Sei sulla pagina 1di 100

BACH (1685-1750)

Nasce ad Eisenach nel 1685 e muore a Lipsia nel 1750. Ha due figli musicisti, Willhelm
Friedemann e Carl Philipp Emmanuel. Con Bach abbiamo una ripresa dei superati dettami
contrappuntistici, con lui abbiamo il genere della fuga, che è una commistione tra il criterio
compositivo orizzontale e quello verticale. Le sue sono composizioni “dense”, infatti viene
tacciato di arretratezza dai suoi contemporanei e dai suoi stessi figli, che definiscono il suo
uno stile vecchio a causa della sua complessità. La musica di Bach malgrado ciò è la prima ad
essere rieseguita in futuro, la prima ad essere oggetto di ricerca tra i compositori antichi. Nel
1829 infatti Mendelssohn dirigerà la riesecuzione de la passione secondo Matteo, momento in
cui comincerà il rinascimento bachiano e che, nel 1850, porterà alla formazione della Bach
gesellschaft (società di Bach), che si occupa della ricerca dell’opera omnia del compositore.
Nasce così la musicologia (musikwissenschaft) insieme al positivismo (naturwissenschaft,
scienze naturali).

- BWV => Bach Werke Verzeichnis (catalogo dell’opera di Bach)

Formazione:

- Bach vive con lo zio, musicista e alunno di Pachelbell. A Luneburg viene in contatto con
le tradizioni organistiche del sud e del nord della Germania, con la scuola organistica
francese e inoltro con la forma-concerto del concerto vivaldiano. Vivrà a Weimar dal
1708 al 17117, poi a Koethen dal 1717 al 1723, poi a Lipsia dal 1723 al 1750. A
Weimar konzertmeister del principe. Era un sovrano molto religioso, perciò la prima
produzione di Bach riguarda per la maggior parte musica sacra (cantate, preludi e
fughe per organo). Già in questo periodo comincia la composizione della sua opera
didattica per organo, l’orgelbuchlein, insieme a vari klavierbuvhlein. A Koethen è
invece kapellmeister del principe Leopoldo (calvinsta), e qui la sua produzione vira,
non essendo apprezzata la musica sacra. Si parla molto in questo periodo di
hausmusik, letteralmente musica di casa, ovvero composizioni che si eseguivano nelle
proprie case, nei salotti, musica per intrattenersi. A questo periodo appartengono i 6
concerti brandeburghesi, le 6 suites per violoncello solo, 6 tra sonate e partite per
violino solo e la stesura del primo volume del clavicembalo ben temperato. A Lipsia
invece è Kantor nella cattedrale di san Tommaso, quindi non è solo kapellmeister ma
anche sovrintendente delle attività musicali delle altre chiese della città. A questo
periodo risalgono altre composizioni sacre quali 195 cantate, l’oratorio di Natale, la
messa in si minore e un magnificat. Inoltre abbiamo la composizione di svariati brani
per organo differenziati in più generi, basati o meno su corali. Scriverà anche per il
Collegium Musicum fondato nel 1702 da Telemann. Nel 1747 viene invitato a far parte
della società delle scienze musicali, per la quale scriverà le variazioni canoniche per
organo, basate su un corale natalizio. Parte della sua produzione è chiamata “musica
speculativa”, musica più logica e pensata, costruita, che è un esercizio di ingegno, ben
lontana e senza una vera relazione dalla realtà compositiva. A questa categoria
appartiene l’arte della fuga, che lui compone per il solo bisogno di metterla su carta e
non per essere eseguita, le già citate variazioni canoniche, l’offerta musicale e il due
volumi del clavicembalo ben temperato. Con l’offerta musicale assistiamo a una
questione filologica, in quanto non si conosceva l’esatto ordine di esecuzione
dell’opera. Una delle ipotesi più accreditate è quella della musicologa Ursula
Kirkendale, che ha trovato nella struttura dell’offerta musicale quella che è la struttura
dell’orazione codificata da Quintiliano. Il tema dell’opera è un’improvvisazione
risalente al 1747, per il re Guglielmo Federico II di Prussia, per questo prende il nome
di “improvvisazione del re”.
Ascolto: cantata BWV 140 “wachet auf, ruft uns die stimme” (destatevi, la voce ci
chiama). La cantata era il brano più importante all’interno del repertorio sacro
protestante, si interpone fra la lettura del vangelo e la predica. In questo il maestro di
cappella era posto allo stesso livello del celebrante. La domenica in cui è stata eseguita
la cantata è stata raccontata anche la parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte.
La struttura è articolata in: 1) corale I, strofa, introduzione con ritornello strumentale,
poi solo del soprano, a battuta 17 entra il coro (il cantus firmus lasciato ai soprani),
batt. 54-69 ritornello strumentale in forma abbreviata, poi secondo solo, a batt. 150
abnesang (fine); 2) poi un recitativo al tenore; 3) poi aria (soprano e basso), con
violino piccolo obbligato, concertante con le voci soliste (accordato una terza sopra), il
duetto è tra l’anima e Gesù, che viene paragonato a uno sposo, per il legame che si
instaura col fedele (Bach aderisce alla corrente del pietismo); 4) corale II, strofa, con
tenore solista, la melodia è ornamentale; 5) recitativo; 6) aria (di nuovo duetto, oboe
obbligato); 7) corale III, con una forma più semplice omoritmica, gli strumenti sono
all’unisono e il cantus firmus è al soprano. Il corale più semplice è posto alla fine in
quanto permetteva a tutti i fedeli di cantare, e si arrivava al culmine della carica
emozionale.

La produzione organistica si può dividere in due settori:

- Forme basate sul corale (4 opzioni):


Corale semplice armonizzato; corale ornato (la melodia viene presa come canto fermo
e viene elaborata, corale contrappuntistico e non omofonico/omoritmico come quello
armonizzato); corale come soggetto di fuga/fughetta; corale variato (come serie di
variazioni o partite – corale armonizzato come tema e successivamente una serie di
variazioni/partite basate su quel corale).
Tutte le composizioni basate su corali (per organo o cantate per coro e orchestra)
fanno parte di un genere importante di musica protestante – Choralbearbeitung
(lavoro/elaborazione sul corale) (orgebuchlein – piccolo libro d’organo, postilla di
Bach: a Dio supremo per onorarlo e al prossimo perché si istruisca).
Bach è uomo di fede, aderisce al pietismo: corrente del luteranesimo che si diffonde nel
‘700 in Germania, che promuove una sfumatura molto sentimentale del rapporto fra
uomo e dio. Forma di accentuazione del sentimento nella fede religiosa che sarà una
delle componenti del romanticismo tedesco.
Ascolto: corale BWV 643 “Alle Menschen müssen sterben” (tutti gli uomini devono
morire). Corale gioioso/allegro. Il tema è alla voce superiore (superius) mentre le voci
inferiori lo ornano – corale ornato.
- Forme di libera invenzione (destinate a momenti più solenni della liturgia):
vengono presentati sempre in coppia/binomio ex. Preludio e fuga, toccata e fuga,
fantasia e fuga; abbiamo un primo brano libero dal punto di vista strutturale e più
virtuosistico (come nella toccata), mentre la fuga è una forma più formale e
assolutamente vincolata nella struttura. VEDI FUGA (prima entrata chiamata soggetto,
seconda entrata alla quinta chiamata risposta, terza voce nella tonalità d’impianto
chiamata di nuovo soggetto, nel caso di quattro voci ultima entrata di nuovo alla quinta
chiamata sempre risposta; mentre le altre voci entrano la pria voce enuncia un’idea
complementare chiamata controsoggetto, a ruota la seguono anche le altre voci; nel
mentre la prima voce esegue le cosiddette parti libere in attesa che tutte le voci
terminino l’enunciazione del soggetto/controsoggetto; il tutto è basato su un impianto
tonale – diverso dal contrappunto del ‘500; la fuga è tripartita esposizione nella
tonalità d’impianto, elaborazione alla dominante, nella parte finale abbiamo il ritorno
nella tonalità d’impianto; nella part centrale troviamo dei divertimenti, chiamati così
perhè divergono dalla tonalità d’impianto – la fuga può essere definita una grande
cadenza trattata contrappuntisticamente. Forma architettonica/costruita che fa da
bilanciamento alla prima parte).
Ascolto: Toccata e fuga in Fa M BWV 540, molto virtuosistica; esposizione iniziale in
semicrome dei due manuali mentre la pedaliera ha un pedale (in senso musicale – nota
tenuta) di tonica, in seguito comincia l’esposizione delle semicrome della pedaliera
(momento di grande virtuosismo). In seguito all’esposizione abbiamo una sezione
molto dinamica in stile a terrazze costituita da progressioni di un disegno di sestine
spesso anacrusiche che atterrano su un accordo. In seguito a questo momento
troviamo la fuga che ci riporta a uno stile più severo.

La produzione concertistica:

- Sei concerti brandeburghesi composti a Koethen nel 1721


Il titolo dei concerti non è di Bach ma del suo primo biografo Spitta, perché
nell’autografo dei concerti vi è una dedica al principe margravio (un principe di
confine) di Brandeburgo. Non si sa a cosa sia finalizzata tale dedica, anche perché
l’orchestra del margravio non contava l’organico in partitura e inoltre non vi sono
segni di usura sul manoscritto, confermando che non furono mai eseguiti nella corte
del dedicatario. Si pensa che questo margravio fosse parente del grande elettore di
sassonia e che bach volesse in qualche modo arrivare a lui.
Il vero titolo dato da Bach ai concerti è “ six concerts avec plusieurs intruments”. Il
titolo è descrittivo di una delle caratteristiche dei concerti, ovvero la ricchezza di
organici dei concertini (soli). I nn 1, 2, 4 sono concerti grossi (ex. concertino del n 1 - 2
corni da caccia, un fagotto, un oboe e un violino piccolo - terzgeige - ); i nn 3 e 6
concerti di gruppo (tutti suonano continuativamente – composizione meno
concertante. Questa composizione convergerà presto in una nuova composizione che è
la sinfonia, la cui caratteristica è proprio mancare del “concertare”); n 5 – I movimento
concerto grosso (violino, flauto traverso, cembalo – lo strumento di fondamento per
eccellenza diventa strumento concertante e a fine movimento prorompe in una lunga
cadenza di 65 battute per cembalo solo), II movimento - adagio di una sonata a tre, sul
tacet di tutti gli strumenti rimane solo il concertino, III movimento - allegro di
concerto solistico (triplo concerto). La seconda caratteristica di questi concerti è che si
pongono come vetrina di tutte le possibilità del genere concerto.
Ascolto: concerto brandeburghese n 2, I movimento (alternanza dei soli dei solisti
prima da soli e poi due a due fino a tornare tutti e 4 (tromba piccola, flauto, oboe e
violino) in batteria).
Ascolto: concerto brandeburghese n 5 più trasparente nell’aspetto strutturale, si sente
chiaramente il ritornello fino ad arrivare al solo del cembalo.

GEORG FRIEDRICH HAENDEL

Halle 1685 – Londra 1759

Contrapposto dalla storiografia a Bach in quanto concettualmente opposti: Bach uomo di fede
non si accostò mai al teatro, a differenza di Haendel che puntò tutto sul teatro. A differenza di
Bach inoltre H. viaggia spesso e cambia spesso lavoro. Fa un viaggio di formazione, Bach
impara lo stile concertante trascrivendo Vivaldi mentre Haendel va direttamente in Italia e
impara direttamente da Corelli. È quello che va più vicino a una libera professione rispetto a
tutti i musicisti/compositori del barocco.

Vita e formazione:

– dopo essersi formato come cantore e in seguito divenuto organista nella sua cattedrale,
preferisce retrocedere lavorativamente per andare a fare il violinista di ripieno al
teatro di Amburgo (il teatro di Amburgo aveva tentato un esperimento fallimentare di
teatro in tedesco, in quanto non era stato creato un nuovo stile ma semplicemente
opere in tedesco di autori tedeschi in stile italiano). Presto diventa maestro di concerti
e questo contesto (1703-1706 ad Amburgo) scrive la sua prima opera “Almira”. 1706-
1710 lascia Amburgo per andare in Italia (Firenze Roma Napoli Venezia). A Roma
viene allestito il suo oratorio “la Resurrezione” diretto da Corelli. A Venezia compone la
sua seconda opera italiana “Agrippina”. 1710 torna in Germania e diventa kapelmeister
ad Hannover. Haendel punta a Londra. *act of settlement alla morte della regina
sarebbe salito al trono il principe di Hannover. Tre anni dopo il principe diventa
Giorgio I d’Inghilterra. Già nel 1711 Haendel aveva avuto successo a londra con la sua
opera “Rinaldo”. Nel 1714 approda stabilmente a Londra, e lì diventa direttore artistico
della royal academy of music che gestiva le rappresentazioni operistiche del teatro di
corte e successivamente di covent garden. Si impone l’opera italiana a Londra (sebbene
in Inghilterra avessero la loro tradizione teatrale), insieme ai castrati scritturati da
Haendel direttamente in Italia (in Inghilterra i castrati erano ritenuti immorali) e
anche le prime donne del momento. Momento di crisi nel 1728 a causa della
rappresentazione di “The beggar’s opera”, (opera del mendicante) che appartiene al
genere della ballad opera (come l’opera comique/singspiel era uno spettacolo recitato
che aveva pezzi chiusi cantati all’interno del dramma, che in questo caso erano le
ballad del repertorio etnofonico). Presentava una satira molto forte contro l’opera
italiana. Il successo di questa ballad opera di John Gay e Christian Pepush causò il
fallimento della royal academy. Haendel rileva a sue spese le azioni della academy e la
riapre a proprio nome e ha un’idea. Durante il periodo di quaresima, dovendosi
interrompere gli spettacoli teatrali, lui continua la stagione operistica scrivendo oratori
in lingua inglese, spostando l’attività su un altro genere. Nell’intervallo tra la prima e la
seconda parte degli oratori inserisce concerti per organo e orchestra con lui come
esecutore (ne compone 18). Tale produzione culmina con l’esecuzione a dublino nel
1742 del “Messiah” (prima standing ovation della storia dopo l’halleluja). Haendel è un
genio della melodia e dell’eufonia.

Composizioni:

- 40 opere (Giulio Cesare, 1724)


- 21 oratori
- Musica celebrativa in forma di suite (ex. firework music composti per la pace di
Aquisgrana; watermusic)
- Suite di musica da camera
- Scrive concerti grossi (op 1, 3, 6 – il numero 3 è pubblicato come concerto per oboe
sebbene nel concertino vi siano due oboe e un violino)

Ascolti: concerto op 3 n 1 – tripartito; allegro: tecnica del ritornello. Anche il cembalo


entra nel gioco del concertino. Adagio: concertino 2 flauti a becco, oboe I e 2 fagotti,
fiati legati all’immaginario pastorale, vuole richiamare dunque a un senso di
natura/pace, nel corso del largo si aggiunge anche il violino. Allegro finale: oboi I e II,
violino, fagotti I e II.
Ascolti: concerto per organo n 13 “il cucù e il pettirosso”, larghetto introduttivo e poi
allegro vero e proprio, andamento a terrazze con botta e risposta di organo e orchestra
che imitano il verso degli uccelli.

Messiah:

- Esempio massimo dei suoi oratori. Eseguito a Dublino nel 1742. Libretto scritto dal
poeta Jennens combinando passi dai profeti, vangeli, lettere di san paolo e prayer book
della chiesa anglicana, in modo da costruire un glorioso affresco diviso in tre parti: la
profezia e l’incarnazione di cristo, la passione e la resurrezione (il famoso halleluja si
trova a conclusione della seconda parte), e infine il futuro della chiesa e la sua funzione
nel mondo (questa è la parte più celebrativa e retorica dell’intero oratorio). Essendo
noti a tutti gli eventi narrati, questo oratorio presenta un’anomalia, ovvero la
mancanza di un historicus, e nemmeno dei personaggi in senso stretto, ma solo dei
registri vocali. È l’unico oratorio di Haendel basato sul nuovo testamento.
Musicalmente troviamo 52 brani + un’overture alla francese (grave + allegro fugato),
dei quali 16 arie e 21 cori, cori scritti secondo la tradizione dell’anthem (1500), un tipo
di mottetto inglese rinascimentale caratterizzato da ricchezza strumentale e grande
solennità. Gli altri brani sono dei recitativi. Presenta dunque forme mutuate dall’opera
(recitativi e arie) e in più i cori caratteristici dell’oratorio. Il Messiah va avanti per
grandi pannelli, dove spesso recitativo, aria e coro presentano le stesse scene e sono
l’uno il conseguente dell’altro. Carattere eufonico e fluidità ritmica della composizione
di Haendel, presente anche nei recitativi.
Ascolto: overture
Ascolto: primo recitativo accompagnato e aria (A-A’) per tenore (tratto dal profeta
Isaiah) nell’aria troviamo il segno miracoloso (segni della manifestazione di Dio)
Ascolto: primo coro – conseguenza dell’apparizione dei segni miracolosi.
Ascolto: coro “Halleluja” (n 42); in questo coro sono combinate tutte le figure retoriche
della ripetizione, creando ridondanza/enfasi portando a un effetto psicoacustico che
agisce sull’ascoltatore: quando la ripetizione (nel coro) e data a voci diverse si tratta
anche di un espediente contrappuntistico e viene definita polyptoton e ha una funzione
più strutturale. Quelle che hanno funzione di potenziamento semantico sono l’anafora
(ex musicale: ostinato), epizeusi (ripetizione dello stesso segmento a un intervallo di
quarta), gradatio/climax (ripetizione di uno stesso segmento salendo di grado a ogni
ripetizione, portando l’attenzione dell’ascoltatore a un apice). Un’ultima figura che non
riguarda la ripetizione è il silenzio improvviso, chiamata aposiopesi, che crea stupore e
tensione nell’ascoltatore.

L’ OPERA (SERIA) DEL ‘700

L’opera nasce a Firenze nel contesto del teatro di corte nel ‘600, si espande nelle altre corti
(Mantova con Monteverdi, Roma per l’opera barberiniana). Nel 1637 nasce a Venezia il teatro
pubblico a pagamento e Venezia diventa il faro di programmazione dell’opera nel ‘600,
diventa il primo business legato all’arte. Nel ‘700 il nuovo centro di produzione di opere è
Napoli, sebbene ormai l’opera sia divenuto un genere policentrico, in quanto ogni città
possiede il proprio teatro e la propria stagione, divenendo un aspetto importante della vita
sociale e culturale di questo secolo. A napoli abbiamo anche un aumento dei conservatori, che
non sono più solamente istituti in cui venivano accolti gli orfani, ma vengono aperti anche a
studenti paganti, divenendo delle vere e proprie accademie di musica. Perciò molti
musicisti/compositori del sud italia convergono a napoli (ex Alessandro Scarlatti, da
Palermo). Napoli diventa anche centro di formazione per operisti. Per questo motiva l’opera
italiana del ‘700 viene definita opera “napoletana”. Il successo dell’opera italiana si estende
all’estero (dall’est-europa con gli zar russi alla penisola iberica), senza però distinguere
l’opera veneziana da quella napoletana. Con la nascita dell’opera comica nei primi anni del
‘700 questo primo genere verrà definito opera “seria”. Oggi si parla anche di opera
panitaliana, includendo nella categoria di opera italiana anche quelle opere composte in
italiano ma da autori stranieri quali: Hasse, Haendel e Mozart.

Il teatro d’opera era già dal ‘600 luogo di aggregazione e di socializzazione: nei teatri non
venivano rappresentate solo opere ma anche pastiche, ovvero spettacoli con arie famose,
balletti, festeggiamenti. Le rappresentazioni operistiche erano perciò assai diverse dal modo
in cui oggi le concepiamo (solenni e in un luogo rispettoso). Questo era dovuto anche alla
bipartizione delle scene in recitativi (attivi) e arie (pezzi chiusi e di bravura), e perciò
l’attenzione degli ascoltatori si concentrava maggiormente sul polo musicale di maggior
rilievo e bellezza, portando anche a una depauperazione dell’importanza della trama. Questa
tendenza all’inizio del ‘700 è potenziata proprio nel tentativo di risolverla.

“Riforma” di Apostolo Zeno e Pietro Metastasio

- Prassi librettistica che porta delle conseguenze anche in musica: il libretto prefigurava
come il compositore avrebbe scritto. I librettisti (ex olimpiade di Metastasio) davano
peso alla diversa versificazione dei dialoghi tra i personaggi, e ciò obbligava il
compositore a scrivere un recitativo diversamente da un’aria con da capo per un
determinato passo e viceversa (aria con da capo ABA’, aria strofica AAAA, aria con
refrain AxAxAx, aria bipartita amlpiata ABB’). Nel ‘700 si cristallizza la forma di aria col
da capo ABA’, poiché la più funzionale agli stili di bravura dei cantanti e dei castrati. Le
variazioni/abbellimenti dell’A’ avrebbero dato la possibilità all’interprete di dar
mostra di sé, ma sempre però nello spirito dell’aria per non stravolgerne il
contenuto/gli affetti. Zeno e Metastasio così facendo imprimono al libretto lo spirito
della nuova età illuministica. Nel 1690 era nata in tutta italia una rete di accademie, le
accademie dell’arcadia, e i letterati di queste accademie proponevano l’ideale
illuministico in poesia contro alla ridondanza e al concettismo barocco ricco di
metafore, le espressioni spesso oscure. Schematizzazione/razionalizzazione del
libretto:
ritorno all’unità d’azione; pochi personaggi tutti principali; moralizzazione della trama,
ovvero portatrice di una morale per il pubblico; ambientazione sempre neoclassica che
andava a rimarcare la magnanimità dei potenti. Nella struttura abbiamo una rigida
rotazione delle arie e dei personaggi (non potevano esserci due arie dello stesso
personaggio di seguito). Inoltre non potevano esserci due arie della stessa tipologia
una dopo l’altra, vale a dire aria situazionale o aria tecnica: l’aria con catene era un tipo
di aria situazionale ad esempio, l’aria del sonno, nel quale il personaggio parla mentre
dorme dando importanti snodi per la trama, o l’aria di similitudine, nella quale il
personaggio paragona le proprie sensazioni alla natura, o la scena d’ombre nel quale è
presente il sovrannaturale; l’aria tecnica può essere un’aria di bravura, fino ad arrivare
all’estremo dell’aria di coloratura. Oltre a ciò, Metastasio, all’interno di ogni scena
(unità drammaturgica sancita dall’entrata e uscita dei personaggi) egli prevede
SEMPRE prima un recitativo e poi un’aria, portando a una frammentazione totale
dell’opera, e a una prevedibilità di dove sarà l’aria, andando così a declassarlo secondo
gli intellettuali dell’epoca, in quanto il teatro (che sia esso recitato o cantato) dovrebbe
essere in primis letteratura potenziata dalla musica, mentre in italia era divenuto una
vetrina per belle arie e per i cantanti che mettevano in mostra le loro doti. Si accentua
così ancora di più il disvalore dell’opera. C’è il paradosso che secondo Metastasio il suo
prototipo di opera sia quello duraturo (Metastasio scrive una Didone e leggenda vuole
che sia stata messa in musica più di 800 volte), ma il pubblico ogni volta che sente una
didone non pensa che sia la Didone di Metastasio, ma la Didone del musicista o
compositore o cantante che in quel momento sta cantando. Tutto ciò va contro agli
ideali dell’origine dell’opera delle camerate fiorentine, che prevedevano la musica
come potenziamento della parola.
I più importanti compositori di opera italiana del primo ‘700 sono: Alessandro Scarlatti
(1660-1725) definito il padre dell’opera napoletana, padre di Domenico Scarlatti.

- Innovazioni di Alessandro Scarlatti: introduzione dell’orchestra (concerto grosso)


all’interno dell’opera; introduzione della sinfonia avanti l’opera o all’italiana (simile
all’ouverture francese, quella italiana però prende il suo schema dal concerto nella
forma allegro-adagio-allegro ma senza soluzione di continuità), e ha funzione soltanto
segnaletica (ha un carattere un po’ di fanfara); stessa funzione è data ai ritornelli
strumentali che precedevano le arie; grazie a scarlatti nasce il recitativo accompagnato
dall’orchestra, utilizzato nei momenti di massima tensione al posto del recitativo secco;
infine Alessandro Scarlatti introduce dei pezzi d’insieme in finale d’atto che però non
hanno funzione dialogica, definiti “concertati”.

Altri autori sono: Nicolò Porpora, Leonardo Vinci, Leonardo Leo, Francesco Feo, Domenico
Sarro, GB Pergolesi (1710-1736). Nella seconda metà del ‘700 troviamo: Traetta, Piccinni,
Cimarosa, Paisiello.

Caratteristiche dell’opera del ‘700:

- Le voci dei protagonisti sono tutte nel registro acuto, ovvero per soprani e contralti.
Questo perché la monodia accompagnata era nata concependo concettualmente lo
spazio tra il continuo (l’accompagnamento) e il canto solistico. Perciò anche i
protagonisti uomini saranno nel registro acuto e saranno cantati da una donna, da un
falsettista artificiale o da un falsettista naturale (castrati/evirati).
- Carlo Broschi Farinelli – castrato più importante (fonte di Charles Burney: a Vienna
racconta che il principe Carlo VI aveva dato un importante insegnamento a farinelli, in
quanto il suo canto non commuoveva ma lo definiva solamente sorprendente); andò
anche in Inghilterra.
Ascolto: arie tratte dal film del 1994 “Farinelli voce regina”: lascia che io pianga,
Haendel; son qual nave.

Questo tipo di opera era irreale (regno dell’irrealtà) e tranquillizzante, in quanto aveva un
lieto fine. L’irrealismo era anche rafforzato dalla differenza di genere tra personaggio e voce
del personaggio, dall’arresto del tempo psicologico nell’aria col da capo, dall’irrealismo della
recitazione (i cantanti non entravano nel personaggio). Noi sappiano tutto questo da uno
scritto satirico del veneziano Benedetto Marcello “il teatro alla moda” del 1715.

- “Giulio Cesare” di Haendel (Londra 1724).


Siamo in Egitto, l’indomani della sconfitta inferta da Cesare a Pompeo; Pompeo si è
rifugiato in Egitto dove i due fratelli regnanti (Cleopatra e Tolomeo) vorrebbero l’uno
la sconfitta dell’altra, e vedono nell’arrivo di Cesare trionfante un’occasione per farsi
legittimare come unico regnante d’Egitto. Tolomeo uccide Pompeo (che si trova lì con
moglie e figlio) per ingraziarsi cesare, mentre Cleopatra vuole sedurre Cesare, e lo
convince a recarsi a un appuntamento di notte, dove cesare sente una musica
(diegetica, ovvero in scena con funzione realistica), e compare cleopatra cantando.
Infine i due si innamorano, il figlio di Pompeo uccide Tolomeo per vendicarsi e
Cleopatra resta l’unica Regnante.
Aria con catene di cleopatra.

TEATRO E OPERA COMICA DEL ‘700

Biforcazione dell’opera italiana in opera seria e opera comica. La nascita del teatro comico
avviene per poligenesi culturale, non nasce in un solo luogo, ma contemporaneamente a
Venezia e Napoli in due maniere diverse: a Venezia nasce sotto forma di intermezzi fra gli atti
di un’opera seria (non vi è rapporto fra le due storie rappresentate né tantomeno fra i
personaggi, perciò gli spettatori assistevano contemporaneamente alla messa in scena di due
spettacoli); a Napoli nasce sotto forma di commedia musicale completa, a sé e non legata a un
altro spettacolo. Dietro la nascita del teatro comico c’è la stessa retorica illuministica che
aveva condizionato le scelte di Zeno e Metastasio, in modo tale da modificare profondamente
l’opera del ‘700. Per quegli stessi principi di razionalità perciò viene sentita grottesca e di
cattivo gusto la combinazione di serio e comico nell’opera (sin dall’opera romana) tramite
l’introduzione delle scenette comiche, frequenti nell’opera veneziana (sempre messe in scena
da personaggi secondari e mai dai protagonisti, spesso anche per rimarcare la differenza
sociale dei personaggi).

- A Venezia: già alla fine del ‘600 si era presa l’abitudine di posizionare le scenette
comiche alla fine dell’atto, di modo che i comici si esibivano in proscenio, mentre si
poteva cambiare la scenografia sul retro, in quanto non c’era il sipario. Così Metastasio
cancella dai libretti d’opera le scenette comiche. La prima testimonianza di intermezzi
comici a Venezia risale al 1707, grazie ai registri della censura. Grazie a questi noi
abbiamo una datazione precisa di tutte le opere messe in scena.
- A Napoli la prima rappresentazione di opera comica è del 1709 con “Patrò calienno de
la costa” (a Napoli sono commedie in dialetto napoletano). Verso il 1720 le opere
comiche napoletane dividono i personaggi in personaggi servili che si esprimono in
dialetto napoletano e personaggi più elevati socialmente (ma mai aristocratici) che si
esprimono in italiano (viene riproposta una classificazione classista).
- Intorno al 1730 abbiamo una convergenza dei due stili (vince la rappresentazione
dell’opera comica a sé stante) e raccoglie la tradizione sia degli intermezzi veneziani
sia della commedia musicale napoletana, ma anche la commedia dell’arte (teatro
comico recitato nato nel ‘500 basato sull’improvvisazione su dei canovacci con
l’abbondanza di “maschere”) e anche la commedia scritta, della quale in italia abbiamo
una tradizione più libresca e non strettamente collegata al mondo del palcoscenico (ex
la mandragola di Machiavelli, che non scrive per essere messa in scena). Dopo il 1730
abbiamo l’esordio come librettista di Carlo Goldoni (veneziano), e la prima delle sue
opere è musicata da Vivaldi (perduta). La prima che ci arriva è “la contessina” di
Goldoni-Maccari. Al teatro san samuele la compagnia che mette in scena la contessina è
una compagnia di attori e non di cantanti, ma cantarono. Sin dalle origini abbiamo
perciò differenza tra cantante dell’opera comica e cantante dell’opera seria.
Caratteri dell’opera comica:

- Sceglie dei soggetti/ambientazioni diversi rispetto all’opera seria, che in questo


periodo è di ambientazione neoclassica soprattutto con Zeno e Metastasio (scelgono
personaggi dell’età imperiale o alessandrina); nell’opera comica i personaggi sono
borghesi o popolani contemporanei al pubblico, c’è aderenza alla realtà che fa sì che i
registri vocali siano verosimili, non si hanno castrati ad esempio, non solo perché la
natura delle arie in un’opera comica non si basa sui virtuosismi, ma perché questa
ambientazione contemporanea porta con sé un’esigenza di realtà, realismo, aderenza
alla natura (a ciò che avviene naturalmente e senza finzione/artificiosità). C’è per la
prima volta corrispondenza fra genere sessuale del personaggio e genere
dell’attore/cantante. Seconda caratteristica è che l’opera comica deve far ridere, per
poter ridere la competenza del cantante deve spostarsi dalla bravura nel cantare alla
bravura attoriale, in quanto deve essere in grado di strappare la risata al pubblico,
deve avere una bella mimica/gestualità, tutto questo magari anche a scapito della
brillantezza vocale. I cantanti vanno così a specializzarsi in basi al tipo di stile richiesto
(se opera seria o opera comica). Nascono degli stereotipi musicali dell’opera comica
quali: il sillabato buffo. Le arie tendono ad essere disadorne e non più col da capo e ad
avere forma diversa (a-a’-b), essendoci bisogno di realtà l’aria col da capo (che ferma
l’azione) è sostituita dalla forma precedente, in quanto si ha esigenza di evoluzione
nell’azione (da un a si passa a un b). nell’opera comica comincia ad esserci uno scavo
psicologico dei personaggi: differenza tra opera buffa e opera comica basandosi sulla
stessa produzione drammaturgica di Goldoni: passa dalla commedia d’intreccio
(maschere) alla commedia di carattere (l’attenzione si sposta sulla dinamica dei
sentimenti che si producono nelle circostanze) con personaggi realistici. La differenza
tra opera buffa e opera comica: nella prima l’azione è data dall’intreccio, nella seconda
dalla crescita psicologica dei personaggi dettata dalle circostanze. Nel corso del ‘700 si
fa strada nell’opera comica una sfumatura sintomo anche del preromanticismo che è
l’accentuazione del sentimentalismo. Ci sono momenti in cui i personaggi soffrono
poiché sottoposti a circostanze avverse, che si risolveranno sempre. A fine ‘700
quest’opera viene definita lacrimevole o semi-seria. Per quanto riguarda l’aspetto
musicale, la partitura è molto più semplice, le melodie si muovono spesso per grado
congiunto, anche perché i cantanti sono meno abili, l’orchestra è più scarna, con gli
arche che spesso raddoppiano le voci anche per aiutare i cantanti. Vi è un’importante
differenza tra opera seria e opera comica: nella prima Alessandro Scarlatti aveva
inserito a fine atto dei concertati, ovvero dei pezzi chiusi che riproponevano in scena i
personaggi che si atteggiavano coerentemente a quanto cantato ciascuno nella propria
aria. Erano perciò momenti statici. Nell’opera comica la natura del concertato tende a
cambiare divenendo dialogico/dinamico, e quindi i personaggi si rapporteranno
realmente in scena, portando avanti l’azione.

- “La serva padrona” di Giovanni Battista Pergolesi; l’autore si forma a Napoli, scrive per
violoncello, uno “stabat mater”, una produzione strumentale meno nota. Scrive 5 opere
serie e 2 opere comiche, più vari intermezzi comici. La serva padrona viene composta
come intermezzo, rappresentata durante l’opera seria “il prigionier superbo” 1733 a
Napoli. Abbiamo 2 personaggi cantanti: Uberto e Serpina. Un terzo personaggio,
Vespone, è muto e si muove solamente in scena. Serpina è il prototipo
dell’intelligenza popolare che tiene in smacco la stupidità delle classi alte, importante
tema del ‘700 che andrà a sfociare nella rivoluzione francese (Beaumarchais trilogia
del 1782 da cui sono tratti il barbiere di siviglia di rossini, le nozze di figaro di Mozart,
basata sul personaggio di figaro, che è sempre più intelligente). In Pergolesi Serpina è
intelligente: fa leva sul sentimento, poi sull’avarizia di Uberto.
Ascolto: inizio secondo intermezzo. Struttura dell’aria di Serpina: A-A’ – cambia solo il
piano tonale, subito il da capo, poi abbiamo la parte B; gli A/A’/B presentano degli “a
parte”. Abbiamo 2 sestine di ottonari, ciascuna divisa in un larghetto e in un allegro. La
parte B è tutta in sol minore ma presenta la medesima divisione larghetto/allegro.

Opera comique

Nel 1752 viene rappresentata a Parigi la serva padrona, e gli illuministi guidati da Rousseau
prendono questa operina come perfetto esempio di realismo e naturalezza, spontaneità e
semplicità, che per loro erano specchio e rappresentazione di razionalità. Rispetto alla
tragedie lyrique, genere che era stato continuato da Rameau (vedi trattato di Rameau su
armonia 1722), il quale aveva introdotto nella tragedie lyrique una maggiore cura
dell’orchestrazione/timbrica e una maggiore ricchezza armonica, caratteristiche che
rimangono stabili nella produzione francese fino al ‘900 (querelle fra lullisti e ramisti), gli
illuministi contrappongono la serva padrona di pergolesi come sempio di opera comica, e
abbiamo una seconda querelle tra buffonisti e antibuffonisti, sostenuti dal re. Vincono gli
antibuffonisti. Nel 1757, les buffons (la compagnia che aveva messo in scena la serva padrona)
torna a Parigi e si fondono con una compagnia di teatro recitato chiamata “theatre de la foire”,
e dalla fusione di queste compagnie nasce un tipo di opera comica francese chiamata “opera
comique”, che ha una lunga storia (ex Carmen di Bizet). Questa opera in francese ha al posto
dei recitativi delle parti recitate, come nella ballad opera inglese e al singspiel tedesco-
austriaco. Ci sarà una terza querelle nel 1770 tra gluckisti e piccinnisti (1774).

RIFORMA DI GLUCK (1714-1787)

Riguarda l’opera seria italiana. Fa una riforma vera e propria che esprime attraverso uno
scritto teorico, insieme a dei collaboratori (a Vienna). Lì entra in contatto con la cerchia del
teatro imperiale, il ci sovrintendente è Giacomo Durazzo, che viene coinvolto nel progetto,
insieme a Ranieri de’ Calzabigi (poeta) e a Gasparo Angiolini (coreografo di corte). Questa
riforma riguarda solamente l’opera seria per far fronte ai problemi riscontrati fino ad allora
(frammentarietà dell’opera, discontinuità dell’attenzione del pubblico, divismo dei castrati),
che non sussistevano nell’opera comica. Scrive delle cosiddette “opere riformate”, la prima
delle quali del 1762 si intitola “Orfeo ed Euridice”, cui segue nel 1767 “Alceste”, e nella prima
stampa dell’Alceste Gluck scriverà una prefazione nella quale esporrà i punti cardine della sua
riforma. Segue una terza opera riformata del 1770 “Paride ed Elena”. Dopo Vienna (il gruppo
si era sciolto) va a vivere a Parigi, non senza una certa pubblicità, e anche lì applica una
riforma al corrispettivo dell’opera seria, ovvero la tragedie lyrique, andando a incidere sulla
presenza invadente e prepotente della danza. Oltre a comporre dei rifacimenti in francese del
suo Orfeo e Alceste, scrive anche delle opere originali in francese: “Iphigenie en Aulide”,
“Iphigenie en Thauride” e “Armide” (1777).

Prefazione all’Alceste:

- Gluck si è prefisso di spogliare l’opera di tutti quegli abusi dipesi dalla vanità dei
cantanti o dalla troppa compiacenza dei maestri, rendendolo ridicolo uno spettacolo e
noioso. La musica deve avere come scopo il servire la parola (poesia) per seguire la
narrazione (le espressioni e le situazioni della favola) senza interrompere l’azione o
rallentarla con inutili ornamenti. Ribadisce perciò un principio molto antico che si
prefissava di creare un plusvalore musicale rispetto a un testo letterario. Il criterio
adottato da Gluck non è più solamente di ordine musicale ma drammatico, a Gluck sta a
cuore la coerenza, il ritmo drammatico. Gli ornamenti di cui Gluck parla erano
fortemente connessi all’aria col da capo, che non solo si prestava a mettere in mostra la
bravura del cantante, ma bloccava la narrazione, tornando alla situazione psicologica
del personaggio con cui la scena era iniziata senza avere uno sviluppo.
Dopo questa breve introduzione Gluck pone in esame degli aspetti tecnici: 1) il primo
riguarda la dicotomia recitativo-aria, aumentato dalla prevedibilità dovuta a
Metastasio della successione recitativo-aria. Lui pensa di creare delle arie con schemi
sempre diversi (non vi è più l’aria col da capo), asimmetriche e irregolari, dove non è
prevista l’aggiunta di abbellimenti estemporanei. Inoltre eleva il recitativo rendendolo
ben scritto, piuttosto drammatico, evitando perciò il recitativo secco ma sempre
accompagnato dall’orchestra.
2) La sinfonia introduttiva non deve semplicemente avvertire gli spetattori, ma deve
già contenere la sfera drammatica dello spettacolo che si sta per rappresentare. Questo
segna un passaggio fondamentale che renderà la sinfonia d’opera da puramente
segnaletica a sinfonia semantica, cioè che porti dei significati inerenti al dramma, che
ne contenga l’atmosfera.

4) Gluck riformerà anche l’orchestra, che non sarà più concertante ma sinfonica,
puntando più sull’amalgama e sulla pienezza dei timbri che sulla loro
contrapposizione.
3) La scrittura di cori/balletti deve essere circoscritta a una funzione diegetica. Da ciò
avrà origine il balletto vero e proprio (prima a vienna nascerà il coreodramma, e da
questo si passerà al balletto romantico).
5) Rigoroso richiamo all’unità d’azione, con pochi personaggi: nell’Orfeo ed Euridice si
hanno solo tre personaggi principali, ovvero Orfeo, Euridice il dio Amore, che fungerà
da deus ex machina. Si hanno poi dei personaggi collettivi, quali le furie che tentano di
impedire che Orfeo possa discendere negli inferi, o gli spiriti magni, situati nei campi
elisi, che lo accompagnano da Euridice.
Troviamo poi dei principi puramente illuministici, che non aggiungono aspetti tecnici,
ma che danno la chiave di lettura di ciò che Gluck fa, ovvero cercare la “bella
semplicità”, evitare la difficoltà in favore della chiarezza.
- Ascolto: Orfeo ed Euridice atto II, scene I-II. Discesa di Orfeo nell’Ade. Si ha una breve
sinfonia che crea orrore (qui per la prima volta i corni hanno una funzione suggestiva e
non solo tonale) e segue il ballo delle furie. Si sente la lira di Orfeo che tenta di passare.
L’aria di Orfeo è spezzata in tre parti (ABB’) intervallata dalle entrate del coro (furie)
che comincia a nutrire un affetto strano (soggiogati dal canto di Orfeo) e danno ordine
che le porte dell’Ade si aprano. Inizia la seconda scena. Abbiamo una introduzione
strumentale dominata dai legni che si ricollegano al concetto pastorale (Orfeo sta per
passare nei campi elisi). Qui troviamo un’aria sui generis, nella quale la melodia è
lasciata all’orchestra sulla quale Orfeo canta i suoi spezzoni/versi. Alla fine il coro
annuncia Euridice. Paradossalmente Orfeo è ancora un castrato.

LO STILE GALANTE (1740-1770)

Tra barocco e classicismo abbia una fase di passaggio che prende il nome più da una tendenza
di gusto che domina l’Europa a metà ‘700 che viene chiamata stile galante. La parola galante
indica un fenomeno di costume, un modo di comportamento “da salotto” che consisteva in
modi garbati e cerimoniosi, con battute più argute che ridicole, in una raffinatezza dunque di
modi che era propriamente quella della cortesia cavalleresca, lontano dalle passioni che si
affermeranno con lo sturm und drang, ovvero il preromanticismo. Questo stile si diffonde in
tutta Europa, nelle arti figurative può essere paragonato al rococò, e ha un suo marcatore di
stile molto chiaro nella musica. È un’espressione coerente con gli ideali che l’illuminismo
propugnava, infatti lo stile galante si fa portatore di valori di semplificazione della musica: si
ha la preminenza di una melodia accompagnata, semplice e molto orecchiabile, accompagnata
da una armonia quasi banale, e questo accompagnamento è spesso realizzato in ottave
spezzate o accordi sciolti e viene chiamato basso “albertino”, dal clavicembalista Domenico
Alberti che fu il primo ad utilizzarlo. Molto regolare è la fraseologia, legata a una parola chiave
di quell’epoca che è “conversazione”, al senso del discorso parlato, fatto di frasi, incisi, periodi.
Allo stesso modo questa melodia molto cantabile è chiaramente suddivisa in semifrasi, frasi e
periodi. Nasce così la quadratura fraseologica in musica. Questa semplicità delle melodia fa
emergere un aspetto che sarà di estrema importanza per lo stile classico, ovvero nasce il
concetto di tema, e quindi di sviluppo tematico. Quindi si arriva a una tecnica compositiva di
rielaborazione di tutte le implicazioni insite nel materiale musicale he vanno a sostituire la
fortspinnung (ripetizione continua, lo stile a terrazze del botta e risposta, progressioni) del
barocco. Un’altra delle parole chiave dello stile galante era dunque semplicità, contro la
complessità del contrappunto dello stile barocco. Abbiamo un secondo aspetto che
caratterizza questa fase di passaggio, che è la sensibilità, che diviene termine tecnico nel suo
termine tedesco “empfindsamkeit”. Il binomio galante-sensibilità non sempre lo si può
trovare negli stessi autori, in quanto ha anche una suddivisione geografica: è più galante ciò
che viene prodotto in Italia e nel sud della Germania/Austria, mentre è più nello stile della
sensibilità ciò che viene prodotto nella Germania del nord. Lo stile della sensibilità ci viene
descritto da C.P.E. Bach nel suo trattato “il vero modo di suonare gli strumenti a tastiera”. In
questo trattato troviamo per la prima volta una grande attenzione verso l’esecutore. Ne
esistono corrispettivi per tutti gli strumenti (importantissimo per il flauto è il trattato di
Quantz, quello per violino di Leopold Mozart). Aumenta inoltre il fenomeno del dilettantismo,
perciò c’è bisogno di trattati che insegnino non solo a suonare, ma che spieghino qual è il fine
ultimo dell’esecutore, ovvero muovere gli animi degli ascoltatori, bisogna puntare sulla
sensazione e sulla commozione.

