Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Erec et Enide
Racconta di Erec, nobile cavaliere della Tavola Rotonda che un giorno, durante la tradizionale caccia al cervo
bianco, viene offeso dal nano del conte Yder e, deciso a chiedere riparazione, si mette in cammino per
partecipare alla giostra dello sparviero. Strada facendo, conosce la figlia di un valvassore, Enide, dalla
bellezza e dalla grazia impareggiabili, se ne innamora e, conclusa vittoriosamente la sua sfida, riporta la
fanciulla con sé a corte, per sposarla. La letizia che il matrimonio arreca alla coppia distoglie però Erec dalle
attività cavalleresche, cosa che gli attira le critiche dei compagni; Enide, sentendosi responsabile, gli confida
costernata ciò che ha sentito dire. Per rimediare, Erec parte all’avventura, facendosi però accompagnare dalla
stessa Enide. Sono otto le prove che lo aspettano: 1. lo scontro prima con tre, 2. poi con cinque cavalieri
briganti, 3. il duello con il conte Galoain, invaghitosi di Enide, 4. il combattimento contro il re Guivret, 5. la
scaramuccia con Keu, seguita da un pernottamento a corte, 6. la lotta contro due giganti, vinta con un
disperdio di energia tale che l'eroe perde i sensi e viene creduto morto, 7. il combattimento con il conte Oringle
de Limors che, pensandolo morto, vuole condurre all’altare con la forza Enide, 8. un nuovo affrontamento con
Guivret, organizzato con l'inganno all'insaputa dei due avversari. A questo punto, il valore di Erec è ristabilito,
così come la fiducia tra marito e moglie; ma c’è ancora la prova decisiva da affrontare: sconfiggere il possente
cavaliere Maboagrain, sottomesso ai voleri di una misteriosa dama e messo a guardia di un giardino fatato. Il
buon esito finale assicura ad Erec la consacrazione definitiva e, dopo che la coppia è stata riaccolta
trionfalmente a corte, Erec succede al padre re Lac, da poco deceduto, e viene incoronato dallo stesso Artù.
Basato su materiali popolari preesistenti che rivelano la matrice leggendaria e folklorica, questo romanzo
intavola l’ideologia portante della poetica di Chrétien: la bontà della storia, indissociabile dalla sua utilità, in
quanto espressione delle qualità artistiche e morali dell’autore. Questo implica che la validità della conjointure
si realizza pienamente là dov’è accompagnata e sostenuta dall’originalità del messaggio. La struttura del
romanzo è tripartita: una situazione iniziale di equilibrio provvisorio viene destabilizzata da un fattore di crisi,
che costringe i protagonisti all’azione, allo scopo di ristabilire in modo definitivo, la situazione di equilibrio
perduto. La crisi è la molla dell’aventure e, parallelamente, il motore del perfezionamento interiore dei due
protagonisti che, attraverso le tappe progressive dell’aventure, fortifica e consacra le loro virtù. Chrétien ha il
merito di aver raccordato virtù cavalleresche e virtù coniugali, armonizzando due valori inizialmente antitetici:
l’amore assoluto che distoglie dalla pratica cavalleresca e la pratica cavalleresca totalizzante che non
ammette distrazioni sentimentali. L’amore diventa la condizione necessaria al pieno manifestarsi del valore
guerriero. Non è un caso che l’aventure coinvolga anche l’eroina sua consorte. La perfezione è raggiunta solo
quando la coppia è in armonia al suo interno e al suo esterno (cosa che avviene dopo le prove), cioè
equilibrata e organica rispetto alla società, e questo avverrà solo dopo l'ultima è più importante prova, quella
della Joie de la Cort. Riassumendo brevemente, poco distante dal castello di re Evrain, in giardino magico,
abita suo nipote Maboagrain, un poderoso cavaliere che ha giurato fedeltà e sottomissione alla sua bella, la
quale lo tiene difatti asservito in quel luogo fatato e lontano dal mondo, e così sarà sempre finché un più forte
cavaliere, capace di batterlo a duello, non suonerà il corno lì custodito, sciogliendo il funesto patto d'amore e
rompendo l'incantesimo. A questo compito è chiamato proprio Erec, che per sua libera scelta penetra nel
giardino e affronta il cavaliere. Le analogie tra la “prigionia d’amore” di Maboagrain e il dorato isolamento di
Erec dopo le nozze sono lampanti, tant’è che la prova finale può essere letta come una trasposizione
allegorica: il verziere fantastico rappresenta le seduzioni sensuali che fanno dimenticare i doveri sociali; la
promessa di fedeltà richiesta dalla dama è, in realtà, una trappola, e il giuramento di fedeltà tra i due amanti
non è motivo di letizia e di armonia, ma di dolore e morte. Il cavaliere sconfitto da Erec rappresenta una vera e
propria personificazione dell’amore irrazionale, chiuso in un egoistico piacere dei sensi, superato dall’amore
nobile, aperto al servizio degli altri. Ecco perché il successo di Erec ha una così grande ricaduta sull’intera
corte di Evrain: perché la prova e il suo esito positivo mostrano che gli effetti dell’agire regolato da sentimento
e prodezza dell’eroe hanno un senso non più solo personale, ma collettivo.
