Sei sulla pagina 1di 11

(Contributo n.

1)

FINTE FOLLIE” E “VERACI PAZZIE” NEL MELODRAMMA VENEZIANO DEL


SEICENTO

Nicola Michelassi

Dopo la leggendaria nascita orentina e i successivi sviluppi romani, il melodramma conobbe il suo
vero e proprio ‘svezzamento’ a Venezia nel 1637 con la messinscena dell’Andromeda di Benedetto
Ferrari e Francesco Manelli. Questa fu infatti la prima opera in musica rappresentata in un teatro
pubblico, il San Cassiano . Per la prima volta si saggiò la possibilità di estrapolare il melodramma
dal contesto festivo nel quale era abitualmente fruito nelle corti della penisola per tentarne la libera
commercializzazione in una sala pubblica. In breve tempo le «opere in canto» veneziane, che si
contendevano il medesimo pubblico dei teatri destinati alle rappresentazioni dei comici dell’arte,
persero tuttavia le iniziali caratteristiche «eroiche» (mutuate dalle opere in musica cortigiane o
accademiche) per venire incontro alle esigenze di una platea eterogenea e mediamente meno
raf nata di quella dei «pubblici insigni» delle corti. Si arrivò presto all’inserimento del ridicolo e del-
l’osceno anche nel trattamento del materiale mitologico. Coloro che più di tutti contribuirono alla
creazione di un nuovo tipo di melodramma furono alcuni librettisti appartenenti all’accademia
veneziana degli Incogniti. Il ri uto di regole poetiche o modelli letterari a cui vincolarsi rigidamente
si legava alla concettualizzazione dell’importanza del pubblico, al cui gusto si doveva cercare di
andare incontro. Inoltre, il carattere ibrido e ‘aperto’ del genere melodrammatico, moderno per
eccellenza e suscettibile – in quanto privo di una tradizione vincolante – di in niti sperimentalismi,
era un’attrattiva a cui dif cilmente gli Incogniti potevano resistere. Il nuovo teatro lirico mercenario,
in particolare, era un luogo ideale per veri care con riscontro immediato i gusti del pubblico.
Nell’accademia degli Incogniti orirono o con uirono molti librettisti del primo melodramma
commerciale, come Giulio Strozzi, Giovan Francesco Busenello, Giacomo Badoaro, Giacinto
Andrea Cicognini, Paolo Vendramin, Pietro Paolo Bissari, Giovan Battista Fusconi. L’opera degli
Incogniti accelerò lo sviluppo del nuovo teatro, ampliando la rosa dei soggetti poetabili rispetto al
tradizionale patrimonio favolistico e mitologico di matrice ovidiana, parallelamente a quanto fatto a
Roma da Rospigliosi ma in una direzione diversa. Si rivelò a Venezia l’adozione delle fonti storiche
romane per la scelta dei soggetti. La tendenza prevalente, nonostante la varietà di posizioni, è quella
di una decisa e consapevole rottura delle regole, coerente alla matrice marinista dell’accademia degli
Incogniti, e di un allontana- mento dai precetti drammaturgici del secolo precedente.