- CPE Bach scrive che il virtuosismo non è il fine ultimo, in quanto un grande interprete
non deve saper stupire ma deve saper commuovere, suscitare sensazioni nell’uditore.
Inoltri scrive che un musicista non può commuovere se non è egli stesso commosso,
perciò dovrà provare le stesse sensazioni che vorrà suscitare nell’ascoltatore. Tutto ciò
dovrà sia essere ascoltato nell’esecuzione ma anche visto nella cinetica, quindi nei
movimenti dell’interprete. Il brano eseguito può essere anche manchevole di natura
espressiva, e in quel caso dovrà essere l’interprete capace di suscitare emozioni grazie
alla sua esecuzione. Nel caso in cui il compositore ha descritto determinati sentimenti
in un determinato brano, allora l’esecutore dovrà rendere proprie quelle sensazioni
per farle arrivare poi all’ascoltatore. Da questo stile della sensibilità scaturisce un
principio che può sembrare contraddittorio rispetto a quanto detto in precedenza,
ovvero il “redende prinzip”, riferendoci a una sorta di recitativo strumentale, utilizzato
soprattutto nelle fantasie da questi autori (fantasie di Wilhelm Friedemann Bach).
Questo recitativo strumentale dominato dal rubato (esecuzione ritmica che discosta
dall’esattezza dei vaolri ritmici segnati), è esattamente l’opposto della simmetria dello
stile galante.
Ascolto: sonata op I n 4 di Domenico Alberti, sonata n 5 di Galuppi, fantasia in Do min.
CPE Bach.
- Domenico Scarlatti (1685-1757) è uno dei massimi compositori per clavicembalo;
scrive circa 550 sonate a solo per clavicembalo, quasi tutte monotematiche e in un
movimento. È sia maestro dell’invenzione melodica, allo stesso modo grande curatore
della ricerca timbrica nelle tastiere. Porta molto avanti la tecnica dello strumento (ad
esempio con l’incrocio delle mani), e si ispira alla tradizione etnofonica della penisola
iberica (si parla infatti di iberismo di Domenico Scarlatti).
Ascolto: sonata n 17 K20 (L375) in Mi maggiore. Richiamo al discorso “armonia
gestore della forma”. La sonata è divisa in due parti con ritornello; si parte da una
tonalità d’impianto, melodia molto simmetrica, attraverso una transizione modulante
si arriva alla dominante, dopo il ritornello si riparte dalla nuova tonalità (quinto grado)
e si ritorna alla tonalità d’impianto.

CLASSICISMO (1781-1812)

Il classicismo viene fatto risalire da Adler al 1781 (licenziamento di Mozart dal servizio presso
l’arcivescovo di Salisburgo, divenendo libero artista durante il suo ultimo decennio viennese e
pubblicazione dei quartetti op 33 di Haydn), e termina nel 1812 (composizione della sinfonia
n 8 di Beethoven). Questi tre grandi autori compongono la prima scuola di Vienna, per
distinguerli dalla seconda scuola di Vienna (Schoenberg, Berg e Webern). La parola classico
sta ad intendere erroneamente qualcosa che è insuperabile, che è un modello assoluto
(erroneamente ci si riferisce col termine classico a tutta la musica erudita europea per
distinguerla dalla popular music, che sia essa una musica di consumo o popolare in senso
stretto). In senso specifico indica invece questo periodo storico. L’etimologia di classico viene
dal latino classicus, inteso come classe sociale, della quale poteva far parte solo chi possedeva
un reddito; in senso traslato la parola classico era andata ad indicare colui che è migliore.

Caratteri dello stile classico:

Nello stile classico troviamo 4 generi musicali, due preesistenti (sonata, concerto) e due di
nuova invenzione (sinfonia, quartetto).

- Il quartetto si va a sostituire alla musica polistrumentale del periodo barocco (sonata a


tre), che si caratterizzava per la spazialità/dicotomia tra parte acuta del registro e
quella grave, spazio riempito dagli accordi del basso continuo. Questo sbilanciamento
viene colmato dalla struttura del quartetto, la cui formazione standard presenta violino
I e II, viola e violoncello (la stessa struttura musicale si presenta anche in formazioni
analoghe di fiati, o trio o quintetto e con l’aggiunta del pianoforte), e la struttura
musicale di questa formazione può essere espressa con l’ideale bilanciamento sonoro
basato sulla parificazione espressiva delle parti (cit. Bissoli). Non c’è un vuoto centrale,
non è presente il basso continuo, le parti sono bilanciate poiché il materiale tematico
coinvolge tutte le parti. Questa maniera di comporre è stata chiamata elaborazione a
intarsio: il materiale tematico può essere suddiviso in elementi motivici, e questi
continuano a circolare fra le varie voci, combinandosi anche fra di loro in senso
orzzontale, e questo porta al ripescaggio dei processi polifonici (messi al bando dallo
stile galante in favore di una bella semplicità). Questo richiama la perfezione
palestriniana della polifonia vocale (lo stile a cappella di Palestrina nasce poiché non vi
era esigenza di strumenti di riempimento, in quanto nella polifonia palestriniana tutte
le voci sono equivalenti in cantabilità, bellezza e peso/personalità). Il quartetto del
tardo settecento può essere definito un “a cappella” di archi. Per questo si fa
cominciare il classicismo nel 1781, con la pubblicazione dei quartetti op 33 di Haydn.
Questi sono i primi a essere pubblicati da Haydn col nome “quartetti”, le pubblicazioni
quartettistiche precedenti vengono da lui chiamati “divertimenti”.

- La sinfonia ha un percorso che comincia con la sinfonia d’opera di Scarlatti. Nel 1730
un compositore milanese di nome G.B. Sammartini scinde la sinfonia dall’opera quale
brano introduttivo, e scrive delle brevi ma compiute sinfonie da concerto.
Parallelamente alla riforma di Gluck, che rende la sinfonia d’opera non più segnaletica
ma introduttiva degli argomenti/sensazioni dello spettacolo, la sinfonia milanese di
Sammartini ha la sua evoluzione nel campo della musica non operistica, e il suo
baricentro si sposta a Mannheim (Germania), dove il principe elettore della città
possedeva un’orchestra nutrita e con musicisti eccellenti, soprattutto nel reparto dei
fiati (basti pensare che Mozart, passato per questa città da ragazzino, penserà a questi
strumentisti quando scriverà i suoi concerti per strumenti a fiato). Si parla di orchestra
preclassica, poiché qui matura il passaggio da un ideale sonoro concertante a un ideale
sonoro sinfonica. Mentre nell’orchestra barocca gli strumenti non erano raggruppati in
base alla loro familiarità ma alla loro funzionalità (divisione tra soli e strumenti di
ripieno ex. violini soli e violini di ripieno), comportando un diversa stratificazione
dinamica (botta e risposta a masse sonore diverse, una più virtuosistica ma di meno
impatto sonoro con i soli, l’altra più presente sonoricamente che era il ripieno), invece
nel classicismo abbiamo gli strumenti raggruppati per famiglie e utilizzati nella
strumentazione in base alle loro analogie e non funzioni contrapposte. Questo
permette di lavorare sul timbro, sulle varie combinazioni timbriche,
sull’impasto/amalgama, sonorità morbida, si comincia così a parlare di sinfonico.
Questa evoluzione avviene nell’orchestra di Mannheim (testimonianza di Burney
parlando dei due compositore di corte Stamitz padre e figlio, parla delle varie
sfumature dinamiche dell’orchestra e della scrittura di Stamitz come se fossero colori).
- La macrostruttura di questi generi musicali è in quattro movimenti (tranne che per il
concerto in cui ne abbiamo tre): allegro/adagio/minuetto con trio/allegro finale
(spesso movimento di danza che chiude in grandezza).
- Si afferma una tipica microstruttura che è sempre nel primo movimento, a volte anche
nell’ultimo: la forma sonata. La forma sonata classica è tripartita (a differenza della
sonata barocca che era monotematica bipartita, ex scarlatti):
esposizione://:sviluppo/ripresa://. L’esposizione presenta due temi (per questo la
forma sonata classica è bitematica), il primo nella tonalità d’impianto e il secondo alla
dominante, che spesso può essere composto da più sezioni tematiche (ex sonata n 5
Haydn). Per passare dalla tonalità d’impianto alla dominante c’è un ponte modulante,
spesso diviso in più parti; spesso c’è una coda nell’esposizione. Nello sviluppo abbiamo
instabilità tonale (non tocca le due tonalità polari), il materiale viene elaborato, a volte
presentando una falsa ripresa, subito smentita. La ripresa presenta sia il primo che il
secondo tema entrambi nella tonalità d’impianto. È una struttura perfettamente
illuministica nella sua chiarezza (ripresa del controllo subito dopo l’instabilità dello
sviluppo). La forma sonata probabilmente prende questo nome perché nata nella
sonata barocca (il principio di armonia gestore della forma ha permesso un
ampliamento dell’idea nata nella sonata barocca). Tutto questo è reso possibile
dall’emersione del concetto di tema, nato grazie alla semplificazione e quadratura
imposta dalla fase galante, poiché per poter esserci il godimento estetico causato dal
mescolamento di carte dello sviluppo, questi temi devono essere ben definiti, dei
personaggi ben identificati, altrimenti si perderebbe il piacere del cambiamento in
rapporto a qualche cosa di già noto all’ascoltatore. Il tema deve essere ben scritto e
molto personale in modo da assicurare una pregevole tecnica dello sviluppo tematico,
grazie alle possibilità tema che si è creato (con Beethoven assisteremo al concetto di
“antagonismo” dei temi, che non saranno solo estremamente ben delineati ma anche in
netto contrasto fra loro). La forma sonata è stata in qualche modo assolutizzata in un
unico modello, sebbene ne esistessero in realtà vari: lo studioso Charles Rosen ha
infatti constatato che non esistesse soltanto questa formula, ma che nel ‘700 c’è molta
libertà nel trattare questo genere, basandosi sempre sul contrasto tematico e la
bipolarità tonale. Questa assolutizzazione della forma sonata è stata propugnata da
trattatisti del periodo romantico quali Marx e il più ben noto Czerny, influendo su di
loro l’idea fissa romantica del genio, per cui vi era bisogno di affermare che esistesse
un unico modello descrittivo per poter meglio far emergere il sovvertimento operato
dal genio creatore. Si riconnette all’ideale di materiale sonoro dell’orchestra sinfonica,
e abbiamo parallelamente dunque l’ascesa del pianoforte (ancora fortepiano) a
discapito del clavicembalo, in quanto essendo quest’ultimo uno strumento a corde
pizzicate non permetteva la permanenza del suono, a differenza del pianoforte che è
uno strumento a corde percosse che permetteva il gioco di dinamica, di persistenza del
suono, di possibilità di graduare l’intensità del suono attraverso il tocco, che ben
equivale al crescendo/diminuendo che Burney aveva identificato nell’orchestra di
Mannheim. C’è proprio un motivo di cambio del parametro sonoro. Declina anche il
clavicordo, strumento a corde percosse ma che aveva delle limitazioni, in quanto la
corda era perennemente in contatto con la parte metallica e vibrava tutta, a differenza
di una parte che era smorzata con dei panni, perciò non aveva la stessa duttilità di
suono del fortepiano, percosso da martelletti mobili.

FRANZ JOSEPH HAYDN (1732-1809)

Nasce a Rohrau nel 1732 e muore a Vienna nel 1809. La vita di Haydn illustra perfettamente
l’immagine del musicista dipendente, anche in modo molto invasivo, che si risolve in un’unica
famiglia principesca, gli Estherazy, che possedevano un palazzo ad Eisenstadt. Haydn entra al
servizio di questa famiglia nel 1761, e nel 1762 diventa dipendente del nuovo principe
Estherazy Nikolaus il Magnifico, che oltre a dilettarsi come musicista con il “baryton”, aveva
messo su una cappella molto nutrita (di cui Haydn diventa velocemente kapellmeister) e
completa, cioè in possesso di strumentisti di tutte le famiglie al completo (tranne i clarinetti
nei fiati), un coro e inoltre una compagnia d’opera a contratto. Ciò significa che questi
musicisti erano continuamente impegnati, non solo in opere ma in ogni genere di spettacolo
teatrale. Per questo la produzione di Haydn comprende moltissime opere, molte delle quali
giunte a noi incomplete (quasi tutti drammi giocosi quali le pescatrici, lo speziale, la fedeltà
premiata, il mondo della luna, scrisse anche un suo Orfeo ed Euridice, dal titolo il filosofo di
campagna). Come conseguenza dell’interessamento alla musica del principe, Haydn scrive in
tutti i generi musicali, anche per strumenti particolari come il baryton, per il quale scriverà
circa 170 tra duetti, trii e divertimenti per baryton viola e violoncello. Il baryton era una viola
da gamba modificata, ne conservava la struttura ma aveva un incavo dietro il manico nel quale
erano posizionate delle corde di risonanza, la cui funzione era di ingrandire il suono.

- Ascolto: trio n 81.

Essendo Ferdinando IV di Napoli (spesso ospite degli Estherazy) un appassionato della lira
organizzata (ibrido fra la ghironda, strumento medievale, e l’organo), Haydn scriverà concerti
per una o due lire organizzate e orchestra, divertimenti e così via.

- Ascolto: concerto n 5 per due lire organizzate e orchestra.

Altri strumenti bizzarri erano gli orologi, dei quali Nikolaus aveva una collezione. Voleva che
allo scoccare dell’ora intonassero musica di Haydn, perciò non sono altro che strumenti a
carillon chiamati floetenuhr (flauto a orologeria).

- Ascolto: floetenuhrstucke n 1
Produzione sinfonica:

- Il grosso della produzione di Haydn è composto da sinfonie. Ne scrive 108, (104


secondo la catalogazione ufficiale/originale). La dicitura Hob. deriva dal cognome del
catalogatore che è Hoboken. Di queste 108 sinfonie, le uniche non pensate per
l’orchestra degli Estherazy sono quelle composte nei suoi due viaggi, ovvero a Parigi
(11 sinfonie parigine 1785-1786) e a Londra. Nel 1790 infatti Nikolaus muore e gli
succede Anton, totalmente disinteressato alla musica e che licenzia tutti i musicisti,
compreso Haydn, che può ora accettare l’invito a Londra dell’impresario Salomon, che
organizzava grandi concerti pubblici con un’orchestra molto più nutrita di quella degli
Estherazy. Da questa collaborazione nascono le sinfonie nn 93-104, che sono le 12
sinfonie londinesi. Alle sinfonie di Haydn sono spesso aggiunti dei sottotitoli, ma gli
unici autografi sono quelli delle sinfonie nn 6, 7 e 8, chiamate “le matin”, “le midi” e “la
soire”, in quanto sono le uniche con un intento programmatico. I titoli delle altre
sinfonie vengo dati dagli editori per facilitarne la memorizzazione, in quanto erano
molte e con i soli numeri d’opera era facile confonderle (non si tratta di musica a
programma/musica descrittiva). Di alcuni titoli si trova il senso nella partitura, come
ad esempio nella sinfonia n 100, detta “militare”, poiché all’interno dell’allegretto
troviamo una banda militare, cioè una banda turca, che comprende piatti, grancassa e
triangolo (alla fine del ‘700 nasce la tendenza dell’esotismo). La n 30 è chiamata
“alleluja” poiché nei temi del primo movimento c’è un alleluja gregoriano. Altri nomi
sono venuti da aneddoti legati al brano, come nella sinfonia n 96 chiamata “il
miracolo”, dovuto al fatto che durante la prima esecuzione un lampadario era caduto a
terra senza però ferire nessuno. Mentre di alcuni titoli non si può risalire all’origine.
Ascolto: sinfonia n 100 “militare”, struttura semplice pur appartenendo alle londinesi,
in 4 movimenti allegro/minuetto/adagio/allegro. Tutte le sinfonie di Haydn
presentano un adagio introduttivo nel primo movimento, che serve a catturare
l’attenzione. Il movimento vero e proprio comincia con l’allegro (l’adagio non viene
ripetuto nella ripresa). La sinfonia è in sol M. troviamo subito il primo tema, poi ponte
modulante, secondo tema in re M; sviluppo che parte dal secondo tema.

Altre composizioni:

- Scrive circa ottanta quartetti, altri brani per orchestra, divertimenti, musica
cameristica. Nella produzione cameristica compone anche sonate per pianoforte.
Ascolto: sonata per pianoforte n 5 Hob XVI/35.
Esposizione del tema; batt. 17 comincia il ponte modulamnte (diviso in tre parti);
secondo tema in sol maggiore, formato da due sezioni tematiche (tema 2 I e tema 2 II),
poi coda; sviluppo fino alla seconda corona, poi abbiamo la ripresa (a un’ottava più
grave); ponte che nella ripresa non è modulante e infine secondo tema nella tonalità
d’impianto; dopo la corona abbiamo la coda (più lunga della prima) fino al fine.
Ascolto: quartetto op 76 n 3 (“emperor” poiché nell’adagio con variazioni presenta
l’inno che Haydn aveva scritto per l’imperatore d’Austria Francesco II d’Asburgo, oggi
inno tedesco), I movimento: elaborazione a intarsio, 4 elementi motivici con levare
nelle prime 4 battute; a questi si aggiunge un quinto elemento che compare quando le
altre voci cominciano a “intarsiarsi” sull’elemento 1, e poi su tutti gli altri elementi.
- Haydn scrisse anche musica sacra (molta per il proprio principe come kapellmeister).
Quando nel 1794 cambia di nuovo padrone alla morte di Anton I, a cui succede Anton II
che ricostituisce la cappella (seppur senza la brillantezza di un tempo), dopo aver
anche conosciuto la musica di Haendel, Haydn scrive quattro oratori, i più importanti
dei quali sono due: “die Schoepfung” (la creazione) e “die Jahreszeiten” (le stagioni).

MOZART (1756-1791)

Nasce a Salisburgo nel 1756 e muore a Vienna nel 1791.

È uno dei primi ai quali viene dedicata una biografa già nel 1814 dallo scrittore Stendhal
(oltre a una di Rossini). A lui si deve un equivoco legato alla figura di Mozart che si protrarrà
per molto (anche fino al ‘900, come nel film su mozart che tratta la rivalità tra lui e Salieri, alla
quale è dedicata anche una piece teatrale di Puskin). Mozart viene descritto come un genio
nella musica ma come un perfetto imbecille in tutti gli altri aspetti della vita, immaturo nei
tratti della personalità. Lo stereotipo creato da Stendhal: lui sposa i principi medici di
quell’epoca (cita il medico Cabanis) che ritenevano che il corpo fosse regolato da fluidi, e che
questi fluidi determinavano le varie caratteristiche e tendenze dell’individuo, quindi se questi
fluidi riempivano troppo uno dei “contenitori” ad essi preposto, gli altri contenitori erano
vuoti (essendo lui un genio musicale lui era manchevole in ogni altro aspetto della sua vita). I
primi romantici tendono a considerare Mozart come il primo grande romantico, e fanno
questa operazione su pochissime delle sue composizioni (requiem, don Giovanni, le ultime tre
sinfonie del 1788). Dato che nel romanticismo il topos del compositore è quello dell’artista e
non dell’artigiano, topos basato sul binomio genio/sregolatezza, conveniva ai romantici
acquisire questo personaggio come un grandissimo genio sregolato (quindi romantico),
dimostrando un importante postulato romantico, la natura intuizionistica della composizione
artistica, ovvero il fatto che non c fosse un lavoro ragionato dietro la composizione, ma il
bruciare di un’ispirazione improvvisa e sconvolgente, qualcosa di profondamente irrazionale.
Vengono così rimarcati alcuni aspetti delle incapacità di Mozart proprio per creare questo
personaggio. In anni più recenti (2005) la studiosa Lidia Bramani ha scritto un volume
“Mozart massone e rivoluzionario”, riscattandolo da questo stereotipo, anzi dimostrando
quanto Mozart, pur non facendo proclami in pubblico di impegno civile e intellettuale, era in
realtà una mente curiosa e ricettiva verso le istanze più progressiste del suo tempo, quindi
non un ingenuo e disimpegnato, e questo lo mette in luce attraverso le testimonianze dei testi
della loggia massonica, delle frequentazioni illustri che intratteneva (era stato ammesso nella
cerchia degli “illuminati di Baviera” cerchia laterale alla comunità massonica di cui Mozart
faceva parte, e uno dei membri era il barone van Swieten, che appoggia Mozart nel suo
lavoro), analizza anche la biblioteca di Mozart (che parlava fluentemente in cinque lingue tra
cui il latino) dove trova un testo in più volumi di un fratello massone, tale Sonnenfels, si
batteva contro la tortura e la pena di morte, per il recupero del detenuto e per i diritti delle
donne ad avere figli naturali fuori dal matrimonio senza essere infamate, per l’istruzione e la
sanità pubblica, e questi scritti sono fittamente annotati da Mozart. Al di là di questo, l’idea
che noi abbiamo di Mozart è quella di un genio legato in primis alla sua precocità (scrisse il
suo primo quartetto a sei anni), ma non è nella sua precocità il sorprendente genio di Mozart,
né che nella breve vita di questo autore non abbiamo una produzione troncata, scrive 626
numeri di opus che coprono tutti i generi musicali dell’epoca con una ricchezza, novità e
grandiosità di risultati che presenta anche un’evoluzione completa. Probabilmente la
grandiosità d Mozart si cela dietro la sua formazione: è figlio di Leopold Mozart, musicista e
trattatista dello stile galante che si occupa della prassi strumentale, ed è kapellmeister del
principe arcivescovo di Salisburgo. Vedendo la precocità musicale di suo figlio, organizza una
serie di viaggi, non solo per farlo esibire e conoscere come bambino prodigio, ma soprattutto
per far conoscere al ragazzino tutto il panorama musicale della sua epoca e di quelle
precedenti, non attraverso libri/trascrizioni/informazioni, ma in carne viva, in viaggio,
partecipandovi. Questi viaggi vengono fatti dal 1763 al 1773, tre dei quali in Italia (studia
l’opera e le tradizioni antiche quali la musica sacra romana, a Bologna prende lezioni di
contrappunto con G.B. Martini), un lungo viaggio che li porterà in varie città tedesche tra cui
Vienna (Haydn), Mannheim (mannheimer ai quali Mozart dedicherà i suoi concerti per
strumenti a fiato), poi Parigi, Londra, Amsterdam (importanti scuole violinistiche), Zurigo. A
ciò si può far risalire la grandezza, che si può riassumere in questo: il genio assimilatore, vale
a dire la capacità di assorbire tutto ciò che incontra lungo il cammino, compresi i gesti, di tutti
gli stili per poi mescolarli restituendo però una sintesi del tutto personale e riconoscibile (si
riconoscono i vari stili nelle sue composizioni ma senza copiare). In seguito alla sua
formazione il padre vedeva però in Mozart un suo successore come maestro di cappella e
nulla più. Viene così introdotto precocemente all’ambiente della cappella, divenendo
konzertmeister. Questo crea uno scompenso alla personalità del giovane compositore, che si
riflette poi in una forma di disadattamento alla vita che lo porta a non sapersi relazionare
correttamente nella società settecentesca (epoca di convinzioni rigidissime e condizionamenti
sociali). Questa formazione porta a un’altra caratteristica che troviamo in Mozart, ovvero la
capacità di mescolare aspetti ritenuti fino ad allora inconciliabili, questo avviene soprattutto
nel teatro. Siamo nell’epoca della retorica dei generi, ovvero se si andava a teatro per assistere
a un’opera seria ci si aspettava un determinato tipo di spettacolo con argomenti eroici, morali,
neoclassici, un finale lieto e soprattutto arie di coloratura che permettevano al talento del
cantante di emergere; se si assisteva a un opera comica ci si aspettava tutt’altro. La domanda
determinava l’offerta, e Antonio Salieri era perfettamente capace di rispondere alla domanda
del consumatore. Mozart non ne era capace, o per lo meno non intendeva farlo (è
perfettamente capace di scrivere opere serie e opere comiche), ma ha del sensazionale quello
che fa in tre opere in particolare:

- Il don Giovanni (opera comica italiana) 1787


- Le nozze di Figaro (opera comica italiana) 1786
- Il Flauto Magico (singspiel) 1791

Opere dell’ultimo decennio viennese 1781-1791:

- Opere serie (pan)italiane: Idomeneo re di Creta (1781) e la clemenza di Tito (1791).


- Singspiel (opera tedesca, teatro-farsa di bassa qualità per un ambiente chiassoso e
popolare, era in tedesco e alternava parti recitate a parti cantate): il ratto dal serraglio
(1781, opera di turcheria dovuta alla tendenza esotistica dell’epoca) e il flauto magico
(1791, opera massonica che racconta il processo di iniziazione di due giovani nella
condizione di inconsapevoli che sono Tamino e Pamina, lei figlia della regina della
notte che ben illustra il simbolo dell’oscurantismo, che si ritrovano a intraprendere un
percorso iniziatico nel tempio del sole, simbolo di luce, illuminazione, sapienza,
rappresentato da una classe sacerdotale maschile capeggiata dal sommo sacerdote
Sarastro).
- Opere comiche italiane: triade composta su libretto di Lorenzo da Ponte (anche lui
fratello massone, accomunato a Mozart anche dall’adesione alla corrente del
libertinismo, corrente molto importante del ‘700 che predicava una tolleranza
riguardo al costume morale, al rapporto fra i sessi, facendosi portatore di una
liberazione dai costumi) – le nozze di Figaro (1786), don Giovanni (1787) e così fan
tutte (1790).

Le nozze di Figaro prendono il soggetto dalla trilogia di Beaumarchais: il barbiere di Siviglia,


nel quale Figaro aiuta il conte di Almaviva a sposarsi con Rosina, le nozze di Figaro, nel quale è
Figaro a doversi sposare ora con Susanna, ma il conte (sposato con Rosina, ora contessa)
vuole esercitare ai danni di Figaro lo ius primae noctis su Susanna, incarnando l’aspetto
deteriore della nobiltà che si approfitta del suo potere per perpetuare delle usanze di epoca
feudale laddove servono a soddisfare i propri scopi o il proprio piacere. Se nella prima Figaro
(uomo di estrazione popolare) vince sul personaggio di sfera sociale alta, nella seconda
commedia il personaggio di estrazione elevata (il conte) è mostrato in tutta la sua immoralità
e arretratezza. Questo soggetto ci mostra la presa di posizione politica di Mozart. L’aspetto
importante ne le nozze di Figaro di Mozart è quello musicale, complessità di elaborazione dei
concertati (assolutamente attivi, portano avanti l’azione), complessità di elaborazione
musicale che era estranea all’opera comica, inoltre abbiamo la capacità di Mozart di esprimere
attraverso la musica stati d’animo che non erano mai stati sondati prima nella drammaturgia
musicale (ex i turbamenti sessuali del paggio Cherubino): capacità di esprimere anche contro
il testo ma attraverso sottili espedienti musicali ciò che veramente un personaggio sente.
Sebbene sia un’opera comica perciò la psicologia dei personaggi è restituita non tanto dalle
parole ma dalla musica. Un’altra novità è il mescolamento, la contaminazione con altri generi
in un’epoca dominata dalla retorica invalicabile dei singoli generi.

Don Giovanni (1787):

- Nel don Giovanni mescola il comico e il buffo col tragico (si passa dal registro comico di
Leporello o delle varie scene buffe di don Giovanni al registro tragico nella scena
dell’assassinio del commendatore, a donna Anna che trova il corpo del padre e al
duetto con don Ottavio in cui chiede vendetta). Il tragico lo troviamo all’inizio nel grave
introduttivo, a metà dell’opera in un evento chiave, mentre in un cimitero don Giovanni
si ritrova sotto la statua del commendatore che annuncia che “finirà di ridere prima
dell’aurora”, che da morto diventa presenza viva e segna l’irruzione di una presenza
sovrumana (in un’opera comica!!), e questo avviene anche alla fine, quando don
Giovanni si permette al cimitero di invitare il morto a cena, e nel finale secondo si
presenta a cena il convitato di pietra che si esprime con un linguaggio anomalo, a
intervalli ai limiti della consonanza che esprimono la terribilità di questa potenza
sovrumana. Questo personaggio chiede a don Giovanni di pentirsi, che rifiuta, e dopo
aver promesso di andar a trovare il convitato di pietra ecco che si sentono voci
infernali e don Giovanni sprofonda nell’inferno, e intanto arrivano tutti i personaggi
che lo stavano rincorrendo, finendo tutto in leggerezza nel canone comico. C’è inoltre
una nuova visione del personaggio di don Giovanni che era già stato messo il scena nel
1630 dallo spagnolo Tirso de Molina, e fino a Mozart in altre due opere (il dissoluto
punito di Gazzaniga su libretto di Bertati e un’altra versione di Tritto): fino a Tritto don
Giovanni è esempio di immoralità, deve essere punito ed è giusto che muoia, mentre
Mozart e da Ponte trasformano don Giovanni in un eroe positivo, non dal punto di vista
morale sia chiaro, ma positivo in vitalismo, personalità. Don Giovanni esprime una
pienezza umana, delle proprie scelte e posizioni che non trova paragone nella storia
della musica, e questo anche davanti alla dannazione eterna. Nel flauto magico Mozart
compie un ulteriore passo sotto il segno della contaminazione, la scelta del soggetto è
molto profonda (iniziazione massonica), ma dal punto di vista musicale troviamo
accostati: una ouverture alla francese (con una componente fugata), dei concertati di
grande impegno, delle arie importanti, degne di un’opera seria (tranne quelle del
personaggio buffo grottesco, Papageno, che si accompagna all’eroe, Tamino, ovvero
l’iniziando). Le arie di coloratura della regina della notte hanno scopo contenutistico,
cioè voglio esprimere attraverso le difficoltà esecutive la natura sovrumana di questo
personaggio, ma formalmente sono arie di bravura che il pubblico si aspettava da
un’opera seria, le agilità sono tutte scritte e non vengono improvvisate dall’esecutrice.
Infine c’è una contaminazione con la musica sacra del corale protestante, che sono i
cori maschili dei sacerdoti del tempio del sole, ed è ancora più mirabile se si fa caso al
contesto farsesco, volgarotto, allegro per cui l’opera era stata composta. Mozart crea
prima del tempo la prima grande opera tedesca.
Ascolto: visione film-opera del 1974. Ambientazione nelle ville venete sul Brenta,
quindi anacronistica. Quest’opera gli venne commissionata a Praga mentre ospite della
famiglia Dussek, con il concorso del conte Thun, grazie al quale firma un contratto col
teatro nazionale; viene consultato anche da Ponte, che aiuta Mozart nel creare questa
diversa immagine di don Giovanni. Nell’ottobre dell’87 abbiamo la rappresentazione a
Praga. Viene allestita nel maggio dell’88 a Vienna dove non trova successo. Da Ponte
afferma che Mozart ha voluto scrivere quest’opera nello stile serio, e in base a questa
affermazione, nell’800, interpretando in senso drammatico quest’opera, viene omesso
il finale comico (tutti i personaggi che tornano in scena). In realtà da Ponte intendeva
parlare della commistione dei generi estranei all’opera comica, che Mozart però
inserisce nel don Giovanni. Da Ponte si riferisce alla complessità musicale elaborativa
che era propria dell’opera seria, la complessità dell’armonia. Commistione di comico e
di tragico per quanto riguarda il contenuto, commistione di comico e di serio per
quanto riguarda la musica. Nell’opera comica c’era abbondanza di imprevisti nella
trama, e Mozart non è da meno in questo. Ciò, rendendo il ritmo già stretto dell’opera
buffa ancora più veloce, porta in Mozart a una necessità di continua accelerazione, e ciò
ha due conseguenze co positive: I) la struttura più snella delle arie, non aria con da
capo (ex duetto donna Anna don Ottavio ABB’, fra A-B e B-B’ abbiamo due recitativi che
spezzano la struttura, struttura incalzante; ex aria di donna Elvira “ah che mi dice mai”,
AA’ bipartita, uguale l’aria di Leporello AB), Mozart crea un’abbondante varietà di
struttura; II) abbiamo una continuità del discorso musicale che si protrae nell’arco di
più scene (scena dal punto di vista drammaturgico=entrata/uscita di scena dei
personaggi: ex scena 13 nel finale secondo, a cena, abbiamo la scena buffa, musica
diegetica, ovvero orchestrina in scena con strizzata d’occhio di Mozart, ovvero
citazione musicale, scena 14 quando entra donna Elvira, scena 15 entra il
commendatore di pietra, scena 16 arrivano tutti gli altri personaggi), attraverso una
successione di scene Mozart crea una continuità musicale, creando quella che da
Rossini in poi verrà chiamata opera “a numeri”. Crea quindi degli archi musicali
continui, nonostante all’interno di essi si sussegua una pluralità di scene ( si va verso
l’opera con flusso musicale continuo). Le sue opere sono il fondamento dunque
dell’opera a numeri – scavalcamento dell’unità drammaturgica in archi musicali più
ampi. Mozart e da Ponte anticipano alcune tecniche narrative attuali, scegliendo un
punto di vista (non vi è una terza persona onnisciente fuori dall’azione
drammaturgica), infatti abbiamo all’inizio il punto di vista di Leporello (e da lui che
abbiamo la prima immagine di don Giovanni, suo padrone, dagli occhi di don Giovanni
noi vediamo tutte le sue vittime/antagonisti). Abbiamo la capacità parlante della
musica di Mozart, capace di esprimere il non detto delle parole.
Ascolto: sinfonia introduttiva; andante introduttivo/molto allegro in forma sonata.
Questa ouverture non è segnaletica ma segue gli stilemi gluckiani, in quanto forma
l’argomento, nel senso che abbiamo una ricapitolazione di tutti gli elementi del
dramma. Mozart è attento alla significatività semantica delle tonalità (Verdi farà lo
stesso): bipolarità rem/ReM, rem = tonalità tragica, ReM = tonalità della parte comica.
Questa alternanza rem/ReM la troveremo in tutta l’opera (scena dell’assassinio, duetto
della vendetta, scena del cimitero e finale secondo con l’entrata del commendatore).
Ritmo puntato dell’andante per basso lamento (procede discendente per semitoni), i
fiati hanno intervalli larghissimi che esprimono la natura sovrumana del dramma
(rafforzati dai timpani), che creano anche instabilità tonale; sempre nell’andante
troviamo elemento melodico ai flauti e ai violini I (anabasi-catabasi salita-discesa) di
quartine all’interno dell’ottava, poste in climax (ogni inizio del segmento sale di grado).
Quando arriva il molto allegro il primo tema esprime la grande vitalità del
protagonista, la cui amoralità passa totalmente in secondo piano difronte a questo
valore positivo. Il periodo musicale viene ripetuto in forma di domanda e risposta con
una formula conclusiva, dove comincia il ponte modulante (secondo alcuni analisti ci
troviamo davanti a un ulteriore elemento tematico). Secondo tema I in la maggiore ai
legni e poi continuato dai violini I, poi secondo tema II e poi conclusione
dell’esposizione. Sviluppo comincia col secondo tema II, che circola fra le parti,
abbiamo la coda dello sviluppo e poi ripresa in re M. Alla fine abbiamo la coda con
corona finale, su cui si apre il sipario: non ha una conclusione in quanto subito attacca
l’introduzione con Leporello in scena. Oscillazione tra modo di cantare buffo e
linguaggio musicale più disteso quando parla di don Giovanni (la musica esprime la sua
ammirazione verso il padrone sebbene il testo dica il contrario).
Mozart non trova fortuna nella sua epoca. Nel 1781, mentre è al servizio dell’arcivescovo che è
un uomo illuminato ma antiquato, lo richiama a riprendere servizio, e Mozart, che si trovava a
Monaco in seguito al successo del suo Idomeneo, ritorna malvolentieri, volendo approfittare
di questo successo per avere altre commissioni. Casualità vuole che alla morte
dell’imperatrice l’arcivescovo si rechi a Vienna assieme a tutta la nobiltà per le esequie, e
richiama Mozart al suo servizio. A causa di ciò Mozart ha un diretto scontro col suo superiore,
che è il capo cuoco, che lo butta fuori dalla porta secondaria. Mozart rimane a Vienna ma
senza un lavoro, e senza un incarico può pubblicare, ma ciò non può assicurargli un profitto
non esistendo ancora i diritti d’autore, può dare lezioni private ma le famiglie nobiliari non
affidano le proprie fanciulle a Mozart, può scrivere opere, ma difficilmente un uomo che scrive
opere di tal genere (don Giovanni, flauto magico) ha delle commissioni, in quanto è un teatro
impegnativo, non vicino ai gusti dell’epoca (a differenza di Salieri che sapeva ben adattarsi alle
richieste del pubblico), infatti il don Giovanni che era stato esaltato alla sua prima a Praga
riceve a Vienna un’accoglienza fredda. Allora viene in suo aiuto proprio il barone van Swieten,
che organizza per lui dei concerti per sottoscrizione (van Swieten annunciava dei concerti a
quali il pubblico si sottoscriveva, e parte del ricavato era destinato proprio a Mozart). Grazie a
queste iniziative possediamo i 21 concerti per pianoforte e orchestra. Mozart era compositore,
pianista e direttore in queste occasioni. Anche qui Mozart apporta novità, ovvero scrive
concerti solistici per uno strumento nuovo, il pianoforte, anticipando i tempi anche qui.
Inoltra van Swieten apre a Mozart le porte della biblioteca imperiale, dove vorace di letture
trova degli autografi di Bach (a quell’epoca non si conosceva il passato musicale, al di là di
Palestrina il resto era ignoto, e inoltre Bach era stato declassato dai suoi figli come antiquato),
e l’antico insegnamento di Martini viene attualizzato attraverso la scoperta di queste
partiture, che egli mette a frutto nelle ultime tre sinfonie del 1788, dove abbiamo il rinnovo
della tecnica contrappuntistica che il gusto galante aveva bandito. Dal 1785 Mozart non riesce
più a sostenersi (nel 1788 le muore una figlia di soli 6 mesi a causa delle difficoltà economiche
e sono costretti a trasferirsi in periferia). Morendo viene sepolto in una fossa comune. In
questo suo essere anticonvenzionale e troppo complesso per la sua epoca, Mozart non può
mettere a frutto in senso economico questo suo enorme talento, e l’altra complicanza è che
non si ha ancora uno spirito nazionale (si dovrà aspettare l’ascesa di Napoleone e la sua auto
proclamazione a imperatore del 1804, infatti si è dimostrato che le varie campagne militari
napoleoniche abbiano suscitato in tutta Europa un forte nazionalismo). Si può dire che Mozart
nasce (o muore) qualche anno prima del dovuto, basti vedere come l’intemperie nazionalistica
favorirà Beethoven nato solo nel 1770 (23 anni dopo di Mozart). Egli sperimenta per primo
una condizione di libertà creativa in quest’ultimo decennio viennese, ma non ne ha la
consapevolezza.

Produzione di Mozart (oltre al teatro):

KV = Koechel (primo editore di metà ‘800) Verzeichnis (revisore del secondo ‘900)

- 53 sinfonie + 2 sinfonie concertanti


- 7 concerti per violino + 1 per due violini
- 21 concerti per pianoforte + 1 per due e 1 per tre pianoforti
- 1 concerto per fagotto, 1 per clarinetto, 2 per flauto (1 per oboe), 1 concerto per flauto
e arpa, 4 concerti per corno
- Musica orchestrale per intrattenimento (divertimenti, serenate)
- 19 Sonate per pianoforte
- Circa 30 quartetti per archi, 8 quintetti
- Altri in diverse formazioni cameristiche ispirate al quartetto (anche col pianoforte)
- Musica sacra (messe, litanie, requiem)
- Musica vocale da camera (lieder con pianoforte o orchestra)

Sinfonie:

- Nell’arco delle sue sinfonie, dalla K16 alle ultime tre dell’estate del 1788 K543, K550
(in sol minore, la tonalità patetica dell’epoca, scrivera una seconda sinfonia in tonalità
minore, sempre sol minore) e K551 detta Jupiter (nome che è stato dato proprio ad
alludere all’olimpico equilibrio e alla vitalità potente che emana questa partitura),
forse mai eseguite in quanto non commissionate (di fatto tutte le sinfonie composte
prima del decennio viennese erano scritte per il suo lavoro e commissionate dal
padrone, e spesso le sue sinfonie hanno nomi di città proprio perché commissionate da
altre città che non erano Vienna, queste ultime tre sinfonie esulano da questo
contesto), si compie uno sviluppo completo che va dalla sinfonia
galante/sammartiniana in tre movimenti da inflessioni patetiche in pieno stile della
sensibilità, con un’orchestra ridotta, alla sinfonia in quattro movimenti con l’orchestra
sinfonica al completo (nelle ultime tre con anche i clarinetti), e con queste ultime tre
abbiamo il passaggio dalla sinfonia d’intrattenimento a quella soggettiva e
monumentale (per le dimensioni, la complessità e la reintroduzione del linguaggio
contrappuntistico). Soggettiva perché, svincolata da un’immediata commissione,
Mozart esprime se stesso in tutta libertà, c’è un’espressione profonda dell’artista che
sta componendo, pensa più a se stesso che non al contesto per cui sta scrivendo.
Ascolto: sinfonia K551 in Do maggiore “Jupiter”, 4 movimenti, difficoltà nell’aspetto
formale dovuto alla presenza della forma sonata in ben 3 movimenti (I, II e IV),
secondo alcuni anche il minuetto è scritto in forma sonata, poiché si ha un tema che
viene sottoposto a uno sviluppo tematico; immissione di contrappunto a partire dal I
movimento, parti fugate nel IV movimento. I movimento: esposizione subito del tema,
duale, tipico di Mozart, in quanto presenta una prima cellula tematica in ritmo
marziale, compensata da un’altra cantabile, con un elemento conclusivo a fanfara,
tipicamente galante, con un motivo di biscrome discendenti che viene riutilizzato nello
sviluppo, l’esposizione del primo tema finisce con una prima corona; subito dopo c’è la
riesposizione del tema con un’aggiunta tematica ai legni che copre quasi la
riesposizione del primo tema; ponte modulante che comincia con la riesposizione del
primo tema alla dominante; secondo tema cantabile; comincia la coda e abbiamo una
battuta di spirito di Mozart, la citazione di un’aria dal titolo “un bacio di mano” che egli
aveva scritto per un basso, primo interprete a Vienna di don Giovanni; lo sviluppo
comincia dopo la riesposizione di questo terzo elemento citato, e lo sottopone a un
gioco contrappuntistico; abbiamo una falsa ripresa del primo tema (tipicamente
haydniana), elemento motivico delle biscrome elaborato nello sviluppo poco prima
della ripresa; ripresa vera e propria nella tonalità d’impianto (entrambi i tre temi).