Cligés
Prende il titolo dal nome del suo protagonista e si apre con una specie di flashback, che racconta la storia
della famiglia di Cligés. Egli è figlio di Alessandro, erede al trono imperiale di Costantinopoli, armato cavaliere
da re Artù, e di Soredamor, una damigella della regina Ginevra; a causa della falsa notizia della morte di
Alessandro, suo fratello Alis ha usurpato il trono; e sul trono rimarrà, anche dopo la ricomparsa del legittimo
sovrano, a condizione ch’egli non si sposi e non abbia quindi una discendenza. Morto Alessandro, Alis cede
alle pressioni dei baroni e chiede la mano della figlia dell’imperatore tedesco, la bellissima Fenice, senza
sapere che la fanciulla ha già concesso il suo amore al valoroso Cligés. Costretta dunque alle nozze con
l’imperatore, Fenice è dibattuta tra gli obblighi di sposa verso Alis e i veri desideri del proprio cuore: per evitare
di giacere con il consorte, berrà una pozione magica preparata dalla fedele ancella Tessala che farà credere
ad Alis ogni notte di avere accanto a sé nel talamo la moglie. Una successiva pozione aiuterà i giovani amanti
a realizzare il loro sogno d’amore, senza macchiarsi della colpa di tradimento e di adulterio: Fenice beve un
filtro che le dà una morte apparente e viene sepolta in una torre fatata dove si ricongiunge con Cligés.
Purtroppo la felicità della coppia non è destinata a durare: Fenice viene scoperta, ma gli innamorati riescono a
fuggire grazie a nuovi stratagemmi di Tessala. Riparano in Bretagna, presso la corte di Artù, il quale si
impegna ad allestire un esercito per punire Alis; questi, però, nel frattempo è morto per la rabbia di essere
stato raggirato, cosicché Cligés può tornare in patria ed essere legittimamente proclamato imperatore di
Costantinopoli. Più complessa e macchinosa dal punto di vista strutturale, di Erec et Enide, l’opera innesta
l’avventura romanzesca sull’impianto del romanzo dinastico (Cligés deve fondare una dinastia esemplare),
moltiplica i luoghi dell’intreccio (dall'Oriente bizantino alla Bretagna della Tavola Rotonda, passando per la
Germania), problematizza le relazioni e la psicologia dei personaggi (non una coppia, ma un triangolo
amoroso, in più l’aiutante) e, di conseguenza, dilata lo spazio della riflessione intellettuale e dottrinale (con
molti dialoghi, lunghi monologhi e abbondanti incisi esplicativi). Come in Erec et Enide, lo snodo della vicenda
principale è un matrimonio, che ora però instaura un parallelo strettissimo con la storia di Tristano e Isotta, al
punto che la critica ha definito il Cligés come un “anti-Tristan” o “neo-Tristan”; e in effetti di fronte all'attuazione
negata del proprio amore, i comportamenti e le risoluzioni di Cligés e Fenice sono speculari rispetto a quelli
degli amanti di Cornovaglia: solo che Fenice, a differenza di Isotta, non si concede a due uomini, ma si
conserva per il solo che veramente ama. Ella rifiuta di fuggire con Cligés, per non rendersi colpevole - come
saranno giudicati invece Tristano e Isotta - agli occhi della comunità, di infedeltà e slealtà. Aiutata dall’abile
Tessala (non come Isotta da una maldestra), Fenice ricorre al giusto filtro, non d’amore ma di morte, che la
libera dai vincoli matrimoniali senza averne violate le regole. La “rinascita” della protagonista non può che far
pensare all'uccello leggendario che ne porta il nome, la fenice, descritto dai bestiari medievali come capace di
rivivere dalle proprie ceneri; e se si considera che esso rappresentava, in chiave allegorica, Cristo risorto, non
pare del tutto fuori luogo rilevarne le affinità con il passaggio dell'eroina, vittima di un matrimonio ingiusto, ad
una “nuova vita” nella gioia del vero amore. È solo nel quadro dei nobili valori cristiani professati e difesi da
Fenice che si può trovare una giustificazione plausibile alle arti magiche della sua governante, Tessala, le cui
azioni, messe al servizio di una giusta causa, diventano uno strumento di salvezza. Inoltre, diversamente da
