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La ripresa dello scetticismo

nellopera di Giuseppe Rensi:


ipotesi di sviluppo

di Francesco Boriani

Introduzione
Nel periodo storico a cavallo fra le due guerre, dapprima in Italia attraverso
lopera del filosofo Giuseppe Rensi e, poi, quasi contemporaneamente, in modo
autonomo e indipendente, ossia senza nessuna influenza delluno sullaltro paese,
lo scetticismo torna a riaffermarsi nel resto dellEuropa occidentale, sebbene con
denominazioni diverse, in Francia, in Inghilterra e in Germania (Cfr. Rensi, 1926,
pagg. 8-9).
Ad avviso di Rensi, lo scetticismo giunge a riaffermarsi puntualmente in quei
contesti nei quali diviene manifesta la scissione profonda e inconciliabile di tutte
le questioni risultanti fondamentali sia per il pensiero che per il vivere civile. "Per
dirla con le parole di Jouffroy, ricordate dal Taine, - sottolinea lautore - 'noi
crediamo lo scetticismo per sempre invincibile, perch consideriamo lo
scetticismo come lultima parola della ragione su s medesima' " (Ibidem, pag. 8).
Una volta appurato il fatto che esso da pi parti si riaffaccia risulta, peraltro,
altrettanto certo il fatto che di nuovo combattuto, ovvero 'confutato' attraverso
lincomprensione. A giudizio del nostro autore, infatti, lo scetticismo stato
puntualmente (e tradizionalmente) confutato mediante lincomprensione voluta
del suo significato, in modo da "respingerlo per la paura che fa la parola. Esso si
trova in condizioni ancora peggiori di altre due o tre dottrine, come lEpicureismo
e la Sofistica, il cui semplice nome trae seco tradizionalmente nellanimo della
gente di media cultura un eco diffamatoria. a quella guisa che chi si
dichiarasse epicureo verrebbe creduto amante delle laute cene e delle belle donne,
o chi si dichiarasse seguace della Sofistica verrebbe creduto un uomo che fa dei
cavilli o tende tranelli verbali, cos scettico vuol dire per i pi, uomo indifferente
ad ogni convinzione, pronto se occorre ad assumerne senza scrupoli una
qualsiasi e a cambiarla quando fa duopo, irrisorie di tutte le fedi" (Ibidem, pag.
10).
Non molto dissimile nella portata fuorviante dellincomprensione appare la stessa
interpretazione della gente un po pi filosoficamente colta, per la quale "scettico
colui cos stupido da cascare senza accorgersene nella grossolana contraddizione
di affermare la verit che non c verit. N mancano coloro che, quando lo
scettico difende calorosamente la sua concezione, gli appuntano contro il dito
ammonitore, e gli muovono anche qui laccusa di contraddizione, perch lo
scettico, secondo essi, non credendo nella verit di nulla, deve possedere
unindifferente tranquillit riguardo tutte le opinioni, la propria compresa:
quasich lo scetticismo non fosse una visuale circa la realt, al pari dunaltra, e
non potesse essere professata e sostenuta col medesimo calore dunaltra
qualsiasi. Accusa dunque che rivela la stessa mentalit di coloro che intendono
per filosofia il prendere le cose come vengono, senza darsene soverchio pensiero, e
che quando vedono taluno, il quale professi filosofia, accalorarsi, indignarsi,
commuoversi per gli eventi della vita e del mondo, esclamano: non un filosofo!"
(Ibidem, pag. 11).
Lincomprensione accertata da Rensi a proposito dellinterpretazione fuorviante,
pi o meno voluta, sul significato e sulla portata dello scetticismo, interpretazione
ancora operante ai giorni nostri, pu essere sintetizzata riconducendola a una
sorta di demonizzazione epistemica che a partire da Sesto Empirico,
tradizionalmente, si attribuita ad ogni indagine sviluppata nell'ambito del
pensiero scettico, per il quale, si dice, all'uomo verrebbe assolutamente negata
qualsiasi possibilit di conoscere. 'Per non cadere nello scetticismo', 'per non
incorrere nello scetticismo', 'per non approdare' o, anche, 'per non imbattersi
nello scetticismo', costituiscono infatti le pi note, quanto banali, proposizioni
esprimenti la demonizzazione di cui si appena detto; come a dire che, facendosi
guidare dallo scetticismo, ci si inoltra in un labirinto conoscitivo eminentemente
relativistico, che non consente alcuna via d'uscita e, per ci stesso, nega qualsiasi
verit, sia che ci si riferisca a quelle di Principio, di Ragione o di Diritto, che a
quelle cos dette 'di fatto'o 'contingenti'.
Ora, questo demone che simpegna a negare laccesso a qualsivoglia verit, questo
demone perfido che non esiste se non nella pura fantasia di ispirazione ideal-
razionalistica, altro non risulterebbe essere che un fantasma generato da
frettolose ed indebite scorciatoie interpretative tracciate proprio nell'ambito della
filosofia moderna. Le pi illustri formulazioni alle quali pu essere riferita la
genesi di un tale demone appartengono a quelle che Rensi definisce essere le pi
semplicistiche confutazioni dello scetticismo. Dal Cousin al Rosmini e da questi a
K. Fischer, allo stesso Gentile, le varie confutazioni dello scetticismo sono sempre
avvenute sulla base di una sua incomprensione di fondo, mentre i facili trionfi
rivendicati su di esso, avrebbero dovuto destare perlomeno dei sospetti (Cfr. Rensi
1919, pp. XVII-XIX). Incomprensione di fondo, prosegue Rensi, giacch dette
confutazioni "sono soltanto belle combinazioni di frasi sulla carta che stringono
non la solida realt ma figure di nebbia" (Ibidem, p. XIX).
Lo scetticismo, incalza il nostro autore, ", si, un'attitudine mentale, ma,
appunto, un'attitudine mentale che riguarda il campo filosofico" (Ibidem, p. XX).
In altre parole, la sospensione dal giudizio che esso esercita non ha a che fare con
le verit di fatto o contingenti che la quotidianit dell'esperienza continuamente
ripropone, ma ha a che fare unicamente con le Verit di Principio, di Ragione o di
Diritto che in campo filosofico assumono il significato di ultimi fondamenti della
conoscenza e dell'essere, colti da un punto di vista che vuol essere una sintesi
onnicomprensiva delle "cause che determinano il mondo e la vita umana" (Ibidem,
p. XXI).
Insomma, la famosa affermazione 'non c' verit' volutamente inesatta fuori dai
significati della speculazione filosofica propriamente detta, giacch incompleta;
essa assolverebbe meritoriamente ai compiti critico-conoscitivi fatti propri dallo
scetticismo filosofico solo se, e quando fosse, completata con l'aggettivo 'assoluta'.
La demonizzazione epistemica dello scetticismo ha inizio allora con la stessa
incomprensione, ripetiamo, pi o meno voluta, che ha caratterizzato i facili
trionfalismi delle sue confutazioni logiche di natura puramente linguistica. E
d'altro canto, come tiene a sottolineare Rensi, gi in Sesto Empirico si possono
trovare quegli avvertimenti che mettono in guardia contro simili scorciatoie
interpretative, quando con salda fermezza egli aveva fatto notare che sia le
espressioni di dubbio e sia la stessa negazione degli scettici non erano da
indirizzare 'genericamente' ad ogni affermazione della realt ma, specificatamente,
solo a quelle che appartenevano al campo della speculazione filosofica
(Cfr. Ibidem, p. XXII).
