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Conservatorio di musica “Stanislao Giacomantonio” di Cosenza

Triennio di Pianoforte

a.a. 2020-2021

tesina di
Storia e storiografia della musica II

IL BARBIERE DI SIVIGLIA DI GIOACCHINO ROSSINI

Ossia un vulcano è la mia mente

Docente Allievo
Mara Lacchè Silvia Taverna
1. Introduzione
«Io confesso che non posso a meno di credere che il Barbiere di Siviglia, per
abbondanza di vere idee musicali, per verve comica a per verità di declamazione, sia la più
bella opera buffa che esista». Così scriveva Giuseppe Verdi, che solo alla fine della sua
carriera osò cimentarsi nel genere comico con Falstaff. Il giudizio era già stato espresso da
personalità diverse come Beethoven e Stendhal. I musicisti del secolo scorso non potranno
non essere conquistati dalla magia di quest’opera.
L'opera buffa rappresenta l'elemento di rottura con l'età barocca: i protagonisti di
quest'opera non devono essere abili nell'esecuzione, i loro mezzi vocali possono essere
modesti, molto più importante è la recitazione. Anche il contenuto teatrale dell'opera buffa è
un modo per riflettere sulle novità culturali e sociali che già da fine settecento stanno
trasformando la società. I suoi personaggi appartengono alla borghesia, al popolo, svolgono
vari mestieri, parlano lingue diverse, vivono vicende della quotidianità per lo più in ambiti
familiari. L'opera buffa ha il lieto fine, non copiato dal deus ex machina della tragedie
lyrique, ma nato dall'azione combinata di ragione e natura. I personaggi buffi pensano poco
e agiscono molto nella loro vita quotidiana e nei finali d'atto spesso si ritrovano insieme nei
concertati, che sono ben equilibrati dalla presenza del timbro del basso, personaggio
importante nell'opera buffa, mentre l'opera seria preferisce i timbri acuti.

2. La situazione dell’opera in Italia


Intorno al 1800 l'Italia rischia di ridursi, nell'ambito operistico, a poco più di una
provincia: i grandi rappresentanti della tradizione napoletana, Paisiello, Cimarosa, Piccinni,
hanno dato ai teatri le loro ultime rappresentazioni. Gli italiani più giovani e più bravi,
Cherubini, Spuntini, Paer si trovano all'estero e i teatri italiani cominciano a vivere di
importazione. In questa situazione, intorno al 1810, Rossini comincia a vivere i suoi primi
successi come operista: dopo tutti gli epigoni e l'eclettismo degli anni precedenti, ora l'Italia
possiede di nuovo un linguaggio suo proprio, individuale, con un musicista di primo piano.
Rossini assimilò molto e seppe amalgamare molto bene le caratteristiche dei “napoletani”,
di Mozart, di Mayr, dell'opera francese, di Spuntini.
L'opera di questo secolo è principalmente un lavoro di intrattenimento, preparato per quel
teatro, per quella stagione musicale e per quei determinati cantanti; solo raramente è
considerata un'opera d'arte completa. Continuamente revisionata dal compositore stesso se
non addirittura dagli stessi cantanti, dal direttore d'orchestra, dall'impresario, l'opera è in
genere rimaneggiata da chiunque ne viene a contatto per una qualsiasi esecuzione. Gli
autografi e i libretti a stampa sono le principali fonti di studio delle opere di Rossini, ma
spesso ci si può rifare anche alle copie manoscritte dell'epoca o alle edizioni a stampa che
danno ulteriori notizie che non si trovano negli autografi.
Del Barbiere di Siviglia, eseguito al Teatro Argentina a Roma il 20 febbraio 1816, si
conservano al Civico Museo bibliografico – musicale di Bologna un manoscritto, in due
volumi, che contiene l'opera al completo ed è quasi tutto scritto da Rossini.

3. La fonte letteraria e il confronto con Paisiello


La vicenda riprende quella scritta per il teatro di prosa da Pierre-Augustin de
Beaumarchais, rappresentata a Parigi nel 1775. Ebbe un successo tale da spingere numerosi
musicisti a farne un melodramma, il tedesco Ludwig Benda, il franco-maltese Nicolò
Isouard, l’italiano Giovanni Paisiello, e altri ancora. L’opera più famosa, tra queste, è quella
di Paisiello. Benché fosse stata composta nel 1782, era al tempo di Rossini ancora  molto
celebre e considerata un modello, un punto d’arrivo insuperabile. Se non ci fosse stata
l’opera di Rossini, non solo il Barbiere di Paisiello ma gran parte del suo traboccante
repertorio operistico sarebbe ben più presente oggi sulle nostre scene: proprio come lo era
prima che apparisse l’astro rossiniano.
Il Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, su libretto di Cesare Sterbini, va in scena la
prima volta a Roma, il 20 febbraio 1816. È sempre in quel 1816 che Paisiello muore, dopo
aver assistito al trionfo dell’opera di Rossini, e al fatale immeritato declino della propria.
Per evitare di offendere il maestro Paisiello, Rossini, prima di accingersi a comporre
un remake della sua opera chiese il suo permesso, e l’ottenne. Inoltre, per evitare di dare
l’impressione di voler rivaleggiare con lui, decise di mettere un titolo diverso all’opera; non
la chiamò quindi Il Barbiere di Siviglia, ma Almaviva , o sia l’inutile precauzione, proprio
per differenziarla dall’illustre predecessore. Poi raccomandò a Cesare Sterbini, il librettista,
di riversificarla completamente e di aggiungervi delle situazioni nuove. Quando fu pronto il
libretto, Sterbini ebbe cura di inserirvi una specie di avvertimento o captatio
benevolontiae iniziale, sempre per evitare polemiche e confronti pericolosi col Paisiello:
“La Commedia del Signor Beaumarchais intitolata, Il Barbiere di Siviglia, o sia l’inutile precauzione si presenta in
Roma ridotta a dramma Comico col titolo di  Almaviva, o sia l’inutile precauzione all’ oggetto di pienamente
convincere il pubblico del sentimenti di rispetto e venerazione che animano l’Autore della Musica del presente
Dramma verso il tanto celebre Paisiello che ha già trattato questo soggetto sotto il primitivo suo titolo.
Chiamato ad assumere il medesimo difficile incarico il Signor Maestro Gioacchino Rossini, onde non incorrere
nella taccia d’ una temeraria rivalità coll’immortale autore che lo ha preceduto, ha espressamente richiesto che
il Barbiere di Siviglia fosse di nuovo interamente versificato, e che vi fossero aggiunte parecchie nuove situazioni
di pezzi musicali, che eran d’altronde reclamate dal moderno gusto teatrale cotanto cangiato dall’epoca in cui
scrisse la sua musica il rinomato Paisiello.
Qualche altra differenza fra la tessitura del presente Dramma , e quella della Commedia Francese sopraccitata fu
prodotta dalla necessità d’introdurre nel soggetto medesimo i Cori, sia perché voluti dal moderno uso , sia perché
indispensabili all’effetto musicale in un Teatro di una ragguardevole ampiezza. Di ciò si fa inteso il cortese
pubblico anche a discarico dell’Autore del nuovo Dramma, il quale senza il concorso di sì imponenti circostanze
non avrebbe osato introdurre il più piccolo cangiamento nella produzione Francese già consagrata dagli applausi
teatrali di tutta l’Europa”.

Ciò si rivelò però un’inutile precauzione, perché la prima rappresentazione fu un fiasco


clamoroso. Ma il trionfo arrivò presto, e da allora non è mai venuto meno, in tutto il mondo.
Diversamente da Paisiello, scrive Mariangela Donà, Rossini ebbe la fortuna di poter contare
su un libretto che della commedia francese conserva tutta la vivacità, la briosa comicità
delle situazioni e la vivezza dei caratteri. Il centro e lo spirito delle due opere erano diversi:
mentre l’opera di Paisiello aveva piuttosto lo scopo di mostrare un vecchio tutore e la sua
inutile precauzione, in Rossini, come in Beaumarchais, l’interesse si accentrava soprattutto
nella figura di Figaro. Il Barbiere rossiniano nasce dalla tradizione italiana dell’opera buffa
settecentesca della quale conserva alcune apparenze: non però lo spirito: l’opera
settecentesca era lieve e ingenua, più che un riso era un sorriso, candido e sempre
aggraziato; in Rossini il comico è allegria, buon umore, in un senso più umano, è un riso più
aperto e giocondo, più chiassoso e scanzonato.