quanto accade nelle leggende tristaniane, dove il filtro è simbolo di una tragica e ineluttabile fatalità, cui gli
amanti devono rassegnarsi, nel Cligés esso non intacca la volontà di Fenice, ma, anzi, ne consolida e
potenzia le risoluzioni, esaltando l’importanza del libero arbitrio nelle scelte, meditate e sofferte, che gli eroi
devono compiere. Tra l'innamoramento di Cligés e Fenice e la messa in atto della morte apparente, è tutto un
susseguirsi e alternarsi di duelli tra cavalieri, rapimenti sventati, tormenti interiori e disquisizioni sulla natura
dell'amore, queste ultime caratterizzate da uno spiccato intellettualismo dottrinario che riprende questioni di
casistica amorosa, tipiche dei dibattiti poetici di matrice trobadorica: così ad esempio le riflessioni teoriche del
narratore sulla fenomenologia dell'amore trovano applicazione pratica nel dissidio tra ragione e sentimento
che drammatizza il soliloquio di Fenice. È stato detto che il Cligés è il “romanzo della fin’amor”; ma non si
dimentichi che l’amore dei trovatori, come quello di Tristano e Isotta, è un amore adultero, a cui Chrétien
oppone la sacralità e onorabilità del matrimonio, in quanto unione fondata sulla spontanea reciprocità dei
sentimenti, in velata polemica con le politiche dinastiche dell'epoca, che facevano dei matrimoni un mezzo per
acquisire e consolidare possedimenti territoriali e alleanze militari. Liceità e sincerità dell’unione sono quindi
condizioni necessarie all’amore di Cligés e Fenice per convalidare la gloria futura della loro discendenza:
poiché essi non sono legati da “necessità di Stato” (come Alis), e non hanno trasgredito il codice della morale
e della legge (come Tristano e Isotta), la loro proclamazione imperiale, alla fine del romanzo, funge anche da
metaforica celebrazione del loro statuto di eroi e capostipiti perfetti. La matiere è composita: Chrétien afferma
nel prologo di essersi basato su un “libro molto antico” rinvenuto nella cattedrale di Beauvais. Il manoscritto in
questione è ignoto, o forse non è mai esistito; la sua invenzione sarebbe cioè un espediente meta-letterario
introdotto per rafforzare l’autorità della storia, derivata da fonti popolari e orali. Tra queste, spiccano i materiali
tristaniani: quali conoscesse e usasse Chrétien è difficile da stabilire. Attenendoci alla cronologia, il Cligés
sarebbe posteriore al Tristan di Thomas, ma non forse a quello di Béroul; sappiamo però che le versioni
circolanti dalla leggenda, anche in forma orale, erano varie e la stessa storia di “re Marco e Isotta” che
Chrétien si attribuisce nel prologo del Cligés, è una testimonianza in questo senso. Ci sono poi i materiali
celtici, che riallacciano la trama del Cligés alle tradizionali narrazioni leggendarie delle lotte contro l'usurpatore
e per la conquista della sovranità, instaurando significative corrispondenze con singoli episodi del romanzo.
C’è infine l’influsso della “materia antica”, rispecchiata dalla scelta dei nomi e dei luoghi: il padre di Cligés si
chiama Alessandro, come il sovrano macedone di tanta produzione medievale; e parte cospicua del romanzo
è ambientata nell'Oriente bizantino. L’originalità della conjointure del Cligés risiede nella combinazione di
queste diverse componenti geografiche e letterarie nella struttura organica di un romanzo di marca arturiana,
con l’intento di spostare definitivamente nella Francia dei cavalieri bretoni l’epicentro di irradiazione dei valori
tradizionali di chevalerie e clergie “cavalleria” e “cultura”, prodezza e sapienza. Il senso del romanzo è così
svelato dal disegno programmatico del suo autore: coniugandosi con prodezza e sapere, la storia d’amore di
Cligés e Fenice rinnova i fondamenti della fin’amor e rappresenta una nuova etica amoroso-cortese
cavallerescamente praticabile nel rispetto dei valori coniugali, all’interno di un sistema culturale e morale
collettivamente condiviso, prerogativa di una Francia vista come degna erede della civiltà antica.
