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La Divina Commedia

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Inferno, Canto I

Dante e le tre fiere (G. Stradano, 1587)


Ahi quanto a dir qual era è cosa dura,
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Ed una lupa, che di tutte brame


sembiava carca ne la sua magrezza
e molte genti fé già viver grame...

"A te convien tenere altro viaggio,"


rispuose, poi che lagrimar mi vide,
"se vuoi campar d'esto loco selvaggio..."

Argomento del Canto


Dante si smarrisce nella selva oscura. Incontra le tre fiere: lonza, leone, lupa. Viene soccorso da
Virgilio, che lo guiderà in un viaggio attraverso Inferno e Purgatorio, mentre Beatrice lo guiderà in
Paradiso. Profezia del veltro.
È la notte tra giovedì 7 aprile (o 24 marzo) e venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

Dante si smarrisce nella selva (1-30)


La notte del 7 aprile (o 24 marzo) dell’anno 1300, dunque a trentacinque anni di età, Dante si
smarrisce in una selva oscura e intricata, impossibile da descrivere tanto è angosciosa. Lui stesso
non sa dire come c’è finito, poiché era pieno di sonno quando ha perso la giusta strada: a un tratto
però, mentre sta albeggiando, si ritrova ai piedi di un colle, dalla cui vetta vede spuntare i primi
raggi del sole. Questo, oltre al fatto che è primavera, gli ridà speranza e lo spinge a tentare la scalata
del colle, dopo essersi riposato per qualche istante e aver ripensato al pericolo appena corso (come
un naufrago che guarda le acque in tempesta dalle quali è appena scampato). Il poeta inizia quindi a
salire la china del colle, ma con grande fatica e incertezza.

Compaiono le tre fiere (31-60)

W. Blake, Dante nella selva


Mentre sta salendo il colle, gli appare improvvisamente una lonza dal pelo maculato, assai agile e
snella, che lo spinge più volte a tornare indietro. All’inizio l’ora del mattino e la stagione mite gli
danno speranza di poterne avere ragione, ma subito dopo compare un leone, che gli viene incontro
con fame rabbiosa e sembra far tremare l’aria, e una lupa famelica, tanto magra da sembrare carica
di ogni bramosia. Quest’ultima incute molta paura in Dante, che perde ogni conforto e lentamente
scende verso il basso, nella zona non illuminata dal sole.

Presentazione di Virgilio (61-90)


Dante sta tornando verso la selva, quando intravede una figura nella penombra, appena visibile nella
poca luce dell’alba. Intimorito, supplica lo sconosciuto di avere pietà di lui e gli chiede se sia un
uomo in carne ed ossa oppure l’anima di un defunto. L’altro risponde di non essere più un uomo in
vita, ma di avere avuto i genitori lombardi e di essere originario di Mantova. Si presenta come
Virgilio, il poeta latino vissuto al tempo di Cesare e Augusto, ovvero durante il paganesimo, e che
ha cantato le gesta di Enea nel poema a lui dedicato. Virgilio rimprovera Dante perché sta
scivolando verso il male della selva, mentre dovrebbe scalare il colle che è principio di felicità.
Dante risponde a sua volta con ammirazione, dicendo a Virgilio che lui è il più grande poeta mai
vissuto e dichiarando che è il suo maestro e modello di stile poetico. Si giustifica indicando la lupa
come la bestia selvaggia che gli sbarra la strada, pregando Virgilio di aiutarlo a superarla.

Profezia del veltro (91-111)

G. Doré, Dante e la lonza


Virgilio riprende la parola spiegando a Dante che, se vuole salvarsi la vita, dovrà intraprendere un
altro viaggio. Infatti la lupa è animale particolarmente pericoloso e malefico, incapace di soddisfare
la propria fame, che uccide chiunque incontri. Virgilio profetizza poi la venuta di un «veltro», un
cane da caccia che ucciderà la lupa con molto dolore e la ricaccerà nell’Inferno da dove è uscita.
Costui non sarà interessato alle ricchezze materiali ma ai beni spirituali, e la sua patria non sarà
nessuna città in particolare. Egli sarà la salvezza dell’Italia, per la quale già altri personaggi hanno
dato la vita, come i troiani Eurialo e Niso, la regina dei Volsci Camilla, il re dei Rutuli Turno, tutti
cantati dallo stesso Virgilio nell’Eneide.
Il viaggio di Dante (112-136)