4. Dalla commissione alla prima rappresentazione


Siamo nell’autunno del 1815 e Rossini viene ingaggiato dall’impresario del Teatro
Argentina, il duca Francesco Sforza Cesarini, per la composizione di un’opera da
rappresentare durante la stagione romana del carnevale 1816. Il giovane pesarese ha solo 23
anni ma sta cominciando a farsi strada nell’agone operistico con grande abilità grazie a
opere come Tancredi, L’italiana in Algeri o il Turco in Italia. Il suo crescente prestigio è
testimoniato dall’incarico di direttore dei Teatri Reali di Napoli che l’impresario Domenico
Barbaja gli affida nel 1815; nonostante il legame con i teatri di Napoli, Rossini ha la
possibilità, grazie a una clausola contenuta nel contratto stipulato con Barbaja, di poter
allestire opere nei teatri di altre città.  La licenza con la quale può permettersi di accettare
l’invito del duca Sforza Cesarini è la prima di quelle concesse dal contratto. La stagione di
carnevale comportava la presentazione al pubblico di novità assolute e riprese di opere già
allestite adattate in base alla compagnia scritturata in quell’anno. Gli accordi con Sforza-
Cesarini prevedevano la ripresa de L’Italiana in Algeri e la stesura di un’opera nuova tratta
dalla commedia Il Barbiere di Siviglia di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais. Gli
accordi tra il duca Sforza-Cesarini e Rossini vennero presi all’ultimo momento: il contratto
venne siglato il 15 dicembre 1815 per un’opera da mettere in scena entro la fine di febbraio
dell’anno successivo, data di conclusione della stagione del carnevale.
Il poeta designato alla versificazione del libretto fu Jacopo Ferretti che era tenuto in grande
considerazione nell’ambiente teatrale del tempo ma, in questo caso, la sua versione del
Barbiere non convinse forse l’impresario, forse lo stesso Rossini. Si decise allora di
contattare un altro librettista, Cesare Sterbini, ingegno fresco, giovane con cui il musicista
aveva già collaborato per l’opera Torvaldo e Dorliska. Sterbini fu obbligato a firmare un
contratto che prevedeva uno schema già concordato, ossia, il canovaccio con la scaletta dei
pezzi sulla quale avrebbe costruito il libretto era già stato stilato. Dunque Rossini, partecipa
attivamente alla scelta di un nuovo soggetto da mettere in musica concordando con il
librettista il “programma” cioè la  trasformazione dell’azione narrata in momenti drammatici
da cui trarre i numeri chiusi, i pezzi musicali. Nel caso del Barbiere lo schema iniziale
corrisponde quasi perfettamente alla successione dei numeri musicali, con l’eccezione di
alcune inversioni nell’ordine dei brani. Sterbini non ha dunque la possibilità di cambiare
questo schema che gli viene presentato già bello e fatto ed è costretto a versificarlo, così
com’è, in un tempo brevissimo: dall’ingaggio alla consegna del libretto completo passano
appena venti giorni. Rossini, dunque, aveva chiaro in testa quel che voleva, era determinato
a scrivere di quel soggetto, di quelle situazioni e in una maniera ben precisa: non ha
accettato qualcosa di preconfezionato sulla quale poggiare la sua musica con leggerezza e
superficialità. Il fatto che finì di orchestrare le circa seicento pagine di partitura del Barbiere
in quindici giorni non vuol dire che scrivesse in maniera sconsiderata, era semplicemente
una prassi tipica dell’epoca. L’opera italiana agli inizi dell’Ottocento filava a gran velocità:
era una continua corsa per rispettare scadenze strettissime, quasi opprimenti: librettisti,
compositori, cantanti e musicisti, tutti erano abituati a lavorare in tempi brevissimi per
cercare di fare presto e bene ma non sempre si raggiungevano risultati eccellenti, come è
facile intendere. Nel caso di Rossini, lui è uno di quelli il cui talento gli permetteva di fare
ottima musica in quindici giorni. E riusciva a farlo grazie a degli escamotage che a noi
moderni, abituati all’idea del musicista intellettuale, del genio che crea dal nulla qualcosa di
unico e irripetibile, sembrano trucchetti da impostore. Innanzi tutto il pesarese fa largo uso
di auto imprestiti, ossia riprende materiale musicale già utilizzato in altre sue opere. Per
quanto riguarda il Barbiere, Rossini innesta con disinvoltura idee musicali prese da lavori
precedenti: prima fra tutte la Sinfonia iniziale che era stata già la Sinfonia di Aureliano in
Palmira e di Elisabetta regina d’Inghilterra, la Cavatina di Rosina Una voce poco fa ripresa
sempre dall’Elisabetta o il coro iniziale Piano, pianissimo senza parlar ricavato dal
Sigismondo, per citarne alcuni. Altro procedimento utilizzato per economizzare il processo
creativo è quello della reiterazione di frammenti musicali, procedimento che il musicista
riesce a rendere veicolo di significati come ironia, frenesia, aspettazione: è il famoso
“crescendo” che trascina e coinvolge l’ascoltatore fino al parossismo. Tutti questi elementi
non guastano la struttura del Barbiere che, anzi, risulta un’opera musicalmente di
grandissimo valore, strutturalmente omogenea e percorsa da una frenesia inarrestabile che
lascia l’ascoltatore rapito dalla prima all’ultima nota.

La sera del 20 febbraio 1816 il pubblico di Roma assiste alla prima rappresentazione del
Barbiere di Siviglia; gli interpreti sono tra i più rinomati: nel ruolo del Conte d’Almaviva
figura lo spagnolo Manuel García, uno dei maggiori tenori dell’epoca, nonché capostipite di
una prestigiosa dinastia canora (padre di Maria Malibran, Pauline Viardot e Manuel García
figlio); Rosina è il contralto bolognese Geltrude Righetti-Giorgi, coetanea e amica di
Rossini, che l’anno dopo sarà la prima protagonista di Cenerentola. Nei panni di Figaro
canta invece uno fra i più quotati buffi cantanti in circolazione: Luigi Zamboni. Per Don
Bartolo c’era il bravissimo basso buffo Bartolomeo Botticelli; poi c’erano Zenobio
Vitarelli (Basilio), Elisabetta Loyselet (Berta) e Paolo Bigelli (Fiorello).
Nonostante gli ottimi interpreti e le migliori premesse, fin dalle prime scene scoppia una
vera e propria rissa con «risate, urla e fischi penetrantissimi», come riferisce la prima donna
Geltrude Righetti-Giorgi, molti quella sera erano contrariati fino ad affermare «ecco dove
arriva l’orgoglio di un giovane senza consiglio! Ei volge in mente di annientare il nome
immortale di Paisiello». Molto probabilmente, però, il fiasco del Barbiere non fu dovuto a
Paisiello ma alla modernità di quest’opera che spiazzò le orecchie di un pubblico non troppo
avvezzo a certe arditezze. Lo stesso Rossini non si agitò troppo per il fiasco: «Ieri andò in
scena la mia opera, e fu solennemente fischiata o che pazzie di cose straordinarie si vedono
in questo paese…Vi dirò che in mezzo a questo la musica è bella assai e nascono di già
sfide per questa sarà seconda recita dove si sentirà la musica cosa che non accadde ieri».
Aveva ragione, perché il pubblico tornò, ascoltò e questa volta applaudì: già dalla seconda
recita è grande successo, tanto da diventare l'unico lavoro di Rossini a rimanere sempre in
repertorio, in ogni tempo e in ogni luogo, anche quando, nel periodo del verismo, perfino
l'Italiana in Algeri e Cenerentola hanno lunghi periodi di silenzio.

5. L’ouverture
L’ouverture è un brano orchestrale che si esegue a sipario chiuso prima dell'inizio di
un'opera lirica. Può avere tre funzioni: a)funzione-segnale: annuncia semplicemente l’inizio
dello spettacolo. È la funzione dell’ouverture barocca, a partire dall’Orfeo di Monteverdi;
b)introduzione diretta della prima scena. È la funzione prediletta da Puccini. Per esempio
nel Gianni Schicchi il motivo affidato all’orchestra a sipario chiuso è lo stesso che
accompagna i finti lamenti dei personaggi che si affacciano sulla scena; c)riassumere il
senso profondo della vicenda. Emblematiche in questo senso le sinfonie verdiane del
Nabucco, della Forza del destino, dei Vespri siciliani. Una funzione analoga, ma in modo
succinto, è riconoscibile nel preludio di Traviata o in quello di Carmen.
E nel Barbiere? A dire il vero la sinfonia che lo introduce non risponde ad alcuna delle tre
funzioni elencate. Per una semplice ragione: il fatto che Rossini non la compose apposta per
quest’opera, ma la prese di sana pianta dal dramma Aureliano in Palmira composto tre anni
prima, che racconta le imprese dell’imperatore romano in Persia: un dramma serio dunque!
E la sfruttò di nuovo nel 1815 per un altro dramma serio: Elisabetta regina d’Inghilterra:
lavori, come si può intuire dai titoli, abissalmente lontani dal mondo del nostro Figaro.
Pensando al melodramma buffo che tra poco dovrà svolgersi sulla scena, scrive un influente
musicologo, «l’ascoltatore è portato a sentire [nella sinfonia] il sorriso rossiniano che
preannuncia la prossima risata». Ma Rossini non aveva scritto questa ouverture per un’opera
seria? «Questo importa tanto poco che anche la famosa melodia che vien fuori dall’Allegro
vivace nonostante la lamentosa intonazione in minore, acquista ora [per quello stesso
spettatore] un sapore ironico. Il discorso ritmo-melodico si sviluppa giocando a rimpiattino
sino a sbottare nell’allegria, per poi placarsi e sparire nei frammenti della solita
‘sospensione’». Interpretazione gratuita, campata in aria? Non si può sinceramente
escludere che lo stesso Rossini ci abbia pensato: al momento di attaccare allo spartito le
pagine preesistenti, o anche dopo, a giochi conclusi. Per esempio può ben aver trovato nel
tema cantabile della sinfonia qualcosa che lo imparenta a un tranquillo dialogo tra Figaro e
Almaviva; o nel crescendo conclusivo un’eco delle parole con cui don Basilio suggella
l’intesa con don Bartolo. In altre parole, può ben essere il compositore stesso a investire di
un nuovo significato complessivo e profondo la sua sinfonia, ricontestualizzandola.
Possiamo andare più a fondo, in qualcosa di connaturato alle idee e alla personalità di
Rossini. Qualcosa che Rossini sentiva intimamente. Non l’evocazione di situazioni concrete,
come potrebbero essere le sinfonie verdiane; ma situazioni più astratte; che vanno proprio al
cuore dell’ispirazione rossiniana, al suo nucleo centrale: il dinamismo irrefrenabile, la vita
come nonsense, su cui si prova a ridere, ma da cui si può anche prendere le distanze… Il
significato che potremmo allora attribuire alla sinfonia del Barbiere non è direttamente
contestuale alla vicenda. Lo diventa indirettamente. La sinfonia appare come un occhiale
colorato che, pur estraneo alla realtà a cui si applica, arriva a mostrarcela sotto una luce
nuova, impensata. Lo stesso vale per quasi ogni altra sinfonia di Rossini (non per quella del
Guglielmo Tell, che ha stretto riferimento all’azione del dramma), che indifferentemente
potrebbe preludere alla tragedia come alla farsa: perché in realtà prelude a quello che appare
a Rossini lo spettacolo della vita.
Il brano inizia con un'introduzione lenta e solenne, basata sul continuo alternarsi tra accordi
molto sonori, eseguiti dall'intera orchestra, e parti quasi sussurrate. All'introduzione segue il
primo tema, in modo minore, allegro e facilmente orecchiabile, mentre la melodia inizia
pianissimo e ben presto sfocia in un episodio temporalesco dal carattere deciso e irruente.
Queste scene tempestose sono frequenti nelle composizioni di Rossini, come pure il
successivo ritorno ad un'atmosfera più tranquilla che preannuncia la comparsa del secondo
tema: una bella melodia in modo maggiore affidata ai legni. È un tema che si evolve in un
crescendo, un altro degli effetti musicali caratteristici delle ouverture rossiniane.
Poi l'ouverture prosegue con la ripresa del primo e poi del secondo tema, questa volta
affidato a due strumenti solisti, il clarinetto e il fagotto; per poi ascoltare un nuovo
crescendo e l'accelerazione improvvisa del tempo che conducono verso il grandioso finale.
È necessario notare come, nonostante la provenienza eterogenea di tante idee musicali,
l'opera mantiene una grande unitarietà organica che ne ha fatto il titolo più celebre del
compositore.
Scrive Rossini stesso ad un giovane compositore che gli chiedeva lumi sul miglior metodo
per comporre questo importante momento di un'opera come quello dell'ouverture:

Aspettate fino alla sera prima del giorno fissato per la rappresentazione. Nessuna cosa eccita più l'estro come la
necessità, la presenza d'un copista, che aspetta il vostro lavoro e la ressa d'un impresario in angustie, che si
strappa a ciocche i capelli. A tempo mio in Italia tutti gli impresari erano calvi a trent'anni. Ho composto
l'ouverture dell'Otello in una cameretta del palazzo Barbaja, ove il più calvo e il più feroce dei direttori
mi aveva rinchiuso per forza, senz'altra cosa che un piatto di maccheroni e con la minaccia di non poter
lasciare la camera, vita durante, finché non avessi scritto l'ultima nota. Ho scritto l'ouverture della Gazza ladra
il giorno della prima rappresentazione sotto il tetto della Scala, dove fui messo in prigione dal direttore,
sorvegliato da quattro macchinisti, che avevano l'ordine di gettare il mio testo originale dalla finestra, foglio a
foglio, ai copisti, i quali l'aspettavano abbasso per trascriverlo. In difetto di carta da musica, avevano ordine di
gettare me stesso dalla finestra. Pel Barbiere feci meglio: non composi ouverture, ma ne presi una che destinata
ad un'opera semiseria chiamata Elisabetta.

6. Analisi della trama


Il sipario si apre su una piazza di Siviglia avvolta nell’aria calma e frizzante che precede
l’alba; la silenziosa tranquillità viene subito turbata dal giovane Conte d’Almaviva che
vuole conquistare, con una serenata, il cuore di una fanciulla conosciuta a Madrid. Ad
aspettarlo sotto le finestre della bella c’è Fiorello, suo servitore, che con frammenti
sussurrati in pianissimo ha radunato uno stuolo di musici per accompagnare il canto del
Conte; ma le eleganti parole e la melodia preziosa di Ecco ridente in cielo non sortiscono
l’effetto sperato: la fanciulla non si mostra alla finestra. La Cavatina del Conte, ossia l’aria
con cui il personaggio si presenta al pubblico, è la parte centrale di una struttura più ampia e
omogenea che va dall’inizio dell’opera fino all’entrata di Figaro. Il canto del conte e
l’accompagnamento dell’orchestra, arricchito dalle chitarre, sono estremamente raffinati e
rivelatori della posizione socialmente elevata di Almaviva che è appunto un conte.
Almaviva sta per demordere, paga i musici che, compiaciuti dell’eccessiva generosità, lo
ringraziano con un baccano molesto (Mille grazie mio signore) e pensa di andare via, ma
arriva canticchiando il barbiere Figaro, suo amico di lunga data. La Cavatina del giovane
barbiere Largo al Factotum! esprime perfettamente il suo carattere spavaldo, da spaccone
che canta a squarciagola in piena via alle prime luci dell’alba. L’esordio in scena di questo
personaggio è spettacolare, il brano con cui si presenta ha un ritmo strepitoso, esprime la sua
grande vitalità sottolineata anche dal canto a perdifiato spinto fino al limite verso l’acuto.
Messo al corrente delle intenzioni del Conte, Figaro si dichiara pronto ad aiutarlo tanto più
che conosce bene la casa in cui la fanciulla è tenuta segregata dal suo borioso tutore, il
dottor Bartolo: egli là dentro è “barbiere, parrucchier, chirurgo, botanico, spezial,
veterinario, il faccendier di casa”. Mentre discorrono, Rosina si affaccia alla finestra e getta
un biglietto al Conte in cui scrive di voler sapere il suo nome. A questo punto Rossini,
seguendo le convenzioni, avrebbe dovuto presentare la protagonista femminile affidandole
una Cavatina ma Rosina fa solo una breve apparizione e si ritira: musicista e librettista
aumentano l’aura di mistero rendendo il pubblico partecipe della stessa ansiosa curiosità che
ha Almaviva di conoscere la giovane.
Incoraggiato da Figaro, Almaviva si finge un povero giovine, Lindoro, e intona “una
canzonetta, così, alla buona” accompagnandosi con semplici arpeggi della chitarra: un’altra
aria, dunque, per il protagonista maschile; Se il mio nome saper voi bramate risulta
spontanea, sembra quasi musica estemporanea e sortisce ben altro effetto rispetto alla prima
fredda e costruita serenata. Nel duetto che segue, All’idea di quel metallo , Figaro e il Conte
si accordano ognuno secondo il proprio interesse: Almaviva, nobile tenore innamorato che
canta su linee melodiche eleganti e preziose, vuole penetrare nella casa di Rosina; Figaro,
barbiere indaffarato che si esprime con frasi più secche e sbrigative, diciamo pure rozze,
vuole invece il “metallo portentoso” della borsa di Almaviva. Eccitato al pensiero del
denaro, la mente del barbiere diviene un vulcano che erutta idee senza fine: nel pomeriggio
sarebbe arrivato un reggimento con ordine di alloggio e Almaviva avrebbe colto l’occasione
per travestirsi da soldato e albergare nella casa di Bartolo fingendosi ubriaco per destare
meno sospetto.
A questo punto è finalmente arrivato il momento di conoscere la bella Rosina, la curiosità è
ormai giunta al culmine. Nella prima parte della sua Cavatina Una voce poco fa il pesarese
sembra presentarci una fanciulla dolce e mite il cui cuore è stato ferito dallo strale lanciatole
da Lindoro: la melodia su cui canta è piena di tenerezza; l’impressione dura poco perché la
fanciulla si mostra subito determinata a ottenere ciò che vuole: “Lindoro mio sarà, lo giurai
la vincerò!” La sua voce s’impenna in forti sbalzi verso l’acuto che indicano la sua
caparbietà. Con la seconda parte della Cavatina, chiamata Cabaletta, il ritratto della fanciulla
è completo: ella è docile e obbediente ma se la fanno indispettire diventerà una vipera.
Rosina ribadisce la sua personalità sostenuta dall’orchestra che reitera porzioni di materiale
sonoro in un crescendo forsennato sottolineando e amplificando il significato delle parole
della giovane. La fanciulla si prepara per prendere contatto con lo sconosciuto ammiratore,
ha già scritto un biglietto per lui ma deve trovare il modo per farglielo avere: è a questo
punto che entra Figaro e le parla del giovane Lindoro fingendo sia suo cugino ma, subito,
viene interrotto da don Bartolo sospettoso sempre di tutto e tutti. A eccitare ancor di più la
sua gelosia è don Basilio, maestro di musica della ragazza, che lo avvisa dell’arrivo in città
del Conte d’Almaviva, ammiratore della sua pupilla; Bartolo vuole liberarsene a tutti i costi
e Basilio consiglia di servirsi della calunnia “auretta assai gentile” che si insinua nella
mente, cresce sempre più fino a scoppiare “come un colpo di cannone, un tremuoto, un
temporale”. Subito dopo, un violento bussare alla porta annuncia Almaviva nei panni da
soldato ubriaco, suo secondo travestimento: egli pretende di essere alloggiato da don
Bartolo che si rifiuta con scuse ridicole: inizia qui il Finale Primo, la parte
drammaturgicamente e formalmente più complessa dell’opera; Rossini riesce a tendere un
lungo arco con momenti di tensione e distensione senza però creare nessuna rottura nel
fluire frenetico del racconto. La prima sezione si apre con un tempo Marziale che sottolinea
il camuffamento da soldato del Conte il quale declama a gran voce frasi spezzate, sintomo
della sua (falsa) ubriachezza. Il dialogo che apre con don Bartolo ha una forte carica
umoristica e genera vari livelli scenico-musicali: il primo riguarda il loro battibecco, il
secondo gli “a parte” in cui troviamo il vero significato della situazione.
A interrompere l’alterco arriva Rosina, il “caro oggetto” della felicità di Almaviva:
approfittando della confusione che si è venuta a creare, egli porge a Rosina un biglietto ma
il tutore se ne accorge e comincia ad agitarsi e a protestare. Nasce una gran confusione che
travolge tutta la scena finché arriva Figaro per cercare di chetarli; il barbiere è l’unico che si
esprime in maniera indipendente, non condividendo elementi musicali con gli altri
personaggi in scena: egli è al corrente di tutto e si giostra con grande maestria tra il dialogo
e gli “a parte”, la finzione e la realtà. A fermare il caos assordante è l’arrivo della polizia
che lascia tutti impietriti: nello stupore generale il soldato non solo non viene arrestato, ma
esce riverito dall’ufficiale della guardia. È il Largo di Stupore Fredda ed immobile che
genera una sospensione temporale in cui i personaggi esprimono la propria confusione
cantando la stessa melodia, tutti tranne Figaro che se la ride di gusto guardando la faccia
impietrita di don Bartolo: la sua linea melodica è differente da quella degli altri, sembra
come se il tempo teatrale si sia fermato per tutti ma non per lui. A risvegliare i personaggi
arriva l’ultima parte del Finale chiamata Stretta che conclude in frenetico fortissimo quel
gran parapiglia che è l’atto primo.
All’apertura del secondo atto ritroviamo il sospettoso don Bartolo che indaga sull’identità
del soldato, credendolo un aiutante del Conte d’Almaviva. Si presenta in quel momento alla
sua porta il Conte stesso nel suo terzo travestimento da maestro di musica, don Alonso.
Rossini e Sterbini approntano in maniera magistrale l’ultimo travestimento del conte: sia il
libretto che la musica ci presentano questo untuoso personaggio che ripete in maniera
pedante in suo saluto Pace e gioia facendo indispettire don Bartolo che, per costume, è
costretto a trattarlo in maniera garbata; la scena è simile a quella del Finale Primo poiché,
anche in questo caso, si dipanano vari livelli musicali e teatrali: da un lato i rispettosi saluti
che sembrano non aver mai fine, dall’altro gli “a parte” che a velocità stratosferica aprono
uno spiraglio sulla vera azione e sulle vere intenzioni di entrambi i personaggi. Per
convincere il tutore, Almaviva fa credere che don Basilio sia malato, in più, gli mostra un
biglietto scritto da Rosina per il Conte, come se lui l’avesse intercettato per caso: grazie a
questo escamotage egli guadagna la fiducia del tutore.
La lezione ha inizio, Rosina canta il Rondò dell’”Inutil precauzione” intervallato da frasi
fugaci che scambia con don Alonso-Lindoro-Almaviva. Arriva anche Figaro che cerca di
distrarre il tutore e prendere la chiave della stanza di Rosina: tutto sembra andare per il
meglio ma è a questo punto che piomba don Basilio. Il conte riesce a convincerlo con una
borsa d’oro ad andare via e la scena riprende tranquillamente finché, Bartolo riconosce in
don Alonso il soldato della mattina e, irato, lo mette in fuga.
È notte, un violento temporale scuote Siviglia ma non preoccupa Figaro e il Conte che
giungono puntuali all’appuntamento con Rosina per portarla via. La fanciulla è indispettita
perché don Bartolo le ha fatto credere che il suo Lindoro, in realtà, vuole rapirla per
consegnarla al Conte Almaviva: è a questo punto che avviene la “sbottonatura” del conte,
ossia la rivelazione della sua identità. Chiarito l’equivoco i tre devono affrettarsi a fuggire
ma vengono sorpresi da don Basilio e dal notaio che il tutore aveva fatto chiamare per
affrettare le sue nozze con la pupilla: tanto peggio per lui, i due innamorati non hanno più
ostacoli e siglano finalmente il contratto nuziale. Al tutore, rientrato in quel momento con la
polizia, non resta altro che prendere atto dei fatti accaduti e riconoscere nell’importuno il
Conte d’Almaviva in persona.
7. Recitativo e canto
La diversità fra prosa e lirica sul fronte della ‘naturalezza’ lascia intuire che per
apprezzare la seconda sia necessario capire le sue ‘regole di funzionamento’; regole sue
proprie e particolari, che non sono quelle della prosa. Cominciando da quella che è la più
immediata, il loro terreno di contatto: fino a che punto, e come, la melodia del canto nel
Barbiere si rifà alla corrispondenza tra prosodia e la melodia? Il caso più elementare è
quello del recitativo secco. Perché non lo si ama? Perché qui il canto non fa che ripetersi su
cliché obbligati, privi di qualsiasi carica espressiva. Le battute potrebbero anche essere
parlate invece che cantate; se si cantano è solo per non uscire pericolosamente dal registro
espressivo della lirica e dalla specificità del suo linguaggio (in tradizioni diverse come
quella del germanico Singspiel, come nelle operette – per non dire del musical – non si ha
questa preoccupazione, e si usa il parlato invece del recitativo). Ascoltando uno qualunque
dei dialoghi recitati del Barbiere c’è ben poco Rossini: nel senso che il compositore non fa
che impiegare formulette convenzionali e preesistenti. È quando il personaggio canta, canta
davvero, che si spalanca davanti a noi lo spirito di Rossini, il suo mondo, l’anima dei suoi
personaggi. I personaggi rossiniani, quelli che risultano dallo spartito, dal canto e
dall’integrazione con l’orchestra, sono un capolavoro di naturalezza e di realismo.
Consideriamo la scena iniziale dell’atto secondo: Pace e gioia sia con voi. Ci si accorge
subito che il finto Alonso (Almaviva) si presenta a don Bartolo nei modi di un untuoso
ipocrita: fosse solo per via di quelle acciaccature di fine frase, prima doppie poi fin triple.
Le repliche di don Bartolo sono “sullo stesso tono”, come si usa dire anche quando si parla:
il tutore esprime cortesia. È poi Alonso a ripetere lo stesso tono di don Bartolo, quando il
tutore passa dai modi pazienti di prima all’improvviso precipitare: “Questo volto non m’è
ignoto”; che Alonso ripete su “Ah se un colpo è andato a vuoto”. Le parole ora non sono
pronunciate per essere ascoltate dall’altro; Rossini ricorre al tradizionale espediente teatrale
dell’‘a parte’: i personaggi fanno conoscere al pubblico quello che hanno in mente: don
Bartolo si fa sospettoso, Almaviva esultante. In un breve frammento Rossini crea
un’opposizione tra dialogo esplicito e pensieri nascosti: la replica inizialmente educata di
Bartolo alle smancerie di Alonso si trasforma a poco a poco in irritazione, poi in
esasperazione. E a questo punto, ecco un altro espediente tipico del melodramma: ancora in
un ‘a parte’, i due cantano perfettamente insieme (per terze parallele), sullo stesso ritmo
fattosi indiavolato, ma: Almaviva per esprimere esultanza («Ah mio ben fra pochi istanti»),
don Bartolo all’opposto il risentimento per il «perfido destino» che gli ha portato in casa
questo seccatore.

