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Capitolo 4
Arcangelo Corelli
Originario della Romagna, studiò a Bologna poi si spostò a Roma nel 1671, dove intraprese
una carriera divisa fra impegni privati presso i mecenati che lo ebbero al proprio servizio, e
impegni pubblici in veste di primo responsabile della cornice musicale religiosa di Roma.
Corelli giunse a diventare il musicista più rappresentativo della musica strumentale
italiana, si impose in tutta Europa come modello di stile e di tecnica esecutiva; fu inoltre il
primo strumentista a vedersi riconosciuto, assieme ai compositori Alessandro Scarlatti e
Bernardo Pasquini, un livello intellettuale degno dell’ingresso in Arcadia.
L’ascesa della fama di Corelli ha inizio nel 1681, con la pubblicazione presso Girolamo
Mutii della sua opera I, le dodici Sonate a tre. Solitamente si annoverano le composizioni
incluse nelle opere corelliane di numero dispari al genere della sonata da chiesa e di
numero pari al genere della sonata da camera. Le sonate da chiesa presentano movimenti
“astratti” con denominazione solo agogica (Grave, Allegro, Adagio, Allegro) mentre le
sonate da camera sono costituite da movimenti identificati da nomi di danze, introdotti da un
preludio (Preludio, Allemanda, Corrente, Gavotta oppure Preludio, Corrente, Sarabanda,
Giga) e dalla struttura bipartita con cesura interna e ritornello, che invece nello stile da
chiesa non è presente.
Per Corelli, più che di sonate da chiesa e sonate da camera, è più corretto parlare di Sonate
nello stile “da chiesa” e “da camera”; queste opzioni discendono dalla teoria seicentesca
dello stylus ecclesiasticus, contrapposto allo stylus cubilaris (da cubiculum, camera).
In Corelli l’architettura delle sonate si fonda sul principio chiaroscurale della dialettica fra
tipi di composizioni contrastanti (lento-veloce, mesto-allegro, forte-piano). Ad esempio nelle
sonate nello stile “da chiesa”, il progetto formale corelliano si fa regolare con quattro
movimenti, di cui una sonata è costituita presentando una duplice successione lento-veloce,
mentre a livello macrostrutturale agisce l’opposizione binario-ternario.
Fra le numerose opere di Corelli ricordiamo anche l’opera V di sonate a violino solo e l’opera
VI di concerti grossi. la prima contiene dodici sonate, sei nello stile da chiesa e sei nello stile
da camera e fra queste troviamo la Sonata n.12, detta “Follia”, realizzata a partire da un
popolare tema di origine iberica.
Non si può dire che Corelli inventi qualcosa di nuovo; in molti casi egli mette più
efficacemente a frutto preesistenti risorse, trasformandole in elementi di linguaggio
importanti.
Antonio Vivaldi
Vivaldi ebbe una vicenda tormentata, insegnò violino alle “putte” dell’Ospedale della Pietà di
Venezia, tentò la strada del compositore d’opera, suscitò le ire dell’autorità religiosa, lui
prete, per una sconveniente convivenza con la cantante Annina Girò e morì povero a Vienna
dove si era recato sperando di ottenere l’appoggio dell’imperatore Carlo VI. La precarietà di
questo stato di cose non gli impedì di conseguire fama internazionale e di essere, alla fine,
più determinante di Corelli nel marcare di italianità lo strumentalismo europeo.
Vivaldi, nell’ambito della sonata per organico cameristico si pone sulla scia di Corelli, mentre
nell’ambito del concerto solistico sviluppa modelli adottati da Giuseppe Torelli: il concerto
vivaldiano è in soli tre movimenti, secondo la sequenza veloce lento veloce. In Vivaldi non
si è integrazione o interazione fra un concertino e un concerto grosso, bensì vi è un solista
che si staglia protagonisticamente sull’accompagnamento di un’orchestra relegata a un
ruolo più marginale e ripetitivo. Il concerto vivaldiano è scomponibile in sezioni distinte,
giustapposte secondo una logica che veda l’area tematica iniziale proposta in tutti
alternarsi a sezioni solistiche fra loro poco o nulla affini; l’incipit è quasi sempre anche
l’explicit del movimento e le riprese interne sono abbreviate.
Molti dei concerti composti da Vivaldi, presentano una struttura generale e strategia
compositiva analoga ma con dimensioni più ridotte e maggiore semplicità di articolazione
e invenzione delle sezioni interne. Vivaldi poté replicare infinite volte quel modello,che
garantiva facile smercio e incontrava il gusto del pubblico.
Diversi dei concerti di Vivaldi recano dei titoli descrittivi, a cominciare dai famosissimi
Concerti delle stagioni; titoli come Il Cardellino, La notte, La caccia, La tempesta di mare,
oltre ad avere un forte richiamo commerciale, mostravano che Vivaldi condivideva l’idea che
la musica potesse rappresentare realtà extra-musicale, associando fenomeni sonori a
fenomeni atmosferici e ambientali.
L’interesse e la passione per la musica vivaldiana non solo dei musicisti ma anche dei loro
nobili, trovano conferma nelle notizie relative all’entusiasmo provato per le esecuzioni di
Vivaldi dal re Federivo IV di Danimarca e dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo.
Capitolo 5
La messa polifonica è una forma musicale che comprende l’intonazione dell’insieme dei
cinque canti dell’Ordinarium Missae: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Essi
costituiscono la parte della liturgia eucaristica il cui testo rimane immutato durante l’anno
liturgico, a differenza del Proprium Missae, dove i testi dei vari canti cambiano volta per
volta.
Alla Messa polifonica si deve riconoscere una posizione singolare nella storia della musica,
poiché il suo testo, può essere considerato come il più musicato negli ultimi sette-otto secoli.
Nel corso del tempo la messa manterrà sempre la sua funzione liturgica, acquisendo anche
valenza artistica con Bach, Beethoven, Verdi, fino a divenire nell’Ottocento un’opera
musicale autonoma da eseguire nelle sale da concerto.
Nel Cinquecento, la messa fu palestra per l’esercizio e l’esibizione delle abilità compositive
possedute dagli autori: il risultato da perseguire era quello di un’opera dotata di intrinseca
unità musicale nonostante fosse costituita da cinque sezioni.
Palestrina compose oltre cento messe, con un corpus molto diversificato; ad esempio il suo
Missarum Liber Primus, contiene cinque composizioni a quattro voci l’una, l’ultima a
cinque; due messe poi sono basate su cantus firmus gregoriano. La tecnica di comporre su
cantus firmus preesistente ha origine antica, X- XI secolo, quando a un canto monodico si
iniziò ad aggiungere una nuova linea vocale (organum duplum e discantus).
Tre delle composizione del primo libro di messe di Palestrina invece sono costruite secondo
la tecnica dell’imitazione: in questo caso un intero brano polifonico preesistente viene
riutilzzato come base per comporre uno o più canti della messa. Questa tecnica conosce
ampio impiego proprio nel periodo in cui, in Italia, i concetti di imitazione trovano piena
espressione nel fenomeno letterario e sociale del petrarchismo.
Altra tecnica ancora è quella che prevede l’uso di un soggetto libero, il cui materiale
compositivo è del tutto originale, ne è un esempio la Missa Papae Marcelli.
Oltre alle messe, Da Palestrina compose quasi quattrocento brani in forma di mottetto e altre
centinaia di composizioni di carattere sacro.
Nonostante nell’età di Palestrina la musica sacra ufficiale sia quella polifonica, la forma di
canto più diffusa e utilizzata nel Cinquecento è il “canto gregoriano”, ovvero l’insieme di
preghiere, in latino, su melodie di origine medievale, cantate all’unisono; questo canto
liturgico, detto “cantus planus” è costituito da una singola linea melodica, le cui note (i
neumi) non hanno un valore determinato poiché il ritmo è determinato dal testo verbale.