Dal punto di vista teatrale, il fenomeno si inserisce nel rinnovamento del teatro europeo seguito alla
diffusione dei teatri pubblici (a partire degli anni settanta del ’500), i cui frutti sono rappresentati da
altre forme di teatro ‘irregolare’, come il dramma elisabettiano, la commedia dell’arte e la comedia
nueva spagnola. I drammaturghi veneziani guardavano con interesse anche alla comedia nueva per la
teorizzazione dell’abbandono delle regole aristoteliche in ossequio al gusto del pubblico moderno. È
in questa atmosfera, che, in occasione dell’inaugurazione del teatro Novissimo nel 1641, un testo
che, grazie soprattutto agli studi di Lorenzo Bianconi, è oggi considerato, con il Giasone di Cicognini,
uno dei libretti più rappresentativi del Seicento. L’idea di mettere in scena una nta follia con i
mezzi del «recitar cantando» veniva da lontano, e precisamente da un’iniziativa di Monteverdi e
dello stesso Strozzi. Quattordici anni prima, nel 1627, il librettista aveva scritto un testo che
permettesse al grande compositore di esprimere musicalmente sentimenti estremi e variazioni
improvvise. Scene analoghe erano state ampiamente utilizzate dai co- mici dell’arte (si ricordi la
celebre Pazzia di Isabella Andreini), no a costituire un vero e proprio topos. Nacque così Licori nta
pazza innamorata d’Aminta, favola pastorale imperniata sulla follia simulata . Strozzi decise in ogni caso
di riscrivere da capo il soggetto, attingendo, con gran libertà, all’Achilleide di Stazio e alla Fabula 96 di
Igino. L’intrecco della Finta pazza, articolato in due piani paralleli di narrazione che infrangono
l’unità di luogo e che corrispondono a una vicenda terrena e una celeste. I greci Ulisse e Diomede
Pagina 1
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
fi
sbarcano nell’isola di Sciro in cerca di Achille, che vive travestito da fanciulla per volere della madre
Tetide, timorosa della profezia che vuole il glio morto nella guerra di Troia. Nel frattempo Achille
ha avuto segretamente un glio da Deidamia, glia del re di Sciro Licomede. Ulisse, con astuzia,
nasconde tra i doni offerti alle fanciulle della corte un pugnale, sul quale Achille si avventa
avidamente, sopraffatto dalla propria indole guerriera, tradendo la sua vera identità. Achille,
dominato ora dal desiderio di guerra, mostra di non curarsi più di Deidamia. Ella allora si nge
pazza per commuovere l’eroe, indurlo a sposarla e riconoscere la prole. La nuova Finta Pazza mette
da parte le esili atmosfe- re delle pastorali in musica. Achille, Deidamia e gli altri eroi della storia
agiscono come esseri umani normali che impongono il loro recitar cantando come una convenzio-
ne teatrale ormai da accettare senza mediazioni. Anche i personaggi divini sono a loro volta
‘umanizzati’. Si avverte nella Finta pazza quella riduzione del mito a intreccio avventuroso che aveva
un corrispettivo nello sviluppo della letteratura romanzesca e novellistica coltivata dagli Incogniti.
Ma occorre anche valutare la novità dell’inserimento della follia in un’opera teatrale di tipo
melodrammatico e le modalità speci che con cui Strozzi affronta il tema rispetto alla tradizione
precedente. L’immagine della follia pervade in vari modi, com’è noto, il mondo letterario e loso co
tra Cinque e Seicento. È nel Cinquecento, d’altra parte, che nasce anche il topos dell’artista
malinconico, autorizzato dalla conciliazione ciniana tra la mania platonica e la malinconia che,
secondo Aristotele, af igge tutti gli uomini straordinari. La follia, in questa particolare accezione
rinascimentale, non ha molto a che fare con la patologia mentale, ma è una metafora positiva per
rappresentare l’uomo che va ‘oltre’ il mondo, intuisce cose che gli altri non possono vedere o,
vivendo secondo semplicità e principi morali ignorati dai più, è considerato pazzo. Nel corso del
secolo, tuttavia, viene poco a poco a cadere la distinzione tra i due diversi piani, e presto la divina
follia dei loso rinascimentali e l’«umor malinconico» dell’artista anticonformista non vengono più
visti con benevolenza, ma come devianze assimilabili a quelle dei malati di mente veri e propri.
Nella seconda metà del Cinquecento si comincia ad internare in appositi ospedali ogni tipo di
devianza dalla norma; Il clima controriformista produce una crescente intolleranza nei confronti di
ogni irregolarità di comporta- mento e soprattutto di pensiero, e l’immagine della follia è ora
utilizzata prevalentemente in chiave moralistica nella sua accezione patologica. Anche l’«eroico
furore» del losofo ermetico o l’irriducibilità del poeta geniale vengono ora visti come pericolosa
deviazione malata . L ’internamento di Tasso tra i pazzi furiosi di Sant’Anna e il rogo di Giordano
Bruno non sono che tragiche rappresentazioni di questo passaggio. Con lo strutturarsi del pensiero
razionale, nel corso del Seicento si giunge alla de nitiva polarizzazione, una vera e propria scissione,
tra ragione e non-ragione e all’identi cazione tra sanità-razionalità da una parte e malattia-
irrazionalità dall’altra. Tutte le esperienze irrazionali (come la magia – in senso rinascimentale –, il
sogno, la creatività degli artisti) nel Seicento vengono spesso distanziate e spinte sotto l’ala nera della
pazzia (anche i sogni perdono la possibilità di rappresentare una forma di conoscenza non
razionale ). Se il nuovo pensiero razionale considera reale soltanto quanto elaborato dalla ragione
umana non stupisce che la follia (accomunata ora al sogno e alla magia) nei meccanismi
drammaturgici secenteschi si riduca talvolta a una funzione meramente illusionistica, a un trompe-
l’oeil che, deformando momentaneamente la realtà delle cose come in un gioco di specchi convessi,
prepara e favorisce il ricomporsi della verità. Si inserisce in questa tendenza il topos della follia
simulata, cardine dell’opera di Strozzi, in cui la pazzia stessa è a sua volta illusoria.

- La follia di Deidamia attinge innegabilmente, nei modi e nelle forme, alla repertorializzazione
teatrale a cui era stato sottoposto dagli attori il lone, di ascendenza ariostesca, della pazzia
d’amore, dando a Strozzi l’occasione di sperimentare in un melodramma scene di follia amorosa
no ad allora appannaggio dei comici dell’arte. Ma l’essenza più profonda della follia di Deidamia è
il suo essere simulata. La follia simulata subisce una trasposizione dalla storia al melodramma, dalla
ragione politica al sentimento. Se l’epica e la storia si sono occupate di narrare le gesta degli uomini
grandi, il melodramma è ora il luogo deputato a rappresentarne gli affetti, ne è in qualche modo
una moderna appendice complementare. L’intenzione di attuare e dilatare al massimo grado il
potenziale patetico implicito nelle vicende dell’antichità classica accomuna sia i drammi musicali di
Pagina 2
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
ambientazione epica, come La Finta pazza, che i melodrammi storici coltivati dagli Incogniti. La
nta pazzia di Deidamia non è dunque un diabolico inganno femminile, ma assume nella Finta
pazza una funzione positiva, seppur limitata all’orizzonte dei sentimenti. È una maschera necessaria
che Deidamia indossa per permettere all’instabile Achille, dominato ora dall’una ora dall’altra
passione, di ritrovare il giusto temperamento. Fingersi pazza è quindi una sorta di terapia ef - cace
applicata da Deidamia nei confronti di Achille, che da questo punto di vista è il vero ‘folle’ della
storia, colui che è af itto da uno ‘squilibrio’ patologico. La dicotomia di Achille tra le «armi» e gli
«amori» è sanata da Deidamia, che risolve il con itto dell’eroe restituendogli l’integrità degli affetti.
In ogni caso, l’importanza che Strozzi dà alla simulazione della follia, più che alla follia di per sé, è
dimostrata dal fatto che il meccanismo essenziale della Finta pazza funzionerebbe anche con una vera
follia. Il fatto che la follia sia simulata cambia però la prospettiva del personaggio femminile,
facendone il motore dell’azione. Nella conclusione della Finta pazza si allude benevolmente, in un
gioco galante rivolto all’uditorio femminile del teatro, alle strategie di seduzione del gentil sesso.
Sarebbe certo anacronistico e sbagliato affermare che Strozzi nutrisse impensabili idee di
uguaglianza tra i sessi ma è altrettanto vero che non si ravvisa nella sua opera l’aperta misoginia
diffusa in molta letteratura coeva. Oltre ad aver ospitato in casa sua un’accademia (detta degli
Unisoni) incentrata sulla gura della sua glia adottiva Barbara, Strozzi fu anche autore, a quanto
pare, di un Elogio delle donne virtuose di questo secolo. Non si dimentichi che questi erano gli anni in cui
conduceva la sua clamorosa crociata proto-femminista la suora pasionaria Arcangela Tarabotti (le
battaglie della Tarabotti potrebbero aver suscitato la benevolenza di Strozzi). Da un punto di vista
teatrale, la follia simulata implica un complesso sovrapporsi di piani di rappresentazione: da una
parte l’imitazione di secondo grado distanzia l’in- quietante irruzione della follia in scena, dall’altra
intende sottolineare la padronanza dei meccanismi e i sintomi della patologia. Si mette in scena il
dominio esercitato sulla follia da un personaggio che può riprodurla a sua volontà, con una
proiezione metateatrale della performance attorica. Come di prassi nelle scene di follia degli attori
comi- ci, nella Finta pazza la folle è rappresentata non tanto nell’atto di commettere azioni insensate,
quanto nel suo vano sproloquio: perdendo la sua identità, ella perde soprattutto il dominio e il senso
del linguaggio, del logos.

