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Riassunto musiche nel tempo

Capitolo 4

Sonar con ogni sorta d’instrumenti


La musica d’assieme è la musica che prevede la compartecipazione di più esecutori e
viene utilizzata in contesti cortesi e aristocratici e in ambiti cerimoniali, protocollari e
conviviali. Nei primi può essere attivamente praticata da gentiluomini e gentildonne o fruita
passivamente quando eseguita da musicisti professionisti.
Fra gli strumenti coinvolti vi è distinzione estetica e sociale: quelli appropriati al gentiluomo
sono solo le tastiere e gli strumenti ad arco, mentre sono banditi quelli a percussione o a
fiato.
L’uso di musica d’assieme per occasioni conviviali merita di essere sottolineato perchè
molto frequente: ad esempio nella corte estense di Ferrara, si attribuiva un ruolo importante
alla musica tanto che erano celebri i “concertoni” di voci e strumenti con cui il duca
Alfonso accoglieva gli ospiti in visita; ancora papa Leone X era solito allietare i propri pasti
con musiche strumentali di liuti e fiati.
La musica d’assieme nel corso del Cinquecento tarda ad avere un repertorio autonomo: i
gruppi strumentali eseguono perlopiù polifonia in origine scritta per le voci, come madrigali,
mottetti e chanson che si adattano bene all’assetto strumentale. L’esecuzione
polistrumentale delle chanson francesi sollecita l’avvio delle composizioni di canzoni per
gruppi strumentali: questo nuovo repertorio ha come esponenti Fiorenzo Maschera e
Costanzo Antegnati. Maschera pubblica le sue canzoni nel Libro de canzoni da sonare a
quattro voci, offrendo un modello formale praticato da numerosi altri musicisti.

Musica strumentale alla ricerca di autonomia linguistica: il


violino e il suo repertorio
Il violinismo italiano inizia in Italia intorno al terzo decennio del Cinquecento, ma solo
alla fine di questo secolo emergerà rispondendo alle esigenze di protagonismo, vantando
risorse timbriche e duttilità esecutiva.
Intorno al 1575 si ha l’inizio di un nuovo modo di cantare, con una voce sola sopra uno
strumento: a partire da ciò le voci si appropriano della tecnica della diminuzione e la
arricchiscono di umana espressività; i virtuosi del violino a loro volta imitano questa nuova
vocalità e la riproducono sui loro moderni strumenti.
Nel 1617, il bresciano Biagio Marini, associa il moderno violinismo alle prerogative
espressive della vocalità pubblicando una raccolta dal programmatico titolo “Affetti musicali”:
imitare ed emulare la voce, trasferirne le seduzioni nel brano strumentale primo di testo
poetico, sono doti del violino e mezzo efficace per affermarne la dignità artistica.
Nell’epoca che va da Marini a Corelli, si assistette a un progressivo assestarsi della
composizione strumentale con episodi fra loro contrastanti, per attirare l’attenzione
dell’ascoltatore; ciò però crea una sorta di disordine, che viene fugato da strategie
compositive che mirano a sollecitare anche la memoria dell’ascoltatore, stabilendo dei nessi
fra varie parti del materiale esposto; le ripetizioni catturano l’attenzione e sollecitano la
memoria del fruitore fornendogli punti di riferimento nel corso dell’ascolto.
Giovanni Legrenzi, organista a Ferrara e Venezia, nel 1655 pubblicò un libro di Sonate a
due e a tre, la prima delle quali intitolata “La Cornara”, costituita da quattro movimenti dei
quali l’ultimo è una replica accorciata del primo, con ripetuta esposizione di due principali
idee tematiche. Legrenzi ci dice che la sua musica strumentale, dopo esser stata apprezzata
all’ascolto nelle riunioni accademiche può essere analizzata razionalmente, infatti l’autore
vuole sottrarre questo repertorio a una fruizione distratta ed effimera e concepirlo invece
come degno di lettura.

“Et in Arcadia Ego” il classicismo di Arcangelo Corelli


A Bologna nella seconda metà del Seicento diverse stamperie musicali contesero a Venezia
il primato della stampa musicale; la ricettività degli ambienti locali era assicurata dalla
presenza a Bologna dell’importante Accademia Filarmonica e a Modena dalla corte
estense, fortemente interessata allo strumentalismo. A Roma la musica strumentale
violinistica è legata alla committenza della regina Cristina di Svezia, che impresse alla vita
musicale e teatrale della città un forte impulso: a Roma si affermò la stamperia Mutii ed
emersero importanti figure di strumentisti, fra i quali Arcangelo Corelli.

Arcangelo Corelli
Originario della Romagna, studiò a Bologna poi si spostò a Roma nel 1671, dove intraprese
una carriera divisa fra impegni privati presso i mecenati che lo ebbero al proprio servizio, e
impegni pubblici in veste di primo responsabile della cornice musicale religiosa di Roma.
Corelli giunse a diventare il musicista più rappresentativo della musica strumentale
italiana, si impose in tutta Europa come modello di stile e di tecnica esecutiva; fu inoltre il
primo strumentista a vedersi riconosciuto, assieme ai compositori Alessandro Scarlatti e
Bernardo Pasquini, un livello intellettuale degno dell’ingresso in Arcadia.
L’ascesa della fama di Corelli ha inizio nel 1681, con la pubblicazione presso Girolamo
Mutii della sua opera I, le dodici Sonate a tre. Solitamente si annoverano le composizioni
incluse nelle opere corelliane di numero dispari al genere della sonata da chiesa e di
numero pari al genere della sonata da camera. Le sonate da chiesa presentano movimenti
“astratti” con denominazione solo agogica (Grave, Allegro, Adagio, Allegro) mentre le
sonate da camera sono costituite da movimenti identificati da nomi di danze, introdotti da un
preludio (Preludio, Allemanda, Corrente, Gavotta oppure Preludio, Corrente, Sarabanda,
Giga) e dalla struttura bipartita con cesura interna e ritornello, che invece nello stile da
chiesa non è presente.
Per Corelli, più che di sonate da chiesa e sonate da camera, è più corretto parlare di Sonate
nello stile “da chiesa” e “da camera”; queste opzioni discendono dalla teoria seicentesca
dello stylus ecclesiasticus, contrapposto allo stylus cubilaris (da cubiculum, camera).
In Corelli l’architettura delle sonate si fonda sul principio chiaroscurale della dialettica fra
tipi di composizioni contrastanti (lento-veloce, mesto-allegro, forte-piano). Ad esempio nelle
sonate nello stile “da chiesa”, il progetto formale corelliano si fa regolare con quattro
movimenti, di cui una sonata è costituita presentando una duplice successione lento-veloce,
mentre a livello macrostrutturale agisce l’opposizione binario-ternario.
Fra le numerose opere di Corelli ricordiamo anche l’opera V di sonate a violino solo e l’opera
VI di concerti grossi. la prima contiene dodici sonate, sei nello stile da chiesa e sei nello stile
da camera e fra queste troviamo la Sonata n.12, detta “Follia”, realizzata a partire da un
popolare tema di origine iberica.
Non si può dire che Corelli inventi qualcosa di nuovo; in molti casi egli mette più
efficacemente a frutto preesistenti risorse, trasformandole in elementi di linguaggio
importanti.

“Anfione dei nostri tempi”: Corelli “regolatore” d’orchestra e


architetto di suoni
Corelli venne lodato da Charles Burney, musicologo inglese per il “nice management of the
band”, lo “uncommon accuracy of the performance” e la capacità di ottenere un’esecuzione
simultanea da parte del corpo degli archi: da ciò si evince che Corelli sia ai primordi della
storia della direzione orchestrale e che regolò con grande perizia i complessi di archi e fiati.
Il frontespizio dell’opera VI di Corelli è molto interessante: Concerti grossi con duoi violini e
Violoncello di Concertino obligati e fuoi altri Violini, Viola e Basso di Concerto Grosso ad
arbitrio, che si potranno raddoppiare: da qui comprendiamo che la natura fonica e
compositiva di questi brani si fonda sulla contrapposizione fra un gruppo di solisti e
l’orchestra, ma il concerto avviene non solo nel contrasto o alternanza fra pochi e molti, fra
soli e tutti, bensì anche fra elementi opposti pertinenti ad altri aspetti del comporre
musicale: lento-veloce, forte-piano, acuto-grave, stile severo e coreutico.
L'alternanza e la mescolanza di questi e altri elementi crea effetti di chiaroscuro che
diverranno elemento fondante del barocco romano. L'architettonicità percepibile della
composizione corelliana permise alla musica strumentale, soprattutto quella orchestrale, di
acquisire un significato e una decifrabilità per l’ascoltatore del tempo, di essere avvicinata
alle arti razionali e di acquisire quindi piena dignità di cittadinanza fra le arti belle.

Dall’Italia all’Europa: l’autonomia stilistica della Francia


Nell’Europa musicale fra Cinque e Seicento cominciano a emergere espressioni artistiche
autonome, distinte da quella italiana. Molti musicisti d’oltralpe scendono in Italia e ritornano
in patria colmi di esperienze (un esempio è George Friedrich Handel) e iniziano a sviluppare
secondo la propria individualità e grazie alle realtà autoctone, nuovi stili. Questo processo
accade in due casi principali:
● Francia: la Francia espresse scelte stilistiche e tipologie di repertori musicali
autonome, anche nello specifico ambito della musica strumentale
● Germania: per tutto il Cinque e Seicento continuò ad assorbire l’influenza della
musica italiana e a rigenerarla tramite l’attività di individualità artistiche originali e
importanti fino a Johann Sebastian Bach
● Un altro caso invece, è quello dell’Inghilterra, dove è in auge il repertorio liutistico di
John Dowland e la lettura tastieristica di Tallis e Bull. Questi repertori e queste
pratiche, estranei alla coeva produzione di musica strumentale sul continente, sono
di grande importanza per il processo di formazione del gusto inglese che culminerà
con l’opera di Henry Purcell.
La Francia del periodo però, a differenza del resto d’Europa, può vantare un’organizzazione
politica e sociale fortemente centralizzata e accentratrice. Fra i più importanti musicisti
francesi nell’età del Re Sole vi è il fiorentino Giovanni Battista Lulli, francesizzato in
Jean-Baptiste Lully.
Distinzione e differenze stilistiche fra musica francese e italiana iniziarono ad essere ben
percepite già nel corso del Cinquecento. La chanson francese ebbe caratteristiche ritmiche e
tessitura polifonica che la distinsero nettamente dal coevo madrigale polifonico e la resero
facilmente adattabile a esecuzioni strumentali.
La letteratura musicale francese si distingue molto da quella italiana soprattutto per i diversi
repertori praticati, infatti i francesi avevano un grande interesse per la danza, che si
propagherà per tutto il Settecento: mentre in Italia furoreggia l’opera, in Francia ci si diletta
con i ballets de court; la musica strumentale francese si arricchisce soprattutto di danze
strumentali per liuto, cembalo o assieme di archi e fiati.
La natura prevalentemente coreutica della musica francese da un lato è conseguenza
dell’importanza rivestita dal ballo, dall’altro della radicalizzazione della componente
metrica presente nel rapporto testo-musica nella chanson polifonica: lo stile musicale che
ne deriva presenta una forte rigidità ritmica e naturale propensione per la regolare
scansione metrica esatta dalla musica per danza.
Se la musica cembalistica è diffusa e ricercata, la musica strumentale d’assieme in Francia
è soprattutto impiegata in occasioni protocollari, rituali o di intrattenimento, inoltre il minor
sviluppo del violinismo in Francia fa sì che le prime sonate per violino di autori francesi
arrivino solo a partire dal 1695.

Dall’Italia all’Europa: Antonio Vivaldi e lo stile italiano in


Germania
Per certi versi la Germania presenta un assetto territoriale simile all’Italia, divisa in regioni
politicamente indipendenti e religiosamente divise secondo il principio del “cuius regio, eius
religio”; questo aspetto determinò che l’influenza italiana fosse più forte nelle regioni
cattoliche del Sud e che al Nord si sviluppò di più l’influsso francese. Il frazionamento
territoriale favorì la creazione di cappelle musicali e ciò determinò un incremento della
domanda di professionismo musicale, e fra le figure troviamo quella del Kapellmeister.
Fra i maggiori responsabili della italianizzazione della musica germanica vi fu un importante
musicista veneziano, Antonio Vivaldi.

Antonio Vivaldi
Vivaldi ebbe una vicenda tormentata, insegnò violino alle “putte” dell’Ospedale della Pietà di
Venezia, tentò la strada del compositore d’opera, suscitò le ire dell’autorità religiosa, lui
prete, per una sconveniente convivenza con la cantante Annina Girò e morì povero a Vienna
dove si era recato sperando di ottenere l’appoggio dell’imperatore Carlo VI. La precarietà di
questo stato di cose non gli impedì di conseguire fama internazionale e di essere, alla fine,
più determinante di Corelli nel marcare di italianità lo strumentalismo europeo.
Vivaldi, nell’ambito della sonata per organico cameristico si pone sulla scia di Corelli, mentre
nell’ambito del concerto solistico sviluppa modelli adottati da Giuseppe Torelli: il concerto
vivaldiano è in soli tre movimenti, secondo la sequenza veloce lento veloce. In Vivaldi non
si è integrazione o interazione fra un concertino e un concerto grosso, bensì vi è un solista
che si staglia protagonisticamente sull’accompagnamento di un’orchestra relegata a un
ruolo più marginale e ripetitivo. Il concerto vivaldiano è scomponibile in sezioni distinte,
giustapposte secondo una logica che veda l’area tematica iniziale proposta in tutti
alternarsi a sezioni solistiche fra loro poco o nulla affini; l’incipit è quasi sempre anche
l’explicit del movimento e le riprese interne sono abbreviate.
Molti dei concerti composti da Vivaldi, presentano una struttura generale e strategia
compositiva analoga ma con dimensioni più ridotte e maggiore semplicità di articolazione
e invenzione delle sezioni interne. Vivaldi poté replicare infinite volte quel modello,che
garantiva facile smercio e incontrava il gusto del pubblico.
Diversi dei concerti di Vivaldi recano dei titoli descrittivi, a cominciare dai famosissimi
Concerti delle stagioni; titoli come Il Cardellino, La notte, La caccia, La tempesta di mare,
oltre ad avere un forte richiamo commerciale, mostravano che Vivaldi condivideva l’idea che
la musica potesse rappresentare realtà extra-musicale, associando fenomeni sonori a
fenomeni atmosferici e ambientali.
L’interesse e la passione per la musica vivaldiana non solo dei musicisti ma anche dei loro
nobili, trovano conferma nelle notizie relative all’entusiasmo provato per le esecuzioni di
Vivaldi dal re Federivo IV di Danimarca e dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo.

