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Canto 13

Nesso non è ancora tornato sull'altra sponda del Flegetonte, quando Dante e Virgilio si
incamminano per una orribile selva, in cui il fogliame è oscuro, i rami sono contorti e al posto
dei frutti ci sono spine velenose. Qui le Arpie nidificano tra gli alberi e hanno grandi ali, visi
umani e zampe artigliate, con cui producono lamenti tra le piante. Virgilio spiega a Dante
che si trova nel secondo girone del VII Cerchio, dove la selva si estende sino al sabbione
infuocato del girone seguente. Lo invita poi a guardare bene ciò che si trova nel bosco,
perché vedrà cose incredibili a sentirne parlare. Dante sente levarsi dei lamenti da ogni
parte e non vede chi li emette, perciò si ferma e rimane confuso. Egli crede che degli spiriti
si nascondano tra le piante, ma Virgilio lo invita a spezzare un ramoscello da uno degli
alberi. Dante obbedisce e appena ha spezzato il ramo di un albero, dal tronco esce la voce
di uno spirito che lo accusa di essere impietoso, mentre dal fusto esce sangue nero. Dal
tronco spezzato escono le parole, simili ad un soffio, e insieme il sangue, cosa che induce
Dante a lasciar cadere a terra il ramo e a restare in attesa, pieno di timore. Virgilio prende la
parola e dice all'anima imprigionata nell'albero di essere stato costretto a indurre Dante a
compiere quel gesto, perché solo così egli avrebbe compreso ciò che lui stesso aveva
cantato nei versi dell'Eneide. Quindi invita il dannato a manifestarsi e a raccontare la sua
storia, affinché Dante, tornato sulla Terra, possa risarcirlo del danno subìto restaurando la
sua fama. Egli si presenta come colui (Pier della Vigna) che fu intimo collaboratore di
Federico II di Svevia, tanto fedele da diventarne il solo depositario di tutti i segreti. Aveva
svolto il suo incarico con lealtà e dedizione, al punto da perderne la serenità e la vita: infatti il
suo impegno aveva acceso contro di lui l'invidia dei cortigiani, i quali istigarono il sovrano e
lo indussero ad accusarlo di tradimento. In seguito Pier della Vigna si era tolto la vita,
credendo in tal modo di sfuggire allo sdegno del sovrano e finendo per passare dalla ragione
al torto. L'anima conclude il racconto giurando sulle radici della pianta in cui è rinchiuso di
essere innocente dell'accusa rivoltagli a suo tempo, pregando Dante di confortare la sua
memoria se mai ritornerà nel mondo. Virgilio chiede a Pier della Vigna in che modo l'anima
del suicida venga imprigionata dentro gli alberi della selva e se accade talvolta che qualcuna
di esse ne fuoriesca. Il tronco emette nuovamente un soffio d'aria, quindi la voce spiega che
quando l'anima del suicida si separa dal corpo e giunge davanti a Minosse, il giudice
infernale, questi la manda al VII Cerchio. Qui essa cade in un punto qualsiasi e germoglia
formando una pianta selvatica. Le Arpie, poi, nutrendosi delle foglie dell'albero, producono
ulteriore sofferenza alle anime. Il giorno del Giudizio Universale, spiega ancora il dannato,
essi andranno a riprendere le loro spoglie mortali ma non le rivestiranno: porteranno i corpi
nella selva, dove ciascuna anima appenderà il proprio all'albero dove è imprigionata, poiché
non è giusto riavere ciò che ci si è tolto violentemente. Dante e Virgilio sono ancora accanto
all'albero di Pier della Vigna, quando entrambi sentono dei rumori all'interno della selva.
Subito dopo vedono due dannati che corrono tra la boscaglia, nudi e graffiati, che rompono
rami e frasche. Quello davanti è più veloce, mentre quello dietro è più lento e si nasconde
accanto a un basso cespuglio. Poco dopo è raggiunto da delle cagne nere, che fanno a
brandelli lui e l'arbusto dove ha tentato di celarsi, quindi ne portano via le carni maciullate.
Virgilio allora prende per mano Dante e lo conduce accanto al cespuglio, dal quale esce
sangue e insieme ad esso la voce del suicida imprigionato all'interno. Il dannato rimprovera
lo scialacquatore che gli ha causato danno e dolore, poi Virgilio si rivolge al suicida e gli
chiede di manifestarsi. Egli chiede anzitutto ai due poeti di raccogliere i suoi rami spezzati ai
piedi dell'arbusto, quindi rivela di essere originario di Firenze, città che mutò il proprio
protettore da Marte a san Giovanni Battista e per questo è vittima di continue guerre. Il
dannato conclude dicendo di essersi impiccato nella propria casa.
Canto 15
Dante e Virgilio procedono lungo uno degli argini del Flegetonte, che attraversa il sabbione
infuocato mentre il fumo che si leva dal fiume di sangue li protegge dalla pioggia di fiamme.