— Dal punto di vista metrico si rileva un’intenzione caricaturale nella scelta dei settenari sdruccioli.

Nella seconda «tirata« folle di Deidamia (III,2), Strozzi porta al limite il gioco dei diversi piani di
nzione e fa uscire momentaneamente il personaggio anche dalla ‘quarta parete’ della
rappresentazione (anche i personaggi presenti in scena partecipano alla momentanea uscita dalla
storia).

—Alla nzione della pazzia ella aggiunge infatti anche la nzione del sogno

— Scelta della protagonista per l’opera : Anna Renzi (La Finta pazza costituì una signi cativa tappa
nella progressiva focalizzazione del melodramma mercenario sulla gura del cantante-divo. La
bravura della Renzi fu in effetti uno dei motivi essenziali del successo del dramma. Le scene di
pazzia di Deidamia furono interpretate dal- la cantante con tale ef cacia da spingere anche altri
autori a introdurre in melodrammi successivi scene di questo genere. L’attrice Anna Renzi, nel
frattempo, divenne la diva principale delle scene veneziane. Giulio Strozzi nel 1644 promosse un
libro encomiastico in suo onore, di cui si è accennato in precedenza, intitolato Le glorie di Anna Renzi,
edita a Venezia dal Surian nel 1644. Anna Renzi, recitando, pare realizzare un equivalente scenico
di quell’oscillazione improvvisa tra poli opposti dello stato d’animo, di quegli accostamenti di
contrari, di quelle «mutazioni d’affetti», insomma, così tanto ricercate nelle arti musicali, gurative e
letterarie del Seicento. La sua reci- tazione, pare inoltre voler dire Strozzi, faceva pensare che ella
quasi non utilizzasse la tecnica del premeditato, ma quella dell’improvviso. Dopo l’Elogio strozziano
si apre nelle Glorie una sezione ampia di componimenti poetici encomiastici; tra le rme più note
troviamo Francesco Melosio, Girolamo Brusoni e Benedetto Ferrari.
Pagina 3
fi
fi
fi
fl
fi
fi
fl
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
(Contributo n.2)

A META’ SECOLO. L’APOGEO DI FRANCESCO CAVALLI (1650-1656)

Relazioni musicali tra Venezia e Parigi da Orfeo a Xerse: il ruolo dei Bentivoglio

È conosciuto il ruolo politico svolto in Francia durante la prima metà del Seicento da alcuni membri
della famiglia ferrarese dei Bentivoglio, in particolare di monsignor Guido, nunzio papale nelle
Fiandre e poi in Francia dal 1607 al 1621, eletto cardinale e in ne candidato al soglio ponti cio
poco prima della sua morte avvenuta il 7 settembre 1644. Mai esplorato nel dettaglio è invece il
ruolo artistico assunto da altri membri della stessa famiglia, in particolare nel favorire la circolazione
tra Venezia (e altre città italiane) e Parigi di cantori, musici e attori della commedia dell’arte.
Prenderemo in esame, come fonte primaria, l’epistolario della famiglia Bentivoglio che sopravvive
quasi integro presso l’Archivio di Stato di Ferrara.Gli anni più interessanti per i rapporti con la
Francia risultano i quattro decenni tra il 1646 e il 1682. E' soprattutto il marchese-impresario
Cornelio Bentivoglio (1606-1663), con i suoi fratelli e il glio, ppolito (1630-1685), a mettersi in luce
tra i protagonisti di quella fase della storia dello spettacolo europeo che corrisponde ai diversi
tentativi di introdurre l’opera in musica italiana in Francia, dall’Orfeo di Luigi Rossi alle opere per il
matrimonio di Luigi XIV commissionate a Francesco Cavalli. Un ruolo importante, inoltre, fu
svolto dai Bentivoglio anche nell’organizzazione degli itinerari verso la Francia delle maggiori
troupe italiane della commedia dell’arte.

Identità celate e pazzie non simulate: convenzioni e scene tipiche nell’Eritrea di Faustini e Cavalli