La fusione degli stili nazionali: Johann Sebastian Bach


Johann Sebastian Bach, sommo esponente della musica tedesca è importante nel suo
ruolo di assimilatore di stili francese e italiano e per la creazione di un distinto stile tedesco.
Nativo di Eisenach, Bach era figlio, fratello e nipote di musicisti; formatosi in famiglia si
perfezionò come organista e violinista nella Germania del Nord, dove prevaleva il gusto per
lo stile francese ornamentato e ad Amburgo dove dominava uno stile severamente
contrappuntistico. Ebbe i primi incarichi stabili come organista e a questa attività si riferisce
la produzione tastieristica giovanile per organo; inoltre Bach si cimenta nell’esercizio della
retorica musicale, distaccandosi dall’istintivo descrittivismo dei francesi per applicare la
teoria degli affetti (affektenlebre): questa teoria mira a razionalizzare le relazione fra stato
d’animo e armonica musicale e a fissare precise corrispondenze fra figure musicali e affetti.
Bach fu poi a Weimar, dove affrontò lo studio scientifico della musica francese e italiana,
infatti fra il 1713 e il 1714, Bach trascrisse per cembalo trentacinque concerti, grazie ai quali
“il concerto nello stile italiano”, risuonò improvvisamente alla corte di Weimar e Bach ebbe
modo di familiarizzarci.
Nell’agosto del 1717, Bach lascia Weimar e passa a Cothen, con l’incarico di Kapellmeister
alla corte del principe Leopold; qui l’attività di Bach compositore di musica strumentale
conobbe il suo vertice, avendo alle sue dipendenze un Collegium Musicum, composto da
sedici validi strumentisti ed essendo esentato da prestazione relative alla musica liturgica.
Bach dedicò i Six Concerts avec plusieurs instruments, ovvero i celeberrimi Concerti
brandeburghesi, a Christian Ludiwn, fratello del defunto re di Prussia Federico I.
Nei concerti Brandeburghesi ravvisa l'arte della sintesi fra esperienze stilistiche diverse tipica
di Bach; i concerti sono per diversi strumenti, intesi come composizione concertistiche in cui
ogni parte è eseguita da un solista: ad esempio il terzo concerto per tre violini, tre viole e
violoncelli richiede esattamente nove esecutori. Questo avvicina i Brandeburgesi al
concertismo francese ma la forma complessiva è quella del concerto all’italiana in tre
movimenti veloce-lento-veloce.
Più semplici e più “italiani” sono i concerti per violino e quelli per altri strumenti solistici, al
contrario esplicitamente francesi sono le quattro ouvertures per orchestra o le formidabili sei
suites per violoncello solo.
Bach si dedica anche alla produzione didattica per cembalo che avvia il principiante: per lo
stile francese le suites, per quello italiano i preludi e per quello tedesco le Invenzioni e le
fughe del Clavicembalo Ben Temperato.
A Bach dobbiamo anche l’invenzione di un nuovo genere: il concerto per cembalo e
orchestra, che ebbe subito successo, giungendo nelle mani di Haydn, Mozart, Beethoven.
Le ultime opere di Bach sono quelle didattiche e teoretiche: nella fase conclusiva della sua
attività da compositore Bach recupera forma da lui trascurate, come la variazione, e le
riconsidera infondendo in loro la scienza compositiva: ciò accade soprattutto nelle
Variazioni Goldberg, ma anche nelle Variazioni canoniche sul canto natalizio “Vom
Himmel noch” e nell’Offerta musicale.
Infine l’Arte della fuga, opera mitica per la sublime astrattezza del pensiero
contrappuntistico in essa rifuso (non è prevista alcuna esplicita destinazione strumentale),
per l’impiego del nome dell’autore a formare le note del terzo soggetto della penultima fuga
(B A C H -> Sib - La - Do - Si) e infinie per la sua simbolica incompletezza, manca l’ultima
delle ventiquattro composizioni polifoniche previste e la penultima è interrotta a battuta 239.
Questo carattere teorico, filosofico e scientifico prende il nome di “stile tardo”: una fase
culminante e riflessiva del processo creativo e un recupero di forme e di stili ormai superati.

Capitolo 5

Il sacro in musica. Luoghi, repertori e stili da Palestrina a Bach


Nella cultura ebraico-cristiana di età moderna, il sacro rappresenta un ambito di applicazione
naturale per la musica, intesa come preghiera, rito. La musica sacra si sviluppa
progressivamente dal tardo Medioevo alla prima età moderna parallelamente al crescere del
potere politico ed economico delle istituzioni e delle forme di governo all'interno della
Chiesa.
La liturgia è per sua natura fissa e immutabile (o quasi) pertanto la musica applicata al sacro
mostra un’artificiosità volta più all’ornamento del rito che all’interpretazione del testo: ciò
conferisce alla musica sacra, e in particolare alla musica per il servizio liturgico, un ruolo di
“servizio” e una ripetitività, almeno fino a quando la nascita di repertori paralleli, devozionali
e spirituali come l’oratorio, e la conseguente contaminazione con lo stile proprio di generi
appartenenti all’ambito profano, non aprono anche a questo versante del professionismo
una prospettiva stilistico formale maggiormente dinamica.
Il periodo di massima espansione artistica del repertorio sacro è compreso fra l’età del
Concilio di Trento (1545) e la morte di Bach (1750).
Roma e Giovanni Pierluigi da Palestrina: continuità di una
tradizione
Nell’ambito della musica sacra del Cinquecento, Roma ha grande importanza, innanzitutto
perché era ricca di chiese, molte delle quali dotate di sviluppate cappelle musicali. Tra le
cappelle musicali romane, primeggiava quella del Collegio dei cantori pontifici, poi detta
Cappella Pontificia o Sistina, ovvero la cappella privata del papa: di questa facevano parte
cantori di altissima qualità, di provenienza francese, fiamminga e spagnola; avevano il
compito di eseguire le musiche durante le celebrazioni religiose o le occasioni diplomatiche
alle quali era presente il papa. Le altre cappelle erano quelle delle basiliche maggiori: San
Giovanni in Laterano, San Pietro in Vaticano e Santa Maria Maggiore.
La grande tradizione di istituzioni musicali connesse alla Chiesa di Roma crearono la “scuola
romana”, che si protrasse per diverse generazioni, a partire da Giovanni Pierluigi da
Palestrina, Giovanni Maria e Giovanni Bernardino Nanino. Inoltre sorse, intorno alla metà del
Cinquecento, la Congregazione dei musici di Santa Cecilia, una delle corporazioni che
disciplinava tutti gli eventi musicali della città: da questa congregazione derivò poi l’odierna
Accademia di Santa Cecilia.
La caratteristica peculiare della scuola romana su una spiccata tendenza conservatrice, che
pensava a una tradizione stilistica immutabile unita a una realtà linguistico musicale in
continuo sviluppo: il risultato fu il formarsi di un repertorio diviso fra conservazione stilistica e
ibridazione a contatto con la modernità. In questo contesto fu attivo Giovanni Pierluigi da
Palestrina.

Giovanni Pierluigi da Palestrina


Giovanni Pierluigi da Palestrina, che con le sue opere divenne un punto di riferimento e un
modello per tutti i compositori e i musicisti d’Europa, è definito come “Princeps musicae”
poiché visto come grande personaggio e salvatore della musica polifonica. Il periodo di
maggiore attività del musicista coincise con i lavori del Concilio tridentino.
Le ragioni per cui il Palestrina divenne così celebre stanno anche nelle strategie che egli
seppe adottare per promuovere la propria produzione musicale. Dal Seicento e fino a tutto
l’Ottocento si è erroneamente attribuita al solo Palestrina la paternità dello stile
“osservato”, che è invece il prodotto dell’intera generazione di compositori a lui coevi. Esso
è caratterizzato dalla tendenza a semplificare i dotti e complessi procedimenti compositivi
dei franco-fiamminghi in favore di una maggiore trasparenza ed equilibrata linearità della
tessitura contrappuntistica, aggiungendo anche degli elementi tipici della tradizione
italiana: la varietà armonica e la cantabilità delle linee melodiche.
Uno dei primi grandi studiosi di Palestrina, Knud Jeppesen, ha individuato tre regole generali
riguardanti la dissonanza generalmente rispettate nello stile del musicista
● gli urti fra le note dissonanti sono posti sul tempo non accentato della battuta
● la nota dissonante è introdotta e lasciata per grado congiunto
● due o più voci non possono muoversi contemporaneamente, nota contro nota, verso
una dissonanza senza che quest’ultima sia preparata
Di questa maniera stilistica da Palestrina fu l’esponente emblematico, ma non il creatore: del
resto Palestrina non perseguì l’obiettivo di uno stile personale e originale, bensì quello di
elaborare un linguaggio musicale che adempisse al meglio alla funzione per cui era stato
concepito: servire la Chiesa.
Da Palestrina fu membro fondatore della Congregazione dei Musici di Santa Cecilia, e
insegnò al Seminario Romano; nel 1577 ebbe da Gregorio XIII il compito di effettuare una
revisione del repertorio gregoriano, progetto che fu completato solo in parte.

La messa polifonica è una forma musicale che comprende l’intonazione dell’insieme dei
cinque canti dell’Ordinarium Missae: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Essi
costituiscono la parte della liturgia eucaristica il cui testo rimane immutato durante l’anno
liturgico, a differenza del Proprium Missae, dove i testi dei vari canti cambiano volta per
volta.
Alla Messa polifonica si deve riconoscere una posizione singolare nella storia della musica,
poiché il suo testo, può essere considerato come il più musicato negli ultimi sette-otto secoli.
Nel corso del tempo la messa manterrà sempre la sua funzione liturgica, acquisendo anche
valenza artistica con Bach, Beethoven, Verdi, fino a divenire nell’Ottocento un’opera
musicale autonoma da eseguire nelle sale da concerto.
Nel Cinquecento, la messa fu palestra per l’esercizio e l’esibizione delle abilità compositive
possedute dagli autori: il risultato da perseguire era quello di un’opera dotata di intrinseca
unità musicale nonostante fosse costituita da cinque sezioni.
Palestrina compose oltre cento messe, con un corpus molto diversificato; ad esempio il suo
Missarum Liber Primus, contiene cinque composizioni a quattro voci l’una, l’ultima a
cinque; due messe poi sono basate su cantus firmus gregoriano. La tecnica di comporre su
cantus firmus preesistente ha origine antica, X- XI secolo, quando a un canto monodico si
iniziò ad aggiungere una nuova linea vocale (organum duplum e discantus).
Tre delle composizione del primo libro di messe di Palestrina invece sono costruite secondo
la tecnica dell’imitazione: in questo caso un intero brano polifonico preesistente viene
riutilzzato come base per comporre uno o più canti della messa. Questa tecnica conosce
ampio impiego proprio nel periodo in cui, in Italia, i concetti di imitazione trovano piena
espressione nel fenomeno letterario e sociale del petrarchismo.
Altra tecnica ancora è quella che prevede l’uso di un soggetto libero, il cui materiale
compositivo è del tutto originale, ne è un esempio la Missa Papae Marcelli.
Oltre alle messe, Da Palestrina compose quasi quattrocento brani in forma di mottetto e altre
centinaia di composizioni di carattere sacro.
Nonostante nell’età di Palestrina la musica sacra ufficiale sia quella polifonica, la forma di
canto più diffusa e utilizzata nel Cinquecento è il “canto gregoriano”, ovvero l’insieme di
preghiere, in latino, su melodie di origine medievale, cantate all’unisono; questo canto
liturgico, detto “cantus planus” è costituito da una singola linea melodica, le cui note (i
neumi) non hanno un valore determinato poiché il ritmo è determinato dal testo verbale.

Riforma luterana, Riforma cattolica


Fra Cinque e Seicento la musica da chiesa iniziò a conoscere sviluppi sempre più
rimarchevoli: il motivo principale fu il Concilio di Trento.
Con la Riforma Luterana rimase intatta l’organizzazione del calendario liturgico ma i
cambiamenti radicali vennero introdotti nei contenuti teologici: uno degli aspetti innovativi
riguardava l’attiva partecipazione dei fedeli alle funzioni liturgiche, da qui l’uso della lingua
tedesca, per la divulgazione della parola divina che avviene in due momenti fondamentali: il
sermone e i canti. Lutero, musicista, attribuì grande importanza alla musica: attraverso il
canto doveva realizzarsi la compartecipazione attiva dei praticanti al culto.
Alla finta riformistica dei paesi tedeschi seguì la reazione della Chiesa romana, la quale
perseguì una politica sia di revisione sia di conservazione. Con il concilio di Trento il
papato riconfermò i dogmi fondamentali del cattolicesimo e condizionò il corso storico della
cultura artistica, letteraria e musicale. Con il concilio si decretò l’imposizione di regole sullo
stile e sulle forme compositive da utilizzarsi nella liturgia, per espellere alcune pratiche
abusive: si impose il divieto di utilizzare melodie improprie, di origine profana e si richiedeva
attenzione per l’intelligibilità del testo utilizzato, affinché risultasse comprensibile, anche
nell’ordito polifonico.
La produzione polifonica che si può effettivamente ricondurre alle disposizioni conciliari non
ebbe grandi sviluppi: alcuni compositori scrissero secondo le norme, come Animuccia,
Ruggo, Porta e Asola, con uno stile accordale e declamatorio, di facile esecuzione.
Lo stesso Palestrina però non potrebbe definirsi aderente alle disposizioni Chiesa, infatti
continuò a produrre musiche nel proprio consolidato stile e a utilizzare cantus firmi tratti
anche dal repertorio profano.
La riforma cattolica non produsse solo iniziative conservatrici: le disposizioni conciliari
portarono anche alla didattica della musica nei seminari, come quello Romano e nei collegi
religiosi, soprattutto quelli dei Gesuiti, ordine fondato da Ignazio di Loyola. Anche nei locali
chiamati “oratori”, solitamente annessi a una chiesa, cominciò a svilupparsi una particolare
tipologia di mottetto, in forma di dialogo, che prenderà il nome di oratorio o historia sacra.
Funzione fondamentale dell’oratorio è la divulgazione della Bibbia e del Vangelo,
parafrasati in volgare nei testi musicati. L’oratorio in volgare è diviso in due parti separate da
un’omelia e tra i personaggi dialoganti annovera quasi sempre un narratore, detto historicus.

Dal Rinascimento al Barocco: la diversificazione degli stili


compositivi
Nel Seicento si affermò una nuova concezione dell’armonia che comportò progressivamente
l’abbandono della modalità in favore di una nuova organizzazione dei suoni secondo una
logica protonale. Le nuove tendenze vennero contrapposte alla musica del secolo
precedente.
Gli elementi distintivi delle “nuove musiche” possono essere sintetizzati così: la
diversificazione degli stili musicali. Se nel Cinquecento esisteva una sola pratica
compositiva, lo stile osservato, ora si definiscono maniere compositive ed esecutive diverse
e si vengono a creare classificazioni sistematiche delle tipologie stilistico musicali le cui
caratteristiche dipendono dal linguaggio compositivo utilizzato, dall’organico, e dall’ambiente
di fruizione.
I nuovi stili sono accumunati da alcune caratteristiche:
● Tessitura polifonica sorretta da basso continuo, generalmente affidato all’organo
● Linguaggio musicale con uso di dissonanze, fioriture, alterazioni e modulazioni
● Principio del “concertato”: le diverse parti della tessitura polifonica ora laternano
organici variabili, costituiti sia da voci sia da strumenti. A questo tipo di
organizzazione del discorso musicale si contrappone lo stile detto “pieno”
Alla fine del Cinquecento, prendono piede due diversi orientamenti per quel che riguarda gli
organici vocali e strumentali: da una parte si tende ad accrescere il numero di parti, che
possono giungere fino a sedici, trentadue (suddivise in più cori: in questo caso si parla di
policoralità , tecnica originata a Venezia nel Cinquecento) e dall’altra si ha una riduzione
della parti vocali al di sotto delle quattro unità: tali composizione fornivano un repertorio
adatto alle piccole cappelle, costrette a cantare composizioni per organico vasto
eliminando parti vocali, con grave pregiudizio per l’esecuzione.

I centri di produzione di musica sacra in Italia: Roma, Venezia e


Napoli
Roma: le indicazione del concilio vennero disattese, il Collegio dei cantori pontifici fu l’unico
che continuò a mantenere una condotta tradizionalista e conservatrice. Nella cappella del
papa, si continuarono a cantare sia musiche del Cinquecento sia nuove composizioni in stile
osservato.
Roma e le sue cappelle risultarono attrattive per molti musicisti forestieri, che si trasferirono
per studiare o per trovare occupazione: fra questi Alessandri Scarlatti e il figlio Domenico
che ricoprirono ruoli di grande rilievo: il primo fu maestro a Santa Maria Maggiore, il secondo
della Cappella Giulia.
Motivo di attrazione fu senz’altro la varietà di stili e di generi che l’uso locale permetteva di
praticare, fra questi ebbe uno straordinario sviluppo la policoralità con cui si potevano
realizzare composizioni monumentali. Tali composizioni fiorirono proprio nel periodo di
grande espansione dell’arte barocca romana, ed è stata sottolineata la stretta connessione a
Roma fra musica e architetture barocche.