1.13 LA PROSA
Fino alla metà del Duecento, in ambito oitanico, non esistono produzioni in prosa. I soli testi prosastici
anticofrancesi anteriori a quest'epoca sono inseribili entro il dominio pratico-utilitario, come documenti o atti
notarili, o all'interno del filone religioso-edificante. A parte stanno i primi tentativi di scrittura storiografica, in
particolare quelli di Robert de Clari e Geoffroy de Villehardouin, autori di due importanti resoconti della quarta
Crociata. Robert de Clari, cavaliere piccardo, partecipò a tutti gli avvenimenti più importanti della crociata; la
sua esperienza diretta e il suo attivo coinvolgimento nella missione nei territori d’Oltremare sfocia nell’Estoire
de chius qui conquisent Coustantinoble ‘Storia di coloro che conquistarono Costantinopoli’, opera dal carattere
‘misto’, perché su un impianto di genere memorialistico, si innestano gli excursus (digressioni dell'autore su
cose e fatti non vissuti in prima persona, ma da lui solo riportati) e gli exempla (apologo sulla caduta di
Bisanzio, e quello sulla punizione dei baroni avidi e ingiusti nella spartizione dei bottini), a sottolineare
l'attenzione dedicata anche all'aspetto narrativo e didattico. L’uso che fa del discorso diretto serve per
convalidare veridicità delle informazioni e cerca di trattare i temi senza intromissioni e senza interferenze del
suo giudizio. Geoffroy de Villehardouin, nato verso il 1150, partecipa anch’egli alla quarta Crociata, e di questo
evento centrale nella sua biografia umana e artistica redige un dettagliato resoconto prosastico in volgare, De
la conqueste de Constantinoble, in cui la ricerca della verità storica si traduce sul piano letterario in uno stile
cronachistico essenziale, esente dal gusto per l'aneddoto o per il curioso e piuttosto incline a sfruttare i moduli
dell'epica per scopi encomiastici. Le personalità crociate più in vista sono, infatti, protagoniste di episodi
esemplari di prodezze e virtù, mentre lo stile formulare e la costruzione narrativa delle vicende riprendono
tecniche tipiche della chanson de geste. La prosa di Villehardouin è ricca di costruzioni parallelistiche,
consequenze a due membri, o a tre membri; sono frequenti gli appelli diretti al pubblico/lettore, derivati
dall'oralità delle affabulazioni giullaresche; addirittura viene conservata e adattata alla prosa la tecnica
propriamente epica delle lasse parallele, come ben mostra la progressione narrativa con ripetizione di
formulazioni sintattico-lessicali affini nei paragrafi 340-342. La marcata selezione dei contenuti, polarizzati tra
l'esigenza di certificazione testimoniale delle scritture giuridiche e l'affermazione di principi morali e dogmatici
nel settore didattico-omiletico, ci fornisce precise indicazioni sulla forte saldatura che si avvertiva tra
formulazione prosastica e istanza di autenticità. La tradizione culturale del Medioevo cristiano tende infatti a
stabilire l'equazione prosa = verità. La prosa è la modalità espressiva normale della teologia, è la forma
dell'esegesi, è ancora soprattutto il linguaggio della Bibbia, libro sacro in cui si annuncia il Verbo divino e si
espongono le verità della fede. Già Isidoro di Siviglia, nelle sue Etymologiae, contrappone alle sinuosità della
poesia, che piega le idee ai suoi giri sintattici e alle sue leggi metriche, l'espressione piana e lineare della
prosa, la quale aderisce ai suoi enunciati senza costringerli nelle strettoie di stampi formali precostituiti. Si
capisce quindi come il successivo passo tra “rettilinearità” e “rettitudine” sia breve. In quanto connessa ad una
rivendicazione di verità, la scrittura prosastica si allaccia alle tematiche religiose: non è sorprendente quindi
che le prime narrazioni in prosa del Duecento furono le storie del Graal, le cui vicende riguardano la salvezza
dell'intera umanità, assumendo pertanto una portata universale. Si tratta del cosiddetto “Ciclo della vulgata” (o
Vulgate) conosciuto anche come “Lancelot-Graal” apparso nel 1215-30 e frutto di un grande sforzo
rielaborativo di materiali di varia provenienza. Tale ciclo, con cui nasce il moderno romanzo in prosa, è
composto di cinque parti: Estoire del Saint Graal, Merlin, Lancelot, Queste del Saint Graal, Mort le roi Artu.
