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CANTO I

Argomento del Canto


Proemio della Cantica. Dante e Beatrice ascendono al Paradiso. Dubbi di Dante e spiegazione di
Beatrice circa l'ordine dell'Universo. È mezzogiorno di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Interpretazione complessiva
Il Canto si apre con il proemio alla III Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta così di ampiezza
tripla rispetto al proemio del Purgatorio (I, 1-12) e addirittura quadrupla rispetto a quello dell'Inferno
(II, 1-9): la maggiore ampiezza e solennità si spiega con l'accresciuta importanza della materia trattata,
dal momento che il poeta si accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva
fatto e dovrà misurarsi con la difficoltà di riferire cose difficili anche solo da ricordare, anticipando il
tema della visione inesprimibile che tanta parte avrà nel Paradiso. Ciò spiega anche perché Dante
debba invocare l'assistenza di Apollo oltre che delle Muse, chiedendo al dio pagano (che naturalmente
è personificazione dell'ispirazione divina) di aiutarlo nell'ardua impresa e consentirgli di cingere
l'agognato alloro poetico: Apollo dovrà ispirarlo con lo stesso canto con cui vinse il satiro Marsia che lo
aveva sfidato, in maniera analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi (Purg., I, 9-12) e
sottolineando il fatto che la poesia di Dante dovrà essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di
gareggiare con la divinità nella rappresentazione di ciò che supera i limiti umani (ciò sarà ribadito
anche nell'esordio del Canto seguente, vv. 7-9). Dante ribadisce anche il fatto che pochi, ormai,
desiderano l'alloro, per cui la sua ambizione dovrebbe rallegrare Apollo ed essere di stimolo ad altri
poeti dopo di lui perché seguano il suo esempio, nel che c'è forse una fin troppo modesta excusatio
propter infirmitatem, dal momento che più volte nella Cantica egli esprimerà l'orgoglio di essere il
primo a percorrere questa strada poetica.

Dopo l'ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione primaverile e l'ora del
mezzogiorno (è questa l'interpretazione più ovvia, mentre è improbabile che il poeta intenda l'alba),
Dante vede Beatrice fissare il sole e imita il suo gesto, sperimentando l'accresciuto acume dei suoi
sensi nell'Eden. I due hanno iniziato a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal
Cielo della Luna, anche se Dante non se n'è ancora reso conto e ha notato solo l'aumento straordinario
della luce: il poeta si sente trasumanar, diventare qualcosa di più che un essere umano e non può
descrivere questa sensazione se non con l'esempio ovidiano del pastore Glauco, che si tramutò in una
creatura acquatica e si gettò in mare dicendo addio alla Terra (come vedremo, Dante ricorrerà spesso
nella Cantica a similitudini mitologiche per rappresentare situazioni prive di termini di paragone
«terreni»). L'aumento progressivo della luce e il dolce suono con cui ruotano le sfere celesti accendono
in Dante il desiderio di capirne la ragione e Beatrice è sollecita a spiegargli che i due stanno salendo
verso il Cielo, come un fulmine che cade dall'alto contro la sua natura; ciò naturalmente suscita un
nuovo dubbio nel poeta che si chiede come sia possibile per lui, dotato di un corpo in carne e ossa,
salire contro la legge di gravità, dubbio che sarà sciolto da Beatrice con una complessa spiegazione che
occupa l'ultima parte del Canto. La donna assume fin dall'inizio l'atteggiamento che avrà sempre nella
Cantica, ovvero di maestra che sospira e sorride delle ingenue domande del discepolo e fornisce
spiegazioni di carattere dottrinale: anche qui, infatti, la sua spiegazione non chiarisce il dubbio di Dante
di natura fisica (come fa un corpo grave a trascendere i corpi lievi, l'aria e il fuoco) ma inquadra il
problema nell'ambito dell'ordinamento generale dell'Universo, collegandosi ai versi iniziali che
descrivevano il riflettersi della luce divina di Cielo in Cielo. Beatrice spiega infatti che tutte le creature,
razionali e non, fanno parte di un tutto armonico che è stato creato da Dio e ordinato in modo preciso,
così che ogni cosa tende al suo fine attraverso strade diverse, come navi che giungono in porto
solcando il gran mar de l'essere. Ciò vale per le cose inanimate, come il fuoco che tende a salire verso
l'alto per sua natura e la terra che è attratta verso il centro dell'Universo, ma anche per gli esseri
intelligenti, la cui anima razionale tende naturalmente a muoversi verso Dio; ovviamente essi sono
dotati di libero arbitrio, per cui può avvenire che anziché volgersi in quella direzione siano attratti dai
beni terreni, ma questo non è il caso di Dante che ha ormai purificato la sua anima nel viaggio
attraverso Inferno e Purgatorio. Egli tende dunque verso Dio che risiede nell'Empireo e ciò è un atto
del tutto naturale, come quello di un fiume che scorre dall'alto verso il basso, mentre sarebbe
innaturale per Dante restare a terra, come un fuoco la cui fiamma non tendesse verso l'alto. Tale
spiegazione di natura metafisica anticipa quella che sarà la cifra stilistica di gran parte della III Cantica,
in cui spesso i dubbi scientifici di Dante verranno risolti con argomenti dottrinali e verrà ribadito che la
sola filosofia umana è di per sé insufficiente a capire i misteri dell'Universo, proprio come lo stesso
Virgilio aveva detto più volte rimandando alle chiose di Beatrice-teologia: ciò sarà evidente anche nella
spiegazione circa le macchie lunari al centro del Canto seguente, in quanto laddove la ragione umana
non può arrivare deve intervenire la fede e dunque Dante deve credere che sta salendo con tutto il
corpo in Paradiso, non essendo in grado di comprenderlo.

