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L’opera italiana nell’Ottocento

di Adele Russotto

Nel 1637 in Italia il teatro d’opera era divenuto prodotto di consumo. Da


quando per la prima volta era stata data la possibilità ad un pubblico pagante di
entrare in teatri appositamente realizzati, l’opera era divenuta uno spettacolo
formativo e d’intrattenimento insieme che avrebbe avuto una grande fortuna
anche nei secoli a venire. Nell’ottocento, l’opera italiana conobbe il suo apogeo.
Surian, nei suoi manuali di storia della musica, non manca di far notare come il
melodramma sia stato “l’elemento trainante nella formazione di una coscienza
nazionale unitaria”. Attraverso di esso, una parte della popolazione italiana poté
entrare in contatto con molta della letteratura cui non sarebbe arrivata in
nessun’altro modo: Dante, Tasso, Leopardi.
Un vero fenomeno di costume: per le classi agiate, tra le cui fila si riteneva
che il teatro d’opera fosse il miglior intrattenimento serale sopra tutti gli altri; chi
non poteva recarsi a teatro aveva modo di ascoltare le arie d’opera quando
divenivano parte integrante del repertorio bandistico popolare.
Parallelamente al successo del melodramma, l’Italia vede un declino
progressivo della musica strumentale: il diciannovesimo secolo italiano diviene
quasi esclusivamente il secolo dell’opera.
Il compositore d’opera

Il teatro d’opera in Italia è un business più che da altre parti in Europa. Lo


stanno a dimostrare le quantità di opere prodotte da ciascuno dei grandi
compositori di opere italiani: Donizetti ad esempio ha scritto nell’arco della sua
vita quasi settanta opere. Il prodotto “opera lirica” si vende benissimo, ed il
teatro ha sempre bisogno di materiale nuovo. D’altro canto, il compositore ha
sempre bisogno di lavorare, giacché ancora non esiste niente di simile a diritti
d’autore o proventi continuativi da un’opera sola; il compositore guadagna dalla
sola commissione (sarà poi Giuseppe Verdi stesso ad occuparsi di questa
questione, più avanti). In questo modo la produzione operistica del
diciannovesimo secolo è davvero altissima. Il tasso di commissione per gli
operisti è talmente alto da raggiungere una quota di due o tre opere l’anno. Per
questa ragione non si può pretendere che il primo problema del compositore
fosse l’innovazione formale. Tutt’altro: l’opera era frutto di un artigianato
musicale di mestiere, che non garantiva un’originalità. Garantiva però una
grandissima velocità del compositore, che — conscio fin nel dettaglio di cosa
andava a fare — riusciva ad ultimare delle opere anche lunghe in ben poco
tempo: sappiamo che Rossini completò il Barbiere di Siviglia in soli diciannove
giorni; Donizetti compose l’Elisir d’Amore in due sole settimane.
Non scordiamoci che siamo in pieno romanticismo italiano. Coloro che
sono riconosciuti come i grandi compositori del romanticismo italiano
concentrano tutte le loro attenzioni quasi esclusivamente sulla produzione del
melodramma: Gioacchino Rossini, Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti, Giuseppe
Verdi.

L’impresario, metafora della parabola del teatro d’Opera italiano

L’impresario è una figura importantissima quando si parla del


melodramma italiano. Come detto a più riprese, l’opera è diventata ormai un
prodotto d’intrattenimento commerciale. La storia di questa figura in particolare
può essere tracciata passo passo e parallelamente al mutamento del teatro
d’opera italiano nel corso del diciannovesimo secolo. Infatti la storia del teatro
d’Opera italiano si potrebbe dividere secondo una prassi della storiografia
musicale, ossia suddividendo il diciannovesimo secolo in due metà.
L’impresario, figura centrale nel panorama operistico della prima metà del
secolo, è una figura che a poco a poco perde d’importanza, fino a perdere
totalmente le mansioni di spicco guadagnate nei primi dell’ottocento. Ma
spieghiamoci meglio.
L’impresario nella prima metà del secolo si occupava totalmente della
gestione della stagione operistica di un teatro; non solo, ma spesso aveva la
gestione di più teatri e in diverse città. Serviva poi a loro un certo talento
imprenditoriale per poter sfruttare al meglio il talento artistico dei compositori a
cui avrebbero richiesto le commissioni. Ma verso la fine della prima metà
dell’800 nasce una nuova legislazione: nasce il diritto di autore ed in Italia si
affermano gli editori musicali. Si può capire che una diretta conseguenza di ciò è
che si riduce drasticamente il numero di produzioni annue di opere, dal
momento che un editore — adesso proprietario intellettuale della sua opera —
può decidere di affittare le parti ad un teatro e ricavarne direttamente i proventi,
ovviamente spartiti con l’autore. Un metodo ben più remunerativo in termini di
rapporto fra tempi di produzione e guadagno per l’autore. Dal 1850 sono ormai
gli editori a commissionare opere.
Quindi, dal 1860 la produzione operistica cala sensibilmente e si allungano
per l’autore le tempistiche di produzione per ogni opera.

Il libretto

In più occasioni ci siamo ripetuti dicendo che ad un certo punto, nella


storia italiana, l’opera è cambiata radicalmente. Non ci stancheremo ancora di
dirlo, parlando anche del rapporto fra compositore e librettista. Mentre all’epoca
di Monteverdi o di Caccini il librettista aveva molta più influenza del musicista e
compositore quando si trattava del discorso drammatico, il prestigio sociale
sempre più in ascesa dell’operista fa sì che questo rapporto si ribalta. Adesso è
il compositore a scegliere il soggetto ed individua all’interno di una storia quali
siano i nuclei drammatici e da mettere in risalto; il librettista si riduce al ruolo di
un poeta esperto, ma del tutto sottomesso alle esigenze del compositore. È
Verdi che appare come innovatore del rapporto fra musicista e poeta, al punto
tale che in molti casi sarà lo stesso Verdi ad occuparsi della stesura dei primi
versi da inviare al poeta, grazie ai quali egli possa prendere spunto per una
stesura completa. Non solo: ma è attribuibile a Verdi stesso la scelta di alcuni
metri poetici inusuali per i suoi libretti. Infatti, normalmente si usavano
endecasillabi sciolti (inframezzati da settenari) per i recitativi, mentre per i
“cantabili” si utilizzavano di preferenza versi con numeri di sillabe pari, perché più
facili da adattare alla musica. Verdi sollecitava librettisti e poeti a scegliere dei
versi che si adattassero alla musica piuttosto che il contrario; questo è anche per
far capire ancora meglio quale fosse il prestigio raggiunto dall’operista
nell’ottocento.
Un altro cambiamento interessante rispetto al melodramma del
diciassettesimo secolo è che nel diciottesimo secolo si amplia infinitamente.
Infatti il campo d’esistenza dei soggetti operistici non viene più relegato alla
mitologia greca e latina, come avveniva per l’opera del milleseicento. È così
anche perché il pubblico è cambiato ed è molto più ampio. È sì d’estrazione non
bassa, ma rimane sempre un pubblico di un ceto medio che non ha l’istruzione
classica che poteva avere l’aristocrazia nel 1600, unico pubblico del teatro
d’opera fino al teatro impresariale. Lo spirito del romanticismo portò gli operisti a
scegliere soggetti dalla letteratura non solo nazionale, ma anche internazionale:
si presero soggetti di Shakespeare, Byron, Scott, Schiller, Hugo ecc.

Come abbiamo detto prima, la grande produttività richiesta ad un operista


nella prima metà dell’ottocento toglieva molto all’originalità. Questo fatto ha una
diretta conseguenza anche sul libretto d’opera che, formalmente, è molto
ripetitivo di opera in opera, a tal punto da essersi stabilizzato in una forma fissa.
A partire dai personaggi. Infatti il motivo del dramma dell’intreccio è quasi
sempre costruito su tre personaggi che, con molta frequenza, sono soprano-
eroina, tenore-innamorato, basso-rivale in amore. Questo triangolo non è che
uno schema di base su cui poi sono state operate moltissime varianti, come per
esempio l’aggiunta di un personaggio, che sia esso un soprano od un basso. Lo
svolgimento della trama inizia quasi sempre con un prologo del protagonista che
serve a preparare il pubblico a quali sono le pene che soffre il personaggio
principale; dopodiché il protagonista esegue un brano in forma di canzone,
normalmente in tempo disteso (calmo, andante); è tempo poi del pertichino,
ovvero quel momento in cui il protagonista non è più solo, ma si aggiunge un
altro dei personaggi principali a stuzzicare gli affetti del protagonista, che porta
l’umore dei brani ad uno più brioso e brillante; si passa così alla cabaletta che è
una parte assai più brillante in cui il cantante che interpreta il protagonista può
dar sfoggio delle proprie virtù canore.
ll libretto dell’opera seria dell’Ottocento è normalmente impostato su due
o tre (raramente quattro) atti. Ciascuno di questi atti è considerabile come una
parte relativamente autonoma rispetto alle altre, ma senza che manchino dei
ponti logici fra una situazione e l’altra.

I tipi di voce

Il secolo dell’opera romantica è anche il secolo in cui si stabilizzano certi


tipi di voce legati indissolubilmente a certi tipi di personaggi. L’eroe interpretato
dal castrato tipica del settecento rimane fino agli anni ‘20 dell’ottocento, quando
l’ultimo castrato, Velluti, si ritirò dalle scene. In mancanza di altri castrati, la
tradizione continuò ancora per un po’ di tempo con un soprano en travesti,
ossia una donna che vestiva abiti maschili per interpretare un personaggio
maschile.
Il tenore nel periodo napoletano delle opere di Rossini (1815-1822) viene
attribuito alla parte dell’amoroso, quando di solito il tenore avrebbe interpretato
normalmente la parte dell’antagonista. Il tenore della prima metà del secolo ha
però un modo di cantare che non è affatto simile a come lo udiremmo noi nei
teatri d’opera al giorno d’oggi. Infatti utilizza ancora un timbro pieno per quando
deve intonare note del suo registro grave; quando si trova in un registro
particolarmente acuto è solito utilizzare un timbro simile al falsetto. Nel 1829
Rossini mette in scena la sua ultima opera seria in francese, il Guglielmo Tell
tratto da un’opera del tedesco romantico Schiller. Fino ad allora il tenore aveva
cantato nella maniera riportata poco sopra. La rivoluzione dell’impostazione
tenorile avviene due anni dopo a Lucca, proprio in occasione della messa in
scena dell’opera Guglielmo Tell in italiano: in questa occasione il tenore
preposto ad interpretare il personaggio di Arnoldo era Gilbert Louis Duprez che
azzardò con successo un proverbiale “do di petto”, per nulla in linea con
l’impostazione ormai consolidata della vocalità del tenore. Per la voce del tenore,
questa fu una vera e propria rivoluzione copernicana.
Il basso è sempre ritenuto la voce di un personaggio vecchio e saggio. Di
solito è un re, un padre o un sacerdote. Al contrario, può anche rappresentare la
voce di un personaggio demoniaco. Ma il secolo dell’opera romantica è anche il
secolo della scoperta della tessitura timbrica più acuta per il basso: è la
riscoperta del baritono, poco preso in considerazione nel diciottesimo secolo.
Solo a metà del secolo però avverrà una netta distinzione fra i ruoli del basso e
del baritono, e sarà grazie a Verdi, nelle cui opere il baritono diventerà una delle
voci cardine per interpretare uno dei protagonisti, o addirittura il ruolo del
protagonista innamorato.
Sempre grazie a Verdi si deve il mutamento della figura del soprano
femminile. Essa infatti, nella prima metà del secolo è legata a personaggi
fortemente idealizzati; è una voce agile, adatta a muoversi rapidamente nella
tessitura acuta. Di qui ad accostarla a personaggi di natura fragile, di donna
angelica spesso votata al sacrificio, il passo è breve. Ma grazie a Verdi questo
rapporto muta, ed è particolarmente evidente nell’opera de La Traviata. L’opera
ha un fiasco terribile alla sua prima a Venezia, nel 1853. La voce di Violetta
subisce un mutamento repentino dalla sua seconda messa in scena in poi:
mentre nel primo atto mantiene uno stile carico di abbellimenti, che oggi
sentiremmo come posticcio, fortemente idealizzato, dal secondo atto in cui
Violetta diviene una donna “vera” con dei caratteri non più idealizzati ma più
autentici, più “veristi”, la protagonista non canterà più in maniera affettata e
stilizzata. Questa tendenza verrà mantenuta per il resto della storia dell’opera
italiana. Tale è infatti il rapporto fra il personaggio e la voce che lo interpreta: al
mutare del carattere del primo e delle sue connotazioni, muta anche la maniera
di interpretarlo. Se un personaggio è più veritiero, allora sarà meno stilizzata la
voce che lo interpreta.

Bibliografia:

Surian, E. Manuale di Storia della Musica. Terza edizione. Vol. III. Milano, Rugginenti
Editore.

Dorsi, Rausa, Storia dell’opera italiana. Capp 7-10. Mondadori, 2000.

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