Cos, la sospensione del giudizio che lo scetticismo sollecita come modalit logica
della conoscenza teoretica posta di fronte alla pretesa fondativa delle verit di
Principio, di Ragione o di Diritto, ha a che fare con quelle affermazioni di
realt universali e assolute che si auto eleggono in quanto tali, e che, pertanto,
pretendono di essere depositarie degli stessi fondamenti logico-teoretici della
conoscenza umana. La sospensione del giudizio che lo scetticismo esercita,
pertanto, viene a riconsegnare logicamente le dovute potenzialit conoscitive ai
fatti, ai fenomeni reali, ovvero agli accadimenti che, di fatto, si manifestano nella
realt umana e sociale.
Riprendendo qui una puntuale affermazione rensiana che, tra l'altro, si
costituisce come nucleo della sua opposizione scettica all'aforisma hegeliano 'ci
che razionale reale' siamo altres in grado di cogliere la portata critica della
sua confutazione allidealismo e, quindi, di afferrare la peculiarit della sua
ancora attuale portata epistemologica, se posta responsabilmente e
consapevolmente di fronte all'esperienza storica delle nostre stesse vicende
politico-sociali, sottomesse ad un indiscusso imperio della perfezione della
razionalit: "ci che si realizza nel mondo nostro non il 'razionale' della nostra
ragione, ma [...] qualcosa che non le appartiene" (Rensi, 1919, p. 21).
La famosa sentenza filosofica hegeliana (aforisma) 'ci che reale razionale, ci
che razionale reale' risulterebbe insomma capovolta. L'esistenza umana, in
ogni suo manifestarsi 'presente' e in quanto estrinsecazione dell'Essere, ossia
tutto ci che reale, si palesa di fatto come assurdo e male, si rivela come
incomprensibile e irrazionale (ci che reale irrazionale); del pari, continua
Rensi, ogni tentativo di affermazione della razionalit e del bene, ossia ci che
razionale, risulta 'sempre' oltre il presente, fuori della realt, nell'irreale, ossia nel
futuro (ci che razionale irreale). "La razionalit e il bene sono sempre un
'dover essere' che non diventa mai 'essere': poich quando 'sono', quando da
semplice 'dover essere' acquistano la qualit di 'essere' istantaneamente
nell'acquisire tale qualit perdono quella di 'razionalit' e di 'bene'; diventano
assurdo e male, tant' vero che si vuole ancora uscirne, passare ad altro, cio
prosegue la storia" (Rensi 1989, p. 39).
Il capovolgimento dell'aforisma hegeliano promosso dallo scetticismo rensiano
giunge a sollecitare cos un ulteriore dibattito intorno all'irrazionalit del reale o,
meglio, all'irrazionalit presente nella stessa realt materiale, nella stessa
esperienza.
Nellambito della riflessione scettico-problematica rensiana, privilegiata rimane
l'analisi delle contraddizioni che, puntualmente, ogni sistema filosofico elimina o
raggira per costituire la sua interna unitariet coerente. E d'altro canto
l'originario significato del termine schepsi o scepsi, introdotto dal fondatore dello
scetticismo Pirrone di Elide, voleva significare appunto 'osservazione', indagine
critica del conoscere, stato di sospensione d'esame, di ricerca conoscitiva
dubbiosa che si pone al riparo dal dogma; scetticismo, sollecita Rensi a tale
proposito, ha sempre significato sincerit e lealt d'analisi conoscitiva (Cfr. Rensi
1919, p. XIV, nota 1), qualunque esito sconcertante essa possa mai far
raggiungere o, anche, per usare un termine ardigoiano, quantunque essa possa
generare le inquietanti 'tempeste dello spirito'.
Cos, a seguito di una simile delucidazione rileviamo che "dal riconoscimento
dell'irrazionalit del reale, dal riconoscimento del fatto che nella stessa esperienza
si annida la contraddizione del razionale e del bene, ossia l'assurdo e il male, ne
risulta che il negare l'esistenza delle contraddizioni equivale a negare la stessa
possibilit del conoscere umano. La questione delle contraddizioni, da una simile
angolazione realistico-positiva, viene ad assumere allora una rilevanza
epistemologica, quasi a dire, sbalorditiva: le contraddizioni non rappresentano
affatto un limite della conoscenza umana ma ne costituiscono invece il motore, la
precondizione rinnovatrice di ogni sua possibile e, insieme, reale continuit"
(Boriani, 1997, pag. 374).

1 Lo scetticimo come filosofia della diversit
L'operato del filosofo Giuseppe Rensi si articola attraverso lo sviluppo di tre
periodi nei quali, la vena scettica risulta costantemente presente per sua stessa
ammissione (Cfr. Rensi 1989, p. 23 sgg.): quello relativo ad una rivisitazione
critica dell'idealismo hegeliano ed esprimentesi come critica della filosofia
dell'assoluta libert; quello relativo allo scetticismo irrazionalistico su basi
positivistiche, meglio definito come il periodo dello 'scetticismo costruttivo', ovvero
dell'esposizione d'un metodo logico-teoretico critico tendente a "dimostrare [...]
quali elementi di filosofia costruttiva si possono dallo scetticismo ricavare"
(Ibidem, p. 45); quello infine del misticismo irrazionalistico di base pessimistica,
ovvero della ricerca d'una possibile giustificazione dell'esistenza del male e,
parallelamente, della discussione su una possibile fondazione della morale,
ricerca che culmina con la 'Critica della morale' del 1935 e con "La morale come
pazzia" pubblicato postumo nel 1942 (Cfr. Ibid).
Si accennato nelle pagine precedenti come la sospensione del giudizio che lo
scetticismo esercita o, meglio, sollecita in quanto modalit logica della conoscenza
teoretica nei confronti delle verit di Principio, di Ragione o di Diritto consenta poi
di riconsegnare (logicamente) le dovute potenzialit conoscitive ai fatti, ai
fenomeni o agli accadimenti che, di fatto, si manifestano nel vivo farsi della realt
umana e sociale.
Tutto ci prelude alla condizione conoscitiva realistica tale per cui,
contrariamente all'assunto hegeliano, l'Essere ed il Pensiero sono distinti "ed il
secondo si trova dinnanzi il primo come alcunch di diverso da s" (Rensi, 1989,
p. 44). Tutto ci prelude, in altre parole, alla condizione conoscitiva del realismo.
Ora, muovendo da un tale presupposto si rende, secondo Rensi, possibile la
'conoscibilit' nel suo divenire; rimanendo nella posizione dell'idealismo, invece,
la si nega totalmente giacch identificando l'Essere con il Pensiero si riconduce il
primo al secondo senza residui, ossia senza nessun'altra possibilit di estendere
il conoscere umano oltre il solo potere razionale. Solo allorch si ammetta che
l'Essere e il Pensiero, il reale e il razionale, sono distinti risulta concepibile lo
scetticismo.
In questo preciso senso, allora, il pensiero rensiano si costituisce come
l'enunciazione di una filosofia dell'irrazionalismo; esso come vedremo meglio tra
breve, potrebbe agevolmente definirsi come la filosofia della diversit che si
contrappone risolutamente a quella dell'identit e dell'assoluta libert.