Il 17 gennaio 1652, L’Eritrea – sedicesima opera di Francesco Cavalli (1606-1676) – fece la sua
prima comparsa nel Teatro di Sant’Apollinare (S. Aponal) a Venezia. Nell’ottobre dell’anno prima il
teatro era stato preso in af tto dall’impresa del giovane drammaturgo Giovanni Faustini e nel
carnevale 1651/52 era stato inaugurato con altri due lavori cavalliani, L’Oristeo e La Rosinda, per
la stagione 1651/1652 andarono comunque in scena La Calisto e per l’appunto L’Eritrea. L’Eritrea
segna dunque l’ultimo capitolo della decennale e pro cua collaborazione tra Faustini e Cavalli,
iniziata nel 1642 al Teatro di San Cassiano con La virtù de’ strali d’Amore e proseguita poi nella
stessa sala con L’Egisto (1643), L’Ormindo (1644), La Doriclea e Il Titone (1645), in ne consolidata
con i drammi dati al S. Moisè, i drammi per musica di Faustini e Cavalli rappresentano il nucleo
prevalente della produzione operistica del decennio 1642-1652. Il sodalizio tra i due fu decisivo per
la codi cazione e il consolidamento delle principali tendenze di scrittura del teatro d’opera
veneziano sulla metà del secolo, attraverso una produzione di drammi costruiti a partire da alcuni
loci letterari comuni, con intrecci che propongono una struttura destinata, di lì in avanti, a divenire
canonica. Le trame si lasciano compendiare in due/tre li principali complicati da un numero
variabile di nodi a seconda delle relazioni imbastite tra gli interlocutori. Il dramma parte da
un’iniziale situazione di squilibrio (la separazione di due coppie d’amanti) che l’intreccio dovrà
sanare superando ostacoli e impedimenti vari no a ricomporre le tessere del puzzle in principio
scompaginato. E il librettista si sforzerà di mantenere chiare allo spettatore le la cardinali della
vicenda e l’identità delle persona e nel gioco continuo degli equivoci, dei fraintendimenti, delle false
identità, dei travestimenti, degli oggetti, detti o gesti equivocati. Tutte queste componenti si
ritrovano anche nell’Eritrea, le vicende di una principessa assira costretta ad assumere l’identità del
defunto fratello Periandro per salvaguardare il trono regale e assecondare così i piani della madre
Mirsilla, la quale aveva inscenato la morte della glia al posto di quella del maschio, e per
quest’ultimo aveva già predisposto le nozze con Laodicea regina di Fenicia. Questo scambio fa
letteralmente uscir di senno il principe Teramene, innamorato di Eritrea e af itto dalla (presunta)
morte di lei. Eritrea è però innamorata del principe egiziano Eurimedonte, che, credendola morta,

Pagina 4
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
fi
si getta tra le braccia di Laodicea. Un plot assai attorcigliato e complesso, col canonico lieto ne. Lo
scenario dell’Eritrea, come gli altri di Faustini, sembra a prima vista inventato di sana pianta.
Eppure l’intreccio sarà scaturito più probabilmente dal mascheramento di topoi preesistenti, presi a
prestito dagli stilemi narrativi tipici del romanzo, della novellistica del teatro di parola e dei
canovacci dei commedianti. Un intreccio certamente assimilabile al genere romanzesco-
avventuroso. L’Eritrea, godette di una serie di riprese successive (Bologna nel 1654, Genova nel
1655, Napoli nel 1659, ecc.). Di ripresa in ripresa, la versione originale del dramma fu soggetta a
modi che, aggiunte e tagli che tendevano per così dire ad assecondare i gusti più recenti. Ancor più
signi cativi delle aggiunte furono i tagli, che coinvolsero la gran parte dei recitativi, alcuni duetti e
due monologhi del forsennato Teramene. Ciò che tuttavia non mutò nelle differenti versioni
dell’opera sono i colpi di scena, gli equivoci, i travestimenti, i veri e propri deliri, le felici agnizioni
che costellano la narrazione. Sin nella costruzione dei primi drammi di Faustini si possono infatti
riconoscere alcuni stilemi teatrali ben consolidati che ne governano gli intrecci: accorgimenti
strutturali che investono l’architettura complessiva del dramma (come il travestimento e l’assunzione
di una falsa identità, con cambio di genere); dall’altro loci letterari speci ci (le scene della follia o del
sonno, il lamento) e topoi di particolare rilievo sul piano del dettato poetico (come le invocazioni e
incantesimi). Nel caso dell’Eritrea spiccano su tutti due procedimenti di base : (1) il travestimento e
(2) la follia.

(1) Travestimenti e false identità:

Nel dramma per musica di metà Seicento l’assunzione di mentite spoglie da parte di uno dei
personaggi scaturisce quasi sempre da un movente amoroso, ossia la necessità di avvicinarsi
all’amato o all’amata per mettere alla prova la sua fedeltà oppure per tentare di riannodare una
relazione dissolta. Il travestimento obbliga i personaggi che lo adottano a dover simulare o
dissimulare i propri sentimenti. Nel nostro caso, il travestimento di Eritrea in Periandro deriva in
primis da ragioni d’ambizione politica, cui sono però strettamente collegate le implicazioni
sentimentali. E così Faustini può giocare con grande abilità su una serie di tensioni causate
dall’ambivalenza erotica, giacché proprio l’identità simulata della protagonista genera poi grovigli
aggiuntivi. L’espediente del travestimento è in ne reduplicato nell’ultima parte del dramma, quando
Eritrea ritorna a vestire gli abiti femminili. La conseguenza necessaria degli intrecci fondati sul
travestimento è l’agnizione nale. La vera identità di Eritrea è scoperta a metà dell’atto III, per il
tramite di Misena: Si concentra in genere nell’ultima scena del dramma, alla presenza in scena di
tutti i personaggi intervenuti nel corso della narrazione, lo scioglimento dell’intreccio. Nel nostro
caso, l’agnizione è af data a Niconida.

(2) La follia in scena:

Accanto al travestimento, la seconda delle convenzioni di cui ci occupiamo in questa sede è quella
della follia. La scena di pazzia, vera o simulata, è certamente uno fra i più fortunati topoi operistici.
Esso va ricondotto a un lone molto apprezzato e pertanto ampiamente consolidato sulle scene
teatrali e musicali (es. Pazzia d’Orlando di Prospero Bonarelli, Didone di Giovan Francesco
Busenello in particolare nella Finta pazza di Giulio Strozzi ). I librettisti potevano leggere esempi di
scene simili in una cospicua tradizione teatrale di ne Cinque, inizio Seicento. Di certo Faustini
conosceva assai bene questa tradizione ed era pienamente consapevole del peso che un tale
dispositivo avrebbe avuto nell’economia di un dramma: precipitando uno dei personaggi principali
– di norma d’estrazione regia – nello stato ridicolo del folle che si esprime in frasi scombinate e
incoerenti, egli ottiene un ef cace effetto parodistico di ridicolizzazione del ruolo.
Faustini riprende la tradizione delle scene di follia anche nell’Eritrea, dove il delirio di Teramene
deriva dalla nta morte dell’eroina . Gli esempi dei deliri di Teramene sono sparsi lungo tutto il
Pagina 5
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
dramma, quasi fossero il nodo principale attorno a cui s’intreccia l’intera vicenda. Anzi, la sua follia
sembra assurgere qui a principio costruttivo primario del dramma. E ancora, quasi in una sorta di
climax ascendente, lo stato confusionale di Teramene ritorna praticamente ogni volta ch’egli
interagisce con gli altri personaggi. Quando poi si trova faccia a faccia con Eritrea/Periandro, il
delirio s’accresce sempre di più, e si alternano rapidamente momenti di lucidità ad attimi di vero e
proprio vaneggiamento. E l’effetto di impressionante comicità è perfettamente conseguito dal
librettista. I topoi del travestimento e della pazzia contribuiscono in maniera decisiva a fare
dell’Eritrea uno scenario costruito a regola d’arte, che unito alla sublime musica di Francesco
Cavalli, si vide assicurato un indubbio successo. Successo che oggi rivive, qui dove l’opera è nata,
grazie all’iniziativa del centro che ci ospita, al quale credo non possiamo che essere grati.

L’ultimo Faustini : Note sulla drammaturgia dell’Eritrea

Ri essioni sulla drammaturgia dell’autore, uno dei primi librettisti professionisti dell’opera pubblica
veneziana, attraverso l’esempio della sua ultima fatica, appunto l’Eritrea che, rappresentata il 17
gennaio 1652 (1651 more veneto) – un mese dopo la morte del drammaturgo – al teatro
Sant’Apollinare, rappresenta nel contempo uno degli esempi più alti e signi cativi di questo teatro
dell’equivoco che contraddistingue la librettistica veneziana di metà Seicento. Si sa che lo scenario
veniva sempre pubblicato prima della rappresentazione per servire poi al pubblico a sbrogliare la
matassa dell’intreccio, ma poteva anche avere, secondo l’ipotesi di Gloria Staf eri, nalità interne
alla produzione dell’opera, incrociando così la funzione che tale opuscolo svolgeva per i Comici
dell’Arte. Dell’Eritrea abbiamo quindi sei fonti a stampa, più il manoscritto, un unicum, della
partitura, che verosimilmente corrisponde alla prima veneziana del 1651. Nessuna traccia di un
qualche manoscritto del dramma, come avviene per altri libretti famosi del Seicento . Il confronto
tra lo scenario e l’edizione della prima veneziana rivela interessanti tessere sulla strategia
drammaturgica di Faustini. Notiamo per esempio, in entrambi i testi, la presenza della cosidetta
Delucidazione della Favola, che precede di consueto l’elenco dei personaggi e la descrizione delle
scene. Manca ancora uno studio basilare su questo tipo di paratesto, con una particolare
sottolineatura delle implicazioni letterarie, consideriamo l’argomento di un dramma musicale, e
soprattutto la delucidazione della favola di tipo faustiniano, come una sorta di ripresa sui generis
della novella letteraria. Essa infatti funziona durante tutto il Seicento come il luogo privilegiato della
sperimentazione che sfocerà sul genere romanzesco e, in parte, su quello operistico. La dimensione
relativamente autonoma di questo genere di paratesto è d’altronde giusti cata dal fatto che la
delucidazione tratta di avvenimenti che precedono il dramma propriamente detto (il cosidetto
antefatto). Si veri ca così una intertestualità che dimostra il carattere labile delle diverse categorie
letterarie. Possiamo considerare la delucidazione della favola – nell’Eritrea particolarmente
sviluppata – come la prima fase di stesura del soggetto, poi sicuramente rimaneggiato per l’edizione
a stampa, a cui segue lo scenario, e in ne la redazione del dramma vero e proprio. questo tipo di
organizzazione compositiva che, come abbiamo visto, era d’aiuto non solo al pubblico, ma
probabilmente agli «addetti al lavoro» della produzione. L’interconnessione del dramma per musica
con altri generi letterari era tra l’altro con esplicita chiarezza rivendicata dallo stesso Faustini che
de nì ad esempio la sua Rosinda « un puro romanzo » . Del romanzo veneziano coevo coltivato
dagli accademici Incogniti, il drammaturgo ha molto probabilmente tratto la tematica del doppio,
del travestimento (a sua volta retaggio della commedia rinascimentale) e dell’inventio
particolarmente avviluppato. La presenza di una « delucidazione della favola » così tta di elementi
narrativi permette soprattutto al drammaturgo di non inciampare in certe approssimazioni, come
era avvenuto nei suoi primi drammi – ad esempio nella primissima Virtù dei strali d’Amore
Nell’Eritrea, i due piani narrativi (quello dell’antefatto e quello della pièce vera e propria) sono ben
distinti. In questo modo, il drammaturgo lascia al lettore e allo spettatore una ef cace sospensione
nello svolgimento dell’intreccio. Nei drammi faustiniani, la dimensione politica è quasi del tutto
assente, contrariamente a quanto avviene nella maggior parte dei libretti di Busenello o di Minato.
Lo scenario tipico ruota intorno alla materia erotica, anche in questo caso improntata alla
Pagina 6
fi
fl
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
produzione coeva degli Incogniti di stampo mariniano. L’eros non è mai innocente, anzi viene
addirittura assimilato alla frode, all’inganno e all’interesse. Il dramma per musica faustiniano
diventa così la traduzione scenica dell’ideologia libertina della cerchia loredana che considera il
sentimento amoroso come mezzo propulsore della frode e dell’inganno. Nell’Eritrea, la coppia
iniziale (Teramene/Eritrea) viene sconvolta dapprima dall’innamoramento reciproco di
Eurimedonte per Eritrea, e subito dopo da quello non contraccambiato di Eurimedonte per
Laodicea, la quale a sua volta si innamora di Eritrea creduto Periandro, il fratello gemello e defunto
della principessa assira. L’intrecciarsi dei vari livelli amorosi determina una linea del desiderio che
invece di andare da un punto A ad un punto B, disegna una forma triangolare, a suo tempo
analizzato da René Girard, secondo cui in ogni desiderio, c’è sempre un soggetto, un oggetto e un
mediatore . se in questo triangolo politico- amoroso, Eritrea sembra occupare la punta, in quanto è
lei, grazie alla sua falsa identità, ad avere le carte in mano, questa posizione di rilievo non le
permette comunque di ottenere l’oggetto del suo desiderio che costantemente le sfugge, sia
metonimicamente, sia drammaticamente.