Venezia: altro polo rilevantissimo per l’attività musicali in italia lo fu anche per la musica
sacra: l’istituzione musicale più importante della città fu la cappella ducale della basilica di
San Marco, inizialmente gestita da autorevoli maestri fiamminghi come Adrian Willaert e
Cipriano de Rore, passò poi in mano di italiani come Gioseffo Zarlino.
La polifonia che si sviluppò a Venezia faceva uso di formazioni a più cori combinati con
strumenti musicali, il cui impiego a Roma era generalmente vietato.
Dal 1613 fu maestro di cappella in San Marco uno dei musicisti più importanti della storia
musicale italiana: Claudio Monteverdi. Il compositore nelle messe utilizzava un linguaggio
polifonica composto, tipico dello stile osservato, seguendo le tracce dei maestri fiamminghi,
mentre per le altre composizioni esibiva tecniche proprie dello stile moderno, unendo gli
strumenti alle voci, creando passaggi di canto virtuosistico a voce sola.
La musica sacra che Monteverdi compose dal 1613 per Venezia si colloca nell’ambito dello
stile pieno o concertato, con qualche attenzione anche per la musica a cappella.
Oltre Monteverdi, ricordiamo Alessandro Grandi, che ebbe un ruolo rilevante nello sviluppo
del mottetto monodico, e Francesco Cavalli, allievo di Monteverdi, celebre per l’attività nel
teatro in musica.
Ma Venezia non è solo San Marco, oltre le chiese avevano un ruolo considerevole i quattro
ospedali della città, luoghi ove erano ospitate le “putte”, fanciulle orfane o provenienti da
famiglie povere, alle quali si insegnava la musica. Insegnò lì anche Antonio Vivaldi,
compositore di opere sia liturgiche che extraliturguche; lo stile dei suoi brani è connesso
all’organico vocale e strumentale: lo stile concertato, è adottato per le composizioni con
solisti, coro e orchestra; l’arioso o il recitativo sono invece presenti nelle composizioni con
una voce solista.
Napoli: nel Cinquecento Napoli conobbe un incremento delle attività musicali, a cominciare
dalla Reale Cappella di Palazzo, guidata da maestri di origine spagnola e fiamminga, poi nel
Seicento da musicisti italiani. Anche a Napoli ebbero un ruolo rilevante i quattro
conservatori, equivalenti degli ospedali veneziani, fondati tra il 1537 e il 1589.
Il maggior contributo all’affermazione del mito della scuola napoletana si deve a un non
napoletano: Giovanni Battista Pergolesi, che si dedicò alla produzione operistica e alla
musica sacra.
Nell'opera del Settecento la vocalità si profila come un sistema misto, costituito da voci
femminili (contralto e soprano), perlopiù per ruoli femminili e da voci maschili (basso e
tenore), assegnate ai ruoli maschili di personaggi autorevoli, attempati, crudeli o
semplicemente minori, e nel genere serio da voci di castrato.
In certi casi vennero assegnati pure ruoli femminili a travesti: è il caso dei palcoscenici
romani in cui non poterono esibirsi le donne.
Percorsi di compositori
Il teatro musicale in lingua italiana del Settecento, è da intendersi come un macrofenomeno
sviluppato da autori appartenenti a varie generazioni, in diverse fasi storiche,
contrassegnate da un proprio linguaggio drammatico.
La cornice temporale si estende grosso modo dalla generazione di Alessandro Scarlatti
(1660-1725) a quella di Giovanni Simone Mayr (1763-1845) o di Gaspare Spontini
(1774-1851).
Percorsi di opere
La ricaduta artistica derivata dalla circolazione dei compositori è presto evidente: la musica
dei veneziani o dei napoletani la si poteva ascoltare ovunque in Italia e all’estero. Gli autori
d’opera italiani poterono cimentarsi con le evolute orchestre tedesche o accostarsi al mondo
teatrale francese.
Per quanto riguarda le opere nel genere serio, a circolare furono i libretti, mentre la musica
veniva più spesso riscritta in loco.
I repertori e le banche-dati odierne consentono di stilare lunghe liste di libretti operistici e
relative presentazioni, infatti capitava spesso che si replicassero le opere in stagioni o luoghi
diversi e quindi partiture già impiegate in passato nella forma originaria, venivano modificate
dallo stesso autore o sommate a musiche di altri compositori.
In alcuni casi, neppure la notorietà e il valore artistico furono sufficienti a garantire la
sopravvivenza spettacolare di un’opera: l’Olimpiade di Pergolesi, elogiata come oggetto di
studio, conobbe un successo assai contenuto e fugace a teatro, subito incalzata da ulteriori
novità.
Diverso il caso del genere comico nelle sue varie accezioni: in quel caso a circolare furono
anche le partiture e il nome del compositore finì, di conseguenza, a prevalere su quello del
librettista. Ciò non toglie che lo stesso testo, come avveniva nel serio, potesse essere
musicato da altri compositori; l’intonazione di riferimento resta tuttavia una, in genere la
prima.
Alceste
Qui la vicenda è essenziale e smisurata al tempo stesso: Admeto, re di Fera in Tessaglia,
sta per morire e morirà se qualcuno non si offre al suo posto. Alceste s'immola per il marito e
per le sorti del regno, è risucchiata dall'Averno ma verrà ricondotta alla vita da Apollo in
veste di deus ex machina. Oltre alla notizia dell'imminente dipartita del sovrano, allo
sconcerto di popolo e congiunti e al segreto proposito maturato da Alceste niente succede,
perché appunto non vi è peripezia secondaria. Non significa che non vi sia azione musicale:
prerogativa del teatro d'opera è il poter tradurre in azione interiore e sonora anche un
atteggiamento sentimentale contemplativo.
Rispetto a un dramma di scuola italiana, che nello scorrimento del testo vive di
accelerazioni (recitativi) e rallentamenti (arie), prevale qui una proporzionata uniformità di
scansione, mutuata dalla tragédie-lyrique.
Aleggia in tutta la tragedia gluckiana una presenza inusuale per il teatro musicale
settecentesco in lingua italiana: quella della morte, decisiva ai fini della condotta
drammatica.
Nell'Alceste gluckiana come nell'antecedente Orfeo ed Euridice - che si riconduce per il
tema prescelto alle origini stesse dell'opera in musica - la morte è non solo un evento
sventuratamente occorso o una prospettiva concreta ma un luogo confinante con gli spazi
umanizzati del dramma, presidiato da entità infernali.
Drammaturgie del comico
Intermezzo e commedia per musica napoletana maturarono a inizio secolo in ambienti elitari
e colti, mentre il comico toscano, si diffuse nell'ambiente accademico degli Infuocati.
L'elemento comico, nel Seicento indistintamente diffuso nei drammi musicali di soggetto
storico o mitologico, è più spesso confinato alla chiusa degli atti, affidata a
frizzanti duetti di coppie comiche specializzate, talora con uso di dialetto
o comunque di linguaggio atteggiante il popolaresco. Da lì all'ideazione dell'intermezzo
(spettacolo autonomo in due parti da porre fra gli atti dell'opera ospitante, spesso edito in un
libretto a sé stante), prima a Venezia poi a Napoli, il passo fu breve. La serva padrona di
Federico/Pergolesi (Napoli 1733) resta il più celebre di questi grazie anche alla querelle che
scatenò fra gli intellettuali francesi a metà secolo; concepita per intercalare gli atti del
Prigionier superbo dello stesso compositore, garantì al comico un primato di notorietà che
forse nessun dramma serio riuscì mai a scalzare.
La costituzione di spettacoli integralmente comici fu tradizione parallela e per gran parte
indipendente da quella dell' intermezzo.