Ed a partire da una tale posizione che lo scetticismo rensiano si impegna
dapprima nella confutazione e poi nel capovolgimento del citato aforisma
hegeliano 'ci che reale razionale, ci che razionale reale'.
L'impossibilit della ragione di giungere a un principio universale, ossia
l'impossibilit di giungere ad una soluzione scaturita dall'autonomia della
ragione, impone pertanto che questultima debba tener in debito conto le "diverse
situazioni empiriche e di fatto (costume,ecc.), che poi, diverse qua e l come sono,
sono quasi sempre quelle che la ragione, diversamente qua e l, trova 'razionali' e
si illude di poter in modo autonomo a priori da s 'dedurre' " (Rensi 1989, p. 34).
Ed una valida conferma alla confutazione dell'aforisma hegeliano, prosegue
l'autore, pu essere fornita in modo soddisfacente proprio nel campo dell'Estetica,
quella parte della filosofia che ha come oggetto il bello e l'arte.
"Non vero - sostiene a tale proposito Rensi - n che essere reale sia essere
razionale, n che sia possibile, e tanto meno doveroso, per giudicare un fatto
considerarlo nel corso dello sviluppo storico che lo ha prodotto" (Rensi 1993, p.
166). L'affannosa ed esasperata ricerca della spiegazione universalistica della
razionalit del reale, o di ci che esiste o di ci che , risulta un prodotto del
dogmatismo idealistico. "Spiegare l' esistenza di una cosa un conto; essere tale
esistenza razionale un altro" (Ibid). Se, infatti, tra i due termini non ci fosse
differenza, allora qualunque male, qualunque delitto, sofferenza o disgrazia
risulterebbe razionale solo perch esiste. E nemmeno l'ipotesi di un giudizio
razionale espresso da una ragione pi ampia della nostra, ovvero che superi la
soggettivit, potrebbe reggere, prosegue Rensi, giacch in questo caso affermare
l'esistenza di una ragione 'obbiettiva', non soggettiva nostra, equivarrebbe a
negare l'esistenza di ci che solo conosciamo come unica attivit ragionatrice,
ossia la nostra (Cfr. Rensi 1991, pp. 59-60).
Ora, un simile ragionamento, una simile affannosa ricerca esasperata di una
spiegazione razionalistica del mondo equivale a costringere forzatamente la
ragione a ravvisare come razionale quel che razionale non , ovvero a dettarle a
forza la legge della sua negazione, "col pretesto di farla cos giungere alla
razionalit. E' posare non sul terreno della razionalit, ma su quello del tutto
opposto, del mistero e della fede cieca e rinunciante alla ragione" (Rensi 1993, p.
167).
In questo modo, sottolinea il nostro autore, si viene ad attribuire il nome di
razionalit a quel che per la nostra ragione irrazionalit, ossia alla realt in
quanto tale. In questo modo, insomma, si vengono a capovolgere i termini della
questione: invece di ricondurre il reale, il fatto, alla ragione si riconduce questa a
quello, semplicemente perch titolato di ragione, assumendo cos come punto di
partenza ci che si dovrebbe dimostrare.
Molto spesso e continuamente ci troviamo di fronte a fatti sociali che risultano
ingiustificabili, che la nostra ragione rifiuta in quanto assurdit, sebbene risulti
invece possibile la loro spiegabilit e la loro constatazione d'esistenza. "Mi spiego
il pi mostruoso delitto, se penetro nelle pi occulte pieghe della coscienza del
reo, se riesco a scorgere con piena luminosit dall'interno la sua psicologia[...]. Mi
spiego anche l'esistenza di una tale psicologia, se risalgo ai precedenti ereditari e
storici di quell'individuo. Ma, nonostante ci, n trovo razionale il delitto, n, pur
riconoscendo che, data la psicologia del reo, il delitto era necessario[...], trovo
razionale l'esistenza d'una siffatta perversione psichica" (Ibidem, p. 169).
Ricapitolando, la spiegazione dell'esistenza di un fatto, non equivale o non
corrisponde alla sua razionale esistenza. E tanto meno risulta possibile valutare
un fatto esaminandolo nel contesto dello sviluppo storico che lo ha prodotto
giacch, incalza Rensi, "giudizio di valore e interpretazione storica sono due punti
di vista che si contraddicono a vicenda e dei quali uno esclude l'altro" (Ibidem, p.
170). Ed una eloquente dimostrazione sull'esclusione vicendevole dei due punti di
vista l'autore la ravvisa nel suo riferimento all'arte.
Una delle tesi pi diffuse ne La teoria generale dello spirito come atto puro di
Gentile sostiene che la critica estetica altro non pu essere che critica storica e
che ai fini di comprendere un'opera d'arte necessario calarsi nella fase di
cultura che l'ha generata. questa una frase che, commenta Rensi, viene
predicata da tanti sapienti pulpiti ed i cui caratteri appaiono intimamente e
profondamente connessi col pi solenne accademismo ed infondono il timore che
se non la si accetta si rischia l'accusa di essere additati come ignoranti o come
gente che non in grado di agire. E' altrettanto chiaro che, in forza di un simile
timore, i pi sprovveduti e i meno attenti si allineino poi, con una docilit supina,
verso la persuasione che detta frase corrisponda alla verit (Cfr. Ibidem, p. 173).
Si tratta di una 'docilit supina', prosegue l'autore, che si ricollega a sua volta
alladorazione per lo storicismo e per la sua pretesa di obiettivit storica, la stessa
che riproduce lesigenza hegeliano-romantica caratterizzata dall'identificazione
dell'ideale col reale.
Ma, come gi obiettava Nietzsche, lo storicismo appartiene ad un'epoca che
risulta succube della storia passata e, per ci, incapace di progettare il suo
futuro. Di contro, "un'epoca creativa padroneggia, maneggia, interpreta,
trasforma la storia; se ne serve, cio, non per motivi di conoscenza esatta [...], ma
per i suoi bisogni, per la creazione del suo futuro" (Ibidem, p 174 ); se ne serve, in
buona sostanza, assumendola responsabilmente come autentico patrimonio
esperenziale della vita collettiva.
Cos, ad avviso di Rensi, se si intende esprimere un giudizio estetico, un giudizio
di valore in merito ad un'opera d'arte, esso dovr prescindere dalle ragioni
storiche che l'hanno determinato, dalle stesse cause capaci di spiegare le
condizioni materiali della sua esistenza poich, da quel punto di vista storico-
interpretativo risulterebbe affatto impossibile esprimere un proprio giudizio di
valore. Perch, sottolinea l'autore richiamandosi a Croce che, tra l'altro, non
certo un sostenitore dello scetticismo, "la storia non mai 'giustiziera', ma
sempre 'giustificatrice' "; "perch, in una parola, lesistenza, il successo,
giustificano da s se stessi, hanno in s, nel fatto che vi sono e che sono spiegati
(e sempre sono spiegati, perch, se esistono hanno certo delle cause) la loro
giustificazione" (Ibidem, p. 172).