Esso si presenta come un monumentale progetto narrativo, che fonde in un insieme saldamente strutturato e
coeso le avventure di Lancillotto e le storie del Graal, originariamente distinte: l’Estoire è una prosificazione
della trilogia graaliana di Robert de Boron, cui va riconnesso anche il Merlin; il Lancelot è una prosificazione
del Lancelot di Chrétien de Troyes e dei suoi continuatori; la Mort le roi Artu si fonda su un tema presente
nell’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth; per la Queste, la ‘Ricerca del Graal’, mancano invece
i paralleli con precedenti romanzi in versi, cosa che inficia l'ormai sorpassata interpretazione critica del Ciclo
della Vulgata come derivazione da rimaneggiamenti prosastici di romanzi in versi, inizialmente indipendenti, e
solo in seguito rielaborati a formare un corpus organico. Come artefice di questo corpus, la tradizione fa il
nome di Gautier Map, sia nella Queste che nella Mort le roi Artu. Questa attribuzione non è tuttavia confermata
dalla cronologia biografica dell’autore: Gautier Map fu infatti un importante funzionario della corte di Enrico II
Plantageneto, ma risulta morto prima del 1210. È stato osservato che la Vulgate presenta un doppio registro:
si rileva infatti una dicotomia abbastanza netta tra l'impronta eroticocavalleresca del Lancelot e la tensione
ascetica e mistica che permea la sezione della Queste. Un esempio del codice della cortesia che impegna la
trama del Lancelot può essere offerto dall'episodio in cui Ginevra, dopo una notte agitata da incubi di
tradimento e allucinazioni che sembrano volerle suggerire la morte dell'amato Lancillotto, lontano in missione,
si tortura a causa della forza della propria passione, una passione che lacera interiormente e allo stesso
tempo la tiene in vita, ma che la deve tenere segreta, visto che si tratta di un sentimento fedifrago di cui il
marito Artù va tenuto all’oscuro. Vi ritroviamo topoi della fin’amor; i personaggi incarnano quelli della lirica
trobadorica; il lessico attinge dal più puro vocabolario amoroso. Il tutto all’interno della narrazione romanzesca
in prosa, che conferisce uno sviluppo di energetico dell'episodio entro la cornice globale della storia, lo
inserisce e lo collega all’aventure degli eroi arturiani e ne movimenta lo sviluppo con l'inserto di dialoghi. La
conclusione della Queste è, invece, un esempio perfetto del misticismo religioso che ammanta le vicende del
Graal e che si traduce sulla pagina scritta in una prosa reminiscente della scrittura evangelica, per l'uso della
paratassi più elementare, per i brevissimi dialoghi in forma di domanda retorica, per il carattere iniziatico della
situazione descritta, e cioè la morte mistica del puro Galaad, e la successiva volatilizzazione della Sacra
Coppa per mano divina. È stata avanzata l'ipotesi che l'autore sia un rappresentante del clero palatino, capace
di fondere assieme la sensibilità spirituale e quella cortese, nel segno di una non banale e non meccanica
ricerca di poeticità del racconto. D'altra parte, le divergenze di impostazione “ideologica”, che dipendono
anche dalle fonti, sono compensate dalla meravigliosa compattezza del disegno diegetico complessivo, fitto di
allusioni e richiami interni, che intreccia molteplici azioni secondo meccanismi parallelistici e schemi speculari.
