiano del luogo, e grazie all’aiuto della
damigella Lunette, ne sposa la vedova Laudine. Dopo le nozze, il compagno d’armi Gauvain sprona Yvain a
non abbandonare i propri impegni cavallereschi, sì che i due partono insieme per partecipare a giostre e
tornei. Laudine, pur accettando la decisione del marito, gli pone come condizione, di fare ritorno entro un
anno, come pena la perdita del suo amore. Yvain dimentica la data fissata, viene abbandonato da Laudine e,
pazzo dal dolore, si isola nella foresta vivendo da selvaggio, fino al giorno in cui viene scoperto e guarito con
un unguento magico dalla dama di Noroison. Yvain si rimette in forze, difende Noroison dall’attacco del
malvagio conte Alier, ma non acconsente a restare con lei: fedele al ricordo e all’amore per Laudine, l’eroe
prosegue all’avventura, deciso a compiere tutte le nobili prove possibili per rinsaldare il proprio onore. All’inizio
del suo cammino, Yvain soccorre un leone dall’assalto di un serpente, guadagnandosi la riconoscenza
dell’animale che, d’ora in avanti, starà sempre al suo fianco. In seguito, salva la damigella Lunette
ingiustamente condannata a morte; vince un terribile gigante, Arpino; risolve la diatriba tra le sorelle di Nera
Spina; libera le operaie schiavizzate nel Castello di Mala Ventura. E, infine perdonato da Laudine, ritrova pace
e serenità al suo fianco. Li chevaliers au Lyon, staccandosi dal Cligés, ristabilisce la centralità della Bretagna
come luogo reale e metaforico dell’avventura, e si ricollega ad Erec et Enide, rispetto al quale però mostra uno
sviluppo narrativo e artistico più maturo. La matiere proviene dai racconti del folklore celtico e dai lais bretoni
di tradizione orale. Il romanzo si sviluppa su temi che appartengono al patrimonio ancestrale popolare:
l’erranza nella foresta incantata come viaggio nell’aldilà; la fontana meravigliosa; l’incontro dell’eroe con la
fata; l’animale riconoscente; lo scontro con il gigante ecc. Questi motivi sono organizzati da Chrétien in forma,
una volta di più, di conjointure tripartita, imponibile in tre sezioni narrative che rispondono ad una logica
progressiva simile a quella prodotta in Erec et Enide: 1. una serie di avventure che portano al matrimonio
dell’eroe; 2. una crisi che sovverte la felicità dell’eroe e ne causa la follia; 3. una nuova serie di avventure che
rinsalda la forza dell’eroe e ristabilizza l’equilibrio matrimoniale. A dinamica uguale corrispondono tuttavia
presupposti molto diversi ai due romanzi: infatti, mentre l’aventure intrapresa da Erec serve a scagionarlo
dall'accusa di recreantise, l’aventure di Yvain esce dall'eccessivo zelo che gli mette nell'evitare le critiche di
recreantise. Mentre Erec dimentica i doveri cavallereschi a causa dell’amore, Yvain dimentica il “patto”
d’amore a causa dei doveri cavallereschi. Anche Yvain è, dunque, colpevole di dismisura, ma in senso
opposto ad Erec. L’esorbitanza dell’eroe rispetto ai canoni di amore e prodezza, e, in senso lato, il suo
dibattersi tra saggezza e follia impongono alle prove ch’egli deve superare il marchio dell’umiltà. Dal momento
in cui Yvain riacquista il senno, si innesca un meccanismo di contrappasso che caratterizzerà d’ora in avanti
tutto il suo agire; così come Yvain riceve conforto e cura dalla dama di Noroison e dalle sue ancelle, allo
stesso modo la ferita arrecata alla consorte dalla rottura dell’accordo dovrà essere sanata attraverso la
solidarietà incondizionata e sincera nei confronti di tutte coloro che ne hanno bisogno. Nell’episodio del
rinsavimento, l'eroe che ha spogliato del cuore la moglie, gettandola nel dolore, ora è nudo e ne prova
vergogna, non ricorda più chi è, e ha perso tutte le sue forze al punto da dover essere sorretto da… una
donna. Il problema di Yvain è l’orgoglio, la presunzione di considerarsi già completo e di essere perfetto. Dal
momento in cui, mancando alla parola data, Yvain fallisce, il suo percorso di miglioramento è volto a superare i
limiti di una prospettiva individualistica a vantaggio di un’etica regolata dall’altruismo: le sue virtù cavalleresche
non devono valere solo a meritargli l’amore della dama o ad accrescere la gloria personale, ma devono essere
messe al servizio del bene collettivo: il cavaliere del leone diventa pertanto colui che è impegnato a soccorrere
tutti quelli che hanno bisogno d’aiuto. Questo soprannome, con il quale l’eroe si identifica e dietro al quale cela
la propria vera identità fino alla conclusione del romanzo, ne segna anche la metaforica presa di distanza dalla
vanità della fame mondana (impersonata da Galvano), come si ricava dalle parole “oracolari” con le quali
l'eroe si congeda dal signore del castello liberato dai soprusi del gigante Arpino. Attraverso uno scambio di
battute che richiama i dialoghi evangelici tra Maestro e Discepoli, l'ambiguità voluta di Yvain suggerisce
all'interlocutore e al lettore di spostare l'attenzione dall'attore all'azione, invita cioè a lodare e ricordare il gesto
perché l'esempio di principi assolutamente ed eternamente validi, rispetto alla contingenza di chi l’ha
compiuto, non spinto da desideri auto-celebrativi ma da puro spirito umanitaristico. Il “senso” delle avventure
di Yvain risiede dunque nel valore allegorico delle prove che marcano le tappe del suo percorso di
perfezionamento interiore: contro il conte Alier egli si batte con il ‘rigore di un leone’ e proprio il leone, salvato
dall'infido serpente, diventerà su simbolico compagno ed emblema. La virtù che ispira la forza di Yvain mostra
la vulnerabilità della forza ispirata dalla malvagità, personificata dal gigante Arpino che viene letteralmente
fatto a pezzi dall’arte guerriera del cavaliere e dalla furia istintuale del leone, suo “alter-ego psicologico”. Yvain,
l’amante che ha umiliato la sua signora, si trasforma nel paladino delle donne infelici, e libera dalle umiliazioni
e dai patimenti le giovani dell’Isola delle Fanciulle, recluse e sfruttate dal signore del Castello di Mala Ventura.
Acclamato e scortato dalla processione delle prigioniere riscattate, il suo trionfo non è solo quello del
condottiero vittorioso, ma è l’apoteosi della rettitudine, come sottolinea il paragone iperbolico con Dio, che
aggiunge un valore più profondo, perché morale, agli intenti dell'impresa cavalleresca. Il mistero che avvolge i
luoghi dell’erranza del cavaliere si dissipa col progredire del percorso di maturazione dell’eroe che ha infine
guadagnato una dignità regale. Ora che Yvain impersona il campione del sistema ideale di valori del mondo
arturiano, il cerchio si chiude nel punto in cui tutto era cominciato, alla fontana di Barenton, fonte di prodigi, e
la riconciliazione dei protagonisti realizza la “gioia della corte”. L’esempio della corte virtuosa di Artù, che
insegna a perseguire i valori nobilitanti di prodezza e cortesia, trova sua piena trasposizione nella ristabilita
armonia alla corte di Yvain e Laudine, dove il coronamento amoroso della vicenda cavalleresca dell’eroe
consacra l’unione indissolubile di cuore e armi, convalidando così anche la legittimità di un’etica sociale e
sentimentale proposta come modello da imitare.

Lancelot o Li Chevaliers de la Charrete


Racconta di Lancillotto e delle imprese da lui compiute per liberare e compiacere l’amata regina Ginevra,
moglie di Artù. Ginevra, infatti, viene requisita dal perfido Meleagant, vincitore nel duello con Keu, il siniscalco
di Artù, che avrebbe dovuto difenderla. Galvano e un ignoto cavaliere, che solo più tardi scopriremo essere
Lancillotto, si mettono sulle tracce della regina per riscattarla. A questo scopo, Lancillotto non esita a mettere a
repentaglio la propria vita e il proprio onore: salta sulla carretta infamante trainata da un nano che gli promette
informazioni e giunge ad un castello dove, superate varie prove, vede il fantasmatico corteo di Ginevra e
Meleagant. Lungo il cammino, Lancillotto sconfigge un cavaliere a guardia del sentiero; resiste alle profferte
amorose della castellana del luogo; interroga le tombe del misterioso cimitero dei cavalieri; libera gli abitanti
esiliati nel regno di Gorre; arriva, infine, al temibile Ponte della Spada e, superandolo con fatica, accede al
maniero di Baudemagu, padre di Meleagant. Lancillotto e Meleagant si sfidano: il paladino arturiano,
rinvigorito dallo sguardo salvifico della regina, si impone sull’avversario, il quale, però, non vuole dichiararsi
sconfitto e chiede di rinviare all’anno seguente il duello, alla corte di Artù. Invece che ricompensare Lancillotto,
la regina lo tratta – con tipico contegno da dama “alto-cortese” – con freddezza e l’eroe riparte alla ricerca di
Galvano, viene fatto prigioniero e si diffonde la falsa notizia della sua morte, che getta Ginevra nel più cupo
sconforto. Quando poi Lancillotto ricompare, la regina lo ammette nella propria camera, dove trascorrono
insieme la notte. Meleagant incolpa dell’adulterio Keu, ancora ferito, e Lancillotto difende l’onore
ingiustamente macchiato dal siniscalco, ma viene catturato e imprigionato; spetta così a Galvano ricondurre
Ginevra a corte. Lancillotto evade per poter partecipare di nascosto al torneo di Noauz e dimostrare alla sua
regina la propria devozione e sottomissione; viene nuovamente incarcerato e murato in una torre, sotto la
vigilanza della sorella di Meleagant; ma, proprio grazie alla complicità della sua carceriera, fuggirà giusto in
tempo per presentarsi al duello decisivo con Meleagant e sconfiggerlo. Messo in lavorazione verosimilmente
in contemporanea con il Chevalier au Lyon, il Chevaliers de la Charrete non venne portato a termine da
Chrétien, che lo interruppe all'altezza della prigionia di Lancillotto nella torre, affidandone la conclusione a
Godefroi de Lagny che dichiara il proprio intervento nell’explicit del romanzo. Il Chevaliers au Lyon e il
Chevaliers de la Charrette, oltre a essere scritti quasi in contemporanea, hanno più di un punto di contatto: i
titoli sono giocati sul “nome nascosto” del protagonista e sul valore simbolico dell’emblema che lo rappresenta:
il leone nel caso di Yvain, la carretta infamante, destinata ai criminali, nel caso di Lancillotto; la vicenda di
Yvain interseca quella di Lancillotto, facendovi esplicito riferimento in più occasioni e soffermandosi a un certo
punto sul rapimento di Ginevra che sta alla base dell’aventure del Chevaliers de la Charrete. La matiere di
questo romanzo fu commissionata a Chrétien dalla contessa Marie de Champagne, perché egli ne ricavasse
una nuova conjointure. L’illegittimità del rapporto extra-matrimoniale di Lancillotto, ha fatto pensare che
Chrétien abbia volontariamente lasciato incompiuto il Chevaliers de la Charrette, perché il tema prescelto da
Marie de Champagne non era conforme al proprio pensiero. In realtà, Godefroi de Lagny non gode di libertà
inventiva, ma segue le linee guida indicategli da Chrétien, ma soprattutto, il sen del Lancelot si rivela
complementare a quello dell’Yvain: là dove l’eroe rinsaldava il proprio onore per conquistare e meritarsi il
perfetto amore, qui il perfetto amore esige che l’onore venga svilito per dimostrare la superiorità del
sentimento assoluto. E per “perfetto amore” si deve intendere la fin’amor cortese, in quanto esaltazione di un
trasporto talmente puro da annientare la volontà dell’amante in nome della sua dedizione totale alla donna
amata. Questo è il senso del famoso episodio della charrete che dà il titolo all’opera. Salendo sul carro
dell’infamia, Lancillotto si umilia, e umilia il proprio orgoglio di cavaliere, disubbidisce ai principi della
razionalità e della dignità per ubbidire agli imperativi della passione; così come Yvain diventa folle per amore,
Lancillotto compie una follia quando decide di agire secondo dismisura, quella dismisura amorosa che il “dio
d’amore” esige da coloro che vogliano godere delle gioie della sua corte, ma che difatti Galvano, simbolo di
una cortesia misurata e mondana, rifiuta di condividere. Per inciso possiamo notare anche il parallelo implicito
tra Lancillotto al completo servizio della sua regina e Chrétien al completo servizio della sua committente. Del
resto, l’esaltazione del codice della fin’amor trasfigura in chiave romanzesca gli ideali mondani coltivati alla
corte champenoise e aspira a fare di quest'ultima l'esempio massimo di raffinamento dell'etica cortese.
L’episodio del duello tra Lancillotto e Meleagant è paradigmatico nel teatralizzare due aspetti essenziali di
questo sistema di valori: la segretezza del sentimento e l’autorità della dama. E’, infatti, solo in questa
circostanza, ben oltre la metà del romanzo, che viene per la prima volta rivelato il nome dell’eroe arturiano; e a
farlo è proprio Ginevra, colei che è arbitro assoluto della sorte dell'eroe, colei che con una semplice occhiata
ferisce mortalmente il cuore dell'amato ma allo stesso tempo vi trasfonde la forza salvifica soprannaturale
dell'amore. Il percorso che il cavaliere-spasimante deve compiere per raggiungere la sua dama non è qui
rappresentato solo dalla serie di ostacoli ch’egli deve superare per espiare una colpa o dimostrare la propria
crescita interiore in funzione di un equilibrio perduto, da ristabilire o migliorare: è invece una vera e propria
quête, una “ricerca” volontaria, intrapresa per libera scelta, per conquistare il bene supremo, cioè Ginevra.
L’obiettivo della quête e il premio per il suo esito positivo coincidono con la persona della regina, per il cui
amore Lancillotto deve essere disposto a spogliarsi dell’onore cavalleresco e di quello virile; tant’è che per
oltrepassare il Ponte della Spada, ultima barriera tra sé e Ginevra, egli si sveste d’abiti e d’armi, e spinto
dall’amore che sorregge il suo spirito e rende agili i suoi movimenti, attraversa la passerella affilata a mani e
piedi scoperti, con eroica sopportazione del dolore provocatogli da tagli sulla carne nuda. Il sen è di natura
allegorica, imperniato sull’amore che sfida qualunque pericolo, persino la morte. Rispetto all’eroe Yvain,
Lancillotto è qui una sorta di anti-eroe, perché si fa paladino non di una causa collettiva, bensì tutta privata e
che ha implicazioni solo personali; dal punto di vista della morale ufficiale, il percorso di Lancillotto è involutivo,
perché lo allontana dalla retta via del servizio di corte; dal punto di vista del codice amoroso, egli evolve da
cavaliere desiderante ad amante desiderato, e l’intimità concessagli da Ginevra alla fine è la fusione di due
spiriti eletti, riuniti oltre gli impedimenti del materiale, del basso, del quotidiano nell’estasi della più pura gioia
reciproca. Il paradosso del “morire per amore” della lirica trobadorica diventa per Chrétien azione, viene cioè
tradotto nella pratica di un servitium amoris fatto di atti, di dimostrazioni affettive e non solo di parole. Quindi,
oltre la fin’amor, ad un livello più alto di significazione allegorica del testo, il fin amans incarnato da Lancillotto
può essere una figura Christi, la cui esperienza di tipo messianico, alla ricerca del sommo bene, mostra la via
che conduce al vero amore, quello in cui affectus ‘sentimento’ e intellectus ‘intelletto’ si fondono nell’estasi
mistica, nella contemplazione di Dio che “apre le porte” al “godimento perfetto e senza fine”. In quest'ottica
anche l’episodio notturno nella camera di Ginevra perde un'implicazione carnale e adulterina, andando invece
a rinsaldare l'ortodossia della visione morale di Chrétien.

Perceval o Li Contes del Graal


Il “racconto del Graal”, così chiamato da Chrétien stesso nel prologo, narra di Perceval il Gallese, di come
divenne un cavaliere della Tavola Rotonda e delle molte avventure che seguirono la sua investitura.
Nonostante Perceval sia stato allevato dalla madre vedova nella totale ignoranza delle armi guerriere e della
cavalleria, nel tentativo di sottrarlo ad un destino crudele, già toccato al padre e ai suoi fratelli maggiori,
l’incontro casuale con cinque cavalieri di Artù fa sì che egli ne resti così ammaliato da scoprire la propria
vocazione. Insensibile al dolore della madre, che vedendolo partire si accascia a terra, si reca così alla corte di
Artù per ottenere l’investitura. Le sue prime azioni dettate dall’ingenuità e dall’ignoranza del mondo e delle
maniere cortesi, sono rozze e maldestre, e anche violente, finché egli non incontra il nobile Gornemant de
Goort, che lo istruisce su come essere degno dell’Ordine della cavalleria. Perceval riparte all’avventura: libera
dall’assedio il castello di Beaurepaire e si innamora della castellana, Biancofiore; soggiorna nel maniero del
malato Re Pescatore, e assiste senza porre domande all’enigmatica processione della lancia stillante sangue
e del graal; incontra una sua cugina e viene da questa criticato perché, non avendo chiesto spiegazioni sul
misterioso corteo, ha mancato di guarire il Re Pescatore, E ha dato dimostrazione di quella stessa insensibilità
d'animo che, spronandolo ad abbandonare la madre senza rimpianti, aveva provocato la morte di lei. Perceval
si ricongiunge infine alla corte di Artù; qui giunge un’orrenda fanciulla su una mula selvaggia, che, maledetto
Perceval per il suo silenzio al castello del Re Pescatore, invita i cavalieri a cimentarsi in due ardite imprese
cavalleresche: torneare coi più scelti soldati del Castello Orgoglioso e liberare la fanciulla assediata a
Montesclaire. Galvano e tutti gli altri cavalieri raccolgono la sfida; Perceval, turbato, decide invece di non darsi
posa finché non avrà ritrovato la lancia e il graal e non ne avrà appreso la funzione. Mentre Galvano è
impegnato in continue peripezie, Perceval trascorre i cinque anni seguenti compiendo le gesta più mirabili,
senza tuttavia trovare ciò che cerca e dimenticandosi completamente di Dio. Un venerdì santo Perceval
prende coscienza della propria riprovevole condotta, ne prova per la prima volta rimorso, si pente e si
confessa presso un santo eremita, che si rivela essere suo zio; questi assolve il nipote – che scopre di
appartenere egli stesso al lignaggio del graal – e lo educa ai misteri più profondi della fede che, da quel
momento in avanti, guideranno il suo operato. La narrazione a questo punto abbandona Perceval per
dedicarsi esclusivamente alle avventure di Galvano, che occupano tutta la seconda parte, peraltro incompiuta,
del romanzo. Il mito del graal (e della quête ad esso collegata) nasce con questo romanzo, dove per la prima
volta vengono conferiti al recipiente così denominato (dal lat. GRADALEM ‘piatto da portata’ ‘vassoio’) un
valore simbolico e una sua propria misteriosa sacralità, ancora però svincolata da implicazioni religiose che ne
fisseranno l’essenza a partire dai romanzi di Robert de Boron. La descrizione del graal è assai vaga, e l’unica
cosa che ci viene detta è che è d’oro e tempestato di pietre preziose e che viene tenuto in mano da una
fanciulla. La cristianizzazione del piatto resta velata, anche nelle parole che l'eremita rivolge a Perceval
penitente, ma l’utilizzo di un lessico di stampo liturgico-misterico (il graal è detto “cosa santa”, il suo contenuto
è un’ostia che tiene miracolosamente in vita il recluso “re spirituale”, padre del Re Pescatore e zio a sua volta
di Perceval”) marca il trapasso ideale dalla preziosità materiale dell’oggetto al suo pregio metaforico, e getta le
basi per la sua trasformazione, che si compirà nella letteratura successiva, in vera e propria reliquia da
venerare. Il romanzo è incompiuto (forse per la morte dell’autore), ma esistono varie prosecuzioni più tarde,
dette “Continuazioni”, che cercano di dare un seguito e una conclusione alla vicenda dell’eroe arturiano, la più
complessa e ambigua conjointure inventata da Chrétien, non solo perché giocata su due protagonisti,
Perceval e Galvano, le cui vicissitudini si dipanano da un certo momento in poi in parallelo e si alternano nella
narrazione, ma soprattutto perché il tessuto dei riferimenti simbolici sottesi al racconto d'avventura è talmente
elaborato da suggerire e lasciare aperte più piste d’interpretazione. Le particolarità e le anomalie strutturali del
Perceval hanno portato la critica moderna ad avanzare diverse ipotesi sulla consistenza del contributo di
Chrétien all’interno dell’opera: è stato supposto che a lui sarebbe da ascrivere soltanto la prima parte del
romanzo, mentre l'intera storia di Galvano, nella seconda parte, andrebbe attribuita ad un continuatore
indipendente; oppure, si è pensato a due opere in origine distinte, l’una incentrata su Perceval, l'altra su
Galvano, entrambe composte da Chrétien, ma riunite e tra loro collegate dopo la sua morte. È stato tuttavia
giustamente rilevato che alcuni degli aspetti più tipici del Perceval sono presenti in forma embrionale anche
nei romanzi precedenti, come nel caso della modalità narrativa a storie parallele, già abbozzata nel Lancelot.
È evidente d'altra parte che le storie di Galvano, in fondo statiche e quasi insensate nella loro labirintica
tortuosità, sono quasi in contrasto con quelle di Perceval, che delineano invece un progressivo percorso di
formazione e di educazione spirituale, e rappresentano un modello di cavalleria da superare, un mondo in cui i
valori vengono messi in discussione. Il Contes del Graal, come il Chevalier au Lyon o il Chevaliers de la
Charrete, è un romanzo “emblematico”, associa cioè alla figura del protagonista un emblema atto a
rappresentarne astrattamente i valori distintivi: e il graal, rispetto al carretto infamante e al leone, è senza
dubbio il simbolo più riuscito nel costruire il sen da cogliere oltre la trama del racconto d’avventura. Le direttrici
del progetto artistico ideologico dell'autore sono, come di consueto, esposte programmaticamente nel prologo,
dedicato al committente dell'opera, Filippo d’Alsazia conte di Fiandra, dove l'immagine iniziale, desunta dalla
parabola evangelica del seminatore, avvia una complessa riflessione sulla necessità di approfondire e anzi di
rifondare i valori cavallereschi. La dedica a Filippo d’Alsazia ci fornisce il termine ante quem oltre il quale non
possiamo spingere la datazione del romanzo: si tratta del 1191, anno della morte del nobile francese,
impegnato nella terza Crociata. Di lui Chrétien esalta la dote cortese per eccellenza, la liberalità. Occasionato
dal nome Filippo, uguale a quello del sovrano padre di Alessandro Magno, e fondato sulla proverbiale
generosità di entrambi, il confronto tra il committente francese e il condottiero macedone serve ad opporre due
sistemi culturali e di valori diversi: la munificenza pagana dell’eroe classico e la generosità del mecenate
medievale, l’una sterile perché non ispirata da e a Dio, l’altra feconda di ricadute benefiche perché
espressione della carità cristiana. Il passo si amplia a comprendere anche il concetto di utilitas della scrittura:
tanto più generoso di successi sarà l’esito artistico di Chrétien, quanto più nobili e illuminati si riveleranno il
soggetto scelto e il pubblico cui esso è rivolto. L’exemplum tratto dalla materia antica, molto in voga tra i
contemporanei, lo stile esplicativo tipico delle glosse e della produzione didascalica e infine l'insegnamento
dottrinale sotteso alla narrazione dilettevole evidenziano una concezione del testo tripartita per gradi di senso -
letterale, simbolico e morale - caratteristica della pratica esegetica medievale. L'invito è pertanto a cogliere nel
Perceval più livelli di significazione. Allo stadio più elementare dell’intreccio avventuroso siamo in presenza di
un “romanzo di formazione” (Bildungsroman) che ci descrive, spesso con ironia, l’apprendistato cortese
dell’eroe e la sua maturazione da giovane inesperto a cavaliere modello. In chiave metaforica, la quête del
protagonista è invece una ricerca della verità, che traduce la graduale conquista della propria personale libertà
di scelta, quella che lo spinge a staccarsi dal gruppo dei cavalieri arturiani, impegnati ad accrescere l’onore,
per consacrarsi alla malcerta missione di ritrovare il graal. All’ultimo stadio, il testo esemplifica un codice di
comportamento morale, e la vicenda individuale di Perceval, segnata dall'esperienza della colpa, dal
pentimento e dalla redenzione finale, simboleggia il cammino di espiazione e perfezionamento interiore che
ogni Cristiano credente è chiamato a realizzare. Il vero “senso”, quindi, è quello di un itinerario alla scoperta
prima di sé stesso e poi di Dio: Perceval “scala” i gradini della conoscenza di sé stesso e del mondo sensibile
(attraverso l’esercizio delle armi e l’amore per Biancofiore), per acquisire consapevolezza delle pulsioni più
spirituali dell’anima e arrivare così a penetrare il valore profondo della rivelazione divina. La scena di Perceval
presso lo zio eremita è debitrice al simbolismo cristiano del mistero trinitario ed eucaristico: si svolge in una
chiesa dove i tre officianti, l'eremita, un prete e un giovane chierico ripropongono il trinomio di Padre, Figlio e
Spirito Santo; l'eremita, dopo aver spiegato la funzione prodigiosa del graal e dell'ostia in esso raccolta,
rimette al nipote i peccati commessi, e questi, come illuminato dalla misericordia divina, rinasce ad una nuova
vita sotto il segno della devozione e dell’umiltà. Una costante dell’opera è la dialettica di sterilità e
rigenerazione, tanto che l’esordio del romanzo è fatto coincidere con il risveglio della Natura a primavera, ma
sullo sfondo di una “foresta desolata”. Silenzio, desolazione, infertilità sono del resto i segni che punteggiano
da un lato i successivi momenti della vicenda e che contraddistinguono, dall’altro, la condizione di errore o
difetto dell’eroe e dei personaggi a lui collegati e condizionati dalle sue scelte, siano esse positive o negative:
così, ad esempio, il silenzio di Perceval a proposito della processione del graal può essere letto come indice
della sua originaria incapacità di “leggere” e decifrare, e magari riplasmare, le apparenze del reale, e il fatto
che egli rimanga impermeabile alle sollecitazioni cui la generosa ospitalità del Re Pescatore sottopone la sua
curiosità penalizza tanto se stesso quando il padrone di casa, che una semplice richiesta di spiegazioni
avrebbe miracolosamente guarito della ferita alle cosce, responsabile della sua invalidità e dell’infecondità
della sua terra. La salvezza del Re Pescatore e del suo regno si pone come il correlativo figurato della
salvezza assicurata all’uomo dall’applicazione del messaggio evangelico, il quale però ha bisogno di una
profonda e consapevole disponibilità interiore per mostrare la propria validità e per redimere il mondo.
L’universo cavalleresco ritratto da Chrétien ebbe tanto successo da imporre la figura del giovane cavaliere
errante come protagonista romanzesco per antonomasia, per tutto il Medioevo e anche oltre: senza contare
che alcune sue invenzioni, come quella del Graal, furono subito recepite e ampliate. Elaborando un modello
narrativo che permettesse di mettere in luce il sen cortese delle storie bretoni, egli ha messo in opera una
nuova concezione della “verità” romanzesca, autonomamente fondata sulla coerenza interna e sul valore
esemplare del racconto. Anche per questo – oltre che per le grandi qualità del suo stile narrativo, dove
spiccano la rapidità e l’incisività di scrittura, e la straordinaria maestria nella costruzione dei dialoghi e dei
discorsi diretti che definiscono i personaggi – le opere di Chrétien de Troyes segnano una tappa fondamentale
nella storia del romanzo come genere letterario.

1.7 FORME DEL RACCONTO: MARIE DE FRANCE E LA TRADIZIONE CORTESE


Alla matière de Bretagne si ispira originariamente anche il genere del lai, termine di ascendenza irlandese
(laid da canto - melodia) con il quale si designano brevi componimenti in versi di contenuto narrativo in cui le
tematiche d’amore e avventura s’intrecciano con gli elementi fiabeschi e “meravigliosi” tipici delle tradizioni
celtiche. Gli esempi più antichi e paradigmatici del genere i Lais di Marie de France, composti verosimilmente
tra 1160 e 1180. L’autrice, sconosciuta, viene dall’Île de France ma vive e scrive in Inghilterra, alla corte di
Enrico II Plantageneto, e va collocata dunque in quello spazio in cui per la prima volta il confronto tra cultura
latina e cultura volgare si risolve in un deciso e innovativo avanzamento di quest'ultima. Eloquente in questo
senso è il prologo dei Lais, in cui l'autrice motiva la sua rinuncia alle consuete fonti latine scritte, in favore di
una “fonte” volgare essenzialmente orale, e per ciò stesso destinata altrimenti a perire. La cultura di Marie è
comunque molto vasta ed è indiscutibile la sua conoscenza del latino; le fonti di ispirazione sono molteplici: c’è
la materia bretone; ma è presente anche Ovidio; c’è l’influsso dei romanzi più o meno coevi di materia antica,
cui si fa allusione nel prologo (specie il Roman d’Eneas); e c’è persino materia tristaniana, tuttavia con una
straordinaria varietà d’intrecci e spunti narrativi. Il lai di Eliduc è una trasposizione del mito di Glauco; il lai di
Lanval racconta di un cavaliere amato da una fata che viene condotto in un mondo misterioso; il lai di
Bisclavret è la storia del lupo mannaro; il lai di Milun narra il ricongiungimento di due amanti segreti con il
figlio nato dalla loro relazione illecita; il lai del Frassino svolge il tema delle sorelle gemelle divisa la nascita; il
lai d’Equitan è la storia di un re che si innamora della moglie del suo siniscalco, e fa una brutta fine; il lai di
Yonec descrive la trasformazione dell'amante in uccellino per incontrare l’amata segregata dal marito; il lai
dell’Usignuolo parla del dialogo notturno tra due amanti eternamente separati; il lai dell’Infelice riferisce di una
dama amata da quattro cavalieri. Il grande tema dei Lais di Maria è indubitabilmente l’amore, specialmente
l’amore adultero e dunque segreto, con i pericoli che esso comporta, rappresentato in toni malinconici e
fantastici. L’amore è il motore dell’azione e il fulcro della morale, sia che la storia sia lieta o tragica, sia che si
debba ammonire o celebrarlo. Ed è importante sottolineare che, anche quando il racconto assume pieghe
quasi farsesche e i valori messi in scena sono negativi, sì che la morale serve a mettere in guardia dal cattivo
esempio che essi veicolano, il codice di riferimento è sempre quello aristocratico e cortese, così come i nobili
sono i protagonisti di tutte le storie: : elemento di distinzione dalle coordinate borghesi tipiche del fabliau e del
dit. Non a caso nel lai d’Equitan, che termina con l’uccisione del cavaliere plagiato e della sua malvagia amica
nella trappola di acqua bollente preparata da loro stessi per sbarazzarsi del marito leale, la presa di distanza
dall’etica e dall’ottica borghese è apertamente formulata. Questo episodio è inoltre impregnato dei simboli e
dal lessico della fin’amor, come se questa sua codificazione servisse a meglio mostrare la gravità della
trasgressione e la giustezza della punizione. L'attacco del racconto rimarca la nobile origine e la nobile
funzione dei Lais, composti per un pubblico aristocratico e colto, quasi a giustificare preventivamente
l'anomalia rispetto alle regole della cortezia che il racconto poi rappresenterà. Il personaggio principale,
Equitan, è un sovrano di rinomate virtù cavalleresche, è rappresentante di quella ‘Giovinezza’ che fa della
“follia” amorosa, la vera saggezza, la vera ‘misura’ della sua passione. La donna amata è bellissima, ed
Equitan la desidera ancora prima di averla vista per il bene che ne dicono. Equitan si ritrova nella condizione
topica dell’amante “malato d’amore” che non dorme e non ha altri pensieri se non l’oggetto del suo desiderio.
La differenza di status tra il signore e la moglie del maniscalco è un elemento disarmonico nella coppia che la
donna infatti mette in risalto. È proprio la violazione di questo divieto nel codice di comportamento cortese che
prende vita la concatenazione di eventi negativi: i giudizi contrari alla copia aumentano, la gelosia della dama
accresce la sua malafede, fino al punto che essa arriva a progettare l'assassinio del marito, con la complicità
dell'amante, ormai totalmente asservito ai suoi desideri e privo di raziocinio. La dinamica della fabula a questo
punto è irreversibile: all’infrazione segue l’arresto e la loro punizione, ossia i due vengono scoperti dal
siniscalco e muoiono, Equitan per un involontario suicidio, provocato dalla vergogna della sua colpa, e la
donna per mano del marito. L’equilibrio è ricomposto attraverso l’eliminazione di tutti gli “elementi perturbatori”
della norma cavalleresca e tradizione cortese: il “dono”, il piacere che i due amanti si erano concessi dopo
aver sancito, con degli anelli, il loro patto, si è trasformato in danno, e le loro pratiche amorose, coperte da un
rispetto solo formale e di facciata, sono state smascherate per quello che sono veramente, ossia l'espressione
del sentimento in assoluto meno nobile e più aborrito: la villania. Il mondo della “prodezza” e della “nobiltà”
resta comunque il quadro ideale preferito dalla maggior parte dei lais oitanici, anche se i successivi autori
anonimi di lais bretoni conserveranno solo in parte le caratteristiche fissate da Marie de France inserendo
ingredienti novellistici e romanzeschi di tradizione prettamente cortese - come nel caso del Lai de l’Ombre, di
Jean Renart. Nel Lai de l’Ombre i due amanti siedono presso una fonte e le loro figure si riflettono nell'acqua.
Il giovane getta nell'acqua l'anello rifiutato dall’amata e prega all'immagine di lei riflessa di accettarlo. Una
delle storie d’amore più celebri del Medioevo è quella di Floire et Blancheflor, un racconto in versi del XII
secolo, sulle peripezie di due innamorati osteggiati per ragioni di razza e religione (Florio è arabo e
musulmano mentre Biancofiore è francese e cristiana) con lieto fine. Con Gautier d’Arras il genere si espande
fino a diventare romanzo di materia bretone, quello di Ille et Galeron. Una tipologia particolare di narrazione
breve è quella rappresentata da Aucassin et Nicolette, che viene definito una chantefable “cantafavola”,
perché alterna parti in versi e parti in prosa in un rovesciamento parodico delle norme cortesi entro una trama
romanzesca: l’eroe, il cavaliere cristiano Aucassin si innamora della schiava saracena Nicolette e, dopo
svariate peripezie, riesce a sposarla; ma tutte le caratteristiche dell'avventura cavalleresca sono stravolte, per
cui il protagonista maschile non è coraggioso ma lamentoso, ed è invece l'eroina femminile a risolvere gli
intoppi dell'intreccio fino a lieto fine. Conservano il nome di lai, ma appartengono piuttosto al genere dei
fabliaux il Lai dou cor e il Lai d’Aristote, in cui la materia del Roman d’Alexandre viene piegata al motivo del
dominio che l’amore esercita sugli uomini, anche dei più sapienti: il filosofo Aristotele si innamora della stessa
donna da cui aveva fatto allontanare il suo discepolo Alessandro per paura che lo influenzasse negativamente;
a tal punto l'ormai attempato Aristotele viene soggiogato dalla ragazza da accondiscendere alla sua richiesta
di farsi portare a spasso caricandola sul dorso. Agli occhi del divertito Alessandro il grande filosofo che
cammina a quattro zampe appare come un ridicolo ronzino. Il motivo centrale e il tono del racconto sono
parodici; la situazione rappresentata costruita attorno al topos dell’invincibilità dell’amore, ne riafferma la
validità attraverso la sua apparente negazione, affida cioè a una vicenda esemplare in negativo (figura del
saggio Aristotele) che è un vero e proprio antiexemplum, la propria verità morale. Come l'autore stesso ci dice,
non siamo più nel genere del lai ma in quello meno sfumato e più concreto del dit. Assimilabili ai lais sono
infine i racconti di materia ovidiana, ispirati alla Metamorfosi, come la Philomela, opera giovanile di Chrétien
de Troyes, oltre all’anonimo Lai di Narciso (Narcisus) e alla storia di Piramo e Tisbe.

1.13 LA PROSA
Fino alla metà del Duecento, in ambito oitanico, non esistono produzioni in prosa. I soli testi prosastici
anticofrancesi anteriori a quest'epoca sono inseribili entro il dominio pratico-utilitario, come documenti o atti
notarili, o all'interno del filone religioso-edificante. A parte stanno i primi tentativi di scrittura storiografica, in
particolare quelli di Robert de Clari e Geoffroy de Villehardouin, autori di due importanti resoconti della quarta
Crociata. Robert de Clari, cavaliere piccardo, partecipò a tutti gli avvenimenti più importanti della crociata; la
sua esperienza diretta e il suo attivo coinvolgimento nella missione nei territori d’Oltremare sfocia nell’Estoire
de chius qui conquisent Coustantinoble ‘Storia di coloro che conquistarono Costantinopoli’, opera dal carattere
‘misto’, perché su un impianto di genere memorialistico, si innestano gli excursus (digressioni dell'autore su
cose e fatti non vissuti in prima persona, ma da lui solo riportati) e gli exempla (apologo sulla caduta di
Bisanzio, e quello sulla punizione dei baroni avidi e ingiusti nella spartizione dei bottini), a sottolineare
l'attenzione dedicata anche all'aspetto narrativo e didattico. L’uso che fa del discorso diretto serve per
convalidare veridicità delle informazioni e cerca di trattare i temi senza intromissioni e senza interferenze del
suo giudizio. Geoffroy de Villehardouin, nato verso il 1150, partecipa anch’egli alla quarta Crociata, e di questo
evento centrale nella sua biografia umana e artistica redige un dettagliato resoconto prosastico in volgare, De
la conqueste de Constantinoble, in cui la ricerca della verità storica si traduce sul piano letterario in uno stile
cronachistico essenziale, esente dal gusto per l'aneddoto o per il curioso e piuttosto incline a sfruttare i moduli
dell'epica per scopi encomiastici. Le personalità crociate più in vista sono, infatti, protagoniste di episodi
esemplari di prodezze e virtù, mentre lo stile formulare e la costruzione narrativa delle vicende riprendono
tecniche tipiche della chanson de geste. La prosa di Villehardouin è ricca di costruzioni parallelistiche,
consequenze a due membri, o a tre membri; sono frequenti gli appelli diretti al pubblico/lettore, derivati
dall'oralità delle affabulazioni giullaresche; addirittura viene conservata e adattata alla prosa la tecnica
propriamente epica delle lasse parallele, come ben mostra la progressione narrativa con ripetizione di
formulazioni sintattico-lessicali affini nei paragrafi 340-342. La marcata selezione dei contenuti, polarizzati tra
l'esigenza di certificazione testimoniale delle scritture giuridiche e l'affermazione di principi morali e dogmatici
nel settore didattico-omiletico, ci fornisce precise indicazioni sulla forte saldatura che si avvertiva tra
formulazione prosastica e istanza di autenticità. La tradizione culturale del Medioevo cristiano tende infatti a
stabilire l'equazione prosa = verità. La prosa è la modalità espressiva normale della teologia, è la forma
dell'esegesi, è ancora soprattutto il linguaggio della Bibbia, libro sacro in cui si annuncia il Verbo divino e si
espongono le verità della fede. Già Isidoro di Siviglia, nelle sue Etymologiae, contrappone alle sinuosità della
poesia, che piega le idee ai suoi giri sintattici e alle sue leggi metriche, l'espressione piana e lineare della
prosa, la quale aderisce ai suoi enunciati senza costringerli nelle strettoie di stampi formali precostituiti. Si
capisce quindi come il successivo passo tra “rettilinearità” e “rettitudine” sia breve. In quanto connessa ad una
rivendicazione di verità, la scrittura prosastica si allaccia alle tematiche religiose: non è sorprendente quindi
che le prime narrazioni in prosa del Duecento furono le storie del Graal, le cui vicende riguardano la salvezza
dell'intera umanità, assumendo pertanto una portata universale. Si tratta del cosiddetto “Ciclo della vulgata” (o
Vulgate) conosciuto anche come “Lancelot-Graal” apparso nel 1215-30 e frutto di un grande sforzo
rielaborativo di materiali di varia provenienza. Tale ciclo, con cui nasce il moderno romanzo in prosa, è
composto di cinque parti: Estoire del Saint Graal, Merlin, Lancelot, Queste del Saint Graal, Mort le roi Artu.