Venezia: altro polo rilevantissimo per l’attività musicali in italia lo fu anche per la musica
sacra: l’istituzione musicale più importante della città fu la cappella ducale della basilica di
San Marco, inizialmente gestita da autorevoli maestri fiamminghi come Adrian Willaert e
Cipriano de Rore, passò poi in mano di italiani come Gioseffo Zarlino.
La polifonia che si sviluppò a Venezia faceva uso di formazioni a più cori combinati con
strumenti musicali, il cui impiego a Roma era generalmente vietato.
Dal 1613 fu maestro di cappella in San Marco uno dei musicisti più importanti della storia
musicale italiana: Claudio Monteverdi. Il compositore nelle messe utilizzava un linguaggio
polifonica composto, tipico dello stile osservato, seguendo le tracce dei maestri fiamminghi,
mentre per le altre composizioni esibiva tecniche proprie dello stile moderno, unendo gli
strumenti alle voci, creando passaggi di canto virtuosistico a voce sola.
La musica sacra che Monteverdi compose dal 1613 per Venezia si colloca nell’ambito dello
stile pieno o concertato, con qualche attenzione anche per la musica a cappella.
Oltre Monteverdi, ricordiamo Alessandro Grandi, che ebbe un ruolo rilevante nello sviluppo
del mottetto monodico, e Francesco Cavalli, allievo di Monteverdi, celebre per l’attività nel
teatro in musica.
Ma Venezia non è solo San Marco, oltre le chiese avevano un ruolo considerevole i quattro
ospedali della città, luoghi ove erano ospitate le “putte”, fanciulle orfane o provenienti da
famiglie povere, alle quali si insegnava la musica. Insegnò lì anche Antonio Vivaldi,
compositore di opere sia liturgiche che extraliturguche; lo stile dei suoi brani è connesso
all’organico vocale e strumentale: lo stile concertato, è adottato per le composizioni con
solisti, coro e orchestra; l’arioso o il recitativo sono invece presenti nelle composizioni con
una voce solista.

Napoli: nel Cinquecento Napoli conobbe un incremento delle attività musicali, a cominciare
dalla Reale Cappella di Palazzo, guidata da maestri di origine spagnola e fiamminga, poi nel
Seicento da musicisti italiani. Anche a Napoli ebbero un ruolo rilevante i quattro
conservatori, equivalenti degli ospedali veneziani, fondati tra il 1537 e il 1589.
Il maggior contributo all’affermazione del mito della scuola napoletana si deve a un non
napoletano: Giovanni Battista Pergolesi, che si dedicò alla produzione operistica e alla
musica sacra.

Dall’Italia all’Europa: tradizioni parallele e influssi reciproci


Nella musica sacra di corte, nella Francia di Luigi XIV, si sviluppò un apparato cerimoniale
che si distacca dalla liturgia ufficiale: il culto viene officiato quotidianamente alla presenza
del re con la Messe Basse solennelle: messa bassa perché celebrata sottovoce e solenne
perché con un apparato sfarzoso. Questa messa comprendeva tre composizioni: il grand
motet, eseguito nella prima parte della celebrazione, concepito per organico completo della
cappella reale con voci soliste, un doppio coro e l’orchestra, poi il petit motet e la pirère
pour le roi, per poche voci soliste in stile concertato con basso continuo. A conferire il
carattere solenne alla messa era il Grand Motet, che non aveva nulla a che vedere con la
liturgia, ma si configurava come una forma di celebrazione del monarca. Fra i compositori di
Grand Motets ci fu Jean-Baptiste Lully, personalità più influente nella Francia del Re Sole.
In Inghilterra la tradizione polifonica di Tallis e Byrd fu drasticamente interrotta fra il 1649 e
il 1660 dalla Prima rivoluzione inglese: la musica fu bandita dalle chiese e le cappelle
musicali delle cattedrali vennero soppresse; con la restaurazione di Carlo II Stuart, la musica
sacra tornò in auge, ma avviata in due direzioni diverse: da una parte riprestinati i cori nelle
cattedrali, il repertorio polifonico a cappella venne ripreso e accresciuto con diverse raccolte
di anthems e dall’altra si attuò una riforma istituzionale stilistico compositiva, promossa da
Carlo II che fece costruire una Royal Chapel, a imitazione della frances Chapelle du Roy e
promosse la composizione di una nuova tipologia di anthem per voci soliste con finalità
celebrative. In questo caso l’autore di riferimento è Henry Purcell, anche se un altro
importante compositore fu Georg Friedrich Handel, compositore tedesco che completò la
propria formazione in Italia e nel 1711 si trasferì in Gran Bretagna, dove rimase per tutta la
vita. Handel viaggiò molto ed ebbe la possibilità di affinare in loco le proprie abilità. A Londra
ebbe grande successo prima con l’opera, poi con una particolare tipologia di oratorio,
differente dai modelli tedeschi e italiani, poiché su testo inglese, con particolare rilievo alle
parti corali in ossequio, in quanto il coro era rappresentazione della comunità, del popolo;
inoltre era privo di scene e costumi, anche se concepito per essere eseguito nei teatri.
L’oratorio handeliano non ha funzioni liturgiche, ma è una cerimonia che attraverso le
Sacre Scritture celebra il popolo inglese e il potere monarchico.
Oltre ai soggetti tratti dal Vecchio Testamento, Handel compose alcuni oratori su tema
mitologico o di soggetto allegorico e moraleggiante.

Diversa la situazione in Germania, dove la musica polifonica italiana si amalgamò con le


tradizioni autoctone, facendo sviluppare vari generi della “Musica figuralis”, ovvero
produzione polifonica d’arte affidata al coro professionale.
Questa produzione denota la predilezione specificamente per alcuni modelli stilistici di
origine veneta, come gli squarci di policoralità, ricorrenti nella musica di Schutz, il
Kapellmeister di Dresda e autore di un ampio corpus di composizioni mottettistiche, nel
quale padroneggia tutti gli stili compositivi.
Con Monteverdi, Schutz, aveva familiarizzato nel 1628 quando era tornato a Venezia
durante il magistero marciano cremonese, da cui adotterà poi lo stile concitato.
La sintesi degli stili compositivi: Johann Sebastian Bach
Bach compose buona parte della sua produzione sacra nel periodo in cui si era trasferito a
Lipsia per ricoprire il ruolo di Cantor della chiesa di San Tommaso.
Uno dei generi che Bach compose è la cantata: brano destinato al domenicale servizio
liturgico luterano. Bach ne compose presumibilmente oltre trecento, anche se ne sono
sopravvissute circa centonovanta. A Lipsia Bach compose cantate probabilmente per cinque
annate liturgiche complete, anche se ne rimangono solo tre. Le cantate si articolano
solitamente secondo un’alternanza di cori, arie, ariosi e recitativi a volte preceduti da una
sinfonia strumentale. Bach era solito disseminare la sua musica di riferimenti al significato
del testo, secondo un complesso sistema di convenzioni e simboli che si sviluppò già nel
corso del Seicento, la teoria degli affetti, al fine di ottenere una compartecipazione
dell’ascoltatore al servizio liturgico.
Nell’ambito della produzione sacra di Bach, ha un ruolo di assoluto rilievo la Messa in Si
minore BWV 232, una delle sue poche composizioni in lingua latina. Questa Messa ebbe
una genesi molto complessa: i venticinque numeri in cui sono suddivisi i cinque canti
dell’Ordinarium Missae vennero composti in momenti differenti. Il nucleo originario della
Messa fu concepito intorno al 1733 per essere offerto al nuovo Elettore di Sassonia, il
cattolico Federico Augusto II.
Con la sua architettura sonora, la Messa si configura come un’antologia di tutti gli stili, i
generi e le tecniche compositive conosciuti da Bach, concentrati insieme in un ampio
polittico. Nonostante tale complessità, l’opera mantiene un eccezionale senso di coesione.
Quest’opera è definibile come “multifunzionale”: si ha l’idea di universalità della MEssa, per
cui non può essere considerata luterana o cattolica, bensì ecumenica, cioè rivolta a tutti i
cristiani. Sul piano musicale lo stesso concetto si manifesta con l’integrazione di elementi
stilistici e formali diversi, tanto che per alcuni studiosi questa Messa rappresenta il vertice
del processo di sintesi compositiva raggiunto da Bach.
Dopo Bach i grandi compositori si accosteranno al genere sacro meno frequentemente: la
musica per il teatro e quella prettamente strumentale assorbiranno gran parte del loro
interesse. Dal secondo Settecento la musica sacra perderà gradualmente il suo legame
profondo con il rito e la celebrazione per orientarsi verso la spettacolarizzazione.

Capitolo 6 L’italia in Europa: il Settecento


operistico

Opera del Settecento: teatro fossile?


L'opera italiana beneficia nel XVIII secolo, di amplissima diffusione nelle sue diverse
tipologie (seria, comica, tragica), tanto da affermarsi come la pratica culturale italiana più
condivisa su scala europea, nonché la più adattabile a scenari storici mutevoli. Nel
Settecento la visione di spettacoli operistici divengono parte fondamentale dei tours che
richiamarono in Italia viaggiatori d'oltralpe. Libretti d'opera e raccolte teatrali a stampa
prendono posto sugli scaffali dei collezionisti di mezza Europa e Metastasio (Roma
1698-Vienna 1782) diviene il poeta più letto, imitato e ristampato. Il dibattito intellettuale
sull'opera e sulle sue molteplici riforme si ricava un proprio spazio nella critica letteraria
italiana.
Lo spettacolo d'opera italiana fra Sei e Settecento necessitava alcune condizioni: il luogo
teatrale:luogo d'elezione seppure non l'unico per l'opera era il teatro detto appunto
"all'italiana", la sua struttura, costituita da platea ben distinta dal palcoscenico e palchetti
distribuiti su più ordini e all'epoca illuminato dalla luce delle candele durante tutto lo
spettacolo. Vi sono poi casi di opere concepite per altri luoghi teatrali come giardini, sale
private.
Troviamo inoltre la questione dello spettacolo d'opera nel suo complesso, costituito non solo
d'opera, ma anche, d'intermezzi comici o di balli pantomimi collocati negli intervalli fra gli
atti. La serata d'opera assumeva quindi una lunghezza considerevole. La lunga permanenza
a teatro era resa accettabile da varietà e replicabilità.

Nell'opera del Settecento la vocalità si profila come un sistema misto, costituito da voci
femminili (contralto e soprano), perlopiù per ruoli femminili e da voci maschili (basso e
tenore), assegnate ai ruoli maschili di personaggi autorevoli, attempati, crudeli o
semplicemente minori, e nel genere serio da voci di castrato.
In certi casi vennero assegnati pure ruoli femminili a travesti: è il caso dei palcoscenici
romani in cui non poterono esibirsi le donne.

Percorsi di compositori
Il teatro musicale in lingua italiana del Settecento, è da intendersi come un macrofenomeno
sviluppato da autori appartenenti a varie generazioni, in diverse fasi storiche,
contrassegnate da un proprio linguaggio drammatico.
La cornice temporale si estende grosso modo dalla generazione di Alessandro Scarlatti
(1660-1725) a quella di Giovanni Simone Mayr (1763-1845) o di Gaspare Spontini
(1774-1851).

Il melodrammamelodramma e la composizione musicale non potevano garantire al tempo


alcuna sicurezza economica per i compositori, producendo perlopiù retribuzioni onorifiche
e non stipendi periodici. Quella dell'operista non fu quindi un'attività compositiva esclusiva
bensì si affiancò ad altre specialità - musica sacra, oratori, cantate, feste teatrali
encomiastiche, musica strumentale.
In Italia le città più importanti per il teatro musicale sono per il teatro musicale furono Napoli,
Roma e Venezia. Napoli, grande capitale mediterranea, , durante la breve reggenza
asburgica e e fino a Ottocento inoltrato è fu centro formativo d'eccellenza presso i suoi
quattro conservatori di origine cinquecentesca e grazie al e San Carlo, teatro di corte aprì
a un pubblico internazionale dal1737. .Diverso è
Dil caso di Roma: una tappa di passaggio obbligata per numerosi artisti, non di rado
provenienti da Napoli e diretti a nord, oppure semplicemente attratti dalle lopportunità
offerte; . Raramente costituì un orizzonte ultimo, una sede definitiva per l'operista
d'elezione.
Infine Venezia, ,venuta meno solo nel 1797 con la caduta della Repubblica, vanta, al pari di
Napoli, proprie tradizioni formative nel Settecento soprattutto presso gli Ospedali. . Venezia
costituisce invariabilmente un traguardo professionale anche per le opportunità derivate
da quegli stessi istituti musicali e per l'esistenza di una cappella ecclesiastica in cui da
sempre la musica esercitava un ruolo fondamentale: San Marco.
Nel La fissazione delle norme e dei principi che regolavano il genere serio si deve a Silvio
Stampiglia, Pietro Pariati, Apostolo Zeno e Pietro Metastasio. si deve nel primo trentennio
del secolo a Silvio Stampiglia, Pietro Pariati, Apostolo Zeno e Pietro Metastasio.
Nei libretti di Ranieri de' Calzabigi per Gluck (soprattutto in Orfeo ed Euridice, 1762 e
Alceste, 1767) si consolidarono gli afflussi del teatro francese determinando la cosiddetta
"riforma"; negli anni Ottanta-Novanta..

Percorsi di opere
La ricaduta artistica derivata dalla circolazione dei compositori è presto evidente: la musica
dei veneziani o dei napoletani la si poteva ascoltare ovunque in Italia e all’estero. Gli autori
d’opera italiani poterono cimentarsi con le evolute orchestre tedesche o accostarsi al mondo
teatrale francese.
Per quanto riguarda le opere nel genere serio, a circolare furono i libretti, mentre la musica
veniva più spesso riscritta in loco.
I repertori e le banche-dati odierne consentono di stilare lunghe liste di libretti operistici e
relative presentazioni, infatti capitava spesso che si replicassero le opere in stagioni o luoghi
diversi e quindi partiture già impiegate in passato nella forma originaria, venivano modificate
dallo stesso autore o sommate a musiche di altri compositori.
In alcuni casi, neppure la notorietà e il valore artistico furono sufficienti a garantire la
sopravvivenza spettacolare di un’opera: l’Olimpiade di Pergolesi, elogiata come oggetto di
studio, conobbe un successo assai contenuto e fugace a teatro, subito incalzata da ulteriori
novità.
Diverso il caso del genere comico nelle sue varie accezioni: in quel caso a circolare furono
anche le partiture e il nome del compositore finì, di conseguenza, a prevalere su quello del
librettista. Ciò non toglie che lo stesso testo, come avveniva nel serio, potesse essere
musicato da altri compositori; l’intonazione di riferimento resta tuttavia una, in genere la
prima.

Testi e paratesti dell’opera: un libretto


La struttura del libretto d’opera italiano è altamente standardizzata anche a livello
editoriale. Reca informazioni su autori, interpreti e altre maestranze fino in certi casi ai nomi
dei singoli orchestrali e dei ballerini.
Prendiamo come esempio il Mesenzio, re d’Etruria di Casorri/Bianchi, dato a Napoli nel
1786.
Il frontespizio reca in sequenza il titolo del dramma, il genere (dramma per musica), talora il
nome del librettista, l’occasione e il luogo. Seguono stampatore ed anno di pubblicazione.
Nelle due pagine successive la dedica dell’impresario ai sovrani e poi l’Argomento,
indispensabile per la comprensione del dramma. Seguono le mutazioni, cioè i cambi di
fondale e di scenografia; la tavola riproduce qui il susseguirsi degli eventi in scena (atto I,
ballo I, atto II, ballo II). Seguono nomi e qualifiche di scenografo, macchinista e costumista,
poi il corpo di ballo, elencato secondo una precisa gerarchia. Si ha poi la descrizione
dell’Ezio, il primo ballo eroico, il più importante dei due, diviso a sua volta in cinque atti. A
pagina 21 del libretto troviamo il secondo ballo, comica per consuetudine, collocato dopo il
secondo atto dell’opera. Nella pagina seguente troviamo il cast dell’opera, con la
partecipazione di un celebre soprano. Nel corsivo a piè di pagina troviamo il compositore
dell’opera, Francesco Bianchi. A fronte inizia il testo del dramma. L’opera è solo un tassello.

