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Lo sviluppo dell’opera romantica nella produzione di Giuseppe Verdi

Giuseppe Verdi (1813-1901), il più significativo operista dell'Italia risorgimentale, ha al suo attivo
una varia produzione di melodrammi (27), distribuiti lungo un ampio arco di tempo della durata di
oltre 50 anni. Si assiste dunque a una grande trasformazione del linguaggio operistico che traghetta
la tradizione melodrammatica italiana di primo ottocento fin quasi alle soglie del nuovo secolo.
Giuseppe Verdi nasce a Roncole di Busseto in provincia di Parma nel 1813. Dopo i primi studi a
Busseto tenta di entrare al conservatorio di Milano ma non viene ammesso e studierà privatamente
composizione con il maestro Lavigna. Frequenta il teatro alla Scala e può conoscere le novità del
mondo operistico: 1829 Rossini ha smesso di comporre opere, Bellini muore nel 1835 e Verdi, dopo
uno studio approfondito degli operisti italiani, di Haydn e soprattutto di Mozart, nel 1839 debutta
alla Scala con la sua prima opera Oberto conte di San Bonifacio. È un successo e viene
rappresentata 14 volte. L’impresario Merelli gli offre un contratto per altri 3 lavori. Ma l’anno
seguente muore la moglie a soli 26 anni e Verdi entra in un periodo di crisi personale e compositiva.
La sua seconda opera Un giorno di regno (1840) fa fiasco. Il compositore medita di abbandonare le
scene ma l’impresario Merelli gli fa avere il libretto del Nabucco che, rappresentato a Milano nel
1842, ebbe un grande successo e indirizzò definitivamente Verdi alla carriera di operista. Il coro
“Va pensiero”, cantato dagli ebrei oppressi in schiavitù dagli Assiri, è un canto di libertà e di
speranza, un pianto degli italiani oppressi, un inno contro l’occupante austriaco. Nabucco è
un’opera corale in cui l’espressione del sentimento collettivo di un popolo è rappresentato dal coro.
Le melodie sono orecchiabili, i ritmi scanditi, con l’accompagnamento regolare in tre tipo valzer,
l’orchestrazione è brillante, il testo in primo piano. Tutti questi elementi concorrono al grande
successo di Nabucco che venne rappresentato ben 64 volte. Il periodo seguente di produzione
compreso tra il 1843 e il 1850 è definito dallo stesso Verdi periodo degli “anni di Galera” a causa
del lavoro incessante ed esasperante a cui il compositore era sottoposto per soddisfare le esigenze
dei vari teatri. Verdi firma il contratto di ogni nuova opera ancor prima di terminare la precedente.
Ma di fatto in questo periodo egli acquista la piena padronanza dei diversi elementi dell’opera
anche se capisce che sta componendo opere “minori” che non mostrano ancora la piena maturità e si
adagiano su schemi di tradizione. Per il Teatro La Fenice di Venezia, scrive “Ernani”, dal dramma
omonimo di Victor Hugo. È la prima volta che Verdi si avvicina alle tematiche del teatro romantico
europeo, lasciando da parte le storie che hanno come protagonisti i popoli interi, per concentrarsi
sui conflitti individuali. “Ernani” segna l’inizio della collaborazione di Verdi con il librettista
Francesco Maria Piave. Fin da questo periodo il compositore si occupa personalmente di tutti gli
aspetti della creazione dell’opera, non soltanto della parte musicale. Ciò fa di Verdi un uomo di
teatro, così come lui stesso si definiva di solito: un uomo a cui interessa, soprattutto, la relazione
intima che nasce tra la parola e la musica. In questi “anni di galera” si assiste a una grande varierà
di produzione: Verdi passa dal dramma storico al dramma intimista, dall’individualismo romantico
alle trame corali, alla ricerca infinita di “temi nuovi, vari ed estremamente audaci mostrando la
capacità di rinnovarsi continuamente. Oltre a I Lombardi alla prima crociata ed Ernani, scrisse in
questo periodo: I due foscari (in 6 mesi), Giovanna d’Arco e Alzira (in 3 mesi), Attila, Macbeth, I
masnadieri (per Londra), Jerusalem (Rifacimento de I Lombardi alla prima crociata da
rappresentare a Parigi), il Corsaro, La Battaglia di Legnano, Luisa Miller, Stiffelio. In questo
periodo diventa suo segretario e factotum il suo allievo Emanuele Muzio, di 8 anni più giovane del
maestro. Compositore e direttore d’orchestra, lo aiuta nella preparazione delle partiture e delle
scenografie.