Esso si presenta come un monumentale progetto narrativo, che fonde in un insieme saldamente strutturato e
coeso le avventure di Lancillotto e le storie del Graal, originariamente distinte: l’Estoire è una prosificazione
della trilogia graaliana di Robert de Boron, cui va riconnesso anche il Merlin; il Lancelot è una prosificazione
del Lancelot di Chrétien de Troyes e dei suoi continuatori; la Mort le roi Artu si fonda su un tema presente
nell’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth; per la Queste, la ‘Ricerca del Graal’, mancano invece
i paralleli con precedenti romanzi in versi, cosa che inficia l'ormai sorpassata interpretazione critica del Ciclo
della Vulgata come derivazione da rimaneggiamenti prosastici di romanzi in versi, inizialmente indipendenti, e
solo in seguito rielaborati a formare un corpus organico. Come artefice di questo corpus, la tradizione fa il
nome di Gautier Map, sia nella Queste che nella Mort le roi Artu. Questa attribuzione non è tuttavia confermata
dalla cronologia biografica dell’autore: Gautier Map fu infatti un importante funzionario della corte di Enrico II
Plantageneto, ma risulta morto prima del 1210. È stato osservato che la Vulgate presenta un doppio registro:
si rileva infatti una dicotomia abbastanza netta tra l'impronta eroticocavalleresca del Lancelot e la tensione
ascetica e mistica che permea la sezione della Queste. Un esempio del codice della cortesia che impegna la
trama del Lancelot può essere offerto dall'episodio in cui Ginevra, dopo una notte agitata da incubi di
tradimento e allucinazioni che sembrano volerle suggerire la morte dell'amato Lancillotto, lontano in missione,
si tortura a causa della forza della propria passione, una passione che lacera interiormente e allo stesso
tempo la tiene in vita, ma che la deve tenere segreta, visto che si tratta di un sentimento fedifrago di cui il
marito Artù va tenuto all’oscuro. Vi ritroviamo topoi della fin’amor; i personaggi incarnano quelli della lirica
trobadorica; il lessico attinge dal più puro vocabolario amoroso. Il tutto all’interno della narrazione romanzesca
in prosa, che conferisce uno sviluppo di energetico dell'episodio entro la cornice globale della storia, lo
inserisce e lo collega all’aventure degli eroi arturiani e ne movimenta lo sviluppo con l'inserto di dialoghi. La
conclusione della Queste è, invece, un esempio perfetto del misticismo religioso che ammanta le vicende del
Graal e che si traduce sulla pagina scritta in una prosa reminiscente della scrittura evangelica, per l'uso della
paratassi più elementare, per i brevissimi dialoghi in forma di domanda retorica, per il carattere iniziatico della
situazione descritta, e cioè la morte mistica del puro Galaad, e la successiva volatilizzazione della Sacra
Coppa per mano divina. È stata avanzata l'ipotesi che l'autore sia un rappresentante del clero palatino, capace
di fondere assieme la sensibilità spirituale e quella cortese, nel segno di una non banale e non meccanica
ricerca di poeticità del racconto. D'altra parte, le divergenze di impostazione “ideologica”, che dipendono
anche dalle fonti, sono compensate dalla meravigliosa compattezza del disegno diegetico complessivo, fitto di
allusioni e richiami interni, che intreccia molteplici azioni secondo meccanismi parallelistici e schemi speculari.
Così, ad esempio, la forza distruttiva e peccaminosa dell'amore che impedirà a Lancillotto di essere l'eroe
prescelto per la conquista del Graal (eleggendo però allo scopo il figlio), sarà anche la causa ultima della
dissoluzione dei valori dell'universo arturiano e della distruzione di quel mondo, tragicamente sancita dal
sanguinoso duello tra padre (Artù) e figlio, nella Mort le roi Artu. Il calibratissimo gioco di rinvii intratestuali e di
riprese simmetriche intra- ed extratestuali è ulteriormente complicato dall'impiego della tecnica
dell’entrelacement, che consiste nel tenere contemporaneamente accesi diversi fuochi narrativi, alternandoli
ed evidenziandone i punti di convergenza; tant'è che, come ha puntualmente rilevato Ferdinando Lot, a
proposito dell'architettura interna del Lancelot, ma con applicabilità estesa all’intero Ciclo della Vulgata, è
difficile, se non impossibile, operare delle autentiche divisioni; nessuna avventura forma un tutto a sé stante;
da una parte alcuni episodi anteriori, lasciati provvisoriamente da parte, vi prolungano le loro ramificazioni,
dall'altra una serie di episodi successivi, vicini o lontani, sono già avviati. Del resto, con questi romanzi siamo
in presenza di organismi assai complessi, molto più lunghi e articolati rispetto alla media dei romanzi in versi
del secolo XII. Secondo Martin de Riquer questa dilatazione del romanzo è avvenuta a causa delle
trasformazioni nella pratica scrittoria: prima su tavolette di incerate (obbligatorio stile serrato e lineare), ora su
fogli di carta (permette riletture e controlli continui). L'osservazione è di estrema importanza: nella storia delle
creazioni letterarie le innovazioni possono discendere, almeno in parte, dal cambiamento delle modalità
tecniche di produzione materiale del testo. Oltre al Lancelot-Graal, vanno ricordati lo sterminato Roman de
Tristan in prosa, composto a ridosso della metà del XIII secolo, e il Guiron le Courtois, di poco posteriore. Il
Tristan verte sulle vicende di Tristano e Isotta, partendo dalla storia dei genitori dell'eroe, e collegando
quest'ultimo alla materia arturiana attraverso la narrazione della sua entrata a far parte dei cavalieri della
Tavola Rotonda. Soprattutto questa seconda sezione dell'opera con il suo succedersi di episodi avventurosi e
prove da superare, ben mostra perché si sia soliti parlare di roman à tiroirs ‘romanzo a incastri’: giacché a
differenza della tecnica dell’entrelacement che movimenta su più fronti simultanei l'intreccio della Ciclo della
Vulgata, in questo caso i racconti sono disposti l'uno dopo l’altro, come unità susseguenti, all'interno di una
cornice narrativa globale che è appunto quella relativa ai fatti degli amanti di Cornovaglia. Ci soffermiamo
sull'episodio di Tristano che riacquista il proprio senno dopo essere impazzito per amore di Isotta: questo suo
peccato di “dismisura” ne aveva provocato la momentanea uscita di scena, dalla vita di corte e anche dal
racconto; la sua temporanea assenza era stata così supplita da due lunghe digressioni, l'una sulla prodezza di
Lancillotto, l'altra sulla malattia d'amore del cognato Caerdino, che avevano avuto la funzione di mantenere
viva la memoria dell'eroe anche in sua assenza, fino al momento della sua guarigione e della sua partenza
dalla Cornovaglia alla volta del regno di Artù, dove poi si misurerà con i cavalieri della Tavola Rotonda. Il
Guiron, composto circa nel XIII secolo e articolato in tre branches, traccia una sorta di genealogia degli eroi
arturiani, moltiplicando le situazioni avventurose in luoghi magici e foreste incantate, che hanno però come
protagonisti i progenitori dei campioni della Tavola Rotonda: sono i contemporanei di Uter Pendragon (padre di
Artù), di Lac (padre di Erec), di Meliadus (padre di Tristano) e così via. Il prologo dell’opera esplicita la volontà
di ricostruire la “preistoria” delle vicende arturiane, tralasciata dagli altri romanzi cavallereschi. Una delle
caratteristiche più originali del Guiron le Courtois è la visione in esso espressa di un “fantastico” umanizzato,
una concezione del meraviglioso e dell’insolito non prodotti dal soprannaturale ma come prodotto eccezionale
di una qualità o di un’azione umana fuori dal comune. È probabilmente la maggior linearità architettonica di
questi due ultimi romanzi in prosa, rispetto ai romanzi della Vulgate, a far sì che siano proprio il Tristan e il
Guiron a diventare modelli delle compilazioni più tardive, francesi e italiane. Va detto infine che la diffusione
manoscritta delle prosificazioni del Duecento si caratterizza per propensione alla mouvance: i copisti trattano
questi testi con una certa libertà, rimaneggiandoli e ritoccandoli, negli aspetti formali come nel contenuto.
Così, nelle trafile della tradizione, le opere appaiono identiche e altre da sé stesse, secondo una gradazione di
processi rielaborativi più o meno accentuati.