8. Individui e tipi
Nelle opere scritte in epoche successive a quella di Rossini, i compositori si curano di
presentarci personaggi i cui stati d’animo, le emozioni, la personalità stessa, cambiano lungo
il corso dell’opera. Nel far parlare, nel nostro caso cantare, un personaggio, un compositore
può muoversi entro un arco che va dalla caratterizzazione fissa, rigida, all’emozione più
imprevedibile e mutevole. Vicino al secondo polo potremmo mettere i personaggi
pucciniani. Butterfly si presenta all’inizio come una ragazzina innamorata e risoluta; nel
secondo atto non nasconde il timore dell’abbandono quando reagisce incollerita alle
certezze della serva; alla fine la sentiamo raggelata in una cupa disperazione.
Rossini invece è più vicino al polo opposto. I suoi personaggi sono sempre
psicologicamente gli stessi, dall’inizio alla fine dell’opera. Il musicista non è interessato agli
svolgimenti psicologici dei personaggi, ai loro ‘moti d’animo’. I suoi sono – volutamente –
piuttosto dei tipi, delle figure plasticamente e stabilmente scolpite fin dal loro apparire, e
non saranno soggette a evoluzioni. Un po’ come lo sono le antiche maschere della
commedia comica, o i personaggi del teatro dei burattini. «Per Rossini dunque non contano
molto i processi psichici dei suoi personaggi. Essi non sono individui in senso stretto,
diventano piuttosto incarnazioni simboliche di alcune concezioni del mondo».13 Così
Rosina «ha costantemente un’impronta civettuola e birichina: basta il preludio alla cavatina
“Una voce poco fa” con quelle alternative di ritmi energici e flessuosi, con le fratture
ansiose della frase». «Ma se mi toccano…»: «anche i gorgheggi acquistano carattere
irruente e pericolosamente giocoliero». Almaviva «è nettamente caratterizzato come
l’eterno vagheggino; si mantiene da capo a fondo (salvo dove si finge soldato o gesuita)
sentimentale e spasimante, con motivi carichi di gorgheggi leziosi». Abbiamo già
considerato il carattere dei due bassi, don Bartolo e don Basilio: il primo, «vecchio
pretensioso, diffidente brontolone» nell’aria «A un dottor della mia sorte»; il secondo
sorgente dalla musica sull’‘aria della calunnia’ «con una tronfia reboanza falsamente
ieratica, accresciuta dal timbro cavernoso della voce».
La figura più fortemente scolpita, il deus ex machina dell’opera è Figaro: «Le poche battute
del preludio a piena orchestra che ne annunziano l’arrivo, gettano già una luce vivissima su
la sua braveria enfatica, sul suo fanfaronismo astuto, su questo faccendiere chiacchierone
millantatore, così indiavolatamente festoso». «Le scorribande dei violini ci dicono che il
cervello di Figaro è già in piena attività […]. Ma, si noti, per il momento l’orchestra suona
piano, salvo a crescere poi d’intensità: è un mondo che nasce ancora confuso, un mistero;
però annunzia qualcosa di grandioso, come indica l’aggettivo “maestoso” aggiunto alla
parola “Allegro”. Tutte le volte che Figaro medita qualche astuzia sopraffina, questo motivo
arguto, quando attacca “All’idea di quel metallo”, si ripete come un leitmotiv»14.
Con quest’opera, Figaro si presenta come «una delle massime figure della storia dell’opera;
e questo, in piena consonanza col personaggio che Beaumarchais aveva creato trasformando
l’antichissimo ruolo di servo in esponente di quello spirito d’intraprendenza, intrepido
attraverso qualsiasi rovescio della fortuna e nonostante l’inferiorità sociale, perciò in un
simbolo dello spirito borghese in lotta contro il privilegio della nascita. […] un personaggio
poliedrico, pronto a mutar direzione, e sempre sotto il segno d’una vitalità irrefrenabile». La
sua comparsa sulla scena è «ritardata da una suspense: per oltre quaranta battute l’orchestra
ci annuncia il suo arrivo, mentre della sua voce ci raggiunge ogni tanto qualche “la ran la
ran” fuori scena».15