Al termine degli “Anni di Galera” sono collocate le tre opere della cosiddetta Trilogia popolare,
Rigoletto, Trovatore e Traviata che hanno come protagonisti emarginati sociali: un gobbo, una
strega, una prostituta. L’elemento che si sviluppa è l’aria in tutte le sue sfaccettature. In queste tre
opere sono concentrate forse le più famose arie verdiane. Da quelle più tradizionali fino all’inizio
del superamento delle forme chiuse con Traviata, alla solita forma con elementi scenografici nuovi
in Trovatore. Verdi delinea i personaggi, li caratterizza con la musica. È un grande drammaturgo.
Nel 1848 acquistò tenuta di Sant'Agata, una frazione in provincia di Piacenza, dove divenne anche
consigliere comunale. Si dedicò così, con grande impegno ed energia, alle attività della fattoria,
seguendole in prima persona. La seconda metà degli anni cinquanta dell'Ottocento rappresentò per
il compositore anni di travaglio: Verdi poteva finalmente comporre senza fretta, ma l'intero mondo
musicale stava lentamente cambiando. Sui palcoscenici italiani, il Simon Boccanegra, presentato al
pubblico veneziano nel 1857, non piacque. Il dramma, prettamente politico, non aveva quei risvolti
sentimentali che tanto appassionavano gli spettatori del tempo e dovette attendere quasi cinque
lustri e una rielaborazione radicale (cui collaborò anche Arrigo Boito) per imporsi definitivamente
nel repertorio lirico italiano ed internazionale (1881). Seguono opere più ampie e moderne, più
lunghe con cast comprendenti vari personaggi: nel 1858 Un ballo in maschera, nel 1862 La forza
del destino per San Pietroburgo per cui è pagato molto bene, e riceve varie onorificenze.
È attento al denaro ma generoso. Diventa enormemente ricco e proprietario terriero. Campi,
giardino, cavalli, carrozze, sono le sue spese principali. Ma affermò: “Io sono, sono stato, sarò
sempre un contadino delle Roncole di Busseto”. Incontra Cavour e viene eletto come deputato nel
1861 e nel 1864 senatore del regno d’Italia anche se non parteciperà mai alla vita politica.
Ricerca continua di soggetti e ha una cultura teatrale e letteraria insaziabile. Legge i grandi
drammaturghi e ricava i soggetti delle sue opere. Negli anni seguenti scrive due opere Don Carlos e
Aida nello stile del grand-opéra francese. Genere operistico che ebbe fortuna in Francia dal 1828
fino al 1870 circa. Caratterizzato da un notevole sfarzo nell’allestimento scenico, presenza di
un’azione coreografica molto elaborata, intreccio romanzesco sullo sfondo di un contrasto politico o
religioso che consentiva di inserire grandi scene di massa con cori e danze, suddivisione in 5 atti o
comunque mai meno di 4. Aida fu commissionata a Verdi da Ismail Pascià, viceré d’Egitto per
onorare il teatro dell’opera del Cairo inaugurato col Rigoletto nel novembre 1869. L’intento
primario era festeggiare l’apertura del canale di Suez nel 1870, l’opera fu invece rappresentata
l’anno dopo, perché la guerra franco-prussiana rallentò l’allestimento degli scenari e dei costumi in
Francia. Il soggetto celebrativo esalta la gloria d’Egitto in chiave retrospettiva, rievocando la
vittoria sugli Etiopi nel 1000 a. C. Presenza di scene grandiose, molto affollate. Imponente
scenografia. Vocalità virtuosistica, molti cori. Dopo il successo di Aida (1871) Verdi trascorreva
una vita economicamente tranquilla che gli consentì di non comporre opere per 16 anni e di
prendersi una pausa di riflessione. Si dedicava alla sua villa a Sant’Agata, e ai suoi poderi. Era
esperto in fatto di pioppicoltura, di allevamento di cavalli, di irrigazione dei campi, di enologia.