A Napoli attorno agli anni Venti ai Fiorentini si afferma la "commeddeja pe mmuseca", in
napoletano sin dai paratesti introduttivi (lingua colta), altre volte distintamente bilingue,
qualora alcuni personaggi si esprimano in toscano e altri in
un napoletano più o meno attutito.
Il plurilinguismo si manifesta anche fuori Napoli: il dialetto ebbe il sopravvento nel Savio
delirante, "comico divertimento per musica" del librettista-compositore Giuseppe Maria Buini
(Bologna 1726), il bolognese si affianca al toscano ma resta prevalente.
Nel comico il poeta può utilizzare: antecedenti commedie di parola, testi di narrativa,
miscelare fonti diverse a fatti di cronaca, oppure montare vicende originali sulla base di
situazioni generiche.
Gli elementi distintivi del comico sono l’ambientazione locale con l’attualità, il confronto
fra classi, prediligendo i contesti borghesi, il gioco dei registri dato dall’avvicendamento di
parti buffe, serie e mezzi caratteri.
Il tema delle falsità e della menzogna appare prevalente e spesso compare nei titoli: La falsa
magia, Fingere per godere, Il finto medico, La finta amante…).
Il librettista tiene conto dei ruoli - buffo, serio o mezzo carattere per fissare lo stile e l'assetto
della scrittura poetica di recitativi e arie.
Queste ultime manifestano ampia libertà metrica e spesso, a eccezione delle parti serie,
una dimensione pluristrofica per consentire al personaggio di
Vesprimersi con maggior efficacia recitazionale.
Il compositore asseconda la scrittura poetica con forme musicali flessibili:
nelle arie il "da capo" viene progressivamente accantonato o limitato alle sole parti serie;
prevale la stesura musicale continuativa, strofa dopo strofa.
Il dinamismo delle arie trova riscontri anche ad altri livelli dello spettacolo. Dalla metà del
secolo circa i librettisti collocano significativi concertati ad apertura e chiusura d'atto:
"introduzioni" e "finali" che avranno un ruolo importante anche nel rinnovamento del dramma
serio.
Il materiale poetico messo a disposizione da Goldoni è assai fertile in chiave musicale, nel
continuo rimbalzo di rapidi bisillabi, nei giochi di rima, nell'accorta distribuzione di tronche e
sdrucciole, ma spetta al compositore conferirgli sostanza drammatica.
Sgretolamento dei modelli e altri modelli
A partire dagli anni Sessanta, il dramma serio cambia e iniziano a diffondersi forme d’aria
più articolate e scene d’assieme complesse. Ne abbiamo un paio di esempi nell’Adriano in
Siria musicato dal giovane Mayr dove vediamo una maggiore estensione dei versi lirici
assicurati al canto e alla musica e l’amplificazione della dissociazione interna di Adriano. In
buona sostanza una drammatizzazione più articolata.
Un concetto polifunzionale
Il concetto di classicità/classicismo inquadra in musica un orizzonte estetico definito in
un’area geografico culturale: si tratta della musica di area viennese fra fine Settecento e
primo Ottocento. I quartetti op.33 di Haydn e l’Ottava sinfonia di Beethoven sono posti
come estremi cronologici.
Haydn solitamente precede Mozart nelle considerazioni degli storici per la data di nascita
(1732 vs 1756), ma i due furono soggetti a influenza reciproca.
Si individua solitamente, nella produzione strumentale dei maggiori musicisti del periodo,
l’emblema del classicismo musicale e gli elementi della sua definizione stilistica. La
dimensione strumentale infatti gioca un ruolo rilevante anche nei generi diversi dallo
strumentale: nell’opera buffa è in quella seria si mettono a punto dispositivi linguistici e
formali incidenti anche sulla definizione dello stile classico.
La centralità di Vienna per il classicismo musicale è data da tre compositori non nativi di
Vienna e che almeno nel caso di Haydn e Mozart si trovarono a operare a Vienna solo in
alcuni momenti della loro attività. Inoltre il classicismo viennese è influenzato dalla musica
italiana: il pianismo di Clementi, sottovalutato da Mozart, influenzò il giovane Beethoven.
Contrariamente a quanto avverrà nel romanticismo, il compositore settecentesco raramente
prende la parola in dibattiti o proclami: non glielo consentono la sua formazione perlopiù
tecnica, l’inquadramento sociale nella sfera delle maestranze professionali e i vincoli delle
istituzioni di antico regime.
Dal punto di vista culturale e filosofico, per gran parte del secolo e anche fra i Lumi,
predomina un diffuso scetticismo sulla musica strumentale; sonate e sinfonie sono nel
Settecento ritenute mero intrattenimento più che occasione di vero godimento estetico. Per
quanto riguarda gli effetti del pensiero illuminata sulla musica, la produzione teatrale di
Voltaire, Marivaux, Diderot e Madmontel si trasformò per alcuni in materiale di lavoro,
attraverso i libretti d’opera dove si adattavano anche testi originali d’oltralpe.
Al razionalismo del contrappunto, fondato sulla logica e sul calcolo, subentra un pensiero
musicale liberamente animato da principi dialettici a tutti i livelli della composizione (tonale,
tematico, strutturale) dove si raggiunge la sintesi tramite un discorso trasparente e
intelligibile. Anche a livello di contenuti, in Haydn e Mozart, sono forti i nessi con aspetti del
pensiero illuminista.
Fra gli elementi caratterizzanti dello stile classico vi sarà il conferimento di discorsività e
dialettici ai motivi melodici; ai concetti identità e di ripetizione si aggiungono quelli di
elaborazione e contrapposizione. L’allontanamento progressivo ma rapido dai principi
fondanti della scrittura barocca in area tedesca giusta a ridotto della morte di Bach ad opera
dei suoi tre figli maggiori. Il nuovo Empfindsamer Stil ("stile della sensibilità") di Carl Philipp,
Wilhelm Friedemann e altri, giocato sui contrasti e sul chiaroscuro cui iniziano a comparire
anche crescendo e diminuendo), si contrappone alla declinante Affektenlebre ("teoria degli
affetti"), più razionale nella conduzione del discorso musicale dai punti di vista
agogico-ritmico.
"Frasi" e "periodi" innescano collegamenti sintattici e funzioni retoriche affini a quelle del
linguaggio verbale e regolano il senso e l'equilibrio del discorso musicale.
Progressivamente, nella musica del secondo Settecento i motivi tendono a estendersi,
secondo una fraseologia regolare per numero di battute, perlopiù pari di frase in frase e per
multipli di quattro nei periodi più articolati: nell'Allegro con brio con cui inizia la Sonata per
pianoforte in Do maggiore di Haydn Hob. XVI:35 si vede un accurato bilanciamento
interno:
La società dell’ascolto
Che tipo di discorso svolgono i generi strumentali classici? L'esercizio dell'ascolto nel corso
del Settecento va a definirsi in modo stabile per quanto riguarda i luoghi e le occasioni.
Nascono e prosperano stagioni concertistiche a Londra, Parigi e altrove.
Al concerto pubblico si va per ascoltare musica. Fra compositore e spettatori si apre un
canale comunicativo di reciproco ascolto: il successo passa dalla conoscenza dei gusti e
della lingua del pubblico. Il compositore ascolta gli ascoltatori e ne analizza le reazioni; il
pubblico da parte sua appare tutt'altro che silenzioso e partecipa all'esecuzione della
sinfonia con applausi e acclamazioni a scena aperta. Mozart mostra di conoscerne in
anticipo le aspettative tantoché inserisce un passo avvincente al luogo opportuno e lo ripete
strategicamente in chiusa.
Nel genere della sinfonia, nel quale l’orchestra è protagonista, oltre agli archi iniziano a farsi
largo i legni, gli ottoni e le percussioni. Nel concerto per pianoforte e orchestra n22 in Mib
maggiore K482, la ricchezza delle relazioni interne è schematizzata nella tabella. Ogni
movimento ha la sua forma, solista e orchestra si relazionano reciprocamente e di fronte
al pubblico in modo diverso di brano in brano. Inizia a suonare ora la sola orchestra ora solo
il pianoforte.