9. Vocalizzi e ripetizioni
A contraddire nel canto il realismo prosodico sembrerebbe l’uso sistematico e continuo
che Rossini fa di due pratiche: una è il vocalizzo (coloratura, gorgheggio, melisma), ossia lo
svolgersi di un giro melodico sopra una stessa vocale; l’altro è la ripetizione continua di una
stessa parola, o di una frase. Sono pratiche occasionali quando si parla, normali nel canto, in
Rossini più che mai. Nel vocalizzo, la parola è solo il punto di partenza per un’esplorazione
puramente musicale dell’emozione. La parola finisce per dissolversi, la voce diventa puro
strumento musicale, traccia un lungo arabesco su questa o quella vocale del testo.
L’esempio più famoso: l’aria di Rosina Una voce poco fa. Era una pratica corrente che i
cantanti gareggiassero a chi sapesse offrire al pubblico i virtuosismi canori più spericolati.
Questo finiva ovviamente per compromettere l’unità o addirittura il significato espressivi
della pagina. Non è il caso di Rossini, che proprio per evitare questo malcostume, ma al
tempo stesso per ridare valore e smalto alla pratica della coloratura, scrisse di suo pugno i
vocalizzi: là dove servivano a esprimere con la loro esuberanza l’esuberante emotività del
personaggio. Quanto alla ripetizione di parole e frasi, questo è un altro espediente del codice
musicale che sembra entrare in conflitto con i principi della comunicazione linguistica. La
ripetizione di un testo ha in musica la funzione di permettere al compositore di dilatare la
sua melodia, di sviluppare l’architettura musicale della pagina.
Come esempio può servire la pagina di don Bartolo «A un dottor della mia sorte», con quel
che segue, fino a «meglio meglio meglio meglio». Il tono è perentorio, con quel ritmo di
semiminima con due punti, seguito dal fremito degli archi (esempio C). Non disturba certo
la ripetizione di quel «meglio»: anche a noi capita di ripetere un’esclamazione. Ci sta anche
che giunto alla fine ripeta «Vi consiglio mia carina un po’ meglio a imposturar»: meglio
insistere nel rimprovero, pensa il vecchio! Quando sentiamo ripetere «Vi consiglio mia
carina…» per la terza volta, scopriamo la ragione essenziale della ripetizione: proprio quella
che rende l’opera diversa dalla prosa: la terza esposizione serve a Rossini per sviluppare la
sua trama musicale. Mentre il discorso verbale si è concluso, quello musicale continua, e si
rinnova in modo sorprendente: è il motivo D: vero tema principale dell’aria, che fa apparire
C come un’introduzione (esempio D). La melodia che prorompeva impetuosa dalla fantasia
di Rossini non trovava nel libretto altre possibilità se non quella di librarsi in volo ripetendo
le stesse parole. Ed ecco ancora il don Bartolo del libretto ripartire daccapo con «A un
dottor della mia sorte», mentre il don Bartolo della musica fa letteralmente svolazzare i suoi
rimproveri su un terzo motivo ricco di vocalizzi (esempio E). Giunti a questo punto,
librettista e musicista ripartono entrambi con pensieri nuovi: il primo facendo rinfacciare a
don Bartolo i trucchetti di Rosina: «I confetti alla ragazza…» fino a «ferma là non mi
toccate»; il secondo con il gioco spiritoso dei violini, piano e staccato, sulla cellula ritmica
aa (esempio B). Qui le condotte dei due autori si scambiano i ruoli. Mentre il don Bartolo
del libretto protesta con parole nuove: «figlia mia non lo sperate», il don Bartolo musicale ci
ripropone su quelle parole qualcosa che aveva già cantato prima: il motivo D. Non è solo un
modo di stimolare la memoria dell’ascoltatore riportando in primo piano il motivo
principale. È anche un obbligo verso la logica musicale del tempo (il tempo di Haydn, di
Mozart, di Beethoven, ma anche degli operisti loro contemporanei). Senza la ripresa del
motivo principale un discorso musicale sarebbe risultato ‘sgrammaticato’. L’ascolto di
questa reprimenda di don Bartolo non finirà qui, naturalmente. Non si può lasciar sfuggire
quel cimento virtuosistico costituito dal velocissimo sillabare: «Signorina un’altra volta…»:
anche questo con le sue ripetizioni interne, di testo e di musica, per planare (e far respirare il
cantante!) sulla ripresa, a mo’ di coda, del motivo principale (D), cantato su «Un dottor
della mia sorte».
Un esempio diverso, offerto da un altro musicologo, ci aiuta ad approfondire l’ascolto dei
concertati di fine atto del Barbiere. Seguono uno schema tipico, che si ritrova quasi
regolarmente nelle altre opere di Rossini. Uno schema quadripartito, introdotto da una breve
preparazione, che serve a far convergere nello stesso luogo personaggi diversi.
Seguono le quattro situazioni del finale I:
1. incontrandosi, gli animi cominciano ad agitarsi; s’avvia lo scontro dialettico che porterà
allo scoppio della ‘bomba’ drammatico-musicale: «Che cosa accadde signori miei».
2. grande ‘concertato di stupore’ come reazione al colpo di scena inopinato: tutti rimangono
attoniti, il tempo psicologico s’arresta, ognuno esprime per proprio conto il suo sonoro
silenzio – un eloquentissimo sgomento fattosi magicamente canto con entrata a canone, un
personaggio dopo l’altro: «Fredda ed immobile come una statua».
3. ripresa di coscienza e rientro nella realtà: la scena torna dinamica, si riaccende il dialogo
interpersonale e la situazione degenera in una crisi rovinosa: «Ma signor… Zitto tu».
4. grande strepito inconcludente coi suoi ritmi irrefrenabili, coi suoi crescendo mozzafiato
fino alla liberazione conclusiva:16 «Mi par d’esser con la testa».

10. Gli strumenti


Rossini, secondo le usanze, introduce le scene principali con un breve episodio
strumentale, che serve a ‘dare il tono’ della scena cantata che seguirà. Quello che sentiamo
all’apertura del sipario è uno stacco netto rispetto al tono roboante che ci era rimasto nelle
orecchie con la sinfonia. Il clima è leggero e gentile. Leggero e gentile il passo con cui
entrano in scena Fiorello e i musicanti, reso dal pizzicato sottovoce degli archi. Serena la
melodia di violini, violoncelli e fagotto, col suo seguito che anticipa il motivo con cui
Fiorello invita i suoi. Preparare la pagina cantata con un’introduzione strumentale è la
norma nel melodramma del tempo. La ritroviamo in quasi tutte i brani del Barbiere, da Ecco
ridente in cielo del Conte a Di sì felice innesto, il pezzo con cui l’opera ha termine. Un
episodio strumentale autonomo si ha nell’ultimo atto. Rossini suggerisce nell’orchestra il
temporale notturno, che dopo l’aria di Berta prepara la scena culminante di tutta la
complicata vicenda. È un topos dell’opera lirica. Come lo è spesso nei film d’azione o nei
thriller, per creare tensione e timori. Rossini lo usa in diverse sue opere, dal Barbiere a
Cenerentola al Guglielmo Tell, con una precisa funzione drammaturgica: preparare la
‘catastrofe’, ossia l’acme drammatico nel quale si risolvono gli ‘imbrogli’ fin lì intrecciati.

Rossini non è certo il solo o il primo musicista che si cimenta con le inclemenze di madre
natura. Almeno da Vivaldi in poi il soggetto è sempre stato un’occasione solleticante per le
palette strumentali dei compositori. Da Vivaldi in poi si trovano una varietà di musiche
ispirate a temporali o tempeste. All’esempio rossiniano del Barbiere (raddoppiabile con
l’analogo caso dalla Cenerentola) si può affiancare quello dal Rigoletto di Verdi: anche lì
siamo al punto finale di svolta della vicenda; una vicenda tragica, che si chiude con
l’omicidio di Gilda. Verdi intensifica la drammaticità della pagina affidando l’evocazione
del vento burrascoso al coro a bocca chiusa di voci umane. Passiamo alle pagine orchestrali.
Nelle Quattro stagioni di Vivaldi, «van coprendo l’aere di nero ammanto e lampi e tuoni»
scrive lo stesso compositore in testa al primo movimento della Primavera. «Tuona e fulmina
il ciel» in quello dell’Estate. Ben lontano dal clima vivaldiano è il terzo movimento della
Sinfonia Pastorale di Beethoven, che ci fa seguire il decorso di un temporale, dalle prime
gocce affidate alle rapide note staccate dei violini allo scoppio improvviso dove tutta
l’orchestra partecipa allo scatenarsi degli elementi. Poi un colpo di timpani, guizzi in su dei
violini a suggerire il lampo. Il culmine è raggiunto quando Beethoven inserisce l’ottavino,
raramente usato nelle orchestre del tempo. Poco per volta il clima si rasserena, come
avviene spesso in estate. L’oboe ci fa sentire un placido motivo: lo stesso tema della
pioggia, molto rallentato: il simbolo sonoro dell’arcobaleno, che riporta la serenità nel cielo
e nei cuori. A proposito della Pastorale Beethoven scriveva che questa è più una pittura di
sentimenti che non di eventi naturali. Ma questo vale per tutti i compositori che
nell’Ottocento si sono cimentati con un evento naturale.

Tornando al Barbiere, siamo giunti a una situazione che potrebbe mandare in fumo il piano
architettato dai tre intriganti, Figaro, Almaviva, Rosina; e che invece porterà al classico
finale: matrimonio della coppia, gratificazione economica dei due testimoni di nozze e
scorno del vecchio pretenzioso tutore. La tensione creata dalla musica si scioglie, come
l’arcobaleno sopraggiunge dopo la tempesta. Nel Barbiere la voce e gli strumenti hanno
entrambi una funzione essenziale. Ma in due modi distinti, a seconda che l’interesse
principale del compositore vada a una o all’altra delle due componenti. Nel primo caso è
l’orchestra ad assumere il ruolo conduttore. Con le sue «ampie configurazioni tipicamente
strumentali e perfettamente formate che assorbono il massimo interesse dell’ascoltatore: su
di esse la voce si inserisce quasi come una proiezione timbrica che ne riproduce la linea
melodica oppure, del tutto svuotata di melodia, ne scandisce lo schema ritmico, interamente
o per formanti».17 La linea del canto si «allaccia strettamente alla linea musicale maestra
dipanata dagli strumenti: anzi, la cura principale della voce sembra proprio esser quella di
celarsi e di mimetizzare la propria presenza nei confronti dell’evento sinfonico». Nel
secondo caso la situazione è rovesciata. «Qui è la voce che assume un ruolo protagonistico
ed afferra la guida del discorso svolgendolo con abbondante e regolare profusione di
simmetrici melismi (oppure, nelle arie dei bassi, con una delirante scarica di fonemi ottenuta
attraverso la rapidissima sillabazione). Il trattamento vocalistico mantiene un carattere
strumentale». Se nel primo caso «era la scarnificazione del canto in semplici pulsazioni
ritmiche o in spigolosi disegni strumentali», qui «l’orchestra si limita a scandire un ritmo
regolare senza offrire alternative tematiche alla linea vocale». Ma c’è anche una situazione
ibrida, in cui le due componenti si equilibrano, verrebbe da dire collaborano. Il duetto tra
Figaro e il Conte nel primo atto: All’idea di quel metallo: qui l’irruzione precipitosa degli
archi non fa che dilatare e rinforzare la linea stessa del canto. Ma appena il Conte vuol
sapere cos’ha in testa Figaro, le frasi del canto intervengono solo a continuare il discorso
attaccato da flauto e violini: «Su vediamo, su vediam di quel metallo». Il motivo
strumentale diventa l’asse portante del resto del duetto (quasi-leitmotiv). In questo modo
continua il dialogo. Predominio della parola diventa il festante complimento che i due si
rivolgono: «Che invenzione, che invenzione…».
Il caso di predominio totale dell’orchestra si ha quando Figaro comunica al Conte il suo
indirizzo: «Numero quindici a mano manca». La voce rimane inchiodata per 28 battute su
una sola nota, il re, un canto monocorde, che funziona da semplice bordone, da pedale
ostinato, mentre l’orchestra anticipa integralmente la melodia su cui il Conte canterà di lì
a poco «Ah che d’amore la fiamma io sento».
11. Il tempo sospeso
I concertati (ossia i brani in cui le varie voci sovrappongono linee melodiche diverse, e
spesso anche parole diverse) sono la ‘risorsa in più’ del linguaggio musicale rispetto a
quello verbale. Nelle opere buffe Rossini li usa molto spesso proprio per accentuare la
comicità della situazione. Gli basta trovare nel libretto un personaggio che invita gli altri ad
agire «zitti, zitti, piano, piano; senza fare confusione» (una situazione che troviamo anche in
Cenerentola), perché la sua fantasia scateni un’orgia di sonorità: all’orchestra si aggiungono
le voci, che cantano tutte insieme, e ognuna per conto suo. Una specie di ‘sonorizzazione
del caos’. Anche un grande ammiratore di Rossini, Stendhal, scrive, a proposito del
concertato del finale I:
inverosimile è la immobilità in cui precipita il tutore, alla vista della giustizia del suo paese; forse ci era abituato, i
caratteri aridi e ingiusti quali don Bartolo approfittano della tirannia anziché temerla; è gente che emargina al bilancio.
Ho sempre visto che l’immobilità del tutore, mentre tutti cantano «Freddo e immobile come una statua», produce un
pessimo effetto. Non appena lo spettatore abbia l’agio di accorgersi che il ridicolo è troppo caricato, non ride più, e la
farsa è cattiva. Bisogna stordire lo spettatore come Molière o Cimarosa; ecco uno degli intralci della musica, essa non sa
andar presto, mentre le evoluzioni della farsa, per esser buone, devono essere, rapide come il baleno. La musica deve