Se si intende esprimere un giudizio estetico, un giudizio di valore sincero in
merito ad un'opera d'arte, esattamente nei termini contrari all'assioma gentiliano,
bisogner estrapolare l'opera d'arte dalla fase storico-culturale che l'ha generata,
negare l'identit del mero fatto con la ragione, isolare l'opera dal contesto che l'ha
vista nascere e, pertanto, collocarla fuori dalla stessa giustificazione storica che la
cultura di tale fase ha realizzato come sua spiegazione di esistenza. Cos e solo
cos diviene possibile dare un giudizio estetico, esprimere un giudizio di valore
soggettivo che si ponga al riparo dell'interpretazione storica la quale, come si
enucleato sopra, altro non consiste che in una spiegazione d'esistenza di ogni
prodotto ammirato come bello e che, proprio per ci, verrebbe a negare il giudizio
di valore, ovvero, equivarrebbe ad una rinuncia del giudizio estetico.
questo un grande dilemma insolubile giacch pone a confronto due termini
antitetici che si escludono a vicenda: "o giudizio di valore estetico, e quindi
giudizio soggettivo, e allora [...], arbitrariet, cio impossibilit d'una valutazione
comune, d'un giudizio che stia sopra ai singoli giudizi soggettivi e possa sottoporli
a s, [...], sentenziarne uno come pi valido d' un altro; o critica storica, e allora
[...], non c' pi possibilit d'un giudizio di valore estetico nostro e tutto si riduce
alla dilucidazione delle cause per cui alcunch fu ed trovato bello o brutto"
(Ibidem, p. 177).
questa, rileviamo con Rensi, una constatazione critica di grande interesse
conoscitivo giacch, come vedremo meglio tra breve nella trattazione del 'giusto', a
decidere quale sia tra le diverse visuali estetiche, tutte ugualmente valevoli, quella
che poi si realizzer nei fatti, quella che si attester di fatto come il bello, sar
l'intervento della mera imposizione di forza, dell'atto di imperio, ovvero della pura
e semplice irrazionalit.
Da una simile constatazione, positivisticamente condotta, Rensi intende
evidenziare la predominanza dell'azione sul pensiero, dell'atto irrazionale sul
giudizio razionale, ossia, di quanto poi tutto ci si traduca in vera e propria
sovranit del campo dei fatti su quello del pensiero o della ragione.
E tutto ci risulta ancor pi chiaro considerando il problema a partire
dall'educazione. Se un individuo del tutto a digiuno di una pur minima cultura
estetica si trova a visitare un museo che contiene opere reputate tra le pi insigni
e, logicamente, al termine della sua visita dichiara che nessuna di quelle ha
suscitato in lui un piacevole, spontaneo e sincero gradimento se ne conclude che
questi ha bisogno di essere educato. Ed ecco che allora gli si presentano (gli si
impongono) dei modelli tra i pi accreditati dalla critica ufficiale; e tanto pi egli
si presta ad accogliere quella educazione artistica, quanto maggiore risulta il
condizionamento operante sul suo giudizio estetico fino al punto da fargliene
ravvisare come 'bella' un'opera che genuinamente, spontaneamente e
sinceramente ad egli non piace (Cfr. Ibidem, p. 178). Come avviene in ogni altra
educazione, ci si trova di fronte alla coazione di un giudizio originario che si
esprime in termini di imposizione, ci si trova qui di fronte ad una forzata
imposizione autoritaria di una specifica visuale, di una delle tante visuali possibili
tutte ugualmente valevoli per l'educando il quale, accettando l'educazione, ne
accetta gioco-forza anche l'autorit della tradizione storica.
Cos, a decidere quale sia, tra le diverse visuali estetiche, tutte ugualmente
valevoli nel campo del pensiero o della ragione, quella che poi si realizza
effettivamente, frutto delle valutazioni storico-sociali collettive che si
propongono come "la verit estetica [...], quella cio che imposta dalla
tradizione, dal concorde parere dei secoli, dal parere pressoch conforme della
classe dominante (cio, qui, dei colti, dei 'giudici competenti'). Tale atto d'autorit
[...] , come ogni altro, extrarazionale. Tale maggioranza ha tanto poco diritto,
quanto le maggioranze politiche, di passare per ragione, e di ritenere che il suo
parere o il suo voto abbia una validit razionale superiore" (Ibidem, p. 179).
sul terreno dei fatti, quindi, e non su quello del pensiero o della ragione, che il
bello (o del pari il giusto o il vero ) si impone come quella valutazione che poi
risulta dominante nella tradizione storica e nella cultura di una data societ e,
chi la nega, o non l'asseconda, viene da questa bandito, ostracizzato e ravvisato
come immorale. Non vi nessuna ragione di ritenere, conclude Rensi
ricollegandosi stavolta a Simmel, "che la totalit degli uomini o della specie colga,
pi dell'individuo, il retto e concordi pi di lui con la verit obbiettiva. Ma accade
solo che i contenuti di pensiero di essa totalit valgono come i veri di fronte a
quelli del pensiero dei singoli" (Ibidem, p. 182).
Anche nel campo estetico, come avviene in quello della morale o del diritto o della
politica, tutte le 'visuali' risultano logicamente razionali e, di conseguenza,
ognuna di esse ha ugualmente ragione. Forse proprio per ci, tornando al
l'osservazione di Simmel, che per sfuggire alla relativit dei giudizi soggettivi, cio
alla impossibilit di trovare un criterio superiore ed imparziale per decidere sulla
validit d'un giudizio estetico, l' unica garanzia rimane la sua condanna con il
giudizio della specie. Di una condanna che, tuttavia, come si sottolineato, si
attua solo con un fatto di forza, di mera autorit e, quindi, di non-ragione. Di una
condanna, infine, la cui consapevolezza in merito all'intervento ineliminabile di
fattori irrazionali pu raggiungersi attraverso la critica storica. Essa infatti ha il
grande merito di sospendere il giudizio di valore estetico che si imposto nella
storia della cultura ufficiale tramite la constatazione e il riconoscimento che esso
si affermato per effetto d'autorit, che si attestato ed ha consacrato la sua
affermazione non gi per chiss quale presunta validit razionale superiore, ma
per un atto di autorit che, come ogni altro, si manifesta in termini
eminentemente irrazionali.
Detto ci per quanto riguarda la confutazione dell'aforisma hegeliano, vediamone
ora i termini del suo capovolgimento, tenendo presente che l'ambito in cui esso si
manifesta quello della realt storico-culturale.
Ad avviso dell'idealismo e, per esso, di ogni teoria sociale che ai medesimi assunti
logico-teoretici si richiama, "la storia il processo della vita dello spirito, processo
[...] in cui incessantemente lo spirito dispiega tutte le sue virtualit, sprigiona
l'infinita novit delle sue creazioni, e posa ad ogni presente sempre nel vero e nel
bene" (Rensi 1991, p. 107). Gli urti, i contrasti, le opposizioni, i dissensi, le
contraddizioni insomma, il dolore, la sofferenza, perfino la stessa morte non
devono trovar posto come elementi di riflessione e d'analisi, poich sono cose
effimere, secondarie, apparenti, trascurabili anzi, inesistenti, mentre l'anima di
detta filosofia considera la storia o il processo come la luminosa estrinsecazione
dell'assoluto (e del divino). Quale si rivela essere allora la vera anima di una tale
filosofia? si chiede Rensi. ", infondo, nient'altro che l'anima del grossolano
gaudente, che vuole ad ogni costo chiudere occhi e cuore alle afflizioni, alle
sofferenze,alle angustie della gente, perch la sua allegria non sia turbata [...].
l'anima del 'carpe diem', quella di chi vive tutto nel momento presente, inteso a
goderselo [...]. , insomma, l' anima di chi alza le spalle dinnanzi alla gente che
muore perch tanto ne nascer dell'altra" (Ibidem, p. 111).