Concerti per pianoforte e orchestra:

- Appartengono all’ultimo decennio viennese (1781-1791), grazie ai concerti per


sottoscrizione organizzati dal barone van Swieten, che hanno dato occasione a Mozart
di comporre 21 concerti per pianoforte e orchestra (eseguiti e diretti dallo stesso
durante i concerti).
Ascolto: concerto K488 in la maggiore, diviso in tre movimenti allegro/adagio
(siciliana)/allegro assai. Nel primo movimento in forma sonata, notiamo la forma
concerto del primo movimento che era stata codificata da J. C. Bach, cioè la doppia
esposizione, la prima fatta dall’orchestra che presenta il primo e il secondo tema
(senza ponte modulante ma rimanendo nella tonalità d’impianto), poi c’è una seconda
esposizione, quella vera e propria dove abbiamo la polarità tonale, e stavolta è lasciata
al pianoforte solista. Sulla siciliana: è una danza le cui prime testimonianze le troviamo
nel XVI secolo in delle raccolte di danze per liuto (aria siciliana). È caratterizzata da un
tempo binario composto e da un carattere estremamente lirico e intensamente
espressivo; in Mozart è una pagina di intensità straordinaria, dove tutta la potenza del
movimento risiede nella capacità di giocare con i timbri (gioco dei legni che espongono
il tema, habitat sonoro impalpabile e morbidissimo). Allegro assai finale è nella forma
del rondò, una delle forme possibili che può avere l’ultimo movimento. Abbiamo un
elemento unificante che lega la forma del rondò, nel caso del rondò-sonata c’è una
compenetrazione tra il ritorno ciclico di questo motivo e la forma sonata, quindi è di
maggiore complessità costruttiva.

LUDWIG VAN BEETHOVEN (1770-1827)

Nasce a Bonn nel 1770 e muore a Vienna nel 1827.

La sua vita e la sua produzione sono state variamente periodizzate, già nel 1852 il suo primo
biografo von Lenz aveva suddiviso la produzione di Beethoven in tre stili. Successivamente
sono stati distinti quattro stili, dividendo il periodo della formazione, il primo peridio di
Vienna e gli ultimi due periodi con le produzioni più importanti. Altri biografi sono Ballola e
Dahlhaus. Dal punto di vista di periodizzazione è importante distinguere gli ultimi due periodi
della produzione di Beethoven, basandosi su informazioni date da un suo allievo, Czerny, e da
una lettera all’editore di Beethoven, la Breuktopf&Haertel, del 1802, in cui si accenna a una
“nuova via” (indicazione beethoveniana). Per lo snodo successivo ci si può basare sull’analisi,
in quanto dal 1816 circa si può rilevare una evidente svolta nel suo stile compositivo. Fra il
1802 e il 1812/16 si colloca il cosiddetto periodo “eroico”, mentre dal 16 in poi abbiamo
quello che un altro biografo, Cooper, definisce “l’ultimo decennio”.
Periodizzazione:

- -1802 periodo della formazione


- 1802-18012/16 periodo eroico
- 1816-1827 ultimo decennio

Compie gli studi nella città natale ed è importante su di lui l’influenza del suo maestro, Neefe,
direttore del teatro di corte dell’elettore di Colonia (Bonn ne era la capitale). Trasmette a
Beethoven il concetto di arte come missione, ovvero di estrarre dall’uomo ciò che è più umano
in senso stretto, il meglio dell’umanità, concezione fortemente etica del lavoro dell’artista, che
verrà successivamente intensificata una volta a Vienna da un suo amico, Amemda, allievo di
Kant. Grazie al suo maestro diviene a corte secondo organista, e semina le basi di una perizia
contrappuntistica in Beethoven. Nel frattempo frequenta l’elite intellettuale di Bonn e si
iscrive alla facoltà di filosofia, questo fa di Beethoven il primo musicista veramente colto,
divoratore non solo di autori del passato, ma anche di contemporanei della cultura tedesca di
fine ‘700, anche se lui continua a ritenersi un artigiano della musica, ritenendo l’udito la vera
qualità che contraddistingue un musicista e non la cultura. Dal 1795 cominciano a
manifestarsi i sintomi della sordità. Nel frattempo nel 1792 si era trasferito a Vienna, dove
aveva cominciato a prendere lezioni con Haydn, Salieri e Albrechtsberger, che rinforza molto
la tecnica contrappuntistica di Beethoven che metabolizza in modo profondo questa tecnica.
Anche a Vienna partecipa dei salotti più importanti. Amemda instilla in Beethoven anche il
principio dialettico della filosofia di Kant. La sordità stroncherà la sua carriera da esecutore,
portandolo nel 1818 a esprimersi soltanto per iscritto con i suoi “quaderni di conversazione”.
Questo è un handicap per Beethoven, soprattutto perché vive in un’epoca in cui non vi è
rispetto per la diversità. Da qui nascerà la lettera ai suoi fratelli datata 1802, che per il suo
contenuto è stata rinominata “testamento di Heiligenstadt”, località di Vienna in cui
Beethoven viveva all’epoca e da dove scriverà la lettera. Dopo aver indirizzato la lettera ai
fratelli, si rivolgerà a tutti gli uomini. Dalla lettera si evince la consapevolezza del compositore
verso ciò che fa, con Beethoven si impone il concetto di “necessità creativa”, che allontana
l’autore da qualunque “funzionalità creativa” basata su una domanda di lavoro, abbiamo la
fine del musicista artigiano/dipendente in favore di un compositore che è artista, che scrive
arte per l’arte, che è un “ton-dichter”, cioè poeta dei suoni, che non scrive per commissione ma
per ispirazione. C’è una circostanza che aiuta Beethoven, un gruppo di tre nobili di Vienna che
pagano una retta annua piuttosto cospicua all’autore, purché egli rimanga a Vienna a
comporre quello che vuole. Beethoven è così svincolato da ogni bisogno pratico, quello che lui
scrive lo scrive rispondendo a una necessità interiore. Nel frattempo anche grazie all’impatto
del Napoleone invasore, si sveglia in tutta Europa il nazionalismo, contro questa imposizione
universalistica di Napoleone che vuole creare un impero, tutte le singolarità nazionali si
svegliano. Beethoven sarà sentito come un campione del germanesimo musicale, dell’identità
tedesca, contro la dominante identità musicale italiana che si esprimeva in Rossini e nel
rossinismo. Questo aiuta Beethoven a vivere come compositore indipendente. Beethoven non
si può definire classico, definendo con classico un certo equilibrio nella forma, o un modello,
in quanto Beethoven non crea nessun modello, non crea un codice/lessico. Ci sono degli
aspetti dei quartetti che ad esempio verranno ripresi solo più in là da Bartok, è come se l’800
facesse un passo indietro rispetto a Beethoven, pur essendo quello dell’innovazione creativa
un postulato molto romantico. Lo sperimentalismo beethoveniano riceve impulso proprio
dalla sua condizione di libertà in quanto artista. Questo atteggiamento è tipico del
romanticismo, e segna un allontanamento dal pubblico in quando la produzione di un autore
può piacere o meno. Il romanticismo torna indietro in quanto non arriva a sfruttare la
spregiudicatezza sovvertitrice che mette in campo Beethoven nel suo ultimo decennio,
soprattutto nelle sue ultime 5 sonate e negli ultimi 5 quartetti. Al contrario la nona sinfonia ha
grande seguito nell’800, in quanto sancisce la nascita del genere sinfonico-corale. Beethoven
sta un po’ fuori da tutte le categorie, non è del tutto un classico ma non è un romantico, in
quanto il suo linguaggio musicale è puro, definito da strutture puramente autonome (unica
eccezione la sesta sinfonia).

Produzione:

- 9 sinfonie (dalle 108 di Haydn, alle 53 di Mozart). Monumentali, perché col diminuire
del numero delle sinfonie assistiamo alla crescita della loro grandezza, lunghezza e
complessità della loro struttura. Ad esempio della terza sinfonia è lecita una
quadripartizione e non una tripartizione del primo movimento (691 battute del I
movimento contro le 250/300 che erano lo standard del sinfonismo viennese).
Assistiamo a un grande lavorio dietro la composizione (correzioni, cancellature,
varianti). La prima scritta nel 1799/1800, l’ultima nel 1822 con esecuzione nel 1824.
La terza sinfonia “eroica”, la quinta detta (non da Beethoven) “del destino”, per un
aneddoto che cita Beethoven riferirsi all’attacco incisivo della quinta come al “destino
che bussa alla porta”. La sesta “pastorale” è definita dallo stesso autore “caratteristica”,
cioè descrittiva e racconta dei quadri caratteristici (prima dell’800 la musica
descrittiva era una stravaganza, se ne hanno esempi solo con Vivaldi, o nei
clavicembalisti francesi che usavano titoli per giustificare la musica strumentale).
Beethoven aggiunge una didascalia alla sinfonia: sinfonia caratteristica ovvero ricordi
della vita nei campi. In 5 movimenti e ognuno ha una sua didascalia. Sostituisce il
minuetto con uno scherzo, movimento più energico. Il quarto movimento che è quello
aggiunto lo intitola “temporale e tempesta”. Da musicista colto Beethoven non ha
voluto solo rappresentare delle scene caratteristiche, fa dei riferimenti con le
didascalie ad alcune lettere de “i dolori del giovane Werther”. È come se Beethoven
giocasse con la cultura dell’ascoltatore, dando alla partitura uno spessore di contatto
fra il musicista e la letteratura della sua epoca (importantissimo nel romanticismo).
- Compone una serie di ouverture, musiche di scena/musica incidentale (musiche per
drammi) che comprendevano: una ouverture, degli entr’actes e a volte un finale +
musiche con funzione realistica (diegetiche), dei passi in melodrame (in tedesco
melolog), ovvero dei passi in cui si continua a recitare ma si inserisce un sottofondo
sinfonico. Scrive 5 musiche di scena complete, le cui ouverture vengono eseguite nel
repertorio sinfonico in modo distaccato: Coriolano, Egmont (Goethe), le rovine d’Atene
e re Stefano + le musiche per il balletto “le creature di Prometeo”.
- 5 concerti per pianoforte e orchestra
- 1 concerto per violino
- 32 sonate per pianoforte + variazioni su tema di Diabelli op 120, che fanno parte
dell’ultimo decennio compositivo assieme alle sonate op 101, 106, 109, 110, 111
- 16 quartetti, le op 127, 130, 131, 132, 135 composte nell’ultimo decennio + grande
fuga op 133, pubblicata separatamente dai quartetti in quanto è l’originale ultimo
movimento dell’op 130 (il cui ultimo movimento pubblicato è presumibilmente
l’ultima cosa composta da Beethoven) in quanto ritenuto troppo complesso
dall’editore.
- Quintetto per pianoforte e strumenti a fiato, sonate per violino/violoncello e
pianoforte, trii per pianoforte.
- Scrive una sola opera teatrale nella forma del singspiel “Fidelio”
- Un gruppo di composizioni di musica sacra fra cui spicca la “missa solemnis”.

Svolta del 1802:

- Ci porta nel Beethoven eroico, annuncia una “nuova via”. Composizioni rappresentative
di questo periodo sono la terza sinfonia (fino all’ottava), le sonate per pianoforte op 51
e 57, la sonata per violino “a Kreutzer”, alcune cantate. Stile enfatico, eloquente,
drammatico, tragico, energico, impegnato, impetuoso, teso, fortemente
rappresentativo. Invenzione di temi particolarmente veementi/drammatici, spesso
messi in antagonismo l’uno verso l’altro, facendo tesoro in musica del principio
dialettico di Kant. Questi temi sono dei veri e propri personaggi che si fronteggiano, in
un linguaggio compositivo che è reso molto teso, che ha una forte tensione espressiva
per una serie di altri parametri quali: la dinamica, i forti contrasti tra fortissimo e
pianissimo, l’uso di sonorità molto piene dovuto a degli accordi in piena orchestra, o lo
sfruttamento di tutta la tastiera del pianoforte anche con grosso impegno della
dinamica; dal punto di vista della agogica/fraseologia abbiamo degli aspetti che vanno
a potenziare l’aspetto drammatico, continue accelerazione e decelerazioni che
Beethoven per la prima volta chiama in modo antropomorfo, non utilizza solo i termini
tipici della composizione, ma termini che indicano metaforicamente dei movimenti
dell’animo umano (ex morendo, venendo meno, venendo a nuova vita). Un’indicazione
antropomorfa è più forte ma anche più imprecisa, perché l’esecutore deve
interpretarla, calibrarla in modo giusto, si hanno sfumature spesso suggestive, che
puntano alla diretta interpretazione dell’esecutore. Pur lasciando una discreta libertà
all’interprete, lui è il primo ad usare le indicazioni metronomiche (metronomo
brevettato nel 1816), nella sonata per pianoforte op 106 intitolata “fur das
hammerklavier” (1817), nominata in tedesco per una polemica anti-italiana.
Parallelamente nella ritmica abbiamo degli spostamenti d’accento, delle enfatizzazioni
dovute a degli sforzati. La sua è una musica che ci tiene in pugno, che impegna
profondamente l’attenzione dell’ascoltatore, non può essere una musica di sottofondo:
grazie a tutti questi parametri c’è un impegno di ordine psicoacustico attivato dagli
elementi compositivi messi in gioco. Questo stile è maturato dall’autore
contemporaneamente al crescere del suo culto per il mito dell’eroe. Eroe che già
troviamo nel balletto “le creature di Prometeo” (1801), il cui tema riutilizza nel quarto
movimento della sinfonia eroica e nelle variazioni per pianoforte op 35. È perciò un
tema già caro a questa sua personalità vigorosa, veemente e idealista che si incarna in
un uomo, Napoleone, visto come un genio della libertà in tutto il periodo a cavallo tra
‘700/’800. Nel 1804 Napoleone si fa incoronare imperatore, nel 1805 assedia Vienna e
di nuovo nel 1809, conquistandola, e quindi da liberatore diventa tiranno, abbiamo la
grande promessa caduta dell’immagine di Napoleone. Nel frattempo ha mobilitato
tante forze: il nazionalismo, una serie di energie entusiastiche che venivano
direttamente dall’effervescenza collettiva della rivoluzione francese.

La svolta del 1816:

- Si passa da uno stile che ha dei forti elementi di cantabilità, associati anche a temi che
non si possono cantare, in quanto frammentati, senza continuità, a un infittimento
della scrittura in senso contrappuntistico. Arrivano ad essere utilizzati quegli
insegnamenti appresi da Neefe e Albrechtsberger. La svolta dell’ultimo decennio può
essere riassunta con “la contaminazione tra la forma-sonata e forme estranee”, ovvero
il tema con variazioni e la fuga/fugato. Fin dal 1802 abbiamo una libertà nel trattare la
forma da parte di Beethoven. Ad esempio della terza sinfonia arriveremo a una
presenza di sei temi nel I movimento, abbiamo un’abbondanza di idee che si traduce in
un travalicamento di alcune regole.

Egmont:

- La storia di Goethe parla di un patriota che aveva dato la propria vita per
l’indipendenza dei Paesi Bassi, nel ‘600, all’epoca delle guerre di religione
(protestanti/cattolici). Sacrificio non solo della propria vita ma anche della propria
felicità, ovvero della propria storia d’amore. Beethoven compone per il dramma
l’ouverture, 4 entr’actes, un’aria, un largo per la morte di lei, un sottofondo per il
monologo di Egmont, e il finale che intitola “sinfonia di vittoria”, in fa maggiore
(abbiamo la bipolarità delle musiche di scena tra fa minore e fa maggiore, vedi don
Giovanni Mozart), in quanto la morte di Egmont è una morte eroica, che trova in se
stessa la gioia di morire, tant’è che l’ouverture, che compone in modo semantico,
contiene sia elementi riconducibili all’eroismo, sia all’amore, e soprattutto alla vittoria,
alla morte vittoriosa, che viene espressa da un brevissimo allegro con brio in fa
maggiore.
Ascolto: ouverture adagio introduttivo/allegro in forma sonata/allegro con brio
conclusivo. Beethoven gioca con le attese dell’ascoltatore, allunga le sezioni conclusive
(intere sezioni di dominante).

Sinfonia n 3 op 55 “eroica”:

- 1802-1804, abbiamo sulla copia rimasta la dicitura “sinfonia grande intitolata a


Bonaparte”, poi corretta con “scritta su Bonaparte” e infine cancellata rimanendo il
concetto assoluto di eroismo. Abbiamo anche la testimonianza di Ferdinand Ries,
amico di Beethoven, dicendoci che era stato ispirato da Napoleone ancora console per
scrivere la sinfonia, in quanto Beethoven nutriva grandissima stima verso di lui; lo
stesso Ries dice di dare per primo a Beethoven la notizia dell’autoproclamazione a
imperatore di Napoleone, scatenando uno scatto d’ira nel compositore che strappa il
frontespizio della terza sinfonia. Sebbene il fatto sia stato romanzato abbiamo dei
riscontri oggettivi di ciò nell’autografo. La macrostruttura è la seguente: allegro con
brio/marcia funebre/scherzo/finale allegro molto. Nella marcia funebre e nel finale
abbiamo importanti passi contrappuntistici (reimmissione della tecnica
contrappuntistica), ovvero un fugato nel secondo movimento, mentre il finale, scritto
in forma libera, quasi tema con variazioni, in cui si trovano vari sviluppi fugati che
coinvolgono materiale tematico. Nel primo movimento c’è un apparente rispetto dei
canoni, abbiamo un impianto di forma sonata, esposizione/sviluppo/ripresa con una
coda finale molto lunga tanto che gli studiosi parlano più di quadripartizione che di
tripartizione (es. 152 + sv. 245 + r. 149 + coda 135 per un totale di 691 battute nel
primo movimento). Abbiamo in questo movimento abbondanza di elementi tematici,
tanto che Beethoven porta a un rigonfiamento della forma sonata, a una certa libertà
nel trattarla, facendola diventare una forma in evoluzione, tanto che sono stati messi in
evidenza 6 temi e non 2, uno dei quali viene esposto nello sviluppo (solitamente lo
sviluppo presenta materiale tematico preesistente). Abbiamo anche in questo
movimento l’inclusione di tecniche contrappuntistiche, tra l’altro anche nella coda
troviamo uno sviluppo fugato. I due accordi iniziali sono stati inseriti dopo (non fanno
parte dell’esposizione). Siamo in mib maggiore, la tonalità codificata come eroica dai
teorici musicali. Il secondo tema I si spezza tra oboe, flauto, clarinetto con un eco dei
violini I. Nel secondo tema viene introdotto un secondo tema ai violini che è
prevalentemente ritmico, e che verrà ripreso in sede di sviluppo. Abbiamo una terza
sezione piuttosto energica (contrasti dinamici). Ai nuovi elementi 4 e 5 si aggiungono
parti tematiche già esposte (ex l’arpeggio del tema I ai violini), rendendolo già un semi
sviluppo. Dopo la ripetizione abbiamo una transizione e successivamente lo sviluppo
vero e proprio, che inizia col secondo tema spezzato, poi comare il primo tema
(allargato per aumentazione) ai bassi, e ricompare nei violini primi l’elemento ritmico,
che diventa anche materiale contrappuntistico. Inizia il fugato che inizia proprio dal
materiale ritmico, insieme ad elementi del secondo tema spezzato, arrivando a una
sezione culminante a piena orchestra, con spostamenti di accenti (lunga sincope
composta in ff e con sf, passaggi tipicamente beethoveniani con forzature della
dinamica). Al culmine del passaggio troviamo la tensione massima dovuta a una
dissonanza (mi naturale/fa naturale), e subito tutto tace tranne gli archi (semiminime
puntate) che decrescono, ed ecco che arriva il nuovo tema, esposto dai due oboi, che è
un tema elegiaco, cantabile, in forte contrasto (Beethoven gioca con le attese
dell’ascoltatore). Durante tutto lo sviluppo riappare costantemente l’arpeggio del
primo tema. In una nuova sezione vediamo sviluppato l’ultimo tema introdotto, che
entra a far parte del gioco dello sviluppo, arrivando ad una falsa ripresa (sib maggiore),
col primo tema messo in evidenza dalle parti alte dell’orchestra. Comincia un’ultima
sezione di transizione, fatta di contrasti molto forti, dopo il ff abbiamo un subito p,
comincia a riemergere l’arpeggio del primo tema agli archi alternato da accordi ai fiati,
che diminuisce e allo stesso tempo di stringe nel ritmo, si sente il corno che è punto di
arrivo e espone il primo tema, e poi finalmente ripresa, con riesposizione di tutti i temi
secondi. Poi coda, nella quale viene reinserito il tema aggiunto nello sviluppo (forse il
motivo della coda molto lunga è proprio per riesporre questo tema che non era
presente nell’esposizione/ripresa).
Nella sua ultima fase Beethoven alterna infinitamente grande e infinitamente piccolo, grazie
alla contaminazione tra forma sonata e forme estranee. Abbiamo una rielaborazione
estremamente capillare di tutti i motivi/incisi per sfruttarne tutte le potenzialità, che si
accompagna nell’ultimo decennio a una sovversione della macrostruttura (insieme
all’alterazione della microstruttura): scambio di posizioni fra adagio e scherzo (ex
allegro/scherzo/adagio/allegro finale), questo si motiva probabilmente per ragioni di
equilibrio, dato che lo scherzo è molto energico se paragonato al minuetto, ma soprattutto
perché l’allegro finale ha una tale complessità che Beethoven lascia che lo spettatore possa
riprendere fiato con l’adagio prima dell’allegro finale, benché spesso anche l’adagio sia scritto
in Beethoven in forma sonata e sia strutturalmente complesso. Inoltre all’interno dei
movimenti abbiamo una microsegmentazione, con moltissime indicazioni di tempo. Nelle
ultime sonate (*vedi schema sul telefono) abbiamo l’inversione per l’appunto dei movimenti
centrali, con l’introduzione dell’elemento fugato nell’ultimo movimento (op 101, 106, 110).
Nella 106 e 111 troviamo l’elemento fugato all’interno dello sviluppo del primo movimento.
Nella 110 abbiamo il terzo movimento molto frammentato (adagio/recitativo) e uno dei temi
è riproposto nel quarto movimento, che è una fuga compenetrata con la forma sonata, nel
quale A è la fuga, B è l’arioso del terzo movimento (variato) e A’ è la stessa fuga di A con delle
varianti. La 110 è il paradigma delle innovazioni beethoveniane del primo’800 (sovversione
della macrostruttura, frammentazione del III movimento in più segmenti, collegamento
trasversale fra più movimenti, compenetrazione col contrappunto e commistione in modo
completo di fuga e forma sonata). La 109 e la 111 contaminano la forma sonata col tema e
variazioni nell’ultimo movimento. Abbiamo meno movimenti (due movimenti, meglio visibili
nella 111, meno nella 109 dove secondo alcuni analisti il primo movimento è realtà diviso in
due, in quanto molto frammentato, e si trova all’interno di esso un prestissimo, forse secondo
movimento, scritto in forma sonata).

Sonata op 106:

- Scritta tra il 1818 e il 1819, forse mentre sta lavorando alla nona sinfonia, viene
dedicata all’arciduca Rodolfo, uno dei suoi sostenitori, fratello dell’imperatore. Non è
escluso che l’enfasi di Beethoven abbia origine nei suoi dedicatari. Per la prima volta
compare l’indicazione metronomica, indicando la volontà di Beethoven di definire tutti
i parametri della composizione, anche quelli normalmente lasciati all’esecutore, e
questo ha anche un senso. Nel momento in cui si allontana da sentieri battuti si
allontana forse anche da quella convenzione che era nella retorica musicale, per cui a
certi segnali della partitura (tonalità/scelte di ritmica, metrica) l’esecutore eseguiva il
brano secondo dei canoni, ma proprio allontanandosi da essi si crea il bisogno di
specificare più cose. La sonata è in sib maggiore, e raggiunge il pieno possesso della
tastiera, che viene sfruttata in tutta la sua estensione e possibilità dinamiche,
combinando insieme anche registri molto gravi e registri molto acuti. Abbiamo grandi
contrasti dinamici, timbrici, sonorità stridenti, armonie “strane” per l’uso dell’epoca
(nell’ultimo Beethoven assistiamo a una grande sperimentazione armonica). In una
lettera, a proposito di questa sonata scrive che fare una fuga non è arte, ma che la
fantasia ha i propri diritti, come se volesse intendere che lui prende degli elementi
tecnici, ma è ciò che lui vi mette dentro ad essere il vero poetico. Qua si comincia a
respirare aria di romanticismo (vedi successivamente Schumann), abbiamo un quid
che permea tutte queste grandi strutture del passato in modo che comunichi qualcosa
di soggettivo: c’è l’io dell’artista che comincia ad affiorare. Nelle ultime sonate
Beethoven risente dell’impianto delle sinfonie. Abbiamo i primi accordi che sono solo
introduttivi e che non hanno funzione tematica; primo tema bisecato costruito in una
sezione più distesa e una più energica; abbiamo un ponte modulante tripartito che
sfrutta gli accordi introduttivi, che modula propriamente alla fine per arrivare al
secondo tema I, poi un secondo tema II; transizione; espone un terzo elemento
espressivo (cantabile dolce ed espressivo) con un lungo trillo in crescendo che conduce
alla conclusione dell’esposizione, in seguito transizione; sviluppo fugato; parte di
sospensione dove si procede a eliminazione, con molte pause che hanno il compito di
lasciare sospeso l’ascoltatore; ripresa che parte dagli accordi introduttivi; coda della
ripresa (ottave spezzate), poi coda del movimento, che riprende gli elementi enfatici
degli accordi andando in eliminazione.

Sinfonia n 9 op 125:

- La nona sinfonia è dedicata a Federico Guglielmo II di Prussia, la compone dal 1822-


1824, anche se sono stati trovati appunti risalenti al 1815, e sicuramente durante
l’elaborazione dell’op 106 la stava già scrivendo (insieme alla missa solemnis). La
durata della sinfonia supera l’ora, abbiamo un’elaborazione estremamente complessa
oltre a una dilatazione notevole. La complessità è dovuta alla predominanza della
forma sonata, che chiede all’ascoltatore un impegno mentale per ogni movimento, e
nell’ultimo movimento abbiamo una forma libera. Si può parlare con la nona di una
grande polifonia orchestrale, nel senso che tutti gli strumenti sono chiamati in pari
misura a far sentire la propria voce, con una grande circolazione di tutti i materiali
tematici (nello scherzo un ruolo importante è dato ai timpani, mentre nell’andante il
solo è dato al corno). Questa complessità è arricchita da un elemento completamente
nuovo, ovvero l’introduzione della voce nel tessuto sinfonico. Nel quarto movimento
interviene in modo irruento, dopo un momento introduttivo di citazione di segmenti
dei temi dei movimenti precedenti, abbiamo un baritono solista che canta un recitativo
“o amici lasciateci intonare invece di questi suoni altri più piacevoli e pieni di gioia”,
preludendo all’entrata di un quartetto solista, di cui fa parte il baritono stesso, e di un
coro misto, che diventano a tutti gli effetti delle voci della sinfonia. Con la rottura
dell’assolutezza strumentale nel genere sinfonico Beethoven apre la strada a un genere
che avrà largo seguito nell’800, quello sinfonico-corale. Per questo la sinfonia è detta
“corale”. Nel testo Beethoven intona un’ode di Schiller, “l’ode alla gioia” per l’appunto
(an die freude), che contiene un grande messaggio umanitario di fratellanza; nel
momento culminante, in cui inserisce una seconda idea, il testo termina con
“abbracciatevi moltitudini, un bacio al mondo intero, al di sopra dei nembi e dei tuoni,
fratelli, oltre il firmamento deve abitare il padre amato”, abbiamo lo sdoppiamento
dell’orchestra nella parte grave, a simboleggiare l’umiltà (umile deriva da humus,
strato di terriccio più in basso dove è il nutrimento per le piante) dell’uomo che è in
terra, e nella tessitura acuta, dove i soprani ad esempio cantano nel registro alto,
questo sdoppiamento quasi a spiegare il passaggio testuale, ciò che collega il regno
terreno e quello dell’altissimo è l’amore, per questo il messaggio di fratellanza. La
macrostruttura: allegro ma non troppo-un poco maestoso/scherzo molto vivace (il
tutto con vari micromovimenti intercalati)/adagio molto e cantabile (aria con
variazioni)/presto (frammentato in ulteriori microsezioni da altrettante indicazioni).
La tonalità prevalente è re minore/maggiore (tonalità tragica/maestosa). Sotto
l’influsso del pensiero romantico si è detto che lo stesso Schiller avrebbe scritto freiheit
(libertà) e non freude (gioia), ma questa affermazione non è fondata, soprattutto se si
fa un’analisi attenta sul piano metrico, poiché tutta l’ode è scritta in trochei (-u) mentre
freiheit è costituita di due sillabe lunghe (--), sarebbe perciò l’unico spondeo di tutta
l’ode. Per eliminare la banalità strofico-musicale Beethoven spezzetta l’ode facendo
delle sezioni asimmetriche, utilizzando il testo in modo asimmetrico e creando dei
ritorni di parti del testo, sfruttando dunque il materiale in modo libero. L’idea
principale del quarto movimento è trattata come tema conduttore del brano, ad essa si
affianca la seconda idea (affiancata al testo precedente), ma l’idea principale resta
predominante. Presto introduttivo, con varie indicazioni (i metronomi sono originali di
Beethoven), compaiono le citazioni dei movimenti precedenti; ancora
nell’introduzione, compare il recitativo ed entra il baritono; allegro assai, il baritono
espone la prima frase, intervallato dal basso del coro, e la stessa frase viene poi
ripetuta dal coro e dal quartetto di soli, abbiamo nel testo anche un altro riferimento
alla freude e non alla freiheit, in quanto si parla dei campi elisi, che erano nella
mitologia greca il corrispettivo del nostro paradiso, e non hanno nulla a che fare con la
libertà; alla marcia in sib maggiore, viene elaborata la stessa idea ma in forma di
marcia; andante maestoso, seconda idea, introdotta dai tromboni nel registro grave
(elemento umile); allegro energico sempre ben marcato, inizia un maestoso
contrappunto fra le due idee; con il prestissimo inizia la coda.

IL ROMANTICISMO

È un’epoca complessa, in quanto si inaugura la figura del musicista colto, figura che si andava
delineando già in Beethoven (si iscrive all’università, avido di letteratura, riferimenti letterari
nelle sue opere, frequentazione dei salotti artistico-letterari più importanti). Questa
configurazione del compositore che sta dentro ai fatti anche della cultura contemporanea dà
la possibilità a tutti i fenomeni culturali di questo periodo di entrare dentro alla complessità
dei brani dell’autore. Fino a questo momento infatti, sebbene ogni movimento musicale sia
frutto della cultura contemporanea dell’epoca, essa entrava indirettamente all’interno di essa
(stili, retorica dei generi), però si parla sempre di elementi interni al linguaggio musicale,
mentre nel romanticismo si intersecano nel discorso musicale concetti esterni a esso, ovvero
adesioni della musica e della partitura ai grandi topoi legati all’immaginario di quest’epoca
romantica, che in realtà ha una grande ricchezza non soltanto letteraria, pittorica, in poche
parole idee esterne, concerti extramusicali cominciano a entrare in partitura proprio
attraverso gli interessi dei compositori (spunti letterari, storici, filosofici, biografici), abbiamo
una partitura che si inspessisce.

- Fase preromantica col movimento dello sturm und drang (tempesta e assalto)
- Le idee romantiche vengono poi teorizzate a fine ‘700 da due gruppi intellettuali, il
circolo di Jena (1770) di qui fanno parte i fratelli Schlegel, Novalis, Tieck e
Wackenroder, e poi il circolo di Heidelberg (1800), dove Brentano e von Arnim
raccolgono una serie di canti popolari (purtroppo mancanti di musica) che molto
spesso sono basati anche su elementi fantastici, e li raccolgono in una raccolta che
s’intitola “das knaben wundernhorn” (il corno meraviglioso del fanciullo), e questa
raccolta, importante anche nella storia della musica (anche Mahler scriverà
lieder/repertorio sinfonico-corale basati su questi testi), in quanto si immette
l’elemento favolesco/fantastico nella musica romantica. Oltre a i due citati, anche i
fratelli Grimm raccolgono narrazioni orali (in prosa). A loro si aggiunge l’influsso degli
allora famosi poemi di Ossian, che erano in sostanza un falso neoceltico, elaborato da
un poeta scozzese, McPherson, sulla base di alcuni frammenti in lingua gaelica di epoca
medievale, intorno ai quali egli aveva composto invece una serie di poemi. Abbiamo
dunque l’elemento magico/popolare (verginità popolare della tradizione del passato)
che va a convergere nell’ideologia romantica. Schopenhauer scriverà nel 1819 “il
mondo come volontà e rappresentazione”, e insieme al circolo di Jena è responsabile
della definizione di un’estetica musicale per il Romanticismo (estetica=ciò che
un’epoca pensa di una determinata arte, da aistanomai/percepisco in quanto le arti
sono campo della percezione, diversamente dal termine poetica, che implica il fare di
un’arte, quindi il processo creativo di un autore). Per il romanticismo l’estetica è
particolarmente importante, abbiamo due estetiche romantiche, la prima elaborata
non da musicisti (i due circoli).

‘700 ‘800

- COSMOPOLITISMO - NAZIONALISMO
- RAZIONALITÁ + - IRRAZIONALITÁ , l’io, l’individuo, interiorità, l’istinto
SCIENTISMO (soggettivismo)
- IMITAZIONE DI MODELLI - LIBERTÁ CREATIVA (no modelli, la musica crea da sé la forma che
(ex forma sonata, rotorica avrà)
dei generi nell’opera) - ISPIRAZIONE (termine desunto dalla religione, ispirazione mistica)
- COSTRUZIONE (il + IMMAGINAZIONE come “organo” della fantasia (termine desunto
compositore ha materiali dall’alchimia, in quanto l’alchimista, o mago, era in grado di
e regole compositive alle osservare e comprendere tutte le realtà tangibili/fenomeniche
quali attenersi, cit. come immagine/riflesso di qualcosa di occulto che era
Strawinsky “homo faber”) l’intangibile)
- FORMA-SONATA - CRISI DEL SONATISMO: 1) messa in discussione delle
- COMPOSITORE NON microstrutture, la forma si va costituendo di volta in volta tramite
LIBERO, legato a un l’ispirazione e il processo creativo 2) crisi delle grandi architetture
ruolo/posto di lavoro come composizioni in più movimenti e costruite, prevarranno
brani brevi, di tipologie spesso inventate (ex momento musicale)
- PIANOFORTE: la massima sperimentazione è concentrata sul
pianoforte
- Si interrompe la corrispondenza tra DOMANDA E OFFERTA, il
compositore è libero di comporre ma si crea un taglio tra
compositore e pubblico che si andrà via via ingrandendo, non si ha
successo sicuro, processo che culminerà nei primi del ‘900
Prima estetica musicale romantica:

- Kant aveva interpretato la realtà come composta da due parti, il fenomeno (tangibile,
conoscibile tramite la razionalità) e il noumeno (intangibile). Tutta la cultura
occidentale si basa sin da Platone su un dualismo (il mondo fisico e il mondo delle
idee). Il noumeno non è conoscibile attraverso gli strumenti della percezione/ragione,
ma attraverso due strumenti che sono la fede e l’arte. Sono due attività che puntano su
altro tipo di abilità/attitudini. Le arti sono dunque strumento di conoscenza, e la
musica strumentale è l’arte più idonea a conoscere il mondo delle essenze: la
letteratura è legata a concetti concreti (parole), la pittura alla figurazione (realtà
oggettiva), invece la musica strumentale (a differenza di quella vocale che presenta un
testo), è capace per la sua indeterminazione segnica di raggiungere il mondo delle
essenze. Wackenroder definirà la musica un “sanscrito misterioso” (lingua
indoeuropea di cui si era a conoscenza all’epoca ma aveva attorno a sé un’aura di
mistero, una lingua quasi magica), Schopenhauer arriva a dire che abbiamo la Volontà,
da cui procede il mondo, da cui derivano le arti, mentre la musica è per lui emanazione
diretta della volontà, non è rappresentazione del mondo oggettivo. Grazie a questa
estetica la dignità del musicista/compositore è maggiore, lui diventa una sorta di
mediatore tra il mondo visibile e il mondo delle essenze, la composizione divena quasi
una suprema operazione metafisica (musica come arte del non detto/non percepibile).
L’atteggiamento beethoveniano di arte per l’arte deriva da questa legittimazione che il
pensiero filosofico dell’epoca conferisce alla musica e al compositore.

Seconda estetica musicale romantica:

- Si afferma alla fine degli anni ’20, a partire da alcuni brani di Mendelssohn, e afferma
l’opposto di ciò che era stato detto con la prima estetica, che vedeva nelle strutture
musicali pure il segreto di questo “mondo misterioso”, proprio perché non vi erano dei
riferimenti immediati alla realtà oggettiva. Mentre secondo l’ultima estetica la musica
raggiunge il più alto grado di assolutezza quante più realtà esterne si riesce a far
convergere dentro di essa: nasce la musica descrittiva, ovvero una musica strumentale
che abbia la capacità di descrivere dei riferimenti/realtà extramusicali (letterari,
filosofici, paesaggistici, storici, biografici). Abbiamo così poemi sinfonici (il contenuto è
espresso nel titolo), o musica a programma (nel programma del concerto si ha un testo
più esteso senza il quale non si capisce la partitura, come abbiamo visto nella sinfonia n
6 di Beethoven, in Vivaldi e nei clavicembalisti francesi). A partire dal 1830 abbiamo
così questa controtendenza, frutto delle grandi letture dell’epoca, grandi mostre e
interesse per la realtà storica che animano il musicista colto. Nel 1854 si ha una
“disputa sulla musica assoluta”, che contrapporrà i sostenitori della musica pura,
basata sui parametri interni della forma e dei generi, contro quelli della musica che ha
riferimenti esterni, nella cui partitura fanno irruzione tutti i topoi dell’epoca.

I topoi dell’800:

- Concetto di sehnsucht, parola quasi intraducibile che sta a significare il piacere misto a
dolore/struggimento suscitato da tutto ciò che è lontano e irraggiungibile. In italiano è
spesso tradotto con la parola “nostalgia” (dolore nel ritorno, ritorno a qualcosa di
perduto). Questo significato per noi è solo doloroso, mentre in altre lingue è meglio
espressa questa sensazione dolce-amara a cui ci si abbandona (saudade in brasiliano
ad esempio). L’uomo romantico a una particolare propensione verso questo
sentimento dell’irraggiungibilità, e l’irraggiungibile ha varie declinazioni, che si
riflettono negli altri topoi;
- Il mito del popolo, che viene sentito come una parte dell’umanità ricca di un qualcosa
che invece l’uomo colto ha perduto, una specie di verginità culturale, ingenuità,
freschezza nella conoscenza e rapporto con la vita. Si parla di un popolo ovviamente
idealizzato, in quanto chi partorisce queste idee non è “popolo”, non si è mai misurato
con la durezza e le limitazioni della vita nei campi. Questo popolo è lo stesso che
acquisisce una identità politica, una consapevolezza, nell’esatto momento in cui
prendono piede i moti nazionalistici in Europa, un popolo che comincia a diventare
protagonista della storia. Il mito del popolo è forse quello che ha più esiti nel mondo
della musica, intorno al 1860 avremo anche la nascita di scuole nazionali in zone che
fino a quel momento erano rimaste emarginate (Russia, Moldavia, Boemia, Spagna).
Nei paesi austrotedeschi, nei quali fiorisce il romanticismo, abbiamo una particolare
intensità identitaria del concetto di popolo, parliamo di mito del Volk, un popolo la cui
identità affonda le radici in un passato che risale addirittura ai popoli germanici, alla
loro origine ariana, e a un legame particolare con la natura, sicché l’identità di un
austrotedesco non è data solo dalla lingua, ma è qualcosa che si è costruito nella catena
delle generazioni, nella storia, e nel rapporto intimo e sottile anche con il panorama
(foresta nebbiosa, montagne impervie percorsi da acque impetuose). Per certi versi
secondo il romanticismo tedeschi non si può diventare, se non si è coltivato per
generazioni questo dialogo con la natura. Il lied, nato con i minnesaenger, è continuato
ad essere composta nel tempo, e diventa una forma predominante nella produzione
romantica della zona austrotedesca, poiché è sentito come espressione sovrapersonale
dell’anima tedesca, è come se si scrivessero da soli e sono fortemente indicativi
dell’identità germanica e del mito del volk. Il popolo è sociologicamente lontano da chi
elabora però queste idee;
- Altro topos del romanticismo è la natura, fascinosa, immensa, parlante, animata da
presenze occulte, fiabesche benevole o demoniche, natura ambigua che ad ogni passo
riserva delle sorprese derivanti dall’inconoscibile, mondo dei racconti popolari. Anche
la natura comincia ad essere lontana a quell’epoca col peso della rivoluzione
industriale, già si sentiva l’allontanamento da questi luoghi;
- Altro mito romantico è il passato, soprattutto quello medievale, misterioso, il medioevo
delle foreste e dei castelli, cavalieri ed eremiti, immaginario medievaleggiante (nasce
infatti il romanzo storico). In Italia e in Germania le opere vengono ambientate in
questo periodo e si fa ampio uso di questi soggetti. Fascino di tutto ciò che è
lontano/remoto.
- Altro topos, trasportato sul piano biografico, è quello della felicità, o meglio il lontano
raggiungimento di essa, e quindi l’infelicità, soprattutto in campo amoroso. Questa
infelicità si estende anche alla condizione di vivere (vedi Leopardi in Italia). Nel
romanticismo abbiamo una vera e propria estetica del dolore, che trova piena
realizzazione proprio nel teatro musicale, dove il binomio amore e morte trionfa in
tutte le trame, portando al capovolgimento del teatro settecentesco che era sempre a
lieto fine, assecondando quel bisogno del pubblico di essere profondamente commosso
con il finale tragico.
- Grazie all’intimità della creazione artistica, al musicista che traspone in un’opera il
proprio io, si entra in intimità anche col pubblico, l’opera crea una bolla fra l’autore e il
pubblico, che si identifica psicologicamente e intimamente con quanto l’opera mette in
scena, creando questa iperemotività di tutta l’arte musicale dell’800.

