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Tra la fine dell’800 e i primi del 900, nel teatro europeo si realizzarono delle
esperienze che posero le basi della storia teatrale di tutto il nostro secolo. Nel
1887 era nato a Parigi il Théâtre Libre di Antoine e a Mosca nel 1898
Stanislavskij aveva fondato il Teatro d’Arte. Accanto al teatro medio
rappresentato nelle varie nazioni, la scena europea si affacciò sul primo
Novecento con un nuovo carico di suggestioni, eventi, progetti.
La vicenda del teatro offre un’immagine di sé caleidoscopica che la ricerca
storica tende a sistematizzare in una sequenza di epoche e correnti artistiche che
si succedono in maniera lineare.
Negli anni precedenti e in quelli successivi al conflitto mondiale la scena italiana
mostra i segni di un dissesto strutturale che si accompagna alla ricerca di nuovi
livelli linguistici ed organizzativi. Accanto all’eclissi del sistema tradizionale di
vita delle compagnie, si afferma una nuova forza dei drammaturghi, mentre
rispetto ad altre nazioni, si riscontra un ritardo nell’acquisizione della figura del
regista. Le dinamiche di fondo del teatro italiano del primo dopoguerra si
possono comprendere alla luce di una nuova e più forte relazione fra un sistema
teatrale tradizionale e una società ormai industrializzata. La prima guerra
mondiale accentua questo aspetto portando con sé una crisi pratica: teatri usati
per le guerre, attori al fronte, ferrovie poco agevoli e più care. Le difficoltà
organizzative aumentano l’instabilità della scena italiana rendendo sempre più
urgente una rifondazione generale.
La crisi del teatro mattatoriale definito a partire dal primo 900 “all’antica
italiana”, basato su un repertorio eroico – storico – classicheggiante, aveva
raggiunto il culmine. La formula indicava la vecchia tendenza che esigeva
dall’attore una recitazione fatta di bella voce tonante e portamento eretto. Per
quanto riguarda la tecnica interpretativa di Ermete Zacconi e Ermete Novelli, la
loro recitazione era condotta da compagnie divise in ruoli principali e ruoli
secondari, che poneva l’attore al centro dello spettacolo mettendo in secondo
piano il testo, che diventava un accessorio per esaltare le virtù drammatiche dei
protagonisti.
I figli d’arte, discendenti da generazioni di comici, erano i discepoli dei
magnifici virtuosi del 500, 600 e 700, gli eredi della commedia dell’arte che
sbalordì il mondo. Mentre in Europa, già da molti anni era in atto il
rinnovamento del linguaggio scenico, in Italia, la stessa forza della tradizione
attorale, da secoli base fondamentale delle compagnie girovaghe, rendeva più
difficile e lenta l’affermazione di nuovi modelli di produzione ed organizzazione
dello spettacolo.
Il “teatro all’antica italiana” non rappresentava solo un modo specifico di fare
teatro ma rinviava anche ad un sistema teatrale articolato basato sul nomadismo,
su formazioni di compagnie con scadenze triennali e con rimpasti annuali, dotate
di un patrimonio vistoso di scenografie (di proprietà del capocomico) e di
costumi (di proprietà degli attori). Si trattava di un ambiente chiuso, formato
solo da attori e attrici, dove i critici e gli autori avevano un ruolo secondario.
Un’arte una complessa tecnica dell’attore basata sulla divisione in ruoli (da qui
la polemica sulla loro abolizione) che rinviava ad un modello di vita teatrale
diffuso nel secolo precedente. Nel corso dell’Ottocento il teatro aveva
modificato la sua funzione e da contenitore degli umori popolari, alla fine del
secolo, era diventato lo specchio della società borghese che assisteva agli
spettacoli. Infatti i teatri erano aperti a tutti e la vendita dei biglietti era libera: è
qui che si forma il nuovo pubblico borghese per provenienza e per cultura che
dalla seconda metà del XVIII secolo è diventato classe dominante e si riconosce
culturalmente nel dramma borghese e nel romanzo psicologico.
Sono gli anni del teatro verista di Verga, Capuana, Giacosa, Rovetta, quando si
afferma un dramma psicologico d’importazione francese, un teatro di buoni
sentimenti basato su personaggi borghesi dei quali, spesso, veniva mostrata la
lealtà e l’onestà interiore. Campione di questo filone fu Il padrone delle
ferriere di Georges Ohnet, che aveva trionfato a Parigi nel 1883, ed è il testo di
maggior successo in Italia tra Otto e Novecento. La nuova dimensione pubblica
della borghesia spinge verso un nuovo comportamento in sala: bisogna
contenere la spontaneità e le reazioni del pubblico, che conduce al “controllo
silenzioso delle emozioni. Non bisogna parlare durante lo spettacolo e la luce è
soffusa in modo da far concentrare l’attenzione sulla scena. Negli anni Novanta
le luci si spengono completamente nei teatri e si accendono quelle dei café –
chantant.
Dal punto di vista estetico la scena dei due primi decenni del nuovo secolo
avrebbe offerto un teatro disomogeneo dove convivevano varie tendenze: era
ancora forte la presenza del teatro leggero francese spesso imitato da molti
drammaturghi italiani, che però avevano rinunciato a quel ruolo di denuncia e
critica sociale assolto dalla drammaturgia verista del secolo precedente. Accanto
al predominio dei testi di evasione, vi era l’esperienza di provati commediografi,
come Roberto Bracco o Dario Niccodemi che riscuotevano successo; i futuristi
conducevano i loro esperimenti, mentre alcuni lavoravano per un “teatro di
poesia” (Gabriele D’Annunzio). Pirandello, voleva un teatro che scardinasse il
senso comune del pubblico e per fare ciò doveva modificare le tecniche,
inventarsi un teatro nuovo.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, il sistema teatrale che si affermò dopo
l’unità nazionale, era giunto alla fine della sua spinta innovativa; serviva allora
una ristrutturazione della vita teatrale. I cambiamenti dovevano essere radicali in
quanto era in discussione la funzione, il senso del teatro all’interno di una
società anch’essa in trasformazione.
Gramsci, in varie occasioni, aveva richiamato l’attenzione sulle conseguenze
determinate dall’avvenuta industrializzazione del teatro: la compagnia
drammatica, un tempo fondata su rapporti di carattere familiare e artigianale
caratterizzati dalla trasmissione dell’esperienza lavorativa dal maestro
all’allievo, mostrava nel primo dopoguerra un nuovo profilo. A dominare ora
erano i nuovi sistemi di relazione, assimilabili ai vincoli che legano
l’imprenditore ai lavoratori salariati, tra loro divisi dalle regole della
concorrenza. Gramsci dice che si parla di depravazione del gusto, di decadenza
dei costumi, di dissoluzione artistica. L’origine di questi fenomeni è da ricercare
nel cambiare dei rapporti economici tra l’impresario del teatro, diventato
industriale associato in un trust, il capocomico diventato mediatore e i comici
sottomessi alla schiavitù del salario.