Sono questi gli elementi fondanti che apprendiamo dalla delucidazione della favola, necessari per
capire lo scatto dell’intreccio. La legge dell’opera barocca – rispetto al teatro più classicheggiante –,
all’interno stesso di questo squilibrio basilare, verte quindi sull’abbondanza delle peripezie e
sull’altrettanto abbondanza degli affetti, più che sulla loro intensità. Ne risulta così una gestione
dell’intreccio condotta tramite una duplice prospettiva che associa insieme godimento dei sensi e
piacere dell’intelletto : da una parte infatti abbiamo una trama assai complessa che trova la sua
piena comprensione solo alla ne del dramma. Ma esiste una seconda prospettiva, a carattere più
dinamico, che corrisponde alle incertezze nell’esito del dramma e ai desideri cangianti dei
personaggi. è proprio l’unione di questi due elementi, di questi due tipi di azione, che crea
l’impalcatura del dramma. Nell’Eritrea, l’azione principale viene subito rivelata nella delucidazione
della favola, e cioè il duplice matrimonio di Eritrea con Teramene e di Laodicea con Eurimedonte.
Contrariamente a quanto succede nella maggior parte dei drammi faustiniani, la dimensione
politica non è del tutto assente in questo libretto e viene a ricongiungersi con la materia amorosa. Il
dramma deve poi sboccare sulla risoluzione dell’azione principale ed è ciò che avviene con il
ricongiungimento delle coppie legittime alla ne della pièce. L’azione dell’intreccio è anch’essa in
parte già rivelata nella delucidazione della favola, permettendo così di avviare la dinamica del
dramma. Questa dinamica viene messa a fuoco da un desiderio solitamente « sbagliato » o
comunque politicamente illegittimo, quello di Eritrea per Eurimedonte, o sessualmente illegittimo,
quello di Laodicea per il creduto Periandro, in realtà Eritrea sotto mentite spoglie. Ma per poter
nutrire l’azione dinamica dell’intreccio occorrono vari procedimenti, come appunto il travestimento
e il cambio non solo di identità, ma anche di sesso, procedimenti che Faustini riprende dalla
tradizione classica ( ma anche dalla commedia dell’arte). Certamente, l’ultima fatica di Faustini non
si discosta molto dagli altri suoi drammi per quanto riguarda la tecnica di scrittura (uno stile assai
contorto, zeppo di riferimenti mitologici non sempre di grande chiarezza) e l’uso di accorgimenti
che appartengono a convenzioni e scene tipiche del dramma per musica veneziano, quali, oltre ai
travestimenti e cambi d’identità già segnalati, le scene di follia, i lamenti, le scene comiche, i
battibecchi comico-erotici. Lo svolgimento diegetico del dramma funziona in modo completo
facendo leva sul perno di un terzo tipo d’intreccio che potremmo chiamare azione subalterna, di
solito attivata da personaggi secondari, ma la cui funzione non è irrilevante nel far andare avanti la
meccanica dell’azione. Nell’Eritrea, si tratta dei personaggi di Niconida e Dione, coinvolti nel
tentativo, poi fallito, di avvelenare il prigioniero Eurimedonte. Il teatro di Faustini funziona quindi
come una ingegnosa macchina a più livelli d’azione (tipo di teatro assai estraneo alla tradizione
francese). Tuttavia, la dinamica dell’intreccio, ha in realtà il suo maggiore elemento propulsore nel
personaggio di Teramene, che vedendo nel nto Periandro la vera Eritrea, appare pazzo a tutti i
personaggi, tranne a Niconida, unico ad essere a conoscenza dell’inganno ordito. Da un punto di
vista drammaturgico, e anche da quello più approfondito di una concezione loso ca barocca della
realtà, la follia di Teramene non è affatto negativa. Egli appare piuttosto come un principe insieme
Pagina 7
fi
fi
fi
fi
fi
cortese e lungimirante, in quanto è l’unico personaggio coinvolto nel dramma a capire, seppur al di
là di ogni logica razionale, la vera identità di Eritrea. La sua follia è quindi strumento obliquo, e in
ciò tipicamente barocco, per scoprire la verità, metafora di una conoscenza basate su metafore
contrastanti, su ossimori che mettendo a confronto due verità opposte fa venire a galla, se si può
dire, la verità vera, e cioè l’identità di Eritrea, celata per tutto il dramma a ne di alimentare a sua
volta l’azione dell’intreccio no all’agnizione. L’accellerarsi della trama, che avviene solitamente nel
corso del terzo ed ultimo atto, è resa possibile mediante l’accorgimento del doppio travestitismo che
vede Eritrea, già sotto mentite spoglie maschili, trasformarsi in femmina. Ed è proprio questo
procedimento, già veri cabile nel citato romanzo di Pallavicino, Il principe ermafrodito, che dà
maggiore incentivo al « delirio » di Teramene che con inaudita chiarezza e tramite questo
vertiginoso gioco barocco degli specchi, vede suo malgrado la vera Eritrea, pur continuando a
sembrare pazzo agli occhi degli altri personaggi.