darvi direttamente la risata che farebbe nascere una buona commedia, recitata con fuoco. 9

Una nostalgia di Paisiello o Cimarosa si direbbe, nelle parole di questo illustre ammiratore
di Rossini: che non s’accorge come qui la comicità sia proprio data dal paradossale
congelamento della situazione. La continua, esasperata ripetizione delle frasi, che disturbava
Stendhal come disturba oggi chi accosta per la prima volta il melodramma, è proprio uno
degli artifici essenziali del congelamento. Aumenta la comicità della scena, nel contrasto tra
il realismo di fondo e l’innaturalezza voluta ed esasperata della situazione. Scorriamo
rapidamente i casi più sorprendenti, o meno ‘realistici’, se si vuole, creati da simili
congelamenti. Fin dall’inizio. Il sipario si alza sull’entrata del servo del Conte d’Almaviva,
Fiorello, con il suo ensemble di musicisti. Si preparano ad accompagnare la serenata del
Conte sotto la finestra di Rosina. Fiorello li invita a non far chiasso. Suggerimento in fondo
superfluo, o al più liquidabile in due parole. Fiorello invece, e poi il Conte, vanno avanti per
ben 78 battute a ripetersi «Piano pianissimo…», col risultato di suscitare proprio il
deprecato rumore, se non proprio il chiasso. Situazione analoga, e altrettanto assurda, al
finale del primo atto. La baraonda creata dall’arrivo del Conte travestito da soldato ha
chiamato alla casa prima Figaro, poi i gendarmi. Stanno per arrestare i disturbatori della
quiete pubblica quando, preso atto di trovarsi in presenza del blasonato, autorevole Conte
d’Almaviva in abito militare, si ritirano lasciando di stucco la compagnia. Anche qui,
ripetizione a raffica di poche parole, dall’uno all’altro dei sei personaggi: «Fredda/o ed
immobile come una statua». Lo spettatore può capire che tutti si ritrovino «storditi e
sbalorditi», come leggiamo nel libretto; ma basterebbero poche interiezioni o anche solo
pochi gesti per esprimere lo stupore. Invece Rossini crea un gioco contrappuntistico a sei
voci, piano e lento; poi uno scatenato, vivace unisono: con tutti a raccontarsi di sentir la
testa trasformata «in un’orrida fucina».
Se volessimo far conoscere ancora più da vicino lo spirito di Rossini troveremmo in non
poche altre sue opere situazioni analoghe, quelle di una comicità fondata sullo
stravolgimento del parlare quotidiano. Basterebbero, dall’Italiana in Algeri (del 1813)
l’insieme «Nella testa ho un campanel», o dalla Cenerentola (scritta l’anno dopo il
Barbiere): «Questo è un nodo avviluppato». Oppure: «Zitto zitto, piano piano». Nel
Barbiere il caso più clamoroso (e dire ‘clamoroso’ è un ossimoro) si ha alla fine dell’opera.
Lindoro si è scoperto a Rosina per quello che è: il Conte d’Almaviva. Effusioni amorose tra
i due, con Figaro che li sollecita inutilmente a filarsela, scendendo dalla scala che ha
predisposto. In fretta, perché stanno per giungere Bartolo, Basilio e il notaio. Finalmente il
Conte si decide. Ancora una volta ci aspetteremmo un’azione fulminea. Invece Rossini ci
offre come all’inizio ben 93 battute di partitura, in cui i tre non fanno che sollecitarsi a
scendere dal balcone in silenzio: «Zitti zitti piano piano, senza fare confusione…». Nei
concertati i personaggi ripetono una quantità di volte le stesse parole. Anche questo
trattamento concorre a congelare le situazioni. Situazioni che nella realtà durerebbero pochi
attimi sono dilatate, esasperate. Il comico nasce dunque proprio dall’irrealtà temporale, dalla
sospensione del tempo; e dai repentini cambiamenti della scena (musicale).
Come qui: lo sbalordimento del «Freddo ed immobile» si chiude con una cadenza
squisitamente lirica degli archi, che spalanca il clima nel passaggio dal la bemolle maggiore
al do maggiore (la terza sopra)!