Le nozze di Figaro: Da Ponte nel confezionare il libretto tagliò alcune delle tirate più
taglienti nei confronti dell'aristocrazia senza però mutare i contenuti e lasciando intatto
l'intreccio. Il tradizionale assetto del comico, contenuto in quanto a mezzi e
dimensioni, è amplificato a opera di grande respiro. La struttura è in quattro atti anziché in
due o tre, per ben undici personaggi nessuno dei quali superfluo nella condotta dell'azione; il
materiale verbale, frutto del prosciugamento della fronzuta commedia francese, resta
cospicuo per densità) e ricchezza di soluzioni formali concepite a beneficio di una varietà
musicale senza precedenti in una stessa opera. Per quanto riguarda la messinscena, i
numerosi riferimenti materiali ci ricordano che si tratta delle faccende della vita.
Contenuti e personaggi, riconducibili all'ampia casistica tanto della commedia quanto del
genere giocoso, appaiono però innovativi nella caratterizzazione individuale: Contessa e
Figaro sono Contessa e Figaro, non più solo padrona e servitore, legittimando così
l'opinione di chi individua nel teatro mozartiano la nascita del moderno teatro d'opera
anche data la forte presenza del compositore nella confezione del prodotto finale.
Il presente è sempre una prerogativa del comico ma nel caso delle Nozze si spinge a
stabilire un legame dialettico non solo con l'"attualità" sociale e teatrale, ma anche con le
esperienze di visione teatrale di tutto un secolo, che appaiono qui sintetizzate e superate
dall'interno.
Nelle nozze ogni personaggio affronta il futuro col bagaglio di un'esperienza che ha messo a
nudo i propri limiti, in un epilogo che ci appare tanto compiuto quanto
irrisolto.
Don Giovanni ossia il dissoluto punito: il Don Giovanni mozartiano rilegge in chiave
libertina un tema concepito in ambito controriformistico come parabola morale per la
ricorrenza dei defunti.
Il lato tragico della vicenda trova conferma nella prima scena dell'opera, con l'uccisione in
duello del Commendatore giunto in soccorso della figlia Donna Anna, che nottetempo Don
Giovanni travestito aveva tentato di insidiare nell'imminenza delle nozze con Don Ottavio;
ma viene poi rapidamente rimosso, rimpiazzato dalla pirotecnica successione delle
"donnesche imprese" di Don Giovanni e dei suoi abili tentativi di sfuggire alla disperata
Donna Elvira.
L'epilogo dell'opera, dopo l'inabissamento di Don Giovanni, è più ulteriore fattore di
ambiguità che vero lieto fine: nessuno dei superstiti si è fatto giustizia e la giustizia divina
suona in definitiva beffarda per ognuno di loro.
Nella tradizione successiva del dramma, a partire dalla ripresa viennese del 1788, si
preferirà fare a meno di questo finale sibillino, facendo concludere l'opera con la morte di
Don Giovanni.
Cosi fan tutte o sia la scuola degli amanti: L'ultima opera dei due assieme, è questo
dramma giocoso, e pare che a musicarlo sarebbe dovuto essere Salieri.
Don Alfonso è nel Così fan tutte personaggio centrale di una vicenda da lui montata ad arte
e personaggio assai inconsueto: un po' misantropo, un po' filosofo quasi non canta.
La sua lucidità illuministica fa da contraltare all'illusione che obnubila i due giovani Guglielmo
e Ferrando (basso e tenore), pronti a scommettere sulla fedeltà delle rispettive amanti,
Fiordiligi (che si atteggia a "parte seria") e Dorabella. E sulla scommessa - loro andranno per
finta in guerra e si ripresenteranno alle fanciulle travestiti da seducenti soldati albanesi per
vagliarne la fedeltà.
Non si tratta di misoginia pura e semplice, ma di un invito ad accettare pacificamente una
condizione imposta dalla natura, che riduce uomini e donne a banderuole scosse dal vento
del capriccio e delle passioni, così da poter prendere contromisure adeguate che
consentano di sopravvivere agli eventi.
Introduzione
Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770-Vienna, 1827) è una figura centrale del panorama
musicale europeo nei primi decenni dell’Ottocento. Haydn, suo maestro nei primi anni
viennesi, scrive nel corso della vita ben centoquattro sinfonie; Mozart ne comporrà, in soli
trentacinque anni di vita, quarantuno. Beethoven scrive
nell'intera carriera solo nove sinfonie. Sono anni in cui sperimenta. cerca i materiali musicali
del brano, scarta moltissime idee, ne modifica lentamente altre. Questa nuova concezione
creativa, la volontà di costruire la propria carriera come un percorso di sperimentazione e di
ricerca, venne immediatamente notata dai contemporanei. Molti critici cercarono di
sistematizzare in una formula arco creativo
beethoveniano, di identificare delle esplicite "fasi" creative. La più celebre di tali formule
è quella proposta a metà Ottocento da Wilhelm von Lenz, che suddivise
l'opera beethoveniana in tre stili: una fase giovanile, dagli esordi sino al 1801-02; la fase
della maturità, “il periodo eroico del compositore” - il periodo di molti dei capolavori più
celebrati, come la Terza, Ouinta, la Sesta e Settima Sinfonia, le Sonate op. 53, op. 57
(Appassionata), op. Bia (Addi), il Quarto e Quinto Concerto per pianoforte, i Quartetti op. s9,
il Fidelio che arriverebbe fino al 1816 circa; e infine lo "stile tardo", l'ultimo decennio di
attività del compositore nel quale lo stile beethoveniano si fa più sottile e complesso e si
esprime in brani come Ie ultime cinque Sonate per pianoforte, la Nona Sinfonia, la Missa
Solemnis, le Variazioni Diabelli per pianoforte e gli ultimi Quartetti per archi.
Franz Liszt ampliava questa suddivisone in modo e enfatico, definendo le tre fasi
beethoveniane "il Fanciullo - l'Uomo - il Dio".
La concezione beethoveniana è talmente nuova e potente da avere modificato il modo
stesso di intendere e di considerare la musica: alla nascita del compositore, l'opinione
prevalente sulla musica, in particolare quella strumentale, era che essa fosse "l'arte della
piacevolezza"; nel 1810 invece il grande scrittore Hoffmann parlerà proprio della musica di
Beethoven come di una forza capace di liberare emozioni segrete e profondamente radicate
dentro di noi, e di commuovere l'ascoltatore fin nel profondo dell'anima.
La volontà di sperimentare, di superare i confini tradizionali si mostra significativamente fin
dalle primissime pubblicazioni, con le due opere d'esordio, i Tre Trii op. 1 e le Tre Sonate per
pianoforte op. 2 che sono in quattro movimenti, caratteristica che nella musica viennese fino
a quel momento era stata solita di generi più nobili come quartetti e sinfonie.
Beethoven seguirà l'idea di unire le caratteristiche di più generi alla ricerca di un'espressione
nuova, ad esempio unirà sonata e fantasia, fantasia e variazione, fuga e variazione e
variazione e sonata.
Beethoven spesso utilizza le forme e tecniche tipiche della musica
operistica all'interno delle proprie composizioni strumentali, e recuperi a volte forme
strumentali o vocali del passato come la fuga o la canzona. L'esempio sono i sei Movimenti
del quartetto op 139, che riuniscono i caratteri davvero più disparati: dalla
forma-sonata allo scherzo, dalla danza popolare "alla Tedesca" alla cavatina operistica. La
ricerca beethoveniana è quindi anche e soprattutto quella di una suprema sintesi.
