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L’OPERA BUFFA

NASCITA DELL’OPERA BUFFA


Le scene comiche erano molto frequenti nell’opera del Seicento, mentre interi lavori di argomento comico
furono rari e occasionali. La riforma del teatro propugnata dall’Arcadia a fine secolo favorì tuttavia lo
sviluppo di lavori di argomento comico e i personaggi buffi, quindi, trovarono una loro collocazione in un
genere a sé stante.
L’opera comica, detta buffa, si strutturò a Napoli tra il 1720 e il 1730, assumendo sue possibili forme:
- L’intermezzo, un’opera breve solitamente suddivisa in due parti e inserita tra gli atti primo e
secondo e secondo e terzo di un’opera seria;
- La commedeja pe’ mmuseca, un dramma autonomo in due o tre atti che utilizzava il dialetto.

LE NOVITÀ DEI SOGGETTI E I TEMI TRATTATI


Il genere buffo napoletano si collocava tra il genere colto e quello popolare del teatro di strada, di cui ne
assumeva le gestualità e la consueta ironia pungente, talvolta grottesca. Il pubblico si ampliò, inglobando,
oltre al consueto pubblico dell’opera seria, anche ceti sociali più bassi. L’ambientazione prevedeva
situazioni di vita quotidiana con l’intervento di personaggi del popolo e borghesi, di cui si descrivevano i
mestieri e se ne riportava la lingua in maniera vivida e realistica.
I soggetti prevedevano un intrico di natura sentimentale; per risolverlo occorreva l’acume e la furbizia dei
personaggi del popolo (spesso servi, ripresa di modelli già in voga nel ‘500 nelle commedie) che, allo stesso
tempo, si facevano moderni portatori degli effetti positivi della luce della ragione nella soluzione dei
problemi. Frequenti erano scambi d’identità, doppi sensi e equivoci in genere, sempre con sfondo burlesco.

L’INTERMEZZO
L’intermezzo ebbe grande successo in gran parte grazie al suo basso costo e alla sua facilità di realizzazione:
i personaggi erano solitamente due o tre, inseriti in contesti scenici basilari e accompagnati da brani
musicali di facile esecuzione. I protagonisti dell’intermezzo sono solitamente un uomo e una donna tra i
quali vi è un conflitto, un equivoco che volge sempre verso il lieto fine.
Uno degli esempi più importanti circa questo genere nel primo settecento è La serva padrona di Giovan
Battista Pergolesi, rappresentata a Napoli nel 1733 come intermezzo dell’opera seria Il prigionier superbo.
In quest’intermezzo Serpina, la serva, “spadroneggia” in casa di Uberto, un vecchio scapolo. Serpina
amerebbe sposarlo per innalzare la sua posizione sociale, ma Uberto è contrario. Per convincerlo la servetta
chiede al servo muto Vespone di travestirsi da Capitan Tempesta e a pretendere da Uberto la dote
necessaria per sposarla. Uberto, un po’ per tirchieria e un po’ per affetto verso Serpina, decide di sposarla
lui stesso. In questo intermezzo, comprendente tutte le caratteristiche tipiche del genere, trionfano quindi
la furbizia (la ragione) e il desiderio di riscatto sociale della protagonista.

La commedeja pe’ mmuseca


In questo genere i personaggi aumentano (da 7 a 9) e l’intreccio comprende anche eventi di natura più
strettamente sentimentale. Ne Lo frate ‘nnammurato di Pergolesi il giovane Ascanio è indeciso nella scelta
amorosa tra tre donne che dochiarano di amarlo. Sarà l’inaspettata scoperta finale, quella di essere fratello
di due delle tre donne, ad indirizzarlo verso la terza. La presenza all’interno della commedia di personaggi di
varia estrazione sociale permette ai librettisti e ai compositori di disporre di una pluralità di linguaggi e di
stili da accostare in maniera contrastante.

LA VITA MUSICALE NAPOLETANA


A Napoli, città natale del genere dell’opera buffa, vennero destinati vari teatri per l’esecuzione di opere
buffe, come il Teatro dei Fiorentini, il Teatro della Pace o il Teatro Nuovo.
Nella città erano inoltre molto presenti istituzioni di formazione musicale (4 conservatori, con meccanismi
simili agli spedali veneziani), in particolare per gli orfani, in grado di formare musicisti che potessero
risultare adeguati per la composizione e la prassi musicale in particolare nei contesti ecclesiastici.
Con il nome di “scuola napoletana” si identificano inoltre tutta una serie di compositori e musicisti operanti
a Napoli tra l 1720 e il 1730, tra cui Alessandro Scarlatti, Giovan Battista Pergolesi, morto nel 173 all’età di
soli 26 anni, e Leonardo Vinci.

LE NOVITÀ DEL GENERE COMICO SUL PIANO MUSICALE


Accanto alle novità linguistiche e tematiche, il genere comico napoletano presenta uno stile innovativo
anche dal punto di vista musicale. L’opera si struttura in arie, recitativi (quasi sempre secchi) e brani
d’insieme ma il suo stile è ben diverso da quello dell’opera seria. Molti studiosi concordano nel trovare
analogie con lo stile galante, per il comune atteggiamento di rottura con lo stile contrappuntistico.
Caratteristiche musicali fondamentali del genere comico sono:
- Frasi nitide, brevi e caratterizzate;
- Orchestra presente con un tessuto leggero, come raddoppio al canto o con stile omofonico
(unisono o ottava);
- Armonia chiara e sottolineata dal disegno melodico, con utilizzo frequente di I e V grado;
- Contesto del canto e del testo strettamente sillabico e articolato in note brevi con ritmica vivace e
scorrevole;
Nasce il concertato, brano in cui tutti i personaggi si ritrovano riuniti sulla scena: le entrate in successione
portano ad un crescendo espressivo caratterizzante i finali d’atto.
Nell’ambito della scuola napoletana di questo periodo, inoltre, si ampliò e si definì la forma della “sinfonia
avanti l’opera” in tre movimenti: I veloce, con carattere brillante, II lento, con carattere cantabile, III veloce,
con carattere vivace, spesso scritto in tempi ternari affini alla danza. Non rare sono le sinfonie composte da
un unico movimento.
La sinfonia era un brano sostanzialmente estraneo all’opera, poteva essere eseguito anche separatamente
in quanto, almeno inizialmente, non conteneva caratteristiche che lo legassero all’opera specifica per cui
era stata scritta (situazione si evolverà gradualmente, definitivamente con riforma di Glück).

IL CANTANTE BUFFO
Nonostante per molto tempo gli studiosi abbiano attribuito al cantante buffo un ruolo inferiore rispetto al
cantante di opera seria, recenti studi hanno dimostrato che non ci fosse una sostanziale differenza in
termini di retribuzione percepita e preparazione musicale (i cantanti buffi erano spesso anche cantanti seri)
La specializzazione del cantante buffo, che non arrivò mai ad essere un divo acclamato al pari dei castrati,
consisteva in una buona presenza attoriale e scenica affiancata ad una buona capacità, sul piano vocale, di
sillabare velocemente e di passare agilmente tra registri vocali e caratteriali.
I ruoli all’interno dell’opera buffa si differenziarono rispetto a quelli del genere serio, improntandosi verso
una maggiore verosimiglianza. La giovane protagonista è un Soprano, la madre o la donna anziana un
Contralto, il protagonista maschile (il buffo per eccellenza) è un Basso mentre la figura dell’innamorato o
del personaggio socialmente più elevato è un Tenore. Quest’ultimo è detto anche personaggio di mezzo
carattere poiché si colloca a metà tra lo stile serio e lo stile buffo, a causa dei risvolti sentimentali di cui
spesso si fa carico. La figura del giovanetto è di norma interpretata da una donna, meno frequentemente da
castrati.

IL GENERE COMICO NEGLI ALTRI PAESI


Sulla scia del successo che ebbe in Italia in genere comico iniziò a svilupparsi, in forme variabili, in tutta
Europa. In Francia nacque l’operà-comique, in area tedesca nacque il Singspiel, in Inghilterra nacque la
ballad-opera, che alternava canto e recitazione, facendo a meno dei recitativi, e in Spagna si sviluppò la
tonadilla, genere comico tutto cantato.
Esempi per l’operà-comique francese sono le opere di Danican-Philidor e Grétry, mentre per la ballad-opera
ebbe un effetto dirompente la prima opera scritta secondo questo stile, la Beggar’s opera (1728) di Johann
Christoph Pepusch, a causa del suo intento satirico rivolto al melodramma serio italiano.
LE RIFORME DI METÀ SECOLO

LA CRISI DELL’OPERA SERIA ITALIANA: IL TRAMONTO DEL BEL CANTO


Alla metà del XVIII secolo l’opera seria italiana conobbe una crisi importante a causa del fatto che per
troppo tempo aveva mantenuto la sua forma senza il minimo cambiamento e che i suoi più grandi
interpreti fossero diventati ormai eccessivamente arroganti. Inoltre, a causa della mancanza di
verosimiglianza tra i personaggi e le voci che li interpretavano (le figure maschili potevano essere
interpretate sia da donne che da evirati, che spesso erano impiegati in parti femminili) il genere dell’opera
seria italiana sembrò, al nuovo pubblico borghese settecentesco, più che mai obsoleto. Lo stile di canto
privilegiava il gusto delle ornamentazioni e lo sfoggio del virtuosismo dell’interprete. Tale stile è definito
“bel canto”.
Un testo esemplificativo del movimento di critica all’opera seria nel primo Settecento è sicuramente il
Saggio sopra l’opera in musica (1755) dello scrittore illuminista Francesco Algarotti, nel quale si mettevano
in rilievo le degenerazioni di tale genere artistico, "forse il più ingegnoso e compìto" di quelli "che furono
immaginati dall'uomo", e si sosteneva invece un modello altamente semplificato di opera seria, con gli
elementi del dramma largamente preminenti su quelli della musica, della danza e della scenografia. Il
dramma, per parte sua, doveva aver come fine quello di «muovere il cuore, deliziare gli occhi e gli orecchi
senza contravvenire alla ragione». Le idee di Algarotti influenzarono, separatamente, sia il musicista Gluck
sia il poeta Calzabigi, il quale divenne uno dei prominenti sostenitori della necessità di trovare nuove strade
per quella che è stata poi definita, secondo Hutchings impropriamente, la riforma gluckiana.
Lo stesso Algarotti fu tra i primi a sostenere la necessità di un legame dell’ouverture con il resto dell’opera
per preparare “l’uditore a ricevere quelle impressioni d’affetto che risultano dal totale del dramma”
(innovazione che sarà poi erroneamente attribuita alla riforma gluckiana).

LA RIFORMA DI PARMA
La riforma si realizzò alla corte del duca Filippo di Borbone, culturalmente filo-francese, per opera del
Sovrintendente degli spettacoli teatrali Léon Guillaume du Tillot, il quale si impegnò in una riforma
dell’opera con l’intento di unire la poesia e la musica italiana con la concezione unitaria tipica dello
spettacolo francese, più ricco sul piano scenografico e coreutico. Per raggiungere il proprio scopo egli scelse
per il teatro Farnese di Parma trwe soggetti di Rameau da riadattare e musicare (Tommaso Traetta):
l’Ippolito e Aricia, I Tindaridi e Le feste d’Imeneo. Lo stile di Traetta, formatosi a Napoli, non si discosta
molto da quello consueto della tradizione italiana e balli e cori inseriti a modello francese restano piuttosto
distanti danna necessità del dramma.

NICCOLÒ JOMMELLI
Musicista di scuola napoletana ma di esperienza europea, Niccolò Jommelli fu al centro di un’ulteriore
azione riformatrice, sebbene non inserita in un preciso contesto e progetto strutturato. Durante la sua
esperienza a Stoccarda ebbe modo di lavorare con il librettista Verazi realizzando un tentativo di fusione tra
opera italiana e francese con Fetonte, Enea nel Lazio e Pelope. Cori e danze furono integrati nella struttura
dell’opera e la dialettica aria-recitativo fu superata con la creazione di grandi “scene”, successione di brani
diversi senza soluzione di continuità. In controtendenza rispetto al gusto italiano, Jommelli affidò un
maggior ruolo all’orchestra, che inserì di frequente anche nei recitativi, rendendoli sede idonea per uno
scavo psicologico dei personaggi. La distanza tra recitativo e aria andò quindi attenuandosi, con Jommelli
che optò per una maggiore valorizzazione di fiati e violini e per l’introduzione della forma “buffa” del
concertato anche nell’opera seria.
LA RIFORMA DI GLÜCK
Alla corte viennese, inoltre, sono riconducibili dei tentativi di riforma e di conciliazione tra impianto scenico
e musicale francese e opera seria italiana. Tra le personalità più importanti impegnate nell’ambito di questa
riforma vi è sicuramente quella di Christoph Willibald Glück.
Nato ad Erasbach nel 1714 ed ostacolato dal padre nello studio della musica, si rifugiò a Praga,
guadagnandosi da vivere suonando e cantando nelle chiese. In musica fu autodidatta fino a che, trovandosi
a Vienna, conobbe il principe Antonio Maria Melzi il quale, riconosciuto in lui un potenziale, lo mandò a
studiare a Milano presso G. B. Sammartini. Tra le varie opere scritte nello stile del melodramma italiano tra
Milano, Dresda e Napoli è sicuramente degna di nota la Clemenza di Tito, soggetto che verrà
successiamente musicato anche da Mozart. Dopo essere entrato in contatto con il conte genovese Giacomo
Durazzo, direttore generale dei Teatri di Vienna, ottenne l’ingresso nella Corte Viennese, dove conobbe il
poeta livornese Ranieri de’ Calzabigi. Dalla reciproca collaborazione nacque l’Orfeo ed Euridice (1762),
opera che segnò l’avvio a quell’evoluzione operistica dell’autore che erroneamente venne identificata con il
nome di “riforma gluckiana”.
Nella realtà dei fatti è possibile affermare che a Glück non vada riconosciuto che il merito di aver
interpretato una necessità di riforma dell’opera seria anche grazie all’utilizzo di elementi musicali già
anticipati da altri compositori a lui antecedenti.
Lo scopo di Glück si può dire che fosse, in definitiva, una razionalizzazione e una semplificazione dell’azione
drammatica, che puntasse ad eliminare la maggior parte degli ornamenti tipici del barocco (in particolare
circa le libertà che erano soliti concedersi i cantanti d’opera, in particolare nel da capo dell’aria, a scapito
della chiarezza e della fedeltà alla parte), in netto contrasto con il pensiero razionalista ed illuminista del
tempo. Altro scopo del compositore tedesco era anche quello di andare oltre la struttura in pezzi chiusi per
costruire scene di più ampio respiro. Le arie furono svuotate dalle ripetizioni e dai virtuosismi passati e si
aprirono ad una varietà di forme oltre a quella già citata col da capo (aria strofica, in forma di rondò,
tripartita).
Dovendo riassumere i caratteri principali delle opere glückiane, è possibile affermare che i caratteri in esse
presenti che contrastavano con la visione barocca dell’opera seria sono:
- Conciliazione tra musica e dramma, con l’abolizione della scissione tra Aria e Recitativo per creare
scene di più ampio respiro;
- Predilezione del recitativo accompagnato rispetto a quello secco, con lo scopo di avere un maggiore
approfondimento psicologico del personaggio;
- Riscatto dell’orchestra dalla soggezione del canto e impiego maggiore in funzione drammatica e
non con mera funzione accompagnatrice;
- Scenografia razionalmente adeguata, su modello francese;
- Uso del Coro non in funzione decorativa ma come elemento del dramma: il coro divenne un vero e
proprio personaggio aggiunto, come nella tragedia greca;
- Balletto con gestualità espressiva e non come sfarzo scenico;
- Abolizione del virtuosismo vocale a favore di una declamazione e di una articolazione maggiore
della parola;
- Ouverture in sostituzione della sinfonia avanti l’opera di scuola napoletana, intesa non più come
una semplice introduzione strumentale, ma come prologo dell’azione in cui vengono presentati
molti dei temi caratterizzanti i personaggi dell’opera;
- Dal punto di vista narrativo, distaccamento dal sistema metastasiano dell’intrigo a favore di una più
omogenea linearità di svolgimento dei fatti;
- Grande attenzione al paramento timbrico: conferimento al flauto solista di un ruolo differenziato
rispetto all’oboe e valorizzazione della viola per dare pienezza alla sezione degli archi.
Molti degli elementi in passato ricondotti alla riforma di Glück sono quindi evincibili già nelle opere di altri
compositori, simbolo del fatto che la riforma di Glück sia stata essenzialmente una naturale evoluzione del
corso degli eventi dettata dal cambiamento dei tempi e delle esigenze del pubblico.

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