Schema compositori romantici:

Caratteristica degli autori romantici, oltre ad essere spesso dei bambini prodigio, è quella di
vivere poco. Il quadrifoglio romantico comprende gli autori più rappresentativi del periodo
romantico, il più longevo di loro, Liszt, arriverà alle soglie del decadentismo (arriverà a dire
che un accordo può essere seguito da qualsiasi accordo).

FRANZ SCHUBERT (1797-1828)

Austriaco, vive dal 1797 al 1828. La sua vita è travagliata da un’incapacità di trovare una
collocazione del compositore nella società, perché Schubert, figlio di un maestro di scuola, non
riesce a trovare altro se non proseguire il lavoro del padre, minimamente ritenuto importante
e interessante dalla società. Non fa altro che licenziarsi e vivere ospite di amici ricchi o in
luoghi malsani, è un figura piuttosto infelice. Nel momento in cui riesce ad avere una certa
notorietà grazie all’amicizia con un tenore di corte, Vogl, che inaugurò la moda delle
schubertiadi, pomeriggi musicali in cui Schubert eseguiva dei propri lieder cantati proprio da
Vogl, tracolla la salute del compositore che aveva contratto la sifilide, e muore. Importante in
Schubert è la produzione di lieder, ne scrisse circa seicento (fu un lied sia il suo primo brano
in assoluto sia l’ultimo), e di brani per pianoforte.

Composizioni:

- Circa 600 lieder


- Scrive 9 sinfonie (la decima resta incompiuta, insieme ad altre cinque)
- Due trii per pianoforte e un quintetto
- Tra le 15 e le 23 sonate per pianoforte (includendo frammenti e composizioni
incomplete)
- Quartetti per archi e un quintetto

Lieder:

- Sono composizioni per voce e pianoforte di varia struttura, molto semplici come i
lieder strofici, o strofici modificati, oppure possono essere durchkomponiert
(composto di seguito, senza che la struttura musicale rispecchi quella testuale). Questi
lieder sono in parte raggruppati in tre raccolte, due volute da Schubert in quanto
compongono una narrazione, e i lieder la cui successione compone una storia vengono
detti liedernovellen. Sono due: “die schoene muellerin”, la bella mugnaia (20 lieder) e
“die winterreise”, il viaggio d’inverno (24 lieder). La terza raccolta è stata assemblata
dopo la sua morte e s’intitola “die schwanengesang”.
Ascolto: “der tod und das madchen” la morte e la fanciulla, topos favolistico del dialogo
fra una ragazza e la morte che viene a prenderla via. Intorno al tema di questo lied,
Schubert costruisce il quartetto per archi n 14 che prende il nome del lied, e nel
secondo movimento (adagio) contiene il tema del lied. Abbiamo un racconto allegorico
che Schubert scrive nel 1822, intitolato “mein traum” (vedi testo). È un enigmatico
racconto che si ripete a sequenze, abbiamo a più riprese il rigiuto paterno davanti al
suo rifiuto della gioia, l’allontanarsi, il vagare in preda al dolore (binomio amore-
dolore), la morte (della madre prima, della pia vergine poi). Analogo è un altro lied,
“erlkonig” il re degli elfi dove non abbiamo il dialogo, ma l’intervento della figura
sovrannaturale, si hanno tre voci, ovvero il padre che cavalca, il bambino e il re degli
elfi, tratto da una poesia di Goethe. Altro lied famoso è “die forelle”, abbiamo dolore
anche nelle piccole cose, nell’empatia che il protagonista sente per l’animale catturato
dalla rete. Anche in questo caso abbiamo un brano strumentale, il quintetto per
pianoforte, in cui il quarto movimento (sono 5, un movimento è aggiunto) è un tema e
variazioni basato proprio su questo lied.

Tema della wanderung:

- Altro lied è “der wanderer” (Schubert scriverà vari lieder sul tema del viaggio). Quello
del wanderung è uno dei sottotemi del romanticismo, il wanderer è un viaggiatore che
viaggia senza una meta. Questa evoluzione del mito del viaggio, che comincia agli albori
della letteratura mediterranea e poi europea (odissea per esempio, il viaggio di Dante);
il classico viaggio prevedeva una partenza da un punto A e un arrivo in un punto B, per
poi tornare ad A, ovviamente col protagonista arricchito di nuove conoscenze dopo
varie peripezie (fiaba). All’inizio dell’800, con alcune narrazioni appartenenti al genere
del romanzo di formazione, succede che il protagonista perde le coordinate della
propria ricerca, diventa meno riconoscibile l’epoca storica e la geografia dei luoghi
dove si reca, e il suo diventa un viaggio senza una meta, un’erranza. Quindi wanderung
si può tradurre con erranza, e questo viaggio diventa uno sprofondamento nell’io, è un
viaggio interiore, che è particolarmente adatto a descrivere la condizione esistenziale
del romantico. Schubert scrive vari lieder su questo tema, e un intero ciclo, die
winterraise: nel corso dei 24 lieder abbiamo un personaggio che ha subito una
delusione d’amore, che non viene raccontata, il ciclo parte in medias res, lui si
allontana dal luogo in cui ha avuto tale delusione, si allontana in un panorama
invernale, notturno, ostile, e ogni lied rappresenta un piccolo segmento del suo
sconforto che si rispecchia in questa natura ostile. Solo nell’ultimo lied si accompagna a
un uomo con l’organetto, messo in disparte da tutti mentre chiede l’elemosina.
Ascolto: der wanderer D493, lied non strofico, ma durchkomponiert. Senso di
estraneità del personaggio, divisione in quattro parti ABCA’ (non strofico). Oltre
all’irraggiungibilità della felicità abbiamo un tema ancora più profondo, abbiamo nel
testo una voce spettrale che risponde all’io lirico del protagonista (geisterauch),
rispondendo che la felicità è là dove lui non è, la felicità è nel non essere, nell’aver
interrotto la ruota delle rinascite. Questo è il concetto di nirvana, preso anche da
Schopenhauer nelle filosofie orientali, l’essere (condizione umana) è di per sé infelice,
poiché è soggetto al desiderio, quindi il non essere è il luogo della pacificazione, dello
spegnimento di ogni impulso, e quindi la felicità. Uno dei temi del lied è anche qui
ripreso da Schubert, e vi scrive intorno la wanderer phantasie, per pianoforte.

Produzione pianistica:

- Continuiamo il discorso sulla crisi del sonatismo, quale crisi delle grandi architetture e
libertà compositiva del brano, tendenze già preannunciate nell’ultima produzione di
Beethoven. Diminuisce infatti con Schubert il numero di sonate (dalle 32 di Beethoven
alle 18 compiute di Schubert). Nelle sonate tende a prediligere, rispetto al rapporto fra
tonalità d’impianto e tonalità della dominante, dei rapporti diversi (nel caso di
Schubert il rapporto di terza maggiore/minore) e quindi evade dalla tipico “armonia
gestore della forma”. Abbiamo un altro modo di trattare il tematismo, che è quello di
temi divaganti che sorgono per somiglianza, non sorgono con un’esposizione iniziale di
tutto il materiale tematico che poi viene messo in contrapposizione nello sviluppo, ma
si comincia con un’idea musicale, poi la seconda, poi la terza e così via, che farà parlare
Schumann di “divina prolessità” in Schubert. Scrive un altro pezzo di grande
architettura che è la wanderer phantasie. È un brano in più movimenti che l’autore
chiama sintomaticamente “phantasie”, cosa che succederà sempre più spesso nel corso
del romanticismo, perché c’è come il bisogno di indicare con un termine un po’ diverso
questo tipo di genere, volendo determinarne l’andamento un po’ rapsodico già nel
titolo. L’altra scelta che inaugura Schubert è quella del pezzo breve, che coincide un po’
con il lied nella musica vocale da camera. All’interno di un pezzo breve si può
racchiudere proprio l’immediatezza e il raptus di una circoscritta ispirazione, anziché
dedicarsi alla composizione di un’opera di ampia architettura, anche in un tempo
maggiore, con un’attitudine più costruttiva/razionale. I pezzi brevi che Schubert
inaugura sono gli impromptus e i moments musicaux. Egli scrive due raccolte di
improvvisi più una pubblicata postuma, e una raccolta di sei momenti musicali. In
realtà queste diciture erano già esistenti, messe in uso dai due compositori Verzisek e
Tomasek, due musicisti boemi attivi a Vienna nei primi dell’800. Avevano inaugurato
questa moda ma le loro composizioni appartenevano un po’ alla musica da consumo,
cioè pezzettini musicali che si rivolgeva ai dilettanti e ai musicofili borghesi (in questo
momento il pianoforte comincia a entrare nei salotti delle famiglie aristocratiche quasi
come arredamento ma anche in quelle borghesi arricchite). La musica diventa un
simbolo di status sociale, oltre che un medium di buona educazione. Diversamente da
questi brani da consumo quelli di Schubert divengono dei capolavori. La loro
caratteristica è che brano per brano si deve andare a riconoscere la loro struttura non
fissa (esiste talvolta ancora la struttura a volte dell’ABA’).
Ascolto: improvviso op 90 n 4, abbiamo una parte A e una parte B (trio), poi una
transizione e A’. all’interno di A abbiamo due elementi a (quartine) e b (elemento
accordale). Abbiamo poi piccole trasformazioni delle due idee a/b con un
prolungamento dell’elemento accordale. Dopo la terza variazione dell’a abbiamo varie
battute ripetute di “a parziale”, che diventa accompagnamento della nuova idea c, alla
mano sinistra, particolarmente insistente. L’elemento a va avanti come filo conduttore
fino ad arrivare a un nuovo elemento d in terzine, dove si sente l’emiola (scambio tra
ritmpo binario e ternario). Dopodiché ricomincia a parziale/c e le due battute finali
nella prima parte collegano al trio (B). nella musica romantica il trio è molto spesso
non tanto il momento di alleggerimento del tono espressivo, ma un momento
passionale, intenso, caratterizzato da una più forte espressione. Poi A’. É più
importante seguire la melodia che non la struttura.

CHOPIN (1810-1849)

Fryderyk Chopin nasce in polonia nel 1810 e muore nel 1849, da padre francese. Bambino
prodigio, la prima pubblicazione risale al 1817. La Polonia era una di quelle zone che si sono
trovate spesso fatte oggetto nel corso del passato di spartizioni di diverse potenze, essendo
parte di quella zona dell’Europa centrale contesa tra l’impero asburgico e la Russia.
Scendendo nella penisola balcanica era contesa anche dall’impero ottomano. Dopo il
congresso di Vienna (1814-15) la polonia era stata attribuita alla Russia, e si hanno vari moti
rivoluzionari (1830/1848) sono tutti antirussi. Nel 1830 Chopin si trova fuori dalla sua patria
in una tourné pianistica, e viene colto all’estero dall’insurrezione di Varsavia, e così si
stabilisce a Parigi, dove era corposo il numero di emigrati polacchi che cercavano di muovere
la diplomazia (si parlò della cosiddetta questione polacca), in favore della loro nazione.
Chopin, all’interno della sua produzione che è quasi esclusivamente per pianoforte, affronta
l’orchestra solo come accompagnatrice per il pianoforte (concerti, polacca brillante), risente
della sua polonità. C’è in particolare una forma, la mazurka, che dal punto di vista
programmatico quello che è stato chiamato il dialetto musicale polacco, vale a dire inflessioni
del linguaggio musicale che appartengono a al fondo etnofonico della sua terra. Un altro
genere in cui è possibile aspettarsi una cosa simile è quello delle polacche, però queste danze
erano in origine delle danze di corte, mentre la mazurka mette insieme danze folkloriche,
quindi all’interno delle polacche non troviamo tracce della tradizione orale polacca. Le
polacche hanno spesso un’intonazione alta, marziale, un po’ retorica, perché in esse Chopin
dava voce al proprio spirito patriottico, che con la dolcezza/espressività delle sue melodie in
qualche modo armava lo spirito di resistenza dei polacchi. Abbiamo dunque due danze
riadattate per uno strumento estraneo alla tradizione etnica quale era il pianoforte, al sistema
tonale tonale-bimodale della musica colta, ma allo stesso modo lo ricollegano alle sue radici
polacche, le mazurche anche dal punto di vista del linguaggio musicale, attraverso alcuni
segni, le polacche non attraverso segni musicali ma attraverso l’enfasi, lo spirito patriottico.
L’amore per il popolo è una costante di questo secolo, per cui non troveremo solo autori di
una certa etnia che cercano di dare voce al proprio popolo, non avremo solo tendenze
piuttosto radicali basate sulla volontà di creare un idioma colto per le zone tagliate fuori
dall’evoluzione musicale europea (Russia, Spagna, Boemia con le cosiddette scuole nazionali),
ma avremo anche compositori tedeschi (Brahms con le sue danze ungheresi) che coltiveranno
il mito del popolo. Muore per colpa della tisi, era di salute cagionevole e per questo
trascorrerà del tempo anche a Maiorca per il clima mite assieme alla sua compagna, la
romanziera dell’800 che aveva preso uno pseudonimo maschile George Sand.

Produzione:

- La produzione comprende brani che è proprio Chopin a creare o a portare in rilievo,


consacrando queste forme. In questo senso parliamo dei notturni, mentre nuove forme
pianistiche sono le ballate e lo scherzo (inteso come brano unico per pianoforte e non
come movimento di sonata), e riduzione delle sonate, ne scrive solo tre.

Notturni:

- Ne scrive 21. Questa parola prima andava a denominare in modo alternativo e generico
divertimenti, serenate e cassazioni (da “gasse”, strada in tedesco, musica
d’intrattenimento suonata per strada) per orchestra nel ‘700, quindi musica
orchestrale d’intrattenimento (si vede di più nelle serenate), erano dei brani più
disimpegnati (divertimenti) come la eine kleine nachtmusik di Mozart K525 (piccola
musica notturna). La parola notturno nasce per indicare quindi questo tipo di musica.
Ai primi dell’800 troviamo già notturni come brani per pianoforte, nelle composizioni
dell’italiano Felice Blagini, anche lui autore di consumo, poiché questi brani
rappresentavano il corrispettivo dell’aria d’opera ridotta per pianoforte, o anche pot-
pourri (composizione pianistica fatta di melodie di arie d’opera collegate dal musicista
con transizioni, con una piccola introduzione iniziale e una coda finale). I notturni di
Blagini soddisfacevano in questo senso come musica da salotto, con melodie
orecchiabili e un accompagnamento arpeggiato, poco impegnativo, una semi
continuazione dello stile galante. Dopo di lui troviamo un altro autore, John Field,
irlandese, che scrive anche lui dei notturni, nei quali si precisa il significato della parola
“notturno” nel pianoforte, vale a dire un tipo di espressività malinconica, sognatrice,
incline a una tristezza dolce-amara e non dolorosa, una declinazione forse della
sehnsucht. In questo senso la forma-notturno per pianoforte si stabilizza e arriva nelle
mani di Chopin. Si passa a indicare le forme musicali non con dei termini appartenenti
alla storia dei generi e delle forme, non con termini tecnici ma termini suggestivi, tale è
anche la parola ballata, che hanno solo il compito di determinare un’atmosfera e non
una forma. Ogni composizione infatti prende dal suo contenuto la sua forma. Essendo i
più diffusi dal punto di vista editoriale, spesso ci si concentra sulle varianti d’autore
scritte a mano sulle partiture stampate, sicché normalmente la prima edizione è il
testimone più autorevole, ma nel caso vi siano annotazioni successive, esse
rappresentano un’integrazione voluta dall’autore che scavalca la stampa stessa.
Ascolto: notturno op 27 n 2 in reb maggiore, fa parte di un dittico di notturno, il primo
dei quali è molto inquieto, drammatico, mentre il secondo rappresenta una catarsi, un
momento di serenità e pacificazione. Abbiamo tre apparizioni dello stesso tema, con
delle micro variazioni. Tra le apparizioni del tema abbiamo un episodio libero, che ha
un carattere più appassionato rispetto alla serenità del tema. Alla fine troviamo una
coda. Abbiamo anche annotazioni d’autore, ad esempio nel diminuendo che porta
all’ultima apparizione del tema Chopin lo muta in un crescendo che arriva al fff sulla
ripresa. L’ornamentazione nella scrittura di Chopin, che è tutta scritta, tende a riempire
gli intervalli ampi, con frequenza troviamo acciaccature ribattute prima di un salto, e le
ornamentazioni cambiano e si ampliano ogni volta che si ripresenta la melodia, ma
sono inserite in modo da non dar mostra di bravura e agilità, ma di espressività. Si
contravviene al finale enfatico, finendo con ppp.

Ballate:

- Le ballate (titolo suggestivo) sono chiamate così per dare al brano una sfumatura
anch’essa sognante ma più rivolta a un passato di narrazioni e racconti popolari,
leggende. Il termine ballata era legato a una forma vocale, ma le ballate a cui Chopin
pensa non sono quelle della tradizione folklorica, ma piuttosto a dei poemi narrativi
che aveva scritto un suo connazionale, il poeta Mickiewicz (abbiamo scritti di Chopin a
Schumann che testimoniano la sua diretta ispirazione). Si è cercato nelle ballate di
Mickievicz le citazioni che spiegassero passo passo le partiture di Chopin, ma il
compositore non aveva parafrasato un testo letterario, ma aveva parlato di un
semplice spunto ispirativo. In particolare la ballata n 2, dedicata a Schumann, sarebbe
stata ispirata dal poema Switez, che era il nome di un lago lituano dove nella ballata si
collegava un episodio storico leggendario, con ragazze del paese che si erano lasciate
annegare nel lago pur di non cadere vittime della violenza di un’orda di russi che erano
in arrivo (motivo patriottico). Chopin ne suonò un abbozzo a Schumann nel loro ultimo
incontro.
Ascolto: ballata n 2 op 38, A- a) tema di barcarola, in 6/8, poi sezione b) presto con
fuoco, che irrompe nella quiete di a). nella parte B abbiamo varianti di a): a’ e a’’ e un
parte c (più mosso). Nel ritorno di A’ non compare l’idea a, ma direttamente il presto
con fuoco (b). alla fine troviamo una caratteristica che accomuna ballate e scherzi, la
presenza di una coda importante, atematica, non solo conclusiva, ma che è
un’esplosione di dinamismo, e diventa punto focale del brano, senza un ristabilirsi
dell’equilibrio iniziale, come a voler lasciare l’ascoltatore nel culmine dell’emozione e
finire là il brano. Il colpo geniale di questa coda è la ripresa sul finale del primo tema
(di barcarola, sognante), ma in tonalità minore. Abbiamo sempre una sorta di
tripartizione + coda, ma trattata in una maniera anticonvenzionale, che crea una
narrazione, per questo forse non si ha un “da capo”, un ritorno alle sensazioni iniziali.

Mazurka per pianoforte:

- Stilizzazione colta di una danza tradizionale. Era tipica della regione Mazowia, dove
Chopin aveva passato delle estati da bambino, accompagnate spesso da un violino,
violoncello o contrabbasso accordati su quinte vuote, con battiti di mani e piedi. La
mazurka per pianoforte verrà definita da Bartok “urbana”, come tutte le manifestazioni
che attecchiscono nel folklore ma sono colte. È composta da tre danze folklorike: il
mazurek, la danza iniziale e più importante che iniziava con un grido; poi il kujawiak,
danza lenta, strisciata; oberek, una danza sinuosa fischiata. Chopin per comporre la
mazurka per pianoforte mette insieme questi tre momenti iniziando col mazurek. I
segni della musica tradizionale polacca sono la 4a aumentata, soprannominata
“sottodominante slava”, la presenza anche di 2e aumentate. Altra caratteristica è la
presenza di quinte vuote a richiamare gli accompagnamenti etnici delle danze, ma
soprattutto gli spostamenti d’accento sul tempo debole (siamo in un tempo ternario,
l’accento si sposta sul secondo tempo).
Ascolto: mazurka op 7 n 1, A mazurek, mi naturale=> quarta aumentata (siamo in sib
maggiore); B oberek dopo il ritornello, poi mazurek; poi C kujawiak, ripresa del
mazurek (AA/:BA:/:CA:/A). come tutte le forme derivanti dalla danza c’è un ritorno dei
movimenti legati ai soli/gruppi. Ce ne sono alcune più sviluppate di questa, come l’op 6
n 1, op 50 n 3.

SCHUMANN (1810-1856)

Robert Schumann 1810-56, trascorrendo gli ultimi due anni in un istituto psichiatrico, in
quanto perde l’equilibrio nervoso. Fin da bambino aveva comportamenti strani (aveva
fondato una società segreta a scuola), avrà dei momenti di forte crisi di salute legati a
particolari eventi della sua vita che lo portano ad avere delle crisi nervose: ad esempio per il
suicidio di sua sorella, successivamente tenterà lui stesso il suicidio buttandosi nel Reno, e
successivamente internato. Altri momenti di difficoltà legati a una paralisi alla mano sinistra
che lo aveva allontanato dalla carriera pianistica, ma anche l’opposizione del suo maestro
Wieck al matrimonio con la figlia Clara Wieck Schumann. I due dovettero ricorrere al giudice
per far valere il loro diritto a sposarsi. Clara è lei stessa una grande pianista e compositrice
dell’800, insignita di un importante titolo per dell’epoca, la imperial regia virtuosa da camera.
La coppia fece una vita molto intensa all’interno della società musicale tedesca (il suo
quintetto per pianoforte viene eseguito dal quartetto del Gewandhaus con Mendelssohn al
pianoforte). Le difficoltà che ha in vita lo portano a intraprendere nuove vie, che non sono
quelle del pianista virtuoso (per un periodo lavorerà come direttore d’orchestra), si occupa di
organizzazione musicale (con lui i compositori cominciano a preoccuparsi della diffusione
della cultura musicale), diventa infatti direttore artistico del festival del basso Reno,
inaugurato da Mendelssohn. Anche Schumann si applicherà in una nuova disciplina che è la
critica musicale, fondando una rivista, la “neue zeitschrift fur musik” Lipsia 1834, rivista nella
quale fa anche da talent scout, scopre Schubert sebbene fosse purtroppo già morto, scoprirà
più tardi Brahms, sul quale nel 1853 scriverà un articolo “le vie nuove” (Brahms si sentirà
sopraffatto dall’apprezzamento di Schumann tanto da bruciare alcune delle sue prime opere
non ritenendosi degno). Nelle colonne di questa rivista Schumann scriverà anche di Chopin,
Liszt e Berlioz, musicista francese di grande importanza (sarà proprio Schumann a recensire
la sua sinfonia fantastica). Egli sentiva questi musicisti che tentavano delle vie nuove, che
azzardavano, osavano nel linguaggio musicale, li riteneva particolarmente vicini. Altro aspetto
di Schumann era quello di crearsi personaggi immaginari, chiamati “le maschere” di
Schumann. Tutti questi autori che lui sentiva vicini vengono da lui chiamati i Davisdbundler, i
fratelli della lega di Davide, che egli aveva immaginato sull’analoga lega immaginaria di uno
dei racconti di Hoffman, la lega di Serapione. Era un gruppo di spiriti eletti, e lui costruisce una
sorta di ideale fraternità nell’arte con questi autori raggruppandoli nei Davidsbundler. Sono
Davidsbund anche gli immaginari redattori della sua rivista, infatti immagina intorno a se
stesso questi confratelli che lo accompagnano sebbene sia semplicemente lui a scrivere sulla
rivista. La lega di Davide ha anche un obiettivo polemico, che sono i filistei (altra maschera di
Schumann). I filistei sono i musicisti di consumo, che a quell’epoca erano chiamati
biedermeyer, e viene da una raccolta di poesie con un cognome d’autore immaginario, che non
ha nulla a che fare con la musica e rappresentava lo spirito dell’uomo medio durante la
Restaurazione, uno spirito molto conformista e timoroso, dopo l’epoca della rivoluzione
francese, l’epoca napoleonica, tumulto della storia conclusosi col congresso di Vienna.
Trasportata in musica, quest’etichetta rappresentava un tono sentimentale, colloquiale, con
un’armonia priva di ricerca e ardimento, e si rifletteva in composizioni occasionali, da salotto,
di consumo. Schumann li chiama filistei, e contro di loro pone le “vie nuove” dei fratelli di
Davide (in cui lui si include). Le altre maschere sono Chiarina (Clara), il Maestro Raro (Wieck),
Estrella (una sua amata Ernestine von Fricken). Le partiture di Schumann sono intessute delle
presenze di queste sue maschere, e le più importanti sono Eusebio e Florestano. Queste due
figure sono due alter ego di due differenti aspetti dell’anima del compositore, e lui se ne serve
o per firmare brani e articoli, o per intitolarli.

Eusebio e Florestano:

- Ci portano nel cervello di Schumann e nelle sue composizioni. Sono ricalcati sui
personaggi di un libro di Johannes Paulus Richter (Jean Paul), “die flegeljahre” (l’età
acerba o della stupidera, esistono due traduzioni). Lui trova questi due personaggi,
Walt e Vult, che rappresentano i due diversi aspetti dell’anima di Schumann e di
conseguenza per lui dell’animo umano. Eusebius (Walt) e Florestan (Vult)
rappresentano rispettivamente uno la componente sognatrice, malinconica, introversa,
pessimista, l’altro la componente passionale, energica, volitiva, estroversa. Sono due
aspetti complementari, sentiti da Schumann entrambi come alter ego. Utilizza queste
due figure (firmando articoli/composizioni) per dare delle informazioni del tutto
analogiche, del tutto riservate a quanto la persona sia conoscitrice della letteratura
dell’epoca e di tutte le divagazioni che Schumann fa intorno a essa. Quando c’è Eusebio
o Florestano bisogna dunque adattare l’esecuzione a quel tipo particolare di sensibilità
a cui il personaggio rimanda. La letteratura per Schumann è imprescindibile, non si
può suonare Schumann senza conoscere i personaggi letterari che nutrono la sua
fantasia. Per Schumann è stata la vera scuola di contrappunto (dice di aver imparato
più da Shakespeare che dal suo maestro Wieck) e non c’è solo la polemica contro il suo
maestro, ma una particolare propensione di basarsi su delle opere appartenenti ad
altri linguaggi, non basandosi su principi appartenenti alla storia della tecnica
musicale, ma già sul nascere della propria composizione appoggiarsi a quello che
poteva trarre, traducendolo, in particolare dalla letteratura. Papillons op 2 nasce
proprio dalla lettura del romanzo di Jean Paul (sul tema delle farfalle i due protagonisti
si rincorrono nel finale del libro).

Musica di Schumann:

- In Schumann abbiamo tre criteri: il poetico, l’umoristico e il combinatorio. Il poetico è


abbastanza difficilmente definibile, si tratta di un’atmosfera in qualche modo,
suggestiva, che deve essere presente nell’opera, non è quantificabile, non ci sono delle
leggi, dei vocaboli del poetico, ma il poetico è il risultato. Schumann dice che il fine è la
poesia, ossia l’oscurità della fantasia, ovverosia il suo inconscio. Ci sono molti motti
poetici a inizio delle sue composizioni, in particolare una citazione di Friederich
Schlegel a introdurre la sua fantasia op 17 “attraverso tutti i suoni nel colorato sogno
terreno, risuona un tenue suono per colui che ascolta in segreto”, abbiamo la ricerca
della melodia del mondo. La fantasia era stata dedicata prima a Clara, poi a Liszt, e
dalle lettere di Schumann a Clara possiamo desumere il significato di tale
composizione, ad esempio Schumann la ricollega all’estate del 1836, periodo in cui a
causa di Wieck si era allontanato da Clara, scrive che il primo movimento è un
profondo lamento per l’amata, e lo reputa quanto di più appassionato lui abbia scritto.
Tutto questo viene cancellato, ma attraverso la citazione (che lui toglie dalla stampa) e
le sue lettere noi possiamo sapere che questa opera, come in generale nei compositori
romantici, c’è tutta la loro interiorità, c’è un rapporto molto complesso fra il
compositore, le proprie esperienze biografiche e le esperienze dei propri compagni di
viaggio (siano essi musicisti o altri artisti), ovvero i fratelli di Davide. L’umoristico è
una categoria più complessa, è definito da Schumann “il capovolgimento del banale
nell’eterno” “il banale nel sublime e l’effimero nell’eterno”, suggerisce per
comprenderlo l’immagine di un volatile, l’uccello merops (esistente, anche chiamato
merope). Di questo uccello aveva parlato è proprio Jean Paul nel suo trattato di
estetica, che definisce l’umorismo proprio con questo uccello che sale su nel cielo
“girato dalla parte della coda, danzando sulla testa”. È possibile comprendere queste
affermazioni portandole sul piano musicale: l’umorismo (merops) è simbolo di tutti i
comportamenti smusicali inattesi, che stupiscono, che creano quel momento che oggi
chiamiamo “straniamento”, Schumann parla di insoliti giri di frase, transizioni non
comuni, figurazioni nuove e originali, l’umorismo è dunque prendere qualcosa di cui
l’ascoltatore attende una condotta ovvia e dargli quel cambiamento che lo faccia
stupire. Questo viene fatto da Schumann particolarmente sulla musica di consumo
(salonmusik, filistei), in quanto ritiene che sia propria di quella banalità che lui punta a
capovolgere con quelle svolte inattese. Il combinatorio riguarda propriamente il
tematismo di Schumann e la sua scrittura cifrata, il suo volere tendere dei trabocchetti
all’ascoltatore/interprete. Non si limita a questo, ma anche al citazionismo, soprattutto
alla citazione mascherata. Il tematismo di Schumann non è il classico, ovvero non
abbiamo la presentazione e lo sviluppo di due temi, ma i temi si presentano via via in
modo piuttosto libero, e non sono in contrapposizione tra loro ma sono in un rapporto
di somiglianza, come se germinassero per piccoli riflessi degli altri temi. Alla fine del
primo movimento dell’op 17 c’è una citazione dall’ultimo lied del ciclo di Beethoven
“all’amata lontana”, e conoscendo il motivo che spinge Schumann a comporre la
fantasia non è un caso che lui scelga un lied da questa raccolta (era separato da Clara).
La citazione viene mascherata: quando la citazione X arriva a battuta b, da battuta a,
per arrivare a battuta b, cominciano delle rifrazioni del tema iniziale C che si
approssimano sempre di più a X in modo che X sembri per somiglianza un continuo di
C. così facendo la citazione è coperta e non riconoscibile, in quanto sembra nato dal
processo di analogia messo in campo da Schumann.
Ascolto: fantasia op 17, in tre movimenti (indicati in tedesco, anti-italiana) allegro, in
modo appassionato e fantastico/maestoso e con energia/sostenuto. I movimento: c’è
un primo tema; una parte centrale b che viene indicata con “in stile di leggenda”, quindi
indicazione di tipo analogico che richiama la tradizione orale (ballate per Chopin),
mondo popolare, remoto, sensucht.

Produzione pianistica:

- Abbiamo anche in lui una riduzione del numero delle sonate, ne scrive 3, più altri due
pezzi do ampia architettura che sono il carnevale di Vienna e la fantasia op 17, che
nasce come sonata (denominata inizialmente grosse sonata), ma poi per i caratteri
compositivi che mette in atto (il senso sonatistico gli scivola di mano) sente il bisogno
di rinominarla fantasia, alludendo alla componente rapsodica/estemporanea della
composizione. I pezzi brevi di Schumann vengono raccolti i cicli di più pezzi, che hanno
sempre un principio unificatore, che può essere di tipo tematico o/e di tipo musicale,
per esempio di tipo tematico con i papillon, le Davidsbundlertanze, kinderszenen o
anche lo stesso carnaval, che ha anche un filo conduttore musicale, in quanto tutti i
brani sono composti sulle stesse quattro note (scenes mignonnes sur 4 notes).
Ascolto: carnaval op 9, notiamo che ci sono varie maschere tra i brani, abbiamo
Eusebius e Florestan, Chiarina, Estrella, i Davidsbundler, poi abbiamo dei personaggi
appartenenti alla storia della musica, Chopin, Paganini, preambule (allusione a
Schubert anche se non esplicita); poi abbiamo le maschere classiche che danno il senso
carnevalesco all’opera. C’è un turbinio di personaggi di diverso titolo, in cui rientrano
anche musicisti e maschere proprie di Schumann. Nel valse noble possiamo notare la
tecnica umoristica, e in Eusebio e Florestano le loro rispettive caratteristiche (adagio
nel primo e appassionato nel secondo). Nell’incipit del valse noble troviamo il “banale”,
un classico movimento di valzer riconoscibilissimo con l’accompagnamento tipico
dell’appoggio al basso in tempo ternario. Dopo il ritornello comincia qualcosa di
diverso (umorismo), abbiamo gli accordi sciolti in arpeggi, e la mano destra fa
un’epizeusi (ripetizione a una quarta superiore dal re => sol => termina sul re 4° rigo e
poi la 2° spazio, per poi riprendere), è un fraseggiare molto tipico, non concluso, dove
ci si aspetta la conclusione ma poi ricomincia senza concludere; poi viene ripreso
l’elemento del valzer, e solo all’ultimo abbiamo la ripresa del banale. In Eusebio
possiamo notare l’aspetto malinconico, melodico e calmo del personaggio; in
Florestano l’aspetto più energico, appassionato. Le quattro note del carnaval sono in
realtà quattro lettere (lettere musicali), che rimandano anche alla componente cifrata e
sono A S C H, che possono essere le lettere musicali del suo cognome, ma Asch era la
città natale di Ernestine (Estrella). Vengono poste anche come enigma, pone delle
sfingi in cui mette le note (sebbene non se ne comprenda l’esecuzione), e possono
essere interpretate come As C H (lab do si), o (E)s C H (mib do si), o ancora A Es C H (la
mb do si). Lui utilizza queste varie combinazioni nelle composizioni del carnaval. Lui la
pone in maniera sfidante, e non nascosta, quasi a sfidare l’esecutore a comprendere le
combinazioni (combinatorio).

MENDELSSOHN (1809-1847)

Felix Mendelssohn nasce ad Amburgo, parte da una situazione avvantaggiata, figlio di


banchieri, quindi nasce in una famiglia dove riceve un’accuratissima educazione anche
umanistica, si iscrive all’università di Berlino, è allievo di Hegel. Frequenta Goethe, il suo
salotto fu centro di ritrovo di musicisti e intellettuali. Può permettersi di intraprendere il gran
tour, viaggia in Italia (sinfonia italiana), in Inghilterra e Scozia (scozzese), ha una fascinazione
per le poesie di Ossian, il mondo un po’ noire e misterioso, pieno di esseri spiritici, natura
animata, e questo passa in gran parte della sua produzione, nella musica di Mendelssohn si
parla di elfenmusik, musica degli elfi, proprio prche in parte della sua produzione abbiamo
tanto della sua fantasia fiabesca e fatata. Mendelssohn passa alla storia per essere stato un
classico, proprio perché non c’è in lui un grande sovvertimento delle forme, la forma sonata
resta stabile (non si dedicò primariamente al pianoforte come gli altri compositori romantici,
viene ricordato soprattutto per altre cose). Anche se venne definito classico per le sue
strutture formali, si sente benissimo che è un romantico, e i parametri che fanno di un autore
non particolarmente sovversivo un autore romantico sono da rintracciare nello stile più che
nella forma. Abbiamo melodie molto dilatate, espressive, liriche, che tendono sempre a un
climax, a un punto di massima intensità, abbiamo delle armonie che sono molto più ardite che
nel classicismo, la ricerca di un impasto timbrico morbido, sperimentale, ricerca portata
avanti in quegli anni anche da Berlioz, autore di un trattato di orchestrazione. Ebbe anche una
particolare importanza storica in quanto, grazie alla sua posizione di direttore dell’orchestra
Gewandhaus di Lipsia (dove visse per la maggior parte della sua vita), si poté permettere di
rieseguire per la prima volta in tempi moderni una partitura del passato, pratica fino ad allora
non in uso, ovvero la passione secondo Matteo di Bach nel 1829 (prima riesecuzione di Bach
dalla sua morte). Da questo momento inizia un fervore, che era anche parte della mentalità
romantica, nell’eseguire ricerche prima appuntate su Bach, che portano alla fondazione nel 50
della Bach-Gesellschaft (società di Bach) che metterà insieme la prima opera omnia
dell’autore (le composizioni erano state disperse dai figli), e prende piede quel movimento
che comincerà a cercare le varie fonti di tutti gli altri grandi musicisti del passato. Dal punto di
vista dei generi musicali, lui è il primo a comporre delle ouvertures come brani descrittivi,
separatamente da un’opera teatrale. Già con Gluck l’ouverture non era più segnaletica ma
semantica (ex ouverture don Giovanni o Egmont, faceva parte delle musiche di scena).
L’ouverture era composta annessa a un’opera teatrale o musicale, mentre Mendelssohn è il
primo a scrivere ouvertures, chiamandole così non avendo altri termini, che sono dei brani
sinfonici in un movimento, come l’ouverture d’opera, in forma sonata, descriventi il titolo,
come albore di quella seconda estetica musicale. Mendelssohn scrive 4 ouvertures, sogno di
una notte di mezza estate (1826), ispirata dalla commedia omonima di Shakespeare, calma di
mare e viaggio felice (Goethe), le Ebridi (isole al largo della Scozia, brano a contenuto marino,
ispirate a questo senso fantastico delle coste dell’estremo nord delle favole ossianiche) e
infine la bella Melusina (un essere mezzo donna e mezzo pesce) che fa parte della elfenmusik.
Anni più tardi, nel 1841-42 il sovrano prussiano Federico Guglielmo IV volle allestire una
stagione teatrale (Shakespeare era particolarmente apprezzato dai romantici, non solo per il
suo aspetto fiabesco/occulto ma anche per i suoi drammi storici, e anche perché prescindeva
dalle unità aristoteliche di luogo tempo e azione e quindi era visto nell’800 come un grande
innovatore), e dato che aveva già in tasca un’ouverture per la commedia Shakespeare,
Mendelssohn prese l’ouverture del 1826 e compose ex novo il resto delle musiche di scena, e
da questo nasce il sogno di una notte di mezza estate.

- Ascolto: sogno di una notte di mezza estate (1842-43), c’è una suite orchestrale ma
scritta per lo spettacolo, infatti nella partitura ci sono molti passi in melodram
(recitazione con musica), ouverture; III lied con coro, una ninna nanna cantata dalle
fate alla loro regina (i personaggi fatati sono Oberon e Titania, re e regina delle fate)
affinché si addormenti. Oberon vuole incantarla e si fa aiutare dal folletto Puk che va a
creare l’equivoco incantando anche altre persone; VII notturno, per mettere fine al
caos generale Oberon decide di far addormentare tutta la natura, con un incantesimo,
col solo dei corni ad indicare la profondità del bosco, abbiamo qui un passo in
melodram o melolog; IX marcia nuziale, riservata alle nozze dei principi umani della
città Teseo e Ippolita. Questi brani hanno funzione diegetica. La partitura di
Mendelssohn sarà antesignana della musica di Tchaikovsky per i balletti (o più
recentemente della musica dei cartoni animati) ogni qual volta l’elemento fantastico fa
parte dell’intreccio della storia, figurazioni eteree nel registro acuto, passaggi sfuggenti
e veloci in semicrome.

BERLIOZ (1803-1869)

Hector Berlioz, francese, vive dal 1803 al 1869, influisce anche sulla musica tedesca. É un
personaggio un po’ particolare, megalomane, estremamente passionale, si innamora
dell’attrice shakespeariana Henriette Smithson, che va a Parigi per lavoro, si sposano e dopo
un mese si separano, e da questa vicenda biografica nascerà la sinfonia fantastica, del 1830. Si
forma come dilettante, studia poi al conservatorio di Parigi e vince il Prix de Rome, che
permetteva a compositori giovani del conservatorio di Parigi di venire a vivere tre anni a
Roma a villa Medici , facendo quindi contemporaneamente il grand tour e studiando
composizione. È importante come direttore d’orchestra, e come tale è importante nella storia
dell’orchestra, scrive infatti il grande trattato di strumentazione e orchestrazione moderne
(1853). In questo trattato oltre alla legittimazione del sassofono in orchestra, al quale lui
dedica uno spazio notevole, egli crea il fenomeno del gigantismo orchestrale. Significa non
soltanto che si ha un’orchestra molto grande, ma che degli strumenti a fiato ci sono le famiglie
al completo per ampliare la tavolozza delle possibilità timbriche (per i flauti avremo quindi
flauto, ottavino, flauto grande in sol, dei clarinetti clarinetto in sib o lab, clarinetto piccolo in
mib e clarinetto basso, fagotto e controfagotto). Ovviamente se si aumentano i fiati verranno
aumentati di conseguenza gli archi. Oltre a essere maestro di timbrica con questo trattato,
scrive anche la messa dei morti, con quattro fonti sonore dislocate nello spazio, composizioni
piuttosto imponenti anche dal punto di vista dell’impatto sonoro. Lui è l’alfiere della musica
descrittiva, e affianco alla soluzione di Mendelssohn, ovvero quella di comporre un brano
sinfonico in un unico movimento con un titolo descrittivo, l’altra possibilità è la cosiddetta
musica a programma, ovvero accompagnata proprio nel momento del concerto da una estesa
descrizione contenuta nel programma di sala, sicché la partitura è sostanzialmente una
parafrasi di quello che accade in questo testo, nel quale c’è quasi sempre un filo narrativo.

Sinfonia fantastica:

- In cinque movimenti (come la pastorale di Beethoven). Il I movimento (l’allegro della


sinfonia classica), contiene la descrizione musicale del primo incontro tra un giovane
artista (Berlioz) e una bella ragazza (Henriette), la nascita del loro amore, e
l’ossessione di questo amore è resa da Berlioz tramite un’idea musicale ricorrente che
lui chiama idée fixe. Questo è un importante precedente di musica ricorrente, un
concetto che verrà successivamente sviluppato da Wagner, cioè il ritorno simbolico e
semantico della stessa idea musicale che ha lo stesso significato. Nel II movimento
(ballo contadino, ha funzione di scherzo). III movimento (ha funzione di adagio),
abbiamo un momento elegiaco, di contemplazione della natura, nel quale si stanno
addensando delle nuvole, ci sono dei tuoni lontani, si percepisce l’inquietudine di
qualcosa che sta andando storto. Nel IV movimento (quello aggiunto, non codificato
nella sinfonia classica) si intitola marcia al supplizio, nel quale l’artista, ormai sicuro
dell’amore finito, tenta di uccidersi con l’oppio, ma cercando di uccidersi invece
sprofonda in un sonno pieno oi incubi, e in uno di questi uccide la propria amata e
viene condotto all’esecuzione. Il V movimento (allegro finale) s’intitola sogno di una
notte di Sabba, un tipo di leggendaria riunione notturna fra streghe e diavoli viva nelle
tradizioni del nord Europa (sabba demoniaco). In questo movimento si continua con
l’incubo del protagonista, che sogna di svegliarsi durante un sabba demoniaco, durante
il quale arriva la sua amata che sghignazza nel vederlo giustiziato, e si conclude con
una specie di danza, la ronde du Sabat (in partitura), una danza in tondo, vertiginosa, di
grande potenza dinamica e che coinvolge tutte queste presenze infernali. Ogni
movimento presenta dunque dei sottotitoli e delle descrizioni.
Ascolto: V movimento, totalmente in forma libera, e Schumann vede in questa partitura
proprio l’importanza della forma libera, perché in esso quello che accade musicalmente
non ha altra logica se non il supporto del testo, non si ha una logica musicale ma solo
testuale, se non si legge il testo la musica risulta incoerente. All’inizio del quinto
movimento (larghetto) si sentono gemiti, strani rumori, grida (introduzione), abbiamo
un ambiente armonicamente instabile, il tremolo agli archi che crea suspense, insieme
a delle micro articolazioni, tutto questo crea un alone di mistero e inquietudine,
abbiamo la percezione che stia per accadere qualcosa di sinistro. (allegro) Riappare il
motivo romantico (l’idee fixe), che lui però tratta come grottesco motivo di danza, che
anticipa l’entrata della donna amata (al clarinetto), va suonato in modo sguaiato.
(allegro assai) comincia la danza delle creature infernali, in modo concitato. Viene
ripetuta l’idea fissa in maniera sempre più grottesca. Fagotti, violoncelli e contrabbassi
espongono un nuovo tema (apparentemente tranquillo) che sul finale diventerà poi il
tema della ronde, il ballo in tondo. Abbiamo dei rintocchi funebri che portano a una
parodia grottesca del tema del dies irae, abbiamo in partitura delle campane che
cominciano a fare i 12 rintocchi (siamo a mezzanotte), mentre i fagotti e le tube
suonano la sequenza del dies irae. Dopo la melodia passa ai corni a valori dimezzati, e
poi ai legni in valori ancora più piccoli con uno spostamento d’accento. Riprende con lo
stesso procedimento la seguente melodia del dies irae. Poi di arriva al ronde du Sabbat,
che mescola in un specie di contrappunto il tema del dies irae e il tema della ronde che
era stato esposto in precedenza.