Del trinomio produzione, prodotto, consumo il teatro elimina il secondo. A
teatro infatti il momento della produzione e del consumo coincidono: lo
spettacolo teatrale non esiste mai come prodotto in sé e quindi non si può
produrlo in un tempo diverso da quello in cui si consuma. Per
industrializzazione del teatro si intende, allora, la riorganizzazione del sistema
di produzione e di distribuzione: nel caso italiano, il superamento della famiglia
d’arte come principale strumento produttivo ed il controllo del mercato da parte
di alcuni grandi impresari che riescono ad attivare logiche di monopolio.
Da questo punto di vista erano già emersi nell’800 alcuni segni di
trasformazione delle compagnie, formate da nuclei familiari che si
tramandavano le esperienze, le tecniche e i codici espressivi. Quei segnali
indicavano un diverso status sociale dell’attore che cominciava a riconoscersi e a
proporsi come lavoratore individuale in un rapporto più diretto con la società
civile. Tra Otto e Novecento era iniziato il processo di mutazione interna della
corporazione teatrale. All’inizio del secolo, parallelamente allo sviluppo del
movimento operaio e delle idee socialiste in Italia, anche nel mondo teatrale,
erano nate le prime forme di associazionismo e di battaglia sindacale tra gli
attori e i capocomici, veri responsabili del teatro.
Opponendosi alla tradizione corporativa del teatro, che prevedeva che i comici
italiani formassero una famiglia unica, spuntarono i primi germogli sovietici che
giungevano a noi prematuramente. Da quei fermenti era nato un discreto livello
di organizzazione sindacale del settore.
Una tappa importante, in tale direzione, fu raggiunta nel 1917, quando la Lega di
miglioramento fra gli artisti drammatici socialisti e l’Associazione dei
capocomici sottoscrissero un “Contratto di locazione d’opera” in cui il
capocomico si impegnava a stipulare, anche nel caso di artisti di una stessa
famiglia, una scrittura di tipo individuale. Questo documento dovrebbe indicare
la scomparsa della famiglia d’arte dal punto di vista istituzionale.
Il riconoscimento all’attore di uno stato giuridico di tipo individuale era stato
sancito all’interno di varie riorganizzazioni interne al mercato teatrale, che nel
1916 avevano condotto, alla nascita e all’affermazione di un Consorzio per la
gestione delle principali sale italiane, fondato da Giuseppe Paradossi insieme ai
fratelli Chiarella e alla ditta Suvini – Zerboni. La nuova società controllava
direttamente molte sale di Milano (il Teatro Olimpia), di Torino (il Teatro
Carignano) e di Roma (il Nazionale), ai quali si affiancavano i principali teatri
bolognesi, il Teatro Biondo di Palermo, il Politeama Giacosa di Napoli ed il
Politeama Margherita di Genova. Il monopolio dei maggiori teatri italiani era
quasi completo considerando che nel 1923 un’indagine ministeriale segnalò
l’esistenza di 23 sale primarie, 213 di seconda categoria e 1244 di terza,
soprattutto nelle regioni centro settentrionali e nelle maggiori aree urbane. I
capocomici più volte protestarono richiedendo il ritorno alle forme contrattuali
precedenti l’affermazione del Consorzio, noto come trust. Per loro c’era chi si
immischiava nelle compagnie senza averne diritto. Questi temi costituirono la
base delle discussioni tra le rappresentanze associative e sindacali delle diverse
categorie. Gli anni del primo dopoguerra furono pieni di dibattiti coinvolgenti i
proprietari dei teatri, i capocomici, i rappresentanti dei lavoratori, gli autori e gli
organizzatori. Allora si capì che bisognava giungere ad una determinazione
chiara dei ruoli e dei diritti di ciascuna categoria. Rivelatrici di questa necessità
furono la nascita della Confederazione nazionale dei lavoratori dello spettacolo,
a Milano nel 1920, sotto l’impulso di Giulio Trevisani e le discussioni sul nuovo
contratto di locazione dei teatri. I proprietari, rappresentati da Giuseppe
Paradossi, polemizzarono con l’Associazione capocomici italiani.
L’Associazione dei capocomici aveva solidarizzato con il movimento sindacale
dei lavoratori, pur dichiarando alcune riserve e sforzandosi di introdurre nelle
contestazioni un tono più conciliativo. Di fronte a questa insolita coalizione i
proprietari dei teatri si erano alleati con gli autori, interessati allo stesso modo
alla riduzione del potere dei capocomici sui repertori. La polemica aveva
condotto a un nuovo contratto di locazione, accettato con fatica da tutte le parti
in causa nel 1921. Il contratto assegnava al capocomico le spese della
compagnia, materiale scenico, viaggi, trasporti, trovarobato, montaggio e
smontaggio delle scene; a carico del teatro spettava l’illuminazione del
palcoscenico e della sala e il personale, le spese pubblicitarie e il riscaldamento
del teatro fino a 15 gradi nella sala e 18 in palcoscenico, pompieri, 2 pianoforti,
servi di scena. Gli accordi economici venivano rimandati ad una ripartizione
concordata in percentuale degli incassi, mentre i capocomici dovevano inviare al
teatro, almeno 15 giorni prima delle repliche, l’elenco artistico con le novità e a
parte, il repertorio, dal quale verranno scelti progressivamente, di comune
accordo, gli spettacoli. La clausola tendeva ad assegnare ai proprietari delle sale
un maggior condizionamento sulla scelta dei repertori. Il potere del Consorzio si
era esteso alla supervisione dei repertori delle compagnie, il cui programma
artistico dopo il 1921 cominciò ad essere sottoposto alle esigenze delle tournées
organizzate dagli agenti mediatori. La limitazione del ruolo dei capocomici
trovò una prima formalizzazione legale. Nel 1923, la sconfitta della
Confederazione nazionale dei lavoratori del teatro, socialista, fu definitiva.
Allora la rappresentanza sindacale dei lavoratori fu assunta dalla Corporazione
nazionale del teatro, fondata nel 1921 dove confluirono l’Associazione
proprietari di teatro, la Società italiana autori e l’Associazione artisti
drammatici, dove parteciparono molti rappresentanti della Confederazione dei
lavoratori del teatro. La nuova organizzazione sindacale fascista voleva ridare
vita e forza al teatro italiano. L’affermazione del fascismo sul piano politico e
quella della Corporazione nazionale del teatro sul piano sindacale posero fine
alla trattiva degli interessi tra le varie categorie.
2. GLI INTERVENTI DELLO STATO NEL PRIMO DOPOGUERRA
Nei confronti del sistema teatrale l’età liberale era stata caratterizzata da una
presenza statale limitata solo all’ambito legislativo. Per tutto l’800 il teatro di
prosa non aveva nessuna sovvenzione governativa; raramente i Municipi
concedevano qualche finanziamento alle iniziative. L’intervento finanziario più
regolare consisteva nel premio agli autori drammatici vincitori dei concorsi
nazionali. Furono mantenuti in vita i concorsi iniziati da Cavour nel 1853 in
base a un accordo con la Compagnia Reale Sarda e la pratica dei concorsi
continuò fino al 1898, quando ne fu tagliata la voce dal bilancio dello Stato.
Il mondo teatrale aveva teso ad organizzare automaticamente alcuni servizi
importanti come la regolamentazione del diritto d’autore (la costituzione della
SIAE, privata, è del 1882) e l’assistenza sociale; la Società di previdenza degli
artisti drammatici fu fondata nel 1891. La formazione professionale era l’unico
aspetto del teatro verso il quale i governi liberali avevano dato attenzione. Nel
1908, infatti, si era inaugurata a Roma una scuola di Recitazione annessa al
Regio Conservatorio Musicale di Santa Cecilia.
Tale atteggiamento, traspariva dalle posizioni di un politico come Ferdinando
Martini, avversario nel 1888 di ciò che lui chiamava “la fisima del Teatro
Nazionale”, cioè ogni ipotesi di teatro sovvenzionato dallo Stato. Martini,
invitando a tener conto del fatto che l’Italia era uscita da poco dalle guerre
d’unità nazionale, diceva che solo quando la vita italiana avrà preso aspetti
propri, allora forse scatterà fuori la commedia, come immagine di un nuovo
stato sociale.
Il clima del dopoguerra condusse, parallelamente alle polemiche fra le varie
categorie professionali del teatro, ad una prima presenza dello Stato nelle
vicende teatrali. Nel 1919 il governo Nitti rilanciò il Sottosegretariato per le
antichità e le belle arti al quale era affidata la cura del settore teatrale; nel 1920-
22 sotto la guida di Giovanni Rosadi, un avvocato molto legato agli ambienti
teatrali, il lavoro della Commissione permanente per le arti musicali e
drammatica, istituita nel 1912, suscitò speranze di un aiuto dello Stato alle sorti
del teatro. Il Sottosegretariato fece due interventi importanti: nel maggio del
1920 un decreto legge dispose che nelle province, il cui capoluogo avesse più di
300.000 abitanti, il governo potesse imporre un’addizionale ai diritti erariali sui
biglietti degli spettacoli musicali e drammatici, il cui importo sarebbe stato
devoluto a favore degli enti autonomi e delle associazioni locali che avessero
gestito un teatro lirico d’importanza nazionale senza fini di lucro.
Nel 1921 venne affidato al Sottosegretariato delle belle arti il potere di assegnare
un contributo di 200.000 lire a favore di organismi, istituti e compagnie liriche e
di prosa. La Commissione permanente per le arti teatrale e musicale, aveva
sottolineato la crisi finanziaria ed artistica delle compagnie di prosa,
denunciandone la decadenza causata dal progressivo esaurimento della
tradizione dei figli d’arte. L’organo ministeriale aveva bandito un concorso per
selezionare il complesso drammatico maggiormente capace di esprimere dal
novembre 1921 al carnevale 1923 un progetto di adeguato livello artistico in cui
almeno la metà delle rappresentazioni fossero rivolte al repertorio italiano. Il
premio di 120.000 lire, rateizzato in 3 parti, fu assegnato alla Compagnia
Nazionale Talli – Ruggeri – Borelli, alla quale andò la prima sovvenzione
pubblica al teatro di prosa in Italia. Il concorso fra le compagnie drammatiche
aveva suscitato il dissenso dei socialisti, ma anche forti perplessità tra le stesse
compagnie. L’Associazione dei capocomici italiani del teatro di prosa, aveva
contestato l’assenza nella commissione di un attore o di un vero capocomico
militante e la scelta di premiare una sola compagnia. L’Associazione aveva
chiesto che la somma fosse invece divisa equamente fra le compagnie che
avessero dato prova di un sano indirizzo d’arte, concludendo che un simile
sussidio non poteva risolvere il problema della vitalità della scena di prosa
italiana, ma che necessitasse da parte del governo un più efficace interessamento
come la fondazione di un vero Teatro di Stato.
Fino ad allora l’Italia era stata l’unica nazione europea dove le istituzioni
pubbliche si erano disinteressate del teatro lirico e drammatico.
Per gli esercizi successivi al 1920-21 era stata previsto, a seguito
dell’approvazione di un nuovo decreto fiscale che fissava nel 10% dell’incasso
lordo il diritto erariale, un gettito di circa 20 milioni, la cui riscossione era stata
appaltata alla Società Italiana degli Autori. È in questo contesto contraddittorio
che bisogna collocare lo sforzo effettuato da Rosadi, primo funzionario pubblico
che denunciò l’avarizia dello Stato verso il teatro, che è l’arte da cui l’Erario
ricava le maggiori somme.
Le intenzioni del Sottosegretariato alle belle arti erano molto più ambiziose, ma
non avevano incontrato il consenso di Benedetto Croce, il quale Rosadi più volte
aveva esortato a legare il suo nome ad una riforma che rimarrebbe storica. I
buoni propositi di Rosadi si erano estesi alla riforma della legge Baccelli, che
aveva ripristinato nel 1919 il vecchio concorso fra gli autori drammatici con un
premio annuo di 6.000 lire; in questo caso la sezione drammatica della
Commissione permanente aveva proposto di accumulare le somme delle stagioni
1920-21-22 e, in previsione, quelle relative al 1922-1923 con l’obiettivo di non
premiare un lavoro di successo ma contribuire alla messa in scena di un’opera
ancora sconosciuta e meritevole di essere notata. In realtà il fine della proposta
era quello di limitare i poteri dei capocomici, affermando una diversa autonomia
del testo. In questo modo la scelta della Commissione avrebbe premiato un
copione mai rappresentato così da scavalcare le pretese delle compagnie nel caso
il concorso fosse stato aperto a tutte le opere drammatiche presenti nei repertori.
Si affermava la tendenza ad emancipare gli autori dal potere dei capocomici.
Giovanni Rosadi e Silvio D’Amico esprimevano le esigenze di riforma del
sistema teatrale nazionale verso un deciso intervento dello Stato, una
riorganizzazione dei luoghi formativi, una lotta al nomadismo delle compagnie,
visto come elemento determinante della scarsa qualità delle opere allestite, a
favore di nuovi concetti di stabilità.
Fu rilevante il progetto di un “Teatro dei giovani” previsto nel maggio 1921 al
Teatro Argentina da d’Amico, basato sulla creazione di un teatro stabile rivolto
ai giovani attori ed ai nuovi autori, nel quale si era tentato di coinvolgere
Eleonora Duse.
Il “Teatro dei giovani” avrebbe dovuto favorire l’incontro intorno alla Duse di
un autore come Pirandello, di attori come Armando Falconi e Maria Melato, di
un organizzatore come Paolo Giordani. La novità del progetto era il desiderio di
fare della Duse il perno del nuovo teatro. Probabilmente questa strategia di
inserimento della Duse nel gruppo dei riformatori romani, sul piano pratico, era
stata elaborata in relazione alla sovvenzione prevista da Rosadi nello stesso
anno, a gennaio. La forza del fronte riformatore aveva fatto naufragare il
progetto, ma avevano anche pesato le titubanze della grande attrice che non
accettava l’eccessiva pianificazione della vita teatrale.
CAPITOLO SECONDO
IL TEATRO NON DEVE MORIRE
CAPITOLO TERZO
UN NUOVO VOLTO AL TEATRO ITALIANO
CAPITOLO QUARTO
LA SCENA DEGLI ANNI TRENTA
1. IL CONVEGNO VOLTA
Nel periodo in cui si consumavano alcuni passaggi importanti del nuovo sistema
teatrale, la vita scenica appare popolata da tanti generi, proposte, tentativi
estetici. Dalla seconda metà degli anni Venti in poi l’Italia conobbe una
sperimentazione intensa, alla quale però non corrispose un’adeguata produzione
di testi drammatici e di messe in scena capaci di racchiudere l’intera epoca. Si
distinse Pirandello con il suo ciclo sui Miti (in particolare I giganti della
montagna), ma il teatro degli anni Trenta fu sì ricco di discussioni e di prove,
ma povero di opere che rimasero. Influì su questa situazione la crisi del dramma
ottocentesco, alla quale avevano contribuito i maggiori drammaturghi europei
fra 800 e 900. Per quanto riguarda l’Italia giocò un ruolo importante una
condizione di crisi, di discussioni, di reimpostazioni.
La scena degli anni Trenta mostra un carattere non unitario che impedisce una
ricostruzione storica semplificante. Nel palcoscenico di quegli anni si
incontrarono diverse e spesso opposte tendenze: i tentativi di creare un teatro di
massa si affiancarono a diffuse forme di teatro d’evasione che assecondavano il
gusto di un nuovo pubblico piccolo e medio – borghese, mentre si evidenziò una
persistenza e ricollocazione del teatro popolare dialettale, anche in nuove forme
(come il passaggio del varietà all’avanspettacolo e l’affermazione della rivista).
Alcuni ricercatori di un teatro d’arte, nel frattempo riflettevano sul senso
artistico originario del teatro (Pirandello, Eduardo De Filippo).
Fu chiaro allora che il modello ottocentesco era tramontato. Bisognava ricercare
diversi equilibri organizzativi e nuovi statuti estetici. In assenza di esperienze
artistiche prepotenti, ci si concentrò sull’attesa del nuovo poeta italiana, sulla
definizione teorica e pratica della regia, sulla formazione degli attori e
sull’incontro/scontro con il cinema. Le sperimentazioni degli anni Venti
avevano portato in tutta Europa ad innovazioni sul piano dell’illuminotecnica e
della scenotecnica. Il teatro doveva usare le nuove invenzioni tecnologiche per
elaborare un nuovo linguaggio di scena, capace di rendere i tratti innovativi di
quell’epoca e di operare all’interno delle tensioni politiche che la caratterizzano.
Tra gli uomini di teatro si diffuse il bisogno di modernizzare le forme sceniche.
Nel 1933, in occasione del cinquantenario della SIAE, celebratosi al Teatro
Argentina di Roma, Mussolini affrontò il tema della crisi teatrale negando il
fatto che essa fosse dovuta all’affermazione del cinematografo; lui invitò a
considerare il carattere spirituale della questione che chiamava in causa il lavoro
degli attori e quello materiale relativo al numero dei posti in sala. I pochi posti a
disposizione portano ad aumentare i prezzi e quindi le persone si allontanano. La
scena teatrale, che secondo il duce educava di più del cinematografo, doveva
essere destinata al popolo, portare in scena ciò che davvero conta nella vita e
nello spirito dell’uomo. L’intervento del duce lanciò la nuova parola d’ordine di
un moderno teatro di massa, cioè rinnovato nei contenuti, nelle forme e nel suo
rapporto con il pubblico.
Il progetto di un teatro di massa fu posto al centro del Convegno Volta, curato
dall’Accademia d’Italia nel 1934 a Roma, dedicato alle questioni più pressanti
del teatro drammatico europeo. Il presidente della manifestazione fu Pirandello e
il segretario Marinetti, mentre erano presenti anche importanti protagonisti del
teatro europeo: Craig, Romains. Importante fu anche la partecipazione indiretta
di Jacques Copeau che inviò il testo scritto per l’occasione su Lo spettacolo
nella vita morale dei popoli. Il convegno rappresentò un’importante iniziativa
pubblica di carattere internazionale collocata nello sforzo di modernizzazione
del teatro nazionale.
Questa iniziativa suscitò una serie di ripercussioni propagandistiche fuori e
dentro la nazione. I temi affrontati (rapporto tra teatro drammatico e le altre
forme di spettacolo, architettura dei teatri in epoca contemporanea) resero
esplicito il senso dell’incontro, caratterizzato da una forte apertura
internazionale fondata su un accordo preventivo che escludeva dalla discussione
ogni riferimento politico e ideologico. Su tutte le questioni emerse il tema del
teatro di massa, il quale fu introdotto da una relazione di Massimo Bontempelli
che polemizzò con l’atteggiamento elitario del teatro d’avanguardia del primo
900 a favore di un teatro di vastità, un teatro per le masse che avrebbe dovuto
sborghesizzare la borghesia.
Nel Convegno Volta fu proposto un progetto architettonico di una sala teatrale
per oltre ventimila spettatori ideato dall’architetto Gaetano Ciocca sulla base di
studi su rapporti spaziali tra l’azione scenica e il pubblico. Esso fu influenzato
dal teatro totale di Walter Gropius e del teatro greco, il quale già all’epoca
assunse funzioni collettive. All’interno del Convegno i progetti di teatro di
massa furono criticati dagli italiani proprio perché era difficile realizzarli: quale
repertorio sarebbe stato rappresentato e quali città avrebbero potuto riempiere
edifici così grandi? D’Amico lo criticava, sostenendo il procedimento inverso:
prima il repertorio e poi il suo teatro. D’Amico durante il convegno fu quello
che si batté con maggiore forza per le proprie idee di riforma e indirizzo del
teatro italiano: contestate le ideologie sfavorevoli all’intervento statale nel
teatro, nella sua relazione su Il teatro e lo Stato, sollecitò il governo fascista a
conferire alla corporazione dello spettacolo il mandato di non limitarsi a regolare
le questioni economiche e professionali della vita teatrale, ma di realizzare un
grande istituto per la gestione di uno o più teatri drammatici.
D’Amico disse che lo stato avrebbe dovuto sovvenzionare solo i teatri e le
compagnie che decidevano di attenersi a criteri d’arte. A partire da questa
indicazione il fascismo inaugurò la nuova fase d’iniziativa pubblica verso il
teatro.
Il convegno Volta fu il preludio di questa strategia, sia per l’avviamento di una
riflessione teorica e politica sui rapporti tra lo stato ed il teatro che per l’insieme
dei contatti internazionali che aveva favorito. Molti intellettuali ed artisti
presenti all’incontro si erano mostrati entusiasti dell’iniziativa e del nuovo clima
che aveva instaurato il regime.
Perplesso apparì Gordon Craig che dopo i ringraziamenti, aveva scritto che
l’unico servizio che può rendere uno straniero al teatro italiano è quello di dargli
uno specchio dove possa vedere il suo volto. Durante la discussione a seguito
della sua relazione su Il teatro e lo Stato, Craig voleva sapere perché i teatri
dialettali italiani, romani nelle ipotesi di D’Amico non avevano ricevuto il
sostegno economico dallo Stato. D’Amico rispose riconoscendo la bravura e
l’esperienza scenica dei grandi attori dialettali italiani, ma dicendo che lo Stato
pensò prima al teatro nazionale. Nel 1934 per D’Amico la nazionalizzazione del
teatro italiano comportava un sostegno pubblico indirizzato verso un modello
italiano di artisticità selezionato. I migliori attori erano quelli dialettali: i siciliani
(la famiglia Grasso, Musco), i napoletani (la famiglia Scarpetta, i De Filippo), i
genovesi (Govi), i bolognesi (Gandolfi), i veneziani (Zago) e i milanesi
(Ferravilla). Mussolini però non li valorizzava.
In quell’occasione era emerso un attrito fra le posizioni ufficiali del convegno e
la rivalutazione del teatro minore dove Craig individuava le forme più vive della
scena contemporanea. Tra il 1934 e il 1937 Craig aveva espresso i suoi dubbi sui
nuovi indirizzi del teatro italiano, del quale aveva sempre apprezzato gli attori, il
pubblico e la ricca tradizione. L’assenza degli attori al convegno lo avevano
convinto del fatto che il governo di Mussolini stava collocando degli
organizzatori al posto degli attori.
D’Amico criticò anche la propensione del Convegno verso la creazione di nuovi
edifici teatrali.
4. IL TEATRO D’ARTE
Con il trascorrere degli anni il sovvenzionamento pubblico al teatro privato
mostrò di non essere in grado di perseguire una linea di rinnovamento e di
riqualificazione artistica della scena. Questa restò nelle idee e nelle speranze di
un ristretto numero di intellettuali accumunati da un atteggiamento indifferente
alle scelte e alle imposizioni politiche del regime. Non meraviglia che il teatro
dell’epoca fascista sia caratterizzato da un forte attivismo organizzativo al quale
corrisposero molte manifestazioni di propaganda, dal teatro di massa alla
drammaturgia popolare fascista, e nuove forme di commedia italiana, che
raccolse l’eredità della pochade e del vaudeville francese del secolo precedente.
La scena degli anni Trenta mancò sul versante della scena e del teatro
drammatico d’arte per i quali D’Amico si era battuto. La cultura teatrale fu
espressa da un intellettuale come D’Amico e non da una personalità artistica e
ciò ridusse la possibilità di percorsi autonomi, dotati anche di maggiore
originalità rispetto ai modelli europei. Gli anni tempi furono un’epoca di
normalizzazione durante il quale nacquero poche opere di elevata sintesi
artistica.
Nel clima provinciale e nazionalista dell’Italia del regime fascista di distinsero
tuttavia alcune esperienze capaci di esprimere varie forme di teatro d’arte. Una
forte tensione verso progetti ed ipotesi di alto livello artistico fu sempre
sostenuta da D’Amico. Fin dal Convegno Volta lui ricordò che il teatro per le
masse è un fatto spirituale. Tornare alle masse significa tornare all’anima delle
folle. Per fare, come invitava Mussolini, il teatro per ventimila non era
necessario radunare ventimila persone, ma era più semplice invitare mille
persone alla volta e arrivare a ventimila persone in venti repliche. Anche in
quell’occasione egli aveva ribadito la sua concezione scenica concentrata sul
dramma e contraria al teatro come propaganda o come arte pura. Il teatro che a
lui interessava era quello che proponeva al consenso del popolo la parola del
poeta, tragico o comico, servita dalle altre arti.
Tali posizioni erano apparsi dominanti rispetto a chi, come Salvini e
Bontempelli, nel convegno si era dichiarato a favore di un teatro di propaganda
sociale, un teatro che sapesse rappresentare l’epoca fascista. Infatti il Convegno
Volta, inauguratosi con le parole di Pirandello che auspicava l’avvento di un
teatro di massa, si era concluso senza un ordine, rivelando una debolezza
operativa e svelando il carattere demagogico di quella formula.
Nel momento in cui Mussolini invitava gli autori a parlare alle masse, D’Amico,
guidato dalla sua visione etico – religiosa del teatro, si fece promotore della
ripresa del dramma sacro. Nel 1933 D’Amico, volendo ricostruire il dramma
sacro, fu l’ispiratore dell’allestimento de La rappresentazione di Santa Uliva
per la regia di Jacques Copeau, nel chiostro di S. Croce nella prima edizione del
Maggio musicale fiorentino.
In molte occasioni D’Amico si interessò a Copeau, il suo principale riferimento
europeo. In lui si ricomponevano un teatro disciplinato, essenziale, di alto livello
artistico ed una fede religiosa asceticamente vissuta. D’Amico sottolineò spesso
questi aspetti dell’esperienza del regista francese, tralasciandone però altri
fondamentali. Per esempio, nella poetica di Copeau, fu data grande attenzione
all’architettura scenica, alla quale subordinava il rinnovamento dei generi
drammatici e assegnava grande valore all’attore popolare di rivista e del music –
hall e alle sue capacità di improvvisazione. Sulla stessa questione del poeta
drammatico la posizione di Copeau era molto avanzata nel ricordare l’esperienza
di Eschilo, Shakespeare, Molière per sottolineare come ogni volta che qualcosa
di nuovo appare sul teatro, il poeta è sulla scena.
In un’altra edizione del Maggio musicale fiorentino venne ospitata una seconda
regia di Copeau, la cui presenza sulla scena italiana funzionò, in un momento di
frattura politica con la Francia, da ponte di scambio culturale tra i 2 paesi. Nel
1935 diresse un allestimento del Savonarola in Piazza della Signoria. In quel
momento la ricerca di un nuovo rapporto con il pubblico favorì l’organizzazione
anche nel campo della prosa all’aperto di esperienze teatrali che videro la
presenza di Max Reinhardt. Nel 1933 fu apprezzata la sua regia del Sogno di
una notte di mezza estate al Giardino Boboli. Nel 1938 ritornò sulla scena
Copeau con Come vi garba di Shakespeare.
Sul fronte delle prime regie d’arte realizzate da italiani, abbiamo gli allestimenti
di Renato Simoni per il maggio (I giganti della montagna nel 1937, L’Aminta
di Tasso nel 1939 e L’Adelchi di Manzoni nel 1940) o per le manifestazioni
veneziane dove realizzò un ciclo goldoniano. Sempre a Venezia si rappresentò
nel 1938 per 3 serate La Nave di D’Annunzio su un canale della laguna. L’opera
di D’Annunzio che voleva celebrare la nascita di Venezia e il desiderio dei
Veneti di dominare sul mare, fu allestita da Guido Salvini.
A Venezia e a Firenze, in assenza di opere contemporanee adattabili ai giardini e
alle piazze, il repertorio delle stagioni estive vide il predominio dei classici, in
particolare Goldoni e Shakespeare.
A Padova, nel 1937, la compagnia dell’accademia, creata e diretta da D’Amico,
ricostruì il Mistero nella natività per la regia di Tatiana Pavlova coadiuvata da
Costa. Fu un evento importante perché segnò la prima uscita pubblica
dell’Accademia e favorì l’avvio dell’attività di tournée, iniziata nel 1940 con un
nuovo allestimento del Mistero per i teatri al chiuso sotto la direzione di Costa.
L’accademia rilanciava l’idea di un dramma sacro riadattato alla nuova epoca.
D’Amico più volte aveva espresso la sua concezione religiosa del teatro,
distinguendola da quella confessionale. Parlare ad un pubblico di teatro, per lui,
significava fare appello ai sentimenti che lo radunano. La sua nozione di crisi
religiosa della produzione teatrale non era intesa in senso moralistico. D’Amico
sognava un teatro in grado di riportare il pubblico ad una fede comune e lo
riadunasse religiosamente in una certezza. L’esperienza spirituale cattolica era
centrale nella sua cultura.
Il percorso intellettuale e il travaglio religioso di D’Amico si collegavano
all’osservazione del teatro italiano, ormai caratterizzato da un pubblico ridotto,
formato perlopiù da studenti, impiegati, artisti e raramente professionisti
modesti. Per lui il teatro doveva superare l’orizzonte piccolo – borghese e
doveva tornare a parlare al popolo. Già nel 1935 D’Amico aveva parlato dello
sviluppo in vari paesi europei di teatri popolari di fondo cristiano, indice di un
nuovo interesse per il teatro religioso. Una ripresa del teatro d’ispirazione
cattolica cominciò a muovere i suoi passi anche in Italia dove si ebbero
esperienze come quelle di Diego Fabbri e di Turi Vasile. Entrambi nel
dopoguerra dispiegarono questa tendenza sul piano drammaturgico e
organizzativo; eppure un forte senso di militanza fu presente in Fabbri già prima
della guerra, quando tentò di riformare il teatrino promuovendo un teatro di
anime, inteso come veicolo di una proposta religiosa, di valori spirituali che
esprimessero il dubbio, la ricerca della fede cristiana. D’Amico osservò questi
nuovi fermenti di teatro cattolico, li sostenne e li guidò. Tutta la sua attività era
indirizzata alla ricerca e all’affermazione di un teatro d’arte che avesse al centro
un dramma d’ispirazione cristiana.
Su un piano diverse si pose la nuova esperienza artistica creata da Bragaglia al
Teatro delle arti nel 1937 all’interno del palazzo della Confederazione fascista
professionisti e artisti. Egli affidò molte messe in scena a molti registi noti come
Corrado Pavolini e ai giovani come Turri Vasile, Nino Meloni. In un repertorio
caratterizzato da autori italiani e stranieri contemporanei, si segnalarono i
successi, per esempio, di una Piccola città di Wilder del 1939.
Su un piano artistico va interpretata l’esperienza dei gruppi universitari fascisti
che fondarono a Roma nel 1934 un progetto teatrale di riferimento nazionale. Il
Teatro sperimentale dei GUF ebbe sede nel teatrino di Via Laura, dove ci svolse
la sua attività la scuola di recitazione di Luigi Rasi. Quell’esperienza, che vide in
un ruolo di primo piano il regista Giorgio Venturini, si caratterizzò fino alla
guerra come una palestra dove si apriva ai giovani la strada verso il teatro.
Quindi un luogo dove fu possibile sperimentare nuovi testi di giovani autori,
discutere di questioni teatrali, elaborare progetti produttivi. Il teatro sperimentale
di Firenze, non privo di contraddizioni a causa dello stretto rapporto con il
fascismo, si caratterizzò per lo slancio di un’organizzazione intesa come una
palestra di ricerche intesa ad assicurare un nuovo repertorio e nuove forme
sceniche per il teatro italiano dell’era nuova.
Accanto all’esperienza fiorentina, si distinsero per qualità e intensità delle
iniziative il Teatro universitario di Roma dove operò Giulio Pacuvio e quello di
Messina, diretto da Enrico Fulchignoni. Il significato di questi esperimenti fu
quello di creare dei progetti all’interno dei quali presero avvio le esperienze di
giovani registi italiani che sarebbero diventati i protagonisti del dopoguerra.
Nasceva piano la regia in Italia, ma rimaneva aperta la questione che aveva dato
vita a molti dibattiti sulla mancanza di una drammaturgia nazionale. Una volta
imboccata la strada della valorizzazione del repertorio italiano, quali erano le
soluzioni della lingua da adottare sulla scena? I problemi posti dalla scelta del
linguaggio in un paese solo parzialmente urbanizzato, dove l’italiano medio
parlato era diffuso solo tra minoritari gruppi sociali, non poteva essere risolto
con le prescrizioni dell’EIAR sulla pronuncia esatta dell’italiano. Sulla
diffusione della lingua italiana attraverso il teatro, svolsero una funzione
importante i Carri di Tespi che percorrevano la Penisola; i dirigenti fascisti
avevano sottolineato spesso come quel teatro ambulante, rivolto al pubblico
popolare, funzionasse da scuola di pronuncia. Nel 1934 Gramsci era tornato su
questi temi valutando lo sforzo di Pirandello di sprovincializzarsi ed
europeizzarsi in un momento in cui la lingua italiana non era ancora diventata un
fatto nazionale. In fondo il grado di unità linguistica nazionale è dato dal grado
di nazionalizzazione del patrimonio linguistico. Nel dialogo teatrale è evidente
l’importanza di questo elemento.
Per gli autori degli anni Trenta il problema linguistico s’intrecciava alla
questione della scelta dei temi e delle metafore da privilegiare alla ricerca di un
teatro contemporaneo. In questa direzione fu esemplare l’esperienza di Eduardo
De Filippo, che si propose come attore/autore e poi regista, spingendo la sua
tensione artistica all’interno della tradizione attorale e della lingua napoletana,
senza rifiutare stretti contatti con il cinema o con le forme teatrali più avanzate,
in primo luogo il suo incontro con Pirandello. Il teatro di De Filippo avviò negli
anni Trenta quell’operazione di unire le sue radici dialettali ad un’ipotesi di
drammaturgia nazionale. De Filippo voleva sbloccare il teatro dialettale
portandolo verso il teatro nazionale italiano. Il caso di Eduardo mostra come la
creazione di opere di riconosciuto valore etico ed estetico, vennero prodotte da
istanze eccentriche rispetto agli atteggiamenti dominanti: I giganti della
montagna di Pirandello oppure la drammaturgia di Eduardo De Filippo
nacquero e si affermarono con dei tratti di resistenza alle tendenze maggioritarie
della scena dell’epoca.
La vicenda del teatro italiano degli anni Trenta conferma che l’arte teatrale
nasce in un rapporto contraddittorio e drammatico verso la propria epoca.
I giganti della montagna rappresentato dopo la morte del poeta nel 1937 al
Giardino di Boboli per la regia di Renato Simoni, esprimeva un implicito
dissenso sullo stato delle cose. L’ultima opera di Pirandello riproponeva il
problema dell’autonomia dell’arte per la quale si era battuto Pirandello al di là
della sua adesione al fascismo. In quel testo si può leggere una presa di
posizione a favore dell’autonomia dell’arte dai vincoli creati dai giganti. Non si
trattava di una presa di posizione antifascista, ma indicava il disagio e le
peregrinazioni di una compagnia di comici rispetto a un tempo dominato da
forza sovrastanti il potere umano. I Giganti della montagna è un’opera
apocalittica: Pirandello ha trattato poeticamente alcuni dati fondamentali della
società del tempo caratterizzata dall’avvento di un nuovo ceto medio; ne ha
espresso la desolazione, ma ne fu anche succube, partecipò inconsciamente alle
sue vergogne. Quello di Pirandello non è un intervento attivo, ma una passiva
esposizione.
Nei Giganti il tema dominante il primo atto, cioè la denuncia del materialismo
del pubblico massificato, aveva lasciato il posto allo sforzo ridefinire gli ambiti
poetici del teatro nella nuova società. La questione centrale attorno cui ruota il
testo non è più la perdita di ogni rapporto tra il teatro e le masse della società
industriale che trovano altrove i loro divertimenti, ma la difficoltà e la resistenza
del teatro a rinunciare alla folla di spettatori a cui era abituato e ad accettare il
suo ristretto pubblico ideale capace di cogliere l’arte della scena.
La scomparsa di Pirandello interruppe quel percorso nei confronti del fascismo e
del suo tempo, assumendo da un punto di vista drammaturgico un significato di
cesura generale. Pirandello non lasciò eredi in grado di continuare la sua opera.
La sua vicenda dimostra che un repertorio si crea in modo vario, frammentario,
con ampi margini di sconnessione rispetto all’organizzazione e al mercato.
Ne I giganti della montagna la riflessione di Pirandello sugli statuti fondanti
dell’arte teatrale appare come il principale sforzo di ricerca attutato in Italia
negli anni Trenta. I Giganti propongono l’idea di un teatro come arte non
impossibile, ma fragile e precaria, sempre in bilico tra gli impulsi
dell’invenzione fantastica e le risorse dell’abilità pratica: un’arte che abita
alcune epoche e rischia di soccombere in altre, priva di garanzie e di sicurezze
che ne possano rendere certa la sopravvivenza.
CAPITOLO QUINTO
IL TEATRO ITALIANO FUORI D’ITALIA
3. LE TOURNÉES DI PETROLINI
Il debutto di Petrolini a Parigi a giugno e luglio al Théâtre de la Potinière fu
trionfale, il successo enorme. Petrolini arrivò a Parigi preceduto da una fama di
attore eclettico. Lui, che guidava una compagnia diretta da Mario Regoli e
composta da 31 membri fra attori e tecnici, arrivò a Parigi nel momento di
massima maturità di artista e capocomico. Era riuscito ad inserire nel repertorio,
accanto alle sue commedie e composizioni d’arte varia, degli autori
contemporanei come Fraccaroli, Novelli, D’Ambra, Pirandello. Il suo percorso
artistico aveva rivelato ulteriori cambiamenti. Petrolini nacque dal teatro di
varietà e di questo ne fu il dominatore, ma la sua arte fu molto più in alto. Lui fu
il più grande artista italiano contemporaneo.
In Francia Petrolini portò un repertorio emblematico del suo percorso artistico:
Il cortile di Martini, Agro di limone di Pirandello, Coraggio di Novelli, etc…. .
Fra i suoi testi presentò Nerone, Amori di notte, Chicchignola, Benedetto fra
le donne e Pulcinella. Concludeva il repertorio in omaggio alla Francia il
riadattamento di Le médecin malgré lui, farsa musicale ispirata all’opera di
Molière. Il trionfo a Parigi, dove gli fu conferita la Legione d’onore, fu enorme a
tal punto da coinvolgere positivamente le relazioni franco – italiane. La stampa
cittadina fece a gara nel tentare improbabili comparazione con Leopoldo Fregoli
o con vari attori francesi. Emerse il confronto con la commedia dell’arte. Questi
richiami erano dovuti anche alla rinnovata attenzione in Europa verso il teatro di
Goldoni, una ripresa d’interesse favorita dalle varie esperienze teoriche e
pratiche dei grandi rinnovatori della scena europea e in Francia da Copeau. Da
parte italiana non erano mancate molte letture in chiave nazionalista di quella
esperienza artistica, da molti reinterpretata come la principale fonte
d’apprendimento per poeti della scena come Shakespeare, Molière.
Ettore Petrolini offriva a Parigi la pratica delle tecniche d’improvvisazione che
avevano reso famosi gli attori italiani in tutto il mondo.
La stampa parigina lo definì spesso il più grande attore italiano, quasi un
fenomeno che avrebbe presto conquistato Parigi. Lui era andato a Parigi per
qualche replica, ma a grande richiesta del pubblico, vi restò per oltre un mese.
Tutte le personalità del mondo politico e culturale francese si mobilitarono per
assistere al suo debutto e lui riuscì a coinvolgere un pubblico vasto e
socialmente eterogeneo: mobilitò il pubblico popolare francese e italiano di
Parigi, accanto all’élite intellettuale europea.
L’unica perplessità era stata suscitata dalla reinterpretazione della farsa
molièrana da Petrolini condotta su registri espressivi pieni di doppi sensi e di
trovate comiche.