Gli argini di pietra sono alti e spessi, simili alle dighe costruite dai Fiamminghi per difendersi
dai flutti marini e dai Padovani per proteggere città e castelli dalle piene del Brenta. I due
poeti si sono ormai allontanati dalla selva a tal punto che Dante non riesce più a vederla,
quando scorge un gruppo di anime (sodomiti) che si avvicinano all'argine e guardano i due
stringendo gli occhi come fanno i vecchi sarti quando devono infilare l'ago nella cruna. Una
delle anime della schiera si avvicina a Dante e lo tira per il lembo della veste, gridando la
sua meraviglia: il poeta lo guarda bene e nonostante il suo viso sia tutto bruciato dalle
fiammelle lo riconosce come Brunetto Latini. Dante lo saluta meravigliandosi di trovarlo lì e il
dannato manifesta il desiderio di staccarsi per un po' dalle altre anime e seguire il suo antico
discepolo per parlare con lui. Dante ovviamente ne è ben felice e afferma che si attarderà a
conversare con lui, sempre che ciò gli sia permesso da Virgilio. Brunetto ribatte che se un
dannato di quella schiera smette un istante di camminare, è poi costretto a restar fermo
cent'anni senza potersi riparare dalla pioggia di fuoco. Invita quindi Dante a camminare,
mentre lui lo seguirà per poi ricongiugersi ai suoi compagni di pena. Naturalmente Dante
non osa scendere dall'argine per avvicinarsi a Brunetto, tuttavia prosegue il cammino
tenendo il capo basso, per udire meglio le sue parole e in segno di rispetto. Brunetto chiede
a Dante per quale motivo egli compia questo viaggio nell'Aldilà e chi sia la sua guida. Dante
risponde di essersi smarrito in una valle prima della fine dei suoi giorni e di averla lasciata
solo la mattina del giorno precedente: Virgilio gli era apparso nel momento in cui stava per
rientrarci e ora lo riconduce sul retto cammino. Brunetto dichiara che Dante non può fallire
nella sua missione letteraria e politica, se segue la sua stella e se lui ha ben giudicato
quando era in vita. Anzi, se Brunetto non fosse morto precocemente lo avrebbe aiutato lui
stesso, visto che il cielo è stato così benevolo con Dante. Tuttavia i Fiorentini, si faranno
nemici del poeta a causa delle sue buone azioni e ciò non deve sorprendere, perché il frutto
buono non cresce di solito tra quelli cattivi. I Fiorentini sono gente avara, invidiosa e superba
e Dante deve quindi tenersi lontano dai loro costumi. Il suo destino è invece così onorevole
che entrambe le parti politiche della città, Bianchi e Neri, vorranno sfogare il loro odio su di
lui, ma non ne avranno la concreta possibilità. I Fiorentini dovranno rivolgere il proprio astio
su se stessi e non toccare quei concittadini che, come Dante, conservano il sangue puro dei
Romani che fondarono anticamente la città. Dante ribatte che, se dipendesse da lui,
Brunetto sarebbe ancora nel mondo, dal momento che vivo è in lui il ricordo del maestro che
gli insegnò come acquistare fama eterna, quindi finché vivrà le sue parole esprimeranno
sempre questo affetto. Dante dichiara di prendere atto della oscura profezia, riservandosi di
farsela spiegare meglio da Beatrice quando la raggiungerà. Il poeta aggiunge inoltre che è
pronto ai colpi della fortuna, in quanto ha già udito una simile profezia. Virgilio si volge allora
sulla sua destra e dice a Dante che è buon ascoltatore chi prende nota di ciò che gli viene
detto. Dante prosegue il cammino e intanto non cessa di parlare con Brunetto, al quale
chiede chi siano i suoi compagni di pena. Lui risponde che farà i nomi delle anime più note,
poiché sarebbe troppo lungo elencarle tutte. Brunetto spiega che i sodomiti di quella schiera
sono tutti chierici e letterati di gran fama, tra i quali Bonifacio VIII che trasferì da Firenze a
Vicenza, dove morì lordo di tale peccato, vale a dire il vescovo Andrea de' Mozzi. Brunetto si
attarderebbe ancora, ma il colloquio si deve interrompere in quanto già vede il fumo
sollevato da un'altra schiera di sodomiti, della quale lui non può far parte. Si congeda da
Dante raccomandandogli il Trésor, che gli ha dato fama imperitura, quindi si allontana di
corsa. Dante lo paragona a un corridore che corre il palio di Verona e ne è vincitore.