LISZT (1811-1887)

Franz (Ferenc) Liszt è mezzo ungherese (madre austriaca) e vive dal 1811 al 1887 (Bayreuth).
Anche lui bambino prodigio, ed è forse il massimo pianista virtuoso dell’800, anche come
compositore mette la sua arte compositiva a servizio della sua virtuosità, composizioni che
nella loro difficoltà esecutiva hanno però un profondo sottotesto filosofico. Al di là di ciò, Liszt
amava saper stupire le platee e dare mostra di sé, a differenza ad esempio di Chopin che aveva
una maggiore aristocrazia di comportamento, amava le riunioni contenute, mentre Liszt quasi
come specchio di questo suo carattere estroverso è onnivoro, assorbe spunti da ogni dove e
tende costantemente non alimare ma a far esplodere i limiti della forma, ma che
rappresentano entrambi l’apice del pianismo nell’800, entrambi li troviamo a Parigi (Chopin
nel 1830). Liszt infatti va a completare gli studi a Parigi, dopo aver cominciato a studiare a
Vienna con Czerny e anche con Salieri (per studiare l’opera italiana). Si ritrova dunque in
quella che nell’800 era a tutti gli effetti la capitale della musica (Vienna lo era stata nel ‘700).
Liszt ha una personalità complessa, soffre frequentemente di crisi spirituali/religiosi, infatti
nell’ultimo periodo della sua vita a Roma prende anche i voti, dopo aver avuto una vita
abbastanza irregolare. Ad esempio non fa altro che scappare con donne sposate, la sua prima
fuga da Parigi in Svizzera è con Marie d’Agoult, che lascia il marito e lo segue in Svizzera, dove
lui insegna pianoforte al conservatorio di Ginevra, e da questa relazione nascono tre figli, tra
cui Cosima Liszt (poi moglie di Wagner). Poi successivamente fugge con Caroline Sayn-
Eittgenstein, sposata con un principe russo, con la quale passa un altro periodo della sua vita.
Da ciò si vede il legame vita-arte, l’arte nasce da una vita sregolata (genio e sregolatezza
dell’artista romantico), e ciò era stato codificato da Hoffman ai primi dell’800 in un suo
romanzo, forse il primo romanzo romantico, che s’intitola l’uomo della sabbia, e in questo
romanzo vediamo che se si è in armonia con la vita (amorosa e non) la vena artistica scema, se
si vive in maniera sregolata invece produce capolavori. Questo è un topos romantico di cui
Liszt è un perfetto esempio. Con la prima moglie, fuggendo in Svizzera, lui compie un viaggio
nella nazione (wanderung, altro topos romantico, lui stesso diventa wanderer), invogliato
anche dal paesaggio suggestivo, e questo viaggio determina un suo quaderno di appunti di
viaggio in musica che prende il nome di année de pelérinage (brani pianistici), il cui primo
volume è appunto dedicato alla Svizzera. Dalla Svizzera la coppia va nel luogo topico del
viaggio, ovvero l’Italia, e vivendo un altro periodo in Italia lì nascono il secondo e il terzo
volume dell’année de pelérinage. In Italia abbiamo il pellegrinaggio ai luoghi dell’arte. Nel
volume dedicato all’Italia vediamo come Liszt tenda a mettere in rapporto tutte le esperienze
conoscitive, oltre che biografiche, con la musica, in quanto diventano spunto per i suoi appunti
di viaggio non solo citazioni da testi letterari da un amplissimo ventaglio di scrittori (Dante e
Petrarca in Italia), ma anche suggestioni figurative, infatti dedica un brano allo sposalizio della
vergine di Raffaello, oppure, lasciando gli anni di pellegrinaggio, scrive la totentanz per
pianoforte e orchestra, ispiratosi al trionfo della morte del cimitero monumentale di Pisa, e
anche il brano dedicato al penseroso ha un doppio riferimento, ovvero una statua di
Michelangelo e a un suo sonetto funebre riferito alla corruzione dei tempi (Michelangelo fu
anche poeta petrarchista). Siamo sul piano dell’accensione della fantasia, che coglie tutte le
possibili ispirazioni e le trasporta in musica. Non a caso Listz è forse il maggiore esponente
della corrente della seconda estetica ( musica descrittiva). Tra l’altro in una delle sue fasi di
vita (successiva al viaggio in Italia) è stanziale a Weimar, dove si appoggia anche all’incarico di
maestro di cappella, continua però la sua carriera di concertista. Lì raccoglie attorno a sé quasi
una scuola, cioè diventa il catalizzatore di una serie di compositori che vengono raccolti dagli
studiosi sotto l’etichetta di “scuola di Weimar” o “neotedesca”, all’interno della quale abbiamo
Tausig, Raff, Cronelius e Hans von Bulow. Ormai in questo periodo (intorno al 1848) fa anche
tourné come direttore d’orchestra, e scrive anche come saggista, scrive un volume sulla
musica zigana e dell’Ungheria (Bartok sarà molto critico a riguardo) e scrive un
importantissimo articolo, la recensione alla sinfonia Harold di Berlioz, dove troviamo la più
lucida enunciazione teorica del principio di musica descrittiva. In questo saggio dice che la
musica è specchio del suo tempo, ogni arte deve restituire il senso dei tempi (la viola ha una
parte principale, è ispirata al poema “i viaggi del giovane Aroldo” di lord Byron), e nello
scrivere questo saggio ci dà una giustificazione teorica della seconda estetica, parla
dell’epopea antica e di quella moderna; per lui l’antica ha grandi eroi che compiono delle
gesta, tutto l’intreccio è esteriore, mentre la moderna, inaugurata da Goethe e Byron, è
un’epopea di processi interiori, si pone la domanda di come si faccia a rappresentare il viaggio
dell’io, per lui l’opera è grossolana e allora l’unica scelta è la musica descrittiva, perché
permette di connettere le profondità che solo la parola non potrebbe esprimere con la
magnificenza dei suoni. Allora la musica descrittiva è quella che maggiormente può
rispondere alle esigenze dell’epoca, un’epoca dei processi interiori. Nell’86 arriverà a scrivere
una bagatelle sans tonalitè, affermando in un altro scritto che “ogni accordo può essere
seguito da qualunque altro accordo”. Se si pensa che la musica del ‘900 viene fatta risalire al
prelude a l’apres-midi d’un faune di Debussy, che commenta un poema di Mallarmé (poeta
maledetto, francese), è del 1894, e Liszt è il punto dell’800 che più si avvicina alla musica
moderna. Come detto Liszt ha spesso crisi spirituali, si pone spesso problemi di contesto, di
civiltà, politici, aderisce al socialismo umanitario cristiano. Ci sono due eventi musicali
importanti, nel 1831 assiste a una tourné di Paganini, nel 1830 è in sala all’esecuzione della
sinfonia fantastica di Berlioz, e da questi due influssi possiamo analizzare la sua poetica, ciò
che lui pensa di dovere fare attraverso la musica. Il primo discorso è legato a Paganini, un
personaggio dell’800 molto legato ancora al senso musicale barocco, ma che possedeva una
grande virtuosità al violino e tutti ne rimangono colpiti, tanto che la sua attività compositiva
comincia con un’attività di parafrasi da Paganini, componendo degli studi che parafrasano
temi del violinista (etudes d’apres Paganini). Poi prende anche una via propria componendo i
dodici studi trascendentali. In realtà la traduzione trascendentale è errata, infatti Listz li
chiama etudes trascendents (trascendenti), a differenza della parola trascendentale che pone
l’accento sul virtuosismo necessario per eseguirli. Per Liszt trascendente significa più che fare
semplice mostra di virtuosismo, per lui la gamma sonora rappresentata dalla tastiera, con
violenti excursus dinamici e virtuosistici (cosa inaugurata da Beethoven), anche con un gesto
proprio potente e dinamico da parte del pianista, ha funzione di sconvolgere la realtà come
essa ci appare, frantumare i limiti della materia, della realtà tangibile, disaggregando la
materia e permettendo di arrivare così all’essenza, all’inconoscibile e poterne conoscere i
piani supremi, l’essenza nascosta.

- Ascolto: studio trascendentale n 4 “Mazeppa”, che oltre ad essere trascendentale in


accezione virtuosistica, ha un titolo descrittivo, un eroe anti-zarista. Abbiamo una
parola che appartiene alla storia dei generi della musica (la parola studio), un’aggiunta
poi del titolo descrittivo che si riferisce a un motivo esterno e patriottico, abbiamo il
virtuosismo messo al servizio di un’idea di grandeur, che viene bene espressa
dall’invenzione della tecnica trascendentale da cui abbiamo la deformalizzazione e il
raggiungimento dell’assoluto. Abbiamo un’esposizione di un tema che poi ricompare
variato, a ogni esposizione segue una cadenza; nel vcentro c’è una seconda idea che si
contrappone alla potenza eroica e grandiosità della prima idea, è più intensa ed
espressiva.

Il secondo aspetto della poetica di Liszt è quello che lui chiama poetische loesung (riscatto
poetico) della musica, cioè la musica non può essere soltanto riferita a se stessa, non ha senso
un’invenzione trova esistenza soltanto all’interno delle coordinate tecnico musicali. Parlando
della crisi del sonatismo in senso stretto Liszt scrive una sola sonata, la sonata sin si minore,
parlando invece in senso più ampio, in senso di soggettivizzazione delle tecniche, il lato
sovversivo degli autori romantici, abbiamo nettamente imboccato la seconda estetica, con
musica il più possibile agganciata a riferimenti extra musicali. Infatti Liszt è autore dell’aver
ribattezzato il brano descrittivo-sinfonico con la dicitura “poema sinfonico”, che vuole proprio
esprimere questa poetische loesung. Lui dunque porta a compimento quell’evoluzione
cominciata con la sinfonia avanti l’opera segnaletica (Scarlatti in Italia e Lully in Francia) =>
che diventa ouverture semantica con Gluck in un’opera o un dramma (musiche di scena) =>
poi esecuzione dell’ouverture da sola senza le altre musiche di scena, svincolata dal contesto
teatrale (Egmont di Beethoven) => poi descrittiva e scritta indipendentemente da un’opera o
dramma recitato (le quattro ouvertures di Mendelssohn) => poema sinfonico di Liszt. Il suo
non è solo un modo di rinominare il brano sinfonico, Liszt crea anche delle strutture diverse.
Scrive 13 poemi sinfonici, che possono avere temi patriottici come nel caso di Hungaria, temi
mitologici nel Prometheus e nell’Orpheus, ispirati a personaggi letterari come nel caso di
Tasso, o personaggi storici come nel Mazeppa, o essere ispirati a brani letterari, come il
poema sinfonico n 1 che nasce come bergsimphonie (sinfonia della montagna) e poi
rinominato col titolo del brano poetico che lo aveva ispirato, cioè “ce qu’on entend sur la
montagne” di Hugo. Le ouvertures di Mendelssohn (come le precedenti) erano scritte in forma
sonata, mentre i suoi poemi sinfonici variano in struttura, in quanto troviamo più movimenti
in uno: in un unico movimento abbiamo una compressione senza soluzione di continuità non
solo della forma sonata (esposizione-sviluppo-ripresa), ma anche della sua macrostruttura, in
quanto troviamo dei momenti/sezioni che hanno funzione dei (quasi sempre) 4 movimenti
dei generi legati alla forma sonata (all/ad/scherzo/finale all), e andando oltre, anche come
movimenti di un ciclo, comprimendo due intere macrostrutture in un unico poema sinfonico.
Il primo poema sinfonico può dunque essere letto secondo due schemi, nel primo si ha la
successione di due macrostrutture fuse, nel secondo la commistione di queste due
macrostrutture in una, dividendo i vari momenti in quattro movimenti (senza soluzione di
continuità!!). Abbiamo dunque l’ambivalenza delle sezioni consistenti la forma, che possono
essere intese come parti di un movimento o movimenti di un ciclo. Struttura bergsymphonie:

Ci sono altri principi compositivi di Liszt che risiedono nella sua tecnica elaborativa: abbiamo
la tecnica della rielaborazione tematica, non abbiamo due temi ben distinti, ma abbiamo uno
scaturire dei temi l’uno dall’altro in modo libero (Schumann), i temi non sono delle idee ben
definiti ma possono essere dei piccoli nuclei tematici o motivici, o addirittura brevi incisi, e la
derivazione di tutto il brano sorge da un limitato numero di idee semplici, che vengono
trasformate facendone derivare tutto il materiale del brano; abbiamo il principio della
trattazione separata, vale a dire che dell’insieme che era il tema (struttura ritmica e melodica),
Liszt tratta anche un solo parametro, vale a dire ad esempio la struttura ritmica uguale a
quella del tema ma applicata a una melodia del tutto differente; per quanto riguarda l’armonia
gestore della forma abbiamo la possibilità del principio armonico-simmetrico, e il principio
armonico-melodico, il primo consiste nel decidere di volta in volta la tonalità in maniera
speculare (se si va ad esempio una terza maggiore sopra alla tonalità d’impianto, si andrà a
toccare anche la tonalità una terza maggiore sotto, ex siamo in doM => si passa per miM => si
va a labM), mentre il principio armonico-melodico consiste nel prendere una melodia (spesso
il tema) presente nel brano, e prendere le note di quella melodia quali toniche di altrettante
tonalità d’impianto. Deriva da ciò un’impressione generale all’ascolto di una forma quasi
improvvisatoria, ma all’interno della struttura c’è un grande rigore costruttivo ma
difficilmente percepibile. Oltre ai poemi sinfonici Liszt scrive anche sinfonie (sempre
descrittive) che sono la sinfonia Faust (I mov. Faust, II mov. Mefistofele, III mov. Margherita) e
la sinfonia Dante. Tutta la sua produzione è percorsa da queste ramificazioni all’interno dei
significati.

Ci troviamo con Liszt (assieme a Wagner) difronte a quello che è stato definito processo di
tonalità allargata, tendenza alla sovrapposizione di sempre più triadi, e quindi usando
l’accordo di 13°, o il processo cromatico, arrivando alla saturazione della tonalità (nel ‘900 con
Debussy, Ravel, Bruckner).

Ascolto: Orpheus, poema sinfonico, concepito per una rappresentazione dell’Orfeo ed Euridice
di Gluck. Composto nel 1853-54.

Una parte della sua produzione sono le rapsodie ungheresi (ne scrive 19) per pianoforte,
alcune delle quali orchestrate, che rendono ragione del suo mito del popolo derivante da una
reale appartenenza (lui era ungherese, come Chopin era polacco). In queste rapsodie non
abbiamo l’utilizzo di particolari elementi linguistici che ci facciano riconoscere il carattere
ungherese della sua musica (a differenza di Chopin che aveva utilizzato la semantica della
musica folkloristica polacca), l’aspetto folklorico è quello di tentare di imitare il suono del
cymbalon tramite una certa percussività del pianoforte. La struttura delle rapsodie è a vetrina
come nei suoi studi (un tema che viene spesso riproposto e variato, lassan + friska). Verrà
fortemente criticato da Bartok, che lo accusa di aver scambiato la musica zigana con la musica
ungherese autentica, la musica dei contadini ungheresi. Infatti la vera musica etnica
ungherese non suscitava interesse in liszt, in quanto era una musica piuttosto semplice
melodicamente, mentre la musica zigana (musicisti zingari che suonavano per le strade) in
realtà era musica che Bartok scopre essere scritta da compositori colti (non musica etnica),
dunque gli zigani avrebbero proposto non la musica autentica ungherese, ma la musica di
questi virtuosi del violino, che lui definisce musica urbana. Bartok sarà uno dei primi grandi
etnomusicologi, dal 1905 fa spedizioni partendo dall’Ungheria in tutta la zona slava e
balcanica, fino ad arrivare in Egitto, e scoprendo anche il cosiddetto ritmo bulgaro (in realtà è
una concezione ritmica diffusa in tutto l’est Europa), oggi lo chiamiamo ritmo aksak
(denominazione turca). Non era un ritmo divisivo ma additivo, cioè non si pensa ad esempio a
una unità ritmica suddivisa (4/4 diviso in quattro pulsazioni da 1/4), ma si parte da una
micropulsazione uniforma, con un denominatore molto piccolo (Bartok lo esprime in
sedicesimi nelle sue trascrizioni di musica orale). Al denominatore ci sono delle combinazioni
di 3+2, quindi sono ritmi sempre irregolari. C’è in Liszt un accostamento alla musica zigana
che dunque non è scientifico, non ricerca la vera musica etnica (i tempi erano molto precoci)
anche perché a Liszt non interessava (in questo è poco ungherese).

DISPUTA SULLA MUSICA ASSOLUTA

Nel 1854, Edward Hanslick, professore di musicologia all’università di Vienna, pubblica un


breve trattato dal titolo “del bello musicale”, e in questo trattato si dice contro questa nuova
linea di tendenza, quella della seconda estetica romantica. Dice che la musica non può
descrivere precisamente nulla di esterno a se stessa, né suscitare emozioni precisamente
definite (suscita emozioni indefinite, diverse da persona a persona), se non con l’appoggio di
testi, quindi evidentemente la musica non è in grado da sé di avere una valenza descrittiva,
non c’è una corrispondenza inequivoca tra musica e realtà/sensazione descritta. Si tratta di
operazioni arbitrarie, e su queste operazioni non si può basare il giudizio estetico, ma può
essere valutata solo in base alle sue coordinate intrinseche, solo in base agli elementi propri
del linguaggio musicale definitisi durante la storia tecnica del genere musicale, sarebbe come
dire che non si può guardare al significato ma solo al significante, agli elementi del linguaggio.
La sua è dunque una posizione formalistica, basa tutta l’indagine musicale su delle forme.
Questo scatena una disputa, in quanto Liszt, appoggiato dal suocero Wagner e da tutti i
seguaci della scuola neotedesca, Berlioz erano esponenti della tendenza del secondo ‘800.
Nasce una grande polemica che porta alla redazione di un documento, che s’intitola
“manifesto contro la musica dell’avvenire”, titolo che parafrasa un titolo di Wagner che aveva
appena scritto “la musica dell’avvenire”, e questo trattato appoggia la posizione anti-
neotedesca di Hanslick. Per uno scherzo di un giornalista l’articolo viene pubblicato in
anticipo con sole quattro firme, facendo una cattiva figura, e fra queste firme c’è quella di
Brahms, che infatti non scrive per niente musica descrittiva. Il concetto di “assoluto” accostato
alla musica ea stato coniato da Wagner nel 1849, in modo spregiativo. Parlando della nona di
Beethoven in un saggio, aveva scritto che finalmente aveva riconnesso le componenti
dell'unità originaria di cui la musica era dotata nell’antica Grecia, cioè la parola insieme al
suono, e parla di musica assoluta (da absoluta, da absolvo, sciogliere) come sciolta quindi da
questa originaria unità, sicché la musica pura basata solo sulle sue strutture diventa musica
assoluta. Per questo Hanslick e i suoi seguaci vengono definiti esponenti di questa musica
assoluta, in senso positivo.

BRAHMS (1833-1897)

Johannes Brahms nasce ad Amburgo nel 1833 e muore nel 1897. Era figlio di un musicista di
campagna, un contrabbassista amatoriale che ad Amburgo era riuscito ad entrare
nell’orchestra del teatro della città, e quindi Brahms non riceve una formazione adeguata né
musicale né letteraria. Fa degli studi parziali che gli danno sì una continua sete di
miglioramento ma anche un persistente complesso di inadeguatezza, di non essere all’altezza.
L’incontro con Joseph Joachim (virtuoso dell’epoca), lo aiuta facendolo studiare contrappunto.
Importante è la conoscenza con la coppia Wieck-Schumann, abbiamo il saggio “vie nuove” del
1853 di Schumann su Brahms che determina in quest’ultimo una caduta, un senso di
inadeguatezza pressante. Ne deriva un’amicizia molto forte (si pensa addirittura che durante
il periodo dell’internamento di Schumann lui sia stato molto vicino a Clara, probabilmente
intrattenendo una relazione con quest’ultima, trasferendosi a Dusseldorf). Nel 1868 si
trasferisce a Vienna e si fa terminare l’epoca biedermeyer della musica viennese datata dal
1828 (morte di Schubert) al 1868 (arrivo di Brahms a Vienna), che dà uno scossone al
disimpegno della salonmusik tanto diffusa nella capitale asburgica. Dal punto di vista
biografico non sappiamo molto, siamo a conoscenza del suo carattere burbero, diventa
maestro di coro, ma sappiamo del suo amore per l’Italia (e per la buona tavola), fece otto
viaggi in Italia, andando per piccole locande, anche insieme a uno psichiatra, Billroth, e
dell’Italia dice che “in esso regna una grande armonia tra contenuto e forma, e in cui ogni
dettaglio è estremamente curato. Traspare l’amore per la forma in equilibrio col contenuto, il
dettaglio (microvariazione motivica). Parla anche della ricchezza di melodie in Italia all’epoca,
ricco strato etnofonico, musica folkloristica italiana. Proprio per questi suoi complessi
nell’apprendimento musicale, Brhams arriva al sinfonismo e alla produzione sinfonico corale
(che lui ritiene la massima espressione della composizione musicale), lui comincia col lied, la
produzione per pianoforte, poi la musica da camera (quintetto per clarinetto e archi), e poi
arriva al sinfonismo e alla produzione sinfonico corale, nel quale si annoverano il requiem
tedesco, la rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra, il canto del destino (su testo di
Hoelderlin) per coro e orchestra. Scrive quattro sinfonie, altri brani sinfonici (le variazioni su
tema di Haydn), due concerti per pianoforte e orchestra.

Sinfonia n 4 op 98 (mi minore):

- Brahms è stato tacciato dai suoi contemporanei di passatismo e tradizionalismo,


proprio perché non pratica mai musica a programma, ma anche perché abbiamo una
presenza non intaccata delle strutture classiche, senza alcun tipo di soggettivizzazione
della tecnica. Come in Mendelssohn, riusciamo a capire che è un romantico non dalla
sovversione delle strutture formali, ma ad esempio dall’incisività dei contrasti,
dall’enfasi drammatica (abbiamo aspetti eroici che possono farlo scambiare per
beethoveniano). Soprattutto nei concerti ad esempio, lo strumento solista è fortemente
impegnato nel tessuto sinfonico, non è un solista accompagnato (come nei concerti di
Chopin), e quindi abbiamo una linea di energia e complessità sonora che può essere
tracciata a partire da Beethoven. C’è un aspetto nascosto che è quello che ha fatto
rivalutare Brahms, scoperto da Schoenberg, che nel 1933 scrive l’articolo “Brahms
progressivo”, indicando in Brahms il precedente della tecnica compositiva che lui e la
sua scuola adottano utilizzando la dodecafonia. Questo grazie alla microvariazione
motivica in aggiunta a tecniche contrappuntistiche, procedimento che Schoenberg
riscontra per la prima volta nel romanticismo proprio in Brahms. La microvariazione
motivica consiste in elementi minimali (in questo senso si avvicina alla scelta di Liszt,
prendendo dei materiali non necessariamente ben spianati, estesi, melodie ben
definite), piccoli nuclei radicali, e variarli incessantemente (I movimento).
L’elaborazione non si limita alla parte dello sviluppo, ma c’è un debordamento di
questo, un rielaborazione continua, in tutte le parti costituenti la forma, e troviamo dei
mini-sviluppi all’interno dell’esposizione, nelle transizioni, nelle code. Schoemberg le
chiama entwickenlende variation => variazione sviluppante, che si esprime nel tema
principale e poi si allarga a tutta la forma. È come se le colonne portanti della forma
sonata venissero nascoste da questo lavorio di tipo elaborativo, inoltre tende a
nascondere le cesure della forma, non si vede quando una sezione inizia e una finisce,
in particolare nella ripresa (sinfonia 4). C’è una falsa ripresa che parte dalla testa del
tema, e poi una seconda ripresa che comincia dalla coda del tema, nascondendo quindi
la ripresa e privandola del suo valore enfatico che aveva nel periodo classico, valore di
sfogo della tensione. In Brahms abbiamo tensione dall’inizio alla fine, senza soluzione.
Unendo questo all’ampiezza del giro armonico, che va verso tonalità molto lontane, si
capisce che la presenza della microstruttura è oppressa dai processi di micro-
elaborazione, quindi è in un certo senso innovatore anche lui. Tutto questo gli portò
contro non poche critiche. Hugo Wolf scrive di lui che la sua è “un’arte di comporre
senza idee”, e a ciò si contrappone la citazione di Dahlhaus “non c’è una nota che non
sia tematica”.
Ascolto: I movimento, parliamo di tema principale (A) e tema secondario (B) per non
confondere la struttura con quella della sinfonia classica. Tema A all’inizio, diviso in tre
elementi x, y e z. Il tema Ax è l’intervallo di terza (e la sua inversione, intervallo di
sesta), y con le crome e z più stretto ritmicamente. Alla ripetizione dell’elemento x, lo
troviamo già mutato, variato ritmicamente e spezzato timbricamente, e ad essa si
aggiunge un motivo nuovo al clarinetto e fagotto. Ripetizione di y e z, ce lo ripresenta
con una dilatazione tematica, facendo migrare l’elemento z tra le voci. Poi transizione,
al suo interno troviamo un nuovo elemento puramente ritmico, ma che ha valore quasi
tematico (semiminima puntata con semicrome + terzina in due tempi), e nello
sviluppo verrà utilizzato sia nella sua interezza che nelle sue singole parti (solo prima
cellula o solo seconda). Entra il tema secondario alla dominante minore (si minore),
molto evidente, cantato dai violoncelli e poi dai violini. Si contrappone al tema
principale essendo una melodia estesa che ha una tipica caratteristica di Brahms, che è
l’utilizzo dell’intervallo per poi riscendere. Abbiamo un ponte fra la prima e la seconda
idea del tema secondario, che frutta l’elemento ritmico di prima, comincia la seconda
sezione (violini I), che hanno di nuovo l’elemento brahmsiano (saltare con tutto l’arco
per poi riscendere). Siamo ancora nell’esposizione, abbiamo uno “sviluppino”,
momento di stasi con le semibrevi legate, mentre compare l’elemento ritmico ridotto al
minimo (elaborato con le crome nelle altre parti). A batt. 123 abbiamo la semiminima
puntata con semicrome ai corni e trombe, mentre la terzina in due tempi ai legni
(sdoppiamento delle due cellule dell’elemento ritmico). Poi coda. Abbiamo di nuovo un
momento di stasi e poi sviluppo. Parte dall’elemento x nella sua forma primaria. Nella
quarta sezione dello sviluppo abbiamo il momento di stasi in semibrevi con gli archi
che si passano tra le voci l’elemento ritmico. A L troviamo la ripresa camuffata, in
quanto abbiamo la testa del tema ma per aumentazione, per questo non è una vera e
propria ripresa (anche qui mantiene la staticità dell’elemento in semibrevi che
abbiamo trovato nello sviluppo). La seconda possibilità è che la vera ripresa sia a batt.
258, ma partendo dal secondo troncone del tema. Questo toglie tutta l’enfasi alla
ripresa, il ritorno trionfante, ma la rende sfumata. Poi troviamo una coda della ripresa
e una coda del movimento.
Ascolto: il canto del destino, tratto dall’Yperion di Hoelderlin (romanzo epistolare). il
protagonista termina per vivere come un eremita, sprofondando nel senso panico della
natura (dal dio Pan), animata, sconfinata, dove la vita dell’individuo pulsa all’unisono
con la natura. Nella prima strofa si parla dei beati, nell’ultima degli umani, a cui non è
dato riposare in alcun luogo.

Il mito del popolo in Brahms:

- Come Liszt, anche Brahms ha un interesse verso la musica ungherese (sebbene sia
tedesco). Un suo amico, il violinista Remenyi, lo porta con sé in Ungheria, Brahms
rimane affascinato dalla cultura musicale del posto e scrive le 21 danze ungheresi per
pianoforte a quattro mani, poi anche orchestrate. Nasce la moda di pubblicare danze
etniche trascritte per pianoforte (lo farà anche Dvorak nelle sue danze slave) che
vengono suonate come salonmusik. Brahms scrive anche i 49 Deutches Volkslieder, che
sono yrascrizioni di veri cantoi popolari tedeschi, solo che anche lui non onora lo
spirito del canto etnofonico, perché sceglie questi lieder in base a dei principi morali o
estetici, non lo fa secondo un ragionamento etnomusicologico. Scrive anche lieder
zigani (zigeunerlieder) per quartetto di voci e pianoforte. Egli distingue due diversi
approcci verso il popolare in musica, il canto popolare in senso stretto e la
composizione nello stile del canto popolare: una cosa è infatti inserire una melodia
popolare all’interno di un brano d musica colta, un’altra cosa è scrivere dei brani
imitando la musica folklorica, facendo quindi un calco in stile.

LE SCUOLE NAZIONALI

Intorno alla metà dell’800 abbiamo in quei paesi che erano rimasti al margine della musica
colta, una forte tendenza a voler creare un repertorio autoctono. Nei secoli la musica colta si
era costituita con l’aggregazione di diverse culture musicali: quella italiana, quella francese e
quella tedesca (austrotedesca). Per parlare del linguaggio risultante dalla commistione di
queste tre civiltà musicale, utilizziamo un termine proprio degli studi di linguistica, ovvero
“koiné” (dal greco antico => comune), aggettivo sostantivato, per indicare una lingua comune
(in principio il greco classico, che risultava dall’apporto della lingua di più regioni della Grecia,
era quella parte della lingua comune a tutti). Trasponendo il concetto di koiné alla musica,
vediamo che in Europa, c’era una koiné che nei secoli si era formato con l’apporto di queste
tre culture musicali. Tutto ciò che non era Italia, Francia o Germania non aveva una propria
voce, una musica autoriale. Questo fermento nella seconda metà del 1800 potrebbe essere
proprio il risultato più maturo del mito del popolo, il fatto che ci siano delle etnie non
rappresentate nella musica colta e che premono ora che ciò avvenga. Si parla soprattutto dei
paesi dell’est europeo, della penisola iberica e della zona scandinava che non avevano una
propria individualità musicale. In essi (soprattutto in Russia) non solo non vi era un’identità
musicale colta ma c’era una monopolizzazione da parte dell’Italia, gli zar ad esempio avevano
cerato una vera e propria opera imperiale che era opera italiana (a fine ‘700 erano stati
invitati in Russia Galuppi, Paesiello, Cimarosa, commissionando opere la cui premiere veniva
eseguita proprio in Russia). Non c’erano neanche istituzioni in cui i russi potessero studiare
musica, solo le famiglie più abbienti potevano permettersi di chiamare un precettore
dall’Europa. Questo fenomeno non è quasi mai connesso col nazionalismo politico (ad
esempio in Italia, dove col risorgimento troviamo un forte nazionalismo politico, non vediamo
la nascita di una scuola nazionale).

Scuola nazionale russa:

- Precursori:
• Michail Ivanovic GLINKA (1804-57) compositore appartenente al primo
romanticismo. Preannuncia tutte le tematiche che verranno svolte dal gruppo
dei cinque. Scrive l’opera “una vita per lo zar”, dove c’è un argomento russo
(1836). Avendo vissuto tre anni in Spagna abbiamo musiche ispirate, come
l’ouverture (descrittiva) “souvenir d’une nuit d’été a Madrid”, e poi un’altra
opera, “Russlan e Ljudmila” che ha un argomento fiabesco. Disegna tre direzioni
musicali: quella di argomento russo, quella di argomento spagnolo e quella di
fiabesco orientale (le mille e una notte) o russo. All’interno della sua intenzione
russa c’è anche il tentato inserimento della balalaika in orchestra (strumento a
corde pizzicate tipico russo).
• Alexandr Sergeevic DARGOMISKIJ (1813-69) vive abbastanza per prendere
parte alla ricerca musicale che poi sarà propria del gruppo dei cinque, era
l’anfitrione di questo gruppo in quanto si riunivano in casa sua. Anche lui
compone un’opera importante che s’intitola “il convitato di pietra” (1868), e
teorizza e mette in pratica il concetto di opera-dialogeè, nella suale si rifuggono
i pezzi chiusi (duplicità recitativo/aria dell’opera italiana) in favore di una
forma aperta che ha la struttura libera del recitativo ma che allo stesso tempo è
espressivo e non stereotipato.

- Il “Gruppo dei Cinque” (1860-68) (critico: Stasov)


• Milij Alekseevic BALAKIREV (1837-1910)
• Aleksandr Porfir’evic BORODIN (1834-87)
• Cezar Antonovic KJUI, ossia César CUI (1835-1918)
• Modest Petrovic MUSORGSKIJ (1839-81)
• Nikolaj Andreevic RIMSKIJ-KORSAKOV (1844-1908)
Il primo punto del gruppo dei cinque è che si parla di dilettantismo musicale, non
erano formati accademicamente, per evitare di essere condizionati dalla koiné
occidentale perpetuata attraverso l’insegnamento accademico. Infatti Balakirev e Cui
erano ingegneri militari, Borodin era medico e chimico (professore di chimica
nell’accademia militare), Musorgsky era un ufficiale della guardia, Rimskij-Korsakov
era un ufficiale di marina. Nella strana composizione della società russa, nella quale
non era nata una borghesia come nel resto dell’Europa, quindi fra i nobili e il popolo
c’era una classe media di impiegati statali e ufficiali, che paradossalmente sono la
classe trainante, i progressisti in Russia, quindi non è illogico che ci siano delle istanze
innovatrici in questi personaggi di estrazione sociale non alta. La loro conoscenza
musicale deriva dal fatto che facevano lettura della partitura, ovvero leggevano al
pianoforte le grandi partiture (Liszt, Wagner, etc.). Il secondo punto, per creare una
musica russa, prevedeva l’introduzione di elementi differenziali rispetto alla koiné,
elementi che dovevano necessariamente appartenere al folklore russo (innesto tra
scuole nazionali e mito del popolo). Questo avviene utilizzando delle melodie popolari
inserendole nella musica colta, o temi di propria invenzione ma aggiungendo degli
elementi che Dahlhaus ha ribattezzato “bandiere musicali”, come la quarta aumentata
(utilizzata già nelle mazurke di Chopin), che non è più sintomo di polonità, ma diventa
bandiera musicale, ovvero elemento musicale che non appartiene alla koiné, al
linguaggio della musica euro-colta. * (nota etnomusicologica a riguardo: il cosiddetto
tetracordo gipsy, in cui è riconoscibile proprio l’intervallo di quarta aumentata,
potrebbe essere comune alle varie musiche etniche (dall’est Europa alla penisola
Iberica) proprio perché sono stati i Rom ad introdurlo nelle varie culture musicali dei
luoghi in cui hanno stanziato, per questo la quarta aumentata non è endemica di un
tipo determinato di musica folklorica, ma dà all’ascoltatore quell’ambientazione
folklorica). Alcune caratteristiche hanno valore di bandiere musicali perché non erano
presenti nello stile euro-colto. L’ultimo punto riguarda il fatto che loro non prediligono
la musica assoluta (definita da loro “arida matematica musicale”), ma la musiva
descrittiva, perciò scrivono schizzi e poemi sinfonici, opere. La logica di tutto questo è
che riferimenti extra musicali aiutavano nel creare una “musica russa”, ad esempio
scegliendo come tema l’eroe Sadko dall’epica russa (detta Bylina). Infatti Korsakov
scrive un poema sinfonico su Sadko e un’opera sullo stesso. Avremo anche scelte
orientaleggianti/fiabesche come nel caso di Sheherazade (schizzo sinfonico) o scelte
spagnoleggianti con il “capriccio spagnolo”. Scrive anche un’ouverture dal titolo “la
grande Pasqua russa”, ispirata come materiale melodico dei canti liturgici della Chiesa
ortodossa russa. Il focus dei cinque non è la sovversione del linguaggio, ma il voler
creare un’identità musicale russa. Korsakov sarà un raffinatissimo orchestratore.
Musorgskij è il più radicale di questi autori, assume delle strutture formali autoctone
(modi, scale, ritmi) utilizzandoli nei suoi brani, attingendo dal folklore. Questo lo fa nel
Boris Godunov, la sua maggiore opera (ne scrive un’altra dal titolo “Kovantcina”).
Quando il gruppo si scioglie, viene ritenuto non il più radicale dei cinque, ma gli si
attribuiscono degli errori, infatti quando muore Korsakov va a correggere nelle sue
partiture errori di armonia e orchestrazione, errori nella disposizione delle scene della
trama, anche con un grave pregiudizio della sua opera. Korsakov è l’unico ad avere una
“conversione professionistica”, cioè si accosta allo studio accademico, diventa
professore di composizione al conservatorio al conservatorio di San Pietroburgo. Dato
che appoggia nel 1905 un’insurrezione studentesca, viene allontanato dalla Russia e
viene accolto a Parigi, segnata già dalla presenza di russi quale l’impresario Diagilev,
organizzatore della stagione dei balletti russi (dove esordisce Stravinsky). Scrive un
trattato di armonia e un testo di orchestrazione. Oltre alle due opere Musorgskij scrive
anche alla “notte di san Giovanni sul monte calvo” (originariamente primo movimento
di una sinfonia ma mai completata, rimane un poema sinfonico), i quadri di
un’esposizione (ispirati alle leggende russe). Il gruppo fonda una scuola, “la scuola
musicale libera”, nella quale volevano proporre i loro principi per improntare una
formazione musicale russa.
- Ascolto: “la grande Pasqua russa” di Rimskij-Korsakov, è un poema sinfonico ma lui
utilizza la dicitura “ouverture” (1888), il titolo originale era “giorno di Pasqua
splendente”, e il sottotitolo “ouverture di Pasqua sui temi dell’obikhod”. L’obikhod era
il libro dei canti della chiesa ortodossa. I temi principali li prende da questa raccolta di
canti, il contenuto ai quali si riferisce sono del salmo 68 e a dei versetti del vangelo
secondo Marco. Con queste fonti Korsakov costruisce un affresco sonoro della Pasqua
russa cristiana e popolare (pagana nel senso di tradizionale). Abbiamo una prima
ambientazione lugubre che sfocia nella gioia dello scampanio della festa. Grande carica
descrittiva. Abbiamo un canto liturgico iniziale che ritorna nel corso del brano. Il
triangolo che insieme agli ottoni richiama l’aria di festa. Subito dopo citazione
dall’obikhod.