12. La carica ritmica


Andiamo più a fondo a cogliere l’essenza di quella condizione di tipi, o burattini, o anche
macchiette, se si vuole, meccanicamente fissi, che sono propri dell’opera buffa, e nel
Barbiere in modo superlativo. Rossini si prende gioco di un’umanità che agisce nella vita
come azionata da forze che mostrano di non controllare, e da cui mostrano di essere invece
dominati. Una versione in chiave comica della battuta che in forma tragica ascoltiamo dalla
bocca di Macbeth, nel dramma di Shakespeare: «la vita è una favola raccontata da un idiota,
piena di rumore e di furore, che non significa nulla». Rossini è abissalmente lontano da
Shakespeare. Ma qualcosa al fondo li affratella: il nostro mondo è come un gran manicomio,
dove gl’individui sono guidati da forze che li dominano, come la marionetta è mossa da fili
per lei misteriosi. Qui sta l’assurdità a cui da versanti opposti e così lontani sembra condurre
la messinscena della vita. Attraverso i loro paradossi, entrambi sembrano guardare il mondo,
e proporci di guardarlo, per così dire ‘da sotto in su’. Le situazioni che Rossini mette in
scena sono umili, quotidiane, ma forse proprio per questo raggiungono l’obiettivo etico. Che
è l’obiettivo di ogni opera d’arte: aprire i nostri occhi – come si usa dire, ma almeno nel
caso della musica diciamo aprire gli orecchi – sulle dinamiche della vita: quella privata e
quella sociale. Nel nostro mondo gli eventi si susseguono in un modo che siamo portati a
vedere/sentire come ordinato, consequenziale. L’orologio è il garante della razionalità del
nostro tempo. Rossini invece, sospende il tempo, offrendo situazioni che contraddicono la
logica ordinaria. Lo strumento del suo arsenale espressivo che sta alla base del suo
linguaggio è riconosciuto quasi all’unanimità dagli studiosi. Ed è il ritmo. Il ritmo è la forza
propulsiva delle azioni sceniche. La comicità musicale di rossini consiste quasi sempre nella
‘deformazione’ ritmico-melodica della parola, di certe parole caratterizzanti un’azione
scenico-musicale. il ritmo «ha quasi sempre in rossini il carattere dell’ostinato; ed è proprio
dalla ripetizione meccanica e costante di microstrutture ritmiche che il discorso acquista
senso e incidenza psicologica sull’ascoltatore». Questo ritmo da orologio è il modo scoperto
per presentarci un’umanità meccanizzata. e ancora: «Rossini non adatta mai il ritmo
musicale alla scansione della parola, bensì riduce l’articolazione sillabica della parola alla
logica del ritmo musicale. La parola viene come interrotta, automatizzata, ridotta spesso alla
scansione di quelle note ribattute che costituisce una delle formule più frequenti e
caratteristiche del burlesco rossiniano».
Rossini mette in moto e sorregge gran parte delle sue scene con raffiche martellanti di
pulsazioni di crome in gruppi binari, ternari, quaternari, a tempo semplice o composto, a
velocità diverse.
13. Perché si ride
Il capolavoro di Rossini si presta per sviluppare una riflessione intorno al concetto e alle
proprietà del comico. Un tema trattato in modo esauriente e approfondito dal filosofo Henri
Bergson in un testo diventato classico: Le rire (Il riso). Tra le diverse situazioni e condizioni
che sollecitano il riso, la prima la sperimentiamo facilmente tutti i giorni, quando ci si trova
tra amici, o anche quando si va a teatro o al cinema. Nelle parole stesse di Bergson: «Non si
gusterebbe il comico se ci si sentisse isolati. Sembra che il riso abbia bisogno d’un’eco».18
Crea «una complicità con altri che ridono, reali o immaginari». «Il riso deve avere un
significato sociale. Rinsalda le relazioni sociali tra coloro che ridono. E
contemporaneamente s’interrompe l’empatia nei confronti di coloro di cui si ride».
Una seconda è data dai comportamenti irrigiditi fino a diventare veri e propri automatismi.
«Attitudini, gesti e movimenti del corpo umano sono ridicoli nella misura esatta in cui
questo corpo fa pensare a una semplice meccanica». «Meccanicità placcata sulla vita: questo
ancora il nostro punto di partenza». Da dove nascono le situazioni comiche? Dal fatto che
«il corpo vivo s’irrigidisce in una macchina». Tanto nei comportamenti quanto nella
psicologia. «Un personaggio è generalmente comico nella misura esatta in cui ignora se
stesso. Il comico è inconscio». Il comico nasce anche da situazioni ‘neutre’, ma ripetute in
modo imprevisto. Nella vita quotidiana, così come nel cinema o nel teatro, ci sono ben
familiari le occasioni al riso che vengono dai dialoghi tra i personaggi o semplicemente
dalla loro gestualità. Troviamo battute spiritose anche nel libretto di Sterbini. Fin dall’inizio,
quando il Conte ritrova l’antico camerata Figaro: «Conte: Ti vedo grasso e tondo». Figaro
risponde: «La miseria, signore!». Le barzellette sono il tipico inesauribile repertorio di
risultati comici raggiunti con i giochi di parole.
Quanto alla gestualità, la situazione-tipo è quella del personaggio che imita i gesti di un
altro a insaputa sua. Nel Barbiere (sia nell’originale francese sia nel libretto di Sterbini) la
scena irresistibile è quella del balletto che don Bartolo improvvisa cantando «Quando mi sei
vicina, amabile Rosina». Dietro a lui Figaro ne copia le buffe movenze. Se ci teniamo sul
terreno che qui ci sta a cuore, quello musicale, ridiamo alle situazioni descritte da Bergson,
a cominciare da quella rigidità caratteriale dei personaggi, quell’assenza di empatia con
l’altro, che fa di ciascuno di loro un tipo, un burattino, dunque qualcosa di meccanico. I
personaggi caratteristici che nelle commedie comiche vengono a scontrarsi: qui l’astuto
Figaro davanti al vecchio, sciocco e brontolone don Bartolo (già di per sé comico nella sua
gelosia per Rosina, che c’immaginiamo poco più che adolescente).
Ma Figaro si mostra anche più astuto del suo padrone, il Conte d’Almaviva. Quando nel
primo atto cantano insieme «Che invenzione, che invenzione…», lo spettatore si rende
conto che l’invenzione è solo di Figaro, non del Conte. Fa ridere la situazione ripetuta del
travestimento di Almaviva: prima soldato che irrompe ubriaco nella casa del morigerato don
Bartolo (con tanto di inversione dei ruoli: il finto soldato si propone come padrone di casa in
casa di don Bartolo); ripetizione di situazione: il finto maestro di musica può finalmente
parlare con Rosina mentre Figaro copre don Bartolo con il suo daffare da barbiere. Non
meno comica l’apparizione improvvisa di don Basilio, e la reazione di Figaro e compagnia
che gli fanno credere di essere affetto dalla febbre scarlattina, e lo rispediscono a casa a
curarsi. In piccolo è comica anche la ripetizione (cantata!) di parole e frasi, da parte di uno
stesso personaggio, o fra un personaggio e l’altro.
Alla fine del Barbiere i personaggi escono di scena tutti in un modo o nell’altro gratificati:
Figaro esaltato nella sua inesauribile esplosiva creatività; don Basilio compensato con
denaro sonante; Rosina e il Conte addirittura uniti in felice matrimonio. No, a dire il vero
non tutti. Anche lasciando nel suo umile angolo la serva Berta, che nell’opera ha vita solo
per lamentarsi della propria vecchiaia, esclusa dalle lusinghe dell’amore, chi dalla vicenda
esce invece deriso, umiliato e alla fine sconfitto, è il vecchio tutore don Bartolo. Sconfitto il
personaggio, prima che dai suoi compagni d’avventura, dalla messa in berlina che dei suoi
difetti ci fornisce Rossini: la rigidità, la supponenza, la gelosia, l’autoritarismo, l’avarizia…
La comicità dell’opera deriva non solo dalle buffe situazioni che vi s’incontrano, ma
principalmente proprio dalle corbellature che don Bartolo arriva a procurarsi con le sue
stesse azioni da parte dell’allegra compagnia. Gli imbrogli di Rosina, di Figaro, del Conte,
sono altrettante punizioni che Rossini gli rifila. Castigat ridendo mores, con il riso castiga i
costumi: la celebre massima latina viene a dirci che coprendo di ridicolo i costumi, le
abitudini, possiamo contribuire efficacemente a riformarli.