Non arbitrario rilevare come i caratteri peculiari di questa concezione della
storia, che si realizza come processo, in modo autonomo ed in termini assoluti
verso la perfezione della razionalit, rispecchino, quasi a dire, fedelmente i criteri
e le modalit pi diffuse dell'interazione sociale che si manifesta all'interno del
nostro contesto storico-culturale, per il quale, e conseguentemente, il disimpegno
etico e la deresponsabilizzazione morale, (intesa proprio nel senso del dovere
civico, nei confronti della socialit), ne costituiscono quasi a dire un baluardo.
Ora, nulla vi , ad avviso di Rensi, di pi irragionevole e di pi assurdo del
concepire un simile corso come processo inarrestabile promosso all'insegna della
spiegazione razionale della realt, di un corso senza fine e mta, ossia senza
scopo. Di un corso per il quale nessun uomo che, minimamente, si sforzi di
riflettere sull' insegnamento dell'esperienza, pu ritenersi soddisfatto o possa mai
accontentarsi di una simile interpretazione. E in questo fare continuer a
chiedersi: perch dunque c' storia, perch c' cambiamento? (Cfr. Ibidem, p. 118
) senza mai trovar risposta ad un simile quesito.
Ma la risposta perlomeno ovvia, incalza il nostro autore. "Per la ragione
'diametralmente opposta' al fatto che la filosofia suaccennata pretende costituisca
l'essenza della storia. Non gi, cio, che il corso o il processo sia tale che in ogni
momento di esso lo spirito si trovi nel vero e nel bene, in ogni presente dunque in
un eterno pi vero e meglio [...]. C' storia, viceversa [...], perch, cos l'umanit,
come l'individuo, in ogni presente avverte di essere nell'assurdo, nel falso e nel
male, e vuole uscirne. C' storia, dunque, perch ogni presente,ossia la realt,
sempre falsa, assurda e cattiva [...]. Non perch lo spirito sempre nel bene, ma
perch sempre nel male, perch cio 'ogni presente' suo principio, pratica,
costume, istituzione, deficiente, fallace, condannevole, procede a foggiarne altre,
ossia c' storia della morale, del costume, della politica, storia in generale"
(Ibidem, p. 119).
Le due concezioni sul significato della storia, quella dell'idealismo e quella dello
scetticismo, si pongono cos su due fronti conoscitivi contrastanti, antitetici,
diametralmente opposti e che assegnano a loro volta due condizioni conoscitive
differenti sia all'esperienza che all'esistenza fenomenica: una negativa e l'altra
positiva, una dogmatica e l'altra problematica. Mentre nella prima condizione
conoscitiva, quella dell'idealismo, si pretende di poter fare a meno della
conoscenza effettiva che quella empirica, e pertanto la si disprezza, la si svilisce
e, quindi, la si 'nega', nella seconda, quella dello scetticismo, si giunge invece ad
avvalorare positivamente l'esistenza effettiva dei fatti, degli accadimenti
particolari, dei fenomeni e, pertanto, si giunge ad apprezzare grandemente la
scienza, in questo caso la scienza sociale.
I termini del capovolgimento dell'aforisma hegeliano risultano a questo punto
alquanto espliciti: ci che reale irrazionale tanto vero che lo si vuol
cambiare, malcontenta e si disapprova, ossia c' storia, mentre ci che razionale
irreale, perch sempre oltre il presente, nel futuro, cio fuori dalla realt (Cfr.
Rensi 1989,p. 40; Rensi 1991,p. 120).
Risulta a questo punto doveroso evidenziare limportanza del contributo rensiano
allo sviluppo teoretico della sociologia. Ci riferiamo al fatto che nel sollecitare
l'importanza dell'apporto conoscitivo riguardo ai contenuti particolari degli
accadimenti fenomenici, dei contrasti, delle opposizioni, dei dissensi, delle
contraddizioni, cos come del dolore, della sofferenza e della stessa morte, nel
promuovere insomma una vera e propria riqualificazione dell'apporto conoscitivo
dell'esperienza nei suoi svolgimenti a-razionali, lo scetticismo rensiano ha
praticamente spianato il cammino alla riflessione sociologica del periodo a cavallo
delle due guerre, la quale non a caso si continuamente appellata alla sua
'filosofia dell'irrazionalismo' e alla sua tesi dell'impossibilit di una 'ragione totale'
capace di dirimere le controversie.
In fondo, quanto si detto a proposito di un corso della storia senza fine, senza
mta o scopo, varrebbe ugualmente per la scienza allorquando, privata
dell'apporto conoscitivo dell'esperienza, si trovasse a vagar nel vuoto, senza mta,
senza scopo.

2 La giustizia e la morale nella scepsi rensiana
Nucleo dell'intero operato di Rensi la questione morale, dibattuta ed
approfondita sopratutto nella fase dello scetticismo.
La prospettiva assunta da Rensi di tipo propriamente laico, dal momento che
pone al centro del suo interesse le norme dellagire pratico assunte da un punto
di vista diverso da quello delle impostazioni etiche della tradizione religiosa. In
questo senso l'indagine viene ad inquadrarsi nei termini di un vero e proprio
contributo alla sociologia teoretica contemporanea.
L'indagine rensiana sulla questione morale prende le mosse dalle grida di una
superba scoperta lanciata nella seconda met del V sec. a.C. dai sofisti,
egregiamente ravvisati dal nostro autore come "i pi grandi pensatori della Grecia
e forse del mondo" (Rensi 1991, p. 43).
I sofisti, tra le cui fila si annoverano i nomi celebri di Gorgia e di Protagora,
furono i primi a sostenere la tesi del relativismo del costume; furono i primi ad
asserire "che non esiste una morale che sia tale per natura e quindi comune a
tutti e costituente il fondo unico dello spirito in tutti, ossia che non esiste
assolutezza e universalit della morale" (Rensi 1925, p. 101).
Con i sofisti, sottolinea lautore, la mente umana "riesce per la prima volta a levar
su il capo e a guardarsi attorno; e fa allora la constatazione stupefacente che il
costume non assoluto e universale, che diverso di luogo in luogo, che giusto,
bello, buono, santo alcunch di differente in Atene e in Sparta, in Grecia e in
Persia, in Egitto e in Fenicia" (Rensi 1991, p. 43).