L’acteur-chanteur de Francesco Cavalli : quelques considérations théoriques et pratiques

come affrontare l'interpretazione del recitativo di Francesco Cavalli? sappiamo che nei primi
decenni del XVII secolo la distinzione tra i ruoli di cantante e di attore era molto più sfumata
rispetto ai periodi successivi. È indubbio che questa sovrapposizione di talenti recitativi e canori
fosse essenziale per l'esecuzione di queste opere. E’ essenziale distinguere tra due questioni quando si
affronta l’esecuzione di un recitativo di Cavalli; la prima questione è la più ovvia, ossia come il
cantante barocco affrontava il recitativo? La questione non riguarda solo la declamazione e il gesto,
ma anche il costume e l’illuminazione. Questa problematica, ovviamente fondamentale per
comprendere la declamazione recitativa, non deve però oscurare un'altra serie di questioni legate
alla natura stessa dell'evento teatrale. Come ha magistralmente dimostrato Anne Ubersfeld alcuni
decenni fa84 , un'analisi semiotica del testo teatrale rivela che il dialogo teatrale è un testo con
"buchi", nel senso che l'enunciazione manca di elementi essenziali per de nire il suo signi cato e
che, di conseguenza, è un testo che, per de nizione, deve essere "interpretato". Per quanto riguarda
l'interpretazione del recitativo nelle opere di Francesco Cavalli, la straordinaria ricchezza espressiva
del recitativo nell'opera barocca italiana è il risultato dell'intensa sperimentazione teatrale che ebbe
luogo in Italia nel lungo periodo che precedette la nascita dell'opera. La forma teatrale che più
in uenzò l'opera nascente fu la pastorale, in particolare l'uso di forme metriche molto speci che.
Mentre in Italia la commedia era più spesso in prosa e la tragedia in versi endecasillabi85 , le
pastorali come l'Aminta di Torquato Tasso (1573) o Il Pastor do di Giovanni Battista Guarini
(1583) erano composte da una complessa miscela di versi di undici e sette sillabe, spesso non rimati.
È questo modello che diventerà lo standard per un nuovo tipo di drammaturgo, il librettista.a
maggior parte dei versi dei recitativi di Cavalli non sono in rima, e la maggior parte dei cantanti
tenderà a farsi guidare dal signi cato del testo, piuttosto che dalla forma metrica di cui non è a
conoscenza.

Per ‘sodisfare a chi ascolta’: bizzarri casi di sincretismo nei drammi veneziani di Nicolò Minato

L’individuazione delle fonti letterarie dei drammi per musica del Seicento non è sempre cosa facile.
In primo luogo, sovente esse non sono dichiarate nei paratesti dei libretti. Inoltre, spesso il soggetto
funge più che altro da pretesto per il drammaturgo, che lo manipola per creare un testo drammatico
svincolato da norme e regole. L’opera in musica deve fare i conti con le urgenze nalizzate
all’allestimento: per soddisfare una richiesta sempre crescente la produzione diviene seriale, e ciò in
un regime in cui i manufatti artistici (libretto e partitura) non si stabilizzano in un repertorio. Ne
consegue un incessante recupero e riattamento di soggetti attinti da un serbatoio di modelli già noti
agli spettatori, ispirati a generi letterari in voga (mitologia, storiogra a, novellistica ecc.) maneggiati
con irriverenza, proclive al sincretismo. In questo intervento illustro alcuni casi esempli cativi dei
rimaneggiamenti delle fonti letterarie nei drammi per musica che Nicolò Minato, tra i più proli ci

Pagina 8
fl
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi

drammaturghi della seconda metà del Seicento, scrive a Venezia per Francesco Cavalli
Considero i seguenti drammi: Artemisia (SS. Gio. e Paolo, 1657), Antioco (S. Cassiano, 1658),
Scipione Affricano (S. Salvatore, 1664) e Muzio Scevola (S. Salvatore, 1665). La produzione
veneziana di Minato si distingue in due fasi principali, differenti per scelte tematiche e strutturali.
Una prima fase corre dal 1650 al 1659 e presenta gran varietà nella scelta dei soggetti; dal 1664 al
1666 dominano invece soggetti ispirati alla storia romana.

Artemisia (1657)
È il terzo dramma di Minato. Narrano le fonti che Artemisia regina di Caria (?-351 a.C.), rimasta
vedova di Mausolo, ne avesse, come segno di devozione e fedeltà, ingerito le ceneri, e che in sua
memoria avesse fatto costruire un grandioso monumento, il mausoleo, annoverato tra le sette
meraviglie del mondo antico. Il dramma di Minato comincia là dove la storia nisce. La regina,
còlta in pianto ai piedi del mausoleo, mette in scena le sue seconde nozze, delle quali non vi è traccia
nelle fonti antiche. Nel dramma di Minato, la vedova di Mausolo è altresì dedita alle attività
guerresche. Una regina guerriera però compare anche in Erodoto (Storie VIII), Artemisia I di Caria
(sec. V a.C.) - Minato potrebbe aver attinto direttamente da Erodoto - All’atto pratico, nel dramma
per musica, Minato fonde le due distinte “Artemisie” in un unico personaggio, una regina nella
quale convergono virtù sia muliebri sia militari.

Antioco (1658)
Più complesso il caso di Antioco, che a conti fatti è una libera divagazione sulle saghe familiari dei
Seleucidi e dei Tolomei d’Egitto. Pausania e Giustino forniscono lo spunto per ordire un nodo
intricatissimo: di storico rimane soltanto il nome dei personaggi, completamente reinterpretate sono
le relazioni fra di essi. Quindi anche in questo caso Minato fonde due personaggi storici in uno: un
solo “Antioco” che riunisce la gura di Antioco I glio di Seleuco e Antioco II sposo di Berenice
L’intreccio è proliferante, giacché sono in gioco le vicende di ben tre coppie di amanti e, per tutto il
dramma, è occultata o comunque fraintesa l’identità di almeno uno dei componenti di ciascuna
coppia; la vicenda si scioglie progressivamente, a mano a mano che le identità si svelano.