Il pianoforte era il centro del "laboratorio compositivo" di Beethoven, lo strumento con il
quale egli si confrontava quotidianamente. Tutte le tappe fondamentali del percorso
beethoveniano vengono annunciate da composizioni pianistiche, come se il compositore
volesse sperimentare novità formali e linguistiche. Comincia con Beethoven il "secolo del
pianoforte": lo strumento diventa il protagonista indiscusso della vita musicale, dapprima in
forma privata, poi anche in senso pubblico.
Le nove sinfonie costituiscono il cuore del repertorio concertistico, le caratteristiche di
questo monumentale corpus sono intanto, l'idea innovativa di alternare sinfonie di
carattere contrastante, a coppie: la monumentale Eroica e la delicata, vitalissima Quarta;
la drammatica Quinta e l'idilliaca Pastorale; la dirompente, "dionisiaca" Settima e la
misteriosa, riservata, profetica Ottava. È particolarmente importante il fatto che queste ultime
coppie di sinfonie siano state composte contemporaneamente. Beethoven afferma così
una nuova concezione dell'opera musicale, la sinfonia diventa un tutto organico, un singolo
organismo che va seguito nella sua totalità. Un altro elemento da sottolineare è
l'ampliamento progressivo dell'organico orchestrale nel corso della carriera del
musicista: la Prima e la Seconda utilizzano l’organico di Haydn. A partire dall’Eroica
Beethoven comincia a introdurre nuovi strumenti.
Dopo la morte di Beethoven, Richard Wagner affermerà che la Nona costituiva la «fine
della sinfonia», il tentativo del genere di superare sé stesso - il futuro, per Wagner, era il
dramma musicale, la propria «opera d'arte totale».
Nell'ambito cameristico, troviamo un corpus monumentale. Dopo Haydn, il quartetto era
quasi per definizione un genere "privato"; Beethoven si accostò con cautela al quartetto: la
sua prima raccolta, i Sei Quartetti op. 18, sarà pubblicata nel 1801, dopo diversi anni di
elaborazione A questa raccolta seguiranno piccoli gruppi di quartetti, gli ultimi dei quali,
furono considerati le più perfette e profetiche composizioni di Beethoven.
Nel campo della musica vocale Beethoven, ci ha lasciato meno opere di molti dei suoi grandi
predecessori: Lieder, cantate, un’opera (il Fidelio) e brani religiosi, fra cui la grande Missa
Solemnis op.123. Abbiamo inoltre gli arrangiamenti dei canti popolari: compose circa
centosettanta, su commissione di George Thomson; si tratta di brani quasi ignorati sia dagli
studiosi ma in realtà è grazie al rapporto con la musica popolare che Beethoven entrò in
contatto con sistemi di organizzazione dei suoni non legati alla tonalità occidentale e alla
dicotomia maggiore-minore.
Opera e biografia
Le opere del compositore sono state di volta in volta collegate tanto alla sordità,
all'isolamento, alle difficoltà affrontate nella vita o nei rapporti con le donne quanto alla
Rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche. Il rapporto tra arte e vita, in un certo senso,
prende forma nella coscienza critica proprio a partire dalla musica di Beethoven.
Per B. fu difficile il rapporto con la famiglia, a partire dal padre, alcolizzato, che avrebbe
voluto farne un fanciullo prodigio sul modello di Mozart. Difficile il carattere, spesso definito
altezzoso, orgoglioso. Difficili anche le scelte di vita, a cominciare dal fatto che Beethoven
volle essere "libero professionista", inoltre, la sordità: malattia che comincia ad affliggerlo
negli ultimissimi anni del Settecento e che si fa progressivamente più forte fino a renderlo
completamente sordo a partire più o meno dal 1815.
La musicologia ha tentato ripetutamente di tracciare un collegamento tra le difficoltà pratiche
nella vita di Beethoven e la sua musica. La musica risolveva tutti i conflitti e le
contraddizioni che la vita del compositore lasciava aperti: ascoltandolo l'impressione di
assistere a una lotta, a un conflitto che viene progressivamente risolto è fortissima.
Nella forma-sonata la musica classica realizzava infatti un mondo sonoro in cui i conflitti
potevano effettivamente essere risolti, e nel corso di un brano si raggiungeva una reale
conciliazione. I tre "classici viennesi" arrivarono addirittura a far dialogare nelle loro
composizioni le diverse classi sociali. La Nona Sinfonia di Beethoven celebra
esplicitamente l'"abbraccio dei popoli", e il "bacio al mondo intero".
Lo "stile classico", insomma, è basato su una convinzione fondamentale: quella che si possa
rappresentare attraverso i suoni un mondo in grado di raggiungere un vero equilibrio.
Il linguaggio
Beethoven arriva a Vienna alla fine di novembre 1792. Il suo protettore a Bonn, il conte
Waldstein, gli aveva scritto sull'album come congedo: «Sia lei a ricevere, grazie a un lavoro
ininterrotto, lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn». Il mito della grande "Trinità" viennese,
Haydn-Mozart-Beethoven, la cosiddetta Prima Scuola di Vienna, nasce anche grazie a
queste parole profetiche.
Accade di frequente che Beethoven citi esplicitamente un'opera di Mozart all'inizio di una
sua composizione; tali citazioni sono presenti in modo particolare proprio in alcune opere
d'esordio: la Sonata op. 2 n. I comincia citando il tema dell'ultimo movimento della Sinfonia
n. 40 K so di Mozart. La grande novità dello stile beethoveniano consiste proprio nella
capacità di ripensare da zero, gli elementi del linguaggio musicale classico, semplificazione
di tali elementi costitutivi nelle opere di Beethoven. L'oggetto principale della semplificazione
linguistica beethoveniana è la melodia. Sono rari in Beethoven i "grandi temi", gli elementi
del linguaggio si fanno invece molto più icastici, immediati, semplici, in molti casi perfino
schematici. Parlando delle opere di Beethoven, si utilizza però il termine “gesto”, che indica
una successione di accordi, una scala, un movimento ascendente o discendente, un
arpeggio, un gruppo di note ripetute, addirittura un ritmo. È a partire da questi gesti che si
sviluppa la musica di Beethoven. Naturalmente questa operazione
richiede una profonda riflessione sulle caratteristiche del linguaggio musicale in sé. Alla
semplificazione in un senso - nella melodia, nella varietà e bellezza delle linee melodiche -
fa insomma da contraltare un evidente, straordinario arricchimento degli altri elementi
musicali messi in gioco; egli riesce concettualmente a scomporre il linguaggio nei diversi
parametri costitutivi, e a considerare questi ultimi sia separatamente che nella reciproca
interazione.
Beethoven comincia fin dalle prime composizioni a riflettere sulle dimensioni complessive
dei brani, che tendono ad ampliarsi in modo incontenibile. Tra le composizioni di questo
periodo si trovano inoltre alcuni dei brani più estesi in forma sonata mai scritti, e il confronto
con opere dello stesso genere di Haydn»
di Mozart è davvero impressionante.
Una delle categorie più potenti del pensiero musicale di Beethoven è il contrasto,
l'accostamento, il confronto tra elementi di carattere opposto di piano e forte, di pieno e
vuoto, di lento c
veloce, accanto alla contrapposizione alto-basso, o vicino-lontano.
L'aspetto più noto e studiato del linguaggio musicale di Beethoven è senza dubbio la
cosiddetta "elaborazione motivica", o "elaborazione motivico-tematica". E molto significativo
il fatto che in un primo movimento di sinfonia (o di sonata) classica si descriva la linea
melodica principale come "tema", e non come "melodia": in analogia al tema letterario e
scolastico, il tema di una forma-sonata è qualcosa da "svolgere", una traccia che permette
diverse possibilità di elaborazione. Un tema deve essere costruito in maniera tale da poter
essere frammentato in "motivi", singoli segmenti che il compositore sfrutta nell'elaborazione.