attraverso i sofisti, dunque, che si assume la consapevolezza che non vi un
bene morale che possa essere determinato dalla ragione, conforme alla ragione di
tutti e, pertanto, universale. attraverso i sofisti, in altre parole, che si viene a
'decentrare' l'angolo visuale "del presente, del vicino e del familiare, al lontano
all'inconsueto e al diverso [...], a considerare che il centro o la fissit della verit
non esiste e, se il buono, il bello e il giusto sono qualcosa di diverso da popolo a
popolo, da luogo a luogo, allora nulla vi di 'apoditticamente razionale' " (Boriani,
1993, p. 85), di logicamente inconfutabile quale prodotto della ragione pura,
"perch se alcunch si generasse cos dovrebbe valere universalmente e trovarsi
quindi dappertutto, essere sempre e dovunque 'uno', 'quello' [...]. Ogni prodotto
spirituale, dunque, formazione non della ragione, ma della pressione o autorit
arazionale del fatto naturale o sociale esterno accidentalmente qua e l diverso"
(Rensi 1991, pp. 44-45). Come si pu agevolmente riscontrare da questa
affermazione, in linea si pu dire con gli assunti durkheimiani, sia il fatto
naturale che quello sociale risultano 'esterni' alla ragione, fuori da essa,
accidentalmente dati qua e l diversi (specifici o sui generis), in altre parole,
incomprensibili (nella loro totalit) alla ragione proprio perch extramentali. Ed
appunto l'esteriorit di essi che determina la loro stessa autorit arazionale:
autorit che si impone alla ragione negandole cos ogni sua universale pretesa
deduttivistica; i fatti insomma non sono deducibili dalla ragione proprio perch le
si impongono dall'esterno nei termini durkheimiani della coercitivit. E tutto ci,
incalza Rensi, "significa che la ragione (la coscienza, l'io) non riesce a determinare
la morale. Che cosa dunque riuscir a determinarla? Non la ragione, la coscienza,
l'io; ma alcunch di altro da questi e fuori di questi; cio il fatto esteriore" (Rensi
1925, p. 102). E tutto ci, aggiungiamo noi, significa che la ragione, la coscienza,
l'io, ossia gli elementi che appartengono al cosmo dell'interiorit e che la
costituiscono, si pongono in termini di irriducibilit al fatto esteriore. Una tale
irriducibilit dell'a-razionale al razionale, proprio di ogni prodotto spirituale,
mentre viene a costituire la genesi e lo stesso significato delle contraddizioni,
determina altres la negazione "dell' universalit di pensiero sui fatti concreti, sui
contenuti positivi e particolari dello spirito, sulle idee e sugli ideali determinati",
ossia determina il "venir meno irreparabilmente dell'assoluto e dell'universale - e,
pertanto, comporta - l'ineluttabile irruzione dell'irrazionalismo e dello scetticismo"
(Rensi 1991, p. 45).
Tre sono le considerazioni critiche che il nostro autore rileva dall'insegnamento
del relativismo dei sofisti sulla morale, articolandole su due fronti che, a nostro
avviso, fanno capo ai due emisferi conoscitivi dell'agire pratico, quello del diritto e
quello del dovere. Il primo fronte, quello del relativismo morale delle leggi,
afferente all'emisfero conoscitivo del diritto, afferma l'autorit esteriore del fatto
fisico alla coscienza del soggetto. A tale fronte appartengono due delle prime
considerazioni critiche che Rensi trae dall'insegnamento sofistico: a) "Non c'
morale se non [...], per opera di legge, sicch per ogni popolo, o, com'essi
dicevano, 'citt', morale quel che le regole ch'esso si posto stabiliscono sia tale
e finch esse ci stabiliscono, giusto ci che conviene al governo costituito [...];
b) chi detiene l'autorit sempre nel giusto e che [...], legge naturale che chi
pi forte comandi a sua posta" (Rensi 1925, pp. 102-103). Al secondo fronte,
quello del relativismo morale delle virt particolari soggettive, ossia quello
afferente all'emisfero del dovere, appartiene la terza considerazione critica
rensiana che afferma che: c) "non c' una virt unica, ma tante virt particolari e
relative alle diverse condizioni della vita [...], sicch quando si chiede che cosa sia
la virt non si pu rispondere che designando le singole virt particolari.
Abbiamo, insomma, ognuno i nostri particolari doveri, e quindi non esiste
principio d'azione universalizzabile" (Ibidem, p 107).
Sia che si guardi al primo emisfero conoscitivo dell'agire pratico, quello del diritto,
sia che si rivolgano le attenzioni al secondo, quello del dovere, emerge in ambedue
i casi l'impossibilit di ricondurre l'agire pratico all'interno di uno schema
razionale precostituito, all'interno cio di una 'essenza' della ragione pura, d'una
razionalit totalmente esente o assente dalle passioni, dai sentimenti, dalle
pulsioni istintuali che mediano ad ogni istante le diverse condizioni dell'agire
immediato, vuoi a livello individuale che sociale. impossibile, ripetiamo, nel
campo di ogni prodotto spirituale, ricondurre ad unit razionale o ad universalit
di pensiero la molteplicit e diversit dei contenuti positivi e particolari inerenti ai
fatti concreti dell'agire pratico.
Ma sulla scoperta del relativismo sofistico della morale, prosegue l'autore,
"s'affrett a calare lo spegnitoio socratico-platonico, tipico insigne esempio d'arte
abilissima nel collocare i fatti nel bozzolo che li trasforma e nel soverchiare e nel
mettere in silenzio la voce fastidiosa che li aveva presentati nudi" (Rensi 1991, p.
45).
Con la scuola socratico-platonica, infatti, prende il via quella che si pu, senza
esitazioni, definire la grande impresa della cultura occidentale e che consiste
nell'avvio di una vera e propria 'svalutazione filosofica dell'esperienza' (Cfr.
Boriani 1993, p. 86 sgg.). Con la suddetta scuola prende il via quella che
significativamente Rensi chiama la 'filosofia del concetto' e che affonda le proprie
radici nella famosa teoria della 'reminiscenza', la quale, in sostanza, afferma che:
"la vera realt non sta nelle cose sensibili e quindi non giunge alla nostra
conoscenza mediante la percezione e l'esperienza; che essa consiste invece nel
substrato o schema concettuale, intellettuale, ideale (le idee) di cui le cose
sensibili sono l'imperfetta incarnazione; che tale substrato o schema essenziale,
costituente la vera realt delle cose, la nostra mente lo reca in s prima d'ogni
esperienza sensibile, anzich ricavarlo da questa [...]; che, quindi, poich la realt
sta nelle idee, la conoscenza delle idee la conoscenza assoluta; vale a dire la
ragione muovendo da esse [...], giunge ad afferrare la realt e la verit universale
ed eterna" (Rensi 1926, p. 13).
questo, ad avviso di Rensi, l'espediente logico-teoretico puro che si ripropone in
tutte quelle filosofie successive di ispirazione idealista che, dall'idealismo
problematico di Cartesio a quello dogmatico di Berkeley, da quello romantico
tedesco di Fichte (etico), di Schelling (estetico) e di Hegel (assoluto), al
neoidealismo italiano di Croce e di Gentile, con un medesimo procedere deduttivo
del reale dal pensiero, esaltando la superiorit conoscitiva delle forme sui
contenuti positivi e particolari dei fatti, giungono a mascherare la conoscenza
della realt tramite un invariato e costante 'opportunismo valutativo' il quale
consiste, appunto, nel far scomparire le contraddizioni. Cos, l'antico espediente
si ripropone interamente sia nel pensiero moderno che in quello dei
contemporanei, con la semplice sostituzione di nomi: al nome socratico di
concetto e a quello platonico di idea del bene Rousseau sostituisce quello di
'volont generale' e di 'interesse comune'; al nome kantiano di 'vero io', che
pronuncia il comando morale, ossia l'imperativo categorico, gli idealismi e i
razionalismi successivi e, quindi, contemporanei sostituiscono, rispettivamente, il
nome di 'forma' o 'attivit dello spirito' e quello di 'giustizia sociale'; stessa cosa,
osserviamo, varrebbe allora per ogni altro concetto formale, poniamo, come quello
di 'democrazia'.