Canto 17
Virgilio presenta Gerione come una belva dalla coda appuntita, che è in grado di arrivare
ovunque e ovunque porta il suo fetore. Il maestro accenna al mostro di avvicinarsi all'orlo del
baratro, presso l'argine roccioso dove sono i due poeti, e Gerione obbedisce appoggiando
testa e busto sulla roccia e tenendo la coda nel vuoto.Gerione leva in alto la coda che ha in
punta una specie di pinza velenosa che ricorda quella di uno scorpione e Virgilio invita il
discepolo ad avvicinarsi al punto dove il mostro è giunto, cosa che i due fanno scendendo
dall'argine roccioso e procedendo verso destra sull'orlo del Cerchio, che li protegge dalla
sabbia e dalla pioggia di fiamme. Quando i due raggiungono Gerione, Dante nota che poco
lontano ci sono dei dannati (gli usurai) seduti nel sabbione infuocato, vicini all'orlo estremo
del Cerchio. Virgilio invita Dante ad andare da solo ad osservare questi peccatori,
raccomandandogli di essere rapido mentre lui cercherà di convincere Gerione a portarli sulla
sua groppa in fondo al burrone. Dante procede quindi da solo sull'orlo del Cerchio fino agli
usurai, che piangono per il dolore e usano le mani per ripararsi dalle fiamme e dalla sabbia,
Dante osserva i dannati senza riconoscerne alcuno, tuttavia vede che ognuno di loro porta al
collo una borsa con sopra lo stemma della loro famiglia, che ogni spirito non smette di
guardare. Il poeta vede un peccatore la cui borsa reca lo stemma di un leone azzurro su
fondo giallo (i Gianfigliazzi), mentre un altro ha una borsa che reca un'oca bianca in campo
rosso (gli Obriachi). Dante vede inoltre un altro usuraio, la cui borsa ha una scrofa azzurra in
campo bianco (Reginaldo Scrovegni), il quale lo apostrofa chiedendogli cosa fa all'Inferno da
vivo e invitandolo ad andarsene. Il dannato predice inoltre la futura dannazione del
padovano Vitaliano del Dente e del fiorentino Giovanni di Buiamonte, come del resto fanno
gli altri dannati fiorentini che stanno insieme a lui. Alla fine del discorso egli tira fuori la
lingua, come un bue che si lecca il naso. Dante teme che se si tratterrà oltre ciò irriterà
Virgilio, quindi torna indietro e trova il maestro già salito in groppa a Gerione, intento a
raccomandargli di essere coraggioso. Virgilio lo invita a salire davanti, perché lui si
frapponga tra il discepolo e la coda velenosa del mostro. Dante è colto da paura e trema,
tuttavia l'ammonimento di Virgilio lo spinge ad eseguire l'ordine e si siede sulle spalle di
Gerione. Virgilio invita Gerione a muoversi e gli raccomanda di scendere in fretta,
compiendo larghi giri nell'aria. Il mostro obbedisce e si allontana dalla parete rocciosa. Dante
non vede altro che il buio intorno a sé e capisce di trovarsi nel vuoto, quindi è terrorizzato.
Gerione scende lentamente e Dante non se ne accorge se non per l'aria che lo colpisce al
viso e alle gambe; sente da destra lo scroscio del Flegetonte, si sporge e vede che si
avvicina un luogo dove ci sono fuochi e pianti, per cui capisce che la discesa è quasi
terminata. Infatti Gerione si posa sul fondo del burrone, come un falcone richiamato dal
falconiere scende lentamente a terra compiendo larghi giri nell'aria; il mostro depone i due
poeti a terra, quindi si dilegua come una freccia scoccata dalla corda di un arco.
Canto 19
Dante esordisce maledicendo Simon mago e tutti i suoi seguaci che fanno turpe mercato
delle cose sacre, per i quali è necessario che suoni la tromba del Giudizio Universale visto
che sono ospitati nella III Bolgia. Dante e Virgilio sono giunti sul punto più alto del ponte
roccioso che sovrasta la Bolgia, da dove il poeta può vedere quanta è la giustizia divina che
si manifesta nel mondo. Infatti egli vede le pareti e il fondo della Bolgia pieni di buche
circolari, tutte della stessa dimensione. Ogni peccatore è confitto a testa in giù nella buca,
lasciando emergere solo le gambe fino alle cosce, mentre le piante dei piedi sono accese da
delle sottili fiammelle. I peccatori scalciano con forza, mentre le fiammelle lambiscono i piedi
come fa il fuoco sulle cose unte. Dante nota che uno dei dannati sembra lamentarsi più degli
altri e ha le fiammelle sui piedi di un colore più acceso, quindi ne chiede conto a Virgilio. Il
maestro risponde che, se Dante vuole, lo porterà sul fondo della Bolgia dove potrà parlare
direttamente con lui. Dante risponde che ne sarà ben lieto, dopodiché i due giungono al
termine del ponte e da lì scendono verso sinistra, sino al fondo della Bolgia. Dante si