Le famose quattro note con cui comincia la Quinta riappaiono nel corso non solo del
primo movimento ma dell'intera sinfonia, e a partire da esse Beethoven costruisce le varie
parti della forma. La funzione formale delle quattro note cambia in continuazione, e con essa
cambiano il percorso e il significato estetico del brano: in questo senso il pensiero motivico
beethoveniano è uno degli elementi chiave della "forma come processo".
Troviamo un esempio della ricchezza e la complessità del pensiero motivico di Beethoven
nel primo movimento della Sonata Les Adieux op. 81a. La sonata fu scritta tra il 1809 e il
1810, sul frontespizio del brano, Beethoven scrisse: «L'Addio. Vienna, 4 maggio 1809 per la
partenza di Sua Altezza Imperiale, l'onorevole Arciduca Rodolfo».
Il motivo di base del formidabile primo movimento viene evidenziato dallo stesso Beethoven:
le tre note discendenti (Sol-Fa-Mib) con cui si apre l'introduzione lenta, sulle quali il
compositore scrive le tre sillabe che compongono la parola Le-be-wohl ("addio"). All'inizio
del brano il motivo si presenta quindi come un vero e proprio topos, un "segnale" allo stesso
tempo verbale e sonoro. Lo stesso secondo tema è costituito
dal motivo, naturalmente trasposto alla Dominante (Re-Do-Sib): abbiamo quindi a che fare
con una forma-sonata "monotematica", in cui primo e secondo tema non sono contrastanti
ma, al contrario, sono strettamente collegati tra loro. Lo sviluppo ci mostra un altro
procedimento tipicamente beethoveniano: la "riduzione del motivo", che passa da tre note
a due, poi
a una sola nota ripetuta. L'ultima trasformazione è la più audace: il motivo si divide e si
rincorre, creando l'effetto dissonante di uno scampanio.
La forma sonata è il principio formale attraverso il quale si organizza la maggior parte delle
idee di Beethoven. Si parte da una opposizione, un contrasto nell'esposizione, e si giunge a
una sintesi, una conciliazione nella ripresa. La forma-sonata quindi è un processo. Il
carattere di processo insito nel principio sonatistico è ciò che interessa maggiormente a
Beethoven: per lui il concetto fondamentale è quello del movimento, del divenire.
Seguirà una sezione ancora più movimentata, instabile - lo sviluppo -, che farà quindi
aumentare il senso di movimento, di metamorfosi, di tensione. Questa sezione sfocerà nella
ripresa, ossia nel ritorno del tema iniziale della tonalità di impianto che non avevamo più
ascoltato.
Il potenziale drammatico della forma-sonata è evidente, e Beethoven ne comprese appieno
tutte le possibilità, utilizzandole a fondo in particolare nei primi dieci o dodici anni
dell'Ottocento, quando cioè la sua ricerca era tesa a dare la massima spettacolarità,
monumentalità e senso di risoluzione conclusiva, "catartica" a una composizione.
È importante infine sottolineare una grande differenza tra il pensiero compositivo
beethoveniano e quello dei suoi grandi predecessori: l'approccio problematico alla
costruzione del brano, il fatto che ogni singola opera costituisca la risposta a uno specifico
"problema" compositivo che Beethoven ha ben chiaro fin dall'inizio del processo di
elaborazione.
Lo stile tardo
Le ultime opere di Beethoven sono state da sempre considerate una fase a sé. Il concetto
stesso di "opera tarda" nasce solo a posteriori con alcuni studiosi che proveranno a
identificare lo stesso concetto nelle ultime composizioni di alcuni suoi predecessori, come
Johann Sebastian Bach.
Carl Dahlhaus, nell'esplorare questa categoria estetica ci dice che la modernità delle opere
tarde è, senza dubbio, anticipatrice e profetica.
L'opera tarda è «già alla sua nascita intimamente estranea all'epoca a cui appartiene
esteriormente».
Nel corso dell'Ottocento le opere tarde di Beethoven furono spesso considerate
incomprensibili: alcuni musicisti e studiosi arrivarono perfino a sostenere che la sordità
aveva deformato la percezione beethoveniana; ad esempio Ulibisev, dilettante russo e
scrittore di musica scrisse: “Dal momento che egli non udiva più nulla da molti anni,
produsse delle opere che a lui parevano sublimi nella concezione e nell'armonia, ma che
rimangono lettera morta per coloro che ascoltano con le proprie orecchie!”.
Proveremo a esaminare brevemente le ultime cinque sonate per pianoforte, l’inizio vero e
proprio del “terzo stile. In quattro casi su cinque il movimento iniziale del brano è
straordinariamente contratto, sintetico, compresso:
-op. 101, centodue battute;
-op. I09, novantanove battute;
-op. 110, centosedici battute;
-Op. III, centocinquantotto battute (è la sola, tra le sonate tarde, ad avere un'introduzione
lenta)
Le dimensioni dei singoli movimenti successivi al primo si presentano tutt'altro che ridotte, e
anzi nel confronto con brani del "primo" o del "secondo periodo" beethoveniano esse sono
spesso notevolmente espanse. La contrazione, riguarda proprio la forma-sonata, la forma
all'interno della quale Beethoven aveva costruito la drammaticità del proprio "stile eroico".
Nessuna di queste composizioni si presenta suddivisa in quattro movimenti; è fondamentale
il ruolo centrale che in questi brani assumono forme e tecniche tradizionalmente estranee
alla sonata come la fuga e il contrappunto. Forme e tecniche che il compositore integra alla
struttura della sonata, dando origine a una sintesi tra le più originali. I due aspetti insieme -
ricerca della massima concisione formale e uso di tecniche e forme insolite - provocano
naturalmente effetti dirompenti sull'architettura interna.
Ciò che attraeva Beethoven nella forma della fuga e nella tecnica contrappuntistica era
probabilmente il fatto che essa rappresentava un'alternativa alla tecnica di sviluppo e di
elaborazione motivica.
L'altra tecnica che Beethoven utilizza dappertutto nelle ultime opere, e in particolare negli
ultimi quartetti, è la variazione, una tecnica circolare: la trasformazione in più fasi di un
tema che quindi è sempre lo stesso e sempre diverso da sé. La variazione prende in
considerazione l'intero tema, lo ripete, lo modifica, ne scopre nuove possibilità. La tecnica di
variazione è quindi una riflessione sul materiale musicale, essa implica l'arresto temporale,
l'interruzione della "marcia frontale del tempo".
In molte delle opere tarde la trasformazione del tema è talmente radicale da rimettere
totalmente in discussione il senso della forma: ogni nuova variazione, sembra reinventare
completamente il tema, cambiano il ritmo, la successione intervallare, a volte perfino
l'armonia, come se ogni variazione non fosse solo una nuova "faccia" del tema iniziale ma
una nuova entità.
Le Variazioni Diabelli ci mostrano la stessa varietà che si colora di aspetti ancora più
innovativi e sorprendenti. L'idea rivoluzionaria del compositore è quella di scrivere trentatré
brani totalmente diversi tra loro. Il pensiero archetipico e "labirintico" che è alla base delle
Diabelli dà vita a una composizione unica nel suo genere, la cui caratteristica più importante
è probabilmente la moltiplicazione interna dello spazio e del tempo: è chiara la volontà di
Beethoven di ricercare la massima varietà di atteggiamenti e di caratteri.
I teatri
Nel corso del Settecento l'architettura teatrale aveva visto un'importantissima fioritura in
Italia, con la definitiva affermazione e diffusione della sala cosiddetta "all'italiana". Tra gli
edifici più famosi si annoverano il Teatro di San Carlo a Napoli (1737), il Teatro alla Scala a
Milano (1778) e il Teatro La Fenice a Venezia. Di conseguenza ci fu una diffusione
impressionante delle rappresentazioni operistiche nell'Italia del primo Ottocento, che
aumentarono esponenzialmente rispetto al secolo precedente. Inoltre, le rappresentazioni
melodrammatiche avevano luogo con maggiore frequenza e regolarità al Centro-Nord, le cui
regioni erano meglio integrate nel circuito produttivo dell'opera.
