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L’INTERMEZZO
L’intermezzo ebbe grande successo in gran parte grazie al suo basso costo e alla sua facilità di realizzazione:
i personaggi erano solitamente due o tre, inseriti in contesti scenici basilari e accompagnati da brani
musicali di facile esecuzione. I protagonisti dell’intermezzo sono solitamente un uomo e una donna tra i
quali vi è un conflitto, un equivoco che volge sempre verso il lieto fine.
Uno degli esempi più importanti circa questo genere nel primo settecento è La serva padrona di Giovan
Battista Pergolesi, rappresentata a Napoli nel 1733 come intermezzo dell’opera seria Il prigionier superbo.
In quest’intermezzo Serpina, la serva, “spadroneggia” in casa di Uberto, un vecchio scapolo. Serpina
amerebbe sposarlo per innalzare la sua posizione sociale, ma Uberto è contrario. Per convincerlo la servetta
chiede al servo muto Vespone di travestirsi da Capitan Tempesta e a pretendere da Uberto la dote
necessaria per sposarla. Uberto, un po’ per tirchieria e un po’ per affetto verso Serpina, decide di sposarla
lui stesso. In questo intermezzo, comprendente tutte le caratteristiche tipiche del genere, trionfano quindi
la furbizia (la ragione) e il desiderio di riscatto sociale della protagonista.
IL CANTANTE BUFFO
Nonostante per molto tempo gli studiosi abbiano attribuito al cantante buffo un ruolo inferiore rispetto al
cantante di opera seria, recenti studi hanno dimostrato che non ci fosse una sostanziale differenza in
termini di retribuzione percepita e preparazione musicale (i cantanti buffi erano spesso anche cantanti seri)
La specializzazione del cantante buffo, che non arrivò mai ad essere un divo acclamato al pari dei castrati,
consisteva in una buona presenza attoriale e scenica affiancata ad una buona capacità, sul piano vocale, di
sillabare velocemente e di passare agilmente tra registri vocali e caratteriali.
I ruoli all’interno dell’opera buffa si differenziarono rispetto a quelli del genere serio, improntandosi verso
una maggiore verosimiglianza. La giovane protagonista è un Soprano, la madre o la donna anziana un
Contralto, il protagonista maschile (il buffo per eccellenza) è un Basso mentre la figura dell’innamorato o
del personaggio socialmente più elevato è un Tenore. Quest’ultimo è detto anche personaggio di mezzo
carattere poiché si colloca a metà tra lo stile serio e lo stile buffo, a causa dei risvolti sentimentali di cui
spesso si fa carico. La figura del giovanetto è di norma interpretata da una donna, meno frequentemente da
castrati.
LA RIFORMA DI PARMA
La riforma si realizzò alla corte del duca Filippo di Borbone, culturalmente filo-francese, per opera del
Sovrintendente degli spettacoli teatrali Léon Guillaume du Tillot, il quale si impegnò in una riforma
dell’opera con l’intento di unire la poesia e la musica italiana con la concezione unitaria tipica dello
spettacolo francese, più ricco sul piano scenografico e coreutico. Per raggiungere il proprio scopo egli scelse
per il teatro Farnese di Parma trwe soggetti di Rameau da riadattare e musicare (Tommaso Traetta):
l’Ippolito e Aricia, I Tindaridi e Le feste d’Imeneo. Lo stile di Traetta, formatosi a Napoli, non si discosta
molto da quello consueto della tradizione italiana e balli e cori inseriti a modello francese restano piuttosto
distanti danna necessità del dramma.
NICCOLÒ JOMMELLI
Musicista di scuola napoletana ma di esperienza europea, Niccolò Jommelli fu al centro di un’ulteriore
azione riformatrice, sebbene non inserita in un preciso contesto e progetto strutturato. Durante la sua
esperienza a Stoccarda ebbe modo di lavorare con il librettista Verazi realizzando un tentativo di fusione tra
opera italiana e francese con Fetonte, Enea nel Lazio e Pelope. Cori e danze furono integrati nella struttura
dell’opera e la dialettica aria-recitativo fu superata con la creazione di grandi “scene”, successione di brani
diversi senza soluzione di continuità. In controtendenza rispetto al gusto italiano, Jommelli affidò un
maggior ruolo all’orchestra, che inserì di frequente anche nei recitativi, rendendoli sede idonea per uno
scavo psicologico dei personaggi. La distanza tra recitativo e aria andò quindi attenuandosi, con Jommelli
che optò per una maggiore valorizzazione di fiati e violini e per l’introduzione della forma “buffa” del
concertato anche nell’opera seria.
LA RIFORMA DI GLÜCK
Alla corte viennese, inoltre, sono riconducibili dei tentativi di riforma e di conciliazione tra impianto scenico
e musicale francese e opera seria italiana. Tra le personalità più importanti impegnate nell’ambito di questa
riforma vi è sicuramente quella di Christoph Willibald Glück.
Nato ad Erasbach nel 1714 ed ostacolato dal padre nello studio della musica, si rifugiò a Praga,
guadagnandosi da vivere suonando e cantando nelle chiese. In musica fu autodidatta fino a che, trovandosi
a Vienna, conobbe il principe Antonio Maria Melzi il quale, riconosciuto in lui un potenziale, lo mandò a
studiare a Milano presso G. B. Sammartini. Tra le varie opere scritte nello stile del melodramma italiano tra
Milano, Dresda e Napoli è sicuramente degna di nota la Clemenza di Tito, soggetto che verrà
successiamente musicato anche da Mozart. Dopo essere entrato in contatto con il conte genovese Giacomo
Durazzo, direttore generale dei Teatri di Vienna, ottenne l’ingresso nella Corte Viennese, dove conobbe il
poeta livornese Ranieri de’ Calzabigi. Dalla reciproca collaborazione nacque l’Orfeo ed Euridice (1762),
opera che segnò l’avvio a quell’evoluzione operistica dell’autore che erroneamente venne identificata con il
nome di “riforma gluckiana”.
Nella realtà dei fatti è possibile affermare che a Glück non vada riconosciuto che il merito di aver
interpretato una necessità di riforma dell’opera seria anche grazie all’utilizzo di elementi musicali già
anticipati da altri compositori a lui antecedenti.
Lo scopo di Glück si può dire che fosse, in definitiva, una razionalizzazione e una semplificazione dell’azione
drammatica, che puntasse ad eliminare la maggior parte degli ornamenti tipici del barocco (in particolare
circa le libertà che erano soliti concedersi i cantanti d’opera, in particolare nel da capo dell’aria, a scapito
della chiarezza e della fedeltà alla parte), in netto contrasto con il pensiero razionalista ed illuminista del
tempo. Altro scopo del compositore tedesco era anche quello di andare oltre la struttura in pezzi chiusi per
costruire scene di più ampio respiro. Le arie furono svuotate dalle ripetizioni e dai virtuosismi passati e si
aprirono ad una varietà di forme oltre a quella già citata col da capo (aria strofica, in forma di rondò,
tripartita).
Dovendo riassumere i caratteri principali delle opere glückiane, è possibile affermare che i caratteri in esse
presenti che contrastavano con la visione barocca dell’opera seria sono:
- Conciliazione tra musica e dramma, con l’abolizione della scissione tra Aria e Recitativo per creare
scene di più ampio respiro;
- Predilezione del recitativo accompagnato rispetto a quello secco, con lo scopo di avere un maggiore
approfondimento psicologico del personaggio;
- Riscatto dell’orchestra dalla soggezione del canto e impiego maggiore in funzione drammatica e
non con mera funzione accompagnatrice;
- Scenografia razionalmente adeguata, su modello francese;
- Uso del Coro non in funzione decorativa ma come elemento del dramma: il coro divenne un vero e
proprio personaggio aggiunto, come nella tragedia greca;
- Balletto con gestualità espressiva e non come sfarzo scenico;
- Abolizione del virtuosismo vocale a favore di una declamazione e di una articolazione maggiore
della parola;
- Ouverture in sostituzione della sinfonia avanti l’opera di scuola napoletana, intesa non più come
una semplice introduzione strumentale, ma come prologo dell’azione in cui vengono presentati
molti dei temi caratterizzanti i personaggi dell’opera;
- Dal punto di vista narrativo, distaccamento dal sistema metastasiano dell’intrigo a favore di una più
omogenea linearità di svolgimento dei fatti;
- Grande attenzione al paramento timbrico: conferimento al flauto solista di un ruolo differenziato
rispetto all’oboe e valorizzazione della viola per dare pienezza alla sezione degli archi.
Molti degli elementi in passato ricondotti alla riforma di Glück sono quindi evincibili già nelle opere di altri
compositori, simbolo del fatto che la riforma di Glück sia stata essenzialmente una naturale evoluzione del
corso degli eventi dettata dal cambiamento dei tempi e delle esigenze del pubblico.