Tutti diversi nomi, sottolinea marcatamente Rensi,"per dire 'l'identica' cosa che
Socrate e Platone avevano detto, per rinnovare 'l'identico' espediente che il primo
con la parola 'concetto', il secondo con la parola 'idea' avevano gi messo in
opera: con la sola differenza che (come si rende necessario ogni qualvolta contro
un precedente tentativo di far sparire le contraddizioni e ristabilire l'unit, le
critiche diventano pi stringenti) l'unit, l'universalit, l'assolutezza collocata
ancor pi lontana dal mondo concreto e sensibile [...], dalle contraddizioni [...],
pi oltre il mondo, pi nell'impalpabile, rendendole quindi un bersaglio sempre
pi difficile da colpire" (Rensi 1991, p. 49).
Tutti diversi nomi che designano pure forme, ripetiamo. Forme che, come delle
semplici cornici, dal momento che possono accogliere qualunque contenuto,
anche tra i pi opposti e contraddittori, indifferentemente dai loro significati
positivi e particolari, risultano del tutto insignificanti. La pura forma 'dovere', ad
esempio, se pensata 'estesa' in altre sue possibili determinazioni, viene a negare
quanto invece gli uomini di una specifica societ si impegnano a far valere
'moralmente'. La parola 'dovere', sottolinea a tale proposito il nostro autore, "
usata anche dal delinquente; la forma 'dovere' opera anche in lui nella sua
attivit criminale; cos indifferente ad ogni contenuto, e quindi cos nulla, che
informa di s, chiama in s (cio come dovere) alla luce, chiama all'esistenza di
dovere, anche l'azione delittuosa. Il delinquente anziano e maestro dir al suo
giovane affiliato: 'tu devi' appostarti qui, 'devi' nascondere cos quest'arma, 'devi'
aver colpo d'occhio, sicurezza e coraggio, e se sei preso 'non devi' mai tradire. E le
istruzioni e gli ordini del superiore susciteranno nell'altro (che vive tutto di tale
vita ed il cui spirito da questa disciplina soltanto foggiato) un vero senso di
dovere, una vera voce della coscienza, appunto l'imperativo categorico 'tu devi'
kantiano" (Rensi 1991, p. 51).
Nel tentativo o, meglio, nella pretesa di superare il relativismo sofistico su
ambedue i fronti che abbiamo sopra delucidato, quello del diritto e quello del
dovere, ovvero per superare la diversit delle morali e la variet delle virt, la
soluzione operata dalla scuola socratico-platonica in poi, da ogni idealismo e da
ogni razionalismo, stata sempre quella di eliminare ogni contenuto concreto o
particolare della morale stessa, ovvero dalle norme che presiedono a ogni ambito
organizzativo dellagire pratico-sociale, considerandola nella sua sola linea
generica di pura forma, realizzandone cos, astrattamente, un solo uso applicativo
formale. Di qui l'avvio dello sforzo di coordinare ad unit l'universalit della forma
'morale', forma universalistica all'interno della quale veniva poi ricondotta la
molteplicit e diversit di ogni contenuto concreto o particolare dell'agire pratico,
di ogni esistenza umana individuale e della relativa condizione sociale.
Ora, al concetto della morale intesa come insieme di regole di condotta o, meglio,
di norme comportamentali che coordinano e, insieme, determinano l'agire pratico
di una collettivit sociale, sotteso un altro importante concetto, quello della
giustizia. Concetto il quale, come quello del bene, del bello e del vero, un
concetto puramente formale. Anche tale concetto infatti stato indagato dai
sofisti a fianco di quello della morale e, anche per esso, le considerazioni critiche
che sono scaturite sono praticamente le medesime, ovvero che 'il giusto non
affatto per natura', non ha un'esistenza autonoma dai fatti, dalle cose o dagli
oggetti sui quali esso si erige a concetto: il giusto 'non per natura' tant' che gli
uomini ne discutono continuamente senza raggiungere alcun accordo unanime,
ma sempre differente da luogo a luogo, da popolo a popolo. Quando Archelao,
probabile maestro di Socrate, "confermava che il giusto e l'ingiusto derivavano
non dalla natura, ma dalla legge; quando Trasimaco sosteneva: 'ogni governo
promulga le leggi conformemente a quanto gli conviene, la democrazia
democratiche, la tirannide tiranniche e cos via; e promulgandole, dichiarano ai
sudditi giusto quello che a essi conviene, e puniscono il trasgressore
considerandolo violatore della legge e della giustizia' " (Rensi 1993, pp. 185-186),
quando i sofisti, insomma, esprimevano simili considerazioni, sottolinea Rensi,
non potevano altro che evidenziare quanto poi, nei fatti, il giusto e il buono
coincidono con quanto conviene al governo costituito e che, tradotto con un
"linguaggio moderno si pu trovare, ad es. nel Simmel: 'il gruppo sociale assume
pressappoco la posizione che tiene per i devoti Dio, per Macchiavelli e Hobbes il
Principe; non si da un giusto e un bene in s determinato, a cui la volont di esso
gruppo sia conforme, ma piuttosto la sua volont determina ci che sar giusto e
buono' " (ivi, p. 186).
Ma per proseguire nell'indagine, Rensi cautamente precisa che laffermazione dei
Sofisti secondo la quale 'giusto quel che conviene al governo costituito' e 'il
giusto e l'ingiusto derivano dalla legge' non va intesa nel senso che gli uomini,
mossi da chiss quale superficiale capriccio o inconsulta mania o anche
accidentale fantasia, decretino o possano decretare un senso della giustizia qua e
l diverso, quasi a dire, con singolare pazzia, che non abbia insomma un minimo
riferimento con la realt. Non gi in questo senso, dicevamo, va inteso il pensiero
dei sofisti a proposito della giustizia, ossia non certo nella coincidenza immediata
della forza con la giustizia, "ma nel senso che quella delle 'pi' idee di giustizia
opposte, la quale, nell'urto violento, e, come s' visto, inevitabilmente, riesce
vittoriosa, ha con ci tolto di mezzo, soffocato, fatto tacere per sempre o per un
certo tempo [...], l'altra contrastante idea di giustizia, e perci rimane, in linea di
mero fatto, 'la giustizia', sebbene, in diritto e dal punto di vista razionale, essa
non sia maggiormente giustizia per aver vinto di quel che sia ingiustizia l'altra per
aver perduto [...], n mai v' coincidenza di legge e libert" (ivi, p. 187).
questa, tra l'altro, una considerazione di grande interesse epistemico per la
sociologia, poich essa sollecita, proprio da un punto di vista metodologico, le
attenzioni critiche sui limiti che il formalismo nominalistico impone nei confronti
di un approfondimento teorico-concettuale sulla morale e sulla giustizia da
sviluppare nelle attuali societ in continua trasformazione. Si tratta di una
sollecitazione che, muovendo dalla critica della filosofia del concetto, pone in una
pi aggiornata collocazione problematica lo status teorico della sociologia come
scienza umano-sociale riassegnandole, insieme al carattere della problematicit
teoretica, anche la responsabilit di uno dei suoi compiti principali per il quale
essa ha ricevuto i natali, ovvero, del suo impegno nel sociale. Impegno che dalla
difesa delle minoranze, come si visto sopra, giunge a re-impostare
realisticamente i rapporti tra la politica e la morale etra questa e il diritto.