avvicina al peccatore e gli chiede di parlare: il dannato risponde scambiandolo per papa
Bonifacio VIII e chiedendo perché sia già giunto lì e se sia già stanco di fare scempio della
Chiesa. Dante resta stupito e non sa che rispondere, quindi Virgilio lo invita a dire al dannato
di non essere colui che crede, cosa che il poeta esegue immediatamente. A questo punto il
dannato storce dolorosamente i piedi, quindi si presenta come il papa Niccolò III,
appartenente alla nobile famiglia degli Orsini e che fu assai avido nell'arricchire i suoi
familiari, al punto che è finito all'Inferno. Sotto di lui nella stessa buca sono conficcati gli altri
simoniaci, tutti appiattiti nella roccia, e anche lui verrà spinto più in basso quando arriverà
realmente colui per il quale ha scambiato Dante (Bonifacio VIII). Ma questi rimarrà nella
buca coi piedi di fuori meno tempo di quando c'è rimasto Niccolò: infatti lo seguirà un altro
papa simoniaco (Clemente V), che spingerà di sotto entrambi dopo aver goduto in vita del
favore del re di Francia, Filippo il Bello. A questo punto lo sdegno di Dante esplode in una
violenta invettiva contro Niccolò e tutti i papi dediti alla simonia, cui il poeta chiede
ironicamente quanto volle Gesù da san Pietro prima di affidargli le chiavi del regno dei cieli,
e rinfacciando che gli apostoli non pretesero alcun pagamento da parte di Mattia quando
prese il posto di Giuda. Niccolò è dunque giustamente punito e deve custodire il denaro
ricevuto per andare contro Carlo I d'Angiò. Solo il rispetto per il ruolo del papa impedisce a
Dante di usare parole ancor più gravi, poiché l'avarizia dei papi simoniaci ha sovvertito ogni
giustizia terrena. La Chiesa si è vergognosamente asservita agli interessi della monarchia
francese, dopo essersi trasformata in un'orrida bestia. I papi sono simili agli idolatri, in
quanto adorano cento dei d'oro e argento, mentre molto male ha prodotto la donazione di
Costantino. Mentre Dante accusa violentemente Niccolò, il dannato scalcia con forza come
se fosse punto dall'ira o dalla coscienza sporca, mentre Virgilio manifesta col suo volto
l'approvazione per il discorso del discepolo. Dopodiché il maestro sorregge Dante con
entrambe le braccia e lo riporta sull'argine della Bolgia, da dove parte il ponte che conduce
alla IV Bolgia, fino al quinto argine. Arrivato qui lo depone a terra, quindi i due si accingono a
visitare la Bolgia seguente.
Canto 24
Dante è stupito nel vedere Virgilio corrucciato per le parole di Catalano, come il contadino
che alla fine dell'inverno si alza al mattino e vede la terra coperta di brina, la scambia per
neve ed è disperato, poi però si accorge che la brina si è sciolta e, riconfortato, esce
contento a pascolare le bestie. Allo stesso modo, infatti, il maestro ha fatto preoccupare
Dante che lo ha visto turbato, ma non appena i due giungono alla rovina del ponte roccioso
Virgilio si rivolge al discepolo con la stessa dolcezza dimostrata ai piedi del colle.Virgilio
osserva con attenzione la rovina, poi apre le braccia e sorregge Dante aiutandolo nella
salita, spingendolo cioè verso uno spuntone di roccia cui possa aggrapparsi e dandogli
preziose indicazioni su come proseguire. La via è impervia, tale che i due possono a
malapena compiere la scalata, aiutati dal fatto che le Malebolge sono un piano inclinato
verso il pozzo centrale e quindi la sponda interna di ogni Bolgia è meno ripida e più corta di
quella esterna. Con enormi sforzi i due poeti raggiungono la sommità dell'argine e Dante è
senza respiro, al punto che si siede appena arrivato. Virgilio lo rimprovera dicendogli che
non si raggiunge la fama stando seduto o sotto le coperte, e senza fama la vita di un uomo è
destinata a passare come fumo nell'aria e schiuma nell'acqua. Lo esorta ad alzarsi e a
vincere la sua stanchezza, dal momento che essi devono compiere una ben più ardua salita
(fino al cielo). Le parole del maestro hanno l'effetto di scuotere Dante, che si alza e si dice
pronto a proseguire il cammino. I due poeti prendono il ponte che sovrasta la VII Bolgia,
assai più stretto e disagevole di quello percorso sopra la V Bolgia. Dante parla per non
apparire troppo stanco, ma a un tratto sente una voce proveniente dalla Bolgia, che
pronuncia parole incomprensibili. Dante è già arrivato al punto più alto del ponte e anche da
lì non capisce quello che sente, salvo che chi sta parlando sembra si stia muovendo.