14. Un manifesto rivoluzionario


Il barbiere di Siviglia non è soltanto una bellissima opera lirica che scorre da cima a
fondo senza appannamenti d’ispirazione: è anche un eloquente manifesto della rivoluzione
portata da Rossini nel teatro melodrammatico. Perché l’impatto dirompente con la
tradizione risulti chiaro, egli ricorre alla popolare opera comica e sceglie un soggetto dove la
contrapposizione fra l’aristocratico mondo ‘al tramonto’ e quello democratico ‘nascente’
viene a costituire il motivo portante della vicenda.
La commedia di Beaumarchais da cui la storia deriva ebbe un battesimo travagliato per
beghe con la magistratura, ma anche per la novità di un matrimonio politically incorrect fra
un Grande di Spagna e una fanciulla di scarsi titoli nobiliari. In Rossini, come in
Beaumarchais, gli attori della storia si dividono nettamente in gruppi contrapposti: l’uno
mosso da spiriti decisamente moderni; l’altro guidato da un ottuso conservatorismo,
scampato al vento rinnovatore della rivoluzione francese.
Il Conte di Almaviva è a Siviglia, attratto dalle grazie di una giova ne donna che vi si è
trasferita al seguito di un maturo gentiluomo, con la quale ha scambiato occhiate
promettenti durante una passeggiata lungo lo splendido Paseo del Prado madrileno. Si tratta
per lui dell’ennesima avventura, giacché ritiene di corteggiare una donna sposata, la
‘moglie’ di un notabile della città, tale Dottor Bartolo. La censura romana, o forse una
previdente autocensura dello stesso Sterbini, ha indotto a cambiare in ‘figlia’ lo stato civile
della ragazza, anche se la supposta condizione di moglie avrebbe reso esplicito il percorso
sentimentale che ha condotto Almaviva alle nozze con Rosina. Per il corteggiamento,
Almaviva ricorre all’espediente tante volte sperimentato con successo: reclutare musicisti di
strada per accompagnare una manierata canzoncina da intonare sotto le finestre dell’amata,
Ecco ridente in cielo, che Rossini inzucchera con delizie in stile galante. Dalla finestra della
sua camera, Rosina non risponde con la dubbia reticenza femminile destinata a mutarsi in
resa peccaminosa e felice: in un biglietto furtivamente lasciato cadere, confessa senza
ritegno una pari attrazione, pretendendo nel contempo onestà di propositi. Esternazione
sorprendente per l’epoca e il luogo, che spinge Almaviva a rinunciare alle attrattive di
‘giovin signore’ ricco e potente per presentarsi come Lindoro, ‘studente povero’, come farà
il Duca di Mantova con Gilda, per giocare l’inedita partita dell’amor sincero. Un Grande di
Spagna si trasforma così nel primo ‘amoroso’ dell’opera lirica, impegnato a recitare senti-
menti autentici. Per sottolineare l’evento, Rossini contravviene alle ‘solite’ regole facendo
subito seguire a quella di sortita una seconda cavatina per il Conte, di significato opposto, Se
il mio nome saper voi bramate, un’arietta semplice e sincera alla quale l’accompagnamento
estemporaneo della chitarra aggiunge spontaneità. Gli risponde una Rosina femminista, che
nell’Aria di sortita Una voce poco fa enuncia il proposito di lottare con astuzia e
determinazione contro il tutore tiranno per affermare il diritto a libere scelte. Nella grande
aria del secondo atto, l’Aria della lezione, Rosina contrapporrà l’aulica perorazione di
sentimenti nobili degni di una futura Contessa d’Almaviva, Contro un cor, a una fresca
cabaletta, Cara immagine, alternando cipiglio da opera seria a gioiosi gorgheggi di felicità
(la dialettica vecchio-nuovo suggerirà a Rossini un’ulteriore antitesi: far seguire a quest’aria
una convenzionalissima arietta settecentesca, Quando mi sei vicina, richiamata da Bartolo
con chiaro intento polemico). Curiosamente tanto la prima Aria di Almaviva Ecco ridente in
cielo quanto l’Aria della lezione di Rosina registrano una presenza metateatrale di ‘musica
nella musica’: nel primo caso si tratta di un accompagnamento virtuale effettuato da
un’orchestrina mercenaria; nel secondo d’un «Pian:Forte» (così nel manoscritto), con il
quale Almaviva, sempre in modo virtuale, dovrebbe sostenere il canto di Rosina.
Vale anche la pena di rimarcare una curiosità strumentale che accresce l’inesauribile gioco
dei contrasti: nella prima aria di Almaviva, dove canta un Grande di Spagna,
l’accompagnamento ostenta una pretenziosa orchestrina, mentre nella seconda, dove canta
l’umile Lindoro, il sostegno viene confinato al suono popolaresco della chitarra.
Il terzo esponente del ‘mondo di oggi’, Figaro, ha ricevuto da Rossini un lascito musicale di
tale felicità da giustificare pienamente la sua promozione a protagonista dell’opera: la
cavatina di sortita, Largo al Factotum, trasuda vitalismo, frenesia ritmica, urgenza motoria,
smania di egocentrismo: «Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono... sono il Factotum della
città». Anche la vocalità supera gli schemi del basso primottocentesco prefigurando la
tipologia del moderno baritono. Pur se trovate e millanterie si rivelano incapaci di
infrangere il dispotismo di Bartolo, tocca a Figaro promuovere le azioni, animare i
personaggi e spronarli alla competizione, imprimendo il giusto ritmo alla commedia. Sul
versante opposto, quello del ‘mondo di ieri’, il Dottor Bartolo afferma la sua appartenenza a
una classe rispettabile con una lunga e difficile aria di sortita, strutturata nell’inusuale
forma-sonata; in tutto il corso dell’opera Bartolo mantiene un atteggiamento rancoroso e
polemico, lontano dal bolso macchiettismo di una tradizione farsesca che svilisce la lotta
condotta contro di lui. Anche Basilio, uomo di fiducia di Bartolo, non può essere quel
pretastro sudaticcio tramandato dalla tradizione teatrale tardottocentesca in omaggio a un
anticlericalismo di maniera: l’intelligenza che lo porta a intuire prima di ogni altro gli esiti
di una trama ingannosa («Ah che in sacco va il Tutore») e a proporre soluzioni tutt’altro che
scontate («La calunnia è un venticello») ne fanno un ascoltato consigliere, un persuasore
occulto che rafforza, non diminuisce, l’importanza del suo mentore. Ciò che lo ascrive al
mondo di ieri è l’atteggiamento di servile dipendenza che mantiene nei confronti di Bartolo,
guidato dall’unico obiettivo di sbarcare il lunario.
Berta ha l’onore infrequente di ricevere un’aria di sorbetto (aria affidata alle seconde parti,
durante la quale il pubblico poteva diradare l'attenzione e dedicarsi ad altre attività, come
mangiare un sorbetto), Il vecchiotto cerca moglie, firmata dallo stesso Rossini invece che da
un anonimo collaboratore; l’aria riprende la consuetudine antica di tratteggiare una seconda
donna afflitta da pruriginose nostalgie.
Il discrimine fra il ‘nuovo’ di Rosina, Almaviva e Figaro e il ‘vecchio’ di Bartolo, Basilio e
Berta trova conferma nel diverso valore che questi personaggi conferiscono al denaro, altro
protagonista occulto dell’opera: tutti ne parlano, tutti lo cercano. La sete di denaro spinge il
tutore a sposare Rosina per incamerarne l’eredità; quando Almaviva decide di concedergli
quella dote per la quale si danna, Bartolo prorompe in una squallida risatina, commentata
amaramente da Figaro: «i bricconi han fortuna in questo mondo!». È il denaro che induce
Basilio a non rivelare al padrone la trama montata a suo danno e a tradirlo prestandosi a far
da testimonio alle nozze rivali. Anche Figaro parla continuamente di denaro, cui attribuisce
la facoltà di accendere fantasia e creatività: «Ah non sapete i simpatici effetti prodigiosi
che... produce in me la dolce idea dell’oro? All’idea di quel metallo portentoso onnipossente
un vulcano la mia mente già comincia a diventar».
Almaviva esibisce, con la nonchalance del gran signore, denaro «a bizzeffe» per procurarsi
complici e impunità; la borsa di monete che distribuisce ai musicanti scritturati per la
serenata a Rosina scatena il primo dei tanti indiavolati concertati dell’opera. Il denaro gli
assicura la fedeltà di Figaro, il silenzio di Basilio, i servigi di Fiorello, la compiacenza
dell’Ufficiale di polizia. Almaviva rinuncia, però, a ostentare ricchezza alla ragazza che
vuol conquistare per amore («Ricco non sono») e Rosina, con altrettanta nobiltà d’animo,
respinge quella ricchezza («Fingesti amore per vendermi alle voglie di quel tuo vil Conte
Almaviva»), ricevendo a premio il matrimonio (e con esso, sia detto per inciso, il maggior
patrimonio in palio...). Al di là del naturale contrasto generazionale, i rapporti sociali
distinguono ulteriormente Rosina e Almaviva da Bartolo e la sua gente.
Per il facoltoso Bartolo, come per i componenti della classe nobiliare, il matrimonio è
strumento primario per aumentare il patrimonio e conservare i privilegi; per Almaviva,
ribelle alle leggi di casta, è la conclusione di un sogno d’amore.
Rosina e Almaviva si sono visti da lontano «al Prado»; si sono scambiati saluti e messaggi
sotto il balcone della casa di Bartolo; si incontrano nel suo salotto, presenti i servitori,
Basilio e gli abitanti del vicinato; si ritrovano durante la falsa lezione di canto, sorvegliati da
un Bartolo sospettoso; infine li si vede riuniti alla conclusione dell’opera per l’agnizione, la
tentata fuga e lo sposalizio, anche qui in presenza di Figaro, quando non dell’intera
compagnia. Non un duetto, non un recitativo dove scambiarsi un’effusione, interrogarsi sui
reciproci sentimenti, progettare il futuro. Le tappe del fidanzamento sono marcate da poche
sillabe, concentrate nel secondo atto. Il pubblico accetta tranquillamente l’assurdità di una
storia d’amore conclusa senza che i promessi sposi abbiano potuto coltivare una pur
minima, reciproca conoscenza perché la musica promuove un gioco di rimandi dove ogni
accadimento, ogni gesto, ogni parola, in qualunque contesto pronunciata, concorrono a
costruire una trama collettiva esaustiva, rendendo superfluo esplicitare il rapporto dei
singoli partecipanti. L’opera è cosparsa di informazioni utili a determinare la personalità dei
personaggi e la credibilità dei loro rapporti, informazioni che vengono virtualmente
trasferite dall’ascoltatore agli attori della vicenda anche quando sono fuori scena. La
cavatina di sortita Una voce poco fa chiarisce il carattere, dolce e forte, di Rosina e
giustifica le sue ribellioni; il Duetto con Figaro (Dunque io son...) ne mostra il potenziale di
seduzione; l’Aria della lezione rivela dapprima nobiltà e forza d’animo (Contro un cor) poi
studiata debolezza («Ah, Lindoro... mio tesoro... se sapessi...»). Almaviva, nel lungo
Recitativo che marca l’incontro con Figaro, esplicita una passione sincera, e nella
canzonetta Se il mio nome saper voi bramate rassicura sulla serietà delle intenzioni; nella
pertinacia dispiegata per entrare nella casa di Bartolo («Ehi di casa! maledetti!») mostra
intraprendenza e determinazione; rispondendo all’appello accorato di Rosina («Non temer,
ti rassicura») trova accenti di tenera pietà. Rossini fonde questi segnali in un contesto
unitario e li proietta in un altrove dove i personaggi vivono idealmente una vicenda
integrativa di quella non esplicitata sulla scena: un modo di raccontare che pretende il
coinvolgimento intelligente dell’ascoltatore, impegnato a ricomporre nell’immaginario della
fantasia gli impulsi ricevuti. Un ascolto elitario, che esclude il facile abbandono
all’emozione precostituita e privilegia una personale partecipazione emotiva, tanto più
gratificante quanto sensibilità e cultura la arricchiranno di rimandi. Personaggi siffatti
offrono a registi, scenografi, illuminatori, coreografi, ampia libertà di scelte stilistiche:
basterà abbandonarsi al fluire della musica e alla sua energetica pulsione ritmica,
accompagnando le folgoranti figure melodiche con immagini adeguate. È però necessario
che l’opera mantenga la struttura e il sound voluti da Rossini, rifiutando le contraffazioni
attestate dalle fonti, anche antiche. Impreparato a cogliere tanta innovazione, il pubblico
dell’epoca ha recepito Il barbiere di Siviglia come la felice continuazione dell’opera buffa
esaltata da Pergolesi, Cimarosa, Paisiello. Sordo alla raffinatezza di una trama orchestrale
che non ha riscontri nella tradizione operistica italiana e ai preziosismi di una vocalità creata
per esprime re l’inesprimibile, si è compiaciuto della risata epidermica. Pochi compresero
che l’opera che avevano il privilegio di ascoltare per primi sarebbe giunta a contestare al
genere serio il diritto esclusivo di sondare l’animo umano; pochissimi intesero la pregnanza
e la modernità di un discorso drammaturgico in grado di innalzare le emozioni dalla
normalità del quotidiano alla straordinarietà della poesia.

15. Conclusioni
Dietro l’apparente rispetto della tradizione, più volte dichiarato da Rossini, il musicista
cela tutta una serie di trovate che gli permettono di travolgerla in pieno; forzando il realismo
con una lettura in chiave buffa anzi quasi grottesca, il pesarese rivela una sensibilità
estremamente vicina alla modernità. La frammentazione della parola sottomessa al ritmo
incalzante arriva quasi al nonsense, alla afasia che rende impossibile la comunicazione.
E dunque è proprio l’attenzione e la peculiarità con cui il “solito schema” del triangolo
amoroso viene trattato – non solo nella parola ma anche e soprattutto nella musica – ciò che
rende quest’opera fresca, vivace e travolgente, in sostanza attualissima nonostante abbia già
duecento anni addosso. Impossibile, quindi, non rilevare, negli ultimi versi della celeberrima
cavatina di Figaro, gli estremi d’una sapiente e verificata premonizione: «Ah, bravo Figaro!
Bravo, bravissimo: a te fortuna non mancherà».
Bibliografia di riferimento
DELFRATI, Carlo, Il Barbiere di Siviglia di Rossini: Guida didattica per le scuole
secondarie, in Rossini – Il Barbiere di Siviglia, a cura di Giampaolo Bisanti e Vittorio
Borrelli, Torino, Vox Imago, 2016, pp. 2-16
ZEDDA, Alberto, Il Barbiere di Siviglia: manifesto rivoluzionario, in Divulgazioni
rossiniane, Milano, Ricordi, 2012, pp. 14-20
D’ANZELMO, Silvia, “Guardare l’opera: Il Barbiere di Siviglia di Rossini”, Quinte
Parallele, in https://www.quinteparallele.net/2016/07/guardare-lopera-il-barbiere-di-
siviglia-di-rossini/
CIAMPI, Vincenzo, “Il barbiere rampante di Cesare Sterbini”, Mozart2006, in
https://mozart2006.wordpress.com/2009/09/15/il-barbiere-rampante-di-cesare-sterbini/
VAZZAZ, Igor, “Tagli di barbiere e cambi di prospettiva: piccola storia d’un capolavoro”,
Lo sguardo di Arlecchino, in http://www.losguardodiarlecchino.it/2015/02/tagli-di-barbiere-
e-cambi-di-prospettiva-piccola-storia-dun-capolavoro-lsda/
GRECO, Ferdinando, “Il Barbiere di Siviglia: guida all’ascolto”, Marilù Mastrogiovanni, in
http://www.marilumastrogiovanni.it/il-barbiere-di-siviglia_fernando-greco/
“Guido Zaccagnini racconta la prima del Barbiere di Siviglia”, Wikimusic, in
https://www.raiplayradio.it/audio/2018/02/WIKIMUSIC-712c1a2f-dd7a-4d16-a51a-
a49bf046e64c.html

1. Frontespizio
2. Sommario
3. Testo diviso in paragrafi numerati, ad esempio :
- Introduzione
- 1.
- 1.1.
- 1.2.
- …
- 2.
- 2.1.
- Conclusioni
4. Eventualiappendici e schemi
5. Bibliografia di riferimento

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