P. Della Quercia, Dante e Virgilio


Virgilio conclude dicendo a Dante che dovrà seguirlo in un viaggio che lo condurrà nei tre regni
dell’Oltretomba: dapprima lo condurrà attraverso l’Inferno, dove sentirà le grida disperate dei
dannati; poi lo guiderà nel Purgatorio, dove vedrà i penitenti che sono contenti di espiare le loro
colpe per essere ammessi in Paradiso. Qui, però, non sarà Virgilio a fargli da guida: egli non ha
creduto nel Cristianesimo, quindi Dio non può ammetterlo nel regno dei Cieli. Sarà un’altra anima,
più degna di lui, a guidare Dante in Paradiso, ovvero Beatrice. Dante risponde a Virgilio pregandolo
di fargli da guida in questo viaggio, poiché è ansioso di vedere la porta di san Pietro e le pene dei
dannati. Virgilio inizia a muoversi e Dante lo segue.

Qui è possibile vedere un breve video


sul rapporto tra Dante e Virgilio,
tratto dal canale YouTube
Video Letteratura

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Qui è possibile vedere un breve video


con il riassunto del Canto,
tratto dal canale YouTube
"La Divina Commedia in HD"

Interpretazione complessiva
Il canto I dell’Inferno è di introduzione all’intero poema, presenta quindi la situazione iniziale e
spiega le ragioni del viaggio allegorico: Dante vi compare nella duplice veste di personaggio reale,
che in un determinato momento storico si smarrisce in una selva (a metà della sua vita, quindi
nell'anno 1300 quando stava per compiere 35 anni), e in quella di ogni uomo che in questa vita è
chiamato a compiere un percorso di redenzione e purificazione morale per liberarsi dal peccato e
guadagnare la beatitudine. Sul piano allegorico, dunque, la selva rappresenta proprio il peccato
(essa è infatti descritta come selvaggia e aspra e forte, spaventosa al solo ricordo e poco meno
amara della morte stessa), mentre su quello letterale è un luogo in cui chi compie un viaggio rischia
realisticamente di smarrirsi per essere uscito dalla diritta via, per cui i lettori del tempo di Dante
potevano trovare familiare un paesaggio simile (all'epoca le zone boscose erano assai estese e
selvatiche, come per esempio in Maremma: cfr. Inf., XIII, 7-9). Altrettanto realistici gli altri
elementi del paesaggio simbolico, a cominciare dal colle che allegoricamente raffigura la via alla
felicità terrena, cioè al possesso delle virtù cardinali (fortezza, temperanza, prudenza e giustizia) per
le quali la ragione umana è sufficiente, e che Dante tenta inutilmente di scalare vedendo sorgere il
sole dietro la sua vetta (esso rappresenta la via verso la salvezza, oltre all'ovvia considerazione che
il nuovo giorno dissipa le paure della notte e ridona al poeta nuova speranza). Le tre fiere che
sbarrano il passo al poeta e lo ricacciano verso la selva sono invece le tre principali disposizioni
peccaminose: la lonza è la lussuria, il leone è la superbia, la lupa è l’avarizia-cupidigia, secondo
una tradizione già attestata dai commentatori medievali, e anch'esse ovviamente rappresentano tre
animali selvaggi che non erano certo impossibili da incontrare in un effettivo viaggio attraverso una
foresta (tranne naturalmente il leone, ma nulla conferma che il viaggio dantesco avvenga in Italia e
d'altronde vari interpreti hanno ipotizzato che questi luoghi si trovino in realtà nei pressi di
Gerusalemme, sotto la quale si spalanca la voragine infernale). Più pericolosa è la lupa-avarizia,
radice di tutti i mali e per Dante causa prima del disordine politico e morale che regnava in Italia
all’inizio del Trecento, di cui è simbolo del resto anche la selva, mentre va ricordato che in molti
passi del poema egli si scaglia con forza contro la corruzione del mondo politico ed ecclesiastico del
suo tempo, causata principalmente proprio dall'avidità di denaro. La lupa si rivela un ostacolo
insuperabile e Dante lentamente scivola nuovamente verso la selva, cioè il peccato.
La seconda parte del Canto vede come protagonista Virgilio, che sarà la prima guida di Dante nel
viaggio ultraterreno e che è allegoria della ragione umana dei filosofi antichi, guida sufficiente a
condurre l’uomo al pieno possesso delle virtù cardinali: egli giunge in soccorso del poeta in modo
inaspettato, come un'apparizione spettrale, tanto che Dante gli chiede timoroso se sia ombra od omo
certo. La risposta del poeta latino è una vera e propria prosopopea, un'elegante auto-presentazione
in cui Virgilio non fa direttamente il proprio nome (sarà Dante a citarlo al termine delle sue parole)
e si manifesta come l'autore dell'Eneide, il poema che era considerato il capolavoro della letteratura
latina e il cui protagonista, Enea, è centrale nella tradizione classico-cristiana, in quanto fondatore
della stirpe romana e, indirettamente, di quella Roma che sarà centro dell'Impero e della Chiesa.
Virgilio rimprovera Dante del fatto che non sale il dilettoso monte che è principio di ogni felicità e
il poeta fiorentino risponde indicando Virgilio come il suo maestro, colui da cui ha tratto l'alto stile
tragico che gli ha dato la fama, invocando poi il suo aiuto contro la lupa-avarizia che lo riempie di
terrore e costituisce uno sbarramento insuperabile: la successiva risposta di Virgilio si divide in due
parti, la prima delle quali dedicata alla profezia del «veltro» che ricaccerà la lupa nell'Inferno da
dove è uscita (per le molte interpretazioni di questo personaggio si veda oltre), la seconda al viaggio
nell'Oltretomba che Dante dovrà affrontare se vuole scampare da questo loco selvaggio, e in cui
sotto la sua guida visiterà Inferno e Purgatorio, mentre se vorrà visitare anche il Paradiso dovrà
attendere la guida di Beatrice, in quanto Virgilio è pagano e non è quindi ammesso nel regno di quel
Dio che non ha conosciuto. Allegoricamente Beatrice raffigura la grazia santificante e la teologia
rivelata, che sola può portare l'uomo alla salvezza, mentre è affermata fin dall'inizio l'insufficienza
della ragione naturale, che è in grado di condurre l'uomo al possesso delle virtù cardinali e a una
condotta onesta, ma non di arrivare alla beatitudine eterna: è questa l'ossatura allegorica dell'intero
poema e la cosa diverrà chiara già dal Canto II, in cui Virgilio rievocherà l'incontro con Beatrice nel
Limbo e spiegherà che il viaggio di Dante è voluto da Dio, dunque non è folle in quanto non
affrontato col solo ausilio della ragione dei filosofi che Virgilio rappresenta. La scelta di questo
personaggio come guida nella prima parte del viaggio è stata molto discussa, in quanto Dante
avrebbe potuto scegliere un filosofo come Aristotele o un personaggio storico come Catone
Uticense, ma Virgilio nel Medioevo era ritenuto un pensatore al pari degli altri grandi filosofi
antichi, inoltre si riteneva che avesse intravisto alcune verità del Cristianesimo e le avesse
preannunciate nelle sue opere (specie nella famosa Egloga IV: cfr. Purg., XXII, in cui Stazio
dichiara di essere diventato cristiano grazie alla lettura di quei versi); egli era anche il principale
scrittore dell'età di Augusto, sotto il cui Impero il mondo aveva conosciuto pace e giustizia,
indispensabili secondo il pensiero medievale affinché potesse diffondersi il Cristianesimo, per cui
l'autore dell'Eneide era in realtà una scelta quasi obbligata come maestro e guida di Dante nel
viaggio attraverso i primi due regni ultraterreni. È interessante inoltre osservare che dopo questo
primo incontro fra discepolo e maestro si creerà un rapporto di reciproco intenso affetto, per cui
Virgilio accudirà Dante come un figlio e questi ricambierà le cure con profondo rispetto e
deferenza, fino al momento della separazione in cui Dante si abbandonerà a un pianto disperato
(Purg., XXX, 40 ss.). Il Canto si chiude con Dante che, pieno di speranza e di buoni propositi, si
accinge a seguire la sua guida per giungere nei luoghi che gli ha preannunciato, salvo poi (all'inizio
del Canto seguente) venire assalito da dubbi e timori, che Virgilio fugherà raccontando del suo
incontro con Beatrice.

La profezia del veltro


È una delle più note e oscure della Commedia, evocata da Virgilio che preannuncia la venuta di
questo misterioso personaggio destinato a cacciare e uccidere la lupa-avarizia dall’Italia e dal
mondo (il veltro era propriamente un cane usato durante le battute di caccia, dunque perfettamente
in grado di mettersi sulle tracce di un animale selvaggio: cfr. Inf., XIII, 126, come veltri ch'uscisser
di catena). Su di lui sono state avanzate le più disparate ipotesi, che però, tralasciando le più
fantasiose, si riducono a un papa (forse un francescano: il feltro potrebbe alludere al panno del suo
saio), a un imperatore (Arrigo VII di Lussemburgo?), a un signore italiano (Cangrande della
Scala?). La questione è complicata anche dall'incerta cronologia della composizione di questo
Canto, per cui si obietta che se Dante scrisse questi versi intorno al 1307 (è questa l'ipotesi più
accreditata, mentre altri pensano addirittura che abbia iniziato la Commedia prima dell'esilio) era in
effetti troppo presto perché potesse pensare ad Arrigo VII, che scese in Italia solo nel 1310-1313,
ma anche a Cangrande, che all'epoca aveva appena sedici anni e che il poeta incontrò molto più
tardi. Del resto è innegabile che l'elogio a Cangrande messo in bocca all'avo Cacciaguida in Par.,
XVII, 76 ss. presenti molti punti di contatto con questa profezia e fa propendere per tale
identificazione, ma occorrerebbe pensare che Dante abbia rimaneggiato il Canto in un secondo
momento e di questo non c'è alcuna conferma diretta nella tradizione manoscritta. Non è poi da
escludere che il veltro non fosse da identificare con un personaggio in particolare e che la profezia
sia volutamente ambigua proprio per essere indeterminata, caso non certo unico nel poema
dantesco; chiunque fosse il veltro, Dante si aspettava da lui un profondo rinnovamento sociale e
politico in grado di riportare la giustizia troppo spesso calpestata dagli ecclesiastici corrotti e dagli
uomini politici, che è poi la situazione di degrado morale e disonestà che il poeta denuncia a più
riprese nella Commedia, sempre con parole di ferma condanna. Tale profezia si ricollega forse a
quella del «DXV» contenuta nel Canto XXXIII del Purgatorio, dove si dice che un «messo di Dio»
ucciderà la prostituta che simboleggia la Chiesa compromessa con la monarchia di Francia: molti
interpreti hanno sostenuto l'identificazione di questo «DXV» con Arrigo VII e con lo stesso veltro,
per quanto di ciò non vi sia alcuna prova certa, ma è evidente che entrambe le profezie hanno in
comune il carattere oscuro ed enigmatico e preannunciano quella palingenesi della società che
Dante si attendeva, e nella quale manifesta una fede incrollabile in più di un passo del poema.

Note e passi controversi


Il v. 1 è stato interpretato da alcuni come in quella metà della vita che si trascorre domendo (Dante
racconterebbe una visione avuta in sogno), ma l'autore si rifà quasi certamente a un passo biblico
(Isaia, 38, 10) dove si dice in dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi, cioè «andrò presso la
porta dell'Inferno a metà dei miei giorni». Dante stesso, in Conv., IV, 23 descrive la vita umana
come un arco che inizia a declinare dopo i 35 anni di età, senza contare che descrive il suo viaggio
come realmente avvenuto (egli è andato sensibilimente nell'Aldilà). In Ps., LXXXIX, 10 si legge
inoltre che dies annorum nostrorum... septuaginta anni («la vita dell'uomo dura settant'anni»), per
cui è evidente che Dante intende collocare il suo viaggio nella primavera dell'anno 1300.
Al v. 5 selva selvaggia è una paronomasia di forte sapore guittoniano.
Il sonno citato al v. 11 è quello della ragione che conduce al peccato, come spesso indicato nelle
Scritture.
Il pianeta del v. 17 è ovviamente il Sole.
Nel v. 27 il che può avere valore di soggetto o di compl. oggetto, quindi il senso può essere la selva,
che non lasciò vivere nessuno oppure la selva, che nessuna persona vivente poté abbandonare. Pare
più probabile la prima interpretazione, nel senso che il peccato provoca la morte dell'anima
portando alla dannazione.
Il v. 30 è stato variamente interpretato, ma forse Dante indica semplicemente che, tentando di
scalare il colle, il piede più basso è quello più saldo e quindi l'ascesa è alquanto incerta. Altri
pensano che il piede più basso sia il sinistro, simbolo degli appetiti materiali che frenano Dante
sulla strada della salvezza (le due ipotesi non si escludono a vicenda).
I vv. 37-40 indicano che è l'alba e il Sole è in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quella
che era con lui al momento della Creazione fissata tradizionalmente in primavera: l'equinozio
primaverile era considerato momento favorevole, quindi anche per questa ragione Dante si
riconforta (l'indicazione permette inoltre di collocare il tempo dell'azione tra marzo e aprile del
1300, come successivamente verrà meglio precisato).
Le rime ai vv. 44, 46, 48 (-esse / -isse) sono siciliane ed è dunque da respingere la lezione venesse
di alcuni mss.
La similitudine ai vv. 55-57 è di solito riferita all'avaro, ma alcuni hanno pensato al giocatore, che si
rattrista quando perde tutti i suoi guadagni.
Il v. 63 (chi per lungo silenzio parea fioco) può significare qualcuno, che a causa del lungo silenzio
della luce (penombra) si scorgeva a malapena, oppure qualcuno, che a causa di un lungo silenzio
(poetico) non aveva più voce. Questa seconda ipotesi alluderebbe al fatto che, dopo Virgilio,
nessuno scrisse un poema paragonabile all'Eneide, quindi il poeta latino aveva perso autorevolezza.
Le due interpretazioni possono coesistere.
Ai vv. 68-69 Virgilio si presenta come originario di Mantova (era nativo di Andes, un piccolo
villaggio vicino alla città sul Mincio) e indica i genitori come lombardi, con un anacronismo in
quanto il termine Lombardia (che ai tempi di Dante alludeva a tutta l'italia settentrionale) non
esisteva ai tempi dell'antica Roma.
I vv. 73-75 alludono in modo perifrastico ad Enea, figlio di Anchise e protagonista dell'Eneide.
Ilion è l'altro nome di Troia.
Noia e gioia (vv. 76, 78) derivano dal provenzale e hanno significato assai più ampio che nella
lingua moderna: il primo indica la piena e perfetta felicità, il secondo l'angoscia e la pena del
peccato.
Al v. 84 il volume è sicuramente l'Eneide. Lo bello stilo che ha fatto onore a Dante è lo stile alto e
tragico di quel poema, che Dante ha già usato nelle canzoni dottrinali composte in precedenza e
destinate ad essere commentate nel Convivio.
Gli animali (v. 100) cui è detta accoppiarsi la lupa-avarizia sono gli uomini e non i vizi, come fu
inteso da alcuni.
Il peltro (v. 103) era una lega di piombo e stagno usata per forgiare le monete, quindi Virgilio dice
che il veltro non sarà avido né di terre né di ricchezze.
Sapienza, amore e virtute (v. 104) indicano le tre Persone della Trinità, ovvero Figlio, Spirito Santo
e Padre.
Il v. 105 (e sua nazion sarà tra feltro e feltro), riferito al veltro, è stato variamente interpretato: può
riferirsi al feltro delle bandiere (la sua origine non sarà da una città in particolare), al feltro che
foderava l'interno delle urne dov'erano votati i magistrati comunali (un podestà?), al panno del saio
francescano (un papa di quell'Ordine?), a Feltre e Montefeltro (Cangrande della Scala, il cui
territorio era compreso fra quelle città).
Ai vv. 107-108 Virgilio ricorda alcuni personaggi dell'Eneide: Camilla, la regina dei Volsci alleata
di Turno e uccisa dall'etrusco Arunte (XI, 758 ss.); Eurialo e Niso, i due giovani guerrieri troiani
uccisi dai Latini mentre cercano di portare un messaggio ad Enea (IX, 177 ss.); lo stesso Turno re
dei Rutuli, principale nemico di Enea e da lui ucciso nel finale del poema (XII, 936 ss.). Tutti sono
ricordati come valorosi soldati caduti per il bene dell'Italia e, curiosamente, Turno viene citato tra i
due amici Eurialo e Niso, mentre è interessante notare che due di loro sono troiani, gli altri due
nemici di Enea (evidentemente tutti hanno partecipato alla costruzione della «nazione» italica,
anche se schierati su fronti opposti).
Nel v. 117 il verbo grida può avere il senso di invoca, oppure di impreca contro: nel primo caso, più
probabile, significa che ogni dannato invoca la seconda morte, il definitivo annichilimento
dell'anima; nel secondo, vuol dire che ogni dannato impreca contro la seconda morte, intesa come la
dannazione.
Il v. 127 crea un'analogia tra Dio e l'Imperatore sulla Terra, che impera (cioè estende la sua autorità)
in ogni luogo ma regge (governa) propriamente solo nel proprio territorio: Dio ha autorità su tutto
l'Universo e governa solo nell'Empireo.
La porta di san Pietro (v. 134) è stata intesa come la porta del Paradiso, ma secondo altri è quella
del Purgatorio descritta in Purg., IX e presidiata dall'angelo guardiano che è detto vicario di Pietro.

Testo Parafrasi
Nel mezzo del cammin di nostra vita A metà del percorso della vita umana (all'età di 35 anni),
mi ritrovai per una selva oscura, mi ritrovai per una oscura foresta, poiché avevo smarrito
ché la diritta via era la giusta strada.
smarrita. 3

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura Ahimè, è difficile descrivere com'era quella foresta,
esta selva selvaggia e aspra e forte selvaggia, inestricabile e tremenda, tale che al solo
che nel pensier rinova la pensiero fa tornare la paura.
paura! 6
È così spaventosa che la morte lo è poco di più: ma per
Tant’è amara che poco è più morte; descrivere il bene che vi trovai dentro, dirò quali altre
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, cose ho visto in essa.
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho
scorte. 9
Non sono in grado di spiegare come vi sia entrato, tanto
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, ero pieno di sonno nel momento in cui lasciai la giusta
tant’era pien di sonno a quel punto strada.
che la verace via
abbandonai.
12 Ma dopo che fui arrivato ai piedi di un colle, là dove
finiva quella valle che mi aveva rattristato il cuore di
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle paura, alzai lo sguardo e vidi la sua vetta già illuminata
giunto, dai raggi del sole, che conduce ogni uomo sulla giusta
là dove terminava quella valle strada.
che m’avea di paura il cor
compunto, 15

guardai in alto e vidi le sue spalle


vestite già de’ raggi del pianeta Allora si placò un poco la paura che avevo avuto nel
che mena dritto altrui per ogne calle. profondo del cuore, quella notte che trascorsi con tanta
18 angoscia.

Allor fu la paura un poco queta,


che nel lago del cor m’era durata E come il naufrago che col respiro affannoso, gettato dal
la notte ch’i’ passai con tanta mare sulla riva, si volta e guarda alle acque pericolose da
pieta. 21 cui è scampato, così il mio animo, che ancora era in fuga,
si voltò indietro ad osservare il passaggio che non lasciò
E come quei che con lena affannata, mai passar vivo nessun uomo.
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
24

così l’animo mio ch’ancor fuggiva, Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco, ripresi a
si volse a retro a rimirar lo passo camminare lungo il pendio deserto del colle, in modo tale
che non lasciò già mai persona che il piede più saldo era sempre quello più basso.
viva. 27
Ed ecco che apparve, quasi all'inizio della salita, una
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, lonza snella e molto agile, ricoperta di pelo maculato; e
ripresi via per la piaggia diserta, non si allontanava di fronte a me, anzi, impediva a tal
sì che ’l piè fermo era sempre ’l più punto il mio cammino che io pensai più volte di tornare
basso. 30 indietro.

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,


una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era
coverta; 33 Erano le prime ore del mattino, e il sole stava sorgendo
insieme a quella costellazione (l'Ariete) che era con lui il
e non mi si partia dinanzi al volto, giorno della Creazione, quando l'amore divino mosse per
anzi ’mpediva tanto il mio cammino, la prima volta quelle belle cose; così l'ora del giorno e la
ch’i’ fui per ritornar più volte stagione primaverile mi davano buoni motivi per sperare
vòlto. 36 bene a proposito di quella belva dalla pelle chiazzata; ma
non al punto che non mi desse paura la vista, che mi
Temp’era dal principio del mattino, apparve subito dopo, di un leone.
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor
divino 39

mosse di prima quelle cose belle;


sì ch’a bene sperar m’era cagione Questi sembrava venire contro di me, con la testa alta e
di quella fiera a la gaetta con fame rabbiosa, al punto che persino l'aria sembrava
pelle 42 tremare.

l’ora del tempo e la dolce stagione;


ma non sì che paura non mi desse Ed ecco apparire una lupa, che nella sua magrezza
la vista che m’apparve d’un sembrava piena di tutti i desideri e spinse molte persone a
leone. 45 vivere miseramente; questa mi procurò una tale angoscia,
col terrore che mi ispirava il suo aspetto, che persi la
Questi parea che contra me venisse speranza di raggiungere la sommità del colle.
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne
tremesse. 48
E come colui che acquista volentieri, e poi arriva il tempo
Ed una lupa, che di tutte brame in cui perde ogni cosa, per cui piange e si rattrista in ogni
sembiava carca ne la sua magrezza, pensiero, così mi rese la belva senza pace, che venendo
e molte genti fé già viver contro di me mi sospingeva poco a poco verso il basso,
grame, 51 dove non c'era il sole.

questa mi porse tanto di gravezza


con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de
l’altezza. 54 Mentre io scivolavo a valle, verso la foresta, apparve
davanti ai miei occhi qualcuno che non riuscivo a vedere
E qual è quei che volentieri acquista, bene per la penombra.
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti i suoi pensier piange e
s’attrista, 57 Quando vidi costui nel luogo deserto, gli gridai: «Abbi
pietà di me, chiunque tu sia, un'anima o un uomo in carne
tal mi fece la bestia sanza pace, e ossa!»
che venendomi ’ncontro a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.
60 Mi rispose: «No, non sono un uomo, lo sono già stato, e i
miei genitori furono della Lombardia, entrambi nativi di
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, Mantova.
dinanzi agli occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
63 Nacqui sotto il governo di Giulio Cesare, anche se negli
ultimi anni, e vissi a Roma sotto il governo del buon
Quando vidi costui nel gran diserto, imperatore Augusto, al tempo degli dei pagani.
«Miserere di me,» gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo Fui poeta, e cantai di quel giusto figlio di Anchise (Enea)
certo!» 66 che fuggì da Troia dopo che il superbo Ilio (Troia) fu
bruciato.
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui. Ma tu, perché ritorni al male della foresta? Perché non
69 scali il colle gioioso, che è principio e causa di ogni
felicità?»
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
al tempo de li dei falsi e «Allora tu sei quel Virgilio e quella sorgente che spande
bugiardi. 72 un così largo fiume di parole?» gli risposi vergognandomi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto


figliuol d’Anchise che venne di Troia «O tu che sei luce e guida degli altri poeti, mi siano di
poi che il superbo Ilïón fu aiuto il lungo impegno e il grande amore che mi hanno
combusto. 75 spinto a leggere la tua opera!

Ma tu perché ritorni a tanta noia? Tu sei il mio maestro e il mio modello; tu sei il solo da cui
perché non sali il dilettoso monte io trassi il bello stile che mi ha reso celebre.
ch’è principio e cagion di tutta gioia?»
78
Vedi la belva che mi ha fatto voltare; aiutami da lei,
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte famoso sapiente, poiché essa fa tremare ogni goccia del
che spandi di parlar sì largo fiume?», mio sangue».
rispuos’io lui con vergognosa
fronte. 81
«Tu devi compiere un altro viaggio,» mi rispose dopo
«O de li altri poeti onore e lume, avermi visto piangere, «se vuoi salvarti da questo luogo
vagliami ’l lungo studio e ’l grande selvaggio.
amore
che m’ha fatto cercar lo tuo
volume. 84 Infatti, la belva che ti fa urlare non lascia passare nessuno
per la sua strada, ma lo impedisce al punto di ucciderlo.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore. E ha un'indole così malvagia e malefica che non può mai
87 soddisfare la sua bramosia, e dopo ogni pasto ha più fame
di prima.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio, Sono molti gli animali a cui si accoppia, e saranno sempre
ch’ella mi fa tremar le vene e i di più, finché arriverà il cane da caccia (veltro) che la
polsi». 90 farà morire con dolore.

«A te convien tenere altro viaggio,» Costui non baderà alle ricchezze materiali, ma solo a
rispuose, poi che lagrimar mi vide, quelle spirituali e la sua nascita avverrà tra feltro e feltro.
«se vuo’ campar d’esto loco
selvaggio; 93
Sarà la salvezza di quell'umile Italia, per cui morirono in
ché questa bestia, per la qual tu gride, battaglia Eurialo e Niso, Turno, la vergine Camilla.
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che
l’uccide; 96 Costui le darà la caccia per ogni città, finché l'avrà
rimessa nell'Inferno da dove l'invidia (del demonio) la
e ha natura sì malvagia e ria, fece uscire per la prima volta.
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria. Perciò io penso e giudico per il tuo bene che tu debba
99 seguirmi, e io ti farò da guida; e ti porterò via di qui per
guidarti in un luogo dell'Oltretomba, dove udirai le grida
Molti son li animali a cui s’ammoglia, disperate e vedrai le antiche anime dei dannati, ciascuno
e più saranno ancora, infin che ’l veltro dei quali invoca la morte definitiva.
verrà, che la farà morir con
doglia. 102

Questi non ciberà terra né peltro,


ma sapïenza, amore e virtute, E poi vedrai coloro che sono contenti di subire pene (i
e sua nazion sarà tra feltro e penitenti del Purgatorio), perché sperano un giorno di
feltro. 105 raggiungere i beati del Paradiso.

Di quella umile Italia fia salute E se poi tu vorrai salire a visitare questi ultimi, allora ci
per cui morì la vergine Cammilla, sarà un'anima più degna di me per farti da guida: quando
Eurìalo e Turno e Niso di me ne andrò, ti lascerò con lei.
ferute. 108
Infatti, quell'imperatore (Dio) che regna lassù, non vuole
Questi la caccerà per ogne villa, che io entri nella sua città, in quanto fui ribelle alla sua
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno, legge (fui pagano).
là onde invidia prima
dipartilla. 111
Dio ha autorità in tutto l'Universo e in Paradiso governa;
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno qui c'è la sua città e il suo alto trono; oh, felice colui che
che tu mi segui, ed io sarò tua guida, sceglie per risiedere in quel luogo!»
e trarrotti di qui per loco etterno,
114 E io gli dissi: «Poeta, in nome di quel Dio che non hai
conosciuto e affinché io fugga questo male e altri
ove udirai le disperate strida, peggiori, ti chiedo di condurmi là dove hai detto, così che
vedrai li antichi spiriti dolenti, io veda la porta di San Pietro e coloro che descrivi tanto
ch’a la seconda morte ciascun miseri».
grida; 117

e vederai color che son contenti


nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate
genti. 120

A le quai poi se tu vorrai salire,


anima fia a ciò di me più degna:
con lei ti lascerò nel mio
partire; 123

ché quello imperador che lassù regna,


perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si
vegna. 126

In tutte parti impera e quivi regge;


quivi è la sua città e l’alto seggio; Allora si mise in cammino, e io lo seguii.
oh felice colui cu’ ivi
elegge!» 129

E io a lui: «Poeta, io ti richeggio


per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch’io fugga questo male e peggio,
132

che tu mi meni là dov’or dicesti,


sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color che tu fai cotanto mesti».

Allor si mosse, e io li tenni


dietro. 136

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