Subito dopo l’Aida viene rappresentata la prima opera in Italia di Wagner: Lohengrin a Bologna
nel novembre 1871, per Verdi fu un momento di crisi, di ripensamento, di autocritica. Pensa che
l’opera wagneriana sia troppo lunga e manchi di azione, ma di fatto segnerà una svolta nel suo
modo di comporre. Durante le prove per la produzione di Aida a Napoli scrisse il suo Quartetto in
mi minore per archi, l'unica musica da camera da lui scritta. La compose quasi per sfida…. in Italia
il quartetto era come una “pianta fuor di clima”. Inoltre il Requiem in memoria di Alessandro
Manzoni che venne eseguito a Milano il 22 maggio 1874 in occasione dell'anniversario della morte
del celebre scrittore.
La prima opera, dopo questa pausa di riflessione, fu Otello, rappresentata a Milano nel 1887. Il
libretto di Arrigo Boito fu tratto dall’opera omonima di Shakespeare. La gelosia di Otello, la
perfidia di Jago e il candore di Desdemona sono espressi attraverso una nuova musica che supera i
pezzi chiusi. In Otello non si trova più la tradizionale ripartizione dell’opera in arie e recitativi ma
vi emerge un declamato lirico, a volte più tendente al tono colloquiale del recitativo, altre volte più
melodico e cantabile, sempre modellato al servizio della parola. La melodia non si interrompe mai
nel corso dello svolgimento dell’atto, ma si configura come un fluire continuo sostenuta da una
ricca orchestrazione e da scelte armoniche innovative che includono passaggi cromatici,
modulazioni inaspettate, e dissonanze ardite. Dopo il successo di Otello, Verdi aveva pensato di
lasciare il melodramma. Poi si accostò al mondo dell’opera buffa che aveva sperimentato con
insuccesso nel 1840 con Un giorno di regno. Nel 1893, ottantenne, mise in scena a Milano Falstaff
su libretto di Boito tratto da Shakespeare. “Ho massacrato eroi ed eroine ho finalmente diritto di
ridere un po’….”
Opera comica sì ma anche opera sulla malinconia della vecchiaia, sull’uomo che non sa accettare lo
scorrere degli anni e non si rende conto della sua fragilità, della sua transitorietà. Venne
rappresentata alla Scala di Milano, i biglietti costavano 30 volte in più del solito. Fu un enorme
successo. Un’ora di applausi. Energia sorprendente per un uomo di 80 anni.
Negli ultimi anni di vita il compositore si dedica ad attività filantropiche, sostiene i terremotati della
Sicilia, finanzia un ospedale vicino a Busseto. Termina i 4 pezzi sacri nel 1898. Muore a Milano per
ictus nel 1901 dove è sepolto nel cimitero monumentale e poi nella cripta della casa di riposo. Ebbe
grandiosi funerali, anche se contro la sua volontà. 820 cantanti cantarono il coro “Va pensiero”.
Grande fu la sua fama. Fu raffigurato sulle Mille lire accanto all’arpa estense. Tre conservatori
italiani sono intitolati a lui, così come vari teatri.

Schema riassuntivo
• Esordi (Oberto, 1839)
• Opere corali: Nabucco (1842)
• “Anni di galera” (1843-1850) scrive molte opere per soddisfare le esigenze dei vari teatri
(Attila, Alzira, Macbeth etc)
• Trilogia popolare (Rigoletto, Trovatore, Traviata) (1851-1853)
• Melodrammi italiani più ampi (Un ballo in maschera, La forza del destino, Simon
Boccanegra) e grand-opéra (Vespri siciliani, Don Carlos, Aida)
• Dopo Aida (1871) Verdi smette di comporre opere per 16 anni: scrive un quartetto, una
messa di Requiem, inizia alcuni pezzi sacri che terminerà dopo Falstaff.
• Ultime opere in cui attua il superamento delle forme a pezzi chiusi: Otello (1887) e Falstaff
(1893).