Testi e paratesti dell’opera: una partitura


L’opera italiana prodotta in Italia nel Settecento pressoché mai raggiungeva la stampa,
costosa e inutile. In certi casi inoltre, vigeva la consuetudine di depositare presso gli istituti di
formazione musicale la copia d’obbligo di quanto si realizzava in teatro; le collezioni erano
quindi aggiornate delle ultime novità. Per la produzione la conservazione ci si avvaleva solo
del manoscritto.

La drammaturgia del genere serio: intreccio, peripezie, scrittura


poetica, stesura musicale
La drammaturgia dell’opera seria accusa una singolare condizione. Il testo verbale non va
privo di aspirazioni letterarie e drammatiche per sè stesso: un testo di Metastasio potrebbe
essere semplicemente recitato; in questo senso il poeta di teatro è il primo drammaturgo
dell’opera e il compositore apparentemente non lo è, poiché rileva un testo già definito
quanto a contenuti e già approntato nell’assetto drammatico e ha spesso così poco rilievo
persino nella presentazione a stampa del libretto. Tuttavia il pubblico dell’epoca si reca a
teatro per la musica.
Se il poeta è drammaturgo di primo livello e il musicista di secondo, questi è anche il
responsabile ultimo della filiera compositiva: la resa finale del dramma e l’onere del suo
successo sono a carico suo e degli esecutori.
Alla nascita dell’Accademia dell’Arcadia (1690), il poeta di teatro rigenera la propria
scrittura su dettami stilistici e linguistici rinnovati; fra i poeti per musica nel corso del secolo
furono Stampiglia, Zeno, Metastasio, Monti. Anche grazie a loro ci fu un rinnovamento del
melodramma che uscì amplificato nelle forme poetiche e più lineare nella trama dei drammi
mediante il contenimento delle peripezie secondarie.
La scelta del soggetto è la prima mossa effettuata dal poeta. Il genere serio, trova
fondamento negli storici classici, nei poeti dell’antichità, nei tragici moderni e nell’epica di
lingua italiana. Affiorano l’esaltazione di valori individuali, in cui la corte di turno che andava
a teatro poteva vedersi ritratta: vi sono ad esempio la fedeltà incorruttibile del sovrano, il
perdono, la rinuncia a un amore illecito, l’eroismo dei soldati.
Prendiamo come esempio l’Olimpiade di Metastasio.
Trama:
Nacquero a Clisthene re di Sicione due figliuoli gemelli, Filinto ed Aristea, ma avvertito
dall'oracolo di Delfi del pericolo ch'ei correrebbe d'essere ucciso dal proprio figlio, per
consiglio del medesimo oracolo, fece esporre il primo e conservò la seconda. Cresciuta
questa in età ed in bellezza fu amata da Megacle, nobile e valoroso giovane ateniese, più
volte vincitore ne' giuochi olimpici. Questi non potendo ottenerla dal padre, a cui era odioso il
nome ateniese, va disperato in Creta. Quivi assalito e quasi oppresso da masnadieri, è
conservato in vita da Licida, creduto figlio del re dell'isola, onde contrae tenera ed
indissolubile amicizia col suo liberatore. Avea Licida lungamente amata Argene, nobil dama
cretense, e promessale occultamente fede di sposo. Ma scoperto il suo amore, il re risoluto
di non permettere queste nozze ineguali perseguitò di tal sorte la sventurata Argene che si
vide costretta ad abbandonar la patria e fuggirsene sconosciuta nelle campagne d'Elide,
dove sotto nome di Licori ed in abito di pastorella visse nascosta a' risentimenti de' suoi
congiunti ed alle violenze del suo sovrano. Rimase Licida inconsolabile per la fuga della sua
Argene; e dopo qualche tempo, per distrarsi dalla sua mestizia, risolse di portarsi in Elide e
trovarsi presente alla solennità de' giuochi olimpici che, ivi col concorso di tutta la Grecia,
dopo ogni quarto anno si ripetevano. Andovvi, lasciando Megacle in Creta; e trovò che il re
Clisthene eletto a presiedere a giuochi suddetti, e perciò condottosi da Sicione in Elide,
proponeva la propria figlia Arista in premio al
vincitore. La vide Licida, l'ammirò ed obbliate le sventure de' suoi primi amori
ardentemente se ne invaghì; ma disperando di poter conquistarla, per non esser
egli punto addestrato agli atletici esercizi di cui dovea farsi prova ne' detti giuochi, immaginò
come supplire con l'artificio al difetto dell'esperienza. Si sovvenne che l'amico era stato più
volte vincitore in somiglianti contese; e, nulla sapendo degli antichi amori di Megacle con
Aristea, risolse di valersi di lui, facendolo combattere sotto il finto nome di Licida. Venne
dunque anche Megacle in Elide alle violenti istanze dell'amico; ma fu così tardo il suo arrivo
che già l'impaziente Licida ne disperava. Da questo punto prende il suo principio la
rappresentazione del presente drammatico componimento. Il termine o sia la principale
azione di esso è il ritrovamento di quel Filinto, per le minacce degli oracoli fatto esporre
bambino dal proprio padre Clisthene; ed a questo termine insensibilmente conducono le
amorose smanie di Aristea, l'eroica amicizia di Megacle, l'incostanza ed i furori di Licida, e la
generosa pietà della fedelissima Argen.

Nell’argomento si descrive accuratamente l’intreccio, sviluppando le diverse peripezie e


lasciando gradualmente affiorare alla lettura i nodi drammatici. Gli elementi costitutivi sono:
● Antefatto remoto: c’è un re (Clistene), ci sono due figli, un oracolo nefasto, un
abbandono, ossia una grave colpa paterna e un figlio disperso
● Antefatto recente: la figlia superstite (Aristea) è amata da Megacle, ma l’amore è
osteggiato dal padre di lei, Megacle fugge per dimenticare ma gli viene assalito dai
pirati e salvato da Licida, creduto figlio del re di Creta; Megacle contrae quindi un
debito di sangue
● Nuovo antefatto: Licida aveva amato Argene, ma il redi Creta contrasta questo
amore e Argene, come Megacle, fugge per dimenticare e si dà alle selve nelle
campagne nei pressi di Olimpia
Seguono altri nodi drammatici:
● altro antefatto e altra fuga per dimenticare: Licida, affranto per la perdita di Argene,
si reca a Olimpia a seguire le celebri gare. Nel Settecento illuminista l'amore è il
sentimento più forte ma quello meno inconsolabile: saputo del premio offerto al
vincitore, la mano di Aristea, e vista la giovane, Licida se ne invaghisce e decide di
farla propria;
● un problema pratico, esposto anche nelle prime scene del dramma: Licida non ha
alcuna abilità nei giochi; totalmente all'oscuro del vincolo d'amore intercorso fra
Aristea e Megacle, opta per la frode sportiva e decide di chiedere all'amico - che da
parte sua niente sa del premio in palio di gareggiare per lui sotto mentite spoglie.
Il nodo principale è che Licida si innamora della donna del migliore amico. Amore vs
amicizia.
Relativamente alla stesura drammatica, il dispositivo metrico-poetico più rappresentato nel
dramma di tipo metastasiano è il recitativo, la libera alternanza di endecasillabi e
settenari non vincolati a rapporti di rima né raccolti in strofe.
Il registro vocale dei diversi ruoli viene subito identificato e garantisce ai personaggi
immediata riconoscibilità. I recitativi più rilevanti possono anche prevedere, a esclusiva
volontà del compositore, la presenza degli archi o verso la fine del secolo anche dell’intera
orchestra.
Se di recitativi ne abbiamo in ogni scena, le arie, minoritarie per numero complessivo,
costituiscono tuttavia la sostanza musicale-drammatica di ogni opera ove il cantante fa
sfoggio delle proprie abilità e della capacità di muovere gli affetti del pubblico.
Si utilizzava, dall’ultimo ventennio del Seicento in poi, la cosiddetta “aria col da capo”, o
pentapartita, caratterizzata dalla duplice ripetizione, con articolazioni espressive diverse,
della prima strofa (A, A1), dalla rapida e spesso contrastante singola intonazione della
seconda (B), seguita dalla ripresa della prima parte (ossia A A1), variata dal cantate di turno
(il “da capo”).
Le arie possono essere anche “a solo”, cioè espressione di un solo personaggio, tuttavia
possono anche mantenere la finalità di trasmettere un messaggio agli altri interlocutori in
scena. La compresenza attiva di due personaggi nell'ambito di uno stesso pezzo chiuso,
produce una vivace drammatizzazione interna; al confronto serrato segue un climax dove
si acuiscono le divergenze per ciò che riguarda la situazione drammatica.

Drammaturgie alternative: Haendel e Gluck

George Friedrich Haendel


La sua formazione fu composita; dopo Amburgo e le prime esperienze giovanili, frequentò la
Firenze tardomedicea, contrassegnata dalla propensione per il teatro francese, poi Roma e
Napoli. L’esordio londinese è contrassegnato dall’epica: Rinaldo, su libretto di Giacomo
Rossi, dove rielabora liberamente episodi tasseschi dalla Gerusalemme liberata.
La strada prediletta dal compositore è quella favolistica di Orlando, Arianna, Ariodante,
Alcina.
Haendel aveva sicuramente una preferenza per il pubblico inglese, per il quale creava
spettacoli che concedessero alle dimensioni visive-sonore maggiore libertà, con una
corrispondente semplificazione del dettato poetico originale.
A fronte di un gusto retrospettivo per lo spettacolo barocco, si ha invece un assetto formale
primosettecentesco, contraddistinto dal modello dell’aria col da capo e dall’assoluta
prevalenza di arie a solo rispetto ai duetti.
Nell’ottica musicale le costanti nelle opere haendeliane sono: la configurazione formale
standard nei pezzi chiusi, arie a profusione, numerosissime in ogni opera e per i singoli
personaggi; impiego nella arie di un organico tendenzialmente di soli archi o anche di
violini e basso; l’uso di strumenti solisti è sempre drammaturgicamente orientato.
Ogni aria ha una propria connotazione: per andamento e rimo, talora attingendo ai modelli
delle danze stilizzate in uso nelle suites strumentali di cui Handel vanta un’ampia
produzione.
L’aspetto delle opere di Handel è disomogeneo: questo fu un elemento di forza che
contribuì a rigenerare l’interesse del pubblico. Il Rinaldo, opera giovanile, solo nella prima
scena presenta tre arie che letteralmente abbagliano l’ascoltatore da tre diverse prospettive:
l’invocazione al rigore militare di Goffredo, l’esortazione al coraggio di Almirena diretta al
promesso sposo Rinaldo e la reticenza amorosa di lui.

Christoph Willibald Gluck


Il suo esordio di operista fu nel 1741 con Artaserse per Milano. La volta però fu determinata
dall’incrocio professionale a Vienna col poeta e polemista Ranieri de’ Calzabigi. Con Gluck
si determinò nei primi anni Sessanta una svolta decisiva al teatro musicale: con Orfeo e
Euridice ma soprattutto con Alceste, si delinearono i tratti di una nuova concezione
operistica, riassumibili nei seguenti punti: preferenza per soggetti grecotragici, impiego
preferenziale dei recitativi strumentati e viceversa contenimento del recitativo semplice,
scrittura vocale rispettosa del testo poetico con conseguenti limitazioni nell’impiego di
colorature, partecipazione della danza. I modelli di tale assetto furono individuati nel genere
della tragédie lyrique, e numerosi fra letterati e musicisti si confrontarono con questa
tendenza. Da cui nasce un mito storiografico, quello della Riforma Gluckiana, intesa come
anello di congiunzione fra l’opera settecentesca e il concetto romantico di
Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale).
La penetrazione nel repertorio dell’opere di Gluck in Italia fu resa difficile e intermittente a
causa del sistema produttivo che verteva ancora sui cantanti e quindi sul virtuosismo
vocale; trovarono invece una loro naturale acquisizione a Parigi, dove si misero in scena
adattamenti francesi delle sue opere viennesi.
Nelle opere gluckiane di soggetto tragico, le peripezie secondarie che si intrecciano a
quelle principali vengono abbandonate e c’è una tendenza a far prevalere una
focalizzazione assoluta sull’azione principale.

Alceste
Qui la vicenda è essenziale e smisurata al tempo stesso: Admeto, re di Fera in Tessaglia,
sta per morire e morirà se qualcuno non si offre al suo posto. Alceste s'immola per il marito e
per le sorti del regno, è risucchiata dall'Averno ma verrà ricondotta alla vita da Apollo in
veste di deus ex machina. Oltre alla notizia dell'imminente dipartita del sovrano, allo
sconcerto di popolo e congiunti e al segreto proposito maturato da Alceste niente succede,
perché appunto non vi è peripezia secondaria. Non significa che non vi sia azione musicale:
prerogativa del teatro d'opera è il poter tradurre in azione interiore e sonora anche un
atteggiamento sentimentale contemplativo.
Rispetto a un dramma di scuola italiana, che nello scorrimento del testo vive di
accelerazioni (recitativi) e rallentamenti (arie), prevale qui una proporzionata uniformità di
scansione, mutuata dalla tragédie-lyrique.
Aleggia in tutta la tragedia gluckiana una presenza inusuale per il teatro musicale
settecentesco in lingua italiana: quella della morte, decisiva ai fini della condotta
drammatica.
Nell'Alceste gluckiana come nell'antecedente Orfeo ed Euridice - che si riconduce per il
tema prescelto alle origini stesse dell'opera in musica - la morte è non solo un evento
sventuratamente occorso o una prospettiva concreta ma un luogo confinante con gli spazi
umanizzati del dramma, presidiato da entità infernali.
Drammaturgie del comico
Intermezzo e commedia per musica napoletana maturarono a inizio secolo in ambienti elitari
e colti, mentre il comico toscano, si diffuse nell'ambiente accademico degli Infuocati.
L'elemento comico, nel Seicento indistintamente diffuso nei drammi musicali di soggetto
storico o mitologico, è più spesso confinato alla chiusa degli atti, affidata a
frizzanti duetti di coppie comiche specializzate, talora con uso di dialetto
o comunque di linguaggio atteggiante il popolaresco. Da lì all'ideazione dell'intermezzo
(spettacolo autonomo in due parti da porre fra gli atti dell'opera ospitante, spesso edito in un
libretto a sé stante), prima a Venezia poi a Napoli, il passo fu breve. La serva padrona di
Federico/Pergolesi (Napoli 1733) resta il più celebre di questi grazie anche alla querelle che
scatenò fra gli intellettuali francesi a metà secolo; concepita per intercalare gli atti del
Prigionier superbo dello stesso compositore, garantì al comico un primato di notorietà che
forse nessun dramma serio riuscì mai a scalzare.
La costituzione di spettacoli integralmente comici fu tradizione parallela e per gran parte
indipendente da quella dell' intermezzo.
A Napoli attorno agli anni Venti ai Fiorentini si afferma la "commeddeja pe mmuseca", in
napoletano sin dai paratesti introduttivi (lingua colta), altre volte distintamente bilingue,
qualora alcuni personaggi si esprimano in toscano e altri in
un napoletano più o meno attutito.
Il plurilinguismo si manifesta anche fuori Napoli: il dialetto ebbe il sopravvento nel Savio
delirante, "comico divertimento per musica" del librettista-compositore Giuseppe Maria Buini
(Bologna 1726), il bolognese si affianca al toscano ma resta prevalente.
Nel comico il poeta può utilizzare: antecedenti commedie di parola, testi di narrativa,
miscelare fonti diverse a fatti di cronaca, oppure montare vicende originali sulla base di
situazioni generiche.
Gli elementi distintivi del comico sono l’ambientazione locale con l’attualità, il confronto
fra classi, prediligendo i contesti borghesi, il gioco dei registri dato dall’avvicendamento di
parti buffe, serie e mezzi caratteri.
Il tema delle falsità e della menzogna appare prevalente e spesso compare nei titoli: La falsa
magia, Fingere per godere, Il finto medico, La finta amante…).
Il librettista tiene conto dei ruoli - buffo, serio o mezzo carattere per fissare lo stile e l'assetto
della scrittura poetica di recitativi e arie.
Queste ultime manifestano ampia libertà metrica e spesso, a eccezione delle parti serie,
una dimensione pluristrofica per consentire al personaggio di
Vesprimersi con maggior efficacia recitazionale.
Il compositore asseconda la scrittura poetica con forme musicali flessibili:
nelle arie il "da capo" viene progressivamente accantonato o limitato alle sole parti serie;
prevale la stesura musicale continuativa, strofa dopo strofa.
Il dinamismo delle arie trova riscontri anche ad altri livelli dello spettacolo. Dalla metà del
secolo circa i librettisti collocano significativi concertati ad apertura e chiusura d'atto:
"introduzioni" e "finali" che avranno un ruolo importante anche nel rinnovamento del dramma
serio.
Il materiale poetico messo a disposizione da Goldoni è assai fertile in chiave musicale, nel
continuo rimbalzo di rapidi bisillabi, nei giochi di rima, nell'accorta distribuzione di tronche e
sdrucciole, ma spetta al compositore conferirgli sostanza drammatica.
Sgretolamento dei modelli e altri modelli
A partire dagli anni Sessanta, il dramma serio cambia e iniziano a diffondersi forme d’aria
più articolate e scene d’assieme complesse. Ne abbiamo un paio di esempi nell’Adriano in
Siria musicato dal giovane Mayr dove vediamo una maggiore estensione dei versi lirici
assicurati al canto e alla musica e l’amplificazione della dissociazione interna di Adriano. In
buona sostanza una drammatizzazione più articolata.

Capitolo 7 Geografia e pratiche del classicismo


musicale

Un concetto polifunzionale
Il concetto di classicità/classicismo inquadra in musica un orizzonte estetico definito in
un’area geografico culturale: si tratta della musica di area viennese fra fine Settecento e
primo Ottocento. I quartetti op.33 di Haydn e l’Ottava sinfonia di Beethoven sono posti
come estremi cronologici.
Haydn solitamente precede Mozart nelle considerazioni degli storici per la data di nascita
(1732 vs 1756), ma i due furono soggetti a influenza reciproca.
Si individua solitamente, nella produzione strumentale dei maggiori musicisti del periodo,
l’emblema del classicismo musicale e gli elementi della sua definizione stilistica. La
dimensione strumentale infatti gioca un ruolo rilevante anche nei generi diversi dallo
strumentale: nell’opera buffa è in quella seria si mettono a punto dispositivi linguistici e
formali incidenti anche sulla definizione dello stile classico.
La centralità di Vienna per il classicismo musicale è data da tre compositori non nativi di
Vienna e che almeno nel caso di Haydn e Mozart si trovarono a operare a Vienna solo in
alcuni momenti della loro attività. Inoltre il classicismo viennese è influenzato dalla musica
italiana: il pianismo di Clementi, sottovalutato da Mozart, influenzò il giovane Beethoven.
Contrariamente a quanto avverrà nel romanticismo, il compositore settecentesco raramente
prende la parola in dibattiti o proclami: non glielo consentono la sua formazione perlopiù
tecnica, l’inquadramento sociale nella sfera delle maestranze professionali e i vincoli delle
istituzioni di antico regime.
Dal punto di vista culturale e filosofico, per gran parte del secolo e anche fra i Lumi,
predomina un diffuso scetticismo sulla musica strumentale; sonate e sinfonie sono nel
Settecento ritenute mero intrattenimento più che occasione di vero godimento estetico. Per
quanto riguarda gli effetti del pensiero illuminata sulla musica, la produzione teatrale di
Voltaire, Marivaux, Diderot e Madmontel si trasformò per alcuni in materiale di lavoro,
attraverso i libretti d’opera dove si adattavano anche testi originali d’oltralpe.
Al razionalismo del contrappunto, fondato sulla logica e sul calcolo, subentra un pensiero
musicale liberamente animato da principi dialettici a tutti i livelli della composizione (tonale,
tematico, strutturale) dove si raggiunge la sintesi tramite un discorso trasparente e
intelligibile. Anche a livello di contenuti, in Haydn e Mozart, sono forti i nessi con aspetti del
pensiero illuminista.
Fra gli elementi caratterizzanti dello stile classico vi sarà il conferimento di discorsività e
dialettici ai motivi melodici; ai concetti identità e di ripetizione si aggiungono quelli di
elaborazione e contrapposizione. L’allontanamento progressivo ma rapido dai principi
fondanti della scrittura barocca in area tedesca giusta a ridotto della morte di Bach ad opera
dei suoi tre figli maggiori. Il nuovo Empfindsamer Stil ("stile della sensibilità") di Carl Philipp,
Wilhelm Friedemann e altri, giocato sui contrasti e sul chiaroscuro cui iniziano a comparire
anche crescendo e diminuendo), si contrappone alla declinante Affektenlebre ("teoria degli
affetti"), più razionale nella conduzione del discorso musicale dai punti di vista
agogico-ritmico.
"Frasi" e "periodi" innescano collegamenti sintattici e funzioni retoriche affini a quelle del
linguaggio verbale e regolano il senso e l'equilibrio del discorso musicale.
Progressivamente, nella musica del secondo Settecento i motivi tendono a estendersi,
secondo una fraseologia regolare per numero di battute, perlopiù pari di frase in frase e per
multipli di quattro nei periodi più articolati: nell'Allegro con brio con cui inizia la Sonata per
pianoforte in Do maggiore di Haydn Hob. XVI:35 si vede un accurato bilanciamento
interno:

Stabilito un tema dotato di proprio carattere, altri temi si susseguono innescando un


processo dialettico, prodotto dalla natura dei temi stessi e dalle tonalità in cui si affermano o
verso cui si dirigono. Lo schema qui illustrato, costituito da esposizione (e ritornello),
sviluppo e ripresa, prende più modernamente la denominazione di forma-sonata e risulta
una delle strutture di più lunga durata nella storia delle forme compositive. Il modello della
forma sonata non si individua solo nella sonata ma in tutti i generi strumentali.
Ciò che rende la forma-sonata ben distinta è però la sua forte natura processuale: non si
tratta semplicemente di accostare gruppi tematici o sezioni di carattere contrastante, ma di
generare un percorso coeso e fortemente direzionato, dove nella sezione centrale di
sviluppo il compositore gode di ampi margini di libertà nel rielaborare il materiale già esposto
in vista del recupero della Tonica e del primo tema, a inizio ripresa.
La macroforma di sonate, quartetti o sinfonie, ossia la loro architettura complessiva, adotta
infatti criteri di mutua compensazione: all'energia e complessità dei movimenti estremi
perlopiù in forma-sonata, si contrappone la distensione galante, del o dei più brevi
movimenti centrali.

La società dell’ascolto
Che tipo di discorso svolgono i generi strumentali classici? L'esercizio dell'ascolto nel corso
del Settecento va a definirsi in modo stabile per quanto riguarda i luoghi e le occasioni.
Nascono e prosperano stagioni concertistiche a Londra, Parigi e altrove.
Al concerto pubblico si va per ascoltare musica. Fra compositore e spettatori si apre un
canale comunicativo di reciproco ascolto: il successo passa dalla conoscenza dei gusti e
della lingua del pubblico. Il compositore ascolta gli ascoltatori e ne analizza le reazioni; il
pubblico da parte sua appare tutt'altro che silenzioso e partecipa all'esecuzione della
sinfonia con applausi e acclamazioni a scena aperta. Mozart mostra di conoscerne in
anticipo le aspettative tantoché inserisce un passo avvincente al luogo opportuno e lo ripete
strategicamente in chiusa.
Nel genere della sinfonia, nel quale l’orchestra è protagonista, oltre agli archi iniziano a farsi
largo i legni, gli ottoni e le percussioni. Nel concerto per pianoforte e orchestra n22 in Mib
maggiore K482, la ricchezza delle relazioni interne è schematizzata nella tabella. Ogni
movimento ha la sua forma, solista e orchestra si relazionano reciprocamente e di fronte
al pubblico in modo diverso di brano in brano. Inizia a suonare ora la sola orchestra ora solo
il pianoforte.

Se sinfonia e concerto acquistano senso alla presenza di un pubblico, la sonata per


pianoforte o per pianoforte e altro strumento è destinata a musicisti professionisti o
dilettanti, che la eseguono anche solo per loro stessi ove ne siano capaci; il quartetto per
archi ha invece un assetto comunicativo intermedio la fruizione può essere riservata e
domestica.
Il linguaggio adotta quello che si usa definire uno "stile di conversazione" che gli deriva
dall'essere musica d'assieme per strumenti della solita famiglia differenziati per rango e
carattere.
I contenuti di un brano d'epoca classica hanno quindi molto a che fare con la loro
destinazione. Non si coglie nello stile classico l'esibizione di un "io" privato, biografico,
dimensione assente nella cultura musicale settecentesca, quanto piuttosto una costruzione
intellettuale rivolta a un "noi" generato dal contesto e dalle modalità di fruizione. Alla più
antica estetica degli affetti va sostituendosi l'estetica del sentimento per la quale la musica
deve innanzitutto smuovere l'animo, non ritrarlo.

La professione del musicista: Certezze, crisi, aspirazioni


I rapporti con corti o istituzioni religiose sono più fluttuanti di un tempo e se da un lato
subiscono le interferenze delle nuove opportunità che vanno profilandosi ai musicisti,
dall'altro restano appetibili per la sicurezza economica a lungo termine che essi possono
garantire. In ogni caso i compositori sono adesso inclini ad assecondare i propri talenti,
sottomettendoli con maggiore reticenza agli arbitri e ai gusti di un unico datore di lavoro.
L’istituzione di stagioni concertistiche nei maggiori centri d'Europa non sempre mantenne le
aspettative dei musicisti: gli introiti dipendevano dalla possibilità di essere scritturati o di
poter beneficiare di sottoscrizioni che consentissero al concerto di poter essere realizzato
grazie a fondi privati. Fu l'avvio zoppicante della libera
professione che così generosamente premiò i virtuosi del secolo successivo, e del libero
esercizio delle proprie doti esecutive, ben conciliabile con la dimensione dell'insegnamento
privato (a sua volta favorito dalla notorietà guadagnata nella sala da concerto) e nei casi più
fortunati con l'editoria musicale. In questo scenario in bilico fra vecchio e nuovo si dibattono
anche i massimi artisti dell'epoca, Mozart e Haydn. Da loro giungono risposte e reazioni
diverse alle nuove istanze professionali, Haydn è a prima vista uomo di apparato, anche se
l'apparato a tratti gli pesa. Proveniente dalla provincia (Rohrau, Bassa Austria), nei suoi anni
di apprendistato a Vienna conosce la precarietà di giovane ancora lontano dagli ambienti
che contano.
La permanenza di Haydn presso le dimore dei principi si protrasse fino al 1790, e in quei
trent'anni la carriera di Haydn conobbe una naturale progressione senza che ne venisse
mutato il profilo: fu investito del ruolo di organizzatore teatrale delle stagioni estive
organizzate a Esterháza.
Le assidue frequentazioni nobiliari e la stessa sua appartenenza a una corte prestigiosa
divennero un efficace volano in termini di opportunità e il compositore giunse a vendere con
grande abilità imprenditoriale e senza scrupolo alcuno la propria musica simultaneamente a
editori di diverse nazionalità e a sviluppare un parallelo mercato manoscritto, procurando in
proprio ad abbienti collezionisti copie di composizioni già in stampa altrove, o proponendole
su mercati più appartati come la Spagna, dove ancora non esisteva l'editoria musicale.
La storia professionale di Mozart fu l'esito di inclinazioni diverse e diversa pianificazione in
un contesto sociale pure piuttosto dissimile. Una vita da palcoscenico su e giù per l'Italia con
l'amata Aloysia Weber al fianco, sorella della donna che poi sposerà.
Per Leopold, il padre, quella dei sovrani è ancora una presenza rassicurante, garanzia di
posto fisso e amicizie influenti. Ma Mozart nello straordinario decennio viennese in cui il
Salisburghese provò sulla sua pelle gli incerti dovuti a un sistema produttivo ancora precario,
alternando "accademie' a opere teatrali di successo variabile e finendo per accettare di buon
grado un incarico piuttosto secondario a corte, quello di Imperial-regio Kam-mermusikus.
Anche sul piano editoriale Mozart non sfoggiò certo l'abilità di Haydn.
All'indomani della scomparsa di Mozart iniziarono ad apparire gli spartiti a stampa delle sue
opere a Magonza, Lipsia, Bonn, Parigi, alimentando la diffusa cupa credenza che il
successo stesse finalmente per arridergli.

Memoria e sintesi al tramonto del Settecento: le opere viennesi


di Mozart
I generi Mozart li frequenta quasi tutti, oltre al dramma per musica, la festa teatrale (ad
esempio Ascanio in Alba, Milano 1771, in occasione di nozze arciducali), l'opera seria di
ispirazione francese guardando da vicino al modello gluckiano e alla tragédie-lyrique, genere
da cui deriva il testo poetico, anche il Singspiel, e dell'opera favolistica-allegorica (Il flauto
magico).
La cooperazione fra Da Ponte e Mozart viene a configurarsi fin da subito come un sodalizio:
poeta e musicista lavorano dialogando l'uno con l'altro. Realizzano tre capolavori che pur
non progettati come un tutto organico fanno a loro modo sistema sulla base di un universo
intellettuale comune e contraddistinto dai medesimi temi: le tre opere si collocano infatti, più
o meno direttamente, in un sistema produttivo ancora orbitante attorno alla corte di Vienna,
ma senza più seguire il criterio del "rispecchiamento" che aveva orientato la produzione di
drammi al tempo di Metastasio.

Le nozze di Figaro: Da Ponte nel confezionare il libretto tagliò alcune delle tirate più
taglienti nei confronti dell'aristocrazia senza però mutare i contenuti e lasciando intatto
l'intreccio. Il tradizionale assetto del comico, contenuto in quanto a mezzi e
dimensioni, è amplificato a opera di grande respiro. La struttura è in quattro atti anziché in
due o tre, per ben undici personaggi nessuno dei quali superfluo nella condotta dell'azione; il
materiale verbale, frutto del prosciugamento della fronzuta commedia francese, resta
cospicuo per densità) e ricchezza di soluzioni formali concepite a beneficio di una varietà
musicale senza precedenti in una stessa opera. Per quanto riguarda la messinscena, i
numerosi riferimenti materiali ci ricordano che si tratta delle faccende della vita.
Contenuti e personaggi, riconducibili all'ampia casistica tanto della commedia quanto del
genere giocoso, appaiono però innovativi nella caratterizzazione individuale: Contessa e
Figaro sono Contessa e Figaro, non più solo padrona e servitore, legittimando così
l'opinione di chi individua nel teatro mozartiano la nascita del moderno teatro d'opera
anche data la forte presenza del compositore nella confezione del prodotto finale.
Il presente è sempre una prerogativa del comico ma nel caso delle Nozze si spinge a
stabilire un legame dialettico non solo con l'"attualità" sociale e teatrale, ma anche con le
esperienze di visione teatrale di tutto un secolo, che appaiono qui sintetizzate e superate
dall'interno.
Nelle nozze ogni personaggio affronta il futuro col bagaglio di un'esperienza che ha messo a
nudo i propri limiti, in un epilogo che ci appare tanto compiuto quanto
irrisolto.
Don Giovanni ossia il dissoluto punito: il Don Giovanni mozartiano rilegge in chiave
libertina un tema concepito in ambito controriformistico come parabola morale per la
ricorrenza dei defunti.
Il lato tragico della vicenda trova conferma nella prima scena dell'opera, con l'uccisione in
duello del Commendatore giunto in soccorso della figlia Donna Anna, che nottetempo Don
Giovanni travestito aveva tentato di insidiare nell'imminenza delle nozze con Don Ottavio;
ma viene poi rapidamente rimosso, rimpiazzato dalla pirotecnica successione delle
"donnesche imprese" di Don Giovanni e dei suoi abili tentativi di sfuggire alla disperata
Donna Elvira.
L'epilogo dell'opera, dopo l'inabissamento di Don Giovanni, è più ulteriore fattore di
ambiguità che vero lieto fine: nessuno dei superstiti si è fatto giustizia e la giustizia divina
suona in definitiva beffarda per ognuno di loro.
Nella tradizione successiva del dramma, a partire dalla ripresa viennese del 1788, si
preferirà fare a meno di questo finale sibillino, facendo concludere l'opera con la morte di
Don Giovanni.

Cosi fan tutte o sia la scuola degli amanti: L'ultima opera dei due assieme, è questo
dramma giocoso, e pare che a musicarlo sarebbe dovuto essere Salieri.
Don Alfonso è nel Così fan tutte personaggio centrale di una vicenda da lui montata ad arte
e personaggio assai inconsueto: un po' misantropo, un po' filosofo quasi non canta.
La sua lucidità illuministica fa da contraltare all'illusione che obnubila i due giovani Guglielmo
e Ferrando (basso e tenore), pronti a scommettere sulla fedeltà delle rispettive amanti,
Fiordiligi (che si atteggia a "parte seria") e Dorabella. E sulla scommessa - loro andranno per
finta in guerra e si ripresenteranno alle fanciulle travestiti da seducenti soldati albanesi per
vagliarne la fedeltà.
Non si tratta di misoginia pura e semplice, ma di un invito ad accettare pacificamente una
condizione imposta dalla natura, che riduce uomini e donne a banderuole scosse dal vento
del capriccio e delle passioni, così da poter prendere contromisure adeguate che
consentano di sopravvivere agli eventi.

Memoria e sintesi al tramonto del Settecento: gli oratori di


Haydn
Né Mozart né Haydn furono prolifici compositori di oratori anche a seguito della diffusione
numericamente declinante del genere rispetto al Sei e al primo Settecento; si tratta inoltre di
una tipologia compositiva di grande impegno, da non prendersi alla leggera e
apparentemente difficile da rigenerare, dato lo standard convenzionale
degli argomenti trattati. Un esempio è: Musica instrumentale sopra le 7 ultime parole del
nostro Redentore in croce, ossiano 7 sonate con un'introduzione ed al fine un terremoto
(1785), concepita per sola orchestra a beneficio del Capitolo di Cadice in occasione delle
celebrazioni del Venerdì Santo.
L'impianto di base era stato comunque per soli strumenti: dopo la declamazione del testo
latino e il sermone da parte dell'officiante, le "sonate" accompagnavano l'adorazione del
vescovo davanti alla croce.
All’orchestra è assegnata una funzione inedita di commento e di amplificazione,
confidando nella sua capacità di farsi "parafrasi" di un testo: dice le stesse cose ma in altro
modo, tanto da rendere forzata e problematica la sua "riduzione" a oratorio, in
quanto il testo aggiunto a posteriori finisce per limitare l'espansione semantica della sola
musica.
Un altro esempio è la Creazione. Il testo della Creazione è poligenetico e prodotto di
sofisticata sintesi; mette assieme la Genesi per l'imbastitura complessiva, il Libro dei salmi
per le sezioni corali, il Paradiso perduto di John Milton. Se a questo si aggiunge che il
libretto era stato già confezionato, in inglese, ai tempi di Händel e forse a lui sottoposto,
parrà evidente l'estensione storico-estetica abbracciata dal tardo lavoro di Haydn. Nella
Creazione il suo fu soprattutto un lavoro di traduzione e rifinitura a partire da un testo già
impostato, dotato di un proprio equilibrio e pienamente soddisfacente anche a fine secolo.
Nella terza e ultima parte compaiono Adamo ed Eva in uno stato primigenio di perfetta
armonia col mondo e loro stessi. La vicenda biblica adottata da Haydn finisce così per
raffigurare in chiave spirituale, esaltandoli, alcuni degli ideali dell'epoca quali l'assimilazione
dell'uomo alla natura, la sua aspirazione alla luce, il suo farsi parte di un progetto costruttivo
universale. Sono anche gli ideali della Massoneria, cui alludono le ricorrenze del numero tre
(le tre fonti, i tre arcangeli, le tre parti dell'oratorio). Dopo il successo della Creazione fu
Swieten a proporre a Haydn un nuovo soggetto d'oratorio tratto ancora più esplicitamente da
una fonte britannica, the Seasons di James Thomson. Dal contesto compaiono figure
umane prototipiche e fittizie, i contadini Hanne, Lukas e Simon. I tre interagiscono col
mondo sulla base degli spunti che il mondo gli offre: gli eventi meteorologici, le albe e i
tramonti, i prodotti della terra e del lavoro, le stagioni: l'inizio della primavera in apertura di
oratorio è sferzante e drammatico e intende riprodurre il gelo invernale che si rifugia al polo,
lasciando gradualmente sopraggiungere il tepore della nuova stagione. La conclusione
dell'inverno, simmetricamente, è affidata al doppio coro che inneggia alla rigenerazione della
vita in chiave spirituale, e guarda all'imminente primavera. L'assetto circolare della
composizione (come della vita), con rilievo per ciò che è stato e per ciò che non è ancora,
guadagna così una prospettiva filosofica più consapevole.
Il linguaggio musicale è altrettanto eterogeneo e l'opera appare in definitiva come
un consuntivo di un'esperienza artistica che volge al termine. Se fra Creazione e Stagioni vi
fu unità di concezione ciò avvenne anche sulla base di un pensiero filosofico di fondo, che
pose il compositore nella condizione di avvicinarsi attraverso grandi opere e mediante un
codice ora sacro ora profano a una sorta di universalità artistica e spirituale, ciò attiene
all'estetica del Sublime.
Si delinea una progressione nel modo di intendere l'arte e le categorie estetiche, a partire
dalla semplice imitazione che determina bellezza, per giungere allo stupore generato da
quanto di grandioso è presente nelle opere della natura e dalla sua
stessa immensità.
La formulazione teorica di questo principio estetico è pienamente settecentesca; vi si
gettano però i semi di quella che sarà la sensibilità anche musicale romantica.
Capitolo 8 Beethoven

Introduzione
Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770-Vienna, 1827) è una figura centrale del panorama
musicale europeo nei primi decenni dell’Ottocento. Haydn, suo maestro nei primi anni
viennesi, scrive nel corso della vita ben centoquattro sinfonie; Mozart ne comporrà, in soli
trentacinque anni di vita, quarantuno. Beethoven scrive
nell'intera carriera solo nove sinfonie. Sono anni in cui sperimenta. cerca i materiali musicali
del brano, scarta moltissime idee, ne modifica lentamente altre. Questa nuova concezione
creativa, la volontà di costruire la propria carriera come un percorso di sperimentazione e di
ricerca, venne immediatamente notata dai contemporanei. Molti critici cercarono di
sistematizzare in una formula arco creativo
beethoveniano, di identificare delle esplicite "fasi" creative. La più celebre di tali formule
è quella proposta a metà Ottocento da Wilhelm von Lenz, che suddivise
l'opera beethoveniana in tre stili: una fase giovanile, dagli esordi sino al 1801-02; la fase
della maturità, “il periodo eroico del compositore” - il periodo di molti dei capolavori più
celebrati, come la Terza, Ouinta, la Sesta e Settima Sinfonia, le Sonate op. 53, op. 57
(Appassionata), op. Bia (Addi), il Quarto e Quinto Concerto per pianoforte, i Quartetti op. s9,
il Fidelio che arriverebbe fino al 1816 circa; e infine lo "stile tardo", l'ultimo decennio di
attività del compositore nel quale lo stile beethoveniano si fa più sottile e complesso e si
esprime in brani come Ie ultime cinque Sonate per pianoforte, la Nona Sinfonia, la Missa
Solemnis, le Variazioni Diabelli per pianoforte e gli ultimi Quartetti per archi.
Franz Liszt ampliava questa suddivisone in modo e enfatico, definendo le tre fasi
beethoveniane "il Fanciullo - l'Uomo - il Dio".
La concezione beethoveniana è talmente nuova e potente da avere modificato il modo
stesso di intendere e di considerare la musica: alla nascita del compositore, l'opinione
prevalente sulla musica, in particolare quella strumentale, era che essa fosse "l'arte della
piacevolezza"; nel 1810 invece il grande scrittore Hoffmann parlerà proprio della musica di
Beethoven come di una forza capace di liberare emozioni segrete e profondamente radicate
dentro di noi, e di commuovere l'ascoltatore fin nel profondo dell'anima.
La volontà di sperimentare, di superare i confini tradizionali si mostra significativamente fin
dalle primissime pubblicazioni, con le due opere d'esordio, i Tre Trii op. 1 e le Tre Sonate per
pianoforte op. 2 che sono in quattro movimenti, caratteristica che nella musica viennese fino
a quel momento era stata solita di generi più nobili come quartetti e sinfonie.
Beethoven seguirà l'idea di unire le caratteristiche di più generi alla ricerca di un'espressione
nuova, ad esempio unirà sonata e fantasia, fantasia e variazione, fuga e variazione e
variazione e sonata.
Beethoven spesso utilizza le forme e tecniche tipiche della musica
operistica all'interno delle proprie composizioni strumentali, e recuperi a volte forme
strumentali o vocali del passato come la fuga o la canzona. L'esempio sono i sei Movimenti
del quartetto op 139, che riuniscono i caratteri davvero più disparati: dalla
forma-sonata allo scherzo, dalla danza popolare "alla Tedesca" alla cavatina operistica. La
ricerca beethoveniana è quindi anche e soprattutto quella di una suprema sintesi.
Il pianoforte era il centro del "laboratorio compositivo" di Beethoven, lo strumento con il
quale egli si confrontava quotidianamente. Tutte le tappe fondamentali del percorso
beethoveniano vengono annunciate da composizioni pianistiche, come se il compositore
volesse sperimentare novità formali e linguistiche. Comincia con Beethoven il "secolo del
pianoforte": lo strumento diventa il protagonista indiscusso della vita musicale, dapprima in
forma privata, poi anche in senso pubblico.
Le nove sinfonie costituiscono il cuore del repertorio concertistico, le caratteristiche di
questo monumentale corpus sono intanto, l'idea innovativa di alternare sinfonie di
carattere contrastante, a coppie: la monumentale Eroica e la delicata, vitalissima Quarta;
la drammatica Quinta e l'idilliaca Pastorale; la dirompente, "dionisiaca" Settima e la
misteriosa, riservata, profetica Ottava. È particolarmente importante il fatto che queste ultime
coppie di sinfonie siano state composte contemporaneamente. Beethoven afferma così
una nuova concezione dell'opera musicale, la sinfonia diventa un tutto organico, un singolo
organismo che va seguito nella sua totalità. Un altro elemento da sottolineare è
l'ampliamento progressivo dell'organico orchestrale nel corso della carriera del
musicista: la Prima e la Seconda utilizzano l’organico di Haydn. A partire dall’Eroica
Beethoven comincia a introdurre nuovi strumenti.
Dopo la morte di Beethoven, Richard Wagner affermerà che la Nona costituiva la «fine
della sinfonia», il tentativo del genere di superare sé stesso - il futuro, per Wagner, era il
dramma musicale, la propria «opera d'arte totale».
Nell'ambito cameristico, troviamo un corpus monumentale. Dopo Haydn, il quartetto era
quasi per definizione un genere "privato"; Beethoven si accostò con cautela al quartetto: la
sua prima raccolta, i Sei Quartetti op. 18, sarà pubblicata nel 1801, dopo diversi anni di
elaborazione A questa raccolta seguiranno piccoli gruppi di quartetti, gli ultimi dei quali,
furono considerati le più perfette e profetiche composizioni di Beethoven.
Nel campo della musica vocale Beethoven, ci ha lasciato meno opere di molti dei suoi grandi
predecessori: Lieder, cantate, un’opera (il Fidelio) e brani religiosi, fra cui la grande Missa
Solemnis op.123. Abbiamo inoltre gli arrangiamenti dei canti popolari: compose circa
centosettanta, su commissione di George Thomson; si tratta di brani quasi ignorati sia dagli
studiosi ma in realtà è grazie al rapporto con la musica popolare che Beethoven entrò in
contatto con sistemi di organizzazione dei suoni non legati alla tonalità occidentale e alla
dicotomia maggiore-minore.

Opera e biografia
Le opere del compositore sono state di volta in volta collegate tanto alla sordità,
all'isolamento, alle difficoltà affrontate nella vita o nei rapporti con le donne quanto alla
Rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche. Il rapporto tra arte e vita, in un certo senso,
prende forma nella coscienza critica proprio a partire dalla musica di Beethoven.
Per B. fu difficile il rapporto con la famiglia, a partire dal padre, alcolizzato, che avrebbe
voluto farne un fanciullo prodigio sul modello di Mozart. Difficile il carattere, spesso definito
altezzoso, orgoglioso. Difficili anche le scelte di vita, a cominciare dal fatto che Beethoven
volle essere "libero professionista", inoltre, la sordità: malattia che comincia ad affliggerlo
negli ultimissimi anni del Settecento e che si fa progressivamente più forte fino a renderlo
completamente sordo a partire più o meno dal 1815.
La musicologia ha tentato ripetutamente di tracciare un collegamento tra le difficoltà pratiche
nella vita di Beethoven e la sua musica. La musica risolveva tutti i conflitti e le
contraddizioni che la vita del compositore lasciava aperti: ascoltandolo l'impressione di
assistere a una lotta, a un conflitto che viene progressivamente risolto è fortissima.
Nella forma-sonata la musica classica realizzava infatti un mondo sonoro in cui i conflitti
potevano effettivamente essere risolti, e nel corso di un brano si raggiungeva una reale
conciliazione. I tre "classici viennesi" arrivarono addirittura a far dialogare nelle loro
composizioni le diverse classi sociali. La Nona Sinfonia di Beethoven celebra
esplicitamente l'"abbraccio dei popoli", e il "bacio al mondo intero".
Lo "stile classico", insomma, è basato su una convinzione fondamentale: quella che si possa
rappresentare attraverso i suoni un mondo in grado di raggiungere un vero equilibrio.

Il contesto e l’etica beethoviana


Beethoven era cresciuto in un ambiente percorso dalle idee illuministe: attraversò una
entusiastica fase di adesione alla Rivoluzione francese e perfino, inizialmente, una fase di
ammirazione incondizionata per Napoleone. Ma il credo illuminista accompagnò Beethoven
per tutta la vita: scrivendo la Nona negli anni Venti, in un periodo nel quale gli ideali liberali
erano pesantemente attaccati dalle monarchie restaurate dopo il Congresso di Vienna,
Beethoven volle evidentemente
comunicare, nell'affermazione che "tutti gli uomini saranno fratelli", un messaggio utopico.
La più dichiaratamente "illuminista" di tutte le composizioni beethoveniane è senza dubbio il
Fidelio, che sembra voler mettere in scena una critica al sistema carcerario settecentesco,
riprendendo un argomento trattato a lungo dalla saggistica coeva (basti pensare a Cesare
Beccaria): Pizarro, il governatore della prigione, è uno dei personaggi più malvagi creati da
un
compositore, e la sua crudeltà verso Florestan - che egli tiene prigioniero nella più oscura e
profonda delle sue segrete - ci appare motivata solo dalla volontà di vendetta, senza alcuna
altra causa. Il credo illuministico è palese in molti punti del libretto, e per rendercene conto
basta citare una singola frase del monologo di Florestan: «ho detto la verità, e la mia
ricompensa sono le catene».
L’influenza della musica rivoluzionaria sul puro tessuto musicale di molte composizioni
beethoveniane è molto profonda: segnali militari, squilli di tromba e rulli di tamburo vengono
spesso
usati come temi o come interiezioni in molte celebri composizioni del musicista.
Beethoven fu il primo compositore della storia che abbia dichiarato di aver scritto qualcosa
per i posteri, e non
per i contemporanei: quando gli riferirono che l'esecuzione di uno dei suoi ultimi quartetti non
aveva riscosso successo, si limitò a rispondere: “un giorno piacerà”.
Dopo il 1814 Beethoven attraversò un fase di crisi creativa piuttosto lunga, che arriva fino
alla fine del 1817. Una fase di stasi creativa, era una novità; nessun compositore
precedente, né Palestrina né Monteverdi, né Bach, Händel, Mozart, Haydn avevano mai
smesso di comporre, o si erano fermati a riflettere. Beethoven sì, e dopo di lui i "silenzi"
diverranno più frequenti, a cominciare da Rossini.

Il linguaggio
Beethoven arriva a Vienna alla fine di novembre 1792. Il suo protettore a Bonn, il conte
Waldstein, gli aveva scritto sull'album come congedo: «Sia lei a ricevere, grazie a un lavoro
ininterrotto, lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn». Il mito della grande "Trinità" viennese,
Haydn-Mozart-Beethoven, la cosiddetta Prima Scuola di Vienna, nasce anche grazie a
queste parole profetiche.
Accade di frequente che Beethoven citi esplicitamente un'opera di Mozart all'inizio di una
sua composizione; tali citazioni sono presenti in modo particolare proprio in alcune opere
d'esordio: la Sonata op. 2 n. I comincia citando il tema dell'ultimo movimento della Sinfonia
n. 40 K so di Mozart. La grande novità dello stile beethoveniano consiste proprio nella
capacità di ripensare da zero, gli elementi del linguaggio musicale classico, semplificazione
di tali elementi costitutivi nelle opere di Beethoven. L'oggetto principale della semplificazione
linguistica beethoveniana è la melodia. Sono rari in Beethoven i "grandi temi", gli elementi
del linguaggio si fanno invece molto più icastici, immediati, semplici, in molti casi perfino
schematici. Parlando delle opere di Beethoven, si utilizza però il termine “gesto”, che indica
una successione di accordi, una scala, un movimento ascendente o discendente, un
arpeggio, un gruppo di note ripetute, addirittura un ritmo. È a partire da questi gesti che si
sviluppa la musica di Beethoven. Naturalmente questa operazione
richiede una profonda riflessione sulle caratteristiche del linguaggio musicale in sé. Alla
semplificazione in un senso - nella melodia, nella varietà e bellezza delle linee melodiche -
fa insomma da contraltare un evidente, straordinario arricchimento degli altri elementi
musicali messi in gioco; egli riesce concettualmente a scomporre il linguaggio nei diversi
parametri costitutivi, e a considerare questi ultimi sia separatamente che nella reciproca
interazione.
Beethoven comincia fin dalle prime composizioni a riflettere sulle dimensioni complessive
dei brani, che tendono ad ampliarsi in modo incontenibile. Tra le composizioni di questo
periodo si trovano inoltre alcuni dei brani più estesi in forma sonata mai scritti, e il confronto
con opere dello stesso genere di Haydn»
di Mozart è davvero impressionante.
Una delle categorie più potenti del pensiero musicale di Beethoven è il contrasto,
l'accostamento, il confronto tra elementi di carattere opposto di piano e forte, di pieno e
vuoto, di lento c
veloce, accanto alla contrapposizione alto-basso, o vicino-lontano.
L'aspetto più noto e studiato del linguaggio musicale di Beethoven è senza dubbio la
cosiddetta "elaborazione motivica", o "elaborazione motivico-tematica". E molto significativo
il fatto che in un primo movimento di sinfonia (o di sonata) classica si descriva la linea
melodica principale come "tema", e non come "melodia": in analogia al tema letterario e
scolastico, il tema di una forma-sonata è qualcosa da "svolgere", una traccia che permette
diverse possibilità di elaborazione. Un tema deve essere costruito in maniera tale da poter
essere frammentato in "motivi", singoli segmenti che il compositore sfrutta nell'elaborazione.
Le famose quattro note con cui comincia la Quinta riappaiono nel corso non solo del
primo movimento ma dell'intera sinfonia, e a partire da esse Beethoven costruisce le varie
parti della forma. La funzione formale delle quattro note cambia in continuazione, e con essa
cambiano il percorso e il significato estetico del brano: in questo senso il pensiero motivico
beethoveniano è uno degli elementi chiave della "forma come processo".
Troviamo un esempio della ricchezza e la complessità del pensiero motivico di Beethoven
nel primo movimento della Sonata Les Adieux op. 81a. La sonata fu scritta tra il 1809 e il
1810, sul frontespizio del brano, Beethoven scrisse: «L'Addio. Vienna, 4 maggio 1809 per la
partenza di Sua Altezza Imperiale, l'onorevole Arciduca Rodolfo».
Il motivo di base del formidabile primo movimento viene evidenziato dallo stesso Beethoven:
le tre note discendenti (Sol-Fa-Mib) con cui si apre l'introduzione lenta, sulle quali il
compositore scrive le tre sillabe che compongono la parola Le-be-wohl ("addio"). All'inizio
del brano il motivo si presenta quindi come un vero e proprio topos, un "segnale" allo stesso
tempo verbale e sonoro. Lo stesso secondo tema è costituito
dal motivo, naturalmente trasposto alla Dominante (Re-Do-Sib): abbiamo quindi a che fare
con una forma-sonata "monotematica", in cui primo e secondo tema non sono contrastanti
ma, al contrario, sono strettamente collegati tra loro. Lo sviluppo ci mostra un altro
procedimento tipicamente beethoveniano: la "riduzione del motivo", che passa da tre note
a due, poi
a una sola nota ripetuta. L'ultima trasformazione è la più audace: il motivo si divide e si
rincorre, creando l'effetto dissonante di uno scampanio.
La forma sonata è il principio formale attraverso il quale si organizza la maggior parte delle
idee di Beethoven. Si parte da una opposizione, un contrasto nell'esposizione, e si giunge a
una sintesi, una conciliazione nella ripresa. La forma-sonata quindi è un processo. Il
carattere di processo insito nel principio sonatistico è ciò che interessa maggiormente a
Beethoven: per lui il concetto fondamentale è quello del movimento, del divenire.
Seguirà una sezione ancora più movimentata, instabile - lo sviluppo -, che farà quindi
aumentare il senso di movimento, di metamorfosi, di tensione. Questa sezione sfocerà nella
ripresa, ossia nel ritorno del tema iniziale della tonalità di impianto che non avevamo più
ascoltato.
Il potenziale drammatico della forma-sonata è evidente, e Beethoven ne comprese appieno
tutte le possibilità, utilizzandole a fondo in particolare nei primi dieci o dodici anni
dell'Ottocento, quando cioè la sua ricerca era tesa a dare la massima spettacolarità,
monumentalità e senso di risoluzione conclusiva, "catartica" a una composizione.
È importante infine sottolineare una grande differenza tra il pensiero compositivo
beethoveniano e quello dei suoi grandi predecessori: l'approccio problematico alla
costruzione del brano, il fatto che ogni singola opera costituisca la risposta a uno specifico
"problema" compositivo che Beethoven ha ben chiaro fin dall'inizio del processo di
elaborazione.

Lo stile tardo
Le ultime opere di Beethoven sono state da sempre considerate una fase a sé. Il concetto
stesso di "opera tarda" nasce solo a posteriori con alcuni studiosi che proveranno a
identificare lo stesso concetto nelle ultime composizioni di alcuni suoi predecessori, come
Johann Sebastian Bach.
Carl Dahlhaus, nell'esplorare questa categoria estetica ci dice che la modernità delle opere
tarde è, senza dubbio, anticipatrice e profetica.
L'opera tarda è «già alla sua nascita intimamente estranea all'epoca a cui appartiene
esteriormente».
Nel corso dell'Ottocento le opere tarde di Beethoven furono spesso considerate
incomprensibili: alcuni musicisti e studiosi arrivarono perfino a sostenere che la sordità
aveva deformato la percezione beethoveniana; ad esempio Ulibisev, dilettante russo e
scrittore di musica scrisse: “Dal momento che egli non udiva più nulla da molti anni,
produsse delle opere che a lui parevano sublimi nella concezione e nell'armonia, ma che
rimangono lettera morta per coloro che ascoltano con le proprie orecchie!”.
Proveremo a esaminare brevemente le ultime cinque sonate per pianoforte, l’inizio vero e
proprio del “terzo stile. In quattro casi su cinque il movimento iniziale del brano è
straordinariamente contratto, sintetico, compresso:
-op. 101, centodue battute;
-op. I09, novantanove battute;
-op. 110, centosedici battute;
-Op. III, centocinquantotto battute (è la sola, tra le sonate tarde, ad avere un'introduzione
lenta)

Le dimensioni dei singoli movimenti successivi al primo si presentano tutt'altro che ridotte, e
anzi nel confronto con brani del "primo" o del "secondo periodo" beethoveniano esse sono
spesso notevolmente espanse. La contrazione, riguarda proprio la forma-sonata, la forma
all'interno della quale Beethoven aveva costruito la drammaticità del proprio "stile eroico".
Nessuna di queste composizioni si presenta suddivisa in quattro movimenti; è fondamentale
il ruolo centrale che in questi brani assumono forme e tecniche tradizionalmente estranee
alla sonata come la fuga e il contrappunto. Forme e tecniche che il compositore integra alla
struttura della sonata, dando origine a una sintesi tra le più originali. I due aspetti insieme -
ricerca della massima concisione formale e uso di tecniche e forme insolite - provocano
naturalmente effetti dirompenti sull'architettura interna.
Ciò che attraeva Beethoven nella forma della fuga e nella tecnica contrappuntistica era
probabilmente il fatto che essa rappresentava un'alternativa alla tecnica di sviluppo e di
elaborazione motivica.
L'altra tecnica che Beethoven utilizza dappertutto nelle ultime opere, e in particolare negli
ultimi quartetti, è la variazione, una tecnica circolare: la trasformazione in più fasi di un
tema che quindi è sempre lo stesso e sempre diverso da sé. La variazione prende in
considerazione l'intero tema, lo ripete, lo modifica, ne scopre nuove possibilità. La tecnica di
variazione è quindi una riflessione sul materiale musicale, essa implica l'arresto temporale,
l'interruzione della "marcia frontale del tempo".
In molte delle opere tarde la trasformazione del tema è talmente radicale da rimettere
totalmente in discussione il senso della forma: ogni nuova variazione, sembra reinventare
completamente il tema, cambiano il ritmo, la successione intervallare, a volte perfino
l'armonia, come se ogni variazione non fosse solo una nuova "faccia" del tema iniziale ma
una nuova entità.
Le Variazioni Diabelli ci mostrano la stessa varietà che si colora di aspetti ancora più
innovativi e sorprendenti. L'idea rivoluzionaria del compositore è quella di scrivere trentatré
brani totalmente diversi tra loro. Il pensiero archetipico e "labirintico" che è alla base delle
Diabelli dà vita a una composizione unica nel suo genere, la cui caratteristica più importante
è probabilmente la moltiplicazione interna dello spazio e del tempo: è chiara la volontà di
Beethoven di ricercare la massima varietà di atteggiamenti e di caratteri.

Capitolo 9. L’opera italiana nel primo Ottocento


Nei decenni iniziali dell'Ottocento in Italia il melodramma rimase il genere più importante e
rappresentativo sia della musica sia del teatro; tuttavia, l'opera in musica era ritenuta il
genere musicale e teatrale più prestigioso e più significativo. Nel primo Ottocento, l'Italia era
considerata il paese dell'opera molto più che il paese della poesia, del romanzo, della pittura
o della scultura, o per lo meno della poesia, della pittura o della scultura contemporanee.

I teatri
Nel corso del Settecento l'architettura teatrale aveva visto un'importantissima fioritura in
Italia, con la definitiva affermazione e diffusione della sala cosiddetta "all'italiana". Tra gli
edifici più famosi si annoverano il Teatro di San Carlo a Napoli (1737), il Teatro alla Scala a
Milano (1778) e il Teatro La Fenice a Venezia. Di conseguenza ci fu una diffusione
impressionante delle rappresentazioni operistiche nell'Italia del primo Ottocento, che
aumentarono esponenzialmente rispetto al secolo precedente. Inoltre, le rappresentazioni
melodrammatiche avevano luogo con maggiore frequenza e regolarità al Centro-Nord, le cui
regioni erano meglio integrate nel circuito produttivo dell'opera.

Il sistema produttivo e l’impresario


In Italia le rappresentazioni operistiche non erano distribuite equamente in tutti i mesi
dell'anno, ma erano raggruppate nelle cosiddette stagioni. La più importante era quella di
carnevale. I teatri più importanti delle città maggiori tendevano a ospitare più stagioni, ma
c'erano eccezioni, ad esempio Torino, dove al Teatro Regio si potevano vedere
rappresentazioni operistiche solo a carnevale.
La figura fondamentale del sistema produttivo melodrammatico era l'impresario, un uomo
d'affari che prendeva in appalto il teatro dai proprietari per una o più stagioni e organizzava
la produzione e rappresentazione di almeno due titoli per stagione.
Nei teatri maggiori questo spesso comportava mettere sotto contratto un compositore e un
librettista per un'opera nuova; in tutti i casi bisognava trovare una compagnia adatta alle
opere scelte. Il numero di rappresentazioni non era fisso, ma dipendeva dal grado di
apprezzamento che il pubblico avrebbe manifestato nei confronti dei titoli scelti e della
compagnia. Poteva capitare che un'opera venisse rappresentata solo una o due volte, e poi
sostituita perché coperta di fischi. Se l'opera era nuova la si rimpiazzava con un'altra, di
solito già nota al pubblico, che in questo caso veniva definita "di ripiego".
Tra gli impresari più celebri del primo Ottocento c’è Domenico Barbaja (1778-1841), che
operò a Napoli nel secondo decennio
del secolo e a Milano, dove tra il 1826 e il 1832 appaltò insieme ad altri La Scala e il Teatro
della Canobbiana, oltre che a Vienna. Barbaja iniziò la sua carriera teatrale nel 1808 non
come impresario, però, ma come concessionario dei giochi d'azzardo nel ridotto della Scala:
il gioco d'azzardo era infatti una componente importantissima dell'intrattenimento che i teatri
potevano offrire.
Un altro nome fu quello di Alessandro Lanari, il cui nome era legato alla Pergola di
Firenze.

I cantanti e le categorie vocali


La formazione della compagnia era il risultato dell'interazione di molti e complessi fattori,
quali la disponibilità dei singoli cantanti, le loro richieste economiche, la loro fama presso il
pubblico locale, e il rapporto tra le loro caratteristiche vocali e drammatiche e le parti che
avrebbero dovuto interpretare. Nell'Italia del primo Ottocento, come nel secolo precedente, il
pubblico andava all'opera in primo luogo per sentire e vedere i cantanti, che potevano
essere oggetto di manifestazioni di adulazione sfrenata oppure di aggressiva
disapprovazione.
Isabella Colbran (1785-1845), soprano spagnolo, era famosa come interprete di parti regali:
Stendhal scrisse che «non appena appare in pubblico colla fronte adorna del diadema,
incute in tutti un rispetto involontario». Giochino Rossini scrisse per lei tutte le sue opere
serie rappresentate in quel teatro dal 1813 (Elisabetta regina d'Inghilterra) al 1822 (Zelmira).
Giuditta Pasta (1797-1865) aveva una voce molto estesa. La sua immensa fama europea si
basava però sulle sue straordinarie capacità interpretative, in particolare sulle sue doti di
attrice. Lasciò la sua impronta in particolare sulle opere scritte per lei nei primi anni Trenta:
Anna Bolena di Gaetano Donizetti, la Sonnambula, Norma e Beatrice di Tenda.
Giovanni Battista Rubini, tenore, è legato strettamente alle opere di Bellini, che per lui
compose le parti di Gualtiero nel Pirata, Elvino nella Sonnambula e Arturo nei Puritani.
Che un tenore potesse essere annoverato tra i tre cantanti più significativi di un periodo della
storia dell'opera italiana sarebbe stato impensabile fino ai primi anni dell'Ottocento. Fino ad
allora, infatti, la tradizione melodrammatica italiana era dominata dai soprani, fossero essi
donne o castrati. La ragione principale di questa rapida evoluzione sta nel fatto che il tenore
incarnava assai meglio del castrato la nuova concezione dell'identità di genere e, in
particolare, il nuovo ideale di maschilità che caratterizza la modernità vera e propria.

L’editoria
Nei primi due secoli di storia dell'opera italiana, il genere si era diffuso fuori dai teatri in primo
luogo attraverso il libretto a stampa.
Nei primi decenni del secolo, infatti, si assistette in Italia alla progressiva diffusione della
consuetudine di stampare e mettere in vendita la musica dell'opera. All’inizio si trattava dei
pezzi più famosi, arie solistiche e duetti, poi con gli anni Venti, si diffusero anche gli spartiti
completi, cioè di un'opera intera, spesso assemblati rilegando insieme i pezzi staccati
pubblicati in precedenza con quelli preparati per l'occasione. Questo nuovo fenomeno
editoriale è legato alla diffusione del pianoforte: saper suonare il pianoforte era un segno di
distinzione sociale e culturale, di ricchezza materiale ed emotiva.
Il protagonista assoluto della diffusione della musica operistica a stampa nell'Italia del primo
Ottocento fu Giovanni Ricordi.
Nel 1811 divenne lo stampatore ufficiale del conservatorio di Milano, mentre a partire dal
1814 stipulò una serie di contratti con il Teatro alla Scala per la pubblicazione della musica
delle opere fini a quel momento rappresentate, finché nel 1825 non ne acquistò l'intero
archivio musicale. Nel 1842 Ricordi decise di ampliare il proprio ambito editoriale iniziando la
pubblicazione del periodico musicale più importante e influente nell'Italia del secondo
Ottocento, la "Gazzetta musicale di Milano".

La critica
L'anno 1804 costituì un punto di svolta fondamentale, grazie all'apparizione di due periodici
che riservarono fin da subito notevole attenzione al melodramma, il "Giornale italiano" e il
"Corriere delle dame". Un'ulteriore novità apportata dal primo Ottocento fu l'emergere della
stampa specializzata, anche in questo caso Milano occupò un posto di primo piano, dal
momento che fu proprio nella capitale lombarda che si pubblicarono i primi cosiddetti
"giornali teatrali" dedicati quasi esclusivamente all'opera in musica. Si occupavano
soprattutto, ma non esclusivamente, di melodramma: vi si parlava infatti anche di teatro
parlato, di danza, di altri generi teatrali minori, nonché di letteratura.
Il compositore
Fin verso la fine del Settecento l'autore di un'opera era considerato in primo luogo il
librettista, mentre il compositore era colui che rivestiva di note il dramma. Il termine
"librettista" non esisteva: colui che scriveva il testo verbale dell'opera era semplicemente il
"poeta". Il poeta teatrale per eccellenza del XVIII secolo era il Metastasio.
Il termine "librettista" emerse solo nei primi decenni del XIX secolo, e aveva in origine intento
spregiativo: indicava infatti il poetastro, l'imbastitore di versi sgraziati e goffi che il
compositore avrebbe poi messo in musica. A partire da fine Settecento ma soprattutto nella
prima metà del nuovo secolo, invece, il librettista assemblava il testo a stretto contatto con il
compositore e rispondendo a sue precise esigenze, e questo testo veniva per così dire
"esaurito" dalla sua prima messa in musica.
Dal primo Ottocento fino a oggi quando si parla di opera in musica si parla prima di tutto di
compositori.
Prendendo in analisi Rossini, Donizetti e Bellini, per quanto riguarda l'educazione, tutti e tre
impararono l'arte della composizione in contesti plurimi. Rossini e Bellini erano figli di
musicisti e la loro prima istruzione avvenne certamente a casa. La famiglia di Donizetti non
era direttamente legata alla pratica musicale ma il figlio fu inviato all'età di 8 anni alla scuola
di musica aperta in città dal compositore Giovanni Simone Mayr.
Sia Rossini sia Bellini furono particolarmente legati a una città: il primo a Napoli tra il 1815 e
il 1822 e il secondo a Milano tra il 1827 e il 1833. Donizetti invece, anche se risiedette a
Napoli per la maggior parte degli anni Trenta, scrisse parecchi lavori anche per molte altre
città, tra cui Milano, Firenze e Venezia.

Il librettista
Il più famoso librettista italiano della prima metà dell'Ottocento fu
Felice Romani (1788-1865), legato in modo stretto al Teatro alla Scala e in generale a
Milano a partire dal 1813. Iniziata la carriera in quello stesso 1813 con due testi di successo
per li
musica di Giovanni Simone Mayr, La rosa bianca e la rosa rossa e Medea in Corinto, scrisse
quasi tutti i libretti delle opere composte da Rossini per Milano. Il musicista con cui stabili
un'intesa profonda fu però Bellini; delle dieci opere belliniane, Romani fu l'autore dei libretti
di ben sette.
Un altro importante librettista fu Salvadore Cammarano che (1801-1852) fu il librettista più
importante degli anni Trenta e Quaranta, particolarmente amato da Donizetti. In una lettera
del 1835 il compositore spiegava a un impresario l'ingrediente fondamentale di cui aveva
bisogno in un libretto: «Voglio amore, che senza questo i soggetti sono freddi, e amor
violento». E di amore violento, ambientazioni sinistre, cupe atmosfere, soprusi inauditi, dolori
lancinanti traboccano i libretti di Cammarano, che diventerà poi uno dei collaboratori più
importanti di Verdi nel primo decennio della sua carriera.

Lo scenografo
le scene devono contribuire al coinvolgimento emotivo dello spettatore nell'azione. Questo
compito è una novità del nuovo secolo, difficilmente riscontrabile prima degli ultimi anni del
Settecento; le scene devono ora contribuire a creare un mondo immaginario in cui gli
spettatori si immergono.
Lo scenografo più famoso fu il milanese Alessandro Sanquirico. Fu responsabile unico
delle scene per le opere e i balli alla Scala e ne disegnò di numerosissime per gli altri teatri
della capitale lombarda. La fama e l'influenza di Sanquirico furono dovute anche a una
novità di rilievo: nel corso degli anni Venti si pubblicarono le immagini delle scene ritenute
più belle per gli allestimenti operistici nei teatri milanesi: iniziò l'editore Stucchi con tre
raccolte di Incisioni, seguito poi da Ricordi, che tra il 1827 e il 1832 stampò numerosi
fascicoli che riproducevano tutte le scene di un'opera o un ballo. Queste pubblicazioni, che
ebbero larga circolazione, assicurarono alle scene di Sanquirico un'influenza ampia e
duratura sulla scenografia italiana.

I generi
In questo periodo l'opera italiana si articolava in tre generi principali, che possiamo chiamare
"opera seria", "opera buffa" e "opera semiseria". C’era una gerarchia dei generi, che
vedeva all'apice l'opera seria, seguita dalla semiseria e poi dalla buffa. Il fatto che l'opera
semiseria sia collocata al terzo posto è un indizio della sua relativa marginalità: l'incidenza
numerica di titoli appartenenti a questo genere è infatti decisamente minore rispetto a quelle
del genere serio e specialmente del buffo.
Nell'Ottocento, l’opera seria vide affermarsi in modo progressivo ma definitivo il finale
tragico, fino a diventare praticamente un obbligo negli anni venti. Contemporaneamente
diminuirono drasticamente le ambientazioni nel mondo antico, mentre presero piede quelle
medievali e rinascimentali.
Se l'opera seria non era mai ambientata nel presente o nel recente passato, mentre il tempo
di quella buffa era sempre il presente, l'azione dell'opera semiseria poteva svolgersi in tempi
diversi. Tuttavia, la percezione di questi tempi era temperata dalla collocazione geografica:
la grande maggioranza di queste opere si svolge infatti in luoghi come la campagna.

Le forme
Il primo livello di articolazione è quello degli atti, che sono in genere due o tre. Questi sono a
loro volta composti dai cosiddetti numeri, ossia arie, duetti, terzetti, cori e altri pezzi
d'assieme. Le arie, ossia i pezzi solistici, possono prendere a loro volta nomi specifici: il più
comune è "cavatina", che indica l'aria di sortita, cioè letteralmente di "uscita in scena", di
presentazione, di un personaggio.Molte opere, ma non tutte, sono precedute da un pezzo
esclusivamente strumentale, la cosiddetta "sinfonia". d.in sinfonia è seguita da un numero
chiamato "introduzione", che vede la partecipazione del coro e di alcuni personaggi. Il
numero più esteso è il cosiddetto finale centrale, posto alla fine del primo atto se l'opera è
in due atti, oppure in genere alla fine del secondo se l'opera è in tre: i personaggi principali e
il coro si trovano in scena in un momento cruciale dell'azione, in cui la trama raggiunge il
massimo della complicazione narrativa e dell'intensità emotiva.
Ogni numero è articolato al suo interno in sezioni o movimenti, che possono essere più
dinamici ovvero cinetici, ossia contenere azione e dialogo tra i personaggi, oppure più
statici, in cui uno o più personaggi danno voce alle emozioni che le azioni immediatamente
precedenti hanno provocato dentro di loro.
Gli studiosi chiamano la struttura base dei numeri musicali "la solita forma": si tratta di
un'alternanza di movimenti cinetici (C) e statici (S) che nelle arie consiste spesso in SCS, e
nei duetti CSCS, mentre per i pezzi d'assieme a più di due personaggi, introduzioni e finali
centrali è difficile stilare schemi precisi. I movimenti cinetici hanno forme meno prevedibili e
più strettamente aderenti all'azione scenica e al dialogo, mentre quelli statici tendono a
seguirne di più regolari. Un altro principio importante sta nell'andamento dell'ultimo
movimento: esso deve essere in tempo più veloce di quelli che vengono prima, e soprattutto
del precedente movimento statico, in modo da dare un effetto di accelerazione che faccia
aumentare sia la tensione drammatica sia quella musicale.
Esiste inoltre la “forma lirica” che prende piede intorno al 1830 come modo principale di
concepire il rapporto fra testo e musica.
Un esempio semplice e chiaro di "forma lirica" è il Larghetto cantabile che costituisce l'unico
movimento statico della Romanza della protagonista nel prologo della Lucrezia Borgia,
«Come è bello!... Quale incanto»; il movimento è articolato in due strofe (cosa rara) ed è
preceduto da un recitativo, mentre le strofe sono separate da una specie di breve tempo di
mezzo. Lucrezia contempla il figlio Gennaro addormentato: non lo vedeva da quando le fu
strappato da piccolo, e gioisce di ritrovare un bellissimo giovane; la donna si augura poi che
egli non scopra mai la terribile fama di sua madre e quindi la disprezzi.

Come è bello!…. Quale incanto


In quel volto onesto e altero!
No, giammai leggiadro tanto
Non se 'I finse il mio pensiero.
L'alma mia di gioja è piena
Or che alfin lo può mira...
Mi risparmia, o Ciel, la pena,
Ch'ei mi debba un dì sprezzar.

Questi otto versi sono strutturati come quattro unità di due versi ciascuno. Donizetti segue
l'articolazione del testo di Romani e inventa una melodia strutturata in quattro sezioni di
quattro battute ciascuna, che possiamo indicare come A A' BA”. La forma lirica consiste
appunto nell'esposizione di un'idea musicale (A), nella sua ripetizione variata (A'),
nell'introduzione di materiale diverso (B), e in una seconda ripresa diversamente variata
dell'idea iniziale (A"*). In questo caso, i primi due versi espongono un'idea in Mi maggiore
dal profilo melodico piuttosto complesso ma costruita sulla ripetizione della cellula ritmica
udita inizialmente sulle parole «Come è bello!». Il secondo distico è intonato su una
variazione sia melodica sia ritmica dell'idea iniziale, che rimane ben riconoscibile.
Il terzo distico introduce una seconda idea di due sole battute subito ripetuta con qualche
piccola variazione. La risoluzione arriva con le quattro battute successive, una risoluzione
doppia perché si plana sull'accordo di Tonica e perché risentiamo l'idea iniziale, anche se
ulteriormente variata.
La "forma lirica" costituì la soluzione strutturale più frequente per i movimenti statici di
arie e duetti nell'opera italiana per alcuni decenni: molte melodie famose furono costruite in
una delle molte possibili varianti di questo schema di base.

I temi
L'opera buffa non si differenzia molto da quella del secolo precedente nel mettere in scena
amori contrastati da conflitti di generazione e/o di classe, cioè un tema tipico della
commedia occidentale da Menandro e Plauto in poi. L’opera buffa tratta la visione ottimista
e in qualche modo "ingenua" dei rapporti tra gli esseri umani, le generazioni e le classi
sociali.
Il genere che acquistò un predominio fu quello serio. Questa traiettoria si accompagnò
all'affermazione definitiva del finale tragico. In questo caso, la pazzia, specialmente
femminile, è tema ricorrente. Le donne impazziscono perché schiacciate da strutture sociali
e pressioni psicologiche dalla violenza inaudita, che le pongono in posizioni emotive
insostenibili. Gli uomini reagiscono in genere più razionalmente, ma anch'essi sono sconfitti
dalla vita, privati dell'amore o sopraffatti dalle conseguenze delle loro azioni, che non hanno
saputo prevedere.

Capitolo 10 Musica non operistica nell’Ottocento:


concetti, comportamenti, composizioni

"Musica romantica" : il problema storiografico


Secondo alcuni principi dell'arte romantica, come l'individualismo, l'originalità, il
progressismo e il nazionalismo, ogni autore risulta difficilmente riducibile in una cornice
comune, ognuno ha qualche tratto di eccezionalità (principio d'individualismo); ogni
generazione vuole distinguersi dalle precedenti (originalità e progressismo); ogni nazione
vuole costruirsi una sua storia culturale (nazionalismo). Ogni nuova composizione vuole
essere originale e unica, ma al tempo stesso vive in una dimensione storica, che la lega al
passato e al futuro. L’Ottocento ha prodotto una quantità smisurata di musica che non è
entrata nel canone perché non rispondeva a quei principi della «unicità» e del «movimento»
dello storicismo romantico.
Si può parlare di due storiografie musicali, una "monodimensionale" e una
"pluridimensionale": quella fatta di autori, opere, stili e tecniche è una storiografia
"monodimensionale" basata sull'opera d'arte e sulle fonti primarie (le partiture e i
documenti); quella fatta di pratiche sociali, comportamenti, discorsi e attori comprimari è
invece una storiografia "pluridimensionale" basata su vari strati di significato e di funzione e
su diversi punti di vista.
Ultimamente tende a scomparire la definizione di "musica romantica", e si preferisce spesso
il più neutro "musica
nell'Ottocento". Con questa scelta si indica implicitamente che non tutto il sistema della
musica ottocentesca può ridursi ai principi di individualismo, unicità dell'opera e dell'autore,
progresso, ma che anche altri attori e altri principi hanno avuto la medesima rilevanza e
diffusione.
Sin dai primi decenni dell'Ottocento si chiarisce una distinzione fra le culture nazionali.
Mentre l'Italia è occupata soprattutto dal sistema del melodramma, la musica strumentale
trova luogo soprattutto nel contesto culturale tedesco-austriaco, mentre l'ambiente parigino
si mostra più vivace sul piano della relazione fra musica e società, dell'organizzazione
culturale, del mercato, della stampa, della divulgazione e dell'istruzione musicali.
Dopo il 1850 lo scenario cambia: il «nuovo concetto di storia» viene improvvisamente
superato. L'Europa entra in una fase di disorientamento; il fallimento delle illusioni del 1848
provoca il vuoto in un'intera generazione, che in musica trova massima espressione in
Johannes Brