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RIASSUNTO “IL TEATRO ITALIANO NEL TEMPO DEL FASCISMO”.

CAP. 1 – UNA CRISI STRUTTURALE DELLA SCENA


1. LA CRISI DEL “TEATRO ALL’ANTICA ITALIANA”.

Tra la fine dell’800 e i primi del 900, nel teatro europeo si realizzarono delle
esperienze che posero le basi della storia teatrale di tutto il nostro secolo. Nel
1887 era nato a Parigi il Théâtre Libre di Antoine e a Mosca nel 1898
Stanislavskij aveva fondato il Teatro d’Arte. Accanto al teatro medio
rappresentato nelle varie nazioni, la scena europea si affacciò sul primo
Novecento con un nuovo carico di suggestioni, eventi, progetti.
La vicenda del teatro offre un’immagine di sé caleidoscopica che la ricerca
storica tende a sistematizzare in una sequenza di epoche e correnti artistiche che
si succedono in maniera lineare.
Negli anni precedenti e in quelli successivi al conflitto mondiale la scena italiana
mostra i segni di un dissesto strutturale che si accompagna alla ricerca di nuovi
livelli linguistici ed organizzativi. Accanto all’eclissi del sistema tradizionale di
vita delle compagnie, si afferma una nuova forza dei drammaturghi, mentre
rispetto ad altre nazioni, si riscontra un ritardo nell’acquisizione della figura del
regista. Le dinamiche di fondo del teatro italiano del primo dopoguerra si
possono comprendere alla luce di una nuova e più forte relazione fra un sistema
teatrale tradizionale e una società ormai industrializzata. La prima guerra
mondiale accentua questo aspetto portando con sé una crisi pratica: teatri usati
per le guerre, attori al fronte, ferrovie poco agevoli e più care. Le difficoltà
organizzative aumentano l’instabilità della scena italiana rendendo sempre più
urgente una rifondazione generale.
La crisi del teatro mattatoriale definito a partire dal primo 900 “all’antica
italiana”, basato su un repertorio eroico – storico – classicheggiante, aveva
raggiunto il culmine. La formula indicava la vecchia tendenza che esigeva
dall’attore una recitazione fatta di bella voce tonante e portamento eretto. Per
quanto riguarda la tecnica interpretativa di Ermete Zacconi e Ermete Novelli, la
loro recitazione era condotta da compagnie divise in ruoli principali e ruoli
secondari, che poneva l’attore al centro dello spettacolo mettendo in secondo
piano il testo, che diventava un accessorio per esaltare le virtù drammatiche dei
protagonisti.
I figli d’arte, discendenti da generazioni di comici, erano i discepoli dei
magnifici virtuosi del 500, 600 e 700, gli eredi della commedia dell’arte che
sbalordì il mondo. Mentre in Europa, già da molti anni era in atto il
rinnovamento del linguaggio scenico, in Italia, la stessa forza della tradizione
attorale, da secoli base fondamentale delle compagnie girovaghe, rendeva più
difficile e lenta l’affermazione di nuovi modelli di produzione ed organizzazione
dello spettacolo.
Il “teatro all’antica italiana” non rappresentava solo un modo specifico di fare
teatro ma rinviava anche ad un sistema teatrale articolato basato sul nomadismo,
su formazioni di compagnie con scadenze triennali e con rimpasti annuali, dotate
di un patrimonio vistoso di scenografie (di proprietà del capocomico) e di
costumi (di proprietà degli attori). Si trattava di un ambiente chiuso, formato
solo da attori e attrici, dove i critici e gli autori avevano un ruolo secondario.
Un’arte una complessa tecnica dell’attore basata sulla divisione in ruoli (da qui
la polemica sulla loro abolizione) che rinviava ad un modello di vita teatrale
diffuso nel secolo precedente. Nel corso dell’Ottocento il teatro aveva
modificato la sua funzione e da contenitore degli umori popolari, alla fine del
secolo, era diventato lo specchio della società borghese che assisteva agli
spettacoli. Infatti i teatri erano aperti a tutti e la vendita dei biglietti era libera: è
qui che si forma il nuovo pubblico borghese per provenienza e per cultura che
dalla seconda metà del XVIII secolo è diventato classe dominante e si riconosce
culturalmente nel dramma borghese e nel romanzo psicologico.
Sono gli anni del teatro verista di Verga, Capuana, Giacosa, Rovetta, quando si
afferma un dramma psicologico d’importazione francese, un teatro di buoni
sentimenti basato su personaggi borghesi dei quali, spesso, veniva mostrata la
lealtà e l’onestà interiore. Campione di questo filone fu Il padrone delle
ferriere di Georges Ohnet, che aveva trionfato a Parigi nel 1883, ed è il testo di
maggior successo in Italia tra Otto e Novecento. La nuova dimensione pubblica
della borghesia spinge verso un nuovo comportamento in sala: bisogna
contenere la spontaneità e le reazioni del pubblico, che conduce al “controllo
silenzioso delle emozioni. Non bisogna parlare durante lo spettacolo e la luce è
soffusa in modo da far concentrare l’attenzione sulla scena. Negli anni Novanta
le luci si spengono completamente nei teatri e si accendono quelle dei café –
chantant.
Dal punto di vista estetico la scena dei due primi decenni del nuovo secolo
avrebbe offerto un teatro disomogeneo dove convivevano varie tendenze: era
ancora forte la presenza del teatro leggero francese spesso imitato da molti
drammaturghi italiani, che però avevano rinunciato a quel ruolo di denuncia e
critica sociale assolto dalla drammaturgia verista del secolo precedente. Accanto
al predominio dei testi di evasione, vi era l’esperienza di provati commediografi,
come Roberto Bracco o Dario Niccodemi che riscuotevano successo; i futuristi
conducevano i loro esperimenti, mentre alcuni lavoravano per un “teatro di
poesia” (Gabriele D’Annunzio). Pirandello, voleva un teatro che scardinasse il
senso comune del pubblico e per fare ciò doveva modificare le tecniche,
inventarsi un teatro nuovo.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, il sistema teatrale che si affermò dopo
l’unità nazionale, era giunto alla fine della sua spinta innovativa; serviva allora
una ristrutturazione della vita teatrale. I cambiamenti dovevano essere radicali in
quanto era in discussione la funzione, il senso del teatro all’interno di una
società anch’essa in trasformazione.
Gramsci, in varie occasioni, aveva richiamato l’attenzione sulle conseguenze
determinate dall’avvenuta industrializzazione del teatro: la compagnia
drammatica, un tempo fondata su rapporti di carattere familiare e artigianale
caratterizzati dalla trasmissione dell’esperienza lavorativa dal maestro
all’allievo, mostrava nel primo dopoguerra un nuovo profilo. A dominare ora
erano i nuovi sistemi di relazione, assimilabili ai vincoli che legano
l’imprenditore ai lavoratori salariati, tra loro divisi dalle regole della
concorrenza. Gramsci dice che si parla di depravazione del gusto, di decadenza
dei costumi, di dissoluzione artistica. L’origine di questi fenomeni è da ricercare
nel cambiare dei rapporti economici tra l’impresario del teatro, diventato
industriale associato in un trust, il capocomico diventato mediatore e i comici
sottomessi alla schiavitù del salario.
Del trinomio produzione, prodotto, consumo il teatro elimina il secondo. A
teatro infatti il momento della produzione e del consumo coincidono: lo
spettacolo teatrale non esiste mai come prodotto in sé e quindi non si può
produrlo in un tempo diverso da quello in cui si consuma. Per
industrializzazione del teatro si intende, allora, la riorganizzazione del sistema
di produzione e di distribuzione: nel caso italiano, il superamento della famiglia
d’arte come principale strumento produttivo ed il controllo del mercato da parte
di alcuni grandi impresari che riescono ad attivare logiche di monopolio.
Da questo punto di vista erano già emersi nell’800 alcuni segni di
trasformazione delle compagnie, formate da nuclei familiari che si
tramandavano le esperienze, le tecniche e i codici espressivi. Quei segnali
indicavano un diverso status sociale dell’attore che cominciava a riconoscersi e a
proporsi come lavoratore individuale in un rapporto più diretto con la società
civile. Tra Otto e Novecento era iniziato il processo di mutazione interna della
corporazione teatrale. All’inizio del secolo, parallelamente allo sviluppo del
movimento operaio e delle idee socialiste in Italia, anche nel mondo teatrale,
erano nate le prime forme di associazionismo e di battaglia sindacale tra gli
attori e i capocomici, veri responsabili del teatro.
Opponendosi alla tradizione corporativa del teatro, che prevedeva che i comici
italiani formassero una famiglia unica, spuntarono i primi germogli sovietici che
giungevano a noi prematuramente. Da quei fermenti era nato un discreto livello
di organizzazione sindacale del settore.
Una tappa importante, in tale direzione, fu raggiunta nel 1917, quando la Lega di
miglioramento fra gli artisti drammatici socialisti e l’Associazione dei
capocomici sottoscrissero un “Contratto di locazione d’opera” in cui il
capocomico si impegnava a stipulare, anche nel caso di artisti di una stessa
famiglia, una scrittura di tipo individuale. Questo documento dovrebbe indicare
la scomparsa della famiglia d’arte dal punto di vista istituzionale.
Il riconoscimento all’attore di uno stato giuridico di tipo individuale era stato
sancito all’interno di varie riorganizzazioni interne al mercato teatrale, che nel
1916 avevano condotto, alla nascita e all’affermazione di un Consorzio per la
gestione delle principali sale italiane, fondato da Giuseppe Paradossi insieme ai
fratelli Chiarella e alla ditta Suvini – Zerboni. La nuova società controllava
direttamente molte sale di Milano (il Teatro Olimpia), di Torino (il Teatro
Carignano) e di Roma (il Nazionale), ai quali si affiancavano i principali teatri
bolognesi, il Teatro Biondo di Palermo, il Politeama Giacosa di Napoli ed il
Politeama Margherita di Genova. Il monopolio dei maggiori teatri italiani era
quasi completo considerando che nel 1923 un’indagine ministeriale segnalò
l’esistenza di 23 sale primarie, 213 di seconda categoria e 1244 di terza,
soprattutto nelle regioni centro settentrionali e nelle maggiori aree urbane. I
capocomici più volte protestarono richiedendo il ritorno alle forme contrattuali
precedenti l’affermazione del Consorzio, noto come trust. Per loro c’era chi si
immischiava nelle compagnie senza averne diritto. Questi temi costituirono la
base delle discussioni tra le rappresentanze associative e sindacali delle diverse
categorie. Gli anni del primo dopoguerra furono pieni di dibattiti coinvolgenti i
proprietari dei teatri, i capocomici, i rappresentanti dei lavoratori, gli autori e gli
organizzatori. Allora si capì che bisognava giungere ad una determinazione
chiara dei ruoli e dei diritti di ciascuna categoria. Rivelatrici di questa necessità
furono la nascita della Confederazione nazionale dei lavoratori dello spettacolo,
a Milano nel 1920, sotto l’impulso di Giulio Trevisani e le discussioni sul nuovo
contratto di locazione dei teatri. I proprietari, rappresentati da Giuseppe
Paradossi, polemizzarono con l’Associazione capocomici italiani.
L’Associazione dei capocomici aveva solidarizzato con il movimento sindacale
dei lavoratori, pur dichiarando alcune riserve e sforzandosi di introdurre nelle
contestazioni un tono più conciliativo. Di fronte a questa insolita coalizione i
proprietari dei teatri si erano alleati con gli autori, interessati allo stesso modo
alla riduzione del potere dei capocomici sui repertori. La polemica aveva
condotto a un nuovo contratto di locazione, accettato con fatica da tutte le parti
in causa nel 1921. Il contratto assegnava al capocomico le spese della
compagnia, materiale scenico, viaggi, trasporti, trovarobato, montaggio e
smontaggio delle scene; a carico del teatro spettava l’illuminazione del
palcoscenico e della sala e il personale, le spese pubblicitarie e il riscaldamento
del teatro fino a 15 gradi nella sala e 18 in palcoscenico, pompieri, 2 pianoforti,
servi di scena. Gli accordi economici venivano rimandati ad una ripartizione
concordata in percentuale degli incassi, mentre i capocomici dovevano inviare al
teatro, almeno 15 giorni prima delle repliche, l’elenco artistico con le novità e a
parte, il repertorio, dal quale verranno scelti progressivamente, di comune
accordo, gli spettacoli. La clausola tendeva ad assegnare ai proprietari delle sale
un maggior condizionamento sulla scelta dei repertori. Il potere del Consorzio si
era esteso alla supervisione dei repertori delle compagnie, il cui programma
artistico dopo il 1921 cominciò ad essere sottoposto alle esigenze delle tournées
organizzate dagli agenti mediatori. La limitazione del ruolo dei capocomici
trovò una prima formalizzazione legale. Nel 1923, la sconfitta della
Confederazione nazionale dei lavoratori del teatro, socialista, fu definitiva.
Allora la rappresentanza sindacale dei lavoratori fu assunta dalla Corporazione
nazionale del teatro, fondata nel 1921 dove confluirono l’Associazione
proprietari di teatro, la Società italiana autori e l’Associazione artisti
drammatici, dove parteciparono molti rappresentanti della Confederazione dei
lavoratori del teatro. La nuova organizzazione sindacale fascista voleva ridare
vita e forza al teatro italiano. L’affermazione del fascismo sul piano politico e
quella della Corporazione nazionale del teatro sul piano sindacale posero fine
alla trattiva degli interessi tra le varie categorie.
2. GLI INTERVENTI DELLO STATO NEL PRIMO DOPOGUERRA
Nei confronti del sistema teatrale l’età liberale era stata caratterizzata da una
presenza statale limitata solo all’ambito legislativo. Per tutto l’800 il teatro di
prosa non aveva nessuna sovvenzione governativa; raramente i Municipi
concedevano qualche finanziamento alle iniziative. L’intervento finanziario più
regolare consisteva nel premio agli autori drammatici vincitori dei concorsi
nazionali. Furono mantenuti in vita i concorsi iniziati da Cavour nel 1853 in
base a un accordo con la Compagnia Reale Sarda e la pratica dei concorsi
continuò fino al 1898, quando ne fu tagliata la voce dal bilancio dello Stato.
Il mondo teatrale aveva teso ad organizzare automaticamente alcuni servizi
importanti come la regolamentazione del diritto d’autore (la costituzione della
SIAE, privata, è del 1882) e l’assistenza sociale; la Società di previdenza degli
artisti drammatici fu fondata nel 1891. La formazione professionale era l’unico
aspetto del teatro verso il quale i governi liberali avevano dato attenzione. Nel
1908, infatti, si era inaugurata a Roma una scuola di Recitazione annessa al
Regio Conservatorio Musicale di Santa Cecilia.
Tale atteggiamento, traspariva dalle posizioni di un politico come Ferdinando
Martini, avversario nel 1888 di ciò che lui chiamava “la fisima del Teatro
Nazionale”, cioè ogni ipotesi di teatro sovvenzionato dallo Stato. Martini,
invitando a tener conto del fatto che l’Italia era uscita da poco dalle guerre
d’unità nazionale, diceva che solo quando la vita italiana avrà preso aspetti
propri, allora forse scatterà fuori la commedia, come immagine di un nuovo
stato sociale.
Il clima del dopoguerra condusse, parallelamente alle polemiche fra le varie
categorie professionali del teatro, ad una prima presenza dello Stato nelle
vicende teatrali. Nel 1919 il governo Nitti rilanciò il Sottosegretariato per le
antichità e le belle arti al quale era affidata la cura del settore teatrale; nel 1920-
22 sotto la guida di Giovanni Rosadi, un avvocato molto legato agli ambienti
teatrali, il lavoro della Commissione permanente per le arti musicali e
drammatica, istituita nel 1912, suscitò speranze di un aiuto dello Stato alle sorti
del teatro. Il Sottosegretariato fece due interventi importanti: nel maggio del
1920 un decreto legge dispose che nelle province, il cui capoluogo avesse più di
300.000 abitanti, il governo potesse imporre un’addizionale ai diritti erariali sui
biglietti degli spettacoli musicali e drammatici, il cui importo sarebbe stato
devoluto a favore degli enti autonomi e delle associazioni locali che avessero
gestito un teatro lirico d’importanza nazionale senza fini di lucro.
Nel 1921 venne affidato al Sottosegretariato delle belle arti il potere di assegnare
un contributo di 200.000 lire a favore di organismi, istituti e compagnie liriche e
di prosa. La Commissione permanente per le arti teatrale e musicale, aveva
sottolineato la crisi finanziaria ed artistica delle compagnie di prosa,
denunciandone la decadenza causata dal progressivo esaurimento della
tradizione dei figli d’arte. L’organo ministeriale aveva bandito un concorso per
selezionare il complesso drammatico maggiormente capace di esprimere dal
novembre 1921 al carnevale 1923 un progetto di adeguato livello artistico in cui
almeno la metà delle rappresentazioni fossero rivolte al repertorio italiano. Il
premio di 120.000 lire, rateizzato in 3 parti, fu assegnato alla Compagnia
Nazionale Talli – Ruggeri – Borelli, alla quale andò la prima sovvenzione
pubblica al teatro di prosa in Italia. Il concorso fra le compagnie drammatiche
aveva suscitato il dissenso dei socialisti, ma anche forti perplessità tra le stesse
compagnie. L’Associazione dei capocomici italiani del teatro di prosa, aveva
contestato l’assenza nella commissione di un attore o di un vero capocomico
militante e la scelta di premiare una sola compagnia. L’Associazione aveva
chiesto che la somma fosse invece divisa equamente fra le compagnie che
avessero dato prova di un sano indirizzo d’arte, concludendo che un simile
sussidio non poteva risolvere il problema della vitalità della scena di prosa
italiana, ma che necessitasse da parte del governo un più efficace interessamento
come la fondazione di un vero Teatro di Stato.
Fino ad allora l’Italia era stata l’unica nazione europea dove le istituzioni
pubbliche si erano disinteressate del teatro lirico e drammatico.
Per gli esercizi successivi al 1920-21 era stata previsto, a seguito
dell’approvazione di un nuovo decreto fiscale che fissava nel 10% dell’incasso
lordo il diritto erariale, un gettito di circa 20 milioni, la cui riscossione era stata
appaltata alla Società Italiana degli Autori. È in questo contesto contraddittorio
che bisogna collocare lo sforzo effettuato da Rosadi, primo funzionario pubblico
che denunciò l’avarizia dello Stato verso il teatro, che è l’arte da cui l’Erario
ricava le maggiori somme.
Le intenzioni del Sottosegretariato alle belle arti erano molto più ambiziose, ma
non avevano incontrato il consenso di Benedetto Croce, il quale Rosadi più volte
aveva esortato a legare il suo nome ad una riforma che rimarrebbe storica. I
buoni propositi di Rosadi si erano estesi alla riforma della legge Baccelli, che
aveva ripristinato nel 1919 il vecchio concorso fra gli autori drammatici con un
premio annuo di 6.000 lire; in questo caso la sezione drammatica della
Commissione permanente aveva proposto di accumulare le somme delle stagioni
1920-21-22 e, in previsione, quelle relative al 1922-1923 con l’obiettivo di non
premiare un lavoro di successo ma contribuire alla messa in scena di un’opera
ancora sconosciuta e meritevole di essere notata. In realtà il fine della proposta
era quello di limitare i poteri dei capocomici, affermando una diversa autonomia
del testo. In questo modo la scelta della Commissione avrebbe premiato un
copione mai rappresentato così da scavalcare le pretese delle compagnie nel caso
il concorso fosse stato aperto a tutte le opere drammatiche presenti nei repertori.
Si affermava la tendenza ad emancipare gli autori dal potere dei capocomici.
Giovanni Rosadi e Silvio D’Amico esprimevano le esigenze di riforma del
sistema teatrale nazionale verso un deciso intervento dello Stato, una
riorganizzazione dei luoghi formativi, una lotta al nomadismo delle compagnie,
visto come elemento determinante della scarsa qualità delle opere allestite, a
favore di nuovi concetti di stabilità.
Fu rilevante il progetto di un “Teatro dei giovani” previsto nel maggio 1921 al
Teatro Argentina da d’Amico, basato sulla creazione di un teatro stabile rivolto
ai giovani attori ed ai nuovi autori, nel quale si era tentato di coinvolgere
Eleonora Duse.
Il “Teatro dei giovani” avrebbe dovuto favorire l’incontro intorno alla Duse di
un autore come Pirandello, di attori come Armando Falconi e Maria Melato, di
un organizzatore come Paolo Giordani. La novità del progetto era il desiderio di
fare della Duse il perno del nuovo teatro. Probabilmente questa strategia di
inserimento della Duse nel gruppo dei riformatori romani, sul piano pratico, era
stata elaborata in relazione alla sovvenzione prevista da Rosadi nello stesso
anno, a gennaio. La forza del fronte riformatore aveva fatto naufragare il
progetto, ma avevano anche pesato le titubanze della grande attrice che non
accettava l’eccessiva pianificazione della vita teatrale.

3. TEATRO E FASCISMO NEGLI ANNI VENTI


Per tutti gli anni Venti la crisi sempre più profonda del modello tradizionale
legato all’organizzazione di tipo capocomicale ed al nomadismo delle
compagnie si accompagnò alla battaglia che il gruppo dei riformatori (formato
da autori, critici e politici) condusse per rivalutare i commediografi italiani
contro il predominio francese e per limitare l’abuso attoriale nei confronti del
testo. Dalla seconda metà del XIX secolo, la preminenza del teatro francese è
incontestata nel mondo. Dumas, Augier, Sardou, Rostand furono gli autori più
rappresentati in Italia fino all’intervento fascista sui repertori; gli stessi autori
italiani in voga tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, Ferrari, Rovetta, Praga non
seguirono la tecnica e le orme del teatro francese.
Prima e dopo la guerra, per quanto riguarda la drammaturgia, si voleva
affermare un repertorio italiano originale capace di riqualificare la scena
nazionale. L’esperienza pirandelliana trovava varie corrispondenze in opere
come Marionette, che passione! del 1918 di Rosso di San Secondo o La
maschera ed il volto di Chiarelli del 1926, oppure nel Teatro di Massimo
Bontempelli. Tutti loro aspiravano a un teatro borghese che esprimesse il senso
tragico della vita: insieme a Pirandello ed al gruppo dei “grotteschi” (Luigi
Chiarelli, Luigi Antonelli, Enrico Cavacchioli) in quell’epoca si affermò l’idea
dei teatri d’arte della scrittura scenica post-verista, della rifondazione del teatro
dialettale, dello sperimentalismo storico.
Questo fermento italiano corrispondeva in tutta Europa ad un periodo di forte
cambiamento sul piano del linguaggio, delle ricerche, degli esperimenti. Grande
influenza sul teatro ebbero le avanguardie figurative.
L’assenza del regista continuava a distinguere l’insieme dei movimenti interni al
teatro italiano di quell’epoca. Proprio forse questa assenza rese difficile un
diverso livello di rapporto fra gli autori e le compagnie di tradizione, rendendo
impossibile una libera rigenerazione della scena al di fuori di interventi statali
esterni al mondo del teatro. Questa ipotesi era resa impraticabile dalle difficili
condizioni economiche in cui si trovava il teatro, che durante gli anni Venti vide
diminuire il suo pubblico a vantaggio del cinema. Le compagnie italiane
vivevano un disagio sempre più grave, laddove si stava affermando a cavallo tra
i 2 secoli, in Europa, come elemento innovativo del sistema scenico, una nuova
idea di teatro stabile, sotto la guida di una regia critica. Un teatro, quasi sempre
d’ispirazione simbolico – idealista, che reagiva al naturalismo proponendo,
attraverso la regia, una rifondazione delle estetiche, dei tempi e delle modalità
produttive.
Diversamente nell’Italia del primo dopoguerra, solo in alcune esperienze di
teatri d’arte o d’eccezione, troviamo attivati i germi di quelle tendenze
riformatrici. In quei piccoli teatri apparì per la prima volta il regista: pensiamo al
Teatro d’arte di Pirandello (fondato nel 1925) ed il Teatro degli Indipendenti di
Anton Giulio Bragaglia (attivo fin dal 1922), entrambi a Roma, ed al Teatro del
Convegno (1924-1931), della Sala Azzurra (1924-25) e della Piccola
Canobbiana (1924) che operarono a Milano. In queste ultime si sperimentò un
rapporto originale con le principali ricerche europee, operando per una scrittura
scenica che rifiutava sia il realismo borghese, sia l’illusionismo scenografico e
mattatoriale e aderiva ad una scrittura simbolica; i teatri d’arte milanesi però non
riuscirono a radicarsi nel tessuto sociale cittadino e nazionale per la loro
debolezza strutturale e per la scarsa attenzione e il mancato sostegno del mondo
teatrale e politico italiano.
Le varie esperienze dei teatri d’eccezione furono realizzate in un clima di
separatezza fra l’iniziativa privata di alcuni uomini di teatro e l’azione
istituzionale dello Stato. Nel 1921 la Compagnia Nazionale Talli-Ruggeri-
Borelli oltre a varie riprese, aveva presentato importanti novità italiane: al
Teatro Argentina di Roma nel 1922 la Parisina di D’Annunzio e l’Enrico IV di
Pirandello; nel 1923 Nastasia e la prima di Vestire gli ignudi. Nonostante il
repertorio impegnativo, quell’esperienza suscitò molte perplessità. Alla
Compagnia Nazionale mancava un suo carattere: non disse una parola nuova,
non rivelò nuovi autori e i suoi vari elementi non si sono sempre fusi in un tutto
armonico.
La compagnia Talli – Ruggeri – Borelli si sciolse nel 1923, alla fine della
stagione teatrale e la Commissione permanente, che aveva assegnato piccoli
sussidi ad altre iniziative, come il Teatro greco di Siracusa, decise di non
ripetere l’esperimento, pur sottolineando che lo Stato potrebbe fare di più l’Arte
drammatica se solo avesse più fondi.
Nel dicembre del 1922, il governo di Mussolini soppresse la Commissione
permanente per le arti musicali e drammatiche e del Sottosegretariato per le
antichità e le belle arti; nel 1925 però aveva confermato il decreto del gennaio
1921 affidando la stessa cifra di 200.000 lire al Ministero della Pubblica
Istruzione affiancato dal parere consultivo di una Commissione centrale per le
antichità e le belle arti dove troviamo per la stagione di prosa 1924-25 ancora
Pirandello, Praga e Simoni. Nel 1928 questa somma non variò.
Il quadro delle sovvenzioni pubbliche al teatro drammatico non si limitava però
alle concessioni del Ministero della Pubblica istruzione; nel corso degli anni
Venti, infatti, anche i Ministeri dell’Economia nazionale, le Corporazioni e la
Presidenza del Consiglio diedero contributi a compagnie e teatri. Per esempio
nel 1925, un provvedimento affidava al Ministero dell’Economia nazionale un
fondo di 2 milioni di lire ricavato dal 5% degli incassi da opere cadute in
pubblico dominio e destinato ad incoraggiare autori, enti ed istituti che avevano
eseguito o promosso opere importanti per la cultura e per l’industria. Nel 1927
erano stati stanziati dal Ministero dell’Economia Nazionale premi per oltre
850.000 a vari teatri importanti, ad autori drammatici, e ai vari enti e società
orchestrali e liriche.
La logica dei premi, che furono soppressi nel 1941 con l’ulteriore riforma del
diritto d’autore, ed i passaggi delle varie competenze dimostravano la mancanza
durante gli anni Venti di un chiaro referente istituzionale che si prendesse cura
del sistema teatrale nazionale. Il Ministero dell’Interno, attraverso le prefetture,
controllava le questioni relative all’ordine pubblico e alla censura, il Ministero
dell’Educazione nazionale si occupava della preparazione professionale e
dell’attività musicale, mentre dal 1929 il Ministero delle Corporazioni curò gli
aspetti imprenditoriali del teatro. Dal punto di vista della rappresentanza delle
categorie, i sindacati svolgevano una politica autonoma. Infine, organismi come
l’Accademia d’Italia, soprattutto per quanto riguardava premi, sovvenzioni e
iniziative culturali importanti, e soprattutto l’OND, erano fondamentali per il
teatro.
I finanziamenti improvvisati non consentirono un intervento costante, finalizzato
a riorganizzare la scena. La negativa esperienza vissuta da Pirandello con il suo
Teatro d’Arte nato nel 1925, dimostrava la precarietà di questa prassi
amministrativa. Nel 1929 la Sezione del Consiglio Superiore dell’Arte musicale
e drammatica del Ministero della Pubblica istruzione, nell’intento di assegnare
contributi forfettari al teatro lirico e drammatico, promosse il censimento dei
teatri sovvenzionati a livello nazionale per conoscere i contributi di patrimonio e
denaro pubblico che in tutte le province erano dati con la rinuncia ai teatri
comunali e ai servizi annessi, con contributi e sovvenzioni di qualsiasi genere, di
pubblico denaro e i vari tipi di gestione dei singoli teatri e i bilanci delle
gestioni.
L’indagine serviva per la ripartizione di un fondo di un milione di lire per il
quale l’organismo ministeriale aveva già stabilito i criteri:
1) Opportunità di non disperdere i sussidi in piccole somme e di escludere i
sussidi personali;
2) Preferire, nelle istituzioni musicali, quelle non teatrali, per le quali giovano
solo sovvenzioni notevoli; quindi preferire le istituzioni corali, per concerti
sinfonici e da camera;
3) Lasciar libera la Commissione di scegliere istituzioni vitali e meritorie e
che garantiscono lo sviluppo, soprattutto nel teatro drammatico.
L’iniziativa voleva anche superare l’assenza e l’indifferenza dello Stato per
riconoscere l’intervento e l’aiuto di questo nei contributi del denaro pubblico sia
erogato direttamente sia concesso attraverso i comuni o altri enti controllati dallo
Stato. L’indagine, realizzata in collaborazione con le prefetture del regno per
conto del Ministero della Pubblica istruzione, censì solo le sale teatrali sostenute
finanziariamente dai comuni di appartenenza. Dalle risposte emersero dati
importanti sul piano territoriale: in Piemonte i teatri finanziati erano 7, 7 in
Lombardia e 20 in Emilia Romagna, a testimonianza della grande diffusione del
teatro, soprattutto lirico, in quella regione. Dieci risultarono i teatri
sovvenzionati nelle Marche, mentre grave apparve la situazione nel Meridione
che dichiarò un solo teatro a contributo pubblico in Abruzzo e in Puglia. Il
censimento fornì informazioni d’ordine quantitativo sulle stagioni nelle
principali città: nel caso di Milano, ad esempio, molti teatri risultarono gestiti
dalla società Suvini – Zerboni che organizzava nelle sale più importanti come il
Manzoni o l’Olimpia, stagioni di oltre 300 serate l’anno; gli incassi del 1928
risultarono elevati nell’ordine dei 2 milioni di lire, con circa 7000 lire di media
ad ogni rappresentazione di prosa. Erano però cifre lontane dalle 73.000
incassate dalla Scala per ognuna delle 144 serate liriche organizzate nella stessa
stagione. La Scala dichiarava nel 1928 un sovvenzionamento medio annuale di
350.000 lire da parte del Comune di Milano, mentre nessun sostegno pubblico fu
dato ai teatri gestiti dalla Suvini – Zerboni.
Su oltre otto milioni di lire di contributi assegnati al teatro italiano nel 1929, solo
800.000 andavano all’attività di prosa e il resto al teatro lirico: l’opera si
presentava ancora come il grande teatro nazionale e popolare italiano,
affermatosi nell’800. Nel campo della lirica, Mussolini, nel 1926 lo Stato aveva
acquistato a Roma il Teatro Costanzi, l’attuale Teatro dell’Opera, per
trasformarlo nel 1929 in Teatro Reale, primo ente lirico stabile sovvenzionato
dallo Stato. Da allora a quel teatro furono dati molti contributi pubblici annuali e
alla sua guida furono messi figure importanti come Pietro Mascagni. Su binari
analoghi viaggiava la Scala di Milano, il Teatro Politeama di Firenze, del San
Carlo di Napoli, del Petruzzelli di Bari. Per la prima volta nel 1929 la Sezione
del Consiglio Superiore per l’Arte musicale e drammatica aveva proposto un
coordinamento dei teatri principali sotto la tutela del Ministero della Pubblica
istruzione che doveva controllare la qualità dei programmi artistici.
Rispetto al teatro drammatico la Sezione confidava molto sul nuovo ruolo della
SIAE che, avendo avuto il compito di esazione delle percentuali sugli incassi
degli spettacoli, ora le venivano dati i mezzi e l’autorità per proporre un
intervento a favore del Teatro drammatico. La riorganizzazione della Società
italiana degli autori era stata fondamentale per consentire l’avvio di una politica
governativa sulle attività teatrali; l’opera di riforma della Società autori ed
editori, nel 1926 diventata SIAE, si inseriva nella ristrutturazione della politica
culturale della dittatura che nel biennio 1925-26 creò varie istituzioni culturali.
La Società degli autori venne resa pubblica dopo un aspro braccio di ferro tra
Marco Praga, presidente della Società fino al 1922 e Adolfo Re Riccardi,
imprenditore ed organizzatore teatrale; quest’ultimo, grazie ai contatti con la
Francia aveva acquistato gran parte dei diritti di rappresentazione sulle opere del
teatro leggero francese, quel teatro di vaudeville e di pochade che, per la sua
ampia diffusione in Italia, faceva concorrenza al repertorio nazionale. La vittoria
di Praga su Re Riccardi, con il conseguente acquisto dei diritti sul repertorio
francese, consentì un notevole rafforzamento della Società che Mussolini
trasformò in ente pubblico. Il rilievo di questo atto è legato alla nuova
importanza assunta negli anni Venti dalla Società degli autori sia per quanto
riguardava il controllo dei repertori sia per la riscossione dei diritti erariali sugli
spettacoli, funzione assegnata alla Società italiana degli autori.
La decisione sottolineava la situazione contraddittoria dove il mondo teatrale
apportava alle casse dello Stato notevoli provvidenze, ricevendone in cambio un
sovvenzionamento scarso e saltuario. Nel 1928 ci fu un provvedimento
legislativo sulla proprietà dei teatri comunali che voleva limitare i danni derivati
dalla proprietà privata dei palchi da parte delle famiglie ricche, secondo
un’abitudine ottocentesca che, all’epoca della costruzione dei teatri, aveva
favorito attraverso la società dei palchettisti, forme miste di comproprietà delle
sale. Il decreto stabiliva che i comuni proprietari dei teatri, dove esistevano
palchi, logge di proprietà privata potessero chiedere ai palchisti, in favore delle
imprese, un contributo per ogni spettacolo, riscuotibili anche nel caso in cui i
palchi non venissero occupati dal proprietario. Il contributo era commisurato al
75% del prezzo del biglietto previsto dall’impresa organizzatrice per ogni palco,
ma i palchisti potevano evitare di pagare questo contributo cedendo l’uso del
palco, loggia all’impresa per la durata del corso degli spettacoli.
La decisione governativa era stata stimolata dal comune di Reggio Emilia che
aveva avviato in tale direzione, fin dal 1926, una serie di contatti con il
Ministero della Pubblica istruzione e la Corporazione nazionale del teatro; molti
comuni del regno avevano poi aderito. Il provvedimento del 21 giugno 1928
sulla proprietà dei teatri comunali era stato motivato dagli ambienti governativi
con l’esigenza di aiutare la crisi che minaccia il teatro italiano. Le decisioni
precedenti il decreto avevo chiarito che la scelta invitava i palchettisti a
contribuire alle spese necessarie per la programmazione delle stagioni teatrali
promosse dai Comuni. In realtà il governo, muovendosi in una inedita logica
d’intervento pubblico nella vita teatrale, apriva la strada all’espropriazione da
parte dei comuni. Il comune era stato autorizzato a chiedere l’espropriazione di
tutti i palchi del Teatro della Scala per causa di pubblica utilità. Nel 1937 ciò fu
formalizzato da un decreto governativo.
Il biennio 1928-29, con il decreto sui teatri comunali e con una presa di
posizione della Sezione del Consiglio superiore per l’arte drammatica e musicale
sul bisogno di coordinare il sistema dei finanziamenti, mostrò la nuova
considerazione che il governo di Mussolini stava iniziando a dare al teatro. Fino
ad allora la discontinua attenzione rivolta al teatro drammatico, non aveva
comunque impedito al Fascismo di mantenere stretti i rapporti con i protagonisti
della scena; quindi non stupisce vedere tra i firmatari del Manifesto degli
intellettuali fascisti i nomi di Niccodemi, Romagnoli, Paolo Giordani,
Pirandello. Le posizioni di importanti registi come Bragaglia o Forzano, di attori
come Viviani o Petrolini e della maggior parte dei drammaturghi, si
caratterizzarono per la loro esplicita adesione al fascismo. Nel 1929 Marinetti,
Banchelli, Pirandello, Di Giacomo, Simoni e Bontempelli furono nominati
“Accademici” d’Italia. L’atteggiamento degli uomini di teatro italiano verso il
potere di Mussolini non si distinse, e ciò vale anche per gli anni Trenta, per
particolari differenziazioni rispetto alle scelte politiche del regime. Da un punto
di vista politico, il teatro italiano dovette adeguarsi al potere dominante.
Alla fine del decennio il settore lirico era maggiormente collegato all’intervento
pubblico attraverso la creazione degli Enti stabili, mentre la riorganizzazione del
teatro drammatico appariva lenta e incerta. L’impressione è che all’inizio il
governo fascista abbia realizzato nel teatro drammatico un’opera di controllo
burocratico – legislativo e di inquadramento giuridico – sindacale.
È stato sottolineato come nella prima metà degli anni Venti le organizzazioni
sindacali avessero rappresentato il mezzo principale di elaborazione e attuazione
di una prima politica fascista nei confronti del teatro. Una funzione
fondamentale in tale direzione era stata svolta dalla Corporazione nazionale del
teatro che sotto la direzione di Luigi Razza, aveva spostato la battaglia sindacale
su un terreno economico. Nel 1925 l’associazione fascista aveva dichiarato 21.
427 aderenti organizzati su base provinciale e regionale, riunendo tutte le
rappresentanze delle categorie dello spettacolo. L’organo corporativo voleva
approntare una forma di disciplina nell’attività teatrale attraverso un rigido
controllo sulla formazione delle compagnie e nell’esercizio del capocomicato;
l’obiettivo era stato il riconoscimento del governo come prossimo organismo
statale a cui affidare funzioni di carattere rappresentativo, tutorio e legislativo
nell’ambito delle attività teatrali.
Le idee di Razza tendevano ad una sorta di corporativismo integrale,
manifestatosi anche alla fine del 1925 con l’apertura dell’organizzazione ai
lavoratori del cinema. Il progetto si scontrò con la legge del 3 aprile 1926, che
stabilendo il riconoscimento giuridico del sindacato come organo dello Stato,
sancì definitivamente il monopolio fascista della rappresentanza sociale
attraverso associazioni che non prevedevano l’unione fra lavoratori e datori di
lavoro. Secondo Razza Legge e Regolamento invece di unire, dividevano. E
secondo lui, loro dovevano dividersi in omaggio alla disciplina, rinunciando ad
una conquista che era alla base del programma fascista.
Alla fine della riorganizzazione sindacale la Corporazione fu divisa in 3
organismi: la Federazione nazionale fascista degli industriali del teatro e del
cinematografo che comprendeva proprietari, esercenti, capocomici ed impresari,
la Federazione nazionale fascista dei prestatori d’opera, rivolta ad associare gli
attori e i tecnici, mentre i drammaturghi, gli sceneggiatori e i compositori furono
organizzati nella Federazione nazionale fascista degli autori del teatro e del
cinematografo. La prima associazione fu inserita nella Confederazione nazionale
dell’industria e le altre 2 nella Confederazione dei sindacati fascisti.

CAPITOLO SECONDO
IL TEATRO NON DEVE MORIRE

1. I DATI DELLA CRISI


La politica sindacale fascista e gli interventi legislativi del governo di Mussolini
accompagnarono la crisi di pubblico e di linguaggio scenico che caratterizzava il
teatro negli anni Venti ed alla quale cercarono di reagire i progetti di riforma che
furono elaborati da organizzatori, critici ed artisti del teatro. Nel 1922 avevano
agito sul mercato italiano 55 complessi professionali d’arte drammatica e 22
compagnie d’operetta; nel 1924 erano attive 67 compagnie teatrali professioniste
+ 11 formazioni dialettali di riconosciuto livello: dalla Commedia veneziana a
Leopoldo Fregoli, da Augusto Novelli ad Angelo Musco. Accanto alle
compagnie di prosa, sul mercato nazionale vi erano 39 compagnie di operetta
fino ad un totale di 117 formazioni professioniste in giro per l’Italia. Nel 1927
un censimento individuò l’esistenza di 46 compagnie primarie, tra le quali 29 in
Lombardia e nel Lazio e 3 nel Meridione.
Nel suo Teatro e fascismo Alberto Ghislanzoni constatava come lo
scioglimento delle compagnie di prosa avesse superato le 15 unità nel 1928 ed
auspicava da parte del regime l’opera di chiarificazione, ordinamento e
moralizzazione del teatro italiano, in modo da salvarlo dalla rovina. Poi descriva
una situazione dove dominavano avventurieri per i quali il teatro non è più
visione d’arte, non serve per educare il popolo, per giungere alla conclusione
che il fascismo non aveva ancora permeato il teatro. Fra gli autori, artisti,
impresari ci sono i fascisti, ma il teatro non è fascista.
La scena drammatica e lirica era giunta alla soglia degli anni Trenta indebolita
da una crisi finanziaria e di pubblico che colpiva un mercato sempre più
sottoposto a logiche di monopolio, soprattutto evidenti nel sistema di
circuitazione delle compagnie. Esemplare il caso di una delle società anonime
più importanti del tempo, diretta da Giuseppe Paradossi che alla fine degli anni
Venti gestiva le programmazioni dei maggiori teatri dell’Italia settentrionale e
centrale. La Società Paradossi per delega affidatagli dalla Società Suvini –
Zerboni per i teatri di Venezia, Milano e Napoli viene a disporre dei giri delle
compagnie di prosa e di operetta, e dalle sue agenzie di Bologna e di Milano ne
fissa con precisione il movimento e le piazze. Alle agenzie controllate da
Paradossi le compagnie erano tenute a corrispondere il 3% degli incassi a
rimborso della mediazione.
Un sistema di tipo monopolistico controllava anche l’operetta, condizionata da
meccanismi produttivi ambigui a causa della tendenza diffusa a plagiare i
repertori stranieri.
In maniera analoga il regime di monopolio si era esteso alla lirica, dove la Casa
Ricordi controllava il noleggio di quasi tutte le partiture: l’intero mondo dello
spettacolo era dominato dalla progressiva concentrazione del potere economico
nelle imprese più forti.
I dati statistici confermano che in quegli anni la crisi dello spettacolo si stava
risolvendo a vantaggio delle nuove forme di intrattenimento di massa, come lo
sport e il cinema. Il cinematografo si diffuse con ritmi molti intensi ma non
senza difficoltà come quelle vissute nel 1930 – 31 a causa dei costi
d’installazione dei nuovi impianti audio. L’avvento del sonoro, comunque,
consentì la sua affermazione definitiva come la forma di spettacolo
maggiormente capace di creare orizzonti simbolici comuni a larghe masse di
cittadini.
Le numerose statistiche a disposizione documentano questa fase di forte
trasformazione del mondo dello spettacolo. Nel 1932 gli incassi totali del teatro
di prosa, d’operetta e di rivista ammontarono a circa 44.500.000, mentre il
cinema riportò oltre 315 milioni di lire di introiti, con un giro d’affari di oltre 7
volte superiore al teatro. Nello stesso anno lo sport raggiunse incassi di circa 32
milioni di lire. I dati ufficiali della SIAE non comprendevano tutta l’attività ma
erano emblematici della crisi attraversata dal teatro; crisi ancora più grave se si
considera che il numero delle rappresentazioni nel biennio registrano un
aumento delle repliche da 21.104 a 23.284.
Osservando le statistiche da una prospettiva più ampia, riferita al decennio 1924
– 1933, vi è un aumento dell’incasso nazionale per spettacoli da 380 milioni di
lire del 1924 fino alla punta massima di 635 milioni 4 anni dopo ed alla
stabilizzazione nel 1933 intorno ai 510 milioni di lire.
Il cinema ebbe uno sviluppo continuo e lineare fino al 1930, anno in cui toccò
l’apice dei 390 milioni di incasso, e che nel periodo successivo, a causa dei
problemi di riconversione tecnico – organizzativa dovuti all’introduzione del
sonoro ma anche alla forte concorrenza americana, visse un temporaneo
ridimensionamento per poi riprendere quota nel 1933. Gli incassi del teatro
drammatico videro dei buoni risultati ancora nel biennio 1926 – 27 per poi
crollare nel 1933. Osservazioni simili potrebbero essere fatte per le linee di
tendenza della lirica, dell’operetta e della rivista, tutti settori che intorno alla
metà degli anni Venti mostravano ancora una discreta vitalità economica, mentre
evidenziarono un crollo a partire dal 1927.
Rispetto alle possibili differenziazioni geografiche è rilevabile uno squilibrio
fortissimo nella diffusione dello spettacolo al Nord rispetto al Sud, con il Centro
Italia in una posizione intermedia. Nel 1933 ai 25 milioni di incasso totale del
teatro nell’Italia settentrionale (comprensivo di prosa, lirica, operetta e rivista)
corrisposero introiti per circa 10 milioni nell’Italia centrale, 4,5 al Sud e 4
milioni nelle isole; per il cinema ai 166 milioni incassati al Nord nello stesso
anno risultarono circa 91, 32, 18 milioni rispettivamente nell’Italia centrale,
meridionale e insulare.
Sul piano locale abbiamo il ruolo preminente della Lombardia, il Piemonte e per
quanto riguarda il cinema, il Lazio; dalle statistiche sono ricavabili molti dati
relativi all’espansione territoriale dei nuovi consumi di spettacolo concentratisi
al Nord e soprattutto in grandi città come Roma e Milano.
Rispetto alla diffusione in provincia il cinema dimostro una discreta presenza
anche nelle città più piccole del Sud. Nel 1932, ad esempio, la Lombardia
denunciò 65 milioni di lire per incassi cinematografici e 11 milioni per quelli
teatrali, il Piemonte 31 milioni e 6 milioni. Per l’Italia centrale sono importanti
alcuni dati laziali che nello stesso anno dichiararono incassi per 6.365.600 lire
nella prosa e 42 milioni di lire nel cinema; la Toscana denunciò 28 milioni di
introiti cinematografici e poco più di 3 milioni per il teatro drammatico. Nel Sud
si registrarono dei buoni incassi del cinema in Campania, mentre il teatro
mantenne un livello dieci volte inferiore.
Gravi furono gli effetti della crisi sull’operetta che, fino al 1928, aveva
contribuito in ragione del 40% agli incassi generali del teatro. Nei primi anni
Trenta il genere morì come spettacolo autonomo nell’alta Italia per trapiantarsi
sui ridotti palcoscenici cinematografici, assieme alle riviste ed alle compagnie
minori di prosa, con particolare diffusione nelle province e nelle città del Sud.
La crisi dell’operetta era iniziata con la guerra mondiale a causa della
concorrenza straniera, soprattutto dell’operetta viennese, e dal regime di
monopolio nel quale era caduta ad opera della Casa musicale Lombardo, della
Casa musicale Mauro e della Casa musicale Sonzogno. La Casa musicale
Lombardo fin dall’inizio della guerra è riuscita ad impossessarsi di quasi tutte le
Compagnie di operette e con i migliori elementi, bloccando le migliori piazze
d’Italia e nelle migliori stagioni con lavori stranieri, soffocando ogni iniziativa
italiana.
Anche nel settore dell’opera, nonostante i nuovi Enti lirici, le difficoltà ci furono
per molto tempo. La scelta di creare grandi teatri pubblici stabili andò a
penalizzare le attività liriche sparse in tutta la provincia; senza aiuti finanziari,
notava Gino Pierantoni, Presidente della Federazione nazionale fascista
dell’industria del teatro, cinematografo, etc…, non sarebbero possibili né le
stagioni dei grandi teatri e nemmeno quelle delle città più piccole. Però il
numero dei teatri che si aprono a stagioni liriche, notava sempre Pierantoni, è
diminuito.
Nel 1929, rivolgendosi al capo del governo, Pierantoni spiegava come in quel
settore non vi era un difetto di repertorio perché, anche se la produzione nuova
non aveva sempre il consenso da parte del pubblico, questo accorreva sempre
alle repliche. Nella lirica il problema era l’alto costo degli allestimenti dovuto
soprattutto alle alte paghe dei cantanti. Quindi lui proponeva una sorta di
calmiere dei compensi, ma evidenziando che bisognava riqualificare i luoghi
dell’insegnamento per favorire la nascita di una nuova leva di cantanti.
Nei confronti del cinema, invece, Pierantoni, diceva che era necessario
aumentare la produzione italiana rispetto alla concorrenza di altri paesi con
l’aiuto finanziario dello Stato.
La verità è che l’America, padrona assoluta della ricchezza, doveva diventare
l’arbitra della produzione. E per resistere alla sua preponderanza bisogna
produrre. Una produzione che non doveva rivaleggiare con l’America, ma
affermarsi per caratteristiche speciali, legate alla cultura italiana. Prima
dell’avvento del sonoro, la Federazione nazionale fascista degli industriali del
teatro e del cinema suggeriva la produzione cinematografica di opere liriche
italiane, in grado di essere diffuse in tutto il mondo.
Una simile questione produttiva Pierantoni sosteneva nel teatro di prosa dove la
carenza di buoni lavori si sente, accanto ad uno scarso livello recitativo: i
capocomici dovrebbero formare dei buoni complessi artistici e predisporre
repertori versatili con larga rappresentanza di autori italiani; in cambio le
compagnie che avessero presentato lavori di vero interesse artistico, avrebbero
avuto una certa attenzione da parte del governo. Era una richiesta di
sovvenzionamento alle compagnie fatta dal presidente degli industriali dello
spettacolo.

2. LE RISPOSTE ALLA CRISI: PROPOSTE DEL POPOLO E


PROGETTI DEGLI ARTISTI
“Il teatro italiano sta morendo, i culturi interessanti fanno di tutto per rianimare
il moribondo, ma l’ossigeno non è più efficace” così scriveva a Mussolini Muzio
Chesi, maestro di musica a Livorno. Nel 1923, a settembre, lui propose di
organizzare la grande famiglia del teatro in un Ente morale che eliminasse
sfruttamenti e sfruttatori e confederasse in un’unica associazione i compositori
lirici e gli autori drammatici, i proprietari dei teatri e i capocomici, gli attori e gli
orchestrali.
Molte proposte in quegli anni furono fatte al duce dai cittadini famosi, quasi
sempre piccoli intellettuali di provincia, ma queste proposte si dimostrarono
quasi sempre astratte e di scarso interesse politico, ma testimoniavano la
provvisoria popolarità del teatro.
Gaspare Di Martino diceva che bisognava liberare il dramma dall’imitazione
rozza e primitiva. Chiedeva al duce di affidargli un corso di lezioni su
L’interpretazione animatrice in uno dei conservatori d’Italia.
In queste lettere al duce il tema della crisi del teatro era quasi sempre
accompagnato da richieste personali fatte da chi chiedeva aiuto per riprendere la
carriera di attore o cantante, da chi presentava al duce le proprie opere
drammatiche dedicate alla nuova Italia fascista.
Le difficoltà generali spinsero anche molti protagonisti della vita teatrale ad
elaborare proposte e suggerimenti da sottoporre alle attenzioni del governo. Nel
corso degli anni Venti molti progetti di riforma si concentrarono sul bisogno di
un intervento statale che favorisse il superamento del nomadismo degli attori e
la stabilizzazione dei migliori complessi in teatri pubblici appositamente creati:
infatti il continuo vagabondaggio delle compagnie da una città all’altra, genera
criteri non sempre d’arte nella scelta e nella preparazione di nuovi lavori e nella
messa in scena e nell’interpretazione. Qualcuno parlò di Teatro di Stato, altri di
Compagnia nazionale, mentre la stampa specializzata ospitò molti interventi e
inchieste, molti dei quali dedicati al problema della formazione degli attori e
quindi della scuola professionale per il teatro.
Sullo sfondo di tutte le richieste riformatrici vi era la consapevolezza
dell’esaurimento della tradizione dei figli d’arte, insieme alla polemica con il
mediatorato teatrale, contro il quale si reclamava un intervento statale che
equiparasse il teatro italiano ai migliori esempi europei. La fondazione a Parigi
dei teatri speciali, si leggeva nel progetto di Lamberto Picasso per un “Teatro
Moderno”, vero preludio all’ipotesi pirandelliana di un “Teatro d’Arte”, è
dovuta alla reazione contro le compagnie dominate dai mattatori intorno ai
quali viva un vasto contorno di mediocrità. Molte proposte di riforma avevano
come obiettivo la creazione di compagnie stabilmente operanti in uno stesso
teatro, intorno al quale riunire un nuovo pubblico, più preparato alle proposte
che un repertorio originale avrebbe potuto offrire.
Si muoveva nella stessa direzione della proposta di Picasso, estendendola alla
creazione di 2 strutture stabili, il progetto di Teatro di Stato presentato dal
drammaturgo Luigi Chiarelli e da Umberto Fracchia. Il piano elaborato dal
drammaturgo siciliano, in un momento di temporanea collaborazione con
l’impresario Paolo Giordani alla fine del 1926, su richiesta di Mussolini,
prevedeva la creazione di un Teatro Drammatico Nazionale che doveva operare
su 3 città (Roma, Milano e Torino) le quali doveva essere fornite di teatri di
proprietà statale e con identiche attrezzature dove avrebbe agito un’unica grande
compagnia, guidata da un direttore generale aiutato da commissioni di esperti
per la scelta del repertorio.
Un unico Teatro di Stato propose Marinetti in un programma del 1927: un teatro
stabile con sede a Roma che escludesse gli attori più famosi dalla scena
nazionale poiché indisciplinati per tradizione ed abitudine, indifferenti davanti
agli autori e alle opere d’arte teatrali. Marinetti suggeriva di creare una scuola
per formare nuove leve di attori fuori dalla mentalità povera, sotto la guida di un
maestro di scena, figura vicina a quella del regista, che ne curasse la
preparazione culturale e ne elevasse la disciplina nei comportamenti. Il teatro
doveva avere un palcoscenico superiore a tutti gli altri del mondo, progettato dal
gruppo futurista di Prampolini, Bragaglia e Depero.
Il problema però andava al di là delle carenze economiche dichiarate da tutte le
autorità competenti per giustificare la mancata realizzazione dei progetti. Senza
dubbio i problemi economici ebbero un peso importante nello sconsigliare ogni
iniziativa governativa, la cui azione però, negli stessi anni, fu decisa in settori
come il teatro lirico. Oltre ai problemi economici, vi era anche il fascismo che
non dava molta attenzione alla prosa, per quale il governo preferì limitarsi
all’irregimentazione sindacale, al controllo burocratico e alla concessione di
premi.
D’altronde era stato in più occasioni come il Teatro Drammatico Nazionale di
Pirandello e Giordani il governo stesso a chiedere l’elaborazione di un piano
nazionale di ristrutturazione. Forse aveva influito sull’atteggiamento del governo
la preoccupazione di ridefinire gli interessi acquisiti dagli organizzatori, dai
proprietari, dai capocomici di tradizione: un consolidato equilibrio che
consentiva ad alcune imprese di prosperare a scapito di quelle più deboli. In
fondo l’idea stessa di creare un Teatro nazionale o qualsiasi altra forma di teatro
di Stato sarebbe andata ad intaccare il monopolio che il Consorzio aveva
sull’organizzazione teatrale italiana. La volontà governativa non andava allora in
questa direzione; nel corso degli anni Venti il fascismo non ancora si convinceva
a riorganizzare la scena drammatica e quindi il teatro era lasciato in balia di un
mercato sempre più precario, dominato da pochi potenti organizzatori.
Tumiati proponeva nel 1927 di raccogliere tutti gli attori in pochi nuclei
omogenei. Accanto alle oscillazioni governative bisogna considerare anche
l’assenza di un progetto fondato su precise forze economiche ed artistiche.
Importante fu il progetto di riforma elaborato da Silvio D’Amico tra gli anni
Venti e Trenta su richiesta di Bottai, allora Ministro delle Corporazioni.
La sua proposta, resa pubblica nel 1931, si collegava a quella fatta da Franco
Liberati nel 1929 quando il direttore della Scuola di recitazione Eleonora Duse
di Roma aveva presentato un memoriale al Ministro della Pubblica istruzione.
Belluzzo, nell’affidarne l’applicazione agli uffici ministeriali competenti, lo
aveva inviato al duce. Lo Stabile governativo di prosa previsto da Liberati, che
si rifaceva al modello del Teatro Reale dell’Opera creato al Teatro Costanzi, si
sarebbe dovuto chiamare Reale Teatro Drammatico ed avrebbe avuto sede a
Roma o al Teatro Argentina o al Quirino. Il repertorio avrebbe riproposto la
continuità del genio drammatico italiano dalle sue prime manifestazioni fino ai
giorni nostri e si sarebbe anche aperto alle opere classiche ma con il proposito di
costituire un teatro che sia espressione dei nuovi tempi del fascismo.
Sulla base delle esperienze francesi di teatri statali, il Reale Teatro Drammatico
avrebbe avuto una scuola di recitazione per sostenere la Compagnia stabile
composta di elementi già diventati famosi, affiancati da elementi giovanili in
modo da poter assicurare esecuzioni singole e di complesso impeccabili che le
compagnie drammatiche di giro non potevano fornire. La Compagnia avrebbe
operato da novembre ad aprile a Roma, 2 mesi a Milano e a Torino ed un mese
fra Firenze e Bologna. Il progetto doveva essere affidato a un regisseur esperto.
Dal punto di vista finanziario Liberati prevedeva un totale di spesa di 1.200.000
lire. Questa somma sarebbe stata coperta dai contributi annuali dello Stato, del
governatore di Roma, dalla SIAE e dagli incassi.
Questo progetto si arenò per le difficoltà finanziarie e per l’impossibilità ad
utilizzare il Teatro Argentina, allora in affitto triennale ad un’impresa privata,
proprio quando il governo ne dava per certa la realizzazione e lo stesso Liberati
ne aveva ipotizzato l’inaugurazione nel settembre del 1930. Però aveva posto al
centro dell’attenzione il rapporto inscindibile tra la formazione degli attori e il
rinnovamento produttivo.
3. IL PROGETTO DI SILVIO D’AMICO.
La proposta che D’Amico inviò, su invito di Bottai, al Ministero delle
Corporazioni nel 1931 nasceva da un’attenta osservazione delle condizioni della
prosa italiana: vi erano autori drammatici privi di interpreti, compagnie senza
capi e quasi tutte in deficit disastrosi; attori moralmente ed economicamente
avviliti dal guittismo della loro esistenza; pubblico disorientato o respinto dai
prezzi troppo alti o disanimato dal confronto con le scene straniere.
In una nazione che aveva avuto il primato della scena europea per molti secoli
non si era rivelato un moderno maestro di scena che potesse contrapporsi ai
direttori francesi, tedeschi che nel Novecento avevano ottenuto fama europea.
La sua proposta toccava tutti gli aspetti della vita teatrale nazionale con
l’obiettivo di assicurare stagioni teatrali di un livello adeguato alle città più
importanti, di fornire Roma e Milano di grandi teatri drammatici statali, dare
maggiore spazio agli autori italiani, creare nuovi interpreti della scena (attori,
scenografi, régisseurs), formare un nuovo pubblico ed aggiornare la cultura
teatrale del paese.
A coordinare l’attuazione del programma proponeva la costituzione a Roma di
un Istituto nazionale del teatro drammatico, retto da un Consiglio di
amministrazione composto dal Ministero delle Corporazioni, da quello
dell’Educazione nazionale, dalla SIAE, dal Governatorato di Roma e dal
comune di Milano. Le volontà del consiglio sarebbero state eseguite da un
direttore generale dell’Istituto e da un amministratore generale. L’Istituto
avrebbe dovuto gestire a Roma e a Milano 2 grandi teatri stabili con un
palcoscenico moderno attrezzato. La sala doveva contenere almeno 1500 posti,
di cui 500 di primo livello a venti lire la poltrona, 700 a 6 lire e la galleria di 300
posti a due – tre lire. I due teatri, da creare attraverso la ristrutturazione di sale
già esistenti, avrebbero ospitato stagioni di 6 mesi (dal 15 novembre al 15
maggio) gestite da 2 compagnie stabili che avrebbero lavorato per 3 mesi a
Roma e 3 a Milano. Ogni compagnia avrebbe avuto 30 attori e un direttore, ma il
repertorio sarebbe stato deciso dal direttore generale dell’Istituto. Nel restante
semestre le 2 compagnie avrebbero avuto un mese per la preparazione delle
rappresentazioni, uno di riposo, 4 mesi di tournées in Italia, e a turno, all’estero.
D’Amico dava grande attenzione al bisogno di aggiornamento dei responsabili
dell’Istituto attraverso viaggi in altre nazioni per rendersi conto delle nuove
tecniche della nuova scena europea. L’obiettivo era quello di conoscere i sistemi
più avanzati del nostro. D’Amico voleva anche istituire uno Studio che avesse la
doppia funzione di teatro sperimentale e scuola di teatro, alla quale affidare il
compito di creare i futuri attori, scenografi, régisseurs. Il progetto suggeriva
l’ammodernamento della scuola Eleonora Duse sotto il coordinamento artistico
dell’Istituto che avrebbe dovuto assolvere anche da teatro sperimentale per i
saggi dei giovani autori, in stretto accordo con la SIAE. Aveva in mente anche
di creare un museo e una biblioteca teatrale, ai quali collegare una serie di
concorsi drammatici a premi, creare una rivista teatrale e una casa editrice.
Il bilancio di previsione del progetto indicava un deficit annuale di circa
1650.000 lire oltre le spese di ristrutturazione delle due Sale richiesto al
governatorato di Roma ed al comune di Milano. La SIAE avrebbe dovuto
sostenere le spese del teatro sperimentale e rendersi disponibile ad una
cogestione della palazzina Burcardo, mentre il Ministero dell’Educazione
nazionale si sarebbe occupato dell’ammodernamento della scuola di recitazione.
La copertura del deficit previsto veniva richiesta alla Corporazione dello
spettacolo sulla base delle somme incassate dallo Stato sui diritti erariali per lo
spettacolo.
In un pamphlet del 1931 D’Amico aveva analizzato le difficoltà del teatro
evidenziando il problema artistico della scena italiana, rispetto al quale non
sarebbero bastate solo risposte di carattere organizzativistico. Al centro della sua
riflessione vi era un giudizio negativo sul sistema attorale dominante; per
D’Amico la crisi era degli interpreti. Bisognava trasformare la mentalità dei
capocomici, il cui posto doveva essere preso da persone più aperta, più
intelligente, quindi da direttori moderni di compagnie moderne. Contro la crisi
della vecchia compagnia capocomicale, basata sulla rigida divisione dei ruoli
recitativi, ruotanti intorno al primo attore o alla prima attrice, su uno scarso
approfondimento e rispetto del testo, su un numero esiguo di prove, D’Amico
pensava a compagnie moderne più varie e ricche dal punto di vista delle capacità
attorali e dei repertori: compagnie dotate di uno stile nuovo.
D’Amico voleva riformare la scena italiana mettendo in discussione la struttura
portante del sistema attorale: il teatro veniva ucciso dagli attori e dai capocomici
che danno spettacoli che non attirano più il pubblico. La crisi di quell’antica
struttura si sarebbe risolta a vantaggio di un rafforzamento del ruolo degli
intellettuali (critici e studiosi), di nuove funzioni creative (prima quelle del
regista) e soprattutto di una valutazione positiva degli autori italiani.
I nuovi autori italiani avevano acquisito i diritti di una nuova drammaturgia
nazionale, capace di fornire un repertorio moderno.
Il progetto del 1931, centrato sull’idea di Istituto nazionale del teatro
drammatico, si realizzò solo per la parte riguardante la scuola per attori e registi,
ma la sua ipotesi di trasformazione ed aggiornamento della scena italiana si
mostrò egemone nel corso degli anni Trenta e poi nel dopoguerra. Nell’Italia tra
le 2 guerre le ipotesi di D’Amico si distinsero dalle altre perché coglievano le
urgenze e le necessità della scena e collocavano al centro delle varie soluzioni
gli aspetti qualitativi. Il fatto che non riuscì a concretizzare immediatamente
tutte le istanze espressive nel 1931 non significò automaticamente il loro
insuccesso: le idee – forza del progetto di D’Amico non furono assunte in toto
dal regime, eppure attraverso istituzioni pubbliche ed iniziative private,
circolarono in Italia durante e dopo il fascismo.
L’opera di D’Amico influì sulla mutazione genetica del teatro italiano. La sua
biografia ne testimonia la presenza nelle principali decisioni pubbliche, nelle
sedi giornalistiche ed editoriali di rilievo, nell’organizzazione di importanti
istituzioni. Ininterrotti sono i suoi rapporti con figure importanti tra le 2 guerre:
Duse, Pirandello, Rosadi, Praga, Alfieri, Bottai.
Fin dal 1911, quando aveva vinto un concorso al Ministero della Pubblica
istruzione, era entrato come funzionario nella Direzione generale delle antichità
e delle belle arti; nel dopoguerra era stato il più stretto collaboratore di Rosadi in
tutti i suoi sforzi di riforma della scena. Nel 1921 fu nominato segretario della
Commissione permanente per le arti musicale e drammatica del Ministero della
Pubblica istruzione per avviare, per la prima volta in Italia una serie di sostegni
finanziari al teatro. Nel 1923 aveva lasciato l’incarico ministeriale per assumere
la cattedra di Storia del teatro nella Regia Scuola di recitazione che aveva sede
nell’Accademia Santa Cecilia a Roma. Insieme all’insegnamento aveva
sviluppato un’intensa attività giornalistica e saggistica, sorretta sempre da una
scrittura limpida e raffinata.
Importante fu il suo testo Tramonto del grande attore, una raccolta di saggi
che ricomponeva un panorama dei principali aspetti del teatro contemporaneo
italiano ed europeo. Il Tramonto ha il carattere di una raccolta di articoli sparsi,
pubblicati tra il 1922 e il 1929 dedicati alle figure del teatro più importanti di
allora.
Dalla frequentazione diretta del teatro europeo, egli rilevò la rapida
affermazione del ruolo del metteur en scène, ma la tradusse in una sua
accezione. La parola regista, non a caso, fu coniata sulla rivista Scenario diretta
da D’Amico e Bruno Migliorini nel 1932.
Dal 1914 collaborò con il quotidiano nazionalista “L’idea Nazionale” ed a “La
Nuova Antologia” di Luigi Federzoni fino alla fondazione e direzione delle
riviste teatrali più qualificate di quegli anni come “Scenario” dal 1932 al 1936
con Nicola De Pirro ed alla pubblicazione di testi fondamentali, prima di tutto
La storia del teatro drammatico edita nel biennio 1939 – 40, che sono stati il
riferimento principale per molti uomini di teatro del secondo dopoguerra.
Accanto al ruolo fondamentale svolto nella creazione e direzione
dell’Accademia d’arte drammatica nel 1935, che formò la maggior parte del
teatro italiano dalla fine degli anni Trenta in poi, ebbe un notevole peso anche
nel campo dell’editoria. Diresse collane come “Il teatro del Novecento” o
“Repertorio”. Acquistò un particolare risalto la direzione delle voci teatrali
dell’Enciclopedia italiana, affidatagli da Gentile nel 1931 al posto di Renato
Simoni. Questa collaborazione fornì la premessa per l’avvio del progetto
dell’Enciclopedia dello spettacolo, realizzata nel dopoguerra con Federico
Gentile.
Se a tutto ciò affianchiamo una presenza costante di D’Amico a congressi e
raduni ufficiali, oppure il suo ruolo di segretario generale del Convegno Volta
sul teatro drammatico nel 1934, è possibile rendersi conto della sua forte
presenza nel teatro italiano tra le 2 guerre. Egli adattò le proprie idee alle
situazioni politiche diverse dimostrando di saper usare tutti i contatti personali
ed istituzionali per portare a termine tutte le iniziative in cui credeva.
Il progetto del 1931 appare come il terminale di una fitta rete di rapporti,
battaglie, polemiche culturali ed artistiche. I caposaldi del suo programma erano:
teatro stabile, fornito di una o più compagnie residenti perlopiù a Roma e
dipendenti da un’unica direzione affidata ad un uomo di cultura preposto a
direttore di scena sia per la scelta del repertorio, sia per i criteri
d’interpretazioni. Compagnia e compagnie d’insieme, formate da tanti e buoni
elementi, senza mattatori.
Negli anni del fascismo D’Amico è la figura intellettuale che con maggiore
forza ha condizionato la rifondazione artistica e culturale del teatro italiano
secondo linee di moderato rinnovamento che garantissero l’affermazione di un
teatro drammatico d’arte ma che allo stesso tempo salvaguardassero la scena
nazionale dall’intromissione di inquietudini che agitavano in quegli anni il teatro
europeo.
Al di là del suo interventismo in guerra, sappiamo poco del suo rapporto con il
nazionalismo sviluppato attraverso la collaborazione a “L’Idea Nazionale”.
Importante fu il suo rapporto con la cultura cattolica, impegnata dal primo
dopoguerra in una progressiva opera di reinserimento nei settori principali della
vita nazionale. Il suo cattolicesimo non apparve mai confessionale, ma articolato
in un misto di conservatorismo e liberalismo, di modernità e di difesa di antichi
valori. La sua fede religiosa fu importante nell’elaborazione delle concezioni del
teatro e delle conseguenti scelte organizzative.
Il suo cattolicesimo lo portò ad avere contatti anche con gli ambienti vaticani.
Poco noto è che nel 1925 figurava tra i compilatori dell’Annuario cattolico
italiano, edito dalla Fides Romana e dalla Giunta direttiva dell’Azione
Cattolica. L’Annuario era una rassegna della vita e del pensiero religioso rivolta
ad un pubblico popolare. L’Annuario voleva documentare l’influsso dei
cattolici nella vita pubblica italiana. La partecipazione di D’Amico a questa
iniziativa editoriale indica un’attenzione alla pubblicistica di tipo divulgativo,
soprattutto basata sui viaggi e pellegrinaggi, ma documenta anche un
collegamento con gli ambienti della Chiesa, in quegli anni impegnata nel
dialogo con lo Stato italiano. Da questo punto di vista l’attività di D’Amico
interagì con la vita teatrale in piena sintonia con la ripresa dell’influenza
cattolica sulla cultura italiana, testimoniata anche dai contatti con Agostino
Gemelli e con il Cardinale Montini. In questo senso un segnale forte provenne
dalla sostituzione del laico Renato Simoni con D’Amico nel 1931 alla direzione
delle voci teatrali dell’Enciclopedia italiana.
Non è mai stato sottolineato il suo ruolo fondamentale nel favorire una nuova
presenza cattolica nella cultura teatrale italiana. Fino agli anni Trenta,
l’affermazione di un teatro che avesse connotazioni cattoliche si era limitata al
circuito delle filodrammatiche negli oratori. Nelle relazioni fra la Chiesa romana
ed il teatro popolare aveva pesato la polemica clericale contro i comici; mentre
alcune organizzazioni religiose, come i gesuiti aveva da sempre usato il teatro
come strumento d’insegnamento etico – religioso. Nel campo della prosa aveva
lasciato un ricordo negativo l’intervento di Benedetto XV nel 1916 a divieto, per
motivi etico – religiosi, della rappresentazione dell’Otage di Claudel, autore
cattolico. Durante gli anni Trenta, grazie all’opera di D’Amico e di un gruppo di
intellettuali cattolici, i valori religiosi penetrarono nei testi e in alcuni
allestimenti di rilievo nazionale (La rappresentazione di Santa Uliva ed il
Savonarola a Firenze all’interno del Maggio musicale fiorentino).
Lui appare come l’intellettuale maggiormente influente sulla ristrutturazione
artistica ed organizzativa del sistema teatrale. Il suo rapporto con il fascismo fu
spesso ambivalente: ne usò le strutture istituzionali e a volte, come nel caso
dell’Accademia le creò, ma non si compromise sul piano ideale. Collaborò,
prese anche una tessera del partito, ma non apprezzò mai esplicitamente il
regime. L’azione di D’Amico lo vide in molte occasioni ufficiali compagno di
viaggio del fascismo, salvo poi differenziarsi alla sua caduta. Forse questo
atteggiamento gli consentì di riproporsi nel dopoguerra come il primo critico
della politica teatrale del regime, alla quale aveva dato un grande contributo.
Egli divenne nel proprio campo d’intervento un creatore di realtà, inventore di
istituzioni culturali, di luoghi produttivi, di cultura, di nuovi sistemi formativi a
carattere professionale.

CAPITOLO TERZO
UN NUOVO VOLTO AL TEATRO ITALIANO

1. L’ISTITUZIONALIZZAZIONE DEL TEATRO


Le idee di D’Amico avevano trovato un attento interlocutore in Bottai, autore
nel 1932 di un promemoria che segnalava a Mussolini le possibili soluzioni al
problema dei 2 teatri previsti dall’Istituto nazionale del teatro drammatico. Per
Roma il Ministro delle Corporazioni non solo diceva di rimodernare il Teatro
Argentina di proprietà comunale, ma anche di edificare un teatro nuovo sul viale
Regina Margherita. La struttura sarebbe stata progettata dall’architetto Marcello
Piacentini e sarebbe costata 7 milioni, anticipati dal Monte dei Paschi di Siena.
Per Milano Bottai suggeriva l’uso del Teatro Lirico, anch’esso di proprietà
comunale ma in affitto allora alla Società Suvini – Zerboni che era disposta a
cederlo visti i nobili propositi.
Il progetto di D’Amico non fu approvato dal duce che, pur avendo la priorità
assegnata a Roma e Milano, disse che quello non era il momento migliore per
costruire nuovi teatri, quando quelli già esistenti non erano nemmeno più
frequentati dal pubblico. Il capo del governo era favorevole però alla
ristrutturazione del Teatro Argentina, ma diceva che comunque creare nuovi
impianti moderni, di certo non riusciva a salvare il teatro di prosa.
Per tutti gli anni Venti di fronte alle ipotesi riformatrici i vertici del fascismo
non avevano preso decisioni chiare. Nel nuovo decennio, invece, le cose
cambiarono come dimostravano le dichiarazioni pubbliche di Mussolini, le
nuove attenzioni di Bottai e vari interventi legislativi a partire dalla fondazione
della Corporazione dello spettacolo. Probabilmente intervenne l’estendersi della
crisi economica mondiale che riversò i suoi effetti all’inizio degli anni Trenta in
Italia.
La svolta nei rapporti fra lo Stato e la scena di prosa va collocata negli anni
Trenta, quando gli effetti della crisi del 1929 radicalizzarono le condizioni già
precarie della scena italiana. La depressione economica e i processi sociali da
essa suscitati, che favorirono la graduale trasformazione del fascismo in regime
reazionario di massa, spinsero il governo italiano dopo le titubanze iniziali, a
dare maggiore attenzione al mondo dello spettacolo ed alle organizzazioni
ricreative e culturali di massa. Già nel 1929 – 30 ci fu l’inaugurazione del Carro
di Tespi, la formazione della Corporazione dello spettacolo e la richiesta
ufficiale a D’Amico di formulare un progetto di riforma. Nel 1931 aumentò il
controllo e l’accentramento delle funzioni amministrative con una nuova legge
per la censura dei testi; da allora tutti i copioni furono sottoposti alla
supervisione del Ministero degli Interni che dal 1935 passò il compito al
Ministero per la Stampa e propaganda, poi trasformato in Ministero per la
Cultura popolare. L’Ufficio censura fu diretto da Leopoldo Zurlo, un
funzionario pubblico di formazione liberale che si distinse per il metodo
equilibrato con il quale effettuò per molti anni la mediazione fra gli autori e le
volontà del governo. Lui controllò e archiviò 18.000 testi di autori italiani.
Un altro intervento pubblico importante fu la creazione della Corporazione dello
spettacolo nel 1930 che doveva studiare e ricercare le soluzioni ai problemi
riguardanti le industrie del teatro e del cinematografo e le altre affini e di
assicurare un luogo di collaborazione permanente fra i datori di lavoro e i
prestatori d’opera, intellettuale e manuale. Un decreto aveva affidato alla
Corporazione, il cui presidente doveva essere D’Amico, la possibilità di
emanare norme sulle condizioni di lavoro delle categorie rappresentate e
promuovere tutte le iniziative necessarie per una migliore organizzazione delle
attività teatrali e cinematografiche.
Nel Consiglio della Corporazione sedettero le figure del teatro più importanti a
rappresentanza delle associazioni esistenti: Bragaglia, D’Amico, De Pirro. Il
ruolo della Corporazione fu quello di riunire periodicamente le diverse
rappresentanze per dettare direttive di carattere generale, tentare di risolvere le
controversie sul lavoro e nel campo teatrale, favorire le compagni nei rapporti
con gli esercenti e nelle agevolazioni ferroviarie. Operò senza però ottenere
grandi cambiamenti delle condizioni strutturali della scena: per esempio, sulla
questione del sovvenzionamento al teatro, nel 1931, tentò con scarso risultato di
acquisire il fondo di un milione di lire ricavato dalla tassazione di opere cadute
in pubblico dominio.
Il ruolo della Corporazione non potè realizzare gli interventi richiesti per
affrontare la crisi del teatro di prosa. infatti negli anni Trenta le maggiori
associazioni, in primis la Federazione nazionale fascista degli industriali dello
spettacolo e la Confederazione nazionale dei sindacati fascisti dei professionisti
ed artisti, assunsero un forte potere al di fuori della Corporazione fino alla
diretta connessione con i nuovi organismi governativi che il fascismo creò per
intervenire meglio nell’organizzazione teatrale.
Il fascismo ristrutturò la vita teatrale nazionale grazie all’azione dello Stato.
L’edificazione degli enti lirci aveva aperto la strada ad una presenza pubblica
stabile nel teatro operistico; anche nella prosa era urgente impostare
Il nuovo secolo si caratterizza sul piano europeo per una maggiore presenza
dell’intervento statale nella vita del teatro. Sul piano internazionale la dinamica
fra il teatro e lo Stato mostrò una nuova articolazione che favorì una maggiore
politicizzazione di tale rapporto. Nell’URSS già dal 1919 ci fu la completa
statalizzazione del teatro.
In Francia, fin dalla rivoluzione del 1789, l’autorità pubblica aveva costruito
grandi istituzioni statali come la Comédie française, l’Opéra e l’Opéra Comique.
Anche in Spagna il governo di sinistra sostenne finanziariamente l’esperienza
della “Barraca” di Garcia Lorca; in altre nazioni come la Grecia, Polonia, negli
anni Trenta furono create varie forme di Teatro di Stato sostenute dal potere
pubblico. In Germania dopo la 1 guerra mondiale la fitta rete di teatri civici di
proprietà comunale fu trasformata in Staats – theater alle dipendenze dello stato
o Landes – theater alle dipendenze del Land. Fin dall’800 a questa esperienza si
era affiancata quella di un’associazione privata di tipo federativo, legata ai
socialdemocratici, che si occupava dell’organizzazione del pubblico. Quel
sistema misto tra ente pubblico e iniziativa privata fu messo in crisi dall’avvento
del nazismo.
Nel caso italiano l’istituzione della Corporazione dello spettacolo rappresentò un
limitato strumento d’intervento pubblico nel mondo dello spettacolo; nel 1935 fu
creato l’Ispettorato generale del teatro trasformato dopo in Direzione generale
del teatro, la cui nascita segnò l’ingresso definitivo del governo nella vita
teatrale nazionale. A quell’organismo, diretto per molti anni da Nicola De Pirro,
poi trasformato nel 1937 in Ministero per la cultura popolare, fu assegnata la
competenza amministrativa su tutte le attribuzioni spettanti ai Ministeri
dell’Interno, delle Corporazioni e dell’Educazione nazionale in materia di
censura teatrale, vigilanza governativa e di provvidenze relative ad ogni attività
musicale e teatrale.
La decisione di creare un Ispettorato per il teatro, fortemente voluto da Ciano,
contribuì a cambiare il volto della scena italiana. In essa erano presenti i
rappresentanti del Partito nazionale fascista, la Corporazione dello spettacolo, un
funzionario del Ministero degli Interni, uno del Ministero dell’Educazione
nazionale, il presidente della SIAE, un rappresentante della Confederazione
fascista professionisti ed artisti, un delegato della Federazione nazionale fascista
degli industriali dello spettacolo e un rappresentante della Federazione nazionale
fascista dei lavoratori dello spettacolo. L’ispettorato doveva controllare i
repertori applicando la norma secondo la quale non potevano essere recitate solo
opere, drammi che erano ritenuti dal sottosegretariato di Stato per la stampa e
propaganda contrari alla morale, ai buoni costumi, all’ordine pubblico. Galeazzo
Ciano, allora sottosegretario alla stampa e propaganda, intervenne sulla Suvini –
Zerboni, la più potente società italiana per la gestione dei teatri e per i diritti sui
repertori; Ciano nel 1935 il trust diretto da Paolo Giordani fu liquidato d’autorità
e la Suvini – Zerboni limitò la sua attività con grande felicità dei drammaturghi
italiani, suoi avversari dalla seconda metà degli anni 20.
L’ispettorato selezionava le compagnie da sovvenzionare e indicava l’entità dei
finanziamenti. Una prima disponibilità finanziaria fu stanziata a favore della
Corporazione dello spettacolo, alla quale nel 1932 furono dati gli introiti ottenuti
dall’aumento di 5 lire del canone di abbonamento radiofonico. Il finanziamento
pubblico alle compagnie, organicamente però, fu avviato solo nel 1935 in
rapporto con la creazione del Ministero della stampa e propaganda,
dell’Ispettorato del teatro, all’interno di una strategia governativa che voleva
avere maggiore controllo sugli strumenti della comunicazione sociale.
Significativo è il fatto di come i fondi per la nuova politica furono ricavati dai
proventi riscossi dallo Stato sugli abbonamenti radiofonici. Sulla base di questi
fondi, l’ispettorato ufficializzò e regolamentò il sovvenzionamento alle
compagnie drammatiche evitando fino al 1941, ogni forma di contributo
finanziario alle attività riguardanti la gestione delle sale teatrali.
Dal 1935 fu dato un aiuto economico alle compagnie ritenute di valore nazionale
ed aventi repertori in lingua italiana. Il fascismo non creò grandi istituzioni
nazionali e nemmeno volle puntare sulla statalizzazione del teatro, ma scelse una
via intermedia, che creò un’influenza indiretta del potere pubblico sulla scena. Si
posero le basi allora per un’opera di selezione, controllo e condizionamento
della vita delle compagnie. Dalla stagione 1936 – 37, dopo il decreto del 3
febbraio 1936 sulle sovvenzioni pubbliche al teatro, le formazioni professionali
dovettero inviare agli organismi competenti all’inizio di ogni anno teatrale il
proprio elenco artistico, la durata ipotizzata della stagione, il foglio delle paghe
preventivate, il repertorio e la certificazione di possedere un capitale adeguato
all’attività prevista. Importante fu la federazione nazionale fascista degli
industriali dello spettacolo. Il provvedimento del 3 febbraio voleva promuovere,
attraverso il disciplinamento dei contributi pubblici, a mezzo di sovvenzioni, la
formazione di compagnie drammatiche che fossero in grado di allestire i
migliori lavori di autori italiani e stranieri. All’inizio dell’1935 – 36 furono
riconosciute come primarie solo 22 compagnie: 4 di repertorio dialettale (la
Compagnia Angelo Musco, la Compagnia comica Gilberto Govi), 18 in lingua
italiana (“Spettacoli gialli”, “Grandi spettacoli d’Arte” Abba – Benassi. Furono
esclusi quelle dialettali dal finanziamento pubblico. Si affermò allora
definitivamente il modello dove il ruolo gestionale del capocomico venne
assunto da un impresario – finanziatore, mentre il primo attore divenne sempre
più uno scritturato come gli altri attori.
Il decreto del 3 febbraio 1936, pur occupandosi di generi come l’operetta e la
rivista, escluse dal sostegno statale il varietà e l’avanspettacolo, considerati
generi minori, a carattere locale e quindi di scarso interesse nazionale. Questa
decisione, sulla quale influì la battaglia contro il dialetto iniziata in quegli anni
dal regime, aggravò le condizioni del teatro dialettale, molto diffuso allora tra le
forme popolari di spettacolo. Tra gli anni 20 e 30 il fascismo aveva mostrato un
atteggiamento diverso nei confronti delle richieste di sostegno pubblico alle
varie iniziative locali. Nel 1930 il Ministero dell’Educazione nazionale si
lamentò di non poter sostenere un progetto di teatro siciliano in lingua italiana
perché ciò avrebbe contrastato con l’incoraggiamento che veniva dato ai teatri
dialettali.
Alla metà degli anni Trenta il regime invece fu più propenso per un teatro
nazionale in italiano. L’intervento sulla regolamentazione dei repertori vide un
episodio importante nel decreto legge del 1935 che diede il permesso
all’ispettorato di inserire qualsiasi testo nei repertori delle compagnie e instaurò
una forma di controllo sull’attività non sempre limpida degli agenti mediatori.
Da allora le persone e gli enti che provvedevano all’inserimento nei repertori
delle opere drammatiche non musicali italiane e straniere dovevano essere
autorizzati a fare ciò dal Ministero per la stampa e propaganda; quindi ogni mese
dovevano trasmettere all’Ispettorato un elenco contenente il titolo italiano e
straniero delle opere, il nome dell’autore, delle Compagnie che la
rappresentavano. Per la prima volta veniva istituito un permesso di
rappresentazione, al quale fu affiancato nel 1938 l’imposizione di un nulla osta
per chiunque volesse creare una compagnia teatrale sia a spettacolo intero che
avanspettacolo. Ci furono due eventi importanti: la fondazione della Regia
Accademia d’arte drammatica alla fine del 1935 e l’approvazione definitiva nel
1937 del decreto che concedeva ai comuni di espropriare i palchi dei teatri
comunali.
La politica fascista verso lo spettacolo lirico e drammatico, tra la fine degli anni
Venti e la fine degli anni Trenta, ridisegnò la geografia del teatro italiano
dandole lineamenti e confini nuovi che per molti aspetti, dominano ancora. Il
sistema teatrale subì una vera e propria riforma istituzionale.
Il fascismo condusse dall’epoca liberale in cui il teatro si muoveva sul piano
dell’iniziativa privata ad una connessione fra l’intervento pubblico e la libera
iniziativa degli operatori teatrali. Non si rilanciò la tradizione dei comici italiani,
né si provò a costruire un rapporto stabile con le esperienze europee più
avanzate. Questo atteggiamento delle autorità fasciste favorì una progressiva
istituzionalizzazione del teatro. L’azione governativa si concentrò sul
finanziamento delle compagnie di prosa.

2. LE SOVVENZIONI ALLE COMPAGNIE DRAMMATICHE


La riorganizzazione della scena drammatica nazionale condusse ad una
selezione del mercato a favore delle principali compagnie, rinforzate da un
sistema di contributi controllati dagli organismi statali. Un decreto del 1938
perfezionò il meccanismo assegnando ai finanziamenti ministeriali un carattere
di altre sovvenzioni concesse dalle Province, Comuni o altri Enti locali, oppure
dal capitale privato. Si instaurava così una forma di maggiore controllo
nazionale e locale delle attività delle compagnie, alle quali il Ministero per la
Cultura popolare poteva richiedere tutte le modifiche ai repertori artistici
ritenute opportune per attuare gli scopi per i quali venivano concesse le
sovvenzioni. Da allora il ministero che doveva vedere tutti gli atti e i documenti
relativi alla gestione, entrò ancora di più nella vita delle compagnie, fino a
condizionarne la scelta dei repertori.
Il regime delle sovvenzioni fu inaugurato nella stagione 1935 – 1936 ma trovò
un modus vivendi più definito solo nei primi anni Quaranta. Il contributo
assumeva significati diversi in relazione alle diverse funzioni di selezione delle
compagnie o dei repertori, di controllo burocratico delle attività oppure di
stimolo all’espansione dei mercati fino ad interventi assistenziali.
Inizialmente il meccanismo venne attivato come sostegno alle singole
produzioni delle compagnie. È testimoniata la tendenza in quegli anni di una
contribuzione di 5000 lire per ognuno dei testi allestiti dalle compagnie.
Altre volte il contributo medio di 5000 lire venne assegnato per le recite
straordinarie, come furono considerate nel 1937 quelle effettuate dalla
Compagnia drammatica Giulio Donadio al Teatro Quirino di Roma, oppure nel
caso di rappresentazioni di carattere celebrativo. Spesso l’ispettorato del teatro e
dopo la Direzione generale del teatro intervennero direttamente sulla formazione
dei complessi drammatici; fu il caso della Compagnia del Teatro d’Arte di
Venezia che nel 1936 raccolse in una sola formazione i migliori elementi di 3
compagnie. Gli attori esclusi formarono una compagnia veneziana minore, la
quale essendo dialettale non poté avere dal ministero alcuna sovvenzione. La
Compagnia del Teatro di Venezia sviluppò un repertorio concentrato sulle
migliori opere di Goldoni e Gallina. Ricevette una sovvenzione pubblica, a vario
titolo, di 50.000 lire nel 1936 e un premio finale di 30.000 nel 1937 al termine di
una stagione durata 8 mesi.
L’analisi dei rapporti finanziari intervenuti tra gli organi ministeriali e le
compagnie primarie fornisce nuove conferme alle interazioni e ai
condizionamenti subiti dalle compagnie in quegli anni decisivi per la
ristrutturazione del teatro italiano. Appaiono emblematiche le vicende della
Compagnia Palmer – Almirante – Scelzo, il cui amministratore, Franco Liberati
aveva comunicato a De Pirro come la compagnia avesse in poco tempo
trasformato il suo repertorio. Erano rimaste 3 commedie straniere, 2 delle quali
hanno per autore un ungherese e un americano. La terza commedia è di Enrico
Bernstein. Liberati concludeva dicendo che le novità sarebbero state di autori
italiani e avrebbero incluso nel repertorio una commedia di Pirandello, Così è se
vi pare e Marionette, che passione! di Rosso di San Secondo. Già nei primi
mesi del 1936 il direttore della compagnia aveva annunciato di aver ricevuto una
commissione di 12.000 sui 3 lavori già citati, 2 dei quali appartenevano ad autori
sostenuti dall’Ispettorato del teatro.
Addentrandoci nella valutazione dei dati finanziari raccolti, emergono scelte
importanti del regime a favore di registi come Corrado Pavolini o di autori come
Pirandello e Rosso di San Secondo, vicini al fascismo. Le scelte degli organismi
competenti applicarono la decisione di sostenere la produzione drammaturgica
italiana. Nei rapporti con gli organismi ministeriali fu importante anche il livello
delle conoscenze e dei contatti dei direttori delle varie compagnie.
A partire dalla stagione 1936 – 37 la Commissione ministeriale, che affiancava il
direttore generale nel compito di esaminare ed approvare la formazione delle
compagnie primarie, deliberò una grande attenzione finanziaria ai complessi che
prevedevano una tournée nell’Italia meridionale. Si provava, quindi, ad allargare
il mercato verso le città del Sud e si tentava anche un intervento a sostegno dei
costi di viaggio delle compagnie. In quell’occasione la Commissione decise che
il premio sarebbe stato calcolato sulla base del 20% della spesa dei trasporti
ferroviari.
In altri casi il meccanismo della sovvenzione fu usato in direzione
dell’espansione del mercato teatrale in zone deboli, per le quali le istituzioni
competenti avevano instaurato un sistema pubblico centralizzato per il
pagamento delle recite. Nel 1940 De Pirro stanziò 540.000 lire per la
costituzione di 4 compagnie, divise tra prosa e rivista, che avrebbero dovuto
effettuare un giro nelle Marche, Abruzzo, Umbria, nell’alto Lazio e in Emilia
con lo scopo di aumentare la programmazione in quelle zone.
Le scelte degli organismi governativi a partire dalla stagione 1935 – 36 si
indirizzarono verso il sostegno delle compagnie più competitive sul mercato, a
netto sfavore delle piccole formazioni di carattere locale e di debole struttura
aziendale. Molti documenti ministeriali di quegli anni rinviano alle scelte di
occuparsi maggiormente dei complessi teatrali meritevoli dal punto di vista
artistico ed organizzativo ed invitano lo Stato a disinteressarsi delle Compagnie
che non hanno importanza o valore artistico.
De Pirro, suggerendo un ulteriore inasprimento della politica teatrale pubblica,
propose che il Ministero della Cultura popolare non si occupasse dell’insieme
delle compagnie professionali, alle quali, avrebbe dato alla fine o all’inizio della
stagione, un premio di incoraggiamento annuo non superiore alle 30.000 purchè
esse siano formate per un periodo non inferiore ai 7 mesi di attività recitativa,
basata su un repertorio italiano.
Fra le compagnie primarie il ministero doveva scegliere 3 o 4 fra le migliori che
siano superiori alle altre sia per la formazione del proprio elenco artistico che
per i propositi di realizzazione e di repertorio e dare loro aiuto.
De Pirro preoccupato per l’impostazione iniziale dei sovvenzionamenti, forse
qualitativamente non abbastanza selezionati, proponeva di sostenere con aiuti
finanziari adeguati la formazione di complessi artistici stabili a Roma e Milano.
Si dovevano creare compagnie stabili d’arte che avrebbero creato l’elemento
centrale di un vero Teatro di Stato: questa era anche l’ipotesi di D’Amico. La
proposta di De Pirro voleva recuperare le istanze di fondo di quella ipotesi,
distinguendo alcune formazioni molto qualificate alle quali assegnare ogni anno
una somma di 150.000 lire da altre secondarie e minime. La relazione al
Ministro della Cultura popolare suggeriva di allargare e potenziare la Reale
Accademia d’Arte drammatica creandone una seconda in un’altra grande città
italiana.
Le indicazioni del memoriale del 1938 furono messe in pratica per le compagnie
minori e in maniera parziale per le maggiori, rispetto alle quali il progressivo
perfezionamento del sistema delle sovvenzioni consentì che i finanziamenti
venissero sempre più concentrati su determinati complessi. La compagnia di
Ruggero Ruggeri, ad esempio, che nel 1936 aveva ottenuto un contributo di
5000 per la messa in scena di Non si sa come di Pirandello e nel 1937 10.000
lire per la commedia Mazzarino di D’Ambra – Bonelli, nel 1941 ricevette 2
premi di 50.000 lire ciascuno a titolo di sovvenzione eccezionale.
In affinità con le linee indicate da De Pirro, si affermò la tendenza a
sovvenzionare l’attività di alcune compagnie primarie: quindi lo stato aveva
maggiori responsabilità finanziarie, il quale era disposto a proteggere
determinate formazioni. Il percorso fu leggibile nei confronti della compagnia di
Antonio Gandusio che nel 1941 ottenne una sovvenzione di 200.000 lire. Una
somma così elevata veniva data solo alle 2 o 3 compagnie drammatiche di
categoria primarissima.
Con ogni probabilità la sovvenzione che fra gli anni Trenta e Quaranta lo Stato
assegnava alle compagnie di prosa primarie doveva essere superiore alle
100.000 lire su uno stanziamento complessivo di 3 milioni di lire. Questo
elemento si intuisce dalle delusioni della compagnia primaria Viarisio – Porelli
che nel 1940 – 41 aveva ricevuto un contributo di 80.000 lire inferiore alla
somma accordata in media alle altre compagnie primarie. Un caso emblematico
di più alti sovvenzionamenti, ma anche di una nuova loro qualità, è quello della
compagnia Dina Galli che nella stagione 1940 – 41 ottenne una sovvenzione di
50.000 lire, portata a 70.000 lire per l’intervento diretto di De Pirro. Questa cifra
comprende il rimborso spese per le prove e la messa in scena. Il caso della Galli
testimoniava un forte aumento del livello medio di sovvenzionamento alle
compagnie primarie all’inizio degli anni Quaranta, cosa che si riscontrò in tutta
Europa. In Francia, per esempio, lo scoppio della guerra vide l’aumento del 65%
dei sovvenzionamenti ai 3 teatri nazionali e vide l’ampliamento dei soggetti
privati cui vennero destinati fondi ministeriali: nel 1937 solo 3 strutture private
si dividevano un contributo di 60.000 franchi, mentre nel 1943 vennero sostenuti
più di 60 teatri privati per un totale di 5 milioni di franchi.
Accanto alla grande attenzione per le compagnie primarie, il regime si aprì al
teatro dialettale, al varietà e alle compagnie minori chiamate “minime”. Queste
scelte avrebbero sospeso la polemica contro le compagnie dialettali portata
avanti durante gli anni Trenta.
Durante gli anni Trenta accanto alla prassi di finanziare le compagnie in maniera
regolare, si segnalarono alcuni episodi eccezionali che andarono di pari passo
con la scelta di valorizzare operazioni legate alla creazione ed al mantenimento
del consenso politico al regime.
Il caso più clamoroso, riguardo la produzione e la gestione delle tournées dello
spettacolo Cesare, scritto da Mussolini e da Gioacchino Forzano come ultima
opera di una trilogia ideata dalla Suvini – Zerboni e distribuito in molte città
italiane, ottenne nel 1939 – 40 una serie di finanziamenti fuori dall’ordinario.
La storia dei progetti produttivi protetti dallo Stato, era stata inaugurata qualche
anno prima con la Compagnia Grandi spettacoli d’Arte, costituita per le
rappresentazioni di Simma di Pastonchi e altri lavori di D’Annunzio, Pirandello
e Shaw. Il progetto diretto da Marta Abba e Memo Benassi si svolgeva nel
nuovo clima verso un teatro di massa di propaganda fascista, promosso a
partire dal Convegno Volta del 1934. Il progetto era stato sostenuto
economicamente da alcuni imprenditori privati, accanto ad una forte
sovvenzione di 90.000 lire dell’Ispettorato del teatro; ma l’elemento nuovo era
stato l’intervento diretto di Mussolini che nel 1935 aveva stanziato un sussidio
straordinario di 200.000 lire. Gli obiettivi più importanti e urgenti erano il
controllo delle compagnie e la loro adesione, obbligatoria per chi volesse
usufruire degli aiuti ministeriali, alle direttive del fascismo.
Tra maggio e giugno, annunciava il Bollettino di segnalazioni del Ministero per
la Stampa e propaganda nel 1936, quasi tutte le compagnie di prosa, come
prestabilito, si scioglieranno. Si annunciava una nuova organizzazione del teatro
dove veniva rimesso in discussione lo stesso calendario delle stagioni,
inaugurate il primo giorno di quaresima con compagnie formate su un periodo
medio di 3 anni: per il 1936 – 37 l’anno teatrale inizierà il 28 ottobre e
coinciderà con l’anno fascista. Da allora, soprattutto nelle città principali, i
cartelloni dovevano inaugurarsi nell’anniversario della marcia su Roma, con
spettacoli tratti quasi sempre da testi italiani.
Il cambiamento del calendario sintetizzava il nuovo paesaggio della scena
italiana caratterizzata da una forte presenza pubblica. Per la prima volta nella
storia italiana lo stato interveniva sulle questioni sindacali, sui contratti fra gli
artisti e i teatri, sulla formazione delle stesse compagnie favorendo la
costituzione del maggior numero di complessi artistici con la fusione dei
migliori elementi. Dal 1934 al 1936 l’intensa opera di riorganizzazione
comportò varie forme di istituzionalizzazione della vita delle compagnie di
prosa, da allora regolata da nuovi vincoli e procedure burocratiche. Varie
occasioni provocarono discussioni e stimoli nella direzione di un teatro
nazionale di lingua italiana che si potesse aprire a un pubblico popolare di
massa. Si stabilì un rapporto costrittivo fra lo stato ed il teatro che in cambio del
sostegno economico ad alcune imprese produttive selezionate, cominciò allora a
perdere autonomia di iniziativa e di proposta.

3. UN NUOVO SISTEMA DELLO SPETTACOLO


L’anno 1935 – 36 ha segnato la stagione di partenza per una nuova vita del
teatro italiano; la riorganizzazione del teatro in Italia era stata avviata prima sul
terreno sociale e tecnico per poi rivolgersi alle questioni estetiche. Illustrando la
nuova struttura organizzativa, De Pirro ricordò come il regime avesse riordinato
la vita teatrale, mentre il paese era impegnato in una grande guerra coloniale ed
era assediato dal punto di vista economico. L’Ispettore elencò l’opera di
sovvenzionamento alle compagnie, le agevolazioni ferroviarie, l’avvio di forme
di credito edilizio per rinnovare le sale e le iniziative adottate per promuovere un
nuovo pubblico.
Il 28 ottobre 1935 l’avvio dell’anno teatrale, inaugurato dai discorsi del duce a
Roma, del ministro Alfieri a Milano e De Pirro a Torino, vide la formazione di
22 compagnie primarie che preferivano il repertorio nazionale alle opere
straniere. In quella stagione furono rappresentate 89 novità italiane (12 dialettali)
e 31 straniere: 32 erano commedie, 40 drammi e 17 testi del genere giallo.
Questa inversione di tendenza, evidente rispetto alla vecchia egemonia del
repertorio francese, fu resa possibile dal lavoro svolto dall’Unione nazionale
dell’arte teatrale, un consorzio nato grazie alla Federazione nazionale fascista
degli industriali dello spettacolo, che associava gli esercenti dei teatri e dei
cinema con le compagnie liriche, di prosa, di operetta e di arte varia. Il
Consorzio, diretto da Remigio Paone, doveva organizzare i circuiti degli
spettacoli teatrali nei vari generi. Nella prima stagione, dopo la ristrutturazione,
l’UNAT riuscì a stipulare 1452 contratti per un ammontare di 5676 recite delle
compagnie primarie: oltre il 35% di queste rappresentazioni furono fatte a Roma
e Milano; il 28% nelle altre città italiane grandi mentre il restante 36% in
provincia. Nelle grandi città si incassarono più di 17 milioni di lire.
L’attività dell’UNAT creò una frattura con il sistema tradizione di circuitazione
delle compagnie. Per la stagione 1936 – 37 il Consorzio poteva annunciare già
alla fine di agosto la stipulazione di contratti che avrebbero coperto 3576 recite
sulle 4667 previste nell’intera stagione per le principali compagnie di prosa. Nei
messi successivi l’UNAT riuscì a coprire altre 400 repliche in modo da garantire
un giro quasi completo alle compagnie primarie. Questi dati testimoniano il
nuovo ruolo degli organismi statali e delle rappresentanze delle categorie
nell’organizzazione del mercato teatrale.
L’azione dell’UNAT fu intensa anche nei confronti dell’avanspettacolo, per il
quale nel 1935 – 36 stipularono molti più contratti rispetto all’anno precedente.
La programmazione dell’avanspettacolo, il quale era molto diffuso, era regolata
dal Consorzio, dove la Federazione fascista degli industriali dello spettacolo
aveva un peso notevole. Il Consorzio forniva pareri sulla qualità dei complessi
artistici e sulla loro possibilità di collocamento nei circuiti ufficiali del teatro,
istituendo anche un libretto di giro per ogni compagnia dove documentare le
variazioni di attività.
Non tutta l’attività dell’UNAT ebbe risultati positivi perché aveva difficoltà
nell’intervenire nei confronti delle compagnie di operetta e di rivista. Alla fine
del 1936 lo spettacolo italiano mostrava i segni di una soluzione di continuità. Il
corporativismo dimostrò nel teatro un certo grado di funzionamento e
operatività. Anche se le decisioni più importanti vennero prese dall’ispettorato e
dalla direzione generale del teatro, a volte è documentabile una presenza
consultiva della corporazione dello spettacolo assieme alla federazione fascista
degli industriali dello spettacolo, la quale si occupava della creazione di
compagnie drammatiche attraverso l’opera di assistenza e selezione, mirata a
guidare i capocomici nell’elaborazione dei progetti e ad assicurare l’osservanza
delle direttive emanate dal ministero della cultura popolare. La federazione degli
industriali dello spettacolo doveva anche valutare i progetti con gli organismi
ministeriali competenti per accertarne le esigenze finanziarie e i meriti artisti
riconosciuti alle compagnie. La Federazione gestiva il meccanismo delle
sovvenzioni attraverso le anticipazioni bancarie da assegnare ai capocomici e
agli impresari lirici.
L’accentramento burocratico del teatro fu accompagnato da un’intensa opera
promozionale che utilizzò i diversi canali. Furono sfruttate le possibilità offerte
dalla radio, grazie alla quale si diffusero drammi ed opere liriche. Altre
iniziative come il Sabato teatrale o i Carri di Tespi furono importanti.
Nonostante l’intensa azione pubblica, tuttavia ci fu l’impressione che i vari
strumenti legislativi ed organizzativi impiegati servivano per tamponare la crisi
della scena. Infatti nelle stagioni 1935 – 36 e 1936 – 37 ci fu un aumento degli
incassi per le compagnie, ma già la stagione successiva mostrò una ripresa del
trend negativo. Diminuì anche il pubblico e il numero delle rappresentazioni in
provincia. Nell’anno teatrale 1937 – 38 l’UNAT stipulò 1283 contratti per 4600
giornate di spettacolo.
Nel triennio 1926 – 28 l’OND aveva indetto 3 concorsi filodrammatici
nazionali, dove si contarono 800 formazioni amatoriali; in quel momento i
responsabili del Dopolavoro trasformarono il ruolo del movimento, il quale
doveva superare il ruolo propagandistico. Nella seconda metà degli anni Venti,
nel Meridione, il movimento dopolavoristico era cresciuto ma ciò aveva portato
con sé molti elementi deteriori, soprattutto nelle città più grandi. Questa
situazione aveva facilitato la diffusione dei vizi delle compagnie professionali
anche all’interno del teatro amatoriale: i complessi filodrammatici erano in
competizione fra di loro per accaparrarsi i migliori elementi e quindi la
creazione di complessi a mattatore, non potevano essere ammessi nella
filodrammatica. I grandi capoluoghi di provincia, quindi, dovettero scogliere i
complessi che avevano questi difetti e favorire attraverso processi di fusione, la
nascita di una filodrammatica – locale – tipo.
Alla fine degli anni Venti si affermò l’idea che le compagnie amatoriali
dovessero esprimere forme di teatro sperimentale basate sulle opere dei giovani
autori italiani. Molti osservatori di allora avevano visto nel teatro
filodrammatico una possibilità di rinascita della scena nazionale. Nel 1928
Ghislanzoni diceva che era necessaria una nuova fioritura drammaturgica
collegata alla stabilizzazione e diffusione delle esperienze dopolavoristiche,
apprezzando la Direzione dell’OND che intervenne per indirizzare le
filodrammatiche - tipo al compito di compagnie sperimentali, piccole stabili. Ciò
segnò un primo passo verso il Teatro drammatico di Stato.
Le compagnie amatoriali furono organizzate da Federazioni provinciali che
dovevano controllarne le attività attraverso un rigido sistema gerarchico che
favorisse la propaganda a livello nazionale. Un regolamento stabilì che la
filodrammatica – tipo dovesse essere creata senza ruoli, essere retta da un
direttore artistico bravo, essere numerosa.
In realtà questa riorganizzazione del settore fu dovuta allo scarso livello artistico
dimostrato dalle compagnie ed al basso livello di controllo politico su di esse.
Dopo questa ristrutturazione, negli anni Trenta, il movimento comunque crebbe
ancora. Il nuovo decennio vide una crescita quantitativa e qualitativa, come
dimostrò il IV concorso nazionale per filodrammatiche promosso al Teatro
Argentina nel 1935 dove parteciparono 19 compagnie selezionate prima a livello
locale e poi regionale:
1) Filodrammatica Tommaso Salvini del dopolavoro di Empoli, fondata nel
1916 da operai e artigiani;
2) Filodrammatica dopolavoro provinciale di Firenze, creata negli anni
Trenta;
3) Filodrammatica “Città di Osimo” nata ad Osimo grazie a studenti,
impiegati e professionisti;
4) Filodrammatica – tipo del dopolavoro di Taranto creata da liberi
professionisti nel 1929;
5) Filodrammatica Ermete Novelli del dopolavoro di Lucca che aveva abolito
i ruoli;
6) Filodrammatica stabile dopolavoro di Napoli dove vi era un repertorio
vario (Le gelosie di Lindoro di Goldoni, Madonna Oretta di Forzano).
7) Filodrammatica artistico operaia dopolavoro di Roma, creata nel 1875 da
Mons. Domenico Jacobini. La filodrammatica romana, di impronta
religiosa aveva allestito questi lavori che avevano glorificato la santità
della famiglia, la virtù e il compimento dei santi doveri;
8) Filodrammatica del dopolavoro ferroviario di Torino, fondata nel 1926 da
un gruppo di impiegati delle ferrovie. Si recitava di domenica, da ottobre a
giugno. Era diretta da Mario Pederzini;
9) Filodrammatica Brigata d’arte del dopolavoro di Catania, nata nel 1910.
Dopo la sua riorganizzazione riunì i migliori attori della provincia; aderì
alle esigenze moderne del teatro contemporaneo;
10) Filodrammatica Filippo Corridoni del dopolavoro di Cagliari, nata
nel 1927;
11) Filodrammatica del dopolavoro ferroviario di La Spezia, nata nel
1930.
12) Filodramma del dopolavoro postelegrafonico di Palermo, nata nel
1928;
13) Compagnia filodrammatica “Eclettica” del dopolavoro di Venezia
nata nel 1931 su un programma di rinnovamento che escludeva i ruoli fissi
per gli attori.
14) Filodrammatica del dopolavoro ferroviario di Roma nata nel 1930.
Possedeva il Teatro Italia;
15) Filodrammatica Giovanni Emanuel del dopolavoro di Roma nata nel
1921. Era formata da liberi professionisti e impiegati fascisti.
16) Filodrammatica del dopolavoro del pubblico impiego di Trieste, nata nel
1927;
17) Filodrammatica del dopolavoro ferroviario di Milano, nata nel 1926. Abolì
i ruoli e fu la prima ad attuare i moderni sistemi di allestimento scenico.
18) Filodrammatica Piacentina del dopolavoro di Piacenza;
19) Gruppo filodrammatico labronico del dopolavoro di Livorno, nato nel
1922.
Il concorso del 1935 offrì una panoramica esemplare del movimento
filodrammatico dove vi era la presenza di impiegati pubblici e liberi
professionisti con le varie tendenze artistiche e i diversi ideali.
I vertici fascisti adottarono una politica efficiente nei confronti dei generi di
spettacolo più praticati allora. Per quanto riguarda la lirica, il ministero per la
cultura popolare dopo la metà degli anni Trenta promosse molte manifestazioni
all’aperto. Venne istituzionalizzata l’estate musicale italiana ed avviato il centro
lirico italiano nel 1937 che doveva coordinare le attività liriche. Nel 1937
aumentarono gli incassi, toccando i 29 milioni, dai 25 milioni di lire del 1936. Il
numero delle stagioni organizzate col concorso di enti pubblici passarono da 186
a 278 e venne rilanciato il mercato straniero, il quale passò da 153
rappresentazioni liriche italiane all’estero del 1936 a 289 nell’1937.
Intanto procedeva la trasformazione giuridica di molte strutture private e nel
1943 furono riconosciuti 10 enti lirici: Il Teatro Reale dell’Opera di Roma, il
Teatro alla Scala di Milano, il Teatro La Fenice di Venezia, Il Teatro Arena di
Verona, il Teatro San Carlo di Napoli, il Teatro Verdi di Trieste, Il Teatro
comunale di Bologna, Il Teatro Carlo Felice di Genova, il Teatro Massimo di
Palermo e quello comunale Vittorio Emanuele di Firenze. Vennero erogati in
quell’anno contributi statali di 12 milioni di lire, di cui quasi la metà destinati
alla Scala. Per il San Carlo, invece, durante gli anni 30 la sovvenzione si
stabilizzò intorno alle 4 – 5centomila lire.
L’intensificarsi dell’azione governativa comunque non risolse tutti i problemi.
Ci furono segnali positivi anche nella rivista, la cui stagione 1936 – 37 fu
caratterizzata dalla presenza di 13 compagnie riconosciute. Analoghi effetti si
riscontrarono nel campo dell’avanspettacolo, le cui formazioni furono
selezionate da 243 a 133.
La regolamentazione del mondo dell’avanspettacolo era necessaria in seguito
alle polemiche all’inizio degli anni 30 dei gestori delle sale cinematografiche,
sostenuti dalla Federazione nazionale fascista delle industrie dello spettacolo.
Nel 1931 la società cinematografica Marino aveva sollecitato l’attenzione del
duce affinché vietasse la diffusione dell’avanspettacolo perché andava a danno
delle principali ditte italiane. Infatti furono chiuse 350 sale cinematografiche su
550 attive e diminuirono gli incassi del 20%. L’affermazione dei film sonori e
parlati aveva aumentato le spese per gli impianti tecnici, reso ancora più acuto
dalla decisione del governo di proiettare pellicole in lingua straniera. Ne
derivarono pochi film di buona qualità, aumentò la concorrenza fra le sale di
diversa categoria, aumentarono le percentuali di noleggio, la necessità di
integrare gli spettacoli cinematografici con costosi spettacoli di varietà, di
riviste, operette e prosa.
Vi erano poi le spese relative al noleggio dei cinegiornali Luce, le eccessive
agevolazioni per i GUF e l’OND, la rapida affermazione degli spettacoli sportivi
e la concorrenza esercitata dalle sale gestite da istituti e associazioni religiose
che sono diventate sempre più numerose e praticano prezzi irrisori.
Nel 1934 con la nascita della Direzione generale per la cinematografia, il
governo cominciò a sostenere il cinema, favorendo l’istituzione di studi di
doppiaggio ed obbligando gli esercenti a proiettare le pellicole italiane, la cui
produzione veniva finanziata attraverso un sistema di anticipazioni gratuite. In
virtù di questo sistema di sovvenzionamento, attivato grazie la nascita di una
sezione autonoma per il credito cinematografico presso la banca nazionale del
lavoro, l’industria del cinema italiano raggiunse una produzione di circa 30
pellicole all’anno. La creazione nel 1937 di Cinecittà, il quale era dotato di 16
teatri di prosa e delle attrezzature più avanzate tra tutti i paesi europei, consentì
una prima affermazione della cinematografia nazionale. Nel 1936 – 37 la
Federazione fascista degli industriali dello spettacolo dichiarò di aver incasso 50
milioni di lire per le 29 pellicole italiane nuove, oltre ai 20 milioni dei film delle
stagioni precedenti.
Ciò portò a riformulare i rapporti fra il cinematografo e il teatro sul piano
organizzativo e su quello dei linguaggi. Il cinema prese dal teatro molte
indicazioni tecniche, soprattutto a livello dei testi e dei sistemi di scrittura
(l’impostazione dei dialoghi) e di tecnica narrativa. Molti esponenti del mondo
teatrale (soprattutto di quello vecchio), incapaci di cogliere i cambiamenti
strutturali che stavano investendo la scena, presero le distanze dal linguaggio
cinematografico. Per loro si doveva limitare la prestazione degli attori di prosa
nella cinematografia a 4 mesi l’anno, quelli estivi (da luglio a ottobre) in cui la
maggior parte dei teatri è chiusa. Si crearono compagnie precarie che duravano 5
mesi da gennaio a maggio. Per loro il cinematografo stava uccidendo il teatro,
soprattutto con il suo nuovo linguaggio.
Il rapporto fra gli attori di teatro ed il cinema era già stato sperimentato prima
della guerra mondiale quando in Italia e in Europa, si erano realizzati i primi
film d’arte. I produttori cercavano storie elevate e nomi prestigiosi fra gli attori
di teatro. In Italia, in questo modo gran parte dei primattori famosi cominciarono
a fare cinema, e viceversa. L’Italia si era interessata al film d’arte dal biennio
1911 – 12 quando l’Ambrosio lanciò una serie dannunziana, ma i veri attori si
interessarano di cinema più tardi: La Pezzana nel 1915, la Duse nel 1916,
Zacconi.
Nonostante questo intenso scambio, l’atteggiamento degli attori e del teatro
verso il cinema fu ambivalente. La mancanza di interpreti cinematografici veri
consentì a diversi attori teatrali, attirati da guadagni più alti, di passare al
cinema. Importante l’esperienza dei fratelli De Filippo che durante gli anni 30
percepirono come compenso per ogni film realizzato 100/150.000.
Lo sfruttamento delle nuove opportunità fu accompagnato da un continuo
pregiudizio culturale che impedì a molti uomini di teatro italiano di considerare
il cinema un mezzo artistico, in quanto veniva avvertito come una sorta di
concorrenza al teatro. anche il cinema raccontava storie per loro, ma come un
teatro meccanizzato in cui la macchina prevale sull’uomo e la vita è
mummificata. Nei pirandelliani Quaderni di Serafino Gubbio operatore è
stato individuato il documento più alto del rifiuto del cinema da parte della
cultura italiana che, a parte i futuristi, inizialmente criticò il nuovo linguaggio
non ritenendolo adatto all’arte e relegandolo ad una forma di intrattenimento.
Essi auspicarono per il teatro un ritorno alla sua vecchia funzione artistica. Per
loro lo schermo non potrà mai sostituire il palcoscenico perché le creature che
esso riflette sono le ombre che si agitano macchinalmente. Non commuove lo
spettatore facendolo partecipe dei grandi sentimenti. Tra gli anni Venti e Trenta
anche il giudizio di D’Amico sul cinema era negativo: il cinematografo gli
appariva come una creazione americana, ovvero di un popolo che ama poco la
lettura meditata e molto la visione superficiale.
Nella seconda metà degli anni Trenta il panorama teatrale appariva fortemente
variegato sul piano organizzativo, ma rimanevano tutti gli elementi strutturali
della crisi: dal ritardo del teatro con cui individuò una sua diversa funzione alla
difficoltà ad affermare nuovi moduli produttivi. Il teatro drammatico nel corso
degli anni Trenta, nonostante la presenza dello stato, non riuscì a definire un
rapporto creativo e autonomo con il pubblico, la cui composizione sociale stava
cambiando.
Nella società contemporanea, soprattutto nelle grandi città, per l’aumento del
benessere, le forme di svago e divertimento sono aumentate e diffuse.
Ghislanzni si lamentava di non trovare più il tradizionale ridotto e il teatro
goldoniano, ma locali di spettacolo che si facevano concorrenza: cinematografia,
varietà, sale da ballo, teatri d’operetta, di prosa, manifesti, mostre luminose che
stordiscono il pubblico per interessarlo e sedurlo. Quelle posizioni esprimevano
un sentimento di difesa e di conservazione di fronte a questa trasformazione
sociale, a questo cambiamento dei gusti. Molti uomini di teatro lirico e
drammatico mostrarono uno sguardo rivolto al passato, al melodramma dell’800
e ai grandi modelli attorali del teatro all’antica italiana, un mondo che stava
scomparendo.
Altre voci, come quelle dei giovani dei teatriguf o di quei pochi uomini di teatro
aperti alla sperimentazione del linguaggio scenico, tentarono invece di
interrogarsi sui limiti del teatro rispetto al cinema e sulle sue possibilità future. Il
pubblico, come diceva Bragaglia, si era abituato al cinema alle grandi sensazioni
rappresentative e non poteva più accontentarsi del teatro, anche perché era
cambiata la società e quindi anche il pubblico. Il pubblico non è costituito più
perlopiù dalla borghesia intellettuale, ma da negozianti, industriali, categorie del
proletariato a cui il rivolgimento economico della guerra, del dopoguerra ha
portato ad un tenore di vita cui non erano preparati né intellettualmente né
culturalmente.
La conseguenza di tutto ciò fu che il capocomico o l’impresario che voleva
riempire il teatro, rivolgeva al nuovo pubblico formato dal ceto medio piccolo –
borghese un genere di spettacoli inferiori. Di fronte all’avvento di questa nuova
società di massa il mondo teatrale cercò di adattarsi, di collegare la propria arte
alle nuove richieste di intrattenimento e divertimento, cercando un teatro di
evasione che andasse incontro ai desideri del pubblico. Tutti disprezzarono il
cinema, ma tutti cercarono molto presto occasioni di lavoro cinematografico, sia
gli autori che gli attori di prosa e del varietà.
Solo pochi uomini di teatro come Pirandello o Eduardo De Filippo avviarono
una nuova fase del proprio lavoro. Altri, come Ermete Zacconi, continuarono a
diffondere la propria arte teatrale tradizionale. Qualcuno invece abbandonò il
teatro assumendo un atteggiamento di chiusura nei confronti di un mondo che
non gli apparteneva.

4. GLI INTERPRETI PER IL TEATRO DI OGGI E DOMANI


Pierantoni scrisse a Mussolini che visto che i figli d’arte, cioè i figli di comici
che imparavano l’arte del recitare sul palcoscenico, bisognava creare la scuola
di teatro, affidando il compito di insegnare a veri maestri. Fino a quel momento
le scuole di recitazione avevano dato scarsi risultati proprio perché non tutti gli
insegnanti avevano i requisiti necessari. In Italia però vi erano ancora dei buoni
attori che potevano essere anche buoni maestri.
Il responsabile degli industriali dello spettacolo aveva suggerito di sopprimere le
scuole dilettantistiche di recitazione e di riunire tutte le forze in un’unica scuola
capace di unire la formazione di nuovi professionisti alla riorganizzazione del
teatro italiano. Il ministero dell’educazione nazionale però replicava dicendo che
il bilancio non consentiva l’ulteriore sviluppo della regia scuola di recitazione
Eleonora Duse e nemmeno la creazione di una nuova istituzione. Questo
conservatorio avrebbe incontrato le stesse difficoltà che incontrò la fondazione
di un teatro stabile drammatico le cui basi finanziarie erano modeste.
Nel corso degli anni Venti anche le condizioni del sistema formativo avevano
mostrato gravi carenze di efficacia ed operatività. Nel primo dopoguerra era
stata chiusa la Scuola di recitazione diretta da Luigi Rasi dal 1882 al 1918 nel
Teatro di via Laura a Firenze. Nell’insegnamento Rasi aveva operato verso un
nuovo rispetto per gli autori drammatici e il riconoscimento da parte dell’attore
della propria incompetenza viste le sue opere; nella scuola fiorentina quindi fu
avviata una pedagogia attenta a stimolare nell’attore il lavoro critico –
interpretativo da realizzare sul testo, insieme ad una grande importanza data alla
scena e ai costumi.
I procedimenti di alcuni primattori in rapporto ad alcune parti centrali del loro
repertorio venivano tradotti in metodo per l’attore principiante. Alla figura del
filodrammatico, che cerca di impossessarsi del sapere teatrale custodito dai figli
d’arte si sostituisce la figura dell’apprendista attore che sperimenta un progetto
teatrale che fa a meno e rifiuta il teatro dei vecchi attori.
Alla fine degli anni Venti l’unica scuola statale ancora attiva era rimasta la
Regia Scuola di recitazione Eleonora Duse presso l’Accademia di S. Cecilia a
Roma. Essa aveva vissuto lunghi periodi di instabilità dovuti alla mancanza di
una direzione artistica solida e duratura fino a quando Franco Liberati non ne
assunse l’incarico nel 1927. Allora si tentò il suo rinnovamento attraverso un
programma di conferenze tenute da registi e studiosi di teatro come D’Amico,
Bragaglia e ad un allargamento delle attività attraverso l’organizzazione di corsi
speciali rivolti a professionisti, avvocati e a coloro che dovevano parlare in
pubblico e volevano correggere i difetti di pronuncia. L’idea di Liberati di
ridefinire l’identità della Scuola Eleonora Duse era stato anche un modo per
rispondere al basso indice di frequenze, nell’anno del suo arrivo ridotte al
numero di 7 – 8 allievi.
Un panorama così povero di istituti dedicati alla pedagogia teatrale testimoniava
il predominio di un altro tipo di formazione dell’attore; fino agli anni Trenta la
vita delle compagnie italiane era regolata da un sistema tradizionale
d’insegnamento teatrale. L’arte scenica veniva trasmessa di generazione in
generazione. Con la crisi del teatro all’antica italiana e con la scomparsa delle
famiglie d’arte, era venuto a soluzione quell’antico strumento di formazione
attorale. A questo si accompagnava e spesso sostituiva il metodo
dell’insegnamento diretto, praticato sulla scena dai capocomici.
In passato si riteneva che la formazione degli attori dovesse realizzarsi solo sul
palcoscenico, mentre pochi si erano battuti per una preparazione tecnica e
culturale metodica che solo un’istituzione scolastica poteva garantire. Col
tempo, la crisi strutturale delle famiglie d’arte diede ragione alle idee di Talli e
dei pochi riformatori. Liberati nel 1933 proseguì la sua battaglia per una scuola
di teatro concepita con criteri adeguati ai modelli già esistenti in altre nazioni
europee, affermando che nel teatro non c’è più un figlio d’arte al di sotto dei 40
anni e che in Italia l’interpretazione scenica sta affrontando la crisi più grave
della storia del suo teatro. In tutti i paesi la scena fu rinnovata dagli attori usciti
dai Teatri – Scuole create dai riformatori. Liberati riuscì a vivacizzare la vita
interna della Scuola dalla quale erano usciti autori di futuro successo come
Paolo Stoppa e Anna Magnani, ma si lamentava con il ministero affinché
garantisse un minimo di borse di studio per i suoi allievi, come quelle di mille
lire al mese assegnate da tempo dal teatro reale dell’opera ai giovani studenti di
canto. Nei primi anni Trenta la Scuola Eleonora Duse agiva per 4 ore al giorno,
tranne il giovedì e la domenica, guidata da Silvio D’Amico, responsabile
dell’unica cattedra di teatro drammatico esistente in Italia e di 3 maestri di
recitazione che curavano la parte espressiva prestando attenzione alla dizione, al
contegno e al gesto. Nonostante gli sforzi del direttore però, l’unica scuola
pubblica di teatro in Italia aveva solo 10 studenti l’anno.
Si dovette attendere la metà degli anni Trenta perché si riorganizzasse il sistema
formativo pubblico in termini negativi nel 1923 da parte del ministro Gentile;
infatti in quell’anno fu soppressa la Regia scuola di recitazione di Firenze e
lasciata in vita con un nuovo regolamento la scuola di Roma. 12 anni dopo, una
completa ristrutturazione della scuola romana condusse alla nascita della Regia
Accademia di Arte drammatica che rappresentò la realizzazione più importante
del progetto di D’Amico.
L’Accademia copriva un vuoto. Un sistema educativo basato sulle famiglie
d’arte o sulla lunga esperienza del grande attore era crollato appena si era
interrotta la stabilità delle compagnie a carattere capocomicale e si era innestato
nelle formazioni un diverso principio organizzativo, basato di più sulla
stagionalità e sull’investimento imprenditoriale. Quel vuoto non poteva essere
riempito dalla funzione avuta dalle filodrammatiche anche sul piano formativo.
Prima del movimento filodrammatico milanese erano emerse figure del livello di
Cesare Rossi, Giacinta Pezzana e Giovanni Emanuel; dalle filodrammatiche
romane veniva Antonio Gandusio. Nel teatro amatoriale si erano formati attori
come Ruggeri, Donadio, Maria Melato e Marta Abba.
L’accademia rispose alle nuove necessità di un’organizzazione teatrale in larga
parte industrializzata nei metodi e nelle mentalità produttive, per cui si riduceva
il tempo dello studio e dell’apprendimento: al momento del contratto ed
all’avvio della stagione, il giovane artista della scena doveva già essere
professionalmente formato. Mancavano gli attori. L’aumento delle richieste di
assunzione di attori, registi e tecnici ha causato un eccessivo aumento del livello
medio delle retribuzioni di questi elementi. Ci furono anche i primi
inconvenienti legati ai doppi impegni e alle parziali sovrapposizioni dei periodi
di scrittura dei singoli attori, che sono una conseguenza della scarsa disponibilità
di elementi idonei.
La scelta del regime di attivare quella parte del progetto di D’Amico si può
spiegare con l’esaurirsi della tradizione dei figli d’arte e la mancanza di attori e
attrici professionalizzati. Cominciarono allora anche i primi fenomeni di
lievitazione dei compensi degli elementi primari. Bisognava creare un centro
formativo che si prefiggesse uno stretto legame con il mondo della produzione
media nazionale e non si proponesse come teatro d’eccezione, un luogo per la
creazione di un teatro d’arte.
Dei motivi strutturali stavano alla base del decreto governativo che il 4 ottobre
1935 trasformò la Regia Scuola di recitazione Eleonora Duse in Accademia
nazionale d’arte drammatica. Il suo statuto prevedeva la nomina di un
Presidente, Direttore e una Commissione artistica e un consiglio dei professori.
Nel corso triennale gli insegnamenti per gli allievi attori consistevano in
recitazione e storia del teatro e in altre secondarie come danza, ginnastica,
scherma ed elementi di canto; gli allievi registi avevano le stesse materie
principali e tra le complementari, storia del costume, scenotecnica e trucco. Ogni
classe aveva un minimo di 15 ore settimanali delle discipline principali
(recitazione o regia) e 3 ore di storia del teatrorante gli anni Trenta questo rante
gli anni Trenta questo rante gli anni Trenta questo rante gli anni Trenta questo .
Nel primo anno l’insegnamento della recitazione era basato sull’apprendimento
della corretta dizione per assumere poi nei 2 anni successivi un maggiore
carattere artistico. Alla fine del triennio gli allievi attori e registi avrebbero
dovuto dimostrare le tecniche acquisite attraverso un saggio preparato da loro.
Grande attenzione era data alla disciplina interna che andava dalla proibizione di
partecipare senza autorizzazione della scuola ad attività teatrali fuori
dall’Accademia, alla necessità di presentare un certificato di buona condotta
morale, civile e politica insieme all’iscrizione al Partito nazionale fascista.
I primi anni scolastici videro la presenza in Accademia di maestri di regia come
Guido Salvini e Tatiana Pavlova, mentre la recitazione venne affidata a diversi
attori come Irma Gramatica, Luigi Almirante. Fin dal primo anno 1935 – 36
furono bandite 24 borse di studio per 24 allievi, fra i quali ogni anno venivano
selezionati i 3 più meritevoli per garantire loro una prima stagione a contratto
all’interno di enti e compagnie sovvenzionati dallo Stato. In questo stretto
intreccio tra formazione e inserimento nel mercato del lavoro di attori e registi
più promettenti risiede la caratteristica vincente dell’Accademia di D’Amico,
che divenne subito il principale luogo formativo del teatro italiano.
Nella prima selezione di compagnie primarie fatta dal governo nella stagione
1935 – 36 si segnalava la presenza di alcuni giovani come Amedeo Nazzari,
Lilla Brignone, etc…: furono loro i nuovi attori del teatro italiano prima della
nascita dell’Accademia d’arte drammatica. Alcuni, come la Andreina Pagnani si
erano formati nelle filodrammatiche, altri provenivano dalla scuola di
recitazione Eleonora Duse come Anna Magnani, la quale si rivelò attraverso la
rivista e l’avanspettacolo. Durante gli anni Trenta questo ruolo delle
filodrammatiche si mantenne in vita grazie all’istituzione presso ogni
Federazione provinciale dell’OND di una scuola di teatro; ma presto
l’Accademia divenne la vera fucina degli attori e dei registi del teatro italiano.
Parallelamente alla ristrutturazione del sistema formativo teatrale il regime
operò in modo complementare per la creazione di una struttura simile proiettata
verso il mondo del cinema. Nel 1931 era stata creata a Roma sotto la direzione
di Alessandro Blasetti ed Ernesto Canda, una scuola nazionale di cinematografia
all’interno dell’Accademia di Santa Cecilia, ma le sue carenze organizzative
avevano spinto le autorità fasciste a trasformarla nel 1935 in un centro
sperimentale di cinematografia. Il centro, diretto da Luigi Chiarini, doveva
chiamare, raccogliere, selezionare e perfezionare tutti quelli che volevano e
potevano far parte del mondo cinematografico. L’istituzione quasi
contemporanea dell’Accademia d’arte drammatica e del Centro sperimentale di
cinematografia rivelava l’attenzione del regime verso la formazione degli attori
e dei registi teatrali e cinematografici.
L’accademia fu governata da un rigido principio selettivo tanto che fu alta la
differenza numerica fra chi frequentava solo il primo anno e chi concludeva il
corso: nell’1935 – 36, di fronte a 30 attori e 10 registri iscritti, completarono
l’anno solo 18 e 6 allievi. Questa proporzione si protrasse fino agli anni della
guerra quando il numero degli allievi al primo anno raddoppiò. L’Accademia
assunse, tra gli anni Trenta e Quaranta, un gruppo di giovani professionisti che
sarebbero diventati importanti nel teatro del dopoguerra: tra i registi ricordiamo
Orazio Costa, Wanda Fabro. Per quanto riguarda gli attori nei primi anni
dell’Accademia, abbiamo Marcello Moretti, Vittorio Gassman, Lea Padovani.
Nei primi anni di attività del centro sperimentale di cinematografia si formarono
registi come Michelangelo Antonioni ed attori come Carla Del Poggio e Arnoldo
Foà.
Nella seconda metà degli anni Trenta ci furono momenti di concorrenza
reciproca tra i giovani attori e i registi usciti dalle 2 scuole; De Pirro, allora, nel
1938, propose un decreto che vietava agli allievi licenziati dal Centro
sperimentale di cinematografia di diventare attore teatrale per un periodo non
inferiore a 5 anni dopo aver conseguito il diploma presso il centro; agli allievi
attori e registi dell’Accademia d’arte drammatica venne proibito di diventare
attori cinematografici per un periodo non inferiore ai 5 anni dopo l’abilitazione
professionale.
L’accademia operò per introdurre una nuova disciplina nell’arte dell’attore, un
metodo che superasse la degenerazione in cui versava la tradizione attorale
italiana; la caduta del livello medio degli attori era dovuta anche all’ampiezza
dei repertori e al sistema girovago che regolava la vita delle compagnie.
L’accademia contribuì a dotare l’attore italiano di varie tecniche e di
consapevolezza critica verso la propria arte, il proprio mestiere.
Analoga funzione svolse sulla formazione della prima generazione di registi
italiani. Fino ad allora la direzione dello spettacolo era stata appannaggio dei
capocomici e di alcuni direttori nati dalla lunga pratica di palcoscenico.
Pensiamo a ex attori come Virgilio Talli o a drammaturghi come Niccodemi che
durante gli anni Dieci e Venti avevano diretto le loro compagnie utilizzando
criteri filologici rispetto al testo; ma un metodo critico ed estetico poteva essere
verificabile solo in rari casi. Forse nell’Italia dei primi anni Trenta solo
Bragaglia e per alcuni aspetti Pirandello, potevano essere definiti registi.
Diverso e più ricco di respiro internazionale sarebbe stato il percorso
dell’Accademia se vi avesse tenuto la cattedra di regia Jacques Copeau che
aveva accettato l’offerta di D’Amico. Ma la designazione venne rifiutata dal
duce e quindi D’Amico l’offrì alla Pavlova.
Il direttore propose all’interno dell’Accademia una cultura teatrale legata alle
proprie concezioni sceniche. Già nel progetto di istituto nazionale del teatro
drammatico del 1931, egli aveva sostenuto l’ipotesi di una triade poeta – regista
– attore ricomposta in funzione della supremazia del testo drammatico, cui
corrispondeva un’idea di regista e di attore come interpreti, diventata poi
dominante nel teatro italiano del dopoguerra. D’Amico diffuse e realizzò la sua
ipotesi di una scuola per interpreti (attori, scenografi, régisseurs) su cui fondare
il progetto riformatore di un teatro con al centro della scena il testo, al quale
l’attore doveva essere maggiormente vincolato dalle indicazioni registiche.
L’attore italiano avrebbe perso la sua forza d’improvvisazione, mentre la regia
sarebbe stata usata per regolare gli equilibri linguistici della rappresentazione.
La messinscena è l’insieme dell’interpretazione scenica, la cui base resta la
recitazione, servita dall’apparato scenico, dalle luci e da tutto il resto.
D’Amico è portatore di una cultura teatrale diversa da quella che in varie nazioni
europee aveva consentito l’inserimento del regista, il quale doveva creare
l’evento scenico in stretta relazione con le capacità inventive dell’attore ed il
rispetto delle indicazioni suggerite dal testo. Mentre le esperienze teoriche e
pratiche più avanzate in Europa avevano rimesso in discussione la nozione di
autore teatrale, frantumandola nelle diverse funzioni del regista (inteso come
nuovo “signore della scena), dell’attore e del drammaturgo, in Italia ci fu una
riforma moderata del teatro, al cui centro venne ricollocato il dramma.
Sul piano teorico poche furono le possibilità alternative. Su posizioni diverse
dell’attore/interprete si era espresso anche Benedetto Croce che aveva proposto
di assimilare gli attori ai traduttori.
Da un punto di vista pratico, D’Amico, fallito il tentativo di collaborare con la
Duse nel dopoguerra, scelse di non saldare la propria iniziativa alla parte ancora
vitale della tradizione attorale italiana. Cercò nei drammaturghi e nell’auspicata
nascita di un teatro nazionale di lingua italiana la soluzione al problema.
A proposito dell’idea di un attore creativo e non solo interprete del testo,
Gramsci nel 1918 aveva sostenuto che l’attore è davvero interprete ricreatore
dell’opera d’arte. Per Gramsci l’analisi delle tecniche di Musco rinviava alla
valutazione positiva della scrittura drammaturgica di Pirandello e Martoglio,
principali esponenti di un teatro regionale siciliano, diventato gran parte del
teatro nazionale. Infatti esso avrà un notevole influsso sul teatro letterario.
Nel 1931 Bragaglia si interrogava sulla mancata valorizzazione in Italia del
teatro dialettale, l’unico genere scenico italiano che interessa gli stranieri e
entusiasma i competenti ed è sostenuto dal pubblico.
D’Amico nel 1935 polemizzava con l’atteggiamento diffuso tra i registi,
innovatori e teorici della scena per cui il dramma nascerebbe dagli attori, dalle
loro personalità e capacità. Rispetto a questa concezione, egli contrappose un
percorso inverso dove prima c’era il poeta, la parola e il dramma e poi dal testo
di questo dramma, nascerebbe il teatro. Il progetto più generale di Istituto
nazionale del teatro drammatico fu realizzato solo parzialmente; eppure la
diffusa presenza di D’Amico nelle proposte del teatro italiano rese possibile la
penetrazione delle sue idee: dall’introduzione del regista subordinata alla
restaurazione del primato della poesia drammatica, nel momento in cui le
esperienze europee più avanzate affrontavano la crisi del dramma moderno, alla
quale aveva dato un importante contributo la poetica pirandelliana. All’inizio del
Novecento la forma storica del dramma apparve inadeguata ai teorici della regia
e del rinnovamento teatrale, che aprirono la polemica dominante il nostro secolo,
spesso indicando come esemplare l’esperienza della Commedia dell’arte italiana
e dell’attore italiano.
L’ideatore e il direttore dell’accademia la collocò al centro delle relazioni tra
l’attore, la regia e la nuova drammaturgia nazionale: l’accento venne posto su un
teatro fondato sulla supremazia del testo interpretato dal regista e dall’attore.
Con la nascita dell’accademia per la prima volta, in Italia, si avranno attori non
straordinari, ma ben vestiti, truccati, ben fusi nell’ambiente scenico, intesi a
rendere la propria parte e a comporre il quadro scenico.

CAPITOLO QUARTO
LA SCENA DEGLI ANNI TRENTA

1. IL CONVEGNO VOLTA
Nel periodo in cui si consumavano alcuni passaggi importanti del nuovo sistema
teatrale, la vita scenica appare popolata da tanti generi, proposte, tentativi
estetici. Dalla seconda metà degli anni Venti in poi l’Italia conobbe una
sperimentazione intensa, alla quale però non corrispose un’adeguata produzione
di testi drammatici e di messe in scena capaci di racchiudere l’intera epoca. Si
distinse Pirandello con il suo ciclo sui Miti (in particolare I giganti della
montagna), ma il teatro degli anni Trenta fu sì ricco di discussioni e di prove,
ma povero di opere che rimasero. Influì su questa situazione la crisi del dramma
ottocentesco, alla quale avevano contribuito i maggiori drammaturghi europei
fra 800 e 900. Per quanto riguarda l’Italia giocò un ruolo importante una
condizione di crisi, di discussioni, di reimpostazioni.
La scena degli anni Trenta mostra un carattere non unitario che impedisce una
ricostruzione storica semplificante. Nel palcoscenico di quegli anni si
incontrarono diverse e spesso opposte tendenze: i tentativi di creare un teatro di
massa si affiancarono a diffuse forme di teatro d’evasione che assecondavano il
gusto di un nuovo pubblico piccolo e medio – borghese, mentre si evidenziò una
persistenza e ricollocazione del teatro popolare dialettale, anche in nuove forme
(come il passaggio del varietà all’avanspettacolo e l’affermazione della rivista).
Alcuni ricercatori di un teatro d’arte, nel frattempo riflettevano sul senso
artistico originario del teatro (Pirandello, Eduardo De Filippo).
Fu chiaro allora che il modello ottocentesco era tramontato. Bisognava ricercare
diversi equilibri organizzativi e nuovi statuti estetici. In assenza di esperienze
artistiche prepotenti, ci si concentrò sull’attesa del nuovo poeta italiana, sulla
definizione teorica e pratica della regia, sulla formazione degli attori e
sull’incontro/scontro con il cinema. Le sperimentazioni degli anni Venti
avevano portato in tutta Europa ad innovazioni sul piano dell’illuminotecnica e
della scenotecnica. Il teatro doveva usare le nuove invenzioni tecnologiche per
elaborare un nuovo linguaggio di scena, capace di rendere i tratti innovativi di
quell’epoca e di operare all’interno delle tensioni politiche che la caratterizzano.
Tra gli uomini di teatro si diffuse il bisogno di modernizzare le forme sceniche.
Nel 1933, in occasione del cinquantenario della SIAE, celebratosi al Teatro
Argentina di Roma, Mussolini affrontò il tema della crisi teatrale negando il
fatto che essa fosse dovuta all’affermazione del cinematografo; lui invitò a
considerare il carattere spirituale della questione che chiamava in causa il lavoro
degli attori e quello materiale relativo al numero dei posti in sala. I pochi posti a
disposizione portano ad aumentare i prezzi e quindi le persone si allontanano. La
scena teatrale, che secondo il duce educava di più del cinematografo, doveva
essere destinata al popolo, portare in scena ciò che davvero conta nella vita e
nello spirito dell’uomo. L’intervento del duce lanciò la nuova parola d’ordine di
un moderno teatro di massa, cioè rinnovato nei contenuti, nelle forme e nel suo
rapporto con il pubblico.
Il progetto di un teatro di massa fu posto al centro del Convegno Volta, curato
dall’Accademia d’Italia nel 1934 a Roma, dedicato alle questioni più pressanti
del teatro drammatico europeo. Il presidente della manifestazione fu Pirandello e
il segretario Marinetti, mentre erano presenti anche importanti protagonisti del
teatro europeo: Craig, Romains. Importante fu anche la partecipazione indiretta
di Jacques Copeau che inviò il testo scritto per l’occasione su Lo spettacolo
nella vita morale dei popoli. Il convegno rappresentò un’importante iniziativa
pubblica di carattere internazionale collocata nello sforzo di modernizzazione
del teatro nazionale.
Questa iniziativa suscitò una serie di ripercussioni propagandistiche fuori e
dentro la nazione. I temi affrontati (rapporto tra teatro drammatico e le altre
forme di spettacolo, architettura dei teatri in epoca contemporanea) resero
esplicito il senso dell’incontro, caratterizzato da una forte apertura
internazionale fondata su un accordo preventivo che escludeva dalla discussione
ogni riferimento politico e ideologico. Su tutte le questioni emerse il tema del
teatro di massa, il quale fu introdotto da una relazione di Massimo Bontempelli
che polemizzò con l’atteggiamento elitario del teatro d’avanguardia del primo
900 a favore di un teatro di vastità, un teatro per le masse che avrebbe dovuto
sborghesizzare la borghesia.
Nel Convegno Volta fu proposto un progetto architettonico di una sala teatrale
per oltre ventimila spettatori ideato dall’architetto Gaetano Ciocca sulla base di
studi su rapporti spaziali tra l’azione scenica e il pubblico. Esso fu influenzato
dal teatro totale di Walter Gropius e del teatro greco, il quale già all’epoca
assunse funzioni collettive. All’interno del Convegno i progetti di teatro di
massa furono criticati dagli italiani proprio perché era difficile realizzarli: quale
repertorio sarebbe stato rappresentato e quali città avrebbero potuto riempiere
edifici così grandi? D’Amico lo criticava, sostenendo il procedimento inverso:
prima il repertorio e poi il suo teatro. D’Amico durante il convegno fu quello
che si batté con maggiore forza per le proprie idee di riforma e indirizzo del
teatro italiano: contestate le ideologie sfavorevoli all’intervento statale nel
teatro, nella sua relazione su Il teatro e lo Stato, sollecitò il governo fascista a
conferire alla corporazione dello spettacolo il mandato di non limitarsi a regolare
le questioni economiche e professionali della vita teatrale, ma di realizzare un
grande istituto per la gestione di uno o più teatri drammatici.
D’Amico disse che lo stato avrebbe dovuto sovvenzionare solo i teatri e le
compagnie che decidevano di attenersi a criteri d’arte. A partire da questa
indicazione il fascismo inaugurò la nuova fase d’iniziativa pubblica verso il
teatro.
Il convegno Volta fu il preludio di questa strategia, sia per l’avviamento di una
riflessione teorica e politica sui rapporti tra lo stato ed il teatro che per l’insieme
dei contatti internazionali che aveva favorito. Molti intellettuali ed artisti
presenti all’incontro si erano mostrati entusiasti dell’iniziativa e del nuovo clima
che aveva instaurato il regime.
Perplesso apparì Gordon Craig che dopo i ringraziamenti, aveva scritto che
l’unico servizio che può rendere uno straniero al teatro italiano è quello di dargli
uno specchio dove possa vedere il suo volto. Durante la discussione a seguito
della sua relazione su Il teatro e lo Stato, Craig voleva sapere perché i teatri
dialettali italiani, romani nelle ipotesi di D’Amico non avevano ricevuto il
sostegno economico dallo Stato. D’Amico rispose riconoscendo la bravura e
l’esperienza scenica dei grandi attori dialettali italiani, ma dicendo che lo Stato
pensò prima al teatro nazionale. Nel 1934 per D’Amico la nazionalizzazione del
teatro italiano comportava un sostegno pubblico indirizzato verso un modello
italiano di artisticità selezionato. I migliori attori erano quelli dialettali: i siciliani
(la famiglia Grasso, Musco), i napoletani (la famiglia Scarpetta, i De Filippo), i
genovesi (Govi), i bolognesi (Gandolfi), i veneziani (Zago) e i milanesi
(Ferravilla). Mussolini però non li valorizzava.
In quell’occasione era emerso un attrito fra le posizioni ufficiali del convegno e
la rivalutazione del teatro minore dove Craig individuava le forme più vive della
scena contemporanea. Tra il 1934 e il 1937 Craig aveva espresso i suoi dubbi sui
nuovi indirizzi del teatro italiano, del quale aveva sempre apprezzato gli attori, il
pubblico e la ricca tradizione. L’assenza degli attori al convegno lo avevano
convinto del fatto che il governo di Mussolini stava collocando degli
organizzatori al posto degli attori.
D’Amico criticò anche la propensione del Convegno verso la creazione di nuovi
edifici teatrali.

2. UN “TEATRO DI MASSA” PER L’ITALIA FASCISTA


Gli echi del Convegno Volta si erano appena spenti quando iniziarono a fiorire
delle esperienze teoriche e pratiche sul tema del teatro di massa, per le masse,
teatro del popolo o per il popolo. Nel corso degli anni Trenta in Italia e in altri
paesi europei, il termine “massa” veniva spesso usato per designare il popolo. In
realtà quest’ultimo non può essere subito assimilato al primo termine perché
esso è connesso con le formazioni sociali dotate di sistemi di produzione e
consumo di massa che si affermarono solo nel ventesimo secolo.
Sul piano teatrale, prima della seconda guerra mondiale, in varie nazioni ci fu un
rilancio del dibattito teorico e delle esperienze concrete di teatro del popolo in
riferimento alla grande stagione di teatro popolare vissuta dall’Europa di fine
800. Quell’istanza populista fu ripresa negli anni Trenta da molti governi
europei. In Italia, Unione Sovietica, Germania, il rilancio delle manifestazioni
teatrali per platee enormi rispose a nuove richieste sociali e ad esigenze di
consenso da parte del governo. Importante fu anche l’attenzione del fronte
popolare francese verso una serie di esperienze teatrali di massa.
Negli anni Trenta molte manifestazioni usarono il termine teatro del popolo (di
Romain Rolland) al posto di teatro di massa, ma in realtà la vicenda della scena
europea nella prima parte del nostro secolo fu così complessa e ricca di
cambiamenti strutturali e linguistici da suggerire una profonda distanza tra i 2.
Le esperienze di teatro di massa nell’Europa degli anni 30 apparvero come un
tentativo del governo di usare la scena come un contenitore di esperienze
collettive: uno strumento di consenso e uno sforzo di modernizzazione, una
risposta alla necessaria ristrutturazione del mondo dello spettacolo di fronte alla
nuova società.
In Italia il tentativo del governo di promuovere un teatro di massa indicò un
mezzo del regime per tentare di arginare la crisi strutturale del teatro dopo la
prima guerra mondiale. In questa direzione furono progettate alcune iniziative
sperimentali. Importante fu l’allestimento del teatro all’aperto realizzato in
occasione dello spettacolo 18 BL nel parco delle Cascine di Firenze nel 1934. Si
trattava di una rappresentazione in 3 quadri, ideata da 8 scrittori e diretta da
Alessandro Blasetti. Il 18 BL mostrava la storia di un camion militare, dal quale
era stato ripreso il titolo, che nel 1 quadro con il suo autista arrivava fino alle
trincee nemiche, rendendo possibile la vittoria dell’esercito italiano; nel 2
quadro l’autocarro serviva ad annientare la sovversione comunista in una
fabbrica, prima di partecipare alla marcia su Roma. Nel finale, dopo la vittoria
del duce, il camion assisteva ad immagini di vita lavorativa nei campi.
Altre esperienze furono il dramma Simma di Pastonchi nel 1935 o l’ipotesi di
alcuni grandi allestimenti di massa richiesti dalle autorità del regime a Craig.
Nel 1935 gli fu proposto di allestire un Quo vadis al Colosseo, con protagonista
il pugile Primo Carnera, al quale il contratto avrebbe impedito di parlare in
scena, ed uno spettacolo ambientato nell’Artide sulla storia del dirigibile di
Nobile; entrambi i progetti erano previsti per pubblici enormi che solo le arene
estive all’aperto avrebbero potuto accogliere. A proporre di realizzare il Quo
vadis fu De Pirro. Per la proposta de l’Artide invece l’iniziativa era partita dallo
stesso autore del testo, Fabrizio Colamussi che aveva proposto l’idea alla
commissione di lettura della corporazione dello spettacolo. Il dramma sul
dirigibile Nobile voleva esaltare i tempi moderni e glorificare e innalzare a
ideale il genio di Guglielmo Marconi. I 2 progetti non si realizzarono perché
Craig si dimostrò estraneo alla logica politico – organizzativa che li sosteneva
che tendeva a legare un grande maestro della scena europea a grandi
manifestazioni del regime. Coerente alla sua concezione separata dell’arte dalla
politica, alle proposte del regime fascista, Craig rispose candidandosi per la
messa in scena della Passione secondo San Matteo di Bach, ma fu impossibile
instaurare un dialogo con il fascismo: tra il Quo vadis e la Passione c’era una
grande differenza poetica, ideale e di funzionalità politica.
I principali esperimenti di produzione indirizzati verso la creazione di un teatro
di massa si inserivano all’interno dell’attività promozionale che accompagnò la
ristrutturazione del teatro italiano. Parallelamente alla riforma del sistema di vita
delle compagnie, il fascismo sostenne varie iniziative pubbliche: lo sviluppo dei
Carri Tespi e la creazione di manifestazioni come il Sabato teatrale, la
ristrutturazione delle filodrammatiche e la diffusione del teatro radiofonico
appaiono come delle strategie attuate dal regime per ottenere il consenso.
Uno strumento di propaganda per il regime e di promozione per il teatro fu
l’esperienza del Sabato teatrale, organizzato dal partito nazionale fascista,
dall’opera nazionale dopolavoro e dal ministero per la cultura popolare dal 1936.
L’iniziativa si rivolgeva a tutte le categorie sociali più deboli che dovevano
pagare il biglietto al costo massimo di 2 lire e minimo di mezza lira. Il sabato
teatrale coinvolgeva la stagione delle compagnie drammatiche e liriche, in modo
che nei repertori proposti si potevano incontrare opere di carattere storico –
didascalico come Villafranca di Forzano, testi leggeri come L’uomo che
sorride di Bonelli e De Benedetti accanto a classici del teatro europeo come Il
Mercante di Venezia di Shakespeare. In quella stagione si svolsero circa 200
rappresentazioni di quel tipo.
I Carri di Tespi consentirono una forma di teatro all’aperto. Erano stati ideati
alla fine degli anni Venti da Gioacchino Forzano. Consistevano in 4 enormi
strutture teatrali, 3 per la prosa ed 1 per la lirica, trasportate su autocarri che
viaggiavano per tutte le province italiane in lunghe tournées estive che
coinvolgevano tantissimi spettatori. Il Carro di Tespi arrivava anche nelle
località sperdute non coinvolte in eventi teatrali importanti, dove veniva allestita
la platea e il palcoscenico sormontato da una Cupola Fortuny sulla quale
potevano essere realizzati molti effetti illuminotecnici.
L’arrivo del Carro di Tespi doveva segnare tra le popolazioni della provincia
italiana un evento memorabile che incideva sull’immaginario collettivo delle
varie comunità. Nel 1936 si parlò di oltre un milione di spettatori per i 3 carri
della prosa e quello della lirica. L’OND investì gran parte delle sue risorse per
realizzare queste iniziative. Il Carro di Tespi consentiva ad alcune compagnie di
prolungare la stagione; in quella estiva del 1937, ad esempio, il carro n.1 fu
affidato alla Compagnia Palmer – Almirante – Scelzo che aveva nel repertorio
Ma non è una cosa seria di Pirandello e Partire di Gherardo Gherardi, mentre
il carro n.2 venne assegnato alla compagnia Borboni – Giorda che rappresentò
Quella di Cesare Giulio Viola e Il pozzo dei miracoli di Giuseppe Achilli e
Bruno Corra. La prima compagnia dette 63 spettacoli in 46 località, la seconda
62 nel Meridione; per fare propaganda, le 2 compagnie, durante gli intervalli
leggevano al pubblico le liriche più importanti dell’impero fascista.
Recenti studi di storia locale hanno confermato come ciò si traducesse in una
nuova capacità di spostamento e coinvolgimento di molte regioni, anche quelle
più periferiche, come la Calabria dove si svolgeva una notevole attività culturale
di massa sostenuta dalle strutture dopolavoristiche. Nel corso degli anni Trenta
la Calabria fu percorsa dai Carri di Tespi sotto gli auspici dei dirigenti fascisti
locali che, insieme alla promozione di una vera e propria stagione estiva
sull’altopiano della Sila, favorirono la nascita di più piccoli Carri di Tespi
provinciali.
In un intervento all’XI Congresso internazionale del teatro a Londra nel 1938
Nicola De Pirro dichiarò che la fisionomia del teatro italiano era cambiata così
da dare un nuovo significato e un nuovo senso allo spettacolo drammatico, lirico
e musicale. Sbandierando un distacco dal teatro borghese, De Pirro ricordava
come il fascismo avesse operato per favorire il ritorno del popolo nel teatro e del
teatro al popolo, sviluppando un risorgere del teatro all’aperto e di altre forme di
teatro popolari. La risposta organizzativa che il regime dette alle difficoltà del
teatro condusse ad un allargamento dei luoghi e degli strumenti di iniziativa
teatrale. Il bisogno di aumentare il numero degli spettatori e quindi di aumentare
l’offerta lavorativa in un settore molto provato, si saldò alle esigenze di
consenso del fascismo.
Tutte le manifestazioni segnarono il fallimento dell’idea di una nuova forma di
teatro drammatico. L’idea di un teatro di massa non suscitò alcun risultato
rilevante e innovativo e infatti ci si concentrò sull’idea di radunare grandi
pubblici nelle arene all’aperto. Nel biennio 1937 – 38 solo nelle manifestazioni
teatrali estive liriche e drammatiche, era possibile censire oltre 30 luoghi di
programmazione: Milano, Roma, Venezia, Siracusa.
Nel 1938 fu ufficializzata e formalizzata l’Estate musicale italiana voluta dal
duce. In tutta Italia durante i mesi estivi echeggiarono canti, musiche, opere
liriche e teatrali. Ci furono tantissimi spettatori. La loro portata politica fu
riconosciuta e rilevata anche nei giudizi degli stranieri, i quali constatarono
come nel quadro politico del regime il popolo occupasse un posto di primo
piano. L’esempio era stato dato nelle stagioni precedenti negli spettacoli
organizzati a Milano e Roma. Infatti nella prima Estate musicale milanese si
diedero 34 recite a cui assistettero 450.000 spettatori.
Non era questo il teatro dei ventimila richiesto da Mussolini, ma una ripresa del
melodramma italiano: il teatro lirico è diventato teatro popolare.
In quel momento solo poche esperienze produttive si richiamarono all’idea di un
teatro di massa inteso come un teatro drammatico contemporaneo con espliciti
contenuti di propaganda fascista. Dopo pochi anni fu evidente la mancata
realizzazione delle aspettative sollevate dal Convegno Volta. I commentatori
dell’epoca continuarono a inneggiare alla realizzazione del teatro di masse
voluto dal duce.

3. IL TEATRO DELL’EPOCA FASCISTA.


In varie occasioni Mussolini aveva cercato di convincere i drammaturghi a
lasciare i temi tradizionali del teatro. Ai drammaturghi il regime assegnava il
compito di creare un teatro fascista nelle forme e nei contenuti. La propaganda
del regime spingeva per la creazione di un repertorio nuovo per la nazione, un
repertorio che fosse l’espressione dei nuovi tempi.
Si assistette alla proliferazione di un alto numero di copioni scritti da militanti
fascisti, destinati ad alimentare il teatro amatoriale. Si trattava di testi di valore
artistico limitato utilizzati nelle piccole ribalte italiane. Per tutto il decennio e
durante la 2 guerra mondiale si allargò la rete del teatro di propaganda ad opera
delle filodrammatiche locali; un censimento del 1937 stimava a 2066 il numero
delle filodrammatiche dell’OND, alle quali aderivano 32.000 iscritti.
In quelle piccole ribalte si diffuse un teatro scritto da autori di varia estrazione
sociale (impiegati, professori, avvocati, pochi operai) ma che affondavano quasi
sempre la propria origine sociale nel ceto medio che stava diventando
fondamentale in quegli anni. Da quei copioni traspare una chiara ricezione dei
miti e delle parole d’ordine lanciati dal fascismo. Studi recenti hanno
evidenziato 4 temi dominanti i copioni dal 1932 al 1943: il culto delle origini e il
mito del capo, il conflitto etiopico, la guerra di Spagna e la guerra mondiale.
Quei testi rappresentano il caso più chiaro di un teatro militante fascista ed
offrono una testimonianza simbolica dell’affacciarsi di nuovi ceti sociali sulla
scena nazionale. Quando essi pongono al centro la figura del soldato/operaio o
del soldato/contadino, come si vede in molti copioni sulla guerra d’Etiopia, la
loro storia si iscrive in un orizzonte piccolo borghese dove la guerra assumeva
una valenza di riscatto per fasce sociali subalterne. Lo stesso conflitto etiopico
veniva rappresentato con la prospettiva di una nuova terra da sfruttare, la
speranza di un futuro migliore; una guerra che doveva rivelare l’affermarsi delle
energie nascoste della nuova Italia; un teatro popolare.
In termini elementari e didascalici i contenuti della cultura popolare cattolica
venivano messi in circolazione dal teatrino. Alimentato da tante piccole e
grandi case editrici, coordinato dai concorsi nazionali, regionali, diocesani e
parrocchiali, il teatro di parrocchia conobbe la sua maggior fortuna durante il
regime fascista, almeno fino al 1936 – 37, quando l’avvento del cinematografo
ne provocò l’iniziale crisi. Nonostante ciò nel 1939 il teatro educativo era in
grado di coinvolgere un pubblico pari ad un sesto di quello di tutte le
rappresentazioni del territorio nazionale, superando di gran lunga quello del
teatro dopolavoristico fascista. Questa estensione non stupisce se pensiamo che
nel 1929 esistevano a Torino 33 sale teatrali dipendenti da parrocchie, circoli e
società cattoliche. Un fenomeno quantitativamente notevole ma debole da un
punto di vista qualitativo, dato lo scadente livello letterario dei testi e della
recitazione. Il teatrino si rivolgeva ad un pubblico che non era in grado di fare
delle distinzioni sottili, un pubblico al quale non si offrivano le opere di
Pirandello ma copioni educativi che tendevano ad esaltare l’ordine, la moralità e
l’autorità e ad eliminare dalle scene i conflitti e le tensioni sociali.
La drammaturgia popolare d’ispirazione fascista ebbe, rispetto al teatro
educativo cattolico, una maggiore capacità di affrontare, seppur in maniera
elementare e propagandistica, tematiche attuali. In molte occasioni eventi come
la guerra etiopica vennero posti al centro di drammi familiari; è il caso di Anche
se non mi vuoi di Teodosio Copalozza dove il protagonista, un emigrato italiano
diventato ricco a New York, lascia la moglie e i figli per tornare a sostenere la
patria. Sulla guerra civile spagnola anche il teatrino cattolico si adeguò alle
scelte del regime contribuendo alla diffusione di testi che evidenziavano le
violenze dei rossi e l’eroismo degli italiani sostenitori del franchismo. Tra i
copioni ispirati alla guerra di Spagna un posto importante occupavano quelli
scritti da autori cattolici, i quali pur essendo contro la guerra e la violenza,
dovettero per forza schierarsi con le truppe guidate da Franco.
In molti i casi i testi erano dedicati al Mussolini. Per tutti gli anni Trenta molti
autori minori continuarono a rivolgersi direttamente a lui, il quale mostrò in
varie occasioni attenzione per il teatro, fino ad esercitarsi lui stesso sul piano
drammaturgico. Con l’aiuto di Giovacchino Forzano, scrisse 3 canovacci teatrali
(Campo di Maggio del 1929, Villafranca del 1931 e Cesare del 1939). La
trilogia rappresenta un caso di come un regime dittatoriale possa autocelebrarsi
utilizzando i canali della comunicazione teatrale. In Cesare, per esempio, è
proiettato una sorta di autobiografismo metaforico del duce: l’opera, messa in
scena dalla Compagnia Scelzo – Bernardi – Maltagliati al Teatro Argentina di
Roma il 25 aprile del 1939, proponeva l’immagine di un Cesare dominatore sul
mondo che, sicuro dell’amore che i romani provavano per lui, decise di
sciogliere la sua guardia del corpo. Con Cesare siamo alla vigilia della guerra
mondiale. Nel comunicare la produzione di 311 nuove opere drammatiche in
italiano scritte tra il 1934 e il 1939, il responsabile della SIAE Giorgio Sangiorgi
annunciò che il regime fascista aveva dato un nuovo volto al teatro italiano. I
responsabili della vita teatrale nazionale proclamavano il superamento del teatro
borghese e annunciavano l’imminente nascita di quello fascista.
In realtà allo scoppio della guerra un teatro fascista riconoscibile nei contenuti e
nelle forme espressive non era ancora nato e non era nemmeno servito lo sforzo
teorico di precisare che esso non doveva essere visto come un teatro con camicie
nere e gagliardetti obbligatori, ma un teatro italiano di quel tempo riportato al
senso dei valori eterni restaurati dal Fascismo. Nel 1938 il ministro della cultura
popolare Alfieri ribadì che il teatro fascista si ispirava alla morale fascista.
In una situazione di riorganizzazione erano emersi molti segnali di rifondazioni
artistiche e ridefinizioni di funzioni provocate dalla nuova presenza della regia,
ma anche dall’avvento del linguaggio cinematografico e da quello radiofonico. Il
fascismo sviluppò un intenso intervento politico nei confronti del teatro, ma
questo non bastò a far nascere una cultura teatrale autonoma dotata di linguaggi
espressivi originali. Era cambiata l’organizzazione del teatro in modo da
condizionare soprattutto nella scelta dei repertori, la qualità della scena italiana.
La scena media italiana tra le due guerre mondiali mostrò il predominio di
forme teatrali d’intrattenimento, ovvero il teatro dei telefoni bianchi, e vide una
forte presenza del teatro popolare dialettale, che nutrì anche il successo che la
rivista ebbe dalla metà degli anni Trenta. Quella forma di spettacolo si affermò
attraverso l’uso di scene sfarzose, di costumi ricchi e con la presenza di
ballerine, ma soprattutto grazie alla comicità degli attori e al carattere
provocatorio dei temi trattati; sono gli anni dei successi di autori come Mangini,
Nelli, Galdieri. La rivista valorizzò vari attori come Totò, Macario, tutti
proveniente dall’avanspettacolo e di attrici/soubrettes come Anna Magnani,
Olga Villi. Molti attori di prosa passarono da un genere all’altro: per esempio De
Sica o attrici come la Merlini.
Il teatro professionale non produsse una drammaturgia fascista ma visse forte
connessioni con i valori e le richieste diffuse dalle politiche culturali del
fascismo. Le direttive fasciste si scontrarono con l’impossibilità di inventare una
tradizione teatrale in una società di massa che esigeva proposte facilmente
consumabili ed evasive.
Nel corso degli anni 30 la scena italiana fu caratterizzata da valenze estetiche
originali ma ripiegò sul repertorio dei telefoni bianchi: la commedia di costume
attirò il nuovo pubblico piccolo – medio borghese. Importante, in tal caso, fu
Aldo De Benedetti. La sua esperienza assunse un valore emblematico di
quell’epoca anche rispetto alla sua vicenda personale in quanto fu perseguitato
dalle leggi razziali e fu costretto a nascondersi nel lavoro di sceneggiatore
cinematografico. Una simile sorte toccò anche a Sabatino Lopez, autore teatrale.
Il teatro dei telefoni bianchi, chiamato così per la presenza di un telefono
squillante in scena, simbolo della modernità della classe media rappresentata, è
il genere dominante dell’epoca. Fu una forma di teatro d’evasione nel quale si
esercitarono autori come Cesare Giulio Viola, Vincenzo Tieri e Sergio Pugliesi,
la cui opera, insieme a quelle di De Benedetti, la più rappresentata dalle
compagnie comiche dei vari De Sica, Tofano, Cimara. Un teatro che indicava la
risposta italiana all’offensiva del teatro ungherese molto diffuso nella metà degli
anni 30 in seguito al crollo francese conseguente le sanzioni internazionali. La
nuova diffusione di testi comici leggeri rispondeva alle esigenze di svago e
intrattenimento di un pubblico piccolo – medio borghese; l’affermazione di un
repertorio italiano di teatro appariva come il riflesso di una tranquillità sociale
finta, in quanto in realtà era perturbata da scelte militari aggressive prese dal
regime.
Una simile tendenza la si riscontra anche nel cinema dove nella seconda parte
degli anni Trenta dove la maggior parte dei film prodotti in Italia mostrarono un
taglio sentimentale e di evasione e furono spesso caratterizzati dalla presenza di
un telefono bianco. Nel campo cinematografico l’espansione quantitativa
comportò il potenziamento della produzione divertente e leggera, di cui il filone
dei telefoni bianchi o delle commedie ungheresi rappresenta il nucleo;
l’imitazione e la necessità di sostituire i generi americani scomparsi con prodotti
simili; l’invenzione di generi autarchici (i film salgariani o i film storici
veneziani).
Fra cinema e teatro venne a crearsi una fitta rete di interscambi sul piano dei
meccanismi narrativi, dei testi e degli attori. Pensiamo ai lavori di autori come
De Sica i cui testi Non ti conosco e Due dozzine di rose scarlatte divennero
film con De Sica protagonista; ma anche la drammaturgia trovò spazio nel
cinema come ne La maschera ed il volto di Chiarelli che nel 1919 ebbe un
primo adattamento cinematografico. Il cinema utilizzò anche il repertorio
ottocentesco (Come le foglie di Giacosa).
Il regime fascista intervenne sulla scena italiana con un forte impegno
istituzionale che condizionò la vita del teatro. Le politiche culturali del fascismo
per il teatro non consentirono la nascita di una cultura teatrale fondata su
linguaggi espressivi originali. L’epoca fascista consegno al periodo repubblicano
un nuovo e ambiguo rapporto fra teatro e potere politico. L’intervento del
fascismo nelle vicende teatrali condizionò anche le forme espressive tradizionali
e quelle minoritarie che si proclamavano innovative.
Dal punto di vista drammaturgico fu un’epoca di stagnazione e ripiegamento. I
maggiori autori italiani vissero una fase di scarsa produttività. Ci furono anche
intimidazioni come nel caso dell’allestimento de I pazzi di Bracco, un dramma
psicologico scritto nel 1920 e rappresentato nel 1929 dopo molti divieti da parte
delle autorità. Grazie ad Emma Gramatica andò in scena ed ottenne un grande
successo a Napoli ma poi a Roma fu fischiato dai fascisti proprio perché l’autore
ebbe un atteggiamento repressivo. Questo episodio indicò un’ulteriore perdita di
autonomia. Dopo poco tempo iniziò la ristrutturazione pratica del teatro da parte
del fascismo, in primo luogo la riorganizzazione della censura nel 1931.
Un teatro fascista non nacque sulla scena professionale. Gli autori più rinomati
non riuscirono a creare opere che restituissero simboli e metafore rispecchianti il
proprio tempo. Nel primo dopoguerra una nuova generazione di drammaturghi,
chiamati grotteschi, aveva creato testi come Marionette, che passione! di Rosso
San Secondo o L’uomo che incontrò se stesso di Luigi Antonelli. Allora le
opere di Chiarelli, Bontempelli avevano portato sulla scena il senso di precarietà
esistenziale provocato dalla nuova società industriale e che la Grande Guerra
aveva accentuato. Tutto il teatro italiano di questo primo quarto di secolo era
orientato in senso anarchico, pessimistico: espressione massima fu il teatro di
Luigi Pirandello. Durante gli anni Trenta i testi di quei drammaturghi vennero
rappresentati spesso e con una maggiore accettazione da parte del pubblico; col
tempo quel repertorio perse il senso di forte provocazione ed innovazione avuto
a cavallo tra gli anni Dieci e Venti.
Per chi, come Pirandello, esprimeva invece pur aderendo al fascismo, l’esigenza
di una libertà artistica, concependola in maniera separata dalla sfera politica, non
mancarono difficoltà nel rapporto con il pubblico (si pensi al fallimento del suo
libretto d’opera La favola del figlio cambiato) e con il regime stesso.

4. IL TEATRO D’ARTE
Con il trascorrere degli anni il sovvenzionamento pubblico al teatro privato
mostrò di non essere in grado di perseguire una linea di rinnovamento e di
riqualificazione artistica della scena. Questa restò nelle idee e nelle speranze di
un ristretto numero di intellettuali accumunati da un atteggiamento indifferente
alle scelte e alle imposizioni politiche del regime. Non meraviglia che il teatro
dell’epoca fascista sia caratterizzato da un forte attivismo organizzativo al quale
corrisposero molte manifestazioni di propaganda, dal teatro di massa alla
drammaturgia popolare fascista, e nuove forme di commedia italiana, che
raccolse l’eredità della pochade e del vaudeville francese del secolo precedente.
La scena degli anni Trenta mancò sul versante della scena e del teatro
drammatico d’arte per i quali D’Amico si era battuto. La cultura teatrale fu
espressa da un intellettuale come D’Amico e non da una personalità artistica e
ciò ridusse la possibilità di percorsi autonomi, dotati anche di maggiore
originalità rispetto ai modelli europei. Gli anni tempi furono un’epoca di
normalizzazione durante il quale nacquero poche opere di elevata sintesi
artistica.
Nel clima provinciale e nazionalista dell’Italia del regime fascista di distinsero
tuttavia alcune esperienze capaci di esprimere varie forme di teatro d’arte. Una
forte tensione verso progetti ed ipotesi di alto livello artistico fu sempre
sostenuta da D’Amico. Fin dal Convegno Volta lui ricordò che il teatro per le
masse è un fatto spirituale. Tornare alle masse significa tornare all’anima delle
folle. Per fare, come invitava Mussolini, il teatro per ventimila non era
necessario radunare ventimila persone, ma era più semplice invitare mille
persone alla volta e arrivare a ventimila persone in venti repliche. Anche in
quell’occasione egli aveva ribadito la sua concezione scenica concentrata sul
dramma e contraria al teatro come propaganda o come arte pura. Il teatro che a
lui interessava era quello che proponeva al consenso del popolo la parola del
poeta, tragico o comico, servita dalle altre arti.
Tali posizioni erano apparsi dominanti rispetto a chi, come Salvini e
Bontempelli, nel convegno si era dichiarato a favore di un teatro di propaganda
sociale, un teatro che sapesse rappresentare l’epoca fascista. Infatti il Convegno
Volta, inauguratosi con le parole di Pirandello che auspicava l’avvento di un
teatro di massa, si era concluso senza un ordine, rivelando una debolezza
operativa e svelando il carattere demagogico di quella formula.
Nel momento in cui Mussolini invitava gli autori a parlare alle masse, D’Amico,
guidato dalla sua visione etico – religiosa del teatro, si fece promotore della
ripresa del dramma sacro. Nel 1933 D’Amico, volendo ricostruire il dramma
sacro, fu l’ispiratore dell’allestimento de La rappresentazione di Santa Uliva
per la regia di Jacques Copeau, nel chiostro di S. Croce nella prima edizione del
Maggio musicale fiorentino.
In molte occasioni D’Amico si interessò a Copeau, il suo principale riferimento
europeo. In lui si ricomponevano un teatro disciplinato, essenziale, di alto livello
artistico ed una fede religiosa asceticamente vissuta. D’Amico sottolineò spesso
questi aspetti dell’esperienza del regista francese, tralasciandone però altri
fondamentali. Per esempio, nella poetica di Copeau, fu data grande attenzione
all’architettura scenica, alla quale subordinava il rinnovamento dei generi
drammatici e assegnava grande valore all’attore popolare di rivista e del music –
hall e alle sue capacità di improvvisazione. Sulla stessa questione del poeta
drammatico la posizione di Copeau era molto avanzata nel ricordare l’esperienza
di Eschilo, Shakespeare, Molière per sottolineare come ogni volta che qualcosa
di nuovo appare sul teatro, il poeta è sulla scena.
In un’altra edizione del Maggio musicale fiorentino venne ospitata una seconda
regia di Copeau, la cui presenza sulla scena italiana funzionò, in un momento di
frattura politica con la Francia, da ponte di scambio culturale tra i 2 paesi. Nel
1935 diresse un allestimento del Savonarola in Piazza della Signoria. In quel
momento la ricerca di un nuovo rapporto con il pubblico favorì l’organizzazione
anche nel campo della prosa all’aperto di esperienze teatrali che videro la
presenza di Max Reinhardt. Nel 1933 fu apprezzata la sua regia del Sogno di
una notte di mezza estate al Giardino Boboli. Nel 1938 ritornò sulla scena
Copeau con Come vi garba di Shakespeare.
Sul fronte delle prime regie d’arte realizzate da italiani, abbiamo gli allestimenti
di Renato Simoni per il maggio (I giganti della montagna nel 1937, L’Aminta
di Tasso nel 1939 e L’Adelchi di Manzoni nel 1940) o per le manifestazioni
veneziane dove realizzò un ciclo goldoniano. Sempre a Venezia si rappresentò
nel 1938 per 3 serate La Nave di D’Annunzio su un canale della laguna. L’opera
di D’Annunzio che voleva celebrare la nascita di Venezia e il desiderio dei
Veneti di dominare sul mare, fu allestita da Guido Salvini.
A Venezia e a Firenze, in assenza di opere contemporanee adattabili ai giardini e
alle piazze, il repertorio delle stagioni estive vide il predominio dei classici, in
particolare Goldoni e Shakespeare.
A Padova, nel 1937, la compagnia dell’accademia, creata e diretta da D’Amico,
ricostruì il Mistero nella natività per la regia di Tatiana Pavlova coadiuvata da
Costa. Fu un evento importante perché segnò la prima uscita pubblica
dell’Accademia e favorì l’avvio dell’attività di tournée, iniziata nel 1940 con un
nuovo allestimento del Mistero per i teatri al chiuso sotto la direzione di Costa.
L’accademia rilanciava l’idea di un dramma sacro riadattato alla nuova epoca.
D’Amico più volte aveva espresso la sua concezione religiosa del teatro,
distinguendola da quella confessionale. Parlare ad un pubblico di teatro, per lui,
significava fare appello ai sentimenti che lo radunano. La sua nozione di crisi
religiosa della produzione teatrale non era intesa in senso moralistico. D’Amico
sognava un teatro in grado di riportare il pubblico ad una fede comune e lo
riadunasse religiosamente in una certezza. L’esperienza spirituale cattolica era
centrale nella sua cultura.
Il percorso intellettuale e il travaglio religioso di D’Amico si collegavano
all’osservazione del teatro italiano, ormai caratterizzato da un pubblico ridotto,
formato perlopiù da studenti, impiegati, artisti e raramente professionisti
modesti. Per lui il teatro doveva superare l’orizzonte piccolo – borghese e
doveva tornare a parlare al popolo. Già nel 1935 D’Amico aveva parlato dello
sviluppo in vari paesi europei di teatri popolari di fondo cristiano, indice di un
nuovo interesse per il teatro religioso. Una ripresa del teatro d’ispirazione
cattolica cominciò a muovere i suoi passi anche in Italia dove si ebbero
esperienze come quelle di Diego Fabbri e di Turi Vasile. Entrambi nel
dopoguerra dispiegarono questa tendenza sul piano drammaturgico e
organizzativo; eppure un forte senso di militanza fu presente in Fabbri già prima
della guerra, quando tentò di riformare il teatrino promuovendo un teatro di
anime, inteso come veicolo di una proposta religiosa, di valori spirituali che
esprimessero il dubbio, la ricerca della fede cristiana. D’Amico osservò questi
nuovi fermenti di teatro cattolico, li sostenne e li guidò. Tutta la sua attività era
indirizzata alla ricerca e all’affermazione di un teatro d’arte che avesse al centro
un dramma d’ispirazione cristiana.
Su un piano diverse si pose la nuova esperienza artistica creata da Bragaglia al
Teatro delle arti nel 1937 all’interno del palazzo della Confederazione fascista
professionisti e artisti. Egli affidò molte messe in scena a molti registi noti come
Corrado Pavolini e ai giovani come Turri Vasile, Nino Meloni. In un repertorio
caratterizzato da autori italiani e stranieri contemporanei, si segnalarono i
successi, per esempio, di una Piccola città di Wilder del 1939.
Su un piano artistico va interpretata l’esperienza dei gruppi universitari fascisti
che fondarono a Roma nel 1934 un progetto teatrale di riferimento nazionale. Il
Teatro sperimentale dei GUF ebbe sede nel teatrino di Via Laura, dove ci svolse
la sua attività la scuola di recitazione di Luigi Rasi. Quell’esperienza, che vide in
un ruolo di primo piano il regista Giorgio Venturini, si caratterizzò fino alla
guerra come una palestra dove si apriva ai giovani la strada verso il teatro.
Quindi un luogo dove fu possibile sperimentare nuovi testi di giovani autori,
discutere di questioni teatrali, elaborare progetti produttivi. Il teatro sperimentale
di Firenze, non privo di contraddizioni a causa dello stretto rapporto con il
fascismo, si caratterizzò per lo slancio di un’organizzazione intesa come una
palestra di ricerche intesa ad assicurare un nuovo repertorio e nuove forme
sceniche per il teatro italiano dell’era nuova.
Accanto all’esperienza fiorentina, si distinsero per qualità e intensità delle
iniziative il Teatro universitario di Roma dove operò Giulio Pacuvio e quello di
Messina, diretto da Enrico Fulchignoni. Il significato di questi esperimenti fu
quello di creare dei progetti all’interno dei quali presero avvio le esperienze di
giovani registi italiani che sarebbero diventati i protagonisti del dopoguerra.
Nasceva piano la regia in Italia, ma rimaneva aperta la questione che aveva dato
vita a molti dibattiti sulla mancanza di una drammaturgia nazionale. Una volta
imboccata la strada della valorizzazione del repertorio italiano, quali erano le
soluzioni della lingua da adottare sulla scena? I problemi posti dalla scelta del
linguaggio in un paese solo parzialmente urbanizzato, dove l’italiano medio
parlato era diffuso solo tra minoritari gruppi sociali, non poteva essere risolto
con le prescrizioni dell’EIAR sulla pronuncia esatta dell’italiano. Sulla
diffusione della lingua italiana attraverso il teatro, svolsero una funzione
importante i Carri di Tespi che percorrevano la Penisola; i dirigenti fascisti
avevano sottolineato spesso come quel teatro ambulante, rivolto al pubblico
popolare, funzionasse da scuola di pronuncia. Nel 1934 Gramsci era tornato su
questi temi valutando lo sforzo di Pirandello di sprovincializzarsi ed
europeizzarsi in un momento in cui la lingua italiana non era ancora diventata un
fatto nazionale. In fondo il grado di unità linguistica nazionale è dato dal grado
di nazionalizzazione del patrimonio linguistico. Nel dialogo teatrale è evidente
l’importanza di questo elemento.
Per gli autori degli anni Trenta il problema linguistico s’intrecciava alla
questione della scelta dei temi e delle metafore da privilegiare alla ricerca di un
teatro contemporaneo. In questa direzione fu esemplare l’esperienza di Eduardo
De Filippo, che si propose come attore/autore e poi regista, spingendo la sua
tensione artistica all’interno della tradizione attorale e della lingua napoletana,
senza rifiutare stretti contatti con il cinema o con le forme teatrali più avanzate,
in primo luogo il suo incontro con Pirandello. Il teatro di De Filippo avviò negli
anni Trenta quell’operazione di unire le sue radici dialettali ad un’ipotesi di
drammaturgia nazionale. De Filippo voleva sbloccare il teatro dialettale
portandolo verso il teatro nazionale italiano. Il caso di Eduardo mostra come la
creazione di opere di riconosciuto valore etico ed estetico, vennero prodotte da
istanze eccentriche rispetto agli atteggiamenti dominanti: I giganti della
montagna di Pirandello oppure la drammaturgia di Eduardo De Filippo
nacquero e si affermarono con dei tratti di resistenza alle tendenze maggioritarie
della scena dell’epoca.
La vicenda del teatro italiano degli anni Trenta conferma che l’arte teatrale
nasce in un rapporto contraddittorio e drammatico verso la propria epoca.
I giganti della montagna rappresentato dopo la morte del poeta nel 1937 al
Giardino di Boboli per la regia di Renato Simoni, esprimeva un implicito
dissenso sullo stato delle cose. L’ultima opera di Pirandello riproponeva il
problema dell’autonomia dell’arte per la quale si era battuto Pirandello al di là
della sua adesione al fascismo. In quel testo si può leggere una presa di
posizione a favore dell’autonomia dell’arte dai vincoli creati dai giganti. Non si
trattava di una presa di posizione antifascista, ma indicava il disagio e le
peregrinazioni di una compagnia di comici rispetto a un tempo dominato da
forza sovrastanti il potere umano. I Giganti della montagna è un’opera
apocalittica: Pirandello ha trattato poeticamente alcuni dati fondamentali della
società del tempo caratterizzata dall’avvento di un nuovo ceto medio; ne ha
espresso la desolazione, ma ne fu anche succube, partecipò inconsciamente alle
sue vergogne. Quello di Pirandello non è un intervento attivo, ma una passiva
esposizione.
Nei Giganti il tema dominante il primo atto, cioè la denuncia del materialismo
del pubblico massificato, aveva lasciato il posto allo sforzo ridefinire gli ambiti
poetici del teatro nella nuova società. La questione centrale attorno cui ruota il
testo non è più la perdita di ogni rapporto tra il teatro e le masse della società
industriale che trovano altrove i loro divertimenti, ma la difficoltà e la resistenza
del teatro a rinunciare alla folla di spettatori a cui era abituato e ad accettare il
suo ristretto pubblico ideale capace di cogliere l’arte della scena.
La scomparsa di Pirandello interruppe quel percorso nei confronti del fascismo e
del suo tempo, assumendo da un punto di vista drammaturgico un significato di
cesura generale. Pirandello non lasciò eredi in grado di continuare la sua opera.
La sua vicenda dimostra che un repertorio si crea in modo vario, frammentario,
con ampi margini di sconnessione rispetto all’organizzazione e al mercato.
Ne I giganti della montagna la riflessione di Pirandello sugli statuti fondanti
dell’arte teatrale appare come il principale sforzo di ricerca attutato in Italia
negli anni Trenta. I Giganti propongono l’idea di un teatro come arte non
impossibile, ma fragile e precaria, sempre in bilico tra gli impulsi
dell’invenzione fantastica e le risorse dell’abilità pratica: un’arte che abita
alcune epoche e rischia di soccombere in altre, priva di garanzie e di sicurezze
che ne possano rendere certa la sopravvivenza.

CAPITOLO QUINTO
IL TEATRO ITALIANO FUORI D’ITALIA

1. LA CRISI DELLE TOURNÉES ALL’ESTERO


Nel corso dell’800 si era affermata l’abitudine delle compagnie teatrali di fare le
tournées all’estero, con itinerari attenti ai paesi caratterizzata dalla presenza di
comunità di emigrati oppure alle nazioni europee con un mercato maggiormente
aperto alle proposte provenienti dall’Italia. Fuori dalla Penisola le compagnie di
spettacolo avevano esaltato il loro carattere nomade in modo che dall’unità
nazionale in poi il loro passaggio poteva essere segnalato sui palcoscenici di
tutto il mondo.
Nel corso degli anni Venti ci fu uno scadimento delle tournées, dovuto a vari
fattori ma condizionate anche dal dissesto del teatro italiano. Lo scarso successo
delle tournée della Duse negli Stati Uniti nel 1924 aveva segnato il ritorno della
grande attrice sulle scene internazionali. In quel giro la Duse uscì di scena
morendo il 21 aprile 1924. L’incerto risultato della tournée, decisa per motivi
economici, assunse un carattere emblematico di una situazione di difficoltà.
Alcune compagnie teatrali che andarono all’estero per guadagnare, dovettero
alla fine rivolgersi alle autorità ed alle colonie per avere sussidi ed ottenere
rimpatri perché appunto non avevano guadagnato.
A questa situazione corrispondeva un livello basso delle rappresentazioni prive
di ogni valore artistico. Da quel momento tutte le compagnie che volevano
effettuare una tournée internazione dovevano richiedere il parere favorevole
della Corporazione nazionale del teatro la quale doveva concedere il nulla osta
solo alle imprese che garantivano serietà e che depositavano prima le spese dei
viaggia di andata e ritorno.
Questi provvedimenti furono presi dopo delle esperienze negative vissute da
piccole compagnie in varie parti del mondo. Aspre erano state le critiche arrivate
al governo dai rappresentanti diplomatici italiani in alcuni paesi orientali. In
Turchia nel 1924 la compagnia d’operetta Lia Thomas era stata rispedita in Italia
per interessamento dell’ambasciata italiana locale che aveva ottenuto
facilitazioni dal Lloyd Triestino.
Anche nelle Isole Filippine si segnalarono casi di disastrate tournées di
compagnie italiane.
Nel 1926 fu denunciato l’episodio della Compagnia Imperia che aveva fallito il
progetto di ricostruire un antico circo romano durante delle rappresentazioni in
Egitto; ne risultò uno spettacolo di basso livello tanto da suscitare i commenti
poco benevoli della colonia italiana e della popolazione locale.
I capocomici si interessarono anche all’Algeria e Tunisia, regioni dove da quasi
30 anni nessuna compagnia italiana aveva dato rappresentazioni. Nel 1927 la
compagnia lirica diretta da Enrico Sebastiani effettuò un giro che comprese
Tunisi, Algeri, Costantina. Accanto a tournées di buon successo, anche in quelle
nazioni non mancarono casi di speculazione da parte di formazioni
improvvisate; la Compagnia drammatica diretta da Mario Fumagalli e Teresa
Franchini, avendo dato delle rappresentazioni dannunziane al Teatro municipale
di Tunisi, restò 2 mesi in quella terra a spese della comunità italiana sostenendo
che la sua presenza fosse necessaria poiché aveva ricevuto l’incarico di
compiere sul territorio un’efficace ed elevata opera di italianità.
In Grecia, ma anche altrove, spesso, le trasferte delle compagnie non dirette da
un attore o una attrice di fama internazionale, erano fallite a causa degli
impresari locali non fedeli agli impegni presi. Nel 1927 ad Atene era naufragata
un’Aida proposta da una compagnia italiana.
Alla fine degli anni Venti aumentò la circuitazione delle compagnie teatrali
all’estero, ma fu una presenza spesso collegabile alle difficoltà del mercato
nazionale che spinse i capocomici a cercare nuovi sbocchi lavorativi. Il viaggio
delle compagnie italiane nel mondo assunse allora un nuovo carattere perché le
trasferte significarono la proiezione all’estero delle difficoltà strutturali vissute
in Italia.
L’impressione è che dopo la prima guerra mondiale, nel momento in cui
emersero i segnali di esaurimento della tradizione delle compagnie mattatoriali,
la rinnovata presenza teatrale italiana all’estero vide accentuarsi alcuni connotati
a sfavore di altri: tra 800 e 900 il giro artistico in Europa o oltre Oceano aveva
avuto anche significati occupazionali per i lavoratori delle compagnie, ma
sicuramente le tournées della Ristori, della Duse, di Salvini, Novelli e degli altri,
li avevano consacrati internazionalmente ma avevano assolto anche ad una
funzione di identità nazionale. Soprattutto nei confronti delle comunità italiane
in Sudamerica questo ruolo era stato fondamentale: nel momento in cui lo stato
italiano non riusciva ad unire la società, gli attori e i cantanti lirici erano stati i
portavoce della nazione tra le comunità degli emigrati. I loro trionfi avevano
suscitato sentimenti di appartenenza ad una stessa comunità nazionale.
Importante era l’abitudine da parte dei comici italiani più famosi, ormai giunti
alla fine della loro carriera, di tornare a salutare per l’ultima volta il proprio
pubblico fuori dall’Italia.
Nel corso degli anni 20, invece, la scena italiana all’estero offriva un’altra
immagine di sé: un luogo di improvvisati capocomici, a volte occasione di
avventure e traffici poco nobili e solo raramente funzionava ancora da ribalta per
qualche artista famoso. In un quadro dissestato non mancarono però esperienze
positive: si pensi ai viaggi del teatro d’arte di Pirandello che dopo aver ottenuto
grande successo all’estero, attraverso la traduzione e la rappresentazione dei suoi
testi, nella seconda metà degli anni Venti, condusse la propria compagnia in
Francia, Argentina e Uruguay. Pirandello diresse la compagnia italiana di prosa
più presente all’estero in quegli anni, ma il successo più eclatante lo raccolse
dalla metà degli anni Venti in poi il Teatro dei Piccoli diretto da Vittorio
Podrecca, un teatro di marionette perfezionate nelle soluzioni tecniche e
raffinate negli esiti espressivi. Anche in virtù di un linguaggio visivo, capace di
comunicare con tutti i pubblici del mondo, la compagnia di Podrecca fu il teatro
italiano più rappresentato all’estero fino alla 2 guerra mondiale. Il teatro dei
Piccoli dopo un giro in tutte le capitali d’Europa e le altre città dell’antico e del
nuovo mondo, effettuò nel 1930 una tournée in alcuni paesi del Mediterraneo e
dell’Europa orientale. La compagnia, formata da 500 marionette, 10
marionettisti, 10 cantanti solisti, una propria orchestra, era in grado di
rappresentare opere liriche e commedie, farse. Le sue serate, accanto ad
un’opera lirica completa, proponevano parodie del mondo della rivista parigina
o cantanti di O sole mio.
La compagnia di Podrecca, nel pieno della crisi teatrale italiana, tra gli anni 20 e
30 tenne una stagione di quasi un anno in Germania. Nel 1925 andò per la prima
volta in America, in Messico. Nel 1930 fu ad Alessandria, ad Atene e creò un
evento eccezionale. In molti casi, soprattutto tra la stampa di orientamento
democratico, l’accento dei commenti era posto sugli esiti teatrali del successo
del Teatro dei Piccoli. Non mancano giudizi venati da toni propagandistici.
Nel tempo l’attività di Vittorio Podrecca diventò sempre più rappresentativa
della nuova immagine dell’Italia che il fascismo voleva offrire sugli scenari
internazionali. Un successo simile ci fu nel campo della musica lirica e
sinfonica, dove la scuola italiana dimostrava, nella seconda metà degli anni
Venti, molti aspetti di vitalità. Emersero allora i successi di Alfredo Casella che
nel 1927 ottenne grandi risultati a Mosca, Pietrogrado, Varsavia e Riga,
trasferendosi poi negli Stati Uniti. Diresse poi dei concerti in Olanda, Belgio,
Svizzera e Germania e poi tornò negli Stati Uniti. Il suo repertorio era
concentrato sulla musica italiana (opere di Rossini, Verdi, Mascagni), cosa che
suscitò gli apprezzamenti degli ambienti governativi per l’opera di propaganda
nazionale.
Invece il panorama del teatro drammatico fuori d’Italia alla fine degli anni Venti
mostrava una situazione dispersa e lasciata dalle autorità governative
all’iniziativa privata. La crisi delle tournées all’estero fu segnata dalla
depressione economica internazionale del 1929 che condusse all’interruzione
delle trasferte teatrali in Sudamerica. Questo, fino a dopo la metà degli anni 30,
non ebbero più luogo perché condizionate negativamente dalla crisi economica
delle compagnie, dal progressivo sparire dei grandi attori capaci di richiamare il
pubblico per la loro popolarità, da una fase di disaffezione da parte degli
organizzatori locali nei confronti del teatro italiano e dall’aumento delle spese
dei trasporti nelle terre lontane.
In una situazione di generale stagnazione si collocò anche in questo settore della
vita teatrale l’intervento del governo di Mussolini. A partire dagli anni Trenta i
segnali di una nuova presenza delle autorità governative furono evidenti;
all’inizio del nuovo decennio le autorità governative cominciarono ad
accompagnare il nullaosta per l’espatrio, instaurato nel 1925. Nel 1931, ad
esempio, la Presidenza del Consiglio dei Ministri dette parere favorevole ad un
giro di Zacconi, in Yugoslavia, precisando che per il successo dell’impresa,
Zacconi dovrebbe essere coadiuvato da attori di valore, ci dovrebbe essere una
decorosa messa in scena e un’accorta scelta dei programmi.

2. IL TEATRO ITALIANO A PARIGI


Il principale palcoscenico europeo del teatro italiano fu rappresentato da Parigi,
la capitale dello spettacolo dove fin dalla seconda metà dell’800, è riscontrabile
una diffusa presenza italiana attraverso le traduzioni delle opere dei suoi
drammaturghi e le rappresentazioni delle compagnie più celebri. Dopo l’unità
d’Italia ci furono le grandi trasferte delle compagnie di Rossi, Salvini e i
successi di Adelaide Ristori tra il 1876 e il 1880, poi quelli della Duse a Parigi
nel 1897 e poi di Ermete Novelli nella stagione successiva. In quel momento le
compagnie italiane a Parigi ebbero il primato di presenze fra le troupes straniere.
Agli esordi del nuovo secolo, accanto alle tournée della Duse del 1905, ci furono
i ritorni della compagnia di Ermete Novelli nel 1902 e nel 1911. Sul piano
drammaturgico, tra i due secoli, ottennero successo solo pochi autori come
Fogazzaro e Giocosa; mentre il primo 900 aveva visto accanto alle opere di
Bracco, Marinetti, la presenza di D’Annunzio che dal 1904 al 1914 fu
interpretato da attrici come la Duse.
Il paesaggio si era oscurato a causa della rottura dei rapporti teatrali tra Italia e
Francia causata dalla 1 guerra mondiale, ma nel 1923 si assistette al periodo più
felice del teatro italiano a Parigi nella 1 parte del secolo. Fu l’anno in cui
Stanislavskij mise in scena La locandiera di Goldoni al Théâtre des Champs –
Elysées, rilanciando la commedia dell’arte italiana; fu l’anno in cui con il
debutto dei Sei personaggi in cerca d’autore, si avviò una nuova stagione che
vide i primi riconoscimenti internazionali dell’opera di Pirandello, la cui
presenza a Parigi fu intensa fino al 1935.
L’attenzione verso l’opera di Pirandello era stata richiamata dall’allestimento di
La volupté dell’honneur da parte di Charles Dullin all’Atelier nel 1922. Sei
personaggi in cerca d’autore furono rappresentati anche in Italia nella stagione
1925 – 26 e in Europa centrale nel 1930 – 31. Nel 1922 erano stati allestiti a
New York.
Il successo di Pirandello in Francia proseguì fra le 2 guerre mondiali,
raggiungendo il culmine dopo la sua morte, quando una sua opera Chacun sa
verité nel 1937 venne rappresentata alla Comédie Française. Il riconoscimento
di Pirandello stimolò anche la traduzione francese e la messa in scena di vari
testi di Antonelli, Martini. Oltre alla presenza di questi autori, il triennio 1922 –
24 fu ricco di teatro italiano, operando a Parigi le compagnie di Zacconi, De
Sanctis, Fregoli e Pirandello.
Dopo quel periodo di intensa frequentazione italiana della scena parigina, si
verificò per 2 o 3 anni una stasi delle relazioni teatrali, a causa dei contraccolpi
negativi provocati dall’assassinio Matteotti in una Francia orientata perlopiù a
sinistra. I rapporti teatrali tra la Francia e l’Italia subirono frequenti
condizionamenti dovuti al clima politico volta per volta instauratosi fra i 2 paesi;
in questo senso, dalla fine degli anni Venti ai primi anni Trenta fino alla guerra
d’Etiopia le migliorate relazioni tra le 2 nazioni, favorirono una nuova ricca
stagione del teatro italiano in Francia.
Ad inaugurarla fu l’esperienza della Compagnia del teatro della pantomima
futurista di Prampolini che dette nel 1927 al Théâtre de la Madéleine di Parigi
31 rappresentazioni con lo scopo di dare un saggio vitale del teatro italiano.
Attraverso un repertorio vario ed eclettico propose La salamandra, sogno
mimico di Pirandello, Il mercante di cuori e Santa velocità, pantomime di
Enrico Prampolini, Intonarumori di Luigi Russolo, Cocktail di Marinetti e altri
brevi e provocatori interventi accompagnati da musiche come quelle di Casella.
Il XX fu caratterizzato dal predominio della macchina, come affermò Prampolini
teorizzando un nuovo genere di spettacolo che fosse espressione della vita
irreale in movimento. Il teatro della pantomima futurista, una delle ultime
iniziative del movimento futurista italiano, raccolse un notevole successo,
accompagnato da giudizi positivi di uomini di teatro come Cocteau.
Se la proposta futurista aveva esplicitato il suo carattere di italianità, il problema
della propaganda dell’Italia all’estero attraverso il teatro vide un episodio
fondamentale sul piane teatrale e politico nell’adattamento di Les Cent Jours,
traduzione francese dell’opera Campo di maggio. Il testo, scritto da Forzano con
Mussolini e rappresentato al Teatro Argentina nel 1930, fu riadattato a Parigi nel
1931 da Firmin Gémier. Il nome dell’autore, la fama socialista dichiarato di
Gémier, crearono dei contrasti nella capitale, a causa dei significati simbolici e
politici suscitati dall’evento. L’attore assunse posizioni pacifiste contro il
bellicismo fascista. Si era difeso sostenendo che Mussolini al potere aveva
aiutato lo sviluppo dell’arte drammatica italiana.
Prima di arrivare a Parigi, la piece era stata sperimentata a Budapest per un
breve corso di repliche in ungherese al Théâtre National, dove Forzano per la
prima volta riconobbe a Mussolini la paternità del canovaccio Campo di
maggio. Ovviamente al momento della messa in scena italiana il nome del Duce
circolò dentro e fuori il teatro, ma forse era stato deciso che la notizia sarebbe
stata diffusa ufficialmente in un secondo momento. La scelta delle tournée estere
colorava di toni propagandistici l’operazione. Forzano si soffermava sulle
attenzioni e le meticolosità di Mussolini, sui giudizi degli attori, sulle varianti da
lui richieste.
Si era allora inaugurata fra Mussolini e Forzano l’intensa collaborazione: a
partire da Budapest, il nome di Mussolini apparve sui manifesti. Fu questa la più
consistente operazione di propaganda fascista all’estero attraverso il teatro; la
figura del duce come co – autore ma anche come alter ego di personaggi come
Napoleone o Cavour, venne posto al centro dell’interesse delle platee
internazionali. Campo di maggio, dopo la versione ungherese e quella parigina,
venne rappresentato in varie città. Campo di maggio con i suoi 40 attori, 100
comparse e 300 costumi, rappresentò uno strumento efficace di propaganda e
promozione dell’Italia fascista all’estero.
L’edizione tedesca fu affidata al suo direttore artistico Hermann Röbbeling e
l’attore Werner Krauss interpretò il ruolo di Napoleone. Röbbeling definì il duce
come il più grande genio di quell’epoca e si rammaricò dell’impossibile
presenza del duce al debutto dell’opera, ma installò nel teatro gli apparecchi
radio, convinto del fatto che Mussolini da Roma potesse sentire l’eco degli
applausi.
Le cronache dei giornali di tutta Europa riportarono gli esiti della nuova messa
in scena in Austria.
L’azione propagandistica dei progetti dei 2 drammaturghi aveva trionfato nei
paesi politicamente vicini all’Italia. In altri casi, come la Francia, le reazioni
erano state contrastate: il duce, attraverso il teatro, aveva portato la sua voce nel
cuore degli emigrati antifascisti italiani. La stessa Parigi viveva un periodo di
contrasti politici tra destra e sinistra. C’era chi aveva proposto ai suoi lettori di
promuovere un silenzio di protesta alla fine della prima rappresentazione. La
sera della prima di Les cents jours la sala fu piena di personalità politiche,
critici, intellettuali francesi e uomini di teatro. Ai commenti positivi di giornali
sulla buona interpretazione di Gémier o sulla scrittura del duce, corrispose una
serie di giudizi perplessi.
Successivamente, Villafranca, venne rappresentata all’estero, mentre per il
Cesare nel 1939 erano stati fatti tutti i preparativi ma lo scoppio della guerra
interruppe le trattative. La collaborazione di Mussolini e Forzano nel caso della
Francia era servito ai fini della propaganda e della penetrazione ideologica. In
quel momento molte compagnie italiane erano presenti a Parigi. In quegli anni il
teatro drammatico vide la compagnia di Irma ed Emma Gramatica effettuare nel
1927 delle recite a Marsiglia, etc…Su tutte, si era distinta la visita di Zacconi,
già presente al Théâthre Antoine nel 1911 e al Théâthre des Champs Elisées nel
1921 e 1924. Nel 1933 lavorò nello stesso teatro con un repertorio tradizionale.
La tournée si era svolta secondo i canoni dell’organizzazione privata. In questi
suoi frequenti spostamenti l’attore che non poteva contare su nessun aiuto
governativo, si appoggiava alle strutture associative degli emigrati. Nel caso
dell’ultima trasferta parigina, l’intera comunità italiana si era fatta promotrice
dell’iniziativa che inaugurò anche un nuovo foglio mensile “France – Italie –
Théatre” che costava una lira a copia. Il foglio, stampato in 2 lingue, venne
pubblicato a Milano e Parigi.
Il Comité d’honneur del giornale, presieduto da Zacconi, era guidato da Alfred
Mortier e raccoglieva molti artisti dei 2 paesi: per la Francia Firmin Gémier e
per l’Italia Ruggero Ruggeri, Camillo Antona – Traversi, il quale aveva invitato
tutti gli italiani a Parigi ad ascoltare. Lui voleva anche stimolare un maggiore
sentimento di unione nazionale.
Le tournée di Zacconi avvenivano in un momento in cui i rapporti tra Francia e
Italia erano in miglioramento. La trasferta estiva trionfale di Petrolini nel 1933
aprì la speranza di una nuova stagione del teatro italiano a Parigi. Non fu così.
Dopo 2 anni la compagnia di Emma Gramatica fallì al Théâthre de la Madéleine
di Parigi, imbattendosi nell’assenza del pubblico italiano: era già scoppiata la
guerra d’Etiopia che interruppe di nuovo i rapporti teatrali con la Francia. Nel
1936 il fronte popolare conquistò il potere.

3. LE TOURNÉES DI PETROLINI
Il debutto di Petrolini a Parigi a giugno e luglio al Théâtre de la Potinière fu
trionfale, il successo enorme. Petrolini arrivò a Parigi preceduto da una fama di
attore eclettico. Lui, che guidava una compagnia diretta da Mario Regoli e
composta da 31 membri fra attori e tecnici, arrivò a Parigi nel momento di
massima maturità di artista e capocomico. Era riuscito ad inserire nel repertorio,
accanto alle sue commedie e composizioni d’arte varia, degli autori
contemporanei come Fraccaroli, Novelli, D’Ambra, Pirandello. Il suo percorso
artistico aveva rivelato ulteriori cambiamenti. Petrolini nacque dal teatro di
varietà e di questo ne fu il dominatore, ma la sua arte fu molto più in alto. Lui fu
il più grande artista italiano contemporaneo.
In Francia Petrolini portò un repertorio emblematico del suo percorso artistico:
Il cortile di Martini, Agro di limone di Pirandello, Coraggio di Novelli, etc…. .
Fra i suoi testi presentò Nerone, Amori di notte, Chicchignola, Benedetto fra
le donne e Pulcinella. Concludeva il repertorio in omaggio alla Francia il
riadattamento di Le médecin malgré lui, farsa musicale ispirata all’opera di
Molière. Il trionfo a Parigi, dove gli fu conferita la Legione d’onore, fu enorme a
tal punto da coinvolgere positivamente le relazioni franco – italiane. La stampa
cittadina fece a gara nel tentare improbabili comparazione con Leopoldo Fregoli
o con vari attori francesi. Emerse il confronto con la commedia dell’arte. Questi
richiami erano dovuti anche alla rinnovata attenzione in Europa verso il teatro di
Goldoni, una ripresa d’interesse favorita dalle varie esperienze teoriche e
pratiche dei grandi rinnovatori della scena europea e in Francia da Copeau. Da
parte italiana non erano mancate molte letture in chiave nazionalista di quella
esperienza artistica, da molti reinterpretata come la principale fonte
d’apprendimento per poeti della scena come Shakespeare, Molière.
Ettore Petrolini offriva a Parigi la pratica delle tecniche d’improvvisazione che
avevano reso famosi gli attori italiani in tutto il mondo.
La stampa parigina lo definì spesso il più grande attore italiano, quasi un
fenomeno che avrebbe presto conquistato Parigi. Lui era andato a Parigi per
qualche replica, ma a grande richiesta del pubblico, vi restò per oltre un mese.
Tutte le personalità del mondo politico e culturale francese si mobilitarono per
assistere al suo debutto e lui riuscì a coinvolgere un pubblico vasto e
socialmente eterogeneo: mobilitò il pubblico popolare francese e italiano di
Parigi, accanto all’élite intellettuale europea.
L’unica perplessità era stata suscitata dalla reinterpretazione della farsa
molièrana da Petrolini condotta su registri espressivi pieni di doppi sensi e di
trovate comiche.
La tournée petroliniana segnò un episodio importante di quella stagione del
teatro parigino: un momento importante anche per la comunità italiana, allora
divisa tra fascisti e antifascisti. L’evento fu coronato da una serata straordinaria
alla Comédie Française, dove la compagnia italiana effettuò la sua ultima
rappresentazione. Il successo sembrò a molti il segnale per la ripresa delle
relazioni teatrali tra Francia e Italia. Le regie di Jacques Copeau alle prime
edizioni del maggio fiorentino del 1933 e del 1935 offrivano una conferma di
questa tendenza. Molti giornali notarono come la venuta a Parigi di Petrolini
avesse coinciso con la sigla del patto a 4 e che perciò lui fu il primo a
beneficiare delle buone relazioni franco – italiane ristabilite di colpo. Ciò aveva
creato una maggiore disponibilità da parte del pubblico parigino e aveva affidato
a Petrolini la responsabilità di iniziare nel teatro questa nuova vita franco –
italiana.
Il successo parigino permise alla compagnia italiana di moltiplicare i propri
contatti con molti impresari europei che da Londra, Bruxelles, Barcellona
offrirono varie proposte di tournées nei propri paesi. La trasferta parigina aveva
consentito a Petrolini di incontrare Ciano presso l’ambasciata italiana ricevendo
promesse di sostegno per il futuro. Da allora Petrolini cominciò ad intrecciare
stretti contatti con le autorità ministeriali che sostennero le sue trasferte a
Londra, Vienna, Berlino, Nord Africa. Galeazzo Ciano in quegli anni fu il
promotore di questo nuovo sistema di relazioni che accompagnò gli ultimi anni
di vita di Petrolini quando ancora il fascismo non aveva iniziato a contrastare il
teatro dialettale. Petrolini poteva contare sul sostegno del duce e ciò indicò una
nuova attenzione delle autorità governative italiane nei confronti del teatro.
Cambiò l’atteggiamento del fascismo nei confronti del teatro italiano all’estero.
Sulla scena europea le tournées di Petrolini ebbero una funzione sperimentale
per le future soluzioni di sostegno pubblico alle compagnie di viaggio. La
trasferta a Parigi era sempre stata organizzata in modo autonomo e privato, ma
da allora le autorità fasciste cominciarono a porsi il problema di un ruolo diverso
dello Stato anche in questo settore. Nel 1934 Petrolini scrisse a Ciano a
proposito di una tournée a New York, dove avrebbe pagato tutto lui, ma aveva
bisogno dell’Ambasciata, del Consolato per farsi indicare da loro quale fosse il
teatro più adatto al suo spettacolo.
Tra Petrolini e Ciano nacque un intenso legame di lavoro e amicizia. Ciano inviò
una circolare dove chiedeva a molte ambasciate italiane il quadro della
situazione teatrale italiana nelle varie capitali. Richiese accertamenti su quali
probabilità di successo artistico e finanziario avrebbero potuto avere delle
rappresentazioni nella capitale e nei centri più grandi italiani della compagnia di
Ettore Petrolini. Inoltre chiedeva anche se nei vari paesi fossero già state
realizzate esperienze simili, su quanto pubblico si potesse contare e quale fosse
la situazione dei teatri e degli impresari locali.
Tutte le tournées di Petrolini di quegli anni utilizzarono questi canali
organizzativi istituzionali avviati dal 1932. A Vienna si rese conto del degrado
della vita teatrale, incapace di reagire alla crisi: l’unica cosa che lo soddisfò fu
vedere che anche lì vi era una forte ammirazione per il fascismo e per il duce.
Dopo i successi ottenuti in Francia, Inghilterra, Germania e Svizzera, nel 1935
riuscì a concludere un contratto nella capitale austriaca con l’impresario Rolf
Jahn per l’affitto del Die Komödie Theater. Petrolini comunicava al
Sottosegretariato per la stampa e la propaganda che la previsione di un incasso
medio serale di 4500 scellini rendeva tranquilla la sua trasferta, ma di certo una
sua parola alla Legazione Italiana, al Consolato e al Fascio, gli avrebbe fatto
comodo.
Al Little Theatre di Londra, la presenza dell’ambasciatore Dino Grandi alla
prima rappresentazione aveva reso ufficiale la tournée che secondo molti
osservatori dell’epoca, consentiva agli italiani d’Inghilterra una sorta di ritorno
spirituale al proprio paese attraverso le creazioni dell’attore italiano. Anche a
Londra il giudizio della stampa fu entusiasta. Anche qui fu consacrato “attore
italiano grande maestro del teatro europeo”. Al termine delle serate Petrolini e
sua compagnia venivano chiamati più volte alla ribalta e alla fine, se Petrolini
non avesse dato l’ordine all’orchestra di suonare God save The king, il
pubblico avrebbe continuato ad applaudire e a chiedere il bis. Gli stessi esiti
ebbe nel 1933 la tournée in Africa del Nord, Egitto, Tunisia, Libia dove Petrolini
scelse un repertorio più leggero. Le serate si concludevano con i monologhi e le
macchiette del primo attore. In ogni città si ripetevano manifestazioni di stima e
apprezzamento per l’arte di Petrolini, le autorità locali organizzavano
ricevimenti d’onore, e venne consacrato ambasciatore del teatro italiano.
Visitava i luoghi e le attività associative delle comunità italiane, in diretto
contatto con Mussolini e i più potenti gerarchi fascisti.
I primi riconoscimenti importanti li ebbe all’inizio del secolo nelle piazze
dell’America Latina. Il fascismo contribuì al suo successo, ma in cambio lui si
fece portavoce di italianità all’estero. Il regime non intervenne mai sulle scelte
del repertorio e infatti lui rappresentò senza alcuna forzatura il programma
previsto. Questo perché l’oggetto del suo successo non erano i testi, ma la sua
arte di attore.
Prima di morire scrisse Roma, una canzone per Mussolini cantata il 28 ottobre
del 1935 al Teatro Valle e gliela mandò in omaggio nel 1936. Petrolini morì
dopo pochi mesi e nelle sue ultime volontà raccolte dal figlio Oreste, ancora una
volta il suo pensiero era andato al Duce al quale fece recapitare 5 medaglie
d’oro, simbolo della riconoscenza per ciò che aveva fatto per lui durante la sua
carriera. Durante la sua malattia, le nuove politiche teatrali del fascismo stavano
iniziando a negare dignità artistica al teatro dialettale. Dopo la morte di
Petrolini, il figlio voleva collocare la raccolta teatrale del padre presso qualche
ente pubblico che avrebbe potuto acquistarla e custodirla, ma in quell’occasione
Mussolini non intervenne.

4. L’IMMAGINE DELLA NUOVA ITALIA ATTRAVERSO LA


SCENA
Le risposte delle varie ambasciate a Ciano relative al possibile giro artistico di
Petrolini, avevano dimostrato l’attenzione che il governo dava alla presenza del
teatro italiano all’estero. Dopo il successo avuto da Emma Gramatica a Belgrado
e Zagabria nel 1930, ma dopo, a causa della crisi economica, non ci furono più
tournées di compagnie drammatiche italiane all’estero. Quindi, tenendo presente
oltre a questo, anche il fatto che l’arte di Petrolini non si addiceva al gusto di
quel pubblico, l’ambasciatore della Jugoslavia sconsigliava il giro lì al grande
attore romano. Anche dalla Bulgaria arrivò la stessa risposta, dove però
sicuramente avrebbe avuto successo il teatro dei Piccoli di Podrecca.
La nuova attenzione del regime per la presenza teatrale italiana all’estero si
collegò al rilancio internazionale della propaganda nazionale fondata su diversi
canali di penetrazione culturale e politica. Nel 1933, per esempio, prese corpo un
progetto editoriale relativo a L’opera del genio italiano all’estero, curato dal
Ministero degli affari esteri per esaltare l’opera degli artisti e dei ricercatori
italiani nei vari secoli. Le forze creative nazionali, quindi, vennero usate per la
propaganda estera. Questa presenza del teatro italiano non si fondò sulla scelta
di uno specifico progetto di diffusione culturale e politica. Fu pensato di inviare
all’estero i Carri di Tespi ma alla fine non si realizzò ciò a causa dei costi
elevati, o di creare un teatro del folklore italiano, proposta presentata a
Mussolini da Augusto Pagan e Paolo Reni. Si trattava di un teatro ambulante che
in estate doveva diffondere nelle maggiori capitali europee un repertorio
eclettico basato sul patrimonio folkloristico di canti, balli di tutte le regioni
italiane. Questo teatro aveva uno scopo politico perché permetteva di mettere in
evidenza le manifestazioni più notevoli del regime.
Anche nel campo della propaganda estera il regime mise in atto una strategia che
utilizzò sugli scenari internazionali i rinnovati rapporti tra il teatro privato e
l’iniziativa pubblica. A partire dal Convegno Volta un nuovo compito fu dato
alla rappresentanza ufficiale nelle varie assisi internazionali, dove l’Italia svolse
un ruolo più attivo, spesso caratterizzato da toni propagandistici.
Il nuovo sviluppo dato alle attività estive all’aperto, oltre che per un’opera
interna di propaganda, fu usato come cassa di risonanza internazionale delle
scelte del regime. Le grandi manifestazioni del maggio musicale fiorentino e gli
allestimenti alle Terme di Caracalla vide la presenza di giornalisti importanti
provenienti da tutto il mondo. Nel corso degli anni Trenta fu intensificata l’opera
di promozione, attraverso visite, borse di studio, viaggi intellettuali, scambi
culturali. In quegli anni, figure importanti come Pirandello, Marinetti, Bragaglia,
effettuarono lunghi viaggi di conferenze di propaganda culturale nazionale, in un
rapporto ufficiale con i vari governi. Parallelamente si operò per una maggiore
difesa delle opere italiane all’estero secondo i nuovi accordi internazionali
stabiliti dalla SIAE. Il decreto del 18 febbraio 1937 istituì l’ente italiano per gli
scambi teatrali, il quale doveva collocare all’estero i testi italiani e selezionare i
lavori stranieri da tradurre in italiano e da assegnare alle varie compagnie. Per
agevolare gli scambi con l’estero, inoltre, era stato proposto di costruire, col
sostegno della SIAE, una vasta rete di corrispondenti ed agenti nelle città più
importanti del mondo. La drammaturgia italiana in Europa fu rilanciata. Per
superare la crisi profonda che aveva caratterizzato il passaggio dagli anni 20 ai
30, il regime decise di sostenere la ripresa delle tournées all’estero delle
compagnie liriche e di prosa. Dopo vari finanziamenti concessi eccezionalmente
ad alcune compagnie, il decreto – legge del 1938 stabilì che si potevano
sovvenzionare anche le iniziative all’estero e nelle colonie, per le quali il
Ministro per la cultura popolare doveva assegnare sovvenzioni fino all’importo
annuo di 800.000 lire. In questo modo il regime rilanciò l’attività internazionale
delle compagnie italiane. Poterono così essere sostenute dallo Stato alcune
tournées dalle autorità giudicare d’interesse nazionale. Nel 1938 la Compagnia
Falconi – Besozzi ottenne una sovvenzione di 20.000 lire per un corso di recite
al Teatro Reale di Malta. Nel campo della lirica e dell’operetta si evidenziarono
casi analoghi. Il fascismo prima della guerra facilitò una ripresa di quelle
trasferte, ma ne cambiò il significato inserendole in una logica di funzionalità
politica, attenta soprattutto alla propaganda presso i paesi che registravano una
forte presenza italiana. La Guerra D’Etiopia e le sanzioni funzionarono da
spartiacque: dopo quel grave episodio, il regime volle riaprire le relazioni
internazionali anche attraverso gli strumenti offerti dal teatro.
Un’attenzione particolare venne rivolta alle attività teatrali nelle colonie
francesi. Il Ministero della Cultura popolare agevolò 10 compagnie di riviste,
operetta ed arte varia, oltre a 2 compagnie di prosa. Il favore accordato al genere
comico dimostrava l’intento di intrattenimento e divertimento di un pubblico
perlopiù non abituato al teatro. La compagnia di rivista Maresca e quella di Totò
ottennero una sovvenzione di 100.000 per i loro giri nelle colonie italiane
d’Africa. In seguito alla nuova presenza del teatro nelle colonie, il Ministero
dell’Africa italiana comunicò che gli spettacoli teatrali servivano al diletto delle
masse operaie dislocate lì. Contemporaneamente il podestà Baiti di Addis Abeba
progettò di costruire un grande teatro dell’Impero che avrebbe dovuto offrire
spettacoli lirici, di prosa e cinematografici. Un teatro gestito da un Ente
autonomo, con la differenza che questo non si poteva adibire solo all’Opera, ma
doveva accogliere tutte le forme maggiori e più serie di spettacoli. L’iniziativa
arrivava dopo la modernizzazione dei 5 vecchi cinema – teatro come il Marconi
e l’Impero, i cui proprietari furono coinvolti nel finanziamento del Teatro
dell’impero, con il quale si voleva dare ad Addis Abeba una vita spettacolare
che è esigenza di metropoli.
L’allestimento di una sala teatrale per gli italiani in Etiopia, doveva essere
accompagnata dalla creazione di luoghi rivolti agli abitanti indigeni, i quali già
avevano un cinemateatro al centro del mercato indigeno. Le scelte di inviare
nell’Africa orientale italiana spettacoli leggeri, ma anche la decisione del teatro
marionette Gianduia di Torino di stabilirsi ad Addis Abeba, trovò giustificazione
in questa logica paternalistica e razzista con la quale i funzionari del fascismo
progettavano il futuro delle terre recentemente conquistate. La seconda guerra
mondiale interruppe il progetto.
L’attenzione del governo alle tournées internazionali si sviluppò dopo la guerra
etiopica, momento in cui ai principali cambiamenti legislativi nello spettacolo,
corrisposero nuove necessità di propaganda estera. Uomini come Galeazzo
Ciano, Bottai erano impegnati nella penetrazione politica fascista. La chiusura
delle frontiere, anche culturali, con paesi come la Francia favorì iniziative
propagandistiche del regime verso quelle nazioni che mostravano le condizioni
sociali e politiche più favorevoli. Ciarlantini polemizzò con le compagnie
improvvisate che erano pericolose perché affiancate da locali squalificati,
dicendo che nella prosa per non cadere in situazioni simili, dovevano essere
adottati criteri simili.

5. AL DI LÀ DELL’OCEANO. IL TEATRO ITALIANO IN


SUDAMERICA
Bragaglia nel 1931 si rivolse alla segreteria di Mussolini per chiedere il sostegno
statale ad un progetto di film dedicato all’avventura del lavoratore italiano in
America. Il progetto, che prevedeva la collaborazione di Corrado Alvaro, voleva
utilizzare attraverso le moderne tecniche cinematografiche, delle ambientazioni
e paesaggi italiani per creare un romanzo politico in 10 lingue. Il regista
chiedeva alle autorità fasciste un appoggio per fare in Sudamerica un 2 ciclo di
conferenze sulla cultura italiana. Il suo primo viaggio nel 1930 aveva contribuito
a riaprire le relazioni culturali tra l’Italia e l’Argentina nel momento in cui si era
interrotto nella prosa e nella lirica, il movimento migratorio delle compagnie
oltre l’Oceano Atlantico. In un contesto difficile si erano realizzate le ultime
trasferte delle formazioni italiane in America del Nord. Simili difficoltà
economiche incontrò Angelo Musco nel 1925 e nel 1926 in un ciclo di
rappresentazioni che avevano richiamato nelle prime sere molti siciliani che
costituivano la maggioranza presente nelle colonie italiane di New York e stati
limitrofi.
L’unica formazione artistica italiana che in quegli anni aveva affrontato il
mercato teatrale statunitense nel nuovo decennio era stato il teatro dei piccoli di
Podrecca che nel biennio 1932 – 1933 aveva realizzato sotto la guida
dell’impresario Hurock del Rockfeller Center, un giro di 15 mesi nelle città
americane. Gli insuccessi di Musco e della Duse non dimostravano comunque
l’impossibilità di lanciare una buona compagnia di prosa sia italiana che
dialettale che avesse successo sia artistico che finanziario, anche se non ci si
doveva aspettare un vasto pubblico perché questi spettacoli potevano essere
gustati solo dagli italiani, dagli italo – americani e dagli americani che
conoscono l’italiano.
Il console Grossardi era favorevole ad una tournée petroliniana negli Stati Uniti,
a patto di coinvolgere un impresario americano che avrebbe dovuto organizzare
il giro artistico nei grandi centri con tanta popolazione italiana. Accanto alla
possibilità di ingaggiare un impresario americano, il console suggeriva di
organizzare nelle città dove erano presenti più emigrati, una sottoscrizione tra le
varie comunità italiane che garantisse una solida base finanziaria alla trasferta.
In questa direzione si erano già mossi la rappresentante italiana della SIAE a
New York, Berta Cutti, proponendo ad alcune compagnie italiane un piano
molto simile a quello del console.
Nessuna troupe italiana riuscì a concretizzare quei progetti di tournée che si
sarebbero svolte in un sistema teatrale dissestato. In seguito alla crisi del 1929,
ma anche per la forte concorrenza del cinema, il numero degli allestimenti
teatrali a New York diminuì notevolmente dai 190 agli 80 nel passaggio dalla
stagione 1930 – 31 a quella del 1939 – 1940.
Dal 1935 al 1939 il governo statunitense aveva promosso il Federal Theatre
Project che consentì l’intervento pubblico a favore del teatro. Ne beneficiarono
molte compagnie e furono sostenute molte programmazioni di teatri per un
totale di 2745 produzioni sovvenzionate nel quadriennio in tutti gli Stati
dell’Unione.
Questa operazione non coinvolse le compagnie professioniste provenienti
dall’Italia, ma vide la presenza di un teatro italiano molto attivo a Newark. Il
Federal Theatre Project non aveva migliorato le condizioni di lavoro delle
compagnie straniere negli Stati Uniti.
Nel 1940, durante la guerra, Podrecca riportò la compagnia negli Stati Uniti
dove cadde in gravi disagi finanziari causati dalla pessima organizzazione del
suo impresario. Di fronte alla possibilità di riadattare la tournée in un padiglione
di un cinema italiano, il ministro, dopo essersi consultato con il duce, inviò un
telegramma a Podrecca facendogli presente come non fosse opportuno per il
Teatro dei Piccoli rimanere a New York e che forse doveva trasferirsi
nell’America del Sud.
Nella seconda metà degli anni Trenta i rapporti del teatro italiano con il
Sudamerica avevano vissuto una ripresa della vecchia tradizione: la trasferta
estiva in America Latina dall’800 era diventata abitudine del teatro di prosa,
dialettale e lirico. Spesso, in stretto rapporto con gli italiani emigrati in quelle
aree, fin dal 1868, era iniziato il flusso continuo dello spettacolo italiano verso le
terre d’Oltreoceano. Le stagioni precedenti la prima guerra mondiale avevano
visto le grandi tournées, imponenti nella durata, nel numero degli attori e nella
vastità dei repertori, di Ermete Novelli e Zacconi, di Eleonora Duse insieme a
molte compagnie dialettali minori. Un’esperienza singolare era stata quella di
Giacinta Pezzana che all’inizio del secolo si era stabilita a Montevideo per
alcuni anni, dove avviò una scuola di recitazione dove si formò gran parte del
teatro uruguaiano.
Nel corso degli anni 20 si segnalava ancora la presenza di Dario Niccodemi,
Ruggero Ruggeri il Teatro d’arte di Pirandello nel 1927 che si esibì in vari teatri.
Un recente studio ha verificato che dal 1893 al 1933 erano presenti 84
formazioni italiane, drammatiche e liriche su un totale di 247 compagnie
straniere presenti al Teatro Solis. Tra gli anni 20 e 30, il flusso delle compagnie
italiane di prosa e di lirica si era interrotto in concomitanza della crisi
internazionale e delle difficoltà interne alla scena italiana. Questa situazione si
protrasse fino alla seconda metà degli anni 30. Fu allora che la guerra d’Etiopia
collocò l’Italia fascista in un diverso equilibrio internazionale, contribuendo ad
una revisione delle traiettorie e delle linee della propria azione diplomatica. Una
delle conseguenze più importanti in campo teatrale fu la nuova attenzione rivolta
dalle autorità fasciste verso alcuni paesi dell’America latina.
In Argentina le reazioni del mondo politico locale all’invasione etiopica erano
state alterne, così come la comunità italiana si era divisa tra fascisti e antifascisti.
Gli articoli dei periodici italiani pubblicati nel Rio della Plata, sostenevano lo
sforzo di propaganda politica successiva alla guerra d’Etiopia, quando le
condizioni politiche argentine e brasiliane mostrarono possibili aperture alla
penetrazione dell’ideologia fascista. In quel momento il governo di Mussolini
cercò di allargare il consenso internazionale al regime. Gli italiani in Argentina
si distinsero tra chi aveva assunto un orientamento politico e culturale
antifascista e chi aveva contribuito alla nascita di comitati Pro Italia in varie città
argentine. Infatti alcuni si lamentarono per il mancato sostegno degli argentini,
figli di italiani, all’Italia e al regime.
Un tentativo per il cambiamento di questa situazione fu reso possibile dalla
nomina di Raffaele Guariglia ad ambasciatore d’Italia a Buenos Aires nel 1936.
Egli operò contro il clima di ostilità nei confronti dell’Italia fascista, su richiesta
di Mussolini. Guariglia avviò una nuova stagione nei rapporti tra i 2 paesi.
Dopo la guerra etiopica l’azione di Guariglia, consentì un aumento della
penetrazione politica e culturale italiana in Argentina attraverso un ampliamento
delle borse di studio per gli studenti, gli scambi d’iniziative musicali, la ripresa
delle attività teatrali, i convegni scientifici.
In una dimensione proiettata verso la propaganda fascista, Guariglia lavorò con
tutti i mezzi a disposizione per modificare la situazione. Lui rivolse maggiore
attenzione ai movimenti fascisti con caratteristiche autoctone, come
l’Associazione “la Defensa sociale Argentina”, ed operò per riaggregare il
Comitato Argentino Pro Italia, trasformandolo in un’associazione popolare che
aveva il compito di organizzare i figli degli italiani. Il progetto di Guariglia
prevedeva inoltre la fondazione in Italia di un’associazione parallela a quella di
“Amici dell’Argentina” in sintonia con simili iniziative in Brasile e in altri paesi
sudamericani.
L’azione dei rappresentanti del governo fascista incontrò delle resistenze anche
all’interno di alcune associazioni, come l’Istituto argentino di cultura italiana o
come la società di mutuo soccorso Unione y Benevolentia, antifascista. In esse si
rifletteva la divisione esistente nella comunità di Buenos Aires, la quale era
strutturata in molte organizzazioni riunite in un’Associazione italiana di
mutualità e istruzione. Su tutte prevaleva la Società Unione e Benevolenza.
Essa, contro i vari tentativi di penetrazione del governo italiano, mantenne saldo
il proprio orientamento antifascista. Del resto, la presenza di tendenze politiche
socialiste e anarchiche era riscontrabile nella comunità italiana già dall’inizio del
900; questa si rifletteva anche sulla diffusione di alcune opere di teatro militante,
accanto a forme di rappresentazioni popolari. A Rio de Janeiro, l’ambasciatore
italiano aveva favorito nel 1936 la nascita dell’Associazione Amici del Brasile
che voleva promuovere un’intensa attività sia in campo economico che in quello
culturale per rendere sempre più fecondi i rapporti tra Italia e Brasile.
Nell’associazione erano presenti molte personalità politiche, provenienti
dall’ambiente economico e culturale italiane. Si era creata anche
un’Associazione Amici dell’Italia che doveva avvicinare intellettualmente Italia
e Brasile.
Altre iniziative, come la fondazione della casa degli italiani ad opera del fascio
locale di Rio nel 1936, testimoniano la volontà di fare propaganda fascista in
quei paesi.
Il governo fascista promosse delle attività coordinate dalle ambasciate italiane
dei vari paesi che utilizzarono cinema e teatro. Nel 1937 il console italiano di
Porto Alegre impostò una campagna promozionale per la proiezione gratuita dei
film Luce che potessero rilanciare il prestigio italiano nel mondo, riproducendo
momenti e caratteristiche del regime.
In Argentina le iniziative che servivano per fare propaganda con il
cinematografo, erano già state avviate nel 1934 con la creazione dell’Alianza
Cinematografica Italo – Argentina per volontà di 2 fascisti, Raffaele Mancini e
Eugenio Bonacina. Il progetto prevedeva l’acquisto di un cinematografo nella
capitale argentina dove proiettare i film italiani e i documentari LUCE che non
si possono proiettare nelle altre sale della capitale a causa del monopolio
esercitato dalle ditte nordamericane. L’ACIA si era già riservata l’esclusività
delle pellicole della Caesar Film di Roma, che sarebbero state presentate nel
futuro Cine – teatro Italia con i film LUCE che avrebbero dato al locale un
carattere italianissimo dove si poteva assistere alla documentazione di tutte le
conquiste dell’Italia fascista. Il progetto si rivolgeva a tutti.
Il progetto non ebbe buon esito perché a Roma non credevano ai 2 organizzatori,
anche se l’idea era piaciuta molto alle altre gerarchie fasciste. Un progetto simile
fu realizzato con la creazione nel 1939 della società cinematografica Imperator
film, fondata dagli impresari Arsenio Guidi Buffarini, Alberto Masetti e
Giuseppe Buvoli. La società, alla quale le autorità italiane dettero un grande
appoggio fornendo pellicole gratuitamente, avrebbe gestito il Cinema – teatro
Avenida di Buenos Aires per presentare al pubblico argentino degli spettacoli
cinematografici di produzione italiana completati da numeri di varietà con artisti
italiani. Gli obiettivi della nuova società piacquero all’ambasciatore italiano
poiché contribuivano ad una migliore conoscenza della nostra industria
cinematografica e attraverso i documentari Luce, permettevano una più esatta
valutazione dell’Italia.
Il teatro divenne uno strumento del fascismo per penetrare dal punto di vista
politico – culturale in Sudamerica.
In precedenza ci furono alcuni episodi di nuove relazioni, come il ciclo di
conferenze organizzate dall’Associazione Los Amigos de l’arte con Anton
Giulio Bragaglia nel 1930. Nei suoi interventi offrì una panoramica del suo
teatro sperimentale: dalla scenotecnica all’illuminazione, dall’idea di un nuovo
attore ed un nuovo spettatore sperimentali alla polemica contro l’invasione della
letteratura in teatro. Nei suoi interventi Bragaglia invitò gli argentini a non
cedere alle influenze del teatro borghese europeo, ma di recuperare la matrice
popolare che aveva caratterizzato le origini del teatro nel Rio de la Plata. Sul
piano drammaturgico, l’influenza della cultura italiana era già stata molto ampia
nella creazione delle prime forme teatrali autonome, sia nel genere popolare
sainete, dominato dal personaggio del cocoliche, prototipo dell’emigrante
italiano, che nei primi poemi drammatici ispirati dai drammaturghi francesi e
italiani. Da questa iniziale presenza della commedia italiana, il teatro argentino
aveva sviluppato un suo genere chiamato grotesco criollo, ispirato al teatro
grottesco italiano. L’influenza di Pirandello fu l’elemento di maggiore
importanza sul piano culturale.
L’opera teatrale, e in parte minore quella letteraria, di Pirandello si diffuse molto
in Argentina durante gli anni Venti, soprattutto dopo il suo soggiorno nel 1927 a
seguito del Teatro d’arte. Qui il repertorio della compagnia ebbe un grande
successo, ma suscitò qualche perplessità sul livello attorale del complesso.
Tuttavia Pirandello ebbe grande successo: Sei personaggi in cerca d’autore
ebbero grande fortuna, soprattutto in Sudamerica. Lui sosteneva che il Teatro
d’arte doveva essere indipendente da ogni regime politico. In quell’occasione,
inoltre, ribadì la sua concezione separata tra arte e politica: la sua adesione al
fascismo non doveva ledere la sua libertà espressiva. Da quell’espisodio, il
ministero dell’interno aveva aperto una scheda d’informazione sul drammaturgo
siciliano dove erano state poste sotto controllo le attività politiche e gli incarichi
da lui ricoperti, come membro della Commissione nazionale per la cooperazione
intellettuale e Presidente del Consiglio Volta. La scheda documentava che
Pirandello non era mai stato iscritto ad altri partiti prima del PNF e che non
aveva esplicato nessuna attività politica o sindacale a favore del fascismo.
Pirandello aderì al fascismo, pur difendendo la libertà espressiva della sua arte.
Nel 1927 la presenza di Pirandello in America Latina coronava la penetrazione
delle sue idee teatrali: era stata la sua poetica, soprattutto quella legata a
tematiche regionali, a favorire nella drammaturgia argentina la nascita del
grotesco criollo che ebbe i suoi principali rappresentanti in Armando Discepolo
e Roberto Artl. Ebbe risalto sulla stampa dell’epoca la visita di Pirandello nel
1933 in occasione della 1 mondiale a Buenos Aires di Quando si è qualcuno, del
quali seguì le prove fino a sostituirsi al regista. Nel 1936 stava preparando un
nuovo viaggio in Argentina e Brasile dove avrebbe allestito una nuova
commedia e tenuto varie conferenze. Ma in una lettera disse che a causa delle
sue condizioni di salute, non poteva realizzare questo progetto.

6. LE TOURNÉES DI BRAGAGLIA IN AMERICA LATINA


Fino a quel momento le relazioni ufficiali tra i paesi sudamericani e l’Italia
erano state casuali, legate alle visite di singoli artisti italiani, mentre dal 1936
furono attivati nuovi canali di rapporto. I rapporti ripresero inizialmente nel
campo lirico, dove le relazioni tra Argentina e Italia erano state sospese. In
seguito, infatti, alla municipalizzazione del Teatro Colon, il quale era stato tolto
agli impresari italiani che lo gestivano dal 1908, ci furono molte discussioni: gli
argentini cercano di liberarsi dalla dominazione italiana. La presenza del
fascismo al potere creava tensioni e reazioni non solo fra le comunità degli
emigrati, ma anche presso le autorità locali.
All’inizio del secolo fu importante la designazione alla guida del Teatro Colon
di un direttore favorevole o meno alla lirica italiana, ma erano state
condizionanti anche le questioni economiche. I compensi dei cantanti lirici
italiani avevano raggiunto negli anni 30 dimensioni molto elevate.
Dopo alcuni episodi di ostracismo che avevano portato nella stagione 1935
all’esclusione di opere italiane, nel 1936 fu annunciata la presenza di una
compagnia lirica italiana. Da allora tornarono i grandi cantanti lirici, ingaggiati
dall’Ufficio Nazionale collocamento dello spettacolo. Su tutti predominò
Beniamino Gigli che accettò di fare una nuova tournée in Sudamerica.
Dopodiché ci fu anche il ritorno del teatro drammatico in Argentina, Brasile e
Uruguay, voluto dal governo fascista. Non erano mancate sollecitazioni e
progetti da parte di forza italiane e argentine locali. Nelle trattative di
preparazione, era stata avanzata la candidatura di diverse formazioni, ma alla
fine venne scelta la Compagnia Ricci – Adani, affidata alla direzione artistica di
Bragaglia. L’ipotesi economica prevedeva un costo della trasferta di oltre
560.000 lire, suddivisa in una quota di 300.000 lire offerta da un impresario
americano, 60.000 lire dall’Istituto argentino di cultura italiana, mentre il
Ministero per la stampa e propaganda dispose di una sovvenzione di 200.000
lire.
La scelta di questa compagnia era stata favorita da varie considerazioni legate
alla fama di Bragaglia e perché poteva offrire all’estero un’immagine moderna
ed innovativa del teatro italiano. Ancora una volta vi erano esigenze di
propaganda. La compagnia fu descritta come portatrice di un repertorio moderno
e Bragaglia fu presentato come un’autorità internazionale nel campo del nuovo
teatro europeo.
Nell’estate del 1937 la grande tournée della compagnia Ricci – Adani interruppe
l’assenza delle compagnie italiane in America Latina. Quelle trasferte assunsero
un significato particolare perché per la prima volta furono finanziate dallo Stato.
La compagnia, dopo un lungo giro brasiliano, debuttò il 10 agosto al Teatro
Solis di Montevideo con Tutto per bene di Pirandello. Furono presto chiare le
difficoltà di pubblico che la tournée incontrò. Il regista era felice comunque del
risultato artistico delle rappresentazioni raggiunto. Al di là della debole
partecipazione degli argentini, non erano mancati dubbi ed incertezze degli
osservatori e del pubblico sulle scelte artistiche della compagnia, che non
avevano cercato di coinvolgere il pubblico popolare. Il repertorio della
compagnia si basò principalmente sugli autori italiani contemporanei
(Niccodemi, Pirandello) con una limitata attenzione agli stranieri (Shakespeare,
Bernstein). La tournée iniziata il 27 maggio in Brasile e terminata il 18 agosto in
Uuruguay, presentò un repertorio molto vasto, ma non popolare, privo dei
classici europei e delle commedie francesi, ungheresi e italiane maggiormente in
voga in quegli anni. L’ambasciatore disse che il repertorio poteva essere scelto
un po’ meglio rispetto all’eccessiva presenza di testi stranieri, alla limitata
rappresentazione delle opere pirandelliane e all’assenza di drammaturghi come
Antonelli, Chiarelli. Per Guariglia il tentativo di portare in Sudamerica il teatro
italiano moderno, poteva essere ripetuto, a patto di limitare e inserire meglio le
produzioni di avanguardia nel vecchio repertorio. L’impresario del Teatro
Politeama diede a Bragaglia l’incarico di formare un’altra compagnia per l’anno
successivo. La nuova formazione avrebbe dovuto presentare un programma
maggiormente caratterizzato dalle opere italiane più moderne.
Nella seconda tournée del 1938 Bragaglia rispettò queste indicazioni
presentando un repertorio italiano con opere di Tieri, Niccodemi, Lopez,
Pugliese accanto a D’Annunzio e Pirandello. Fra gli autori stranieri la scelta
cadde su un programma leggero basato sulle commedie di Molnar, Bernstein.
Nelle capitali sudamericane si ripeterono i preparativi già effettuati nella
stagione precedente.
Suscitò molte perplessità la notizia della trasferta organizzata autonomamente da
Ermete Zacconi nella stessa stagione estiva 1938 che prevedeva il giro della
compagnia Borboni – Cimara. Ermete Zacconi sarebbe tornato in Sudamerica
per salutare per l’ultima volta il suo vecchio pubblico. La probabile
compresenza di Zacconi e Bragaglia nelle stesse città non fu approvata da Ciano
e Guariglia. La questione fu trattata a lungo dalle massime autorità italiane, ma
alla fine si dovette accettare la decisione di Zacconi, il quale si era mosso
attraverso l’organizzazione privata dell’impresario Enrico Muscio.
L’accordo fu reso possibile dalle assicurazioni dell’impresario Bragaglia di aver
raggiunto un alto numero di abbonamenti. Zacconi, a sua volta, aveva ricordato
alle autorità italiane che in passato c’era già stata la compresenza di 2
compagnie senza inconvenienti a Buenos Aires, aggiungendo che comunque
spettava alla Compagnia Borboni distribuire le recite in modo da non trovarsi
contemporaneamente nella stessa città.
Zacconi e Bragaglia in quel momento rappresentavano 2 poli emblematici: da
una parte il vecchio teatro e dall’altra lo sforzo di affermare un nuovo e moderno
teatro italiano. Nonostante le maggiori audacie estetiche di Bragaglia, una
maggiore libertà ed autonomia nelle scelte teatrali contrassegnò le ultime
esperienze di Zacconi. Il suo successo di pubblico fu più eclatante di quello delle
2 compagnie di Bragaglia. Questa volta ebbe successo anche la compagnia di
Bragaglia, soprattutto in Brasile. Il ministero della cultura popolare gli affidò
una nuova compagnia nella futura stagione, che includeva anche Cile e Perù.
Da allora altre formazioni, quasi sempre sovvenzionate dal Ministero della
Cultura popolare, andarono oltreoceano. Nel 1937 Vittorio Podrecca portò le sue
marionette in Brasile e Argentina. Contemporaneamente molte formazioni
liriche partirono dall’Italia tra il 1937 e il 1940 per partecipare agli allestimenti
estivi all’aperto a Buenos Aires.
La nuova stagione del teatro italiano in America Latina si interruppe con lo
scoppio della guerra per riprendere 10 anni dopo con un’importante tournée di
Ruggero Ruggeri. All’inizio degli anni Quaranta, oltre alla costante presenza del
Teatro dei Piccoli, quei paesi furono visitati da alcune formazioni di rivista e di
operetta come la Gran compagnia di Olga Vignoli e Zaride Grandi nel biennio
1942 – 43. La guerra fermò anche la penetrazione politica e ideologica che il
fascismo aveva messo in atto in Sudamerica. La guerra rese impraticabile il
teatro.

CAPITOLO SESTO
TRA GUERRA E DOPOGUERRA.
UN’ESTETICA MEDIA PER LA NAZIONE

1. CON LE ARMI DELLA SCENA


Durante la guerra il Ministero della cultura popolare, affidato ad Alessandro
Pavolini, gestì un sistema di sovvenzioni consolidato nei suoi meccanismi e
esteso nel livello delle somme assegnate. Nel 1941 il Fondo della Presidenza del
Consiglio destinato alla stagione invernale di prosa ammontava a 3 milioni di
lire.
Per la stagione estiva 1942 Pavolini e De Pirro potevano contare su 6 milioni di
lire per le iniziative di prosa e lirica. Una parte notevole di quegli stanziamenti
era assegnata all’opera, per le cui stagioni all’aperto di Milano e Roma, si
destinavano finanziamenti di 300.000 lire ciascuna, mentre per le altre grandi
città del regno il bilancio indicava una sovvenzione di 200.000 lire. Ai Carri di
Tespi veniva affidato un contributo di 600.000 lire. Una commissione
ministeriale per la lirica ed una per la prosa e la rivista assisteva De Pirro nelle
scelte generali delle assegnazioni. In quella fase la prosa si stabilizzò su livelli
notevoli di finanziamento; compagnie primarie come la Siletti – Bettarini – Cei
o come quella del Teatro Quirino ottennero allora sovvenzionamenti molto alti.
Nonostante i finanziamenti pubblici, però, i dati disponibili tra gli anni Trenta e
Quaranta, confermano l’andamento negativo del teatro, ancora a vantaggio del
cinema in termini di pubblico e incassi. Nella stagione 1940 – 41, le compagnie
primarie erano state 21 ed avevano agito una o più volte a Roma e Milano, dove
sostavano per un mese e mezzo circa, con l’esclusione quasi totale del
Meridione. A testimonianza di una grande ancora diffusione del teatro nell’Italia
in guerra, le statistiche di quella stagione indicano che le rappresentazioni del
teatro primario corrisposero al 18% del numero di rappresentazioni e coinvolse
il 40% del numero totale di spettatori. Gli incassi delle compagnie primarie
coprirono il 75% della spesa complessiva sostenuta dal pubblico per le
manifestazioni di prosa italiana e dialettale.
Dalla stagione 1934 – 35 a quella 1940 – 41, si era evidenziato nel teatro
primario un impoverimento quantitativo della nuova produzione d’opere: le
novità erano passate da 78 a 31. In questo campo fu fondamentale il veto
governativo verso le opere contemporanee delle azioni nemiche, delle quali
veniva consentita l’esclusiva rappresentazione delle opere classiche. Nonostante
ciò la stagione 1940 – 41 registrò l’allestimento di 2550 opere italiane e 1751 di
autori non italiani.
Nel teatro primario fu gestito in maniera diversa anche il calendario stagionale.
Solitamente l’anno teatrale inizia il 28 ottobre, ma in realtà le compagnie
iniziavano il giro in una data diversa. Le formazioni primarie e quelle
secondarie, in realtà, a causa delle difficoltà, dovettero agire durante tutto
l’anno. La guerra condizionò la vita del teatro nella scelta dei repertori, nelle
precarie agibilità dei teatri, nel bisogno del fascismo di sostenere e alleggerire la
pressione dei militari nei campi di battaglia. A tal fine si riesumò quel teatro del
soldato, diffuso durante la prima guerra mondiale.
Nel 1941 il ministero della cultura popolare aveva approvato un giro in Puglia
per 15 giorni della Compagnia dell’Accademia con addebito di spesa di 50.000
lire sul fondo del milione per il teatro di prosa ammesso che non fossero stati
rappresentati né Re cervo né Le Donne curiose. Mussolini chiedeva che fossero
rappresentate cose allegre, meno classiche, e da ciò traspariva la necessità di
proposte funzionali allo svago e all’evasione dei soldati italiani.
L’Italia in guerra richiedeva la promozione di forme teatrali popolari. Fu
confermato il sostegno alle compagnie primarie e al teatro in lingua italiana da
esse proposto, ma divennero importanti anche i generi minori. Durante la guerra
fu data maggiore attenzione alla rivista, all’operetta e al teatro comico/brillante.
Il regime diede attenzione ai settori osteggiati prima; durante la guerra si
ripresero le compagnie minime e del teatro dialettale. De Pirro diede molte
sovvenzioni alle compagnie minime, ritenute da valorizzare per l’attività che
svolgono nei piccoli centri di provincia. Nelle stagioni 1941 – 42 – 43 un elevato
numero di realtà locali minori e di formazioni di piccolo – medio livello furono
sovvenzionate quasi sempre con piccole somme di 1000/2000 a stagioni e solo
in pochi casi toccava il tetto delle 10.000/15.000 lire; rappresentavano un segno
della diffusione e della popolarità del teatro italiano nelle province della
Penisola. Durante la guerra si affermò la rivista, un genere teatrale che si
rinforzò molto dopo la crisi del varietà e dell’operetta. Infatti le statistiche
documentano che in quegli anni il pubblico è più attratto dalla rivista che dal
teatro drammatico. Nel 1938 dominava la prosa con il 64, 8% del totale
nazionale, poi la lirica con il 25,4%, l’operetta e la rivista con il 4,1% e i
concerti con il 5,7%. Durante la guerra gli equilibri appaiono mutati; nel 1942 le
rappresentazioni drammatiche scesero al 48,5%, la lirica stabilizzata intorno al
29%, e la rivista in crescita al 19,5%. Per quanto riguarda gli incassi, passarono
dal 37,4% per la prosa, 54,2% per la lirica, il 7% per l’operetta e la rivista del
1938 al 30,5%, 44,3% e nel 1942 al 24,5%.
La guerra portò con sé altre restrizioni come l’esclusione degli autori francesi e
anglo – americani o come la censura posta temporaneamente al teatro di
marionette che venne proibito perché ritenuto troppo frivolo. Non venne vietato
il teatro educativo per ragazzi dove furono creati personaggi e vicende più
consoni al nuovo clima e furono scritti copioni per attrarre anche spettatori più
giovani.
Il teatro dialettale, nonostante le restrizioni cui fu sottoposto negli anni Trenta,
continuò a proliferare nelle filodrammatiche e nelle compagnie di teatro
popolare, come quelle napoletane specializzate nelle sceneggiate. Rilanciò anche
vecchie feste popolari il regime come la Piedigrotta napoletana. Tuttavia furono
censurati alcuni testi dialettali e riviste, ma allora l’attenzione era rivolta più che
alla lingua ai contenuti che esprimevano. Emblematica la vicenda di
Masaniello, rappresentazione in 3 atti di Raffaele Viviani e suo figlio Vittorio.
L’opera venne respinta nonostante Masaniello fosse stato trattato con
moderazione. Il personaggio è fatto apparire come un martire dei suoi tempi più
che un rivoluzionario. Il testo andò in scena dopo aver ottenuto il nullaosta
ministeriale il 9 agosto. Infatti erano state apportate le modifiche richieste. Il
censore cercò di evitare la contemporaneità. Il controllo di Zurlo effettuò un
attento controllo sulla rivista e sul teatro comico già prima della guerra. Nel
1938 fu censurato L’ultimo Tarzan o le 199 disgrazie di Tarzan, fantasia
grottesca della Compagnia Fantasie comiche Totò. Il censore disse a Totò che
per poter avere l’autorizzazione, doveva effettuare alcuni tagli. Zurlo nei
confronti del teatro operò una specie di controllo. Le provocazioni suscitate
dalle macchiette dei comici o dagli stessi autori dei testi furono molto diffuse,
trattandosi di forme teatrali basate sulla satira contemporanea. Nel caso della
compagnia di rivista di Totò i rapporti con la censura furono spesso difficili a
causa dei testi delle riviste di Michele Galdieri. Importante fu l’episodio relativo
al copione Mani in tasca naso al vento la cui azione scenica si svolgeva in un
paese fantastico, felice dove non esisteva la storia né i grandi uomini e vi era il
benessere grazie alle navi piene di caffè e lana. Dopo alcune repliche al teatro
delle 4 fontane di Roma, il testo giunse a Zurlo che notò come tutta la rivista
fosse una satira feroce contro l’ideologia fascista. Furono soppresse alcune parti
del testo e del finale dove un sindaco inneggiava grottescamente alla vita beata
del proprio paese.
La polemica contro il varietà era stato appannaggio anche delle Chiese. I vescovi
richiedevano la soppressione degli spettacoli di varietà, almeno nei
cinematografi poiché distraevano i giovani dalle Chiese e favorivano la
promiscuità di ragazzi e ragazze.
Sul fronte del trattamento economico riservato al teatro dialettale, fu
emblematica l’esperienza dei fratelli De Filippo, per molti anni esclusa dalle
sovvenzioni pubbliche a causa dell’uso del napoletano. Utilizzò l’italiano nel
1941 quando rappresentò la commedia Il diluvio di Ugo Betti. Il direttore del
teatro propose una sovvenzione di 2000 lire per il particolare carattere di queste
recite e per il fatto che questa compagnia non aveva mai ricevuto sovvenzioni
ministeriali. L’anno dopo ricevette come indennizzo per delle recite fatte a Bari
per le forze armate, una somma di 15.000 lire. Una sovvenzione di 40.000 lire fu
assegnata a Raffaele Viviani nel 1942 per l’attività svolta a Napoli. Per quanto
riguarda la satira, bisogna fare una differenza tra chi era guidato da una presa di
posizione antifascista e chi usava quel linguaggio per contestare ogni ordine
istituzionale. Per esempio, la compagnia Viviani era a favore del fascismo,
mentre nel caso della compagnia Totò – Magnani e i De Filippo, furono
sovvenzionati per il grande successo di pubblico che il loro teatrale, quasi
sempre dialettale, riscuoteva. Il teatro dialettale fu sovvenzionato per motivi
strumentali.

2. D’AMICO E I CATTOLICI NEL CONFLITTO MONDIALE


L’ampliamento dei destinatari e la suddivisione delle sovvenzioni, in netto
contrasto con la tendenza alla concentrazione e alla selezione della seconda metà
degli anni 30, metteva a nudo il criterio opportunistico che era alla base
dell’organizzazione del nuovo sistema teatrale. Il teatro aveva perso molto della
sua autonomia nei repertori, nelle tournées, nella formazione delle compagnie. Il
regime fascista aveva edificato nel teatro un modus vivendi tra iniziativa privata
ed intervento pubblico che si proiettò nel dopoguerra.
L’azione del fascismo non potè riversarsi sulle connotazioni qualitative della
scena. Le compagnie italiane avevano assunto una nuova fisionomia, resa
esplicita dalla mutazione dello stesso nome, che in quegli anni perse la
caratterizzazione legata a quella del capocomico. Le compagnie ora venivano
formate per brevi periodi da impresari privati che imponevano sigle, spesso
legati ad un teatro (per es. la compagnia estiva di prosa del teatro odeon), ad un
programma artistico definito. L’abitudine di chiamarsi con il nome del
capocomico fu conservata dalle piccole compagnie come residuale strumento di
identità. Sul piano del linguaggio, gli anni del fascismo segnarono gli statuti
estetici della scena.
Fu importante il modo in cui venne introdotta la figura del regista, il quale, a
partire dalla fine degli anni Trenta aveva la funzione regolatrice della scena e
interpretativa del testo.
Negli anni dell’intervento fascista il teatro assunse alcune dominanti linguistiche
che configurarono un’estetica media per la scena italiana; il superamento dei
ruoli fissi favorì la diffusione di nuovi tipi di clichés espressivi. Meldolesi ha
parlato per la scena di allora dell’affermazione di una recitazione funzionale,
ossia un modo di recitare che faceva propri gli aspetti degenerati della tradizione
attorale ottocentesca: il nuovo attore medio nacque adeguandosi. Il nuovo attore
si distingueva ora per i suoi atteggiamenti di pensosità – disinvoltura – eleganza
nel parlare e nel muoversi. Per la maggior parte degli attori, l’affermazione del
teatro sovvenzionato, portò ad una perdita di autonomia e dignità.
Si sarebbero affermati i tratti tipici di un’antilingua recitativa, espressione
ripresa da Calvino, che indicava la tendenza ad usare un linguaggio
semanticamente non conseguente. Il nuovo sistema delle sovvenzioni statali,
interagì, condizionandone gli esiti, con la riforma estetica della scena italiana e
con la ristrutturazione delle relazioni professionali tra l’attore, il drammaturgo e
il regista di cui D’Amico fu il più grande ispiratore. Egli introdusse una
concezione moderata della regia ed affidò la supremazia al poeta/drammaturgo a
favore di un teatro fondato sulla supremazia del testo e della parola. Il teatro
italiano restò in attesa del poeta del nuovo dramma, attesa vana e infinita perché
in Europa stava cambiando la nozione di scrittura teatrale a favore di metodi di
creazione scenica guidata da una scrittura registica autonoma. Le posizioni di
D’Amico, dopo la guerra, acquisirono una prospettiva conservatrice.
Le sue idee in quegli anni risultarono vincenti rispetto a quelle minori che
avevano difeso la scrittura scenica dell’attore. I teatri sperimentali fallirono a
causa dell’inutile che dominava rispetto all’opera d’arte.
Nell’Italia dell’anteguerra erano state deboli le voci di attori, critici e registi che
si erano battuti per una concezione dello spettacolo teatrale come linguaggio
autonomo rispetto al testo drammatico. Sono degne di nota le posizioni di Carlo
Ludovico Ragghianti, il quale diede una dimensione storica all’opera di
personaggi come Craig i quali rimasero ai margini della cultura teatrale italiana
fino al 1950. Nella visione di D’Amico invece, la storia del teatro si identificava
in quella del dramma, lasciando in una posizione secondaria le altre forme
espressive vitali. Su questo aspetto era entrato in polemica con Craig al
Convegno Volta. La loro polemica non aveva rappresentato solo lo scontro fra 2
concezioni diverse del teatro, ma si inseriva nel tentativo del fascismo di forzare
i tempi della nazionalizzazione linguistica dell’Italia, dove la maggior parte delle
persone usava il dialetto per comunicare. Questa direttiva contrastava con la
grande diffusione del teatro dialettale; a riguardo, le statistiche indicavano nei
repertori prima della riorganizzazione fascista del teatro, una grande presenza di
testi in dialetto: nel primo semestre del 1934 le rappresentazioni in dialetto erano
6000 contro le 8158 in italiano. In quel contesto iniziò la polemica contro l’uso
del dialetto in scena che avrebbe condizionato la vita teatrale degli anni
successivi, discriminando, fino allo scoppio della guerra, dal sostegno statale le
compagnie che non accettarono l’imposizione di una lingua nazionale.
Nonostante la prese di posizione propagandistiche durante la guerra, comunque
fu evidente che un teatro fascista non era ancora nato.
In questo contesto è importante la funzione riformatrice svolta da D’Amico
disinteressata da un punto di vista politico e rivolta al miglioramento delle
condizioni difficili in cui si trovava la scena italiana dopo la guerra.
L’intellettuale romana, il quale comunque non aderì al fascismo, dialogò con il
regime. Alla fine della guerra raccontò la sua collaborazione con il regime nel
pamphlet Il teatro non deve morire, pubblicato nel 1945 dove delineò un
quadro ridimensionato degli esiti del suo programma del 1931. All’elenco delle
realizzazioni del regime, D’Amico aggiunse le attività sperimentali diffuse nelle
università presso i GUF, la biblioteca teatrale inaugurata dalla SIAE, primo
nucleo del museo da lui richiesto e le nuove collane teatrali avviate negli anni
30. Il suo progetto trovò realizzazione nell’affermazione di una determinata idea
di arte scenica e di cultura teatrale, infatti in epoca repubblicana il teatro si
mosse per molto tempo lungo le concezioni teatrali di D’Amico.
Tra gli anni 30 e il dopoguerra una grande attenzione andò all’attività editoriale,
che rappresentò un canale fondamentale della sua influenza. Gli venne affidata
la direzione delle voci teatrali dell’Enciclopedia italiana da parte di Gentile nel
1931. L’esperienza dell’Enciclopedia italiana stimolò in lui l’idea di un’opera
analoga dedicata al teatro di tutto il mondo. L’ipotesi di promuovere il progetto
editoriale di un’Enciclopedia dello spettacolo, realizzata nel dopoguerra,
apparve su Scenario e su Rivista italiana del dramma nel 1938. Quest’ultima era
stata fondata da D’Amico un anno prima con un programma di alto livello
culturale basato su ricerche originali sul teatro italiano, poi estese anche alla
scena europea e all’opera lirica. Al nuovo periodico contribuirono intellettuali
importanti come Giuseppe De Luca, Paolo Toschi, Mario Praz. Questi ultimi 2,
insieme ad altri, costituirono un gruppo di studiosi cattolici che tra la fine degli
anni 30 e il dopoguerra avrebbe rifondato la storiografia teatrale italiana.
L’attività editoriale assicurò a D’Amico un ruolo primario nel dare un’impronta
precisa alla memoria del teatro italiano che la storiografia cominciava a
diffondere. D’Amico era impegnato, nel campo dell’editoria, in una vasta opera
di organizzazione culturale. Fu il primo intellettuale a porsi il problema
dell’assenza di una storia del teatro italiano aggiornata.
La storia del teatro drammatico di D’Amico fu il primo tentativo, almeno per
quanto riguarda il dramma, di affrontare la storia del teatro contemporaneo;
l’opera, nata dagli appunti delle lezioni dell’accademia, fu pubblicata in 4
volumi nel 1939 – 40 con una prefazione di Renato Simoni che la presentò come
la 1 storia del teatro scritta da un italiano. I successi dubbi avuti sulle tesi
sostenute da Pirandello contribuirono alla sua decisione di scrivere una storia del
dramma.
Nel dibattito culturale nazionale si mosse per affermare una visione religiosa del
teatro. Si batté per la ripresa di un teatro cristiano. Nel momento in cui veniva
meno l’esperienza dei teatrini di oratorio a favore delle proiezioni
cinematografiche nelle parrocchie, la scena d’ispirazione cattolica cominciò a
muovere i primi passi nel teatro primario.
Nel 1942 Pio XII aveva chiamato a raccolta tutti gli uomini di Azione cattolica
per la rinascita spirituale della società invitandoli a denunciare all’autorità
pubblica gli spettacoli disonesti e che non rispettavano la morale cattolica; nel
1945 il papa aveva concesso udienza al centro cattolico teatrale avviando
un’attenzione pontificia al teatro spirituale. Durante l’età repubblicana la chiesa
non fu più diffidente nei confronti del teatro per giungere quindi con il concilio
vaticano II e con il Pontificato di Paolo VI a un dialogo aperto con il mondo
dello spettacolo.
Incominciò a cambiare anche l’atteggiamento di D’Amico nei confronti dello
spettacolo: egli mantenne stretti rapporti con i ministeri che si occupavano della
gestione dell’Accademia, ma in quel momento si concentrò sulla scuola, sulla
compagnia e sull’attività culturale.
I responsabili dell’accademia vennero criticati per diffondere un clima poco
italiano all’interno della scuola. La logica politica che guidava l’azione
governativa del fascismo si scontrò con le scelte di D’Amico.
Inoltre, le persecuzioni razziali in Germania avevano turbato le coscienze dei
cattolici italiani cominciando a indebolire l’alleanza con la chiesa che dopo il
1929 aveva consentito l’edificazione di un regime clerico – fascista. Un primo
sintomo era emerso nel 1938 quando le rappresentazioni de La nave erano state
precedute da una polemica del cardinale patriarca di Venezia che aveva
ricordato ai fedeli del patriarcato che tutte le opere di D’Annunzio erano
all’indice dei libri proibiti. La nave era stata messa all’indice nel 1911.
Anche la letteratura teatrale cattolica popolare negli anni della guerra conferma
l’atteggiamento cambiato dei cattolici verso il fascismo. Nei testi dedicati alla 2
guerra mondiale si può notare una progressiva differenziazione degli autori
cattolici, testimoni di un diffuso malessere nei confronti del conflitto, verso il
quale emersero sentimenti di solidarietà e pietà verso il nemico.
3. DOPO IL FASCISMO
Nel periodo 1936 – 37 diminuì il pubblico a teatro, anche se ci furono 2 fasi
positive corrispondenti agli anni della guerra mondiale e al passaggio tra gli anni
40 e 50. Dal 1950 al 1960 il pubblico diminuì. Dietro ciò vi era il crollo delle
compagnie minori e l’indebolimento delle attività periferiche a vantaggio dei
grandi centri urbani.
Alla fine del conflitto, il sistema teatrale fu riassorbito nelle sfere statali secondo
un processo di burocratizzazione. Per quanto riguarda il personale dello Stato è
stato notato come i posti chiave nella stampa, nell’editoria libraria e periodica,
nella radio e nell’industria cinematografica, furono occupati da coloro che li
avevano tenuti sotto il fascismo. Ciò accadde sia a causa di un’inefficace
epurazione degli ex fascisti, sia perché le industri richiedevano uno staff
qualificato ed esperto. Speculare a tale processo fu l’occupazione dello stato da
parte della democrazia cristiana che presto avrebbe gestito i principali apparati
culturali pubblici grazie al controllo del sottosegretariato per lo spettacolo che
governò il mondo dello spettacolo e della comunicazione fino alla nascita del
ministero del turismo e dello spettacolo nel 1953. Dal 1947 al 1953 il vero
responsabile dello spettacolo fu Giulio Andreotti che governò il settore tentando
di far coincidere criteri industriali e ideologici. Presso il nuovo ministero del
turismo e dello spettacolo fu riattivata la direzione generale del teatro ancora
sotto la guida di De Pirro, fu ripreso il sistema delle sovvenzioni alle compagnie
senza nessuna novità, ma con un evidente sostegno ad un numero minore di
compagnie primarie e fu ristabilita una commissione ministeriale dove erano
rappresentate tutte le categorie professionali. Nello stesso tempo fu dato il
sostegno pubblico a tutti gli enti pubblici creati dal fascismo.
Dopo il fascismo l’esperienza registica ha svolto una funzione positiva; nel
dopoguerra la regia italiana ha operato una nuova lettura della drammaturgia
nazionale e diffuso quella straniera. Questo lavoro di ampliamento e
aggiornamento dei repertori si è accompagnato nella maggior parte dei casi
all’incapacità di trovare punti d’incontro con la tradizione professionale del
mondo attorico favorendo uno scontro tra il teatro di regia, innovativo e il teatro
attorico, conservatore. La nuova regia italiana, che nella fase pioneristica degli
anni 40, si era potuta muovere liberamente, nel suo momento sperimentale, nel
decennio successivo ha acquistato un assetto più bloccato e unidirezionale.
Questa funzione normalizzatrice della regia ha spinto verso un uso regolativo
della scena. Nella prassi più diffusa è passata l’idea del regista come un mestiere
di illustratore dei testi, di arte compilativa. Le idee di D’Amico furono più
complesse nella difesa del testo, eppure contribuirono all’acquisizione
strumentale della regia, funzionale alla progressiva industrializzazione della
società che caratterizza l’Italia fino agli anni 60 di questo secolo. Nel teatro
medio italiano il regista è diventato un tecnico che rende più rapida la
realizzazione degli allestimenti, riducendone i tempi e i costi; colui che stimola
la riproduzione del teatro secondo vari sistemi di conduzione: il divismo, i testi
d’intrattenimento, un modo calligrafico di rivisitare i classici, una precisa
organizzazione del pubblico. L’attore, nella maggior parte dei casi, è diventato
subalterno al regista, a sua volta subalterno ad un sistema di produzione
complesso.
Il risultato è stato una sottovalutazione della tradizione attorale italiana. Già
Petrolini nel 1936 aveva auspicato un diverso equilibrio nella relazione tra attore
e regista. Un regista di buon talento, secondo lui, dovrebbe entrare nel teatro per
migliorarlo, senza insultare, aggredire, altrimenti non insegnerebbe nulla.
Petrolini aveva previsto i pericoli di un’errata intromissione del regista. In
queste sue posizioni vi era la difesa della parte migliore della tradizione attorale
italiana, di cui sentiva di esserne uno dei maggiori eredi. Non si trattava solo
della difesa di grandi attori, ma vi era una profonda conoscenza del teatro, del
suo codice comunicativo fondato sulla presenza dell’attore davanti al pubblico.
L’attore, per essere chiamato tale, oltre all’insieme d’immagini e battute
comiche prestabilite, deve avere una sensibilità all’ambiente in cui lavora poiché
il teatro è in continuo spostamento. Si crea allora uno spazio vuoto tra il palco e
la platea, un vuoto di senso che l’attore deve riuscire ad orientare con
associazioni di idee, gesti, innovazioni. Il pericolo è che il pubblico preveda
tutto mentre si svolge la commedia e che non si aspetti nulla di imprevisto.
Petrolini rimette al centro il rapporto comunicativo con il pubblico, base delle
relazioni linguistiche del teatro e fondamento di tutte le più importanti ricerche
sceniche dell’Europa del secondo 900. Il suo ideale spingeva verso un
attore/autore di se stesso e indipendente nella sua arte: tutt’altro rispetto
all’attore funzionale che si stava affermando.
Petrolini aveva proposto un legame con la tradizione attorale italiana, che
sapesse raccogliere il meglio del linguaggio e dei sistemi espressivi dell’attore
popolare e lo proiettasse verso un teatro contemporaneo vivente.
Un altro modello dominerà il teatro italiano fino alla rottura degli anni 60/70
quando una nuova generazione di artisti della scena, proporrà una pratica e una
teoria scenica unitaria, autonoma dalla letteratura il cui principale riferimento
andava ai maestri delle avanguardie europee che fino a quel momento furono
poco divulgati in Italia. Il mancato incontro con la tradizione attorale ha posto la
regia in una condizione di subalternità ai principali modelli europei, soprattutto
francese e tedesco, impedendone un percorso originale.
La questione dell’attore/autore e della regia creativa rimanda a quello della
creazione di opere teatrali viventi. Durante l’epoca fascista e nel dopoguerra non
è nato un repertorio italiano identificabile e nemmeno un vero teatro nazionale
pubblicamente riconosciuto. La mancanza di una matura unità sociale e civile ha
reso impossibile la creazione di una tradizione drammaturgica italiana. Ciò è un
limite che rinvia al problema della lingua adottata dai drammaturghi che, anche
dopo il fascismo, risentirono dell’incompleta unificazione linguistica dell’Italia.
Secondo Pasolini nella storia nazionale mancava una pronuncia comune alle
varie nazioni. Si è creata una situazione in cui il parlato teatrale italiano è
diventato sempre più accademico e incapace di veicolare tracce di realtà. Gli
uomini di teatro non sanno che esiste un italiano medio parlato.
L’Italia del dopoguerra ripropose un panorama linguistico caratterizzato da forti
matrici dialettali che si riversarono sulla scena. In realtà le esperienze attoriali
più incisive (la lingua di Totò) e drammaturgiche del 900 (teatro italiano
particolare di Pirandello) hanno creato una tensione dialettica fra il proprio
dialetto di origine ed una lingua nazionale in divenire. Ancora oggi il teatro
degli anni 80/90 mostra che le novità drammaturgiche di maggior interesse sono
state scritte da nuovi autori che privilegiano il dialetto, il quale a teatro assume
una grande carica evocativa perché si lega al gesto e ne aumenta le possibilità
evocative.
L’incerta presenza di un repertorio italiano e la debole unificazione linguistica
mostrano, anche attraverso il caso del teatro, come dagli anni 30 in poi si sia
affermata una tendenza alla nazionalizzazione passiva delle masse italiane.
Questa debolezza della scena nel secondo dopoguerra rinvia ad un rapporto
ambiguo, spesso subalterno con le politiche ministeriali repubblicane. Dopo la
ricostruzione è successo che una forma statale di amministrazione dello
spettacolo col pretesto di realizzare un progresso, ha prodotto un’oligarchia
illiberale e burocratica per rafforzare il proprio potere.
Eduardo De Filippo disse che la politica teatrale del governo italiano, dopo la
guerra, fu molto simile a quella del regime, ma anzi, peggio. Lui lanciava una
protesta contro la continuità tra il fascismo e la repubblica anche in questo
settore della vita nazionale. Dopo lo scioglimento del ministero del turismo e
dello spettacolo, il teatro tornò nelle mani della presidenza del consiglio e le
ipotesi di un decentramento regionale pongono fine a un periodo interessante,
ma soffocante a causa delle lotte politiche e del malgoverno amministrativo.
Negli ultimi anni ci è stata una progressiva sclerotizzazione della dialettica fra
stato e teatro. Una mancanza di dinamismo, efficienza e trasparenza delle regole
che ha impedito la realizzazione di un modus vivendi fra la scena e le istituzioni
pubbliche.
Nel teatro si avverte il bisogno di nuove relazioni tra lo stato, le regioni e gli enti
locali; un decentramento che qualifichi l’investimento del denaro pubblico e ne
controlli la resa sociale ed artistica. Necessita un nuovo principio di
responsabilità da parte delle compagnie e dei teatri che hanno bisogno di
indipendenza creativa e materiale. A queste compagnie, a questi teatri, lo stato
dovrebbe garantire stabilità di progettazione e programmazione. Alla fine del
secolo i mutamenti erano necessari anche all’interno del linguaggio scenico.

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