Rigoletto
Rigoletto è la diciassettesima opera di Verdi scritta per il teatro la Fenice di Venezia e andata in
scena l'11 marzo 1851. Il libretto fu realizzato da Francesco Maria Piave. Il soggetto fu scelto dallo
stesso Verdi che scrisse "Un gobbo che canta perchè no?, Farà effetto, non lo so (...) Io trovo
appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esteriormente deforme e ridicolo ed
internamente appassionato e pieno d'amore." La censura austriaca pose molti problemi per la
rappresentazione e soprattutto rifiuta la maledizione come argomento che ritiene immorale. Inoltre
il dramma di Victor Hugo da cui è tratto il soggetto Le roi s'amouse "Il re si diverte" mette in scena
un re realmente esistito, Francesco I di Francia, con tutta la sua corte e le sue dissolutezze. Cose
impossibili da portare sul palcoscenico. Bisogna trovare una mediazione. Ed ecco che un modesto
funzionario di censura Carlo Martello, ligio al dovere ma amico di librettisti e compositori,
suggerisce la soluzione giusta: trasferire la vicenda dalla Francia del Cinquecento alla corte di
Mantova, da tempo scomparsa.
Il protagonista è un gobbo buffone di corte e l’amore che nutre per la figlia Gilda. Quest’ultima
innamorata del duca di Mantova, libertino e seduttore, morirà volontariamente al suo posto per
mano del sicario Sparafucile, assoldato dallo stesso Rigoletto per uccidere il duca. La maledizione
si avvera e Rigoletto rinviene nel sacco in cui doveva trovarsi il cadavere del duca, la figlia
morente.
Rispetto al modello francese il libretto approntato da Piave, pur nella riduzione dei 5 atti de Le
rois’amouse ai tre del Rigoletto, non si distacca molto dall’originale, anzi, nella maggior parte dei
passi, si presenta quasi come un traduzione fedele. La sostanza del testo di Hugo è quindi
conservata e con essa la sua efficacia drammatica.
Tuttavia il librettista Piave apportò alcune modifiche e in particolare diede risalto al momento in cui
il Conte di Monterone maledice il duca che violò l’onore di sua figlia e maledice il buffone
Rigoletto, che non solo si era permesso di ridere del dolore del padre per quanto era avvenuto alla
figlia, ma aveva anche offeso la stirpe del nobiluomo. Il librettista, concentrando l’attenzione sul
dolore del padre per il disonore occorso alla figlia, ha voluto mettere in parallelo la triste vicenda di
Monterone e la situazione che di lì a poco avrebbe vissuto Rigoletto, la cui figlia Gilda, nell’opera
verdiana, sarà sedotta dal duca; la maledizione, scagliata da Monterone contro Rigoletto, dunque, ha
in questo modo maggior valore e finisce per ricadere sul gobbo che inesorabilmente vivrà la stessa
situazione di Monterone oggetto del suo scherno. Proprio nel momento in cui quest’ultimo scaglia
la maledizione contro il duca e Rigoletto, il libretto di Piave si distacca nettamente dal testo
francese e da questo momento in poi la maledizione diventa la vera e propria protagonista
dell’opera, in quanto si trasformerà per Rigoletto in una ossessione; ecco infatti il buffone nella
scena successiva esclamare subito Quel vecchio maledivami. La maledizione diventa dunque per
Rigoletto una costante e scandirà i momenti più drammatici della sua vicenda, rappresentati dal
rapimento della figlia e dalla morte della stessa.
Verdi, non curandosi della censura e consapevole del fatto che la musica, linguaggio di suoni, è
certamente più vago di quello delle parole di un testo letterario, decise di aprire e chiudere l’opera
con il tema della “maledizione”. Questo tema (Es. 1), compare già nel preludio introduttivo affidato
agli ottoni in ritmo ben marcato con la figurazione di semiminima con due punti e semicroma, ed è
costituito da ribattuti di tonica che sfociano su una settima diminuita. Il tema non richiama, né
melodicamente, né armonicamente, quello che accompagna le parole di Monterone (Es. 2) mentre
scaglia l’anatema nei confronti del buffone, ma rievoca il ricordo, quasi ossessivo, che attanaglia
Rigoletto, proprio quando pronuncia le parole Quel vecchio maledivami! (Es 3)

(Es. 1)

(Es. 2)

(Es. 3)
Il tema della maledizione ritorna anche in Pari siamo, un ampio monologo di Rigoletto che sembra
essere più vicino a un recitativo accompagnato che a un’aria - di cui tuttavia mostra l’ampiezza e il
peso formale - ma di fatto si può descrivere come un importante momento dell’opera in cui Verdi
piega la musica al servizio del testo e della caratterizzazione del personaggio. Rigoletto che si
paragona al sicario Sparafucile e attacca il duca e i cortigiani, dichiarando tutto il proprio odio per
loro ("Se iniquo son, per cagion vostra è solo"). Non solo: se la prende con l'intero creato ("O
uomini! O natura! Vil scellerato mi faceste voi!"), compreso sé stesso ("O rabbia! esser difforme,
esser buffone!"). La musica punteggia le sue invettive contro il Duca, come a sottolineare le azioni
di una marionetta, costretta a far ridere anche se questo va contro la sua natura. Solo una tenera
frase del flauto, che in tutta l’opera è associato sempre a Gilda, riporta i suoi pensieri alla figlia.
Questo monologo esplora l'intero ambito espressivo della voce baritonale. La ritmica è in parte
rigorosa e in parte libera ma ci sono due fattori unificanti: il ritorno del tema della maledizione e la
simmetria dello schema tonale.
Dopo Nabucco e Macbeth, il Rigoletto può essere considerato come l'opera nella quale Verdi trae il
maggior profitto dalla voce di baritono, anticipando anche l'uso che ne farà in futuro. Quando Verdi
divenne l'operista italiano più rappresentativo, la situazione vocale lasciatagli in eredità da Bellini e
Donizetti metteva in primo piano il tenore che era stato la grande scoperta del Romanticismo
operistico italiano. Con Verdi invece la voce prediletta fu sin dal Nabucco il baritono, ma nella
versione speciale di baritono acuto. Questa voce, o meglio quella più chiara del bari tenore, era
indubbiamente la più realistica anche nella vita quotidiana. Come tale Verdi la predilesse
considerandola dotata di risonanze umane. Soprattutto quando si trattava di toccare sentimenti come
l'affetto paterno o l'amarezza dell'uomo in età matura deluso nelle proprie ambizioni o tradito dalle
vicende della vita. Verdi aveva ampiamente saggiato tutte le possibilità della voce di baritono nel
periodo degli “anni di galera”. Nel Rigoletto per la prima volta la lega a un personaggio che non
indossava vesti di re o di doge, che non vantava statura storica o aloni mitici, che non
simboleggiava ideali risorgimentali ma che era semplicemente un uomo beffato dalla natura perchè
deforme e colpito nel solo affetto che dava significato alla sua esistenza: l'amore per la figlia. Visto
in questo profilo Rigoletto fu spesso svincolato da certe modalità espressive legate al canto spiegato
e alle auliche arie in forma strofica e indirizzato invece verso il declamato melodico. Ne sono
esempi oltre al citato monologo Pari siamo, l'inizio del secondo duetto con Gilda e tutto il finale
dell'opera, ma anche Cortigiani vil razza dannata, che sta fra il declamato e il canto spiegato e si
abbandona pienamente alla melodia soltanto nell'implorazione "Miei signori perdono pietade".
Rigoletto è un personaggio da tutti maltrattato e beffato, ma lo scherno più atroce gli deriva dal
comportamento della figlia, un ritratto che Verdi compie con esemplare accurata e terribile
psicologia, con conoscenza molto precisa dell'animo femminile. La fanciulla è certamente travolta
dal'amore per Gualtier Maldè (nome fasullo di un presunto studente sotto le cui sembianze in realtà
si cela il duca); altrettanto certo è il suo amore per il padre. È appunto questa doppiezza così
facilmente ospitata nell'animo umano a rendere più acuta la sconfitta del buffone. Egli non è tanto
deriso dai frivoli cortigiani, quanto dall'innocenza della figlia, vittima di congiure e vittima di se
stessa. Anche quando gli chiederà aiuto, la ragazza compie il passo definitivo per respingere da sè il
padre, che lascerà solo al mondo verso l'ultima rovina. In questo senso il loro duetto finale è di una
crudeltà senza pari. Nonostante Gilda fosse ben consapevole della condizione paterna e dell'aiuto,
dell'unico insostituibile sostegno che ella rappresentava per lui, non ha accettato di vivere ancora
con lui ed ha preferito abbandonarsi tra la braccia della morte per salvare un uomo che non l'ama.
La presenza del genitore e la sua funzione sono buttate allo sbaraglio, anzi distrutte con precisa
determinazione. Rigoletto accusa se stesso di aver provocato la rovina della figlia e, nel duetto, non
ha una parola, nè un cenno di rimprovero, il più timido che sia, a recriminare il comportamento di
lei. Lui solo ha congiurato per sopprimerla e invoca di morire.