L'inesistenza denunciata da Rensi di una 'trasparente' coincidenza tra legge e
libert apre cos un capitolo nuovo sulla concettualizzazione della giustizia e della
morale che appare ora debba considerare le correlazioni tra tali concetti e le
condizioni materiali di esistenza allinterno delle quali vengono formulate.
Non si pu, in base a quanto emerso nelle pagine precedenti, continuare a
credere che esista una unit formale razionale in cui, solo nominalisticamente ma
non nei fatti, si costituiscono una giustizia e una morale in tal guisa
concettualizzate. Non lo si pu giacch, ripetiamo, tra le varie visuali
razionalisticamente possibili (e di uguale valore) di 'bene morale' e d 'giustizia
sociale', quelle che diventano poi, di fatto, la morale e la giustizia risultano essere
quelle di chi, casta, ceto, classe, popolo politicamente (e militarmente) pi forte o
lite di potere, possiede l'autorit o la forza di imporla (con guerre, rivoluzioni,
egemonie economico-politiche o, anche, egemonie multimediali).
E l'inesistenza di una tale unit formale razionale in cui ogni concezione
idealistico-razionalista pretenderebbe di ravvisare ora il bene morale, ora la
giustizia sociale positivisticamente comprovata dall'esistenza delle
contraddizioni, dei dissensi, dei conflitti, insomma dagli stessi elementi irrazionali
che nei fatti e nell' agire pratico di ogni interazione umano-sociale si manifestano
empiricamente. La morale, la giustizia e, per i motivi suesposti, ci varrebbe
altres per la democrazia, non possono affatto svilupparsi in quanto concetti
meramente formali, puri nomi, pure forme che, dal momento che possono
accogliere ogni pi opposto contenuto (come nel senso del dovere succitato) "sono
del tutto insignificanti, un nulla, un vero 'flatus vocis' " (Rensi 1991, p. 50).
Tutto ci, pertanto, bisognerebbe tener presente giacch per formalismo si
intende proprio quel procedere logico-teoretico tramite il quale si viene a svuotare
un'idea di ogni contenuto concreto particolare e la si tiene presente "come
cornice, come monogramma [...], in cui ogni pi vario ed opposto contenuto pu
entrare" (Rensi, 1993, p. 193). Ed in presenza di una simile consapevolezza, per
ogni sviluppo teorico-concettuale che si intende realizzare in termini formali,
dovremmo essere disposti a riconoscere che un tale concetto (generale) pu
accogliere anche dei fatti (particolari) tra loro completamente opposti, Se
intendiamo riferirci "all'idea del dovere, se vogliamo concepirlo formalmente,
dobbiamo non gi pensarlo come necessariamente congiunto con certe azioni,
nemmeno con quelle con cui il momento o l'ambiente ove viviamo lo presenta e
quasi lo impone alla nostra mente indissolubilmente congiunto: in questo caso
faremmo una morale, non pi formale, ma materiale, e andremmo incontro alla
conseguenza che essa non sarebbe pi universale e assoluta, perch quell'azione,
materia o contenuto con cui noi congiungiamo necessariamente il dovere, in altri
luoghi o tempi come dovere non pi riconosciuta" (ivi, p. 194).
L'unit formale universale di una morale o di una giustizia razionale negata
insomma dalla molteplicit e diversit dei contenuti particolari dell'irrazionalit
dei fatti (dell'agire pratico), ovvero, dell'esistenza fenomenica nel suo divenire
mutevole. Ed proprio la mutevolezza dell'esistenza fenomenica nella sua
irrazionalit a costituire il referente privilegiato di ogni agire etico e di ogni sua
formulazione teoretica; mutevolezza questa costituente il problema e insieme il
compito della sociologia.
Quanto fin qui esposto dovrebbe far riflettere sull'attuale tendenza della cultura
occidentale, impegnata a 'rielaborare' antichi miti e altrettanto antiche fantasiose
leggende che sembravano appartenere al nostro patrimonio storico-esperenziale
del passato e che, in quanto tali, sembravano per ci essere stati agevolmente
chiariti e superati, una volta vagliate le relative drammatiche conseguenze. Ci
riferiamo alle modalit applicative con le quali nell'area occidentale si vanno a
costituire specifici assetti economico-politico-sociali, tutti universalmente
promossi all'insegna di una presunta perfezione della razionalit dell'agire
pratico: una formula questa che ripropone, invariate, "l'idea dell'identificazione
della giustizia o del diritto con la forza e quella dell'indipendenza della politica
dalla morale" (Rensi, 1993, p. 187); idee queste che hanno caratterizzato il clima
dell' autoritarismo antecedente al secondo conflitto mondiale.
Si tratta di una 'rielaborazione' per antichi miti e per antiche leggende che
suonano come 'Verit' assolute ed universali e che ripropongono invariate le
formulazioni di altrettanto antiche concettualizzazioni formali di giustizia e di
morale totalmente indifferenti a qualsiasi contenuto particolare dell'esistenza
fenomenica e dei suoi aspetti irrazionali. Aspetti irrazionali che, come si detto, si
impongono dall'esterno e, in questo fare, per dirla con le parole di R. Ardig,
dovrebbero ravvivare la consapevolezza di una vera e propria 'sovranit dei fatti
sulle necessit della ragione'.
Di questa irrazionalit dei fatti infine dovrebbe tener conto, anzitutto, ogni
formulazione sulla giustizia e sulla morale, giacch entrambe si configurano
essenzialmente come presupposti etici atti a regolamentare l'interazione e a
promuovere la continuit associativa, ovvero le condizioni materiali di esistenza di
ogni realt sociale o, per dirla in termini durkheimiani, di ogni 'tipo sociale'. Di
questa irrazionalit dei fatti deve tener conto la scienza nel suo impegno sociale e
relativamente alle responsabilit critiche che ha il dovere di assumersi giacch,
ripetiamo, proprio dal sociale essa ha ricevuto i natali.
Il contributo epistemologico offerto dallo scetticismo rensiano alla sociologia
teoretica contemporanea giunge cos a stabilire quanto la 'filosofia del concetto', a
partire dalle sue originarie formulazioni socratico-platoniche, si sia in fondo
rivelata la madre di ogni formalismo nominalistico. Lo stesso che, riprodotto in
'forme' sempre pi estese in ogni successiva concettualizzazione logico-razionale
della giustizia e della morale, mascherando le contraddizioni che di volta in volta
si manifestavano nel concreto agire pratico di ogni realt associativa, ha
contribuito potentemente a svilire ogni apporto conoscitivo che l'esperienza
fenomenica mostrava nel suo mutevole divenire sociale. Ed sulla scorta di una
simile indagine critica che diverrebbe auspicabile riaprire un dibattito sulla
correlazione tra la politica e la morale e tra questa e il diritto, a partire dalle
condizioni storico-culturali che consentono di riflettere intorno alle esigenze
pratiche che presiedono ad ogni convivenza umano-sociale, di un'etnia, di un
popolo, di una nazione o di un complesso di nazioni.

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