È interessante inoltre che Beatrice usi per tre volte l'immagine del fuoco per spiegare il movimento di
Dante, prima paragonandolo a un fulmine che corre verso la Terra (mentre lui corre verso il Cielo), poi
spiegando che il fuoco tende a salire verso il Cielo della Luna (cioè verso la sfera del fuoco, dove è
diretto Dante) e infine paragonando il fulmine che cade in basso contro la sua natura a un uomo che,
altrettanto forzatamente, è attratto verso i beni terreni. La luce come elemento visivo domina
largamente l'episodio, segnando il passaggio di Dante dalla dimensione terrena a quella celeste, anche
attraverso l'immagine del sole che è evocato nella spiegazione astronomica, poi indicato come oggetto
dello sguardo di Beatrice, infine chiamato in causa con l'immagine di un secondo sole che sembra
illuminare col suo splendore il cielo: il viaggio di Dante verso la luce è ovviamente il suo percorso verso
Dio e tale immagine si ricollega a quella dei versi iniziali in cui la gloria divina si riverberava in tutto
l'Universo, e dove si diceva che Dante è giunto nel Cielo che più de la sua luce prende, ovvero
quell'Empireo verso il quale ha iniziato a salire in modo prodigioso.

Temi
Il tema della luce. La rappresentazione del Paradiso avviene principalmente attraverso immagini di
luce; già questo canto ne è ricolmo, a partire dalla definizione di Dio che risplende in ogni luogo
dell'universo (v. 2). Accanto alla luce, in chiave minore, Dante userà il suono, in forma di canto e
musica, che qui appare ai vv. 76-78.

Ineffabilità delle realtà del Paradiso. Le sublimi realtà che Dante si accinge a contemplare sono tanto
alte che non sarà possibile descriverle efficacemente con parole umane, e in certi casi il poeta vi
rinuncerà del tutto. Così è già annunciato ai vv. 4-12 e 70-72.

La mitologia. Molto frequente sarà il ricorso di Dante a miti classici, sia per similitudini, sia assimilando
figure pagane e figure cristiane, sia descrivendo fenomeni astrologici. Ne sono esempio, nel canto, i
riferimenti ad Apollo (vv. 13 sgg.) e a Glauco (vv. 67-69).

L'astronomia. Dante immagina il Paradiso distribuito nei vari cieli del sistema tolemaico: da qui la forte
presenza di riferimenti astronomici nella cantica. Non si tratta però solo di fantasia poetica, ma anche
e soprattutto di affermazioni scientifiche e teologiche in rapporto alle conoscenze dell'epoca. Così ad
esempio si rivelerà di primaria importanza la teoria delle influenze celesti. In questo canto, cfr. i passi
astronomici ai vv. 37-42 e 121-125.

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