“sorga iddio, si sperdano i suoi nemici”


Racconto dell’incontro fra angelo e pie donne (quem queritis medievale dei ludi pascalis)

- Ascolto: “capriccio spagnolo” (1887), dopo aver scritto una fantasia su temi russi per
violino e orchestra decide di comporre una fantasia su temi spagnoli per violino e
orchestra. Non porta avanti il discorso solistico e la fantasia diventa un capriccio per
orchestra (il primo violino ha comunque grande rilievo), ci sono molte cadenze tra i
vari strumenti oltre al violino (corno, tromba, flauto, clarinetto e anche arpa). È una
scrittura estremamente brillante, anche se lui stesso la riconosce come un po’
superficiale. È composta da cinque parti: I alborada (danza molto vivace come volume
che veniva eseguita per festeggiare l’alba), II andante con moto, III alborada (danza
iniziale trasposta un tono sopra), IV scena e canto gitano (parte più virtuosistica del
violino, con l’incastonatura del violoncello in particolare che imita il cantehondo, forma
folclorica andalusa), V fandango asturiano (energico e dinamico) con una ripresa finale
dell’alborada iniziale.
- Ascolto: Sheherazade, (1888) ispirata alle mille e una notte, fiabe orientali collocate
all’interno di una cornice: siamo alla corte di un terribile sultano, Shakriar, misogino,
che si sposava varie volte per poi uccidere la novella sposa dopo aver consumato la
prima notte di nozze, finché una fanciulla (Sheherazade) non comincia a raccontare
una fiaba ogni notte al sultano, al punto che lui non la ucciderà appassionatosi al suo
saper raccontare. All’interno di Sheherazade dunque troviamo alcune tra le varie storie
(colme la famosa storia di Aladino) della raccolta. Gli studi recenti hanno scoperto che
non tutte le fiabe de le mille e una notte sono autentiche, ma un falso che l’editore
Galland di Parigi, visto il successo delle poche fiabe autentiche che aveva pubblicato
nella prima metà del ‘700, col diffondersi della moda esotista, aveva cominciato a
scrivere e pubblicare. Korsakov include anche quella del marinaio Sindbad. In quattro
parti. L’elemento cornice è all’interno del primo movimento e ricorre negli altri tre, è
un motivo cupo, austero, minaccioso, che impersona Shakriar, mentre un tema sinuoso
affidato al violino, col 2° grado abbassato, molto iberico, rappresenta la fanciulla. Il
motivo del sultano diventa un motivo ondoso, a impersonare il mare della navigazione
di Sindbad (dopo le Ebridi di Mendelssohn abbiao un’altra grande descrizione marina
in musica), e che torna anche nel momento finale. Diversamente da Brahms in questi
musicisti quasi non abbiamo sviluppo, ma una ripetizione variata.
- Ascolto: Boris Godunov di Musorgskij. È l’esponente più radicale dei cinque, mette
davvero in pratica i dettami condivisi dal gruppo di allontanarsi al massimo dalle
convenzioni della koiné e di attingere al sostrato della tradizione etnofonica russa in
maniera fortemente strutturante e riconoscibile, per fare un prodotto che fosse
riconoscibile come russo. A causa di questo viene preso di mira da Korsakov, che in
seguito alla sua svolta professionistica aderirà ai dettami tradizionali della
composizione europea, e tenderà a giudicare le innovazioni e il radicalismo musicale
più come un’imperizia che non come una scelta deliberata, e da questo deriva
l’abitudine di Rimskij di orchestrare brani lasciati solo per pianoforte, ma anche
correggendo opere compiute, ed è quello che succede col Boris Godunov. Viene scritta
da Musorgskij tra il 1868-69, e viene respinta una prima volta dalla censura del teatro
imperiale con motivazioni abbastanza pretestuose, dicendo che la struttura è anomala
(non troviamo scene/pezzi chiusi) e che non c’è una trama d’amore. Il problema di
questa opera era un altro: veniva messo così in cattiva luce il potere, c’era una
disamina così cruda della menzogna e crudeltà che si annida tra i detentori del potere
che la censura imperiale non gradiva che venissero messi in luce questi aspetti. C’è una
seconda versione che in parte accoglie queste affermazioni, soprattutto scrive un
personaggio femminile, assente nella prima versione, ma la funzionalizza in senso
politico, infatti si tratta di una principessa polacca, intorno a cui ruota un atto
aggiunto(chiamato l’atto polacco), che amoreggiando con uno dei due personaggi
principali dell’opera, Grigorij, viene presentata come un’emissaria dei gesuiti per
ricondurre la corona russa al cattolicesimo. Ciononostante la censura rifiuta
nuovamente il lavoro e ne vengono eseguite separatamente delle parti all’interno dei
concerti della libera società musicale che i cinque avevano fondato. L’eco di queste
esecuzioni supera la parte privata dove essi avvengono, e alla fine il teatro imperiale
accondiscende alla prima esecuzione che avviene nel 1874, lasciando molto contento il
pubblico, mentre la critica rimane intimidita dal vitalismo delle posizioni di
Musorgskij. Nelle anni successivi rimane in repertorio, ma mutilata delle scene più
rivoluzionarie. Alla fine del secolo abbiamo la riorchestrazione di Rimskij-Korsakov,
che non solo snatura una volontà precisa di Musorgskij, che era quella di creare un
impasto sonoro duro, crudo, rude, adatto a esprimere la cupezza dello scenario storico
illustrato. Rimskij ne fa col suo virtuosismo una partitura con tutte le sfumature più
raffinate e amalgamate, ma porta uno stravolgimento anche nella struttura dell’opera,
cadendo nel cliché melodrammatico della morte del protagonista che doveva essere
nell’atto finale, in pompa magna, mentre Musorgskij nel suo finale originale (che oggi si
considera) concludeva il dramma in anticlimax, mettendo la morte del protagonista
non alla fine, e dato che la vicenda è concepita su una visione critica del concetto del
popolo come entità storica, per lui il popolo non è capace di decidere autonomamente,
è soggetto alla propaganda e mistificazione, incapace di avere consapevolezza dei
meccanismi della politica e della sua valenza storica. Quindi ci mostra il popolo con
sguardo critico e negativo, nell’opera troviamo esecuzioni capitali, l’incendio di una
foresta, cadaveri a terra, tutto questo dopo la morte del protagonista, e sul finale la
scena rimane vuota, di notte, nevica, rimane da solo sul campo di battaglia
abbandonato l’ebete del villaggio (l’ebete lo chiama), e con una melopea filiforme canta
la pena per la Russia, è come se in questo finale che finisce in un soffio Musorgskij
voglia lasciare intendere che solo l’ebete del villaggio sappia esprimere qualche vero
concetto sulla storia del suo paese. Korsakov mette tutto questo nel centro, privando di
importanza questo personaggio, e sul finale la morte del protagonista, perdendo molto
in efficacia. Anche Shostakovitch farà una riorchestrazione negli anni ’40 del ‘900. La
trama è collocata all fine del XVI secolo, all’epoca della successione di Ivan il terribile.
C’è un precedente letterario, un dramma di Puskin, e tutti e due si ispirano a un libro di
uno storico russo, Karamzin, che sosteneva un’ipotesi complottista sulla successione di
Ivan il terribile, vale a dire quando Ivan era ancora in vita, un suo figlio da bambino era
stato ucciso, l’erede legittimo al trono, in quanto il primogenito non era adatto a
regnare (problemi mentali), e poi aveva un figlia femmina andata in sposa a uno dei
boiari che faceva parte della duma, il gran consiglio dello zar. Questo genero era
appunto Boris Godunov, solo che lui non aveva un rapporto di sangue con Ivan il
terribile. Il bambino era stato assassinato durante dei tumulti popolari, sicché
Godunov, alla morte di Ivan era diventato zar, e circolava un’ipotesi secondo la quale
sarebbe stato propri lui a uccidere il bambino per coronare il suo sogno di diventare
zar. L’opera è strutturata per quadri conclusi, abbiamo un prologo e quattro atti. Nel
prologo abbiamo due quadri, il primo vede un gruppo di popolo riunito sotto le mura
di un convento in cui si è ritirato per soppesare se diventare zar o no (si trova lì
formalmente per fare scena). Il popolo appare da subito come una massa morta, c’è un
ufficiale che frusta delle persone che parlavano e che lui esorta a gridare Boris di
accettare la carica di zar, le donne e gli uomini del popolo si chiedono addirittura cosa
stiano facendo lì, a rimarcare il fatto che non abbiano interesse politico e
nell’immediato avvenire, stanno là come delle comparse e reagiscono solo all’ufficiale.
Poi arriva una processione di pellegrini, è tutto molto corale e suggestivo dal punto di
vista scenografico. Nel secondo quadro ci troviamo all’incoronazione di Boris, non
abbiamo una transizione dal primo al secondo. Ci sono tutte le autorità zariste in
pompa magna, ma già dal primo monologo si vede che non è un uomo radioso. Nel
primo atto ci troviamo ai confini della Russia, in un altro monastero, dove un monaco,
Pimen, sta scrivendo una storia della Russia e aderisce all’idea complottista, e racconta
a un novizio che si chiama appunto Grigorij di come Boris abbia ucciso il legittimo
successore che era un bambino. Questo innesca la trama in quanto Grigorij è coetaneo
del bambino (nell’ipotesi in cui non fosse stato ucciso), e concepisce l’idea di far finta di
essere lui il bambino ucciso, di marciare verso il cremlino fingendo di essere il figlio
usurpato e legittimo erede al trono (storicamente accettato). Grigorij va raccogliendo i
frutti del dissenso che Boris aveva verso le classi più alte, sta effettivamente radunando
un esercito e marcia verso Mosca. Arriva questa voce allo zar che è ovviamente molto
turbato dalla notizia, non tanto per il contendente, ma perché questo gli risveglia i
fantasmi e i rimorsi che il suo gesto ha prodotto, anche perché ha un figlio, un ragazzo
ingenuo, Feodor, che è nella stessa posizione del figlio di Ivan, e sapere di un bambino
erede redivivo che sta marciando contro di lui gli crea confusione in testa, e culmina
quando chiede al suo segretario, Suski, che ha capito che c’è stato qualche problema in
passato vedendolo sempre più incupito e tormentato, se lui non ha visto il bambino
effettivamente morto, e risponde rifacendo il racconto di quando ha visto il bambino,
sottolineando la tenerezza del bambino, che era con un giocattolo nella cattedrale,
sottolineando l’ingenuità del ragazzino. Godunov, visibilmente scosso, chiede di restare
da solo, e abbiamo il suo monologo delirante, durante il quale lui vede lo spettro del
bambino associato al movimento di un pendolo, che lascia intendere al destino, al
ritorno del tempo, associato a un motivo musicale che era stato presentato durante la
sua incoronazione, ovvero il motivo delle campane (sono delle settime) che si
sciolgono ritmicamente in un ticchettio e che durante questa scena delirante si
traducono nell’ossessione del protagonista. La vicenda precipita, è ormai impazzito,
durante una riunione della duma lui si sente di star per morire e chiede il suo saio (era
tradizione che lo zar morisse vestendo un saio come simbolo di umiltà) e cerca di
designare il proprio figlio come zar, e lo incorona davanti al gelo generale in quanto
nessuno ormai pensa che quel ragazzo sia un legittimo successore, figlio a cui Boris dà
vari consigli su come regnare (anche storicamente questo ragazzo verrà ucciso subito).
In effetti vincerà Grigorij, acclamato dal popolo facilmente manovrabile. Infine
abbiamo la scena finale con la nenia dell’innocente. Musorgskij sceglie l’argomento
storico per “fare Russia”, ma non abbiamo soltanto una rivendicazione nazionalistica
della sua arte, lui vuole rappresentare la vita vera (dalle sue lettere sappiamo che va
oltre il semplice voler creare un repertorio russo), per lui l’arte è un mezzo di
comunicazione con gli uomini, e non un fine, quindi va contro il concetto di arte per
l’arte. Lui crede che si può comunicare con gli uomini grazie alla prosa della vita
quotidiana, come si muove l’umanità nel quotidiano, cosa sente, e in questo modo
rappresentarla. La prosa del quotidiano va tradotta in una prosa letteraria, cioè il
libretto, che Musorgskij scrive di proprio pugno traendolo da Puskin, che lui scrive
volutamente in prosa, e questa prosa che è specchio della prosa quotidiana deve essere
trattata con una adeguata prosa musicale. Ritroviamo il principio di opera-dialogée che
avevamo incontrato con l’antesignano Dargomiskij, cioè un’opera in cui ci sia solo
prosa, ovvero il recitativo, trattato in maniera libera (privato del pezzo chiuso, ovvero
l’aria) e espressiva, toccante e profonda. Non sarà un recitativo stereotipato, non avrà
le tipiche melodie dell’opera italiana (anche se siamo ormai nella fine anni ’60, e un
recitativo verdiano non è minimamente paragonabile al recitativo dell’opera italiana
del ‘700, ma esiste già il recitativo sinfonico, che del recitativo mantiene la forma
aperta, ma abbiamo una maggiore potenza espressiva, in cui coopera l’orchestra, che fa
sì che il recitativo lo si possa chiamare “declamato” espressivo), ed è coerentemente
inserito nel suo tentativo di creare un prosa musicale a 360°. Musorgskij va ancora
oltre: scrivendo lui in russo, dice che si deve cogliere l’umano sentire nell’umano
parlare, indicando la specificità della lingua russa, e il suo declamato viene costruito a
seguito di un accurato studio sulla fonetica russa, sugli accenti e sull’intonazione della
sua lingua, e nella sua fonetica individua dei fenomeni come l’anacrusi (la parlata di un
russo inizia sempre in anacrusi), oppure quella che lui chiama la desinenza muta
(siamo in presenza di un accento forte seguito da un gruppetto di sillabe atone che si
agganciano all’accento forte). Per rendere tutto questo nel suo recitativo, che è molto
sillabico, in incisi brevi e con accenti molto forti, che fanno da catalizzatori di varie
sillabe, si avvale anche di una ritmica tipica dell’oriente, il ritmo aksak (ritmo additivo
che si basa su microvalori ritmici in combinazioni di 3+2 continuamente variabili e
simmetriche), creando una fraseologia irregolare e non quadrata. Inoltre fa uso di scale
modali (il sistema tonale bitonale era quello messo a punto dalla tradizione musicale
occidentale, koiné), che ancora erano in vita nel sostrato etnofonico (presenti anche
nel mediterraneo con le scale ecclesiastiche), conservatesi nella musica liturgica, molto
di più in quella ortodossa, ed erano precipitate all’interno della tradizione contadina,
cosa che metteva in connessione la musica liturgica con la musica folklorica. Adottando
scale modali dunque si dava una forte tinta russa. Oltre a ciò troviamo molte citazioni
di canti liturgici, non solo nei momenti corali (canti del popolo, processioni dei
pellegrini), ma vengono presi come materiale tematico. Vi sono anche canti popolari
come inserti realistici, che hanno dunque funzione diegetica: ex la canzone dell’ostessa,
cantata dalla locandiera di un’osteria in cui pernotta Grigorij, ed è un canto popolare
lasciato così com’è, poi abbiamo una ballata narrativa sulla sconfitta dei tartari. In un
altro momento, ci spostiamo nelle stanze dei figli di Godunov in presenza della tata,
dove la figlia si lamenta (canto modale) perché ha perso il suo fidanzato, e per distrarla
la tata le canta una canzone, e poi abbiamo Feodor che le racconta una filastrocca col
gioco del kliost (col batti mani). Questi sono gli unici momenti in cui abbiamo una
forma chiusa, ma solo perché sono dei pezzi chiusi (canti popolari) con funzione
diegetica (non hanno nulla a che vedere con le arie dell’opera italiana). Un altro aspetto
da sottolineare è l’importanza del coro (non abbiamo un’opera corale nelle alytre
tradizioni), sebbene il coro in quanto popolo è presentato negativamente, e diventa
una costante. Abbiamo infine l’uso di leit-motive, ovvero la ricorrenza di temi che in
Musorgsky (mentre in Wagner hanno funzione strutturale) non hanno funzione
strutturale, ma hanno più il principio di tema ricorrente, più simile all’idée fixe di
Berlioz. (I quadro e II quadro del prologo, tre scene con funzione diegetica, monologo
di Boris, morte di Boris e dialogo col figlio, canzone dell’innocente).

- Indirizzo filo-occidentale (critico: Serov)


• Anton Grigor’evic RUBINSTEIN (1829-94) – (il fratello minore, Nikolaj (1835-
81), più filo-Cinque) due virtuosi del pianoforte, fondano la società musicale
russa, grazie alla quale nascono i due conservatori di Mosca e San Pietroburgo e
ne sono direttori oltre che fondatori, portando la formazione accademica anche
in Russia.
• Peetr Il’ic CAJKOVSKIJ (1840-93) ricordiamo due opere, “Evgenij Onegin” e “la
dama di picche”, ispirati a Puskin. Scrive 6 sinfonie, di cui l’ultima è una sorta di
testamento spirituale, intitolata “patetica”, scrive anche balletti, “lo
schiaccianoci”, “il lago dei cigni” e “la bella addormentata”, a in tutti e tre
abbiamo un’ambientazione fiabesca, con le coreografie di Marius Petipa, che
sono i classici del balletto romantico, sulle punte, che sfida la forza di gravità,
con le ballerine quasi eteree, mentre i ballerini più rivolti verso l’acrobatico,
virtuosismo, ma sempre col comune denominatore di vincere la gravità
(ballerino=essere non umano), cosa che verrà capovolta nelle avanguardie del
primo ‘900, con l’uso di tutto il corpo, un modo di ballare en dedans (contro l’en
dehors del balletto romantico). Compone inoltre 3 concerti per pianoforte e
orchestra, un concerto per violino e le variazioni rococò per violoncello e
orchestra. Tchaikovsky è una figura tormentata, affetto da vari problemi
psichici, crisi esistenziali.
Ascolto: sinfonia n 6 “patetica”, IV movimento; la dirige di persona nove giorni
prima di morire (forse di colera, forse suicida). Questa sinfonia ha anche un
programma, descritto da suo fratello Modest, di autentico abbiamo solo alcuni
informazioni: nel 1889 in una lettera scrive di voler comporre una sinfonia
grandiosa per coronare la sua vita (lo scrivo subito dopo aver finito la quinta).
Abbiamo in ordine cronologico degli abbozzi sinfonici di materiale musicale
(che poi convergono nella sesta), e da questi abbozzi siamo a conoscenza del
volere di Tchaikovsky di voler dare un titolo alla sinfonia “la vita”. La terza fonte
è un’altra lettera in cui dice di volerla intitolare “sinfonia a programma”, ma
lasciando il programma segreto a chiunque, lasciando che ciascuno lo indovini.
La quarta fonte è subito seguente il termine della composizione della sesta, in
cui dice che è la più grandiosa delle sue opere, la più sincera. Dopodiché c’è
l’esecuzione col titolo di “patetica”, forse suggerito dal fratello Modest, che
pubblicherà anche un programma ipotetico (non scritto da Tchaikovsky) in cui
dice che il I movimento rappresenta la vita del fratello con i suoi dolori e le sue
pene, il II movimento descrive le gioie effimere della sua vita non paragonabili a
quelle degli altri uomini, e che esprime con l’insolito tempo di 5/4, il III
movimento narra la storia del suo sviluppo musicale (all’inizio era un semplice
passatempo, diviene più seria col passare del tempo per poi diventare
grandiosa in età adulta), e ciò è espresso dalla marcia trionfale della fine del
movimento, il IV movimento rappresenta il suo stato d’animo durante gli ultimi
anni della sua vita, l’amara delusione e la profonda irriconoscenza che segue la
sua fama, che lo porta a un nulla eterno che minaccia di inghiottire tutto ciò che
Tchaikovsky aveva amato e sempre ritenuto eterno. Perciò l’ultimo movimento
secondo il fratello allarga la visione pessimistica dell’autore, traslandolo sulla
vita umana e sul suo terminare in nulla, quindi ci troviamo di fronte a una sorta
di autobiografia in musica che Tchaikovsky avrebbe scritto concludendola col
suo pensiero sul destino. In questa sinfonia abbiamo una peculiarità, ovvero il
primo e l’ultimo movimento sono degli adagi, movimenti lenti, quindi
assistiamo a un’alterazione della macrostruttura e a uno stravolgimento della
retorica strutturale della forma sonata, il finale in particolare è un adagio
lamentoso, con momenti molto lugubri, che contiene anche delle citazioni
ortodosse della messa dei morti. Mentre nel centro vengono messi i due
movimenti allegri. Altra cosa interessante è che l’ultimo movimento non ha
sviluppo, è in forma sonata ma senza lo sviluppo, quasi a dire che non si ha
prospettive future, si è giunti al capolinea. Tchaikovsky oscilla tra l’estrema
potenza di alcune idee, la felicità dell’invenzione melodica supportata da
un’orchestrazione e un’armonia molto raffinate, e delle lungaggini, dei momenti
un po’ convenzionali, un po’ contaminata da uno stile salottiero, non è un
personaggio uniforme nella sua espressione.
Balletto: come spettacolo autonomo, dramma, in cui ci si esprime non con le
parole (parlate o cantate) ma con il gesto danzato, il movimento organizzato
coreuticamente. La danza è presente nella musica eurocolta fin dal
rinascimento, danza in coppia lenta/strisciata e danza di gruppo veloce, ritmica,
saltata, che poi va a confluire nella tradizione della suite barocca (solo suonata).
Poi in Francia abbiamo un’importante tradizione coreutica, danza che viene
trasposta nella tragedie lyrique, dove troviamo vari episodi di danza ma senza
funzione drammatica, erano divertissements, staccati dal dramma a cui si stava
assistendo, e nella stessa vita di corte la danza è un elemento importantissimo
ma a livello di rituali sociali, non si era mai pensato a una srtoria rappresentata
attraverso la danza nella sua interezza. Quando Gluck fa la sua riforma
interviene proprio sulla questione della danza, rendendo funzionale al dramma
gli eventuali interventi coreutici, i ballerini devono essere dunque dei
personaggi e i loro movimenti devono esprimere qualcosa che sia connesso al
dramma (all’ingresso dell’Ade nell’Orfeo ed Euridice di Gluck le furie e gli
spettri danzando impediscono a Orfeo di entrare), c’è dunque la tendenza a
funzionalizzare drammaticamente la presenza del balletto. Questo intervento
del balletto in relazione alla storia comincia ad avere un senso narrativo e viene
detto “ballo pantomimo”, il suo alfiere è Gasparo Angiolini, a Vienna, o Jaque
Noverre, a Parigi. Lo scatto vero e proprio ce l’abbiamo con il coreodramma, che
nasce a Vienna ai primi dell’800, con Salvatore Viganò, coreografo de “le
creature di Prometeo” di Beethoven (1801). Il balletto romantico nasce grazie
all’apporto congiunto di Parigi e Milano, città in cui agiscono il coreografo
Filippo Taglioni e sua figlia Maria, 1a étoile, che inaugurano uno stile di danza
completamente immateriale, sottolineato anche dall’abbigliamento vaporoso e
inconsistente, la cui legge è dimostrare che il corpo non è soggetto alla gravità. Il
primo balletto in cui si adotta questa concezione è “Giselle” di Adam (1841). I
passi sono tutti rigorosamente classificati, e la frase coreutica è data da un
enjambement, da un incatenamento di questi passi stereotipati, sono come dei
cinemi ben riconoscibili che si incatenano l’un l’altro. La coreografia si
tramanda per tradizione orale (fino agli anni ’20 del ‘900, quando Laban
inventerà una notazione dei movimenti) tra coreografo e ballerino. Il principe
dei compositori del balletto romantico è proprio Tchaikovsky, che scrive tre
balletti.
Ascolto: il lago dei cigni, tema. Anche nel corpo di ballo c’è una visione molto
simmetrica, palcoscenico diviso in quadranti, la singola ballerina del gruppo
non ha autonomia espressiva, c’è come una visione d’insieme, è una danza
molto tipizzata che non mette in gioco l’espressività del volto o la gestualità del
singolo danzatore. C’è un tema ricorrente, legato a delle situazioni. Il balletto è a
numeri chiusi, ci sono degli episodi chiusi.
• [Sergej Vasil’evic RACHMANINOV (1873-1943)]

Altre scuole nazionali:

BOEMIA

- Bedrich SMETANA (1824-84) poema sinfonico “la moldava” che fa parte di un ciclo di 6
poemi sinfonici intitolato “la mia patria”
- Antonin DVORAK (1841-1904) ha una parte di ispirazione slavofila e una parte di
ispirazione nord-americana (si trasferisce in USA)

MORAVIA

- Leos JANACEK (1854-1928) <=

UNGHERIA

- Bela BARTOK (1881-1945) <=


- Zoltan KODALY (1882-1967) metodo didattico

POLONIA

- Stanislaw MONIUSZKO (1819-72)

ROMANIA

- George ENESCU (1881-1955)

SPAGNA

- Isaac ALBENIZ (1860-1909)


- Enrique GRANADOS (1867-1916)
- Manuel DE FALLA (1876-1946) <=
REGIONE SCANDINAVA:

- NORVEGIA
Evard GRIEG (1843-1907) scrive un concerto per pianoforte, pezzi lirici per pf e le
musiche di scena per un dramma di Ybsen “Peer Gynt” (il mattino)
- FINLANDIA
Jean SIBELIUS (1865-1957) poema sinfonico “Finlandia”, sebbene muoia nel 1957 è
tardo romantico e non ha nella sua musica nulla di 900esco.
- DANIMARCA
Niels GADE (1817-90)
- SVEZIA
Franz BERWALD (1796-1868)

IL TEATRO ROMANTICO TEDESCO

Per parlare del teatro romantico tedesco si deve prima parlare di singspiel, il teatro musicale
popolare in tedesco del ‘700, molto banale, che Mozart grazie alla sua capacità di
contaminazione aveva già trasformato in una grande opera tedesca (vedi flauto magico). Nel
1816 vengono allestiti vari singspiel: Faust di Spohr, Undine di Hoffmann, che hanno delle
caratteristiche particolari, ad esempio le loro vicende si basano su una vita al limite tra il
mondo umano, tangibile, e un mondo inquietante, del demonico, di esseri che hanno una
doppia natura (il patto col diavolo e la presenza del demonico nel Faust, un essere mezzo
donna e mezzo pesce che era Undine nel singspiel omonimo). Si cominciano a delineare dei
caratteri già contenutistici diversi, la doppia natura abitata da esseri sovrannaturali, tipica
dell’immaginario romantico. In una serie di riviste, come l’allgemeine musikalische zeitung di
Lipsia, ci sono una serie di dettami che vari autori suggeriscono per creare finalmente un
teatro tedesco (bisogna tener conto dell’ingombrante presenza di Rossini all’epoca, e della
consolidata moda italiana all’estero), si sente dunque la necessità di creare un’opera
germanica. Vari autori si pronunciano a riguardo, suggeriscono ad esempio che nelle opere ci
siano dei teufelspuck (diavolerie, presenze di castelli misteriosi, eremiti, cavalieri dall’identità
ignota, immaginario romantico legato a un passato medievale, lontano nel tempo). Oltre a
indicazioni contenutistiche troviamo indicazioni musicali, per esempio Hoffmann, nel suo
trattato di estetica, afferma che l’orchestra deve suggerire ciò che le parole non possono
esprimere chiaramente, nel rapporto con questa natura misteriosa c’è infatti un senso di
inquietudine, oscuro, che le parole non possono descrivere chiaramente, quindi è l’orchestra
che deve evocare queste suggestioni, come anche deve evocare il nesso psicologico tra i
personaggi e la natura, fra un problema morale, un conflitto interno alla coscienza di un
personaggio, e lo scatenarsi di una tempesta ad esempio, creare questo insieme pregnante di
esperienze anche insieme al contributo (siamo all’epoca della prima estetica romantica) di
questa musica che arriva lì dove le parole non possono arrivare, che grazie a questa sua
intangibilità, imprecisione segnica, può dare delle prospettive complesse di ciò che viene
rappresentato, e ciò grazie al solo puro fatto sonoro. Suggerisce inoltre che l’opera sia
durchkcomponiert, contro la tradizione italiana, tradizione strutturatasi intorno alla dialettica
fra forma aperta e forma chiusa, che porta inevitabilmente a un’opera segmentata e divisa,
non tutta continua. Nel 1821 abbiamo un singspiel, der freischuetz (il cacciatore liberato,
tradotto in italiano con “il franco cacciatore”), di Carl Maria von Weber, che mette in pratica
con completezza tutti questi principi, e che comunque viene additato come atto di nascita del
dramma romantico tedesco.

CARL MARIA VON WEBER (1786-1826)

- Ascolto: der Freischuetz, abbiamo un’ambientazione medievale e montana, siamo nei


boschi della Boemia intorno al 1650. Il soggetto è tratto da una raccolta di racconti noir
chiamato libro degli spiriti. La comunità di queste zone si basa sul valore dimostrato a
caccia, il protagonista maschile, Max, non riesce a cacciare più come una volta, e quindi
il principe Ottokar è sul punto di negargli la mano della propria figlia, Agathe. Ai primi
dell’800 (anche nell’opera italiana) si va codificando che la coppia di protagonisti
dell’opera sia rappresentata da un tenore e un soprano, mentre l’antagonista da una
voce grave. L’antagonista è un personaggio inquietante, di nome Kaspar, che avvicina
Max promettendogli la soluzione dei suoi problemi, garantendogli delle pallottole di
“sicuro effetto”, e invitandolo a ritirare queste pallottole in un posto tenebroso che si
chiama “la gola del lupo”. Alla fine dell’atto II arriviamo alla gola del lupo, prima
dell’entrata di Max, con Kaspar all’opera in uno scenario abbastanza connotato dalla
presenza del demonico e lo stregonesco, si trova in un cerchio di teschi per terra, sta
allestendo un calderone, e sta dialogando col demonio, di nome Samiel (personaggio
parlante e non cantante), e apprendiamo da questo dialogo che Kaspar ha fatto un
patto col diavolo, che sta scadendo (perderà la propria vita all’indomani), ma lui offre a
Samiel una nuova vita in scambio di altri tre anni di vita. Arriva Max, ovviamente molto
turbato, nel frattempo la natura è percorsa da fuochi fatui, civette con occhi
fosforescenti, ingredienti strambi, capisce che c’è qualcosa che non va. Il demonio,
vedendo che Max è in dubbio, lo convince mostrandogli una visione di Agathe, e
neanche lo spettro della madre di Max che, avvertendo il suo turbamento, si manifesta
per fermare il figlio, riesce a farlo retrocedere sulla sua decisione, così gli vengono date
le pallottole, contate una per una. Quando viene forgiata la settima pallottola (numero
7) si scatenano due tempeste una contro l’altra e abbiamo la cavalcata del cavaliere
nero, immagine medievale del demonio nelle foreste. Dal punto di vista musicale due
caratteristiche: il primo uso di musica ricorrente (precedente a Berlioz e la sua idée
fixe), vale a dire un tema/elemento musicale che ha un correlativo con un concetto. In
questo caso abbiamo l’accordo di settima diminuita, correlata al mondo
infernale/demoniaco. Il secondo aspetto è il modo di Weber di scrivere un’opra
durchkomponiert: nel singspiel avevamo il recitato e non il recitativo, poi sotto la
recitazione si insinua il sottofondo sinfonico (abbiamo passi in mélodrame o melolog),
si eleva il livello drammatico ma con continuità in quanto si continua a recitare. Poi
entra il recitativo che nel singspiel non era presente, e abbiamo un’ulteriore ascesa, e
alla fine si arriva al pezzo chiuso (abbiamo anche un coro di cacciatori che imita lo
yodeler). Passando per questi gradini si realizza una notevole unità musicale (il punto
d’arrivo del flusso continuo lo raggiungerà solo Wagner).
Ascolto: segmento scenico de la gola del lupo, finale atto II, coro di spiriti invisibili, in
cui compare la 7a diminuita.
WAGNER (1813-1883)

Richard Wagner nasce a Lipsia nel 1813 e muore nel 1883. Ha la vita del classico uomo
romantico. Non fece più di sei mesi di studi musicali regolari. Ha un’educazione
semidilettantistica, come per il gruppo dei cinque, e questo dà ragione del suo radicalismo
delle sue soluzioni, gli consente una “sovrana libertà”, in quanto così puro, così poco formato,
è in grado di dare una risposta molto convincente e completamente anomala, esterna a
qualunque evoluzione consecutiva della storia dell’opera, al problema del teatro musicale, che
era la natura totalmente frammentata del discorso, con l’alternanza di recitativi e pezzi chiusi
(anche se nella sua epoca troviamo già l’opera a numeri, già da Mozart si era avuto un passo
avanti con un raggruppamento di più scene consecutivamente, ma in ogni caso non c’è un
flusso continuo, l’ascoltatore non è immerso nella vicenda in modo continuo), e la sua
soluzione, piuttosto radicale, che prescinde dal recitativo/pezzo chiuso dell’opera italiana,
creando come struttura una rete di motivi ricorrenti (chiamati leit-motive dai critici, grund-
themen da lui), quindi un’opera aperta che trova una coerenza, una forma in questo tessuto di
motivi ricorrenti, saltando a piè pari le forme codificate del teatro musicale. Il secondo
problema era il volersi contrapporre all’Italia. Per Wagner vale quello che pensava il gruppo
dei cinque, in quanto da dilettanti si era liberi degli influssi della tradizione musicale
accademica. Si arrangia come direttore musicale di piccoli teatri di provincia, lavora come
direttore di coro, vivendo a Riga (Lettonia), ma fugge dalla città rincorso dai creditori
arrivando a Parigi, e durante l’attraversamento del Baltico lo coglie una tempesta, importante
ispirazione per la genesi di una delle sue opere, l’olandese volante (c’è dunque un motivo
biografico che lo porta ad appassionarsi alla leggenda del marinaio che vaga eternamente nei
mari rincorso da una maledizione). Nel periodo parigino fa l’arrangiatore di opere per
dilettanti e il critico musicale, gli viene commissionata la prima opera, Rienzi (sulla vita di
Cola di Rienzi, siamo nel 1840) ed è un grand-opéra. C’è un’opera precedente, le fate, ma non è
mai stata rappresentata. La rappresentazione a Dresda di quest’opera fa sì che lui ottenga
l’incarico come direttore musicale del teatro della corte di Sassonia, a Dresda, e si trasferisce lì
per circa vent’anni. Compone a Dresda nel 1843 l’olandese volante (der fliegende hoellander),
nel 1845 Tannhauser (con una seconda versione parigina del 1861), poi nel 1850 Lohengrin.
Wagner non voleva che quest’ultima venisse chiamata “opera” ma “dramma”, la intitola anche
“festa scenica”, “azione”, per identificarla come opera tedesca e distinguerla anche nel titolo
dall’opera (italiana), le prime vengono definite ancora opere romantiche. Fra Tannhauser e
Lohengrin (la cui composizione viene infatti completata altrove) abbiamo i moti del 1848
(obiettivo dei rivoluzionari era la fine del regime nobiliare, la creazione di un parlamento, la
libertà di stampa e di opinione.), ai quali Wagner prende parte attivamente, e si vede costretto
a scappare dalla polizia con un mandato d’arresto al suo carico, taglia per Zurigo, viene aiutato
da Liszt e si trasferisce a Weimar, dove viene rappresentato Lohengrin. In questi primi
drammi abbiamo già una trattazione originale in quanto prima di tutto sono testi suoi,
Wagner scrive i suoi libretti. In secondo luogo l’ambientazione è germanica, non più
mediterranea/greco-latina (opera seria italiana), sceglie soggetti che spostino l’azione nel
medioevo germanico, infatti Tannheuser è un minnesanger, un poeta cantore, Lohengrin è un
cavaliere del Graal, è in linea quindi con quanto Hoffman aveva detto era preferibile per il
dramma tedesco. A questo interesse per la mitologia nordica-germanica (vedremo che nella
tetralogia attingerà proprio dai soggetti della mitologia norrena, e da qui l’associazione di
Wagner al nazismo e la sua strumentalizzazione) si aggiunge un forte interesse per grandi
temi universali, in particolar modo quello della redenzione. Infatti in questa trilogia abbiamo
personaggi colpiti da una condanna/maledizione e che devono redimersi, e in tutti e tre i casi
a farne le spese è la donna che amano, ad esempio ne l’olandese volante lui è un marinaio che
ha imprecato contro Dio durante una tempesta, e quindi viene castigato a vagare potendo
sbarcare sulla terra solo una volta ogni sette anni, per dargli l’opportunità di incontrare una
donna, in quanto la liberazione dalla maledizione sarebbe avvenuta soltanto qualora una
donna lo avesse amato di perfetto amore e avesse dato la vita per lui. Questo avviene con una
fanciulla, in uno dei suoi approdi durante una tempesta (abbiamo l’eco della tempesta da cui
tutto è cominciato), è costretto dunque a un approdo d’emergenza in una caletta dove
approda anche un ricco mercante che è il padre della fanciulla, che se lo porta a casa e
permette l’incontro fra i due. Lei era già a conoscenza della leggenda dell’olandese, è come
posseduta da questa leggenda, abbiamo una ballata di lei mentre fila con le compagne, che è
una forma chiusa in quanto diegetica, riprende degli elementi dell’ouverture, abbiamo una
descrizione del moto marino (il mare è grande ispiratore della musica, Mendelssohn e
Rimskij-Korsakov). Lei si innamora di lui ma l’olandese non le crede e riparte, allora lei si
suicida gettandosi in mare e in quel momento l’olandese è libero. L’opera è già divisa in
blocchi, crea degli archi narrativi più congruenti, anche se i blocchi non coincidono con i
numeri, in quanto questi coincidevano con recitativi e pezzi chiusi, mentre qui abbiamo una
forma già prevalentemente libera, con archi drammaturgici che creano continuità tra l’uno e
l’altro. Poi abbiamo l’estrema espressività del recitativo, mescolato a questi pezzi semichiusi,
le due forme si stanno dissolvendo l’una nell’altra. Infine abbiamo elementi musicali di
reminiscenza, temi ricorrenti, che poi diventano la struttura del dramma con la tecnica del
leit-motive. Nel frattempo Wagner comincia a concepire l’idea della tetralogia, nel 1852
abbiamo la sinossi della tetralogia, insieme di quattro drammi che compone fra il 1852 e il
1874, con la prima esecuzione di tutti e quattro di fila, completata dal quarto dramma (gli altri
tre avevano avuto già prime esecuzioni separatamente). La tetralogia ha un titolo d’insieme
“der ring des nibelungen”, che si compone di “das rheingold”, “die Walkure”, “Sigfried” e
“Gotterdammerung” (il crepuscolo degli dei). La tetralogia è una grande saga che intende
descrivere una storia spirituale dell’umanità, partendo dal furto dell’oro, custodito dalle ninfe
del Reno, dal dio Wotan (il soggetto da cui Wagner trae ispirazione è il poema arcaico Edda di
Snorri, autore medievale, siamo nella mitologia norrena, dei paesi baltici), poi se ne
impossessa il nibelungo (nani, stirpe epica delle mitologie nordiche), da quest’oro viene
forgiato un anello che maledice chiunque lo possegga, passa di mano in mano finchè non
arriva in mano a un eroe puro che è Sigrified (abbiamo anche un’eroina, Brunilde), che
dovrebbe riportare l’oro alle figlie del Reno, ma non ci riesce (abbiamo una prima stesura che
lo vede trionfatore, ma non sarà poi quella ufficiale), così il Reno inonda non solo tutta la terra
ma anche il mondo degli dei, abbiamo uno scenario apocalittico. Da quando Wagner comincia
a scrivere la sinossi a quando la completa, abbiamo la lettura di Schopenhauer, con la
conseguente acquisizione del nichilismo sostenuto dal filosofo (a seguito di ciò abbiamo
proprio la seconda stesura del finale della tetralogia, con finale apocalittico). Abbiamo
un’ideologia sostanzialmente anticapitalistica, il possesso del denaro è quello che corrompe
l’uomo, e a questo non c’è rimedio, la società umana è destinata a perire a causa
dell’attaccamento al bene materiale (denaro). Fra il Sigfried (la cui composizione è
inizialmente interrotta) e il crepuscolo degli dei abbiamo una fase che lo porta ad altri due
lavori che si incastrano nella composizione della tetralogia e sono “Tristan und Isolde” (1857-
59 rappresentato nel 1865), dovuto all’amore scoppiato con una poetessa austriaca (sposata),
Mathilda von Wesendonck, sui testi della quale Wagner compone anche un ciclo di lieder, i
Wesendonck-lieder. In un carteggio con questa poetessa lui definisce il Tristan un grido
d’amore per lei. L’acceso cromatismo, la modulazione infinita in ogni suono, corrisponde per
Wagner alla tensione della passione erotica inappagata che egli ha provato per questa donna.
Il secondo dramma che scrive in questo lasso di tempo è “die meistersinger von Nuernberg” (i
maestri cantori di Norimberga), che ci riporta nella stessa ambientazione del Tannheuser, al
medioevo allungato che è il rinascimento tedesco. L’ultima opera è il Parsifal, rappresentato
nel 1882, e troviamo di nuovo in questo dramma uno dei cavalieri del Graal, un personaggio
puro che riporta ai cavalieri del Graal la lancia che era stata conficcata nel costato di Cristo, in
mezzo a tutta una vicenda di resistenza verso le seduzioni e tentazioni. In Wagner abbiamo
lunghi tempi di gestazione proprio perché si immerge in grande avventure spirituali, un una
grandissima difficoltà elaborativa. Con Wagner giunge al massimo il processo di
soggettivizzazione delle tecniche, in quanto la sua tecnica compositiva si pone come soluzione
totalmente fuori dalle righe, totalmente personale. Si raggiunge con lui il flusso musicale
continuo (all’interno di un atto), vale a dire che ogni atto consiste in un nastro di musica
ininterrotto. Nel ’64 lui entra in contatto con Ludwig II, sovrano di Baviera, che perde la
bussola per lui, aveva assistito alla prima del Lohengrin, era un giovane molto sensibile, al
quale non interessavano le questioni politiche e di governo, amava le arti, e cerca un contatto
con Wagner, che però non ha un profilo umano così virtuoso. Approfitta della fascinazione di
questo giovane principe ponendosi come se il ragazzo fosse il cavaliere del Graal e lui la sua
guida spirituale, scrive per lui un trattato sullo stato e sulla religione, che si pone come guida
al buon governo. Ovviamente sta cercando in tutti i modi di cancellare il suo passato e la
partecipazione ai moti della primavera dei popoli del ‘48, che erano contro i regnanti, c’è
quindi un tentato riciclaggio della propria figura politica per tentare di avvicinarsi a questo
sovrano, con cui crea un rapporto di feedback continuo. Il sovrano (nel frattempo era
succeduto al padre) lo invita a vivere a Monaco, dove affitta per lui un suntuoso palazzo,
saldando tutti i suoi debiti. I sudditi bavaresi erano molto scontenti di questo, come lo era il
suo consiglio di governo, che chiamava Wagner “Lolotte”, in quanto suo padre, Ludwig I, aveva
fatto le stesse cose per una ballerina di nome Lola. Wagner approfitta di questo perché ha il
sogno di creare un suo teatro, che segua dei dettami architettonici completamente innovativi,
che si rifaccia all’anfiteatro greco. Wagner è scrittore di estetica del teatro musicale e di tipo
politico come “l’arte e la rivoluzione” e “l’opera d’arte dell’avvenire”, scritti nel 1849 in
concomitanza con la partecipazione ai moti in Germania, ritenendo il teatro musicale uno
strumento capace di far evolvere l’umanità. Quello che può promuovere tale evoluzione è
ovviamente il suo teatro, e non il teatro musicale in generale, anche con la fondazione di
conservatori in cui attraverso anche i contenuti dei suoi drammi creare un’elevazione nello
spirito del popolo. Segue uno scritto di estetica più tecnico che è “musik und drama” (dramma
e musica) del 1851, e più tardi avremo “musica dell’avvenire” (1860). Nel frattempo ha
scoperto l’antica Grecia e quello che lui ritiene si realizzasse nella tragedia classica, ovvero
l’unione di elementi originari successivamente separati (gesamtkunstwerk) e cioè wort
(parola), ton (musica) e drama (azione scenica). Ritiene un brande valore tornare a questa
unità originaria, ma dato che ha anche quest’idea pedagogica il suo teatro non deve essere
all’italiana, classista, la cui perfette visione si ha solo dal palco reale, man mano che ci si
allontana e ci si eleva la visione e l’ascolto sono sempre più parziali e peggiori, mentre
l’anfiteatro greco secondo lui era democratico, portava una pari possibilità a tutti gli
spettatori di partecipare anche emotivamente alla rappresentazione, in Wagner abbiamo
dunque una visione messianica della musica, come linguaggio capace di riscattare l’umanità,
concepisce dunque un’opera di educazione della popolazione, è portatore di una paradossale
felice democraticità (sebbene per raggiungere ciò diviene alfiere della monarchia, ripudiando
i valori dei moti del ’48). È questo il teatro che lui vuole Ludwig costruisca, tanto da esserci
una lotta tra il consiglio di governo e i due, in quanto il consiglio boccia i preventivi ad
esempio, ma alla fine il teatro viene costruito, ed è il teatro di Bayreuth, inaugurato nel 1874
con la rappresentazione completa della tetralogia. In questa rappresentazione avviene lo
spostamento dell’orchestra in buca, quindi assistiamo alla creazione di una cavea alla fine
delle gradinate, dove l’orchestra possa essere nascosta, e questo fa parte di un’altra
componente wagneriana, quella mistico-misterica, si deve sentire che i propri drammi sono
quasi delle rappresentazioni religiose (è vietato applaudire, sono fatte al buio, cosa mai fatta
in quanto il teatro era sempre illuminato), non deve esserci nulla di corporeo, il suono viene
“dal basso mondo della notte universale” per citare Tristano. Questo tipo di teatro lo
immagina come “golfo mistico” all’interno del quale lo spettatore è calato in un’esperienza che
va molto al di là dello spettacolo, siamo davanti a un’esperienza sacerdotale. Il teatro di
Bayreuth avrà l’esclusiva della rappresentazione di Parsifal per circa 50 anni, per cui tutti i
compositori del decadentismo andranno a fare il loro pellegrinaggio a Bayreuth, assistiamo
alla nascita di una moda wagneriana. Infatti i vari compositori di fine ‘800 tenteranno di
andare oltre il lavoro svolto da Wagner, senza riuscirci. Dovremo arrivare al Pelleas et
Melisandre di Debussy per assistere alla nascita di un nuovo linguaggio nel teatro musicale.
Ludwig costruisce ben quattro castelli di cui tre neogotici, e nelle sue scelte architettoniche
lancia così la moda per lo stile neogotico (uno dei castelli da lui costruiti, Neuschwanstein, è
quello imitato a euroDisney). Ludwig muore suicida. L’altra malefatta è il rapporto con Cosima
Liszt, sposata col direttore d’orchestra Hans von Bulow, e Wagner ricatta von Bulow avendolo
inserito nel suo tentativo di plagiare il sovrano, quindi von Bulow si deve beccare ospite
Wagner, che gli porta via la moglie, ma che non può svincolarsi in quanto ci tiene ad esserci
nel progetto. Wagner avrà una sorta di relazione sadomaso con un giovane che gli aveva
chiesto di redimerlo dal suo stato di degradazione naturale per il suo essere ebreo, ma ciò
porta alla scrittura del suo “giudaismo in musica”, che pare porti al suicidio del ragazzo.
L’ultima malefatta è quando dai suoi parenti viene associato al nazismo. La nuora sarà amica
personale di Hitler e a far virare Bayreuth verso l’associazione al nazismo.