Particolare attenzione Verdi ha sempre riservato alla caratterizzazione dei personaggi
femminili anticipando una caratteristica propria di Puccini. Si pensi a Violetta, Amelia, Aida,
Desdemona solo per citarne alcune. Nel Rigoletto è Gilda la protagonista femminile, l'unico
personaggio interamente positivo dell'opera, in un mondo di forsennati che maledicono, tradiscono,
vendicano, rappresenta musicalmente un modo di pace e un indispensabile punto di equilibrio lirico.
Gilda è per lunga tradizione un soprano di coloratura, come del resto indicano i picchettati nel
registro acuto e l'elevata tessitura che caratterizza il suo ruolo. La sua aria Caro nome presenta trilli,
rapide scale ascendenti e discendenti e anche note sopracute. Gilda sogna felice il suo Gualtier
Maldè, nome che rimarrà inciso per sempre nel suo cuore innamorato. L'introduzione strumentale
con protagonista il flauto, simbolo di innocenza e purezza, costituisce uno dei migliori esempi di
strumentazione per fiati composta finora da Verdi. La melodia è semplice e orecchiabile, adatta ad
esprimere l’ingenuità di Gilda ma è arricchita nel momento della ripresa, da colorature e svolazzi di
stampo belcantistico, anch'essi espressione di un sentimento ingenuo, che pure permettono alle
interpreti di sbizzarrirsi nella cadenza. Il primo violino solo si inserisce melodicamente fra ogni
frase a contrappuntare la voce. Dopo la cadenza finale, archi e legni riprendono la melodia di "Caro
nome" in contrattempo, mentre il violino solo continua la figura in ottave. Nel frattempo Gilda
ripete due volte il nome di Gualtier Maldè, mentre sale la scala che conduce alla terrazza dove è
completamente esposta alla vista di chi sta nel vicolo. Durante l'ultima quieta ripresa della melodia,
il tremolo di violini e di violoncelli, il pulsare sordo dei timpani e una figura cromatica di flauto e
fagotto suonano come inequivocabile avvertimento (l'uso inatteso del flauto basso per colorare un
altro strumento solista indica come la fantasia orchestrale del compositore si stia sempre più
ampliando). Frattanto il vicolo si è riempito di cortigiani mascherati, tutti intenti a guardare la
ragazza e a commentare la bellezza di quella che viene creduta l’amante di Rigoletto. Se gran parte
dell'opera è musicalmente rivoluzionaria, brani come questo (e come le ballate del Duca) sono
volutamente pensati – oltre che per caratterizzare i personaggi – per fare da contrasto alle ambiguità
e alla tragicità della figura di Rigoletto.
Le melodie affidate al duca sono più convenzionali ed esprimono la superficialità del
personaggio. All'inizio dell'atto terzo canta La donna è mobile, decantando la volubilità delle
donne, mentre di nascosto Gilda che l'ama, ode tali parole e comprende i pensieri del suo
innamorato. L'aria è un allegretto in tre ottavi. È strofica, presenta un'introduzione orchestrale di 8
battute, una prima strofa, di nuovo l'intervento orchestrale ora in funzione di interludio e la seconda
strofa in cui cambia il testo, ma la parte musicale ricompare identica alla prima volta. È tutta
caratterizzata da un pesante accompagnamento in tre tipo valzer, reso ancora più banale dal fatto
che l'armonia si appoggia solo sui gradi fondamentali della scala - tonica e dominante - alternandoli.
Si tratta di un accompagnamento abbastanza rumoroso, quasi rude, che vuol ben caratterizzare la
figura superficiale del personaggio. Una tipologia spesso utilizzata dal Verdi di questi anni anche in
Traviata (es brindisi). Per questo tipo di accompagnamento molto popolare, Verdi era stato da
alcuni musicologi tacciato di rozzezza, soprattutto di poca raffinatezza che gli sarebbe venuta da
quel suo mondo contadino delle origini in cui si udivano gli echi delle bande paesane. Su questo
accompagnamento, che sarà una costante all'interno di tutta l'aria, si disegna una melodia netta,
marcata, orecchiabile, costituita da due frasi di quattro battute ciascuna, con andamento melodico
che ben si addice al testo e l’immancabile acuto finale.

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