L’editoria
Nei primi due secoli di storia dell'opera italiana, il genere si era diffuso fuori dai teatri in primo
luogo attraverso il libretto a stampa.
Nei primi decenni del secolo, infatti, si assistette in Italia alla progressiva diffusione della
consuetudine di stampare e mettere in vendita la musica dell'opera. All’inizio si trattava dei
pezzi più famosi, arie solistiche e duetti, poi con gli anni Venti, si diffusero anche gli spartiti
completi, cioè di un'opera intera, spesso assemblati rilegando insieme i pezzi staccati
pubblicati in precedenza con quelli preparati per l'occasione. Questo nuovo fenomeno
editoriale è legato alla diffusione del pianoforte: saper suonare il pianoforte era un segno di
distinzione sociale e culturale, di ricchezza materiale ed emotiva.
Il protagonista assoluto della diffusione della musica operistica a stampa nell'Italia del primo
Ottocento fu Giovanni Ricordi.
Nel 1811 divenne lo stampatore ufficiale del conservatorio di Milano, mentre a partire dal
1814 stipulò una serie di contratti con il Teatro alla Scala per la pubblicazione della musica
delle opere fini a quel momento rappresentate, finché nel 1825 non ne acquistò l'intero
archivio musicale. Nel 1842 Ricordi decise di ampliare il proprio ambito editoriale iniziando la
pubblicazione del periodico musicale più importante e influente nell'Italia del secondo
Ottocento, la "Gazzetta musicale di Milano".
La critica
L'anno 1804 costituì un punto di svolta fondamentale, grazie all'apparizione di due periodici
che riservarono fin da subito notevole attenzione al melodramma, il "Giornale italiano" e il
"Corriere delle dame". Un'ulteriore novità apportata dal primo Ottocento fu l'emergere della
stampa specializzata, anche in questo caso Milano occupò un posto di primo piano, dal
momento che fu proprio nella capitale lombarda che si pubblicarono i primi cosiddetti
"giornali teatrali" dedicati quasi esclusivamente all'opera in musica. Si occupavano
soprattutto, ma non esclusivamente, di melodramma: vi si parlava infatti anche di teatro
parlato, di danza, di altri generi teatrali minori, nonché di letteratura.
Il compositore
Fin verso la fine del Settecento l'autore di un'opera era considerato in primo luogo il
librettista, mentre il compositore era colui che rivestiva di note il dramma. Il termine
"librettista" non esisteva: colui che scriveva il testo verbale dell'opera era semplicemente il
"poeta". Il poeta teatrale per eccellenza del XVIII secolo era il Metastasio.
Il termine "librettista" emerse solo nei primi decenni del XIX secolo, e aveva in origine intento
spregiativo: indicava infatti il poetastro, l'imbastitore di versi sgraziati e goffi che il
compositore avrebbe poi messo in musica. A partire da fine Settecento ma soprattutto nella
prima metà del nuovo secolo, invece, il librettista assemblava il testo a stretto contatto con il
compositore e rispondendo a sue precise esigenze, e questo testo veniva per così dire
"esaurito" dalla sua prima messa in musica.
Dal primo Ottocento fino a oggi quando si parla di opera in musica si parla prima di tutto di
compositori.
Prendendo in analisi Rossini, Donizetti e Bellini, per quanto riguarda l'educazione, tutti e tre
impararono l'arte della composizione in contesti plurimi. Rossini e Bellini erano figli di
musicisti e la loro prima istruzione avvenne certamente a casa. La famiglia di Donizetti non
era direttamente legata alla pratica musicale ma il figlio fu inviato all'età di 8 anni alla scuola
di musica aperta in città dal compositore Giovanni Simone Mayr.
Sia Rossini sia Bellini furono particolarmente legati a una città: il primo a Napoli tra il 1815 e
il 1822 e il secondo a Milano tra il 1827 e il 1833. Donizetti invece, anche se risiedette a
Napoli per la maggior parte degli anni Trenta, scrisse parecchi lavori anche per molte altre
città, tra cui Milano, Firenze e Venezia.
Il librettista
Il più famoso librettista italiano della prima metà dell'Ottocento fu
Felice Romani (1788-1865), legato in modo stretto al Teatro alla Scala e in generale a
Milano a partire dal 1813. Iniziata la carriera in quello stesso 1813 con due testi di successo
per li
musica di Giovanni Simone Mayr, La rosa bianca e la rosa rossa e Medea in Corinto, scrisse
quasi tutti i libretti delle opere composte da Rossini per Milano. Il musicista con cui stabili
un'intesa profonda fu però Bellini; delle dieci opere belliniane, Romani fu l'autore dei libretti
di ben sette.
Un altro importante librettista fu Salvadore Cammarano che (1801-1852) fu il librettista più
importante degli anni Trenta e Quaranta, particolarmente amato da Donizetti. In una lettera
del 1835 il compositore spiegava a un impresario l'ingrediente fondamentale di cui aveva
bisogno in un libretto: «Voglio amore, che senza questo i soggetti sono freddi, e amor
violento». E di amore violento, ambientazioni sinistre, cupe atmosfere, soprusi inauditi, dolori
lancinanti traboccano i libretti di Cammarano, che diventerà poi uno dei collaboratori più
importanti di Verdi nel primo decennio della sua carriera.
Lo scenografo
le scene devono contribuire al coinvolgimento emotivo dello spettatore nell'azione. Questo
compito è una novità del nuovo secolo, difficilmente riscontrabile prima degli ultimi anni del
Settecento; le scene devono ora contribuire a creare un mondo immaginario in cui gli
spettatori si immergono.
Lo scenografo più famoso fu il milanese Alessandro Sanquirico. Fu responsabile unico
delle scene per le opere e i balli alla Scala e ne disegnò di numerosissime per gli altri teatri
della capitale lombarda. La fama e l'influenza di Sanquirico furono dovute anche a una
novità di rilievo: nel corso degli anni Venti si pubblicarono le immagini delle scene ritenute
più belle per gli allestimenti operistici nei teatri milanesi: iniziò l'editore Stucchi con tre
raccolte di Incisioni, seguito poi da Ricordi, che tra il 1827 e il 1832 stampò numerosi
fascicoli che riproducevano tutte le scene di un'opera o un ballo. Queste pubblicazioni, che
ebbero larga circolazione, assicurarono alle scene di Sanquirico un'influenza ampia e
duratura sulla scenografia italiana.
I generi
In questo periodo l'opera italiana si articolava in tre generi principali, che possiamo chiamare
"opera seria", "opera buffa" e "opera semiseria". C’era una gerarchia dei generi, che
vedeva all'apice l'opera seria, seguita dalla semiseria e poi dalla buffa. Il fatto che l'opera
semiseria sia collocata al terzo posto è un indizio della sua relativa marginalità: l'incidenza
numerica di titoli appartenenti a questo genere è infatti decisamente minore rispetto a quelle
del genere serio e specialmente del buffo.
Nell'Ottocento, l’opera seria vide affermarsi in modo progressivo ma definitivo il finale
tragico, fino a diventare praticamente un obbligo negli anni venti. Contemporaneamente
diminuirono drasticamente le ambientazioni nel mondo antico, mentre presero piede quelle
medievali e rinascimentali.
Se l'opera seria non era mai ambientata nel presente o nel recente passato, mentre il tempo
di quella buffa era sempre il presente, l'azione dell'opera semiseria poteva svolgersi in tempi
diversi. Tuttavia, la percezione di questi tempi era temperata dalla collocazione geografica:
la grande maggioranza di queste opere si svolge infatti in luoghi come la campagna.