Caratteri musicali dello stile wagneriano:

- Wagner parte dal testo, che egli stesso compone, perché ha bisogno di scriverli in modo
tale da poter metter in atto la sua tecnica compositiva. Egli immagina che per ogni
elemento significativo del testo (personaggi, situazioni, sensazioni, problemi morali,
simboli), che corrispondono a parole/situazioni/concetti chiave, egli crea un
corrispettivo sonoro, che lui chiama “grund-theme” (tema-radice, tema-generatore),
chiamato anche tematiche motive. Poco più tardi verrà chiamato dai critici leit-motive,
indicando una caratteristica dell’uso di questi elementi musicali, il fatto cioè che essi
continuino a comparire, a ricorrere. Abbiamo già incontrato il concetto di tema
ricorrente ma sporadicamente, ad esempio nella sinfonia fantastica di Berlioz (idée
fixe), all’interne del franco cacciatore di Weber (7a diminuita). La differenza in Wagner
è che questi correlativi sonoro a concetti continuano a comparire in modo costane e
continuativo, e compaiono anche trasformandosi, ad esempio se la situazione, quel
preciso nodo psicologico si evolve, allora si trasformerà anche il leit-motive, vengono
anticipati prima che si presentino una data situazione o personaggio, possono essere
all’opposto invece presentati come reminiscenze di un particolare concetto, presentato
dunque in una situazione totalmente estranea a quella che il correlativo musicale sta a
esprimere, e questo può succedere anche tra un dramma e l’altro, possono intersecarsi
e intrecciarsi l’un l’altro. Tutto il lavorio su questi temi-radice funge da struttura
portante dell’opera di Wagner, che può essere concepita come una rete di grund-
themen. Quest’uso sistematico di intrecci di temi ricorrenti lo differenza dalla musica
ricorrente di altri autori, che non aveva acquisito ancora valore strutturale. Questa
soluzione permette di creare un’alternativa alla dorma dell’opera italiana, che
prevedeva quindi alternanza tra recitativo e pezzo chiuso, quindi dialettica continua
fra forma aperta e forma chiusa, il problema insanabile di rendere la forma aperta
musicalmente interessante quanto la forma chiusa, anche andando contro all’incallita
conservatività del pubblico che ascolta. Avevamo già un’opera a numeri (con Bellini,
Donizetti, Verdi), non è più un’opera a cassetti, anche in Italia abbiamo delle arcate
narrative/musicale molto più ampie, che nel numero includono più scene consecutive,
ma in ogni caso alla fine di ogni numero si aveva un’interruzione. Wagner crea una
soluzione completamente diversa, che si trova al di fuori della tradizione musicale
dell’opera, infatti i motivi che portano al grund-theme wagneriano sono di origine
testuale e non musicale. La rete di questi motivi si avvale fortemente della condotta
armonica, per Wagner l’armonia è molto importante, tanto che nel carteggio con la
poetessa Wesendonck egli diche che la modulazione è una funzione della poesia, cosa
che esprime anche nel suo “opera e dramma”, questo perché in Wagner abbiamo,
all’interno del processo della tonalità allargata che sta prendendo luogo (all’interno
della tonalità abbiamo sette suoni propri, diatonici, e cinque suoni estranei, cromatici),
in quanto nel corso dell’800 i compositori sono portati a caricare di elementi diatonici
la verticalità musicale, quindi l’accordo, non soltanto con le settime ma con le 9e,
11esime e 13esime, arrivando alla saturazione diatonica, dato che oltre la 13a si
riproduce la fondamentale, dall’altra parte in Wagner abbiamo il processo della
saturazione cromatica, asserendo che si possa modulare molto facilmente, in modo che
quasi ogni suono possa diventare una nuova sensibile, molto riconoscibile nel Trsitan
und Isolde (il cromatismo esasperato è fatto risalire dallo stesso autore alla tensione
erotica, alla passione irrisolta verso Mathilda). Questa tendenza all’esasperazione del
cromatismo, della modulazione, porta anche a un senso di infinitudine, di
inconclusione (tutta la fraseologia musicale occidentale fino a quel momento era
basata sulle cadenze), nel momento in cui il sistema delle cadenze salta (utilizza spesso
cadenze d’inganno, evita le cadenze complete/perfette), tende a sfuggire dalla
quadratura, e questo produce un senso si spalancamento dell’orizzonte, di
inafferrabilità, che farà sì che Baudelaire, padre dei poeti maledetti, faccia queste sue
recensioni entusiastiche (a seguito delle esecuzioni in forma di concerto delle opere di
Wagner a Parigi nel 1860), proprio perché è questa l’impressione che in un profano
provoca questo congegno tecnico-musicale che è quello di sfondare la regolarità con
questa continua tensione armonica e rompendo anche la classica fraseologia, che si
basava proprio sul percorso armonico, che conduce verso l’infinito, e questo è il motivo
che porta Baudelaire a dire che in Wagner si sente davvero lo “unaussprechlich”,
l’immediatezza metafisica dell’inesprimibile, l’inconscio, l’indicibile, provocato dalla
linea di fuga che porta alla caduta dei limiti fra le parti, perché se abbiamo una
continua rete di temi ricorrenti, non ci sono forme chiuse riconoscibili, fraseologia
irregolare, armonia sfuggente, allora è chiaro che è una musica che diventa senza
confini, Wagner per questo diventa l’apostolo del decadentismo, si parla di “melodia
infinita”, conseguenza della sua armonia infinita. Tutto questo è accentuato dal modo
di trattare la vocalità, in Wagner la voce non è mai accompagnata (non abbiamo la
melodia accompagnata), è calata nel contesto sinfonico esattamente come se fosse uno
strumento, la sua è definita infatti opera sinfonica proprio perché la struttura è calata
in questo sinfonismo complessivo. In un’osservazione di Hanslick (polemica sulla
musica assoluta), in cui ipotizza che si sia persa una parte dell’opera di Wagner, ovvero
la voce, dicendo che un bravo musicista potrebbe inserire il canto nell’opera di
quest’ultimo come un bravo scultore potrebbe restaurare la mano mancante di una
statua, ma ripristinare l’accompagnamento orchestrale nel caso in cui fosse stato perso
quest’ultimo sarebbe altrettanto difficile come per lo scultore ricreare l’intera statua
partendo dalla sola mano. L’orchestra di Wagner è un’orchestra gigantistica, è anche
uno sperimentatore, inventa un nuovo strumento. La tuba wagneriana (tenore, in sib),
con l’applicazione di un bocchino di corno. Questo fa sì che si crei un passaggio
intermedio tra il timbro rude dei tromboni e il timbro morbido, suggestivo dei corni,
crea una voce intermedia tra i due, creando una grande sfera di morbidezza e
suggestione timbrica che si crea dall’amalgama. Wagner recepisce quello che avevano
detto i primi teorizzatori dell’opera romantica tedesca, ovvero che l’orchestra possa
comunicare ciò che il testo non riesce ad esprimere. Perciò l’ampia tavolozza timbrica e
suggestiva di quest’orchestra riesce bene ad esprimere i temi generali, profondi dei
suoi drammi, di ideologie iniziatiche dell’epoca in cui vive (Wagner è dentro a tutto il
discorso dell’esoterismo, dell’esistenza di una doppia natura, della trasmutazione
dell’amore carnale nell’amore celeste), facendo sì che Wagner diventi l’unico caso di
poetica musicale che ha influenzato le poetiche letterarie, e non il contrario, mai una
poetica musicale ha avuto tanto seguito, fanatismo, soprattutto presso il decadentismo
francese, creando anche una sorta di blocco. Dopo un’evoluzione così radicale, così
violenta, l’ondata del post-Wagner (polemica nel 1870 fra verdiani e wagneriani in
Italia), gli autori sentono che no ci sono più vie da percorrere, o lo si imita o no si può
inventare nulla di nuovo.
Ascolto: Tristan und Isolde. È in tre atti (1857-59, 1865), parla di una saga molto antica
anche nella trattazione letteraria, noi la conosci amo già da Chretien de Troyes
(trovatore), abbiamo anche in sona tedesca che tratto questo mito nel medioevo (XIII
secolo), Gottfried di Strasburgo. Tristan, fratello più giovane del re Marke di
Cornovaglia, entrambi sono affiancati da un persomnaggio secondario, rispettivamente
lo scudiero Kurvenald e il cortigiano Melot. Tristan viene mandato in missione in
Irlanda a prendere la sua futura sposa, Isolde. C’è un viaggio in mare dove è Tristan a
condurla in Cornovaglia. Anche Isolde ha un personaggio affiancato, l’ancella
Branganie. Isolde riconosce in Tristan l’anonimo uccisore del suo precedente fidanzato
(Morold), allora chiede a Branganie, esperta di arti magiche, di preparare una pozione
di morte. Quest’ultima si intenerisce e prepara una pozione d’amore. Wagner vuole
sottrarre il mito all’ambientazione favolistica, non vuole fare una zauberoper, inserisce
una sorta di volontà di Isolde, infatti nel momento in cui Tristan beve, lei, pensando che
sia un filtro di morte, ne beve anche lei. Quindi Wagner ha voluto enfatizzare l’aspetto
volontario del legame tra i due, che non è determinato da un elemento esterno, magico.
Così l’amore tra i due (esistente ma celato) sboccia grazie alla pozione. Melot fa la
soffiata a Marke, che tornando prima da una battuta di caccia sorprendono i due
amanti dopo la scena del giardino (dopo il Romeo e Giulietta di Shakespeare la scena
tipica dei due amanti clandestini è una scena del giardino, lo si vede anche nel Romeo e
Juliette di Berlioz, in cui è presente una sena del giardino). Melot si scaglia contro
Tristan e lo ferisce. Nell’ultimo atto troviamo Tristan nel suo castello in Bretagna, ferito
a morte, che incarica un pastore di suonare una nenia dagli scogli (musica diegetica
con passo orchestrale del corno inglese), a meno che non veda arrivare la nave Isolde,
ad un tratto la nenia diventa musica gioiosa perché effettivamente la nave di Isolde sta
arrivando, perché nel frattempo re Marke è venuto a conoscenza del filtro d’amore e
lascia libera la principessa. Tristan ormai stravolto, si strappa le bende e muore, sicché
Isolde arriva e trova il suo amato morto, e assistiamo qui alla trasfigurazione di Isolde
(termine dello stesso Wagner), infatti Isolde non muore perché è ferita, non muore di
morte naturale, ma si trasfigura, muore di una morte esoterica, teorizzando che
l’amore carnale, umano, è imperfetto, e che l’amore perfetto è raggiungibile con
l’ascensione morale della coppia, che sono l’uno sdoppiato nella creazione, e quindi
l’androgino (il concetto di androgino è importante anche per gli alchimisti), anche a
livello di trasformazione morale e spirituale della dualità nel singolo, e nel ritorno
verso Dio. In questo senso c’è una trasfigurazione, i due che non si possono amare in
questo mondo, si possono amare solo, come dice Tristan nel suo ultimo monologo, nel
vasto mondo della notte universale, dove lui la aspetterà. Quando Isolde muore
afferma che “nel tutto che respira dal cuore del mondo, questa è la voluttà suprema”,
quindi assistiamo a questa coppia che “evapora”, che ascende e che si trasfigura, la cui
dimensione d’amore può realizzarsi soltanto altrove, abbiamo il tema potentemente
espresso di “eros e thanatos”, ed è profonda la linea tematica che percorre questo
dramma, in quanto parte tutto dalla morte (morte di Morold, il tentato assassinio di
Tristan e suicidio di Isolde col filtro di morte) e finisce nella morte perché lei lo ama.
Wagner crea un estratto da concerto (preludio e morte di Isotta) e la parole usata per
tradurre morte è “verklaerung”, ovvero trasfigurazione, ha unito quindi il preludio,
famoso per il suo accordo iniziale chiamato Tristan-akkord, non facilmente spiegabile
alla luce dell’armonia tradizionale, molti hanno tentato di spiegarlo, ma che può essere
spiegato soltanto con note aggiunte e tolte, ma forse la migliore definizione la dà
Shoenberg nel suo trattato di armonia, definendolo un aggregato che non può essere
spiegato alla luce dell’armonia tradizionale, ma va preso in modo isolato come una
“macchia sonoriale“, aggettivo coniato da uno studioso per Debussy, che poco più tardi
inizia la musica del ‘900, proprio creando degli accordi isolati che valgono in senso
assoluto e non in un discorso musicale logico. Questo accordo è stato chiamato anche
“accordo dello stupore”.
Preludio, con accordo di Tristan, che viene ripreso nella trasfigurazione, monologo di
Tristan e poi morte/trasfigurazione di Isolde (liebestod, morte nella quale i due amanti
consumano il loro amore).
Tristan-akkord nel preludio: fa-si-re#-sol# (dal basso quarta aumentata, sesta
aumentata, nona aumentata).
OPERA FRANCESE DELL’800

C’è una grande sottolineatura dell’aspetto drammatico, della suspense, e il tremolo degli archi
è utilizzato per creare quest’aspettativa.

Tragedie lyrique Opera comique Compositori


1789-1804 Cambia temi, i protagonisti Diventa abbastanza seria, Compositore più
Rivoluzione e le ambientazioni sono si parla di vicende storiche gettonato della
francese ed età legate a vari personaggi caratterizzate da coraggio, Parigi
repubblicana libertari (Bruto, Caio salvataggi, viene anche repubblicana è
Gracco, Orazio Coclite), chiamata “piece a Luigi Cherubini,
antica Roma repubblicana, salvatage”, l’elemento scrive una
ideologia antitirannica romanzesco viene Medea
connaturato alla temperie accentuato. Ci sono varie
rivoluzionaria. Il sottotitolo “Leonore”, personaggio
era “tragedie republicaine”. che aveva salvato dal
carcere il proprio
compagno (Leonora è
protagonista anche del
Fidelio di Beethoven, unico
singspiel del compositore).
Sottotitolata “comedie
heroique”.
1804-1814 Riprende il titolo di Principale
Età tragedie lyrique, i autore di
napoleonica protagonisti sono tragedie lyrique
fino al nuovamente i potenti, i è Gaspare
congresso di regnanti dell’ancient Spontini, che
Vienna regime, trasposto sempre in scrive “la
un’ambientazione classica vestale”
(antica Roma), quindi
imperiale.

1814-fine Nasce il grand-opera, Nel corso dell’800 diventa Gounod con


secolo dramma a soggetto storico, opera lyrique, a indicare “Faust”,
Restaurazione con numerose scene di l’accentuazione sul Massenet con
massa, chiamate “tableaux”, sentimentalismo, sulla “Manon” e
con un grande movimento lacrimevolezza, portando Thomas che
scenico, aspetto epico- avanti il filone scrive “mignon”
storico pesante, supportato “larmoyante” (lacrimoso) dal Willhelm
da un’orchestra molto del romanticismo. Sono meistr di Goethe
pesante, con molti ottoni, opere strappalacrime. (opera lyrique)
tremolo degli archi che crea
tensione drammatica,
un’opera un po’ carica,
enfatica. Caratterizzata
anche dal colpo di scena, già
inaugurato nella comedie
heroique, che lascia tutti in
un momento di
disorientamento. Molti di
questi elementi vengono
assorbiti dal dramma
italiano. Rispetto alla
tragedie lyrique del ‘600,
sentita come un brano
teatrale con una sua dignità
testuale, un’opera letteraria
potenziata dalla musica,
invece il grand-opera
compie il distacco tra testa
e musica, la tragedia
letteraria perde importanza
e l’acquisisce la musica. Si
perde così uno dei
presupposti del teatro
francese, reazione all’opera
italiana, presupposto che
prevedeva uno spettacolo
musicale condotto dal testo.
Fine ‘800 Abbiamo l’irruzione di Abbiamo un doppio Esponente
Wagner, quindi l’opera scambio, a livello di opera maggiore di
seria viene denominata si accoglie un realismo, un drame lyrique è
come drame lyrique, rapporto con la realtà che Chabrier, che
evitando dunque la parola fa sì che sia il contenitore forma il
opera, per uniformarsi a della tendenza del cenacolo “la
Wagner, e assistiamo a vari naturalismo di Zola piccola Bayreut”.
continuatori del movimento (verismo italiano), e
detto wagnerismo principale opera di questo
(esecuzione nel 1860 delle filone è “Carmen” di Bizet.
opere di Wagner a Parigi) Uscendo da questo teatro
d’opera più nobile
abbiamo l’operetta, il cui
importante esponente è
Offenbach

ROSSINI (1792-1868)

Gioacchino Rossini nasce a Pesaro nel 1792 e muore nel 1868. L’importanza di Rossini è
concentrata sul piano teatrale. Era un polistrumentista, oltre ad aver studiato canto, era stato
formato in una famiglia di musicisti. Esordisce a dodici anni non come bambino prodigio
esecutore ma come compositore. La sua prima opera intitolata Demetrio e Polibio è del
1809/1810, e il successo arriva nel 1813 con un’opera seria e un’opera comica che sono
rispettivamente “Tancredi” e “l’italiana in Algeri”. Dopo quest’affermazione, la sua vita si
divide in una fase italiana e una francese. La fase italiana a sua volta si divide in una fase a
Pesaro (1792-1814) e una a Napoli (1815.1822), dove viene invitato dall’impresario Barbaja
come direttore artistico dei teatri san Carlo e del Fondo. Poi viaggia per un paio d’anni,
recandosi spesso a Parigi, e trasferendosi poi stabilmente dal 1825 fino alla morte. La sua
incidenza storica che si concentra sul teatro musicale non arriva fino agli anni ’60 dell’800,
l’ultima opera che compone è il Guillaume Tell (Guglielmo Tell) nel 1829, dopodiché abbiamo
il cosiddetto silenzio rossiniano, durante il quale compone altre cose ma non dal punto di vista
operistico, ci sono molte cose non particolarmente geniali, tanta musica da camera, anche
vocale, raccolta negli album dei cosiddetti “peccati di vecchiaia”. Abbiamo anche però lo stabat
mater, e la petit messe solennelle. La sua influenza dilaga in tutta Europa, l’opera italiana
rimane un po’ invadente anche all’estero, abbiamo una corrente detta del “rossinismo”
(Beethoven è un chiaro esempio all’estero di antirossinismo). Dopo il 1813 abbiamo una serie
di lavori, i più importanti dei quali sul piano comico sono il turco in Italia, il barbiere di
Siviglia (1816), opera che venne presentata in sottotono con un altro titolo “l’Almaviva o
l’inutil precauzione” su libretto di Serbini (il ruolo del librettista nell’800 era quello di fare da
mediatore tra un’opera letteraria preesistente e la musica del compositore, non quindi di un
autore originale), perché esisteva già un barbiere di Siviglia, di Paisiello, tratto dal primo dei
lavori della trilogia di Beaumarchais (Mozart, nozze di Figaro) del 1782 basata su un
personaggio umile che faceva apparire gli aristocratici come personaggi negativi. La prima
rappresentazione del barbiere fu un fiasco, ma già dalla seconda divenne il barbiere di Siviglia
per eccellenza, facendo cadere nel dimenticatoio quello di Paisiello. Seguono la Cenerentola e
la gazza ladra, sempre opere comiche. Dopo la gazza ladra, rappresentata a Milano nel 1817,
Rossini non compone più opera comica, alla luce del fatto che il romanticismo italiano non
ama tanto “ridere”, è un’epoca molto tarata sul dolore, sulla sofferenza umana ed esistenziale,
quindi il teatro comico non ha molte chance di essere praticato nell’800, mentre il vero filone
del futuro è quello dell’opera seria ma che diventa un’opera drammatica, con finale tragico,
diversamente dall’opera seria del ‘700 che era sempre a lieto fine. Rossini ha l’intuizione che i
tempi stanno cambiando, smette di scrivere opere comiche, ma compie un’operazione
importante per il futuro del teatro italiano, di recente sottolineata dalla storiografia, in quanto
fino a una trentina d’anni fa l’interpretazione della figura di Rossini era quella di un autore
neobarocco, che ancora compone con i modi del ‘700, e questa valutazione era basata sulla
considerazione del solo teatro comico di Rossini, in tutto simile a un’opera del ‘700.
Successivamente si sono presi altri aspetti del suo teatro e si è rivalutata la sua funzione
storica in quanto l’operazione che compie è la seguente: nell’opera comica del ‘700,
diversamente dall’opera seria in cui i recitativi portavano avanti l’azione e i pezzi chiusi la
fermavano, erano dei momenti di sospensione, i pezzi chiusi potevano invece portare avanti
l’azione, specialmente nei pezzi d’insieme. Rossini prende la possibilità del pezzo chiuso di
portare avanti l’azione e la traspone nell’opera seria, quindi a partire da lui abbiamo anche
nell’opera seria il pezzo d’insieme porta avanti l’azione, e questo è fondamentale perché fino a
quel momento nell’opera seria l’azione era rilegata a una forma povera di interesse musicale
quale era il recitativo, come se l’azione non potesse essere espressa dalla più alta musica. Con
questo ponte fra i due generi l’opera seria viene dotata della possibilità di esprimere l’azione
con la pagina di musica più interessante che è quella del pezzo chiuso. Alcune delle opere
serie di Rossini sono Elisabetta regina d’Inghilterra, Otello, Mosè in Egitto, Maometto II,
Semiramide, e al culmine della composizione di opere serie troviamo l’ultima, Guglielmo Tell.
Quando si trasferisce abbiamo la rielaborazione di alcune opere precedenti secondo il gusto
francese, ad esempio Mosè in Egitto diventa nel 1827 Moisè et Pharaon, e l’altro titolo
Maometto II diventa le siège de Corinthe, ma che poi la trasposizione parigina viene tradotta
in italiano e diventa l’assedio di Corinto (tradotta in italiano ma mantiene le rielaborazioni
della versione parigina).

Guglielmo Tell:

- Quest’opera viene rappresentata a Parigi ed è un grand-opera, in francese (1829).


Viene poi tradotto in italiano e viene rappresentato a Lucca nel 1831. È un dramma
ancora a lieto fine ma che ha tantissimi aspetti della drammaturgia italiana romantica,
tutta la vicenda è pervasa da un forte senso della natura, non la natura animata
tedesca, animata di esseri, ma una natura molto concreta, dove la tempesta non ha
valore di dramma interiore (a differenza nel freischuetz di Weber), nell’opera italiana
la tempesta è sempre oggettiva, serve all’intreccio (esempio nel Rigoletto di Verdi). È
una natura romantica ma non animata, perché si parla di un cantone svizzero alpestre,
poi c’è il contenuto patriottico, abbiamo l’insurrezione del cantone di Ur, uno dei
cantoni elvetici, contro la dominazione austriaca rappresentata dal balivo (alto
funzionario del regno) di nome Gessler. Abbiamo la prima coppia ostacolata del teatro
musicale italiano ottocentesco: Guglielmo Tell non è il vero protagonista dell’opera
passando la maggior parte del tempo in prigione, c’è una terzetto di cospiratori più
giovani coprotagonisti, che sono i veri eroi d’azioni, uno dei quali si chiama Arnoldo,
innamorato di una principessa austriaca, Matilde. Siamo davanti a un amore ostacolato
dalla ragion di patria, che mette Arnoldo contro i suoi sentimenti, e questo è un
importante principio, anche se non abbiamo la morte degli amanti, l’opera è a lieto fine,
perché viene spostata l’attenzione sull’aspetto politico. Infatti, dato che Gessler rimane
ucciso durante la tempesta finale, che qui ha più valore quasi di contrasto col
rasserenamento generale successivo ad essa, ed espresso musicalmente, in quanto si
conclude la vicenda del cantone di Ur, con Guglielmo Tell che nel mentre viene liberato,
non abbiamo più il focus sui due amanti. Quest’opera è il lascito di Rossini al teatro
romantico italiano, in cui troviamo anche novità per quanto riguarda gli aspetti
musicali, come la presenza del triangolo vocale (la coppia sopranto-tenore e
l’antagonista che è un basso, anche Guglielmo Tell è un basso ma stiamo parlando
comunque di un grand-opera, abbiamo grandi scene di massa, un dramma molto
corale, molto vicina al gusto francese), poi una nuova concezione dell’abilità vocale,
dove alla capacità di ornamentare in maniera virtuosistica si sostituisce il concetto di
voce potente, ad esempio basta un salto per dare un fremito di piacere che fino a poco
tempo prima davano gli abbellimenti. C’è la presenza del carattere del personaggio che
si traduce nella sua presenza scenica. C’è il discorso dell’azione che viene portata
avanti non solo dal pezzo d’insieme ma anche dall’aria (atto IV scena 1, aria di Arnoldo,
dove cambia proprio la posizione in merito alla causa patriottica, per cui stava
perdendo interesse, a causa dell’uccisione del padre per mano di Gessler, e prende la
decisione di diventare il capo dei rivoltosi rivelando anche dove sono nascoste le armi
al coro di soldati che interviene proprio mentre lui stava cantando un’aria). Il
melodramma acquisisce anche la capacità di sondare i passaggi profondi della
psicologia umana, il cambio delle emozioni. Rossini codifica inoltre un modello di
forma per le arie e i pezzi d’insieme dell’opera a numeri. Quando un numero contiene
un’aria, esso si divide in due parti, una prima parte detta scena (non è più l’unità
drammaturgica minima determinata dall’entrata e uscita di scena dei personaggi), con
Rossini la scena è quindi un recitativo potente, accompagnato che prelude all’aria,
tutt’uno con l’aria. Nell’aria non abbiamo più l’aria con da capo, ma una prima parte
cantabile, poi una sezione intermedia, una transizione (con un recitativo o intervento
talvolta del coro) in cui troviamo le basi per il cambiamento psicologico del
personaggio che poi trova sfogo nell’ultima sezione, la cabaletta, con un ritmo veloce e
incalzante e con ritornello, e conseguenti variazioni/fioriture nella ripetizione che
vengono scritte, non abbiamo il fattore estemporaneo che va a far mostra della bravura
del cantante, ma servono a potenziare l’aspetto musicale-espressivo. Il pezzo d’insieme
è diviso in un allegro, un largo e una stretta finale molto allegro. Nel primo abbiamo la
condizione di partenza che culmina nello choc, poi il largo rappresenta il momento di
disorientamento successivo al colpo di scena e viene detto “quadro di stupore” o
“concertato di imbarazzo”, poi nella parte finale, detta “stretta” perché prevede un
incastro, un’accelerazione di tutte le componenti, in particolar modo di quella ritmica.
Rossini ha una capacità straordinaria di creare ritmi incalzanti e dinamici, cinetici, si
avvale moltissimo della ripetizione, della reiterazione di frammenti ritmici molto
incisivi, e li enfatizza con un incremento dell’intensità sonora che viene detto
“crescendo rossiniano”, determinato dall’aggiunta in successioni di voci/strumenti, si
arriva a un punto massimo di tensione che poi ha uno sbocco imprevisto, c’è l’elemento
della sorpresa, una condotta improvvisamente inattesa, che può essere una
modulazione, un cambio di modo, un pp improvviso, un silenzio generale, che
interrompe il meccanismo ripetitivo, ed è un meccanismo di straniamento, stupore
piacevole che viene determinato nell’ascoltatore.

Si creano dunque questi grandi blocchi unitari nell’opera rossiniana, molto estesi, continui
al loro interno, e con questa capacità gestionale degli elementi psicoacustici messi
efficacemente in gioco dal compositore. Era grande uomo di teatro (come lo sarà Verdi), ha
senso del palcoscenico, logica del ritmo del palcoscenico, della recezione da parte del
pubblico, anche se si muovono nell’ambito tradizionale delle forme italiane.
Ascolto: dal tuo stellato soglio, coro tratto dal “Mosè in Egitto” (1818 Napoli), preghiera
che Mosè intona davanti al mar Rosso in cui chiede protezione divina. I personaggi sono
Mosè, Aronne e Elcia, insieme a un distico del coro. Solm-sibM => finisce in solM. Una delle
idee che Rossini utilizza è la parificazione dei toni paralleli, modo maggiore e minore sulla
stessa tonica sono sentiti come tonalità vicine.
Ascolto: barbiere di Siviglia, ouverture, cavatina di Figaro “largo al factotum”, due pezzi
d’insieme che sono il quintetto “don Basilio cosa veggo” dall’atto II scena IV e poi dall’atto
II scena XIV il terzetto “a qual colpo inaspettato…zitti zitti piano piano”.

Ascolto: Guglielmo Tell, atto IV scena I, ritorno di Arnoldo nella casa del padre, ucciso per
ordine del balivo Gessler, abbiamo un recitativo accompagnato (scena), in cui chiede di
non essere abbandonato dal senso di vendetta che sente per il padre, in modo da
contrastare l’amore che sente per Matilde, muove i primi passi dentro la casa; tipo del
recitativo accompagnato è il contrasto interno al personaggio, che non prende una
decisione ma vacilla, vuole andare avanti e poi retrocedere, che è preso da opposti
sentimenti. L’orchestrazione è molto cupa, abbiamo anche stilemi tipici come l’insistere
sugli archi gravi, potenziati dagli ottoni, sul frisson, tremolo degli archi, contrasti dinamici,
siamo dentro a una musica drammatica, così com’era stata codificata da Gluck. Comincia
l’aria (A) (o muto asil del pianto), la versificazione è regolare, si passa da un’atmosfera
drammatica ad un’atmosfera contemplativa, è un adagio cantabile, codificato da Rossini
nell’aria, abbiamo frasi tipicamente introduttive, siamo dentro a una melodia
accompagnata, punteggiata dai corni, strumento valorizzato nel romanticismo per la sua
morbidezza sonora suggestiva ed evocativa. Da notare è l’assoluta semplicità della melodia
del canto, che punta sulla potenza di voce dei salti, che troviamo su parole chiave, la cui
intensificazione non è data più dall’ornamento ma dal salto, dallo slancio nella semplicità
melodica. Subito dopo (invano il padre, il padre io chiamo) abbiamo una ripetizione
progressiva di questo segmento, con la figura del climax, aumento progressivo dell’altezza
in senso cromatico, climax che sfoga su “ah fuggir”, tipico fraseggiare per ampie frasi che
tendono ad un climax lirico di intensità (melodismo romantico); poi troviamo l’intervento
del coro degli svizzeri, che funge da transizione, dal retro scena (in funzione esterna alla
scena), e il coro in avvicinamento da dietro le quinte grida “vendetta”, e abbiamo il
cambiamento di stato d’animo in Arnoldo, fino a quel momento elegiaco mentre
commemorava la figura del padre, e al sentire del suo cuore, passando alle sensazioni della
temperie patriottica e guerresca, e il coro di soldati entra (dal punto di vista
drammaturgico abbiamo la scena I quando Arnoldo è solo, la scena II quando entrano i
soldati, ma senza soluzione di continuità). Nella seconda parte dell’aria (B), più concitata,
arriva lo scatto attivo, nel quale rivela ai compagni (che chiedevano le armi in modo da
contrattaccare e liberare Guglielmo) dove le armi sono nascoste, quindi anche nell’aria
abbiamo una svolta drammaturgica, attiva nella narrazione. C’è un’ulteriore transizione
corale e poi ulteriore strofa di aria (B’), dove Arnoldo ha ormai cambiato stato d’animo.
Nuova transizione corale, poi squilli di trombe (è una musica molto enfatica) e poi
cabaletta (C), culmine dinamico dell’aria, in cui conduce i compagni alle armi, con tipico
accompagnamento marziale (ottoni, ritmo scandito, salti di ottava). Abbiamo dunque un
giro di volta nella vicenda in un’aria.

Ascolto: Guglielmo Tell, finale “tutto cangia il ciel s’abbella”, in cui (dopo la tempesta in cui
Gessler è stato ucciso), il rasserenamento storico coincide con quello atmosferico, con la
natura che si unisce alla serenità della gioia raggiunta (prevale il tema politico su quello
amoroso). Rossini mette in atto tutti i suoi meccanismi, come quello della ripetizione o
della sorpresa improvvisa.
TEATRO ROMANTICO ITALIANO E MELODRAMMATISTI

- Vincenzo Bellini (Catania 1801-1835)


- Gaetano Donizetti (Bergamo 1797-1848)
- Giuseppe Verdi (Roncole, Busseto a Parma 1813-1901)

La tradizione strumentale in Italia si inabissa ai primi dell’800, l’attenzione è settorializzata


nel teatro musicale, ci saranno dei tentativi di ripristinare una tradizione sinfonica italiana,
soprattutto da parte di alcuni musicisti e intellettuali fiorentini membri della società del
quartetto, che non corso dell’800 organizzeranno concerti di musica da camera/sinfonica,
eseguendo fra i tanti soprattutto Beethoven, ma abbiamo pochissimi autori strumentali
italiani. La funzione del teatro invece era ancora quella settecentesca, cioè di ritrovo di una
società divisa in classi (come Wagner aveva puntualizzati si tratta di un ambiente classista),
ad essa si aggiunge una funzione di divulgazione culturale, perché il librettista nel corso
dell’800 diventa colui che traduce le grandi opere letterarie in musica, quindi l’opera dell’800
in Italia avrà la stessa funzione ad esempio dello sceneggiato televisivo nel secondo
dopoguerra (ci saranno grandi sceneggiati su grande letteratura romantica), quindi
divulgazione della grande letteratura. Declina l’opera impresariale, non abbiamo più
l’impresario, ma ad esso si sostituisce l’editore, in particolare Ricordi, che monopolizza il
teatro italiano. Ha il controllo sul teatro alla Scala di Milano, e permette lo scambio di
partiture con le altre istituzioni italiane, e si crea in questo modo il concetto di repertorio,
ovvero opere che vengono fatte circolare e riproposte, a discapito magari di nuove, e nasce
una strutturazione dei guadagni attraverso la regolamentazione del diritto d’autore, che fino
agli anni ’40 dell’800 non esisteva, che poi viene spartito fra editore e compositore, che si
esplica sia sul noleggio, sia sui diritti di riduzione e trascrizione, infatti è un grande indotto
dell’800 il poter fornire alla prassi domestica delle famiglie delle riduzioni o per canto e
pianoforte, o per pianoforte solo, in modo da riascoltare/ricantare le arie preferite (in
mancanza di una strumentazione di riproduzione meccanica che verrà solo dopo).

I prodotti del teatro romantico italiano possono essere a tutti gli effetti chiamati melodrammi,
proprio perché nonostante questo termine sia stato usato sporadicamente nel barocco
(dramma in melos – dramma in musica), e venga usato spesso come sinonimo di opera, in
realtà il melodramma in senso proprio è l’opera italiana della prima metà dell’800, in quanto
raccoglie l’eredità dello spettacolo francese chiamato mélodrame, ovvero uno spettacolo
recitato su sfondo sinfonico (non etra un’opera, in quanto l’azione non è espressa nel canto
ma nel parlato), avevamo visto passaggi in stile di mélodrame nel singspiel. Dà il nome al
teatro italiano d’opera non per affinità funzionale ma per la sua atmosfera, per la carica
emotiva, il melodramma italiano ha la stessa temperatura incandescente dal punto di vista
delle passioni di questo spettacolo francese dell’epoca della rivoluzione, anche se ogni singola
opera può avere diverse denominazioni (dramma tragico, dramma lirico, melodramma
tragico, solo dramma o solo opera, non abbiamo un’omologazione). Il teatro romantico
italiano è deputato a quella che possiamo definire “estetica del dolore”, diventa luogo
dell’irrevocabilità, ostacoli insormontabili, malattie inguaribili, ostacoli tra padre e figlio,
fratelli o famiglie rivali, tiranni e cospiratori, con delle passioni viscerali di amore e di odio
incontrollabili, estremizzati, con una estremizzazione inevitabile dei caratteri, sebbene non
possano esserci delle persone assolutamente malvage o di assoluta bontà e virtuosità, tipico di
questo teatro è l’esasperazione di quel particolare del carattere di un dato personaggio, dalle
forti tinte (Manzoni stesso scrive che l’esasperazione drammatica è contro la verosimiglianza,
lettre a monsieur Chauvet, in quanto il realismo non è amico di ciò che va ad appiattire la
complessità della realtà, la complessità delle dinamiche psicologiche, in queste personalità
“tagliate con l’accetta”). Quindi all’innaturalità barocca si sostituisce una nuova innaturalità,
che è quella della tipologia umana totalmente irrazionale, ci sono personaggi costantemente
deliranti, che non sanno controllarsi. Come lo storicismo determina l’ambientazione nel
medioevo, l’altra grande topos dell’anima romantica, il mito del popolo e della patria,
determinano una forte accentuazione patriottico del dramma. Nelle vicende che sono
trasposte in epoche lontane il pubblico vede riflessa la propria passione politica, che culmina
nel famoso acronimo “viva Verdi” (viva Vittorio Emanuele re d’Italia), ma avviene molto
tardivamente, durante la rappresentazione di un ballo in maschera,, dopo gli anni ’70. La
componente patriottica è un fatto oggettivo, e che infiamma gli animi riguardo a una vicenda
politica contemporanea, ovvero l’Italia sottoposta alla dominazione austriaca. Per esempio,
intorno ai moti del ‘30-’31, nell’opera di Bellini la Norma, l’inno guerriero dei Galli sottomessi
ai Romani, abbiamo un coro estremamente sentito, trasposto nell’attualità, oppure nella
cabaletta del duetto dei due capitani (finale dell’atto II dai Puritani), viene definita la
marsigliese italiana, perché la prima di quest’opera ha luogo a Parigi. Questo abbonda in
Verdi, dal coro del Nabucco (1842), oppure ne i Lombardi alla prima crociata (1843), coro del
IV atto, o nel Hernani, atto III, abbiamo una invocazione agli eroi. Una musica così retorica,
unita a importanti testi enfatici infiamma gli animi italiani. Mentre prima la componente
patriottica aiuta Verdi a creare più dramma, ci sono degli ostacoli, meccanismi drammatici
attivati dall’aspetto patriottico, quindi Verdi ancora non è un vero patriota, ma uomo di teatro,
che ha il polso del dramma, nei moti del ’48 partecipa spiritualmente e rimane deluso dal
fallimento (lui si trova a Parigi all’epoca), e con i mori matura il suo pensiero politico,
comincia a frequentare il salotto di Scipione Maffei, pervaso di idee mazziniane, qui gli viene
fatta la proposta dell’inno nazionale, fino ad arrivare alla “battaglia di Legnano” (1849), alla
cui prima Mazzini assiste insieme a Garibaldi, in una Roma del triunvirato, abbandonata dal
papa, e quest’opera, col coro dell’atto I, è stata definita il contributo più forte di Verdi alla
questione risorgimentale, all’insurrezione nazionale. Più tardi Verdi contribuirà comprando i
fucili per la seconda guerra d’indipendenza e sarà anche membro del primo parlamento
italiano. È inevitabile in questo contesto il finale drammatico/tragico, con la conseguente
glorificazione del binomio eros e thanatos. Per poter addolorare profondamente il pubblico il
teatro deve essere verosimile, in quanto lo spettatore deve poter immedesimarsi con la trama,
deve esserci il meccanismo di identificazione. Quindi bisogna abbandonare l’irrealtà del ruolo
di genere dei personaggi, nel romanticismo avremo uomini cantati da voci maschili e donne
con i corrispettivi registri femminili, anche qui con un po’ di schematismo, in quanto si
afferma una sorta di triangolarità, la coppia di amanti cantata da soprano e tenore, e al vertice
abbiamo l’antagonista con una voce maschile grave. Abbiamo un realismo nella recitazione,
abbiamo l’attore-cantante che si immedesima nelle emozioni del proprio personaggio
(avevamo già visto nell’attore shakespeariano David Garrick nel ‘700). Poi il realismo dei
personaggi, sebbene con caratterizzazioni totalmente esasperate e innaturali, le cui vicende
non hanno più ambientazione neoclassica, ma come esito dello storicismo, il gusto per la
storia, tipico del romanticismo, le vicende sono ambientate in un fosco medioevo, che a volte
si allarga al rinascimento (le due epoche sono a tratti omologate). Importante è che c’è un
forte influsso esercitato dallo scrittore francese Victor Hugo, che oltre ai vari romanzi scrive
anche drammi. Di rilevanza è la prefazione al suo Cromwell (1827), nella quale proclama i
capisaldi della drammaturgia della propria epoca, ovvero l’abbandono delle unità
aristoteliche, libertà di ispirazione, ma soprattutto la preminenza di una visione fantastica e
passionale della vita. Li mete in pratica nel suo primo dramma secondo tali dettami che è
Hernani (1830), della quale esiste l’opera di Verdi. Dal Cromwell e da Hernani gli storici fanno
partire il movimento romantico in Francia. Da Victor Hugo Verdi prende anche il soggetto di
Rigoletto (le roi s’amuse), la Lucrezia Borgia di Donizetti (ovviamente c’è sempre la
mediazione di un librettista, dobbiamo aspettare Debussy per la cosiddetta literatur-oper,
ovvero un’opera scritta direttamente sull’originale letterario, nel 1902, le uniche eccezioni
sono Wagner che scrive i propri libretti e Musorgsky che nel Boris Godunov scrive un testo in
prosa parafrasando l’originale di Puskin). Altri autori che prestano i loro soggetti al
melodramma sono Alexandre Dumas (la signora delle camelie => la traviata), Schiller (ben
quattro opere di Verdi, Giovanna d’Arco, i masnavieri, don Carlos e Luisa Miller), Byron (il
corsaro e i due foscari, sempre di Verdi) e Shakespeare, sempre gettonato dai romantici in
quanto primo sovvertitore delle regole drammaturgiche e dei soggetti, appartenente a
un’epoca ben lontana dalla loro, quella elisabettiana (Macbeth, Otello e Falstaff, sempre di
Verdi). Grazie alla sua musica questo spettacolo si pone come fortemente popolare, cambia il
concetto di musica nell’opera romantica italiana, non è più una vetrina di belle arie per bravi
cantanti, ma la musica diventa un mezzo per realizzare il dramma, il compositore diventa
dunque grande uomo di teatro, che ha in mano la sinergia di tutti i mezzi dello spettacolo,
anche quelli visivi (abbiamo bozzetti di Verdi dei movimenti dei personaggi delle sue opere).
Tale musica, per realizzare il dramma, dovrà creare una tensione, non dovrà mai fermare
l’azione, è lontana dalla staticità della musica del teatro del ‘700, ci devono essere colpi di
scena, invece il recitativo viene molto confinato, tutti i dialoghi che nel ‘700 si svolgevano nel
recitativo ora vengono riassorbiti nei pezzi chiusi, c’è un’abbondanza di duetti, lo scorrimento
dell’azione è garantito dall’opera a numeri, cliché vincente fornito da Rossini, dove delle
arcate sempre più lunghe si distendono, e questo aiuta il processo di identificazione, più
un’arcata drammaturgica e musicale è lunga, con la spinta verso la tensione drammatica, tanto
più lo spettatore starà dentro al meccanismo del dramma è si immedesimerà. È un linguaggio
musicale immediato, si basa su una frase melodica molto ampia e distesa, grazie al
meccanismo della ripetizione tendendo al culmine, con lo sfogo, intensa cantabilità che si
sposa con ritmi e accompagnamenti molto marcati, contrasti dinamici, tutti gli espedienti
enfatici codificati fin da Beethoven, poi in Francia, si ritrovano usati con insistenza nel
melodramma italiano. Il grande problema di quest’opera resta in ogni caso la discontinuità,
l’unico a doppiare l’opera a flusso continuo di Wagner è Verdi ma solo nell’ultima fase della
sua produzione, e con mezzi totalmente differenti. Importante per il teatro italiano è l’spetto
morale, ci troviamo in una società che reagisce al libertinismo del ‘700, dai forti valori morali,
forte controllo sulla donna, l’aspetto della castità e all’apice dei valori, l’eroina virtuosa spesso
viene messa davanti al bivio se offrire all’antagonista la propria purezza o se far morire
l’amato. È molto frequente questa questione, che tutto ruoti intorno al problema del darsi
della donna (pregiudizio morale che pervade l’800).
VINCENZO BELLINI (1801-1835)

È un compositore prodigio, riceve dal comune di Catania i mezzi per studiare a Napoli, dove è
allievo di Zingarelli, autore oggi ignoto ma molto importante all’epoca. Scrive poco, dieci
opere. Il pirata è il primo successo scaligero, da cui comincia la collaborazione col librettista
Felice Romani, e si trasferisce a Milano. Vive poi tra Londra e Parigi. I titoli più importanti
sono la tragedia lirica i Capuleti e i Montecchi, la tragedia lirica Norma, e il melodramma la
sonnambula (semiserio), e poi i puritani. L’esiguità dei suoi lavori non è dovuta alla brevità
della sua vita ma forse a un proposito consapevole, infatti scrive in una lettera del 1828 “di
essersi proposto di scrivere pochi spartiti, adoperandoci tutto l’ingegno, persuaso che il loro
successo dipenda dalla scelta di un tema interessante, da accenti di espressione calda e dal
contrasto delle passioni”, quindi pochi lavori fatti con grande elaborazione. Di espressione
calda Bellini è grande maestro, la melodia è il fulcro del suo dramma, è sempre accompagnata,
non sinfonica, ha una struttura regolare, simmetrica, e soprattutto sapiente nell’uso della
ripetizione che porta a un culmine (lui lo definisce crescendo lirico) emotivo, espressivo.