Così, ad esempio, la forza distruttiva e peccaminosa dell'amore che impedirà a Lancillotto di essere l'eroe
prescelto per la conquista del Graal (eleggendo però allo scopo il figlio), sarà anche la causa ultima della
dissoluzione dei valori dell'universo arturiano e della distruzione di quel mondo, tragicamente sancita dal
sanguinoso duello tra padre (Artù) e figlio, nella Mort le roi Artu. Il calibratissimo gioco di rinvii intratestuali e di
riprese simmetriche intra- ed extratestuali è ulteriormente complicato dall'impiego della tecnica
dell’entrelacement, che consiste nel tenere contemporaneamente accesi diversi fuochi narrativi, alternandoli
ed evidenziandone i punti di convergenza; tant'è che, come ha puntualmente rilevato Ferdinando Lot, a
proposito dell'architettura interna del Lancelot, ma con applicabilità estesa all’intero Ciclo della Vulgata, è
difficile, se non impossibile, operare delle autentiche divisioni; nessuna avventura forma un tutto a sé stante;
da una parte alcuni episodi anteriori, lasciati provvisoriamente da parte, vi prolungano le loro ramificazioni,
dall'altra una serie di episodi successivi, vicini o lontani, sono già avviati. Del resto, con questi romanzi siamo
in presenza di organismi assai complessi, molto più lunghi e articolati rispetto alla media dei romanzi in versi
del secolo XII. Secondo Martin de Riquer questa dilatazione del romanzo è avvenuta a causa delle
trasformazioni nella pratica scrittoria: prima su tavolette di incerate (obbligatorio stile serrato e lineare), ora su
fogli di carta (permette riletture e controlli continui). L'osservazione è di estrema importanza: nella storia delle
creazioni letterarie le innovazioni possono discendere, almeno in parte, dal cambiamento delle modalità
tecniche di produzione materiale del testo. Oltre al Lancelot-Graal, vanno ricordati lo sterminato Roman de
Tristan in prosa, composto a ridosso della metà del XIII secolo, e il Guiron le Courtois, di poco posteriore. Il
Tristan verte sulle vicende di Tristano e Isotta, partendo dalla storia dei genitori dell'eroe, e collegando
quest'ultimo alla materia arturiana attraverso la narrazione della sua entrata a far parte dei cavalieri della
Tavola Rotonda. Soprattutto questa seconda sezione dell'opera con il suo succedersi di episodi avventurosi e
prove da superare, ben mostra perché si sia soliti parlare di roman à tiroirs ‘romanzo a incastri’: giacché a
differenza della tecnica dell’entrelacement che movimenta su più fronti simultanei l'intreccio della Ciclo della
Vulgata, in questo caso i racconti sono disposti l'uno dopo l’altro, come unità susseguenti, all'interno di una
cornice narrativa globale che è appunto quella relativa ai fatti degli amanti di Cornovaglia. Ci soffermiamo
sull'episodio di Tristano che riacquista il proprio senno dopo essere impazzito per amore di Isotta: questo suo
peccato di “dismisura” ne aveva provocato la momentanea uscita di scena, dalla vita di corte e anche dal
racconto; la sua temporanea assenza era stata così supplita da due lunghe digressioni, l'una sulla prodezza di
Lancillotto, l'altra sulla malattia d'amore del cognato Caerdino, che avevano avuto la funzione di mantenere
viva la memoria dell'eroe anche in sua assenza, fino al momento della sua guarigione e della sua partenza
dalla Cornovaglia alla volta del regno di Artù, dove poi si misurerà con i cavalieri della Tavola Rotonda. Il
Guiron, composto circa nel XIII secolo e articolato in tre branches, traccia una sorta di genealogia degli eroi
arturiani, moltiplicando le situazioni avventurose in luoghi magici e foreste incantate, che hanno però come
protagonisti i progenitori dei campioni della Tavola Rotonda: sono i contemporanei di Uter Pendragon (padre di
Artù), di Lac (padre di Erec), di Meliadus (padre di Tristano) e così via. Il prologo dell’opera esplicita la volontà
di ricostruire la “preistoria” delle vicende arturiane, tralasciata dagli altri romanzi cavallereschi. Una delle
caratteristiche più originali del Guiron le Courtois è la visione in esso espressa di un “fantastico” umanizzato,
una concezione del meraviglioso e dell’insolito non prodotti dal soprannaturale ma come prodotto eccezionale
di una qualità o di un’azione umana fuori dal comune. È probabilmente la maggior linearità architettonica di
questi due ultimi romanzi in prosa, rispetto ai romanzi della Vulgate, a far sì che siano proprio il Tristan e il
Guiron a diventare modelli delle compilazioni più tardive, francesi e italiane. Va detto infine che la diffusione
manoscritta delle prosificazioni del Duecento si caratterizza per propensione alla mouvance: i copisti trattano
questi testi con una certa libertà, rimaneggiandoli e ritoccandoli, negli aspetti formali come nel contenuto.
Così, nelle trafile della tradizione, le opere appaiono identiche e altre da sé stesse, secondo una gradazione di
processi rielaborativi più o meno accentuati.