Le forme
Il primo livello di articolazione è quello degli atti, che sono in genere due o tre. Questi sono a
loro volta composti dai cosiddetti numeri, ossia arie, duetti, terzetti, cori e altri pezzi
d'assieme. Le arie, ossia i pezzi solistici, possono prendere a loro volta nomi specifici: il più
comune è "cavatina", che indica l'aria di sortita, cioè letteralmente di "uscita in scena", di
presentazione, di un personaggio.Molte opere, ma non tutte, sono precedute da un pezzo
esclusivamente strumentale, la cosiddetta "sinfonia". d.in sinfonia è seguita da un numero
chiamato "introduzione", che vede la partecipazione del coro e di alcuni personaggi. Il
numero più esteso è il cosiddetto finale centrale, posto alla fine del primo atto se l'opera è
in due atti, oppure in genere alla fine del secondo se l'opera è in tre: i personaggi principali e
il coro si trovano in scena in un momento cruciale dell'azione, in cui la trama raggiunge il
massimo della complicazione narrativa e dell'intensità emotiva.
Ogni numero è articolato al suo interno in sezioni o movimenti, che possono essere più
dinamici ovvero cinetici, ossia contenere azione e dialogo tra i personaggi, oppure più
statici, in cui uno o più personaggi danno voce alle emozioni che le azioni immediatamente
precedenti hanno provocato dentro di loro.
Gli studiosi chiamano la struttura base dei numeri musicali "la solita forma": si tratta di
un'alternanza di movimenti cinetici (C) e statici (S) che nelle arie consiste spesso in SCS, e
nei duetti CSCS, mentre per i pezzi d'assieme a più di due personaggi, introduzioni e finali
centrali è difficile stilare schemi precisi. I movimenti cinetici hanno forme meno prevedibili e
più strettamente aderenti all'azione scenica e al dialogo, mentre quelli statici tendono a
seguirne di più regolari. Un altro principio importante sta nell'andamento dell'ultimo
movimento: esso deve essere in tempo più veloce di quelli che vengono prima, e soprattutto
del precedente movimento statico, in modo da dare un effetto di accelerazione che faccia
aumentare sia la tensione drammatica sia quella musicale.
Esiste inoltre la “forma lirica” che prende piede intorno al 1830 come modo principale di
concepire il rapporto fra testo e musica.
Un esempio semplice e chiaro di "forma lirica" è il Larghetto cantabile che costituisce l'unico
movimento statico della Romanza della protagonista nel prologo della Lucrezia Borgia,
«Come è bello!... Quale incanto»; il movimento è articolato in due strofe (cosa rara) ed è
preceduto da un recitativo, mentre le strofe sono separate da una specie di breve tempo di
mezzo. Lucrezia contempla il figlio Gennaro addormentato: non lo vedeva da quando le fu
strappato da piccolo, e gioisce di ritrovare un bellissimo giovane; la donna si augura poi che
egli non scopra mai la terribile fama di sua madre e quindi la disprezzi.
Questi otto versi sono strutturati come quattro unità di due versi ciascuno. Donizetti segue
l'articolazione del testo di Romani e inventa una melodia strutturata in quattro sezioni di
quattro battute ciascuna, che possiamo indicare come A A' BA”. La forma lirica consiste
appunto nell'esposizione di un'idea musicale (A), nella sua ripetizione variata (A'),
nell'introduzione di materiale diverso (B), e in una seconda ripresa diversamente variata
dell'idea iniziale (A"*). In questo caso, i primi due versi espongono un'idea in Mi maggiore
dal profilo melodico piuttosto complesso ma costruita sulla ripetizione della cellula ritmica
udita inizialmente sulle parole «Come è bello!». Il secondo distico è intonato su una
variazione sia melodica sia ritmica dell'idea iniziale, che rimane ben riconoscibile.
Il terzo distico introduce una seconda idea di due sole battute subito ripetuta con qualche
piccola variazione. La risoluzione arriva con le quattro battute successive, una risoluzione
doppia perché si plana sull'accordo di Tonica e perché risentiamo l'idea iniziale, anche se
ulteriormente variata.
La "forma lirica" costituì la soluzione strutturale più frequente per i movimenti statici di
arie e duetti nell'opera italiana per alcuni decenni: molte melodie famose furono costruite in
una delle molte possibili varianti di questo schema di base.
I temi
L'opera buffa non si differenzia molto da quella del secolo precedente nel mettere in scena
amori contrastati da conflitti di generazione e/o di classe, cioè un tema tipico della
commedia occidentale da Menandro e Plauto in poi. L’opera buffa tratta la visione ottimista
e in qualche modo "ingenua" dei rapporti tra gli esseri umani, le generazioni e le classi
sociali.
Il genere che acquistò un predominio fu quello serio. Questa traiettoria si accompagnò
all'affermazione definitiva del finale tragico. In questo caso, la pazzia, specialmente
femminile, è tema ricorrente. Le donne impazziscono perché schiacciate da strutture sociali
e pressioni psicologiche dalla violenza inaudita, che le pongono in posizioni emotive
insostenibili. Gli uomini reagiscono in genere più razionalmente, ma anch'essi sono sconfitti
dalla vita, privati dell'amore o sopraffatti dalle conseguenze delle loro azioni, che non hanno
saputo prevedere.
Intanto il mondo musicale produce una quantità crescente di musica che non ha nessuno
di questi caratteri, non grottesco, non umoristico, non caratteristico. La musica ottocentesca
non caratteristica è musica che parla alla sua attualità, è la voce di un momento storico, è
musica per il consumo.
Profondità. Filosofia della musica: il superamento della dimensione superficiale, quella
dimensione che si percepisce solo attraverso il senso, a favore della "profondità", attingibile
solo con l'intelletto, è un altro principio dell'arte romantica.
La "filosofia della musica" è basata sul rifiuto del principio di imitazione: l'arte non ritrae
questo mondo, ma parla di altri contenuti, porta a manifestazione il mondo delle idee. Per
questo la musica strumentale, la meno vincolata alla riproduzione o mimesi della realtà,
passa dall'ultimo posto, dov'era nel Settecento, al primo nella gerarchia delle arti.
Composizioni
La musica da camera
Il quartetto d’archi è un genere per pochi, in opposizione alla "cultura del concerto" legata
invece alla mentalità utilitaristica del profitto borghese.
L'affermazione che la musica da camera è espressione della nuova borghesia, ma nasconde
una contraddizione: da un lato la musica da camera risponde alle esigenze culturali della
"borghesia colta" d'altro lato è in frontale opposizione alle esigenze economiche di quella
stessa mentalità borghese (è "assoluta", quindi estranea alla morale utilitaristica del
lavoro-reddito).
Per quanto riguarda la musica per duo violino o violoncello e pianoforte, il repertorio si
divide in due campi: da un lato i compositori dedicano al duo sonate in forma classica,
dall'altro la componente solistica torna in primo piano.
La musica sinfonica
La paura dell' epigonismo nei confronti dei classici, opposto al principio di "unicità"
romantico, frena a lungo la produzione sinfonica. La composizione sinfonica
post-beethoveniana può essere divisa in tre periodi:
1) la sinfonia romantica strettamente intesa (Schumann, Berlioz,
Mendelssohn):1830-1850;
2) il poema sinfonico e la musica a programma (Liszt, Strauss): dal 1850 al Novecento:
3) la "seconda fioritura della sinfonia" (Brahms, Bruckner, Cajkovskij, Dvoták, Franck,
Martucci, Saint-Saëns, Mahler): dal 1875 al Novecento.
Nella sinfonia romantica ciò che conta è il rinnovamento romantico, contraddittorio e
intenzionalmente ambiguo, di una tradizione formale che era divenuta prassi.