Guardando nel fondo della Bolgia non vede nulla per l'oscurità, quindi prega Virgilio di
raggiungere l'argine che separa la Bolgia dalla successiva e il maestro volentieri
acconsente. I due percorrono tutto il ponte sino all'argine tra la VII e l'VIII Bolgia e da qui
Dante può vedere che la fossa è piena di orribili serpenti, tutti diversi tra loro, e lo spettacolo
è così spaventoso da fargli ancora paura al ricordarlo. Il deserto di Libia non produce rettili
più numerosi e orrendi di quelli, nè l'Etiopia o l'Arabia. In questo ammasso di serpenti
corrono dannati nudi e terrorizzati (i ladri), con le mani legate dietro la schiena da serpi che
insinuano il capo e la coda attorno ai fianchi, annodandosi davanti al ventre. Un dannato è
assalito da un serpente, che lo morde sulla nuca: lo sventurato arde e in un batter d'occhio si
trasforma in cenere, per poi cadere a terra, raccogliersi e tramutarsi di nuovo nella stessa
figura di prima, in modo assai simile a ciò che si narra della fenice che muore e rinasce ogni
cinquecento anni. Il peccatore si rialza e ha l'aria sgomenta, come colui che cade a terra
vittima di un'ossessione diabolica o di una paralisi. Virgilio gli chiede chi sia e il dannato
risponde di essere finito lì dalla Toscana poco tempo prima. Il suo nome è Vanni Fucci e
Pistoia è la città in cui è nato, vivendo un'esistenza degna di una bestia. Dante prega Virgilio
di dire al dannato di non scappare e di chiedergli quale colpa lo abbia condotto all'Inferno,
dal momento che il poeta crede di averlo conosciuto in vita. Il peccatore sente le parole di
Dante e non si nasconde, rivolgendo a lui il viso con vergogna; poi dichiara di dolersi più del
fatto di essere visto da lui in questa misera condizione che non di aver perso la vita. Non
potendo negare una risposta a Dante, afferma di scontare il furto degli arredi sacri nel
duomo di Pistoia, falsamente attribuito ad altri. Poi ingiunge al poeta di ascoltare il suo
annuncio, perché una volta tornato sulla Terra non goda di averlo visto tra i dannati:
profetizza che prima Pistoia caccerà i Guelfi Neri, poi Firenze farà lo stesso coi Bianchi e
poco dopo una tempesta uscita dalla Lunigiana (Moroello Malaspina) conquisterà Pistoia e
con essa l'ultimo caposaldo dei Bianchi fiorentini. Vanni conclude la profezia precisando che
ha detto tutto ciò per fare del male a Dante.
Canto 26
Dante rivolge un aspro rimprovero a Firenze, che può davvero vantarsi della fama che ha
acquistato in ogni luogo e persino all'Inferno, dove il poeta ha visto (nella VII Bolgia) ben
cinque ladri tutti fiorentini che lo fanno vergognare e non danno certo onore alla città. Ma se
è vero che i sogni fatti al mattino sono veritieri, allora Firenze avrà presto la punizione che
molti le augurano, compresa la piccola città di Prato: se anche già fosse così sarebbe troppo
tardi e più passerà il tempo, più il castigo della città sarà grave per il poeta invecchiato.
Dante e Virgilio si allontanano dalla VII Bolgia e risalgono sul ponte roccioso nel punto dove
erano scesi a fatica, quindi proseguono lungo il cammino erto in cui bisogna aiutarsi con le
mani. Giunti al culmine del ponte, Dante guarda in basso e ciò che vede lo induce a tenere a
freno il proprio ingegno, perché non agisca senza l'aiuto della virtù e perché il poeta così
facendo non si privi del bene che un destino favorevole gli ha concesso. Come il contadino,
che d'estate si riposa sulla collina alla fine della giornata e vede nella valle sottostante tante
lucciole, altrettante fiamme vede Dante sul fondo della VIII Bolgia. E come il profeta Eliseo
vide il carro che rapì Elia allontanarsi nel cielo, scorgendo solo una fiamma che saliva, così
Dante vede solo le fiamme muoversi nella fossa, senza distinguere il peccatore nascosto dal
fuoco. Il poeta si sporge dal ponte per vedere, protendendosi al punto che cadrebbe di sotto
se non si aggrappasse a una sporgenza rocciosa; e Virgilio, che lo vede così attento, gli
spiega che dentro ogni fuoco c'è lo spirito di un peccatore (i consiglieri fraudolenti) che è
come fasciato dalle fiamme. Dante ringrazia il maestro della spiegazione, anche se aveva
già capito che ogni fiamma nascondeva un peccatore, quindi gli chiede chi ci sia dentro il
fuoco che si leva con due punte, simile al rogo funebre di Eteocle e Polinice. Virgilio
risponde che all'interno ci sono Ulisse e Diomede, i due eroi greci che furono insieme nel
peccato e ora scontano insieme la pena. I due sono dannati per l'inganno del cavallo di
Troia, per il raggiro che sottrasse Achille a Deidamia e per il furto della statua del Palladio.
Dante chiede se i dannati possono parlare dentro il fuoco e prega Virgilio di far avvicinare la
duplice fiamma, tanto è il desiderio che lui ha di parlare coi dannati all'interno. Virgilio
risponde che la sua domanda è degna di lode, tuttavia lo invita a tacere e a lasciare che sia
lui a interpellare i dannati, perché essendo greci sarebbero forse restii a parlare con Dante.