La tournée petroliniana segnò un episodio importante di quella stagione del
teatro parigino: un momento importante anche per la comunità italiana, allora
divisa tra fascisti e antifascisti. L’evento fu coronato da una serata straordinaria
alla Comédie Française, dove la compagnia italiana effettuò la sua ultima
rappresentazione. Il successo sembrò a molti il segnale per la ripresa delle
relazioni teatrali tra Francia e Italia. Le regie di Jacques Copeau alle prime
edizioni del maggio fiorentino del 1933 e del 1935 offrivano una conferma di
questa tendenza. Molti giornali notarono come la venuta a Parigi di Petrolini
avesse coinciso con la sigla del patto a 4 e che perciò lui fu il primo a
beneficiare delle buone relazioni franco – italiane ristabilite di colpo. Ciò aveva
creato una maggiore disponibilità da parte del pubblico parigino e aveva affidato
a Petrolini la responsabilità di iniziare nel teatro questa nuova vita franco –
italiana.
Il successo parigino permise alla compagnia italiana di moltiplicare i propri
contatti con molti impresari europei che da Londra, Bruxelles, Barcellona
offrirono varie proposte di tournées nei propri paesi. La trasferta parigina aveva
consentito a Petrolini di incontrare Ciano presso l’ambasciata italiana ricevendo
promesse di sostegno per il futuro. Da allora Petrolini cominciò ad intrecciare
stretti contatti con le autorità ministeriali che sostennero le sue trasferte a
Londra, Vienna, Berlino, Nord Africa. Galeazzo Ciano in quegli anni fu il
promotore di questo nuovo sistema di relazioni che accompagnò gli ultimi anni
di vita di Petrolini quando ancora il fascismo non aveva iniziato a contrastare il
teatro dialettale. Petrolini poteva contare sul sostegno del duce e ciò indicò una
nuova attenzione delle autorità governative italiane nei confronti del teatro.
Cambiò l’atteggiamento del fascismo nei confronti del teatro italiano all’estero.
Sulla scena europea le tournées di Petrolini ebbero una funzione sperimentale
per le future soluzioni di sostegno pubblico alle compagnie di viaggio. La
trasferta a Parigi era sempre stata organizzata in modo autonomo e privato, ma
da allora le autorità fasciste cominciarono a porsi il problema di un ruolo diverso
dello Stato anche in questo settore. Nel 1934 Petrolini scrisse a Ciano a
proposito di una tournée a New York, dove avrebbe pagato tutto lui, ma aveva
bisogno dell’Ambasciata, del Consolato per farsi indicare da loro quale fosse il
teatro più adatto al suo spettacolo.
Tra Petrolini e Ciano nacque un intenso legame di lavoro e amicizia. Ciano inviò
una circolare dove chiedeva a molte ambasciate italiane il quadro della
situazione teatrale italiana nelle varie capitali. Richiese accertamenti su quali
probabilità di successo artistico e finanziario avrebbero potuto avere delle
rappresentazioni nella capitale e nei centri più grandi italiani della compagnia di
Ettore Petrolini. Inoltre chiedeva anche se nei vari paesi fossero già state
realizzate esperienze simili, su quanto pubblico si potesse contare e quale fosse
la situazione dei teatri e degli impresari locali.
Tutte le tournées di Petrolini di quegli anni utilizzarono questi canali
organizzativi istituzionali avviati dal 1932. A Vienna si rese conto del degrado
della vita teatrale, incapace di reagire alla crisi: l’unica cosa che lo soddisfò fu
vedere che anche lì vi era una forte ammirazione per il fascismo e per il duce.
Dopo i successi ottenuti in Francia, Inghilterra, Germania e Svizzera, nel 1935
riuscì a concludere un contratto nella capitale austriaca con l’impresario Rolf
Jahn per l’affitto del Die Komödie Theater. Petrolini comunicava al
Sottosegretariato per la stampa e la propaganda che la previsione di un incasso
medio serale di 4500 scellini rendeva tranquilla la sua trasferta, ma di certo una
sua parola alla Legazione Italiana, al Consolato e al Fascio, gli avrebbe fatto
comodo.
Al Little Theatre di Londra, la presenza dell’ambasciatore Dino Grandi alla
prima rappresentazione aveva reso ufficiale la tournée che secondo molti
osservatori dell’epoca, consentiva agli italiani d’Inghilterra una sorta di ritorno
spirituale al proprio paese attraverso le creazioni dell’attore italiano. Anche a
Londra il giudizio della stampa fu entusiasta. Anche qui fu consacrato “attore
italiano grande maestro del teatro europeo”. Al termine delle serate Petrolini e
sua compagnia venivano chiamati più volte alla ribalta e alla fine, se Petrolini
non avesse dato l’ordine all’orchestra di suonare God save The king, il
pubblico avrebbe continuato ad applaudire e a chiedere il bis. Gli stessi esiti
ebbe nel 1933 la tournée in Africa del Nord, Egitto, Tunisia, Libia dove Petrolini
scelse un repertorio più leggero. Le serate si concludevano con i monologhi e le
macchiette del primo attore. In ogni città si ripetevano manifestazioni di stima e
apprezzamento per l’arte di Petrolini, le autorità locali organizzavano
ricevimenti d’onore, e venne consacrato ambasciatore del teatro italiano.
Visitava i luoghi e le attività associative delle comunità italiane, in diretto
contatto con Mussolini e i più potenti gerarchi fascisti.
I primi riconoscimenti importanti li ebbe all’inizio del secolo nelle piazze
dell’America Latina. Il fascismo contribuì al suo successo, ma in cambio lui si
fece portavoce di italianità all’estero. Il regime non intervenne mai sulle scelte
del repertorio e infatti lui rappresentò senza alcuna forzatura il programma
previsto. Questo perché l’oggetto del suo successo non erano i testi, ma la sua
arte di attore.
Prima di morire scrisse Roma, una canzone per Mussolini cantata il 28 ottobre
del 1935 al Teatro Valle e gliela mandò in omaggio nel 1936. Petrolini morì
dopo pochi mesi e nelle sue ultime volontà raccolte dal figlio Oreste, ancora una
volta il suo pensiero era andato al Duce al quale fece recapitare 5 medaglie
d’oro, simbolo della riconoscenza per ciò che aveva fatto per lui durante la sua
carriera. Durante la sua malattia, le nuove politiche teatrali del fascismo stavano
iniziando a negare dignità artistica al teatro dialettale. Dopo la morte di
Petrolini, il figlio voleva collocare la raccolta teatrale del padre presso qualche
ente pubblico che avrebbe potuto acquistarla e custodirla, ma in quell’occasione
Mussolini non intervenne.
CAPITOLO SESTO
TRA GUERRA E DOPOGUERRA.
UN’ESTETICA MEDIA PER LA NAZIONE