Norma:

- Viene rappresentata nel 1831 al teatro alla Scala. È una tragedia lirica, di
ambientazione neoclassica. Siamo in una vicenda dell’antica Roma, ci troviamo nella
Gallia sotto il dominio dei romani, ma il neoclassicismo è apparente, Bellini non sfrutta
per niente l’aspetto celtico, non crea un’ambientazione fatata, mistica (come era
successo nel romanticismo tedesco, i canti di Ossian ad esempio, i lavori di
Mendelssohn), invece questo contenitore storico possiede i due motori del dramma,
uno è l’elemento della patria oppressa, i Galli sono oppressi dai romani, nella figura del
proconsole Pollione, l’altro aspetto è un’importante trama d’amore che si complica,
poiché si mettono in essa elementi psicologicamente ardui da affrontare, che mettono
in mezzo al conflitto i propri sentimenti, e la ragion di stato, la ragione religiosa, il
sentimento materno e il sentimento di vendetta. Norma (soprano), protagonista, è una
sacerdotessa figlia del sommo sacerdote Oroveso (capo dei druidi), come le altre
sacerdotesse è tenuta alla verginità, fra le altre sacerdotesse troviamo Adalgisa (molto
più giovane). Scopriamo che Norma ha avuto una relazione proprio con Pollione
(tenore), quindi sta trattenendo l’ardore insurrezionale del proprio popolo perché
porta questo segreto (ha ben due figli), si trova in conflitto quindi non solo con l’amor
di patria ma anche con la morale religiosa imposta dal proprio culto. Il motore del
dramma è che Pollione, con la superficialità che connota il personaggio nell’opera, si è
innamorato di Adalgisa, e lei va a consigliarsi con Norma. Norma che riconosce i
sentimenti che lei stessa ha provato, subito la scioglie dai voti, ha grande comprensione
di lei, tranne che nel momento in cui lei rivela chi sia l’uomo (Pollione), che arriva in
scena nel mentre, si scatena l’ira di Norma, che passa da volto di donna che sa
controllare difficili situazioni politiche a quello che sa nascondere anche la propria vita
privata, che tiene tutto sotto controllo, diventa una donna che rivolge le proprie
passioni scatenate, ora contro i figli che pensa di uccidere (rivisitazione di Medea), poi
contro se stessa meditando il suicidio, contro la stessa Adalgisa pensando di
denunciarla, poi contro Pollione (nel mentre Adalgisa che scopre la verità rinuncia a
Pollione e cerca di convincerlo a tornare da Norma, fallendo), scatenando
l’insurrezione del popolo. Pollione viene portato in catene al suo cospetto, scoperto
nella sede delle vestali, e Norma fa allontanare tutti, c’è un ultimo confronto con lui, in
cui dà per certo che denuncerà Adalgisa, vengono riconvocati tutti, e lì c’è il colpo di
scena. Ingatti dopo aver detto che c’è una donna che ha violato i sacri vincoli e tutti
chiedono chi sia, lei si auto denuncia dicendo che è lei la donna, e questa rivisitazione
del mito di Medea evita il sentiero della vendetta, e lo capovolge in un senso di caritas,
di compassione, e succede che Pollione davanti a ciò, riconosce il suo amore per Norma
e insieme si dirigono davanti al rogo, non senza un commovente momento in cui
ricorda i suoi figli (la sua autodenuncia può essere le rovina per questi ultimi), e in un
momento straziante invoca il padre di prenderli sotto la propria ala, e di non farli
diventare degli schiavi di Roma.
Ascolto: ouverture, sinfonismo viennese, conosce grazie a Zingarelli Haydn e Mozart.
Ascolto: in mia mano dammi quel ferro, finale.

GAETANO DONIZETTI (1797-1848)

Manifesta un rande talento musical, ma non è di condizione abbienti e viene mandato a delle
lezioni in un centro che organizzava la cosiddette “lezioni caritatevoli di musica”, dove è
allievo di Johannes Simon Mayr, compositore di tardo classicismo tedesco che gli insegna il
sinfonismo. Poi studia a Bologna da padre Mattei, vivrà Napoli e Roma, poi a Parigi dal 1838 e
negli ultimi dieci anni di vita è l’autore più importante d’Italia (è appena morto Bellini). Scrive
circa 60 opere, fra cui opere comiche o semiserie, come l’elisir d’amore (1832) e don Pasquale
(1843) che è una vera e propria opera buffa. Come opere semiserie possiamo nominare la
favorita, l’opera comique la figlia del reggimento, è abbastanza poliedrico. Fra i drammi tragici
Anna Bolena (1830), Lucrezia Borgia (1833) e Lucia di Lammermoor (1835). La sua viene
chiamata la poetica della fretta, ha una scrittura molto sicura e veloce, padronanza del
mestiere, si autocita molto spesso, c’è una grande disinvoltura, utilizza parti in opere estranee
a quelle in cui quel momento musicale era nato. Non c’è alcun tipo di ricerca particolare, segue
il cliché formale segnato da Rossini segue il successo di pubblico.

Lucia di Lammermoor:

- Libretto di Slavatore Cammarano, soggetto di Walter Scott, autore di romanzi storici


inglese, dal romanzo The Bride of Lammermoor. È in tre atti. Abbiamo un fosco
antagonismo fra due feudatari, Enrico Ashton e il suo rivale (al quale aveva usurpato i
territori) Edgardo Ravenswood. L’intreccio nasce da Lucia, sorella di Enrico,
segretamente innamorata di Edgardo. Una soffiata svela a Enrico della relazione tra i
due. Dato che voleva utilizzare Lucia per rinsaldare le sorti della famiglia con un
matrimonio politico col lord Arturo Bucklaw, confeziona una lettera falsa da cui si
evince che Edgardo si è dato a un’altra donna, cosicché Lucia costretta da questa
circostanza firma il contratto di nozze col lord. Ritorna Edgardo, e abbiamo il sestetto
(chi mi frena in tal momento), in cui lui la maledice non sapendo che è stata raggirata e
le getta l’anello. L’opera termina con la festa di nozze per il matrimonio di Lucia, che
ricompare dopo che si è ritirata nelle proprie stanze col nuovo compagno rientrando in
scena insanguinata, in quanto ha appena ucciso il marito, e abbiamo la famosa aria
della follia in quanto quello che lei immagina sono le nozze con Edgardo. È un’aria di
agilità, di coloratura, non motivata dallo sfoggio virtuosistico, ma funzionale alla
necessità di esprimere la follia del personaggio. L’epilogo è totalmente drammatico
perché presso la tomba dei Ravenswood, dove Edgardo si reca per battersi in duello
con Enrico, viene colto dal corteo funebre di Lucia e preso dalla disperazione si
pugnala. È il prototipo di vicenda melodrammatica.
Ascolto: duetto Lucia Edgardo
Ascolto: sestetto
Ascolto: scena della pazzia

GIUSEPPE VERDI (1813-1901)

Nato nel 1813 nella frazione Roncole del paese di Busseto, in provincia di Parma. Siamo a in
una situazione marginalizzata, è di famiglia umile, figlio del proprietario di una stazione di
posta, ovvero una locanda dove i viaggiatori potevano fermarsi per far riposare i cavalli e
riposare a loro volta. Il talento del ragazzino vien notato dal parroco del paese, e comincia un
lento processo per cercare di fargli studiare musica, in particolare viene preso sotto la
protezione di un commerciante di Busseto, Antonio Barezzi, che sarà anche il suo primo
suocero. All’interno del suo apprendistato si colloca la domanda di ammissione al
conservatorio di Milano, che però viene respinto, in quanto lui si presenta come pianista,
avendo dei difetti di impostazione. Rimane a studiare a Milano col maestro corripetitore del
teatro alla Scala, e questo garantisce a formarlo come uomo di teatro, gli dà consapevolezza
dei mezzi e di come vadano usati in un teatro da tutti i punti di vista, compresa la dinamica di
rapporto col pubblico, infatti ha un intuito teatrale straordinario. Cambia il sistema produttivo
legato all’opera, abbiamo il monopolio di Ricordi, che ha dei suoi impresari ma non è più
l’impresario a occuparsi delle rappresentazioni teatrali ma la casa Ricordi che gestisce anche
tutto il noleggio di partiture, tutti i diritti d’autore. La Scala è il luogo a cui tutti gli esordienti
puntano. La prima opera di Verdi è Oberto conte di san Bonifacio, che registra un discreto
successo, nel 1839, a cui segue un’opera sfortunata, “un giorno di regno”, che è una delle due
uniche opere comiche di Verdi, insieme all’ultima sua opera che è il Falstaff. Questo porta
Verdi ha una grave crisi depressiva, anche in relazione al fatto che tra il ‘40 e il ’41 muoiono la
moglie e due figli, che quasi lo porta a lasciare la musica. Caso vuole che uno degli impresari
che ruotava intorno alla Scala, Bartolomeo Merelli, gli mette sul tavolo un libretto del
Nabucodonosor, a cui Verdi si appassiona, e ne scrive il suo Nabucco nel 1842, suo primo
grande successo, probabilmente anche di questa identificazione del popolo soppresso segna
l’inizio della carriera folgorante di verdi. Seguono a questo trionfo gli anni di galera, un modo
figurato con cui egli descrive anni di grandissimo lavoro, cercando di affermarsi. In questi anni
(1844 fino alla cosddetta trilogia popolare 1851-53), abbiamo tantissime opere, molte con
riferimento patriottico spostato nel tempo e nello spazio. In questa temperie con i moti del
‘30-‘31 e del ‘48 contro l’impero austroungarico, la componente patriottica è molto presente,
specialmente in Verdi, in cui non è presente inizialmente consapevolmente abbracciata, ma
solo come espediente drammaturgico, lo aiuta a potenziare la forza del dramma. Nel corso del
tempo abbiamo una reale presa di coscienza politica che si incarna nell’azione reale di Verdi
(dopo il ‘48), che lo porta a sponsorizzare la seconda guerra d’indipendenza e che lo porta a
essere membro del primo parlamento italiano (1859, un ballo in maschera, nasce l’acronimo
viva verdi). Le opere degli anni di galera sono pervase dal senso collettivo e patriottico,
abbiamo Hernani (Hugo, con Francesco Maria Piave librettista, 1844), i lombardi alla prima
crociata, Attila, la battaglia di Legnano (libretto di Salvatore Cammarano), poi abbiamo opere
che si discostano dall’aspetto patriottico come i due Foscari, Giovanna d’Arco, il corsaro, Luisa
Miller, Stiffelio. All’interno di questa serie c’è Macbeth (1847), prima opera in cui si misura
con Shakespeare. La crisi del ’48 rallenta la sua produzione. La trilogia popolare non è
collegata in modo contenutistico, non presentano un filo rosso comune (come era stato per la
tetralogia wagneriana invece), infatti sarebbe più corretto definirsi a esse come “triade”, ma è
definita trilogia popolare per l’enorme successo e la messa a punto in esse di una vera e
propria drammaturgia popolare, che senza rinunciare alla complessità, alla profondità dei
personaggi, il congegno che Verdi mette in opera è di immediata ed estrema presa sul
pubblico. Queste opere sono popolari, nel senso dell’immediatezza, arrivano al pubblico.
fanno parte della trilogia popolare: Rigoletto, Venezia 1851, tratto da le roi s’amuse di Victor
Hugo; il trovatore, Roma 1853, da un dramma spagnolo del ‘600; la traviata, Venezia 1853, da
la signora delle camelie di Alexandre Dumas figlio, che ci porta nella contemporaneità (a
differenza della ricerca della storicità nelle altre opere), e che tratta un tema scabroso per
l’epoca (la protagonista è una prostituta dell’alta società). Nel ’47 si unisce con Giuseppina
Strepponi (cantante, protagonista femminile del Nabucco), un’unione chiacchierata in quanto
lei è già sposata e con un figlio, nel frattempo lui ha acquistato una tenuta a sant’Agata, grazie
ai proventi dei diritti d’autore. Avrà una terza compagna, Teresa Stolz (cantante anche lei).
Dopo i moti del ’48, falliti, entra in crisi, e questo si riflette anche in una diversa concezione dei
personaggi e del popolo all’interno delle sue trame. Negli anni successivi abbiamo un
rallentamento nella sua produzione. Negli anni ’50 scrive i vespri siciliani, che nasce come
grand-opéra, infatti il titolo è in francese (les vepres siciliennes), poi abbiamo Simon
Boccanegra e poi un ballo in maschera, l’ultima in particolare comincia ad essere molto
avanzata per quanto riguarda la concezione personale e soggettiva della forma, che gli
studiosi fanno partire addirittura dall’ultimo atto del trovatore, cioè nell’ultimo atto di
quest’opera riscontrano una grande tendenza all’allungamento dei numeri in vista del
raggiungimento finale di Verdi nel flusso musicale continuo (con meccanismi diversi da quelli
di Wagner), che si realizza nell’Otello (in particolare nell’atto IV). Nel prosieguo degli anni ’50
abbiamo pochi drammi, ancor di meno negli anni ’60, considerando che fra il 1859 (ballo in
maschera) e il 1887 (Otello) abbiamo soltanto tre opere, che sono: la forza del destino (San
Pietroburgo), don Carlos (grand-opéra, Parigi) e Aida (il Cairo, 1871, poiché commissionata
per le celebrazioni dell’apertura dell’istmo di Suez). Fra il ’60 e l’83 c’è un fatto che turba
molto Verdi, la disputa fra verdiani e wagneriani. Dieci anni dopo rispetto a Parigi, nel ’70-’71,
vengono rappresentati a Bologna Lohengrin e Tannheuser, portando a una campagna di
denigrazione di Verdi e di entusiasmo per Wagner, anche in Italia nasce una corrente di
imitazione che trova in Arrigo Boito un esponente di grande spicco, scrive infatti un
lunghissimo dramma, Mefistofele, tratto dal Faust di Goethe. Boito era un membro di spicco
della scapigliatura milanese, gruppo di spicco in qualche modo corrispondente ai poeti
maledetti francesi. Questo gruppo prese parte per Wagner, e l’aneddotica parla di un brindisi
in cui Boito brindò contro il vecchio e il cretino nella musica italiana, alludendo a Verdi, a cui
viene riferita questa cosa e risponde in modo maldestro (“torniamo alla tradizione e sarà un
progresso”). Ovviamente, in un’epoca dove si ha il bisogno di cambiamenti e stravolgimenti,
non ci fu mai frase più infelice, condannando Verdi a rappresentare una corrente passatista.
C’è un paradosso per cui Arrigo Boito, suo detrattore negli anni ’70, diventa l’unico grande
collaboratore nelle sue ultime opere, gli firma sia Otello (1887) sia Falstaff (1893), entrambe
da Shakespeare con libretto appunto di Boito, oltre a un rifacimento del Simon Boccanegra. Fu
l’unico librettista che Verdi non taglieggiò.

Tecnica compositiva di Verdi:

- Verdi era detto infatti l’Attila dei librettisti, Verdi scriveva le posizioni, cioè gli snodi
drammatici, e faceva una scaletta essenziale, lo scheletro assoluto degli snodi che
muovono l’intreccio, e lui queste le chiamava posizioni, poi faceva la “selva”, cioè una
scaletta più dettagliata, con una successione più minuziosa degli eventi, dopo una sua
stesura in prosa del testo che consegnava al librettista, che doveva secondo la
convenzione dell’epoca tradurre un soggetto, che in questo caso era già stato lavorato e
sezionato da Verdi, in versi (ancora non esiste la literature-oper, che comincia col
Pelleas et Melisandre di Debussy). Quando Verdi riceveva il prodotto finito, interveniva
pesantemente sul libretto, facendo tagli, cambiando la versificazione, a sfavore della
concentrazione e a detrimento di questa eufonia, musicalità del verso in sé, come si
legge in una lettera a Ghislanzoni (altro librettista) del 1870, in cui si pone al di sopra
del lavoro svolto dal librettista qualora la musica abbia necessità di modifiche al testo.
Una volta completato il testo scrive l’abbozzo (probabilmente già iniziato durante la
stesura in prosa del libretto), uno schizzo musicale dell’intera opera che corrisponde
alla selva, cioè comprende la linea melodica di tutta l’opera, insieme agli snodi delle
tonalità, che egli usa come segnale, cioè c’è un uso della tonalità a mo’ di musica
ricorrente, ci sono dei ritorni tonali che lui pensa proprio perché ha questa visione
scheletrica della partitura, per cui ha una visione chiara degli snodi drammatici, in cui
viene posizionata una tonalità significativa, sul piano simbolico fra armonia e azione, e
questa pianificazione dell’armonia la chiama “tinta musicale”, che comprende anche
altri temi ricorrenti, anche melodici, (ma senza essere leit-motive, sebbene con un
significato, ma senza valore strutturale), e in alcuni punti annota anche il colore
orchestrale. Soltanto dopo questo primo abbozzo abbiamo finalmente la partitura.
Evidentemente la continuità del discorso musicale è proprio un raggiungimento quasi
indipendente dalla musica, che parte dal fatto drammatica, lui vuole un dramma
efficace, prima ancora che la musica. Tra i vari espedienti usati da Verdi per creare un
buon dramma abbiamo innanzitutto l’inizio in medias res, cioè senza antefatti (in
precedenza si aveva quasi sempre un coro iniziale che fungevano da prologo, che ci
facevano capire le situazioni di contesto), mentre con Verdi siamo già catapultati nel
vivo della trama. La strutturazione della trama è quasi a treccia, nel senso che c’è
un’azione che deve evolvere, prima ancora che quella azione abbia sfogato, si sia
conclusa, ne comincia un’altra, non c’è un momento di stasi. Per creare con
quest’incastro l’unità dell’atto Verdi segue tre principi: 1) il principio di integrazione,
con cui Gilles de Van (storico musicale che ha scritto una monografia di Verdi)
identifica la concatenazione fra i pezzi; 2) il principio di varietà, quindi nella
concatenazione dei pezzi si avvale dell’antichissimo principio del contrasto, deve
esserci diversificazione musicale, per creare la varietas contro il tedium; 3) e poi il
principio dell’incremento, che anche nel concatenare le forme tradizionale è tale,
incremento anche del numero dei personaggi, dell’impatto scenico, della pluralità di
drammi che si stanno svolgendo sulla scena (quartetto atto III Rigoletto), c’è un climax
partecipativo, a cui si appoggia una musica molto efficace. In questa maniera anche
l’uso delle forme tradizionali da parte di Verdi (forme chiuse) viene nascosta dalla
continuità musicale, queste forme vengono trattate in modo tale da creare degli atti
molto ampi e coesi. Verdi darà anche delle istruzioni della regia, soprattutto nelle scene
di gruppo.

Estetica di Verdi:

- Gilles de Van ha diviso la poetica di Verdi in due fasi: lui parla di “estetica del
melodramma” prima della trilogia popolare (prima del ‘51) e poi di “estetica del
dramma” (dal ’51) anche se il trovatore in questo senso è un po’ un passo indietro,
intendendo con melodramma quell’intreccio le cui premesse tragiche si svolgono quasi
meccanicamente con personaggi che sono contrapposti per posizione, prescindendo da
un’analisi psicologica che accade a loro. Nella prima fase abbiamo un forte ottimismo
storico, che si traduce in un forte ottimismo dei personaggi, i personaggi hanno una
grande energia interiore, una grande fiducia nelle proprie possibilità. Sebbene il finale
sia sempre tragico, è una “bella morte” quella del protagonista, la fine del singolo in
realtà è la vittoria dell’idea (ex morte di Egmont, morte eroica tipica del romanticismo
tedesco, Beethoven), e questo è molto forte per un personaggio, che va in petto aperto
contro la morte, poiché il suo sacrificio redime se stesso e la sua causa. In questa prima
fase il popolo è visto come un’identità unitaria consapevole, e questo nutre i cori
verdiani, questo senso del popolo come forza, e in questa prima fase che coincide con
gli anni di galera (‘44-‘51), dove abbiamo opere molto corali, abbiamo molto presente il
prototipo storico del grand-opéra francese, anche in quelli che non sono formalmente
grand-opéra, abbiamo dunque spesso un po’ di sovraccarico dal punto di vista enfatico.
Nella seconda fase, dopo i moti fallimentari del 1848, all’ottimismo subentra invece il
pessimismo di Verdi, l’eroe, il protagonista soccombe, sono in certo senso votati alla
sconfitta, sconfitta che non è data dalla morte (anche prima il protagonista moriva, ma
era una morte che trovava riscatto), ma perché il personaggio perde il senso della
propria vita, la loro vicenda perde senso, il loro sacrificio si smarrisce nell’infinita
variabilità degli eventi umani, e c’è un forte peso psicologico. Il personaggio può fare
diverse scelte, la variabilità, la volatilità degli eventi, di una storia che segue dei nessi di
causa ed effetto ma che all’ultimo, una qualunque estemporanea decisione può
cambiare questa catena apparentemente solida di causa e di effetti. Verdi in questo
secondo periodo si avvicina un po’ a questa visione, i personaggi potrebbero prendere
una strada diversa, e la strada che prendono verso la fine è sempre dovuto a un
imponderabile, è un problema imponderabile che porta Gilda a farsi uccidere, è un
problema psicologico, analizzato già da Shakespeare ma ancora più da Verdi nella sua
musica, quello che porta Otello a identificarsi nell’interpretazione del tradimento di
Desdemona, dove tutti i dettagli gli confermano una propria convinzione, la morte di
Otello è senza scampo, è senza rimedio, senza senso. È un Verdi molto più pensoso, che
valuta molto di più le sfaccettature psicologiche e che le esprime con una musica
ancora più duttile, più raffinata di quella del primo periodo. Perde senso anche il
popolo, che diventa una folla amorfa (un po’ come Musorgskij). Sotto l’aspetto
musicale, nel primo periodo abbiamo una grande espressività, abbiamo il genio
dell’invenzione melodica (cosa che Verdi manterrà sempre), ma abbiamo delle arcate
melodiche molto potenti, che hanno un forte impulso cinetico, che è dato anche da una
particolare ritmica, Verdi è il signore degli accompagnamenti marcati, impetuosi e
travolgenti, che vengono presi anche in giro dai suoi detrattori, un ritmo anche se
vogliamo ingenuo, adatto a galvanizzare l’ascoltatore. L’armonia è semplice, chiara,
senza particolari raffinatezze, dalla semplicità dei mezzi, un’orchestrazione ben fatta
ma anche questa senza ricerche di tavolozza particolare, e un uso delle forme così
come Rossini le aveva codificate e passate ai melodrammatisti. Tutto questo insieme di
cose porta evidentemente al genio melodico ad essere estremamente in evidenza, la
semplpicità degli altri mezzi va a potenziare la grande bellezza, la grande espressività,
il grande slancio delle melodie, facendo sì che il pubblico, anche attraverso degli
stereotipi, dei formulari di situazioni musicali abbastanza codificati, riconoscibili,
facendo sì che il pubblico identifichi immediatamente un certo sentimento, una certa
emozione, un certo movimento della musica e della situazione. Nella seconda estetica,
del dramma, questa grande bellezza melodica è sempre meno quadrata, la fraseologia è
sempre pii irregolare, ma anche perché diventa raffinata l’armonia, non ci sono più
funzioni armoniche abbastanza standard, ecco che anche Verdi entra in questa ricerca
di raffinatezza armonica, che si coniuga con la raffinatezza timbrica, con l’uso del
recitativo sinfonico, del declamato in forma libera, semplicissimo, delle volte
estremamente semplice, supportato da una melodia sinfonica particolarmente intensa,
si sposta dalla vocalità all’orchestra una parte del suo genio melodico. Quindi la fusione
di una ricerca armonica con una ricerca nell’orchestrazione, con una fraseologia
irregolare, ma con un uso sempre più personale delle forme codificate, che lo porta
addirittura, nell’atto IV nell’Otello, a sperimentare un atto completamente basato sul
recitativo sinfonico, potente, scritto secondo questo meccanismo, cioè mantenendo la
forma aperta del recitativo, e quindi la continuità, ma elevandolo alla sfera espressiva
del pezzo chiuso, cioè scrivendo questo momento di musica in forma aperta come se
fosse una forma chiusa, con le rispettive movenze ed emotività. Questo recitativo è
spesso semplicissimo, magari basandosi su una stessa nota ribattuta, altre volte
l’orchestrazione cupa, che sprofonda (celebre solo dei contrabbassi nell’Otello) negli
abissi del dramma psicologico dell’uomo geloso, e contro essa c’è un tessuto cristallino,
purissimo, su registri acuti, dove anche gli strumenti gravi sono portati sul registro
acuto, ad esprimere la purezza di Desdemona che prega prima di essere poi soffocata
da Otello, c’è una millimetrica capacità di esprimere la profondità della trama
attraverso i mezzi musicali. Attraverso questo flusso continuo spicca una forma chiusa,
ma questa forma chiusa, che è “la canzone del salice”, è tale perché ha funzione
diegetica, che Desdemona personaggio canta ricordano un’ancella, di nome Barbara. È
strofica, come era strofica la ballata narrativa del monaco in Musorgskij. Questa non è
una canzone popolare, è Verdi a comporla, ma è un pezzo chiuso proprio perché ha
funzione realistica. Questa canzone in mezzo al flusso continuo spicca molto,
dimostrando anche un sapiente uso della varietà.

Rigoletto:

- Dal dramma le roi s’amuse di Victor Hugo, libretto di Francesco Maria Piave, 1851.
Siamo presso la corte di un duca di Mantova (nell’originale di Victor Hugo aveva creato
scandalo in quanto era di contenuto antimonarchico, era ambientata alla corte del re),
quindi un Gonzaga, siamo nel ‘500. Questo duca era un don Giovanni, che ha un buffone
di corte, Rigoletto, la sedotta è proprio la figlia di quest’ultimo. Rigoletto, per
vendicarsi, si rivolge a un sicario perché uccida il duca di Mantova. Questo sicario,
Sparafucile, che lavora con la sorella Maddalena, attira di volta in volta la vittima in una
loro locanda, dove la sorella lo seduce, e quando s’è addormentato nel sonno lo
uccidono. Rigoletto però vuole di persona prendere il sacco col corpo e portarlo nel
fiume. L’opera inizia in medias res, siamo in una festa data dal duca, durante la festa
inizia la trama del duca, perché parla con un comprimario (un cortigiano), e dice con
una cavatina “questo quello per me pari sono”, una cavatina tipicamente
dongiovannesca, inoltre corteggia in tempo reale una invitata nobile, la contessa di
Ceprano, presente alla festa, dice allo stesso cortigiano che “vuole arrivare al fin
dell’avventura con quella giovane incognita borghese” che vede la domenica in chiesa
(la figlia di Rigoletto). Mentre ci viene mostrato il duca, ci viene esposta un’altra trama,
che è quella dei cortigiani, che sono un gruppo di persone malvage, pettegole, ma è
molto cattivo anche Rigoletto, il cui sarcasmo può ferire molto, la sua non è una
buffoneria morbida, ma impietosa, dura. Allora i cortigiani hanno il dente avvelenato, e
uno di loro dice che Rigoletto ha un’amante, e tutti ridono, sghignazzano e subito
progettano di portarla al duca. Poi inizia la trama di Rigoletto, entra un uomo nobile,
che ha avuto la figlia rapita e sedotta, e viene a chiedere conto al duca, Rigoletto lo
apostrofa con estremo sarcasmo, prendendolo in giro perché viene a riscattare l’onore
di sua figlia. Qui abbiamo uno snodo importante, cioè che quest’uomo lo maledice, e
Rigoletto rimane folgorato. Il tema della maledizione lo ritroveremo in tutta l’opera.
Quando Rigoletto si allontana dalla festa riflette fra sé e sé. Ed è lì che lo avvicina il
sicario. Inoltre veniamo a sapere che non è l’amante la donna di cui Rigoletto è geloso
ma la figlia. Abbiamo un bellissimo duetto fra i due, e dal dialogo apprendiamo che la
madre lo aveva amato per pietà ed era morta, ma gli aveva lasciato questo angelo, che
era sua figlia. Non è ancora finita questa scena che vediamo occhieggiare il duca, e
allora lì capiamo che la ragazza era sempre la stessa. Rigoletto esce raccomandando la
governante di chiudere bene a chiave la ragazza, e di non aprire a nessuno, men che
meno al duca. Gilda confida alla governante, Giovanna, i suoi rimorsi, ovvero ha taciuto
il fatto che ogni domenica vede in chiesa un giovane. Il duca è pronto a saltare nel
giardino e a corrompere Giovanna, e dato che Gilda ha detto che lo avrebbe voluto
studente e povero, con fare camaleontico, tale si dichiara, dicendo di chiamarsi Gualtier
Maldè. Non fa il tempo il duca saltar fuori dalla recinzione che si vedono per strada i
cortigiani intenzionati a rapire Gilda. In tutto questo, una volta che Gilda viene rapita, e
Rigoletto si confronta con i cortigiani, lì c’è un momento mirabile di umanità dell’uomo,
che non è capace solo di malignità e sarcasmo, non è il cattivo della vicenda, ma è un
padre affettuoso, protettivo nei confronti della figlia, che chiede pietà ai cortigiani, di
ridargli la figlia, e questo suo lato umano va a compensare quanto visto in precedenza
del suo carattere. Non è più un personaggio melodrammatico, che è tutto cattivo o è
tutto buono. Nell’ultimo atto Rigoletto ha contattato Sparafucile per uccidere il duca,
però ha fatto un errore; Gilda ama troppo il duca, nonostante sia stata ingannata e
sedotta, e allora Rigoletto porta la figlia a vedere come il duca si comporta, prevedendo
che si metta a corteggiare Maddalena (sorella di Sparafucile), e poi aggiunge alla figlia
di andare via. Lei non va via, mentre Rigoletto prende gli ultimi accordi col sicario, e
ascolta la conversazione, in questa scena che è spaccata (spesso nelle scene d’opera ci
sono degli interni senza parete, per cui vediamo sia l’interno che l’esterno). Quando il
padre va via Gilda, che aveva assistito alla scena della seduzione, vede Maddalena che
ha soggiaciuto a sua volta al fascino del duca, e chiede al fratello di risparmiarlo. Il
fratello non vuole tradire il suo cliente, ma col sopraggiungere di una tempesta il
fratello accondiscende, e dice che se qualcuno busserà chiedendo riparo uccideranno
lui al posto del duca, e ovviamente Gilda bussa sapendo che verrà uccisa, offrendo la
sua vita perché il duca venga risparmiato. Quando Rigoletto torna e prende il sacco, si
sente echeggiare dal duca nel sonno l’inizio di una canzonetta che lui aveva già cantato
(la donna è mobile), allora Rigoletto capisce che il duca è ancora vivo, apre il sacco e
trova la figlia che gli rivolge le ultime parole e spira, e lì la maledizione si è compiuta.
Ascolto: quartetto dell’atto IV, numero elaborato nella dialogicità, nel riassumerla in
questi lunghi archi musicali, che è in sostanza un doppio duetto, uno tra il duca e
Maddalena dentro, mentre fuori abbiamo Rigoletto ne sua figlia. Ognuno dei quattro
personaggi conduce una propria linea melodica che rispecchia la situazione psicologica
in cui si trova. Si interrompe la logica tipica del duetto dove uno dei due personaggi
inizia una melodia e l’altro riprende la stessa melodia tale e quale. Sono quattro
situazioni diversissime: il duca che corteggia, con un carattere incalzante e languido,
seguendo l’elemento formale del duetto (allegro, adagio cantabile, allegro), Maddalena
ride, Gilda si lamenta e il padre pieno di furia vendicativa, quindi ognuno segue la
propria logica musicale, con un’oscillazione continua (partitura).
Ascolto: inizio (festa a corte).

Otello:

- In quattro atti, rappresentato alla Scala nel 1887, su libretto di Boito. Abbiamo un
doppio dramma della gelosia, Otello è il governatore di Cipro per la serenissima, è un
generale, moro. Il primo dramma della gelosia è quello che si suscita in Iago, un suo
luogotenente, che è geloso del fatto che Otello abbia insignito Cassio del grado di
capitano, e la sua indole avversiva è ben rappresentata sia in Shakespeare che in Verdi,
in questo baritono. Iago fa ubriacare Cassio, ne nasce una rissa e lo fa degradare, ma
non gli basta questo, la sua gelosia si rivolge, non placata, direttamente contro Otello,
per interposta persona, con estrema malvagità, coinvolgendo Desdemona, e facendo
convincere Otello che Desdemona ha una relazione con Cassio, anche perché fa
chiedere a Cassio, di cui si finge amico, di chiedere a Desdemona di intercedere per li
per riavere il grado di capitano. Ecco che la gelosia di Iago va a suscitare e utilizzare la
gelosia di Otello, sposato con Desdemona. Nel primo atto c’è un duetto con la frase
culminante che egli canta “un bacio un bacio ancora”, e questa frase la ritroveremo
nell’atto dell’uccisione, sia quando la guarda dormire prima di soffocarla, sia quando
contempla il suo corpo esanime, proprio una delle ultime battute dell’opera, sulla
nudità di questo recitativo, è lo sparare della frase lirica “un bacio un bacio ancora”.
Nell’ultimo atto ci troviamo con Desdemona che viene aiutata da Emilia, la sua dama di
compagnia, a prepararsi per la notte.

VERISMO ITALIANO

Nel 1890 abbiamo una prima trionfale che è quella di “la cavalleria rusticana” di Pietro
Mascagni, che basa il suo soggetto su una novella di Verga, ed è un grandissimo successo. A
quest’opera segue “i pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, del 1892, con soggetto un fatto di
cronaca realmente accaduto. La critica si affretta a parlare di una “giovine scuola italiana”, con
la speranza di uscire con una nuova tendenza fuori della cerchia dei due opposti (Verdi o
Wagner, ma solo imitandoli, senza partire da loro per una propria evoluzione personale). Il
Wagnerismo era rappresentato dagli scapigliati milanesi, col Mefistofele di Boito. Si parla di
teatro verista poiché abbiamo un riferimento alla realtà contadina meridionale, e quindi alla
corrente letteraria del verismo, che era il riflesso del naturalismo francese di Emile Zola.
Secondo i principi del naturalismo, l’oggetto dell’analisi di un’opera letteraria doveva essere la
realtà della vita quotidiana delle classi umili delle zone arretrate, con lo scopo di offrire una
specie di fotografi a si una situazione sociologicamente segnata in questo caso dalla questione
meridionale, facendolo da una posizione neutrale da parte del narratore (non col narratore
manzoniano, che ha una sua opinione sui fatti, che sta nella mente dei personaggi), ma da un
narratore esterno, che non enfatizza, con uno sguardo scientifico (o presunto), e che fa parlare
la scena attraverso il cosiddetto discorso indiretto libero, un discorso in presa diretta che ben
rappresenti la lingua parlata anche con degli inserti dialettali. Quindi è un’istanza di realismo.
Parlando della posizione di Manzoni e Verdi in merito al realismo, sappiamo che è molto
difficile per il teatro musicale essere realista, che in particolare si nutre di quel potenziamento
delle emozioni, di quella enfatizzazione delle emozioni del conflitto drammatico, che è
contrario al senso della realtà oggettivamente osservata, e in una certa misura questo avviene
anche nell’opera verista, cioè non segna una frattura col passato melodrammatico da questo
punto di vista, anzi è un’opera particolarmente drammatica in cui si mettono a confronto delle
passioni elementari, sempre identificando la sfera contadina del popolo profondo con
qualcosa di viscerale dal punto di vista delle emozioni, e per esprimere queste passioni forti
dirompenti, per dare il senso della visceralità viene scelto l’atto unico come unità
drammaturgica, che permetta appunto di tenere continuamente teso l’elastico della tensione.
Il prodotto che nasce sulla scena operistica non è conforme alle premesse concettuali del
verismo, è un prodotto nel quale rimane sostanzialmente l’ambientazione, il colore
d’ambiente, che spesso si riflette in pezzi chiusi “esotici”, che vogliono ricreare questo quadro
d’ambiente, ne la cavalleria rusticana troviamo ad esempio un coro di contadini il cui incipit è
“gli aranci olezzano”, poi un brindisi “viva il vino spumeggiante”, poi l’aria di sortita di uno dei
personaggi, Alfio, “il cavallo scalpita”, sono tutti inserti che hanno funzione diegetica (un po’
meno quella di Alfio), e sono dei momenti che hanno lo scopo di creare questo ambiente.
Anche la vocalità dell’opera verista è ben adeguata a questo scenario di passioni elementari, è
una vocalità che spinge ancora di più la vocalità di potenza nel melodramma, è una vocalità
prorompente, sfogata, non tutti i cantanti infatti hanno una voce adatta al verismo, che spesso
ha dei bruschi salti di registro fra il grave e l’acuto, che spesso va verso il gridato o verso il
parlato, una vocalità molto veemente, drammatica, poco neutra. Queste forme chiuse però si
calano in un declamato arioso molto bello, molto espressivo, che raccoglie l’eredità verdiana.

La cavalleria rusticana:

- Abbiamo un dramma di gelosia anche qui, nella premessa c’è l’amore fra compare
Turiddu e Lola, ma compare Turiddu è partito come soldato e nel frattempo Lola si è
sposata con Alfio. L’opera comincia con una serenata, in dialetto siciliano, a scene
chiuse, dalla quale capiamo che questo amore non è finito, è una serenata che compare
Turiddu, tornato, rivolge proprio a Lola perché la ama ancora, e c’è una tresca fra di
loro, nonostante Lola sia sposata. Però Turiddu si è unito a Santuzza, altra ragazza del
paese, solo che essendo unito a lei senza matrimonio il suo è un amore peccaminoso,
lei ritiene di non poter neanche entrare in chiesa, tutto avviene nel giorno di Pasqua,
quindi il violento dramma matura in un’atmosfera di gioia e pacificazione della pasqua
di resurrezione, che è messa in sapiente contrasto, anche con i suoi cori sacri,
all’interno del momento culminante della vicenda. Il nodo dell’intreccio si determina
perché Santuzza, dopo un ultimo tentativo di richiamare Turiddu alla fedeltà verso di
lei, vedendo che non c’è speranza in quanto lui è innamorato di Lola, incontra Alfio e gli
racconta tutto. Chiaramente la vicenda degenera, crolla in un duello, con compare
Turiddu che viene ucciso da Alfio, con Turiddu che ha abbandonato quasi la voglia di
lottare, è sovrastato dagli eventi, e l’esito di questo duello lo sappiamo da una voce
fuori campo che grida, a chiusura dell’opera, “hanno ammazzato compare Turiddu”. C’è
un intermezzo orchestrale sinfonico, che rivela la maestria di Mascagni anche come
orchestratore.

Gli autori che sono stati messi nell’etichetta del verismo sono i più disparati: Franchetti, Cilea,
Giordano ma anche Puccini, che ha tutto fuorché una posizione di tipo realistico, è il massimo
esponente di una visione tragica della vita, scandagliata con una punta di coltello e creando
una profonda empatia nell’ascoltatore, facendo tesoro proprio dell’arioso lirico dell’ultimo
Verdi, ma anche accogliendo la tecnica del leit-motive wagneriano, Puccini rappresenta una
punta di estrema originalità venendo da questi due autori che si ritrovano ad avere la
funzione di un freno inibitore per nuove esperienze. Giacomo Puccini vive dal 1858 al 1924,
lasciando incompiuta la sua ultima opera, Turandot, e ci sono nella sua produzione dei
cedimenti al colore d’ambiente, per esempio nella stessa Turandot, ambientata in Cina, c’è
tanto colore d’ambiente orientaleggiante, in madama Butterfly anche ambientata in estremo
oriente, nella fanciulla del west. Però ci sono opere che non hanno nulla a che fare con la
scuola verista, come la Boheme, Tosca, Manon Lescaut. Questa etichetta ha dunque riunito
figure molto eterogenee e può essere utilizzata solo in alcune opere come quelle che si
riferiscono direttamente all’ambientazione verista.

Potrebbero piacerti anche