CAPITOLO 6: LETTERATURA ITALIANA DELLE ORIGINI E TRADIZIONI GALLO-


ROMANZE
6.3 LA DIFFUSIONE DEL FRANCESE E LA LETTERATURA FRANCO-ITALIANA.
BRUNETTO LATINI. MARCO POLO
Il francese, lingua di ampia diffusione e di considerevole prestigio culturale, venne largamente utilizzato, nelle
scritture due-trecentesche prodotte in Italia settentrionale e in Toscana, sia per la redazione di adattamenti e
rifacimenti di storie bretoni e avventure cavalleresche, sia per la composizione di opere originali di argomento
storiografico e didascalico-enciclopedico (il Tresor di Brunetto Latini, le Estoire de Venise di Martino da Canal,
il Milione di Marco Polo). La scelta della lingua d’oïl come strumento di espressione letteraria da parte di un
autore italiano obbedisce a motivazioni insieme pratiche ed estetiche. Scrivere in quell’idioma significava
anzitutto poter raggiungere un pubblico internazionale e assai diversificato, che abbraccia tutti gli strati sociali
laici, dai circoli elitari delle corti regali e signorili fino agli ambienti mercanteschi e alla borghesia cittadina. Oltre
ad essere la parlata più diffusa entro la Romània medievale, il francese circolava come veicolo di scambio nei
centri commerciali del Mediterraneo e veniva impiegato come strumento di comunicazione tra le diverse
nationes dell'Impero Latino d’Oriente. Non è un caso se Brunetto Latini e Martino da Canal inseriscono nel
prologo delle rispettive opere un'esplicita dichiarazione programmatica volta a spiegare le ragioni della loro
scelta di scrivere in francese, le quali richiederebbero essenzialmente nella gradevolezza di questa lingua e
nella sua comprensibilità allargata ad un pubblico vasto e internazionale. È stato infatti, giustamente osservato
che alla lingua di Francia veniva riconosciuto un carattere di universalità e demoticità analogo a quello rivestito
dal latino presso i dotti, ma al riconoscimento di efficacia comunicativa si aggiungeva il fascino di una
tradizione letteraria illustre. Il Duecento è un secolo di assimilazione ed elaborazione del patrimonio
intellettuale: si assemblano libri compilativi che registrano e sistematizzano l'insieme delle conoscenze
sull'uomo, la natura e il mondo. Questo universalismo erudito favorisce la sintesi dei saperi dell'epoca,
incoraggiando la realizzazione di collettanee geografiche, racconti di curiosità, veri e propri tesori di scienza. In
questo filone si inserisce il già citato Tresor di Brunetto Latini, redatto durante l'esilio francese dell'autore in
seguito alla sconfitta guelfa nella battaglia di Montaperti, la cui notevole fortuna è documentata dagli oltre
settanta codici che ce lo tramandano e dalle varie tempestive traduzioni. Questa summa, venata di riflessioni
etico-politiche è suddivisa in tre libri: il primo offre un sommario di storia sacra e profana, seguito da
un'esposizione di temi e questioni scientifiche; il secondo libro affronta i problemi della morale; il terzo contiene
un'esposizione delle arti sermocinali, con speciale riguardo all'applicazione della retorica nella vita pubblica
delle realtà municipali italiane. Proprio quest'ultimo libro ha un'importanza particolare nell'organizzazione
editoriale e nel disegno ideologico di Brunetto, ed è infatti anche la parte più innovativa e personale del Tresor:
Sulla scorta dei precetti delle artes dictaminis, che erano il fondamento dell'istruzione impartita negli studia
universitari laici, formalizzati nei manuali di retorica che riprendevano, rimaneggiavano e glossavano il
pensiero e le opere delle autorità classiche, Brunetto fonde la figura del rètore, che è ‘colui che sa pronunciare
discorsi persuasivi’, con la figura del rettóre, che è ‘colui che regge il Comune’, individuando nella ‘rettorica’ la
scienza indispensabile a qualunque uomo di potere. All'ambito didattico-dottrinale va ricondotto anche il
Milione, la cui stesura primitiva in lingua d’oïl è frutto dell’incontro, nelle carceri di Genova, del viaggiatore
veneziano Marco Polo e del pisano Rustichello. Circa le modalità della collaborazione dei due non sappiamo
granché: si può comunque ipotizzare che a Marco spettasse la selezione dei contenuti informativi, attinti dal
ricordo delle peregrinazioni in Oriente e dall'esperienza del soggiorno nell'Impero mongolo, e che a Rustichello
fossero invece affidate la mise en écriture e l'organizzazione dell'assetto testuale. Tale ripartizione dei compiti
è caratteristica delle scritture odeporiche medievali, le quali sono spesso lavori bi-autoriali in cui un
viaggiatore-narratore si avvale dei servigi di un professionista delle lettere. Della versione primogenita del
Milione, risalente al 1298, ci conserva un'immagine abbastanza attendibile il ms. fr. 1116 della Bibliothèque
Nationale di Parigi, dove si legge anche il titolo che ha più probabilità di essere quello originario: Devisement
dou monde, cioè ‘Descrizione del mondo’. Il prologo definisce la materia che il libro si accinge a trattare come
un “trattato ordinato e veritiero” del viaggio compiuto nelle lontane ed esotiche terre d'Oriente dal veneziano
Marco Polo, che redige con Rustichello un grande affresco dell'Asia, mettendo insieme tutte le informazioni
che aveva raccolto sulle genti, i culti, le usanze e le favolose ricchezze di quel continente. Questo libro
singolare, che fornisce un vasto affresco dell’Asia di Gengis Khan, è un'opera di matrice trattatistica che
ingloba nella sua intelaiatura enciclopedica una molteplicità di generi e tipologie testuali. Alla base c'è una
struttura base squadrata e coesa di impianto didascalico-oggettivo, sulla quale si innestano appunti di viaggio,
annotazioni etnografiche, suggestioni romanzesche, spunti novellistici, datti da pratica della mercatura e così
via. Dopo una lunga introduzione che presenta gli “antefatti” della missione e della stesura del libro l'opera
risulta suddivisibile in tre grandi sezioni: la prima parte è consacrata al viaggio verso la Cina, la seconda parte
è dedicata alla figura di Kubilai Khan e alle sue imprese, mentre la terza parte è riservata alle spedizioni nei
territori dell'Estremo Oriente, fino al viaggio di ritorno per mare verso l’Occidente. È in questa sezione che si
trovano le famose pagine sull'invasione del Giappone da parte dei Mongoli. L'analisi di questo passo ne
evidenzia caratteristiche valide per l'intera opera: dal punto di vista contenutistico, si intrecciano informazioni
storiche documentabili con altri imprecise e altre inventate. Dal punto di vista stilistico e formale, la descrizione
si alterna con la narrazione: nello specifico, la concisa scheda geo-antropologica d'apertura è redatta nel
presente il temporale del genere descrittivo, ed è seguito da un episodio di taglio novellistico, di conseguenza
costruito in più momenti logico-temporali, come richiesto dalla materia narrativa. In generale, il disegno
compositivo del registro geografico si incrocia con il vissuto dell'autore, sicché la materia si dispone lungo le
direttrici tracciate dall'itinerario stesso di Marco Polo: in tal modo, i capitoli corrispondono alle cartelle
dell'atlante dell'Asia, e queste a loro volta coincidono con le tappe del viaggio di Marco Polo nelle regioni
orientali.

Potrebbero piacerti anche