Quando la fiamma giunge abbastanza vicina ai due poeti, Virgilio si rivolge ai due dannati
all'interno e prega uno di loro di raccontare le circostanze della sua morte, in virtù dei meriti
che lui ha acquistato presso entrambi, in vita, quando scrisse gli alti versi. La punta più alta
della fiamma inizia a scuotersi, come se fosse colpita dal vento, quindi emette una voce
come una lingua che parla. Ulisse racconta che dopo essersi separato da Circe, che l'aveva
trattenuto più di un anno a Gaeta, né la nostalgia per il figlio o il vecchio padre, né l'amore
per la moglie poterono vincere in lui il desiderio di esplorare il mondo. Si era quindi messo in
viaggio in alto mare, insieme ai compagni che non lo avevano lasciato neppure in questa
occasione; si erano spinti con la nave nel Mediterraneo verso ovest, costeggiando la
Spagna, la Sardegna, il Marocco, giungendo infine (quando lui e i compagni erano molto
anziani) fino allo stretto di Gibilterra, dove Ercole pose le famose colonne. La nave era
giunta allo stretto, tra Siviglia e Ceuta. Ulisse si era rivolto ai compagni, esortandoli a non
negare alla loro esperienza, giunti ormai alla fine della loro vita, l'esplorazione dell'emisfero
australe della Terra totalmente disabitato; dovevano pensare alla loro origine, essendo stati
creati per seguire virtù e conoscenza e non per vivere come bestie. Il breve discorso li aveva
talmente spronati a proseguire che Ulisse li avrebbe trattenuti a stento: misero la poppa
della nave a est e proseguirono verso ovest, passando le colonne d'Ercole e dando inizio al
loro folle viaggio. La notte mostrava ormai le costellazioni del polo meridionale, mentre
quello settentrionale era tanto basso che non sorgeva più al di sopra dell'orizzonte. Il
plenilunio si era già ripetuto cinque volte (erano passati cinque mesi) dall'inizio del viaggio,
quando era apparsa loro una montagna (il Purgatorio), scura per la lontananza e più alta di
qualunque altra avessero mai visto. Ulisse e i compagni se ne rallegrarono, ma presto
l'allegria si tramutò in pianto: da quella nuova terra sorse una tempesta che investì la prua
della nave, facendola ruotare tre volte su se stessa; la quarta volta la inabissò levando la
poppa in alto, finché il mare l'ebbe ricoperta tutta.
Canto 33
Il peccatore apostrofato da Dante alla fine del Canto precedente, intento ad addentare
bestialmente il cranio del compagno di pena, solleva la bocca da quell'orribile pasto e la
forbisce coi capelli dell'altro. Egli dichiara a Dante che la sua richiesta di spiegargli le ragioni
di tanto odio rinnova in lui al solo pensiero un disperato dolore, già prima di parlarne;
tuttavia, se le sue parole dovranno infamare il nome dell'altro traditore, egli parlerà e
piangerà al tempo stesso. Dopo aver osservato che Dante gli sembra fiorentino dall'accento,
si presenta come il conte Ugolino della Gherardesca e dichiara che il suo compagno è
l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Non c'è bisogno che racconti come Ruggieri lo avesse
raggirato e attirato in una trappola facendolo catturare, poiché la cosa è nota a tutti; ma ciò
che Dante non può sapere, ovvero quanto crudele sia stata la sua morte, sarà oggetto del
suo racconto e il poeta valuterà se il suo odio è giustificato. Ugolino e i suoi quattro figli
erano già rinchiusi da diversi mesi nella Torre della Muda a Pisa, che poi sarebbe stata
chiamata Torre della Fame, nella quale egli aveva visto il mondo esterno attraverso una
stretta feritoia, quando una notte egli fece un sogno premonitore. Aveva sognato Ruggieri
nelle vesti di un cacciatore che capeggiava una brigata, intenta a dare la caccia a un lupo e
ai suoi piccoli sul monte San Giuliano che scherma ai Pisani la vista di Lucca. Nel sogno,
Ruggieri si faceva precedere dalle famiglie ghibelline dei Gualandi, dei Sismondi e dei
Lanfranchi, che mettevano sulle loro tracce delle cagne macilente e fameliche: il lupo e i
piccoli erano stanchi per la corsa e venivano raggiunti dalle cagne, che li azzannavano. Il
mattino seguente Ugolino si era svegliato e aveva sentito piangere i figli, che chiedevano del
pane: il conte a questo punto interrompe il racconto accusando Dante di essere crudele a
non piangere, immaginando il triste presentimento di quella mattina. Quindi prosegue
spiegando che era vicina l'ora in cui solitamente veniva loro portato il cibo, anche se
ciascuno ne dubitava per via del sogno: a un tratto i quattro sentirono che l'uscio della torre
veniva inchiodato e Ugolino fissò in viso i figli senza parlare, senza piangere e restando
impietrito, tanto che uno dei figli (Anselmuccio) gli chiese cosa avesse. Ugolino non rispose
e non disse nulla per l'intera giornata e la notte seguente, fino all'alba. Non appena un
raggio di sole penetrò nella torre e permise al conte di vedere i volti smagriti dei figli, l'uomo
fu colto dalla rabbia e si morse entrambe le mani; i figli, pensando che lo avesse fatto per
fame, si erano alzati e gli avevano offerto le proprie carni per nutrirsi. Allora Ugolino si era
calmato per non accrescere la loro pena: i due giorni successivi nessuno proferì più parola,
mentre ora il dannato si rammarica che la terra non li avesse inghiottiti. Arrivati al quarto
giorno, uno dei figli di Ugolino (Gaddo) stramazzò ai suoi piedi invocando vanamente il suo
aiuto, e poi morì. Tra il quinto e il sesto giorno morirono anche gli altri tre, poi per due giorni
Ugolino, reso cieco dalla fame, aveva brancolato sui loro corpi chiamandoli per nome: a quel
punto il digiuno aveva prevalso sul suo dolore. Posto fine al suo racconto, il conte storce gli
occhi e riprende a mordere il cranio di Ruggieri. Dante si abbandona a una violenta invettiva
contro la città di Pisa, patria di Ugolino, definita come la vergogna dei popoli di tutta Italia:
poiché le città vicine non si decidono a punirla, il poeta si augura che le isole di Capraia e
Gorgona si muovano e chiudano la foce dell'Arno, in modo tale da annegare tutti gli abitanti
della città. Forse Ugolino era sospettato di aver ceduto alcuni castelli a Firenze e Lucca, ma
i quattro figli (Uguccione, il Brigata e gli altri due prima nominati) erano innocenti per la
giovane età e non dovevano essere uccisi insieme al conte. Dante e Virgilio passano nella
zona successiva di Cocito, la Tolomea dove sono puniti i traditori degli ospiti: questi sono
imprigionati nel ghiaccio col volto all'insù. I dannati piangono, ma le lacrime gli si congelano
nelle orbite degli occhi formando come delle visiere di cristallo che non permettono loro di
sfogare il dolore, accrescendo ulteriormente la pena. Dante a causa del freddo ha il viso
quasi totalmente insensibile, tuttavia gli pare di sentire soffiare del vento: ne chiede
spiegazione a Virgilio, osservando che all'Inferno non ci possono essere eventi atmosferici. Il
maestro risponde che presto Dante sarà nel punto dove avrà la risposta, vedendo coi propri
occhi la causa di un tale fenomeno (cioè Lucifero).Uno dei dannati immersi nel ghiaccio si
rivolge ai due poeti e, scambiandoli per dannati, li prega di togliergli dagli occhi le croste di
ghiaccio, così da potere sfogare il dolore che gli opprime il cuore prima che le lacrime si
congelino nuovamente. Dante risponde che lo farà, ma a patto che il peccatore riveli il
proprio nome: se il poeta non manterrà la parola, possa andare fino in fondo al ghiaccio di
Cocito. Il dannato risponde di essere frate Alberigo, che qui sconta la pena per la sua grave
colpa. Dante è stupito, in quanto crede che Alberigo non sia ancora morto: il peccatore
spiega che non ha idea di come e da chi sia governato il suo corpo sulla Terra, in quanto
avviene spesso che l'anima destinata alla Tolomea vi finisca prima di giungere alla fine
naturale della vita. Per indurre Dante a togliergli più volentieri il ghiaccio dagli occhi, Alberigo
aggiunge che non appena l'anima commette il tradimento dell'ospite essa lascia il corpo e il
suo posto è preso da un demone, che lo governa fino alla fine naturale dei suoi giorni.
Forse, dice il dannato, sulla Terra c'è ancora il corpo del compagno di pena dietro di lui: è
Branca Doria, imprigionato in Cocito già da molti anni. Dante è perplesso, poiché sa per
certo che Branca Doria è ancora vivo nel mondo, ma Alberigo ribatte che Michele Zanche
non era ancora giunto fra i barattieri della V Bolgia dell'VIII Cerchio che Branca Doria, suo
assassino, aveva già lasciato il demone nel proprio corpo e la sua anima era precipitata in
Cocito, come quella di un suo complice.Alberigo invita Dante a mantenere la promessa e ad
aprirgli gli occhi, ma il poeta non lo fa, affermando che fu cortesia essersi comportato da
villano con lui. Dante pronuncia poi una dura invettiva contro i Genovesi, uomini estranei ad
ogni buona usanza e pieni di vizi, che dovrebbero essere dispersi nel mondo: infatti nella
Tolomea egli ha trovato uno di loro insieme al peggiore spirito della Romagna (cioè
Alberigo), mentre sulla Terra sembra che il suo corpo sia ancora in vita.
Canto 34
Virgilio avverte Dante che si avvicinano i vessilli del re dell'Inferno (Lucifero) e lo invita a
guardare davanti a sé: il poeta obbedisce, ma in lontananza e nella semioscurità distingue
solo quello che gli sembra un enorme edificio, simile a un mulino che fa ruotare le sue pale,
poi si ripara dal vento dietro al maestro. I due proseguono ed entrano nella quarta e ultima
zona di Cocito, la Giudecca, in cui sono puniti i traditori dei benefattori. Dante vede i dannati
completamente imprigionati nel ghiaccio, da cui traspaiono come pagliuzze nel vetro: alcuni
sono rivolti verso il basso, altri verso l'alto con la testa o i piedi, altri ancora sono
raggomitolati su se stessi. I due poeti avanzano un poco, quindi Virgilio decide che è il
momento di mostrargli Lucifero e lo trattiene, avvertendolo che è giunto per lui il momento di
armarsi di coraggio.Dante invita il lettore a non chiedergli di spiegare come rimase raggelato
e ammutolito di terrore alla vista di Lucifero, perché ogni parola sarebbe inadeguata: il poeta
non morì e non rimase vivo, restando in una specie di stato sospeso. L'imperatore
dell'Inferno esce dal ghiaccio di Cocito dalla cintola in su e c'è maggior proporzione tra
Dante e un gigante che non tra un gigante e le braccia del mostro, per cui il lettore può
capire quanto smisurato sia quell'essere. Se Lucifero fu tanto bello quanto adesso è brutto,
osserva Dante, e nonostante ciò osò ribellarsi al suo Creatore, allora è giusto che da lui
derivi ogni male. Il poeta si meraviglia nel vedere che Lucifero ha tre facce in una sola testa:
quella al centro è rossa e le altre due si aggiungono a questa a metà di ogni spalla,
unendosi nella parte posteriore del capo. La destra è di colore giallastro, la sinistra ha il
colore scuro degli abitanti dell'Etiopia. Sotto ogni faccia escono due enormi ali,
proporzionate alle dimensioni del mostro e più grandi delle vele di qualunque nave: non
sono piumate ma sembrano di pipistrello, e Lucifero le sbatte producendo tre venti gelidi che
fanno congelare il lago di Cocito. Il mostro piange con sei occhi e le sue lacrime gocciolano
lungo i suoi tre menti, mescolandosi a una bava sanguinolenta.Lucifero maciulla in ognuna
delle sue tre bocche un peccatore, provocando loro enorme sofferenza. Il dannato al centro
non viene solo dilaniato dai denti del mostro, ma la sua schiena è graffiata dagli artigli e ne
viene totalmente spellata. Virgilio spiega che il peccatore al centro è Giuda Iscariota, che ha
la testa dentro la bocca e fa pendere le gambe di fuori; degli altri due, che hanno invece il
capo rivolto verso il basso, quello che pende dalla faccia nera è Bruto, che si contorce e non
dice nulla, mentre l'altro è Cassio, che sembra così robusto. A questo punto il maestro
avverte Dante che è quasi notte e i due devono rimettersi in cammino, poiché ormai hanno
visto tutto l'Inferno.Virgilio invita il discepolo ad abbracciarlo intorno al collo e il maestro,
cogliendo il luogo e il momento opportuno, quando le ali del mostro sono abbastanza aperte,
si aggrappa alle costole pelose di Lucifero. Virgilio scende lungo i fianchi del demone, tra
questi e la crosta gelata di Cocito, fino al punto in cui la coscia si congiunge al bacino: il
poeta latino, col fiato grosso, si gira e si aggrappa al pelo delle gambe, iniziando a salire
verso l'alto e inducendo Dante a credere che stanno tornando all'Inferno. Virgilio avverte il
discepolo di tenersi ben stretto a lui, poiché i due devono allontanarsi dal male dell'Inferno
percorrendo quella strada, quindi esce attraverso la spaccatura di una roccia e pone Dante a
sedere sull'orlo dell'apertura, raggiungendolo poi con un balzo.Dante alza lo sguardo e
crede di vedere Lucifero come l'ha lasciato, invece lo vede capovolto e con le gambe in alto,
restando perplesso come la gente grossolana che non capisce quale punto della Terra ha
appena oltrepassato. Virgilio esorta Dante ad alzarsi subito, poiché devono ancora
percorrere una via lunga e malagevole e sono già le sette e mezza del mattino; il percorso è
in effetti difficoltoso, attraverso un budello nella roccia che ha il suolo impervio e poca luce.
Dante prega il maestro di risolvere un dubbio, prima di mettersi in cammino: gli chiede dov'è
il ghiaccio di Cocito, com'è possibile che Lucifero sia sottosopra rispetto alla posizione
precedente, e infine come può essere già mattina essendo trascorso poco tempo. Virgilio
risponde che Dante pensa di essere ancora nell'emisfero boreale, mentre quando i due
hanno oltrepassato il centro della Terra, punto verso il quale tendono i pesi, sono passati
nell'emisfero australe, opposto all'altro dove visse e fu crocifisso Gesù. Dante poggia i piedi
sull'altra faccia di una piccola sfera che costituisce la Giudecca: in quel punto è mattina
quando nell'altro emisfero è sera, mentre Lucifero è sempre confitto nel ghiaccio come
Dante l'ha visto. Virgilio spiega ancora che il demone precipitò giù dal cielo da questa parte
e la terra si ritrasse per paura del contatto col mostro, raccogliendosi nell'emisfero boreale e
formando il vuoto della voragine infernale, mentre in quello australe si formò la montagna del
Purgatorio.Dante spiega al lettore che all'estremità della cavità rocciosa (la natural burella),
c'è un luogo distante da Lucifero tanto quanto la sua estensione, che non si può vedere ma
da cui si sente il suono di un ruscello che cade verso il basso, nella cavità che ha scavato
nella roccia con poca pendenza. Dante e Virgilio si mettono in cammino lungo il budello, per
tornare alla luce del sole, e proseguono senza riposare un attimo, col maestro che precede il
discepolo facendogli da guida: alla fine Dante intravede gli astri del cielo attraverso un
pertugio tondo nella crosta terrestre e quindi i due escono, rivedendo finalmente le stelle.

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