Muzio Scevola (1665)


Dramma dal soggetto storico, Muzio Scevola non enfatizza soltanto l’integrità dell’eroe eponimo,
bensì anche le virtù di tutti personaggi positivi del dramma, tra i primi la protagonista: Valeria, glia
del console Publicola e, nel dramma per musica, amante di Muzio. Principali fonti sono la Vita di
Publicola di Plutarco e la Storia di Roma di Tito Livio. Scipione Affricano (1664) Publio Cornelio
Scipione l’Africano, vincitore della seconda guerra punica (219-202 a.C.), è gura esemplare per
virtù militari. Il dramma di Minato, di cui Scipione è l’eroe eponimo, si articola intorno a due
episodi della vita del console. Un primo episodio è noto come “la continenza di Scipione”, la
seconda vicenda concerne la tragica storia di due sfortunati nobili amanti africani: la regina
Sofonisba e il prode condottiero Massinissa.

—> il drammaturgo rivisita le fonti storiche e le riadatta, le manipola in vista delle esigenze teatrali.
Il lavorio di riadattamento è complesso, le trovate si chiariscono soltanto grazie a un’analisi puntuale
delle fonti storiche che il drammaturgo distorce a vantaggio del perseguimento di un preciso
obiettivo: creare un genere drammatico svincolato da quelle norme e consuetudini che fanno capo
alla poetica aristotelica, e questo al ne di potenziare l’effetto di smarrimento e di suspense dello
spettacolo: in altre parole, per ‘sodisfare a chi ascolta’.

Pagina 9
fi
fi
fi
fi
fi
fi
(Contributo n.3)

LA MUSICA DELLA PAZZIA NELLA FINTA PAZZA DI FRANCESCO SACRATI

Trama: Achille è nascosto nelle vesti femminili di Filli presso il re Licomede di Sciro: la madre
Tetide non vuole che il glio partecipi alla guerra di Troia e per questo si oppone alle richieste di
Giunone e Minerva. Divenuto amante segreto della glia di Licomede, Deidamia, con la quale ha
generato un glio, Achille viene facilmente smascherato da Ulisse e Diomede, giunti nell’isola sulle
sue tracce. Straziata dal pensiero di essere abbandonata da Achille, Deidamia si nge pazza per
costringerlo a rimandare la partenza e a sposarla

La riscoperta della " nta pazza" ci pone problemi drammaturgia musicale tra cui quello della
rappresentazione musicale della pazzia, in questo caso, di una nta pazzia. I primi esempi di una
pazzia in musica nora noti, limitati in realtà alla “Didone” e all’ “Egisto” di Francesco Cavalli,
sono piuttosto gracili rispetto a “Finta Pazza” di Strozzi e Sacrati, che n dal titolo tematica l’idea
della follia esibita. Da un lato la pazzia è tematizzata, ossia non è accidentale, ma dall’altro non è
inerente agli avvenimenti che formano l’azione dell’opera. Lo stesso soggetto - lo svelamento di
Achille ragazzo nascosto dalla madre Tetide sull’isola di Sciro per sottrarlo alla spedizione greca
contro Troia - lo si incontra per esempio nell’ “Achille in Sciro” di Ippolito Bentivoglio e in quello di
Pietro Metastasio. In nessuno di questi casi Deidamia ricorre a una nta pazzia per trattenere
Achille dagli impegni bellici. La caratteristica originale di Strozzi sta proprio nell’aver aggiunto al
dramma la pazzia simulata dalla protagonista. La follia di Deidamia nella Finta pazza viene
preannunciata dalla sua risoluzione di ngersi forsennata e poi dal resoconto dell’Eunuco a
Diomede. Il gridare, come il parlare sconnesso, è un segno autentico di alienazione mentale (con
gridi di questo genere si apre la grande scena della follia nell’opera). Il topos dei gridi si concretizza
come segnale militaresco di tromba, che risulta essere il messo adibito a connotare la pazzia in
queste opere (l’esempio più signi cativo si trova nella scena III.9 dell’Egisto di Cavalli). Questo
utilizzo della tromba potrebbe aver costituito una tradizione particolare nelle opere veneziane e non
solo (es. Monteverdi per la sua “Finta pazza Licori”), dal momento che i parigini avevano potuto
ascoltare e vedere la connessione tra pazzia e segnali guerreschi già nell’Orfeo di Luigi Rossi del
1647. La penultima battuta di Deidamia nella scena II.10 dell’opera rappresenta il culmine musicale
della sua scena di pazzia. L’essere fuori di senno comporta anche la trasgressione dei limiti naturali
posti al genere umano ossia al sesso; in termini musicali, la trasgressione dei limiti naturali posti
all'ambito vocale perciò il cambio repentino di registro nel canto, spiazzante e comico al tempo
stesso, rientra nella rappresentazione musicale della follia (Sacrati mette a frutto l’ampio àmbito
vocale di Anna Renzi). L’uso di registri diversi allude al cambio del sesso, implicito nella follia.
Cambio di sesso (travestimento), mutazioni di voce sono aspetti caratteristici dell’attorialità comica.
Il concetto del “tempo in scompiglio” , del “time out of joint” è reso in musica mediante
l’improvviso ritmo in proportio hemiola, che rappresenta una vistosa deviazione dal metro
dominante in quel dato episodio. Un caso del genere lo si incontra nella partitura dell’opera nel
penultimo brano di musica annotato senza parole tra il 2 e il 3 atto. In quest’ultimo, il delirio di
Deidamia - dal punto di vista musicale - si mostra in calo e poco più avanti la nzione della pazzia
cessa del tutto (soltanto gli altri personaggi non se ne avvedono). Segno di questa riumanizzazione è
la cantabilità degli interventi di Deidamia e anche il suo parlare più essibile, con una dizione più
umana. Questo ci serve per notare l’uso che Sacrati fa delle tonalità per caratterizzare le varie sfere
dello svolgimento drammatico (la sfera tonale della protagonista nella sua versione più “umana” è,
ad esempio, la sfera dei bemolli). Rispetto all’Egisto di Faustini, di poco successivo;
- nell’ Egisto è una donna infedele ad essere vinta dalla pazzia dell’eroe =/ Finta pazza, invece è un uomo

- nell’ Egisto si tratta di vero delirio


Sacrati inoltre sembra sfruttare poco il contrasto ritmico tra movimenti lenti e veloci
Pagina 10
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
fi
fi
Pagina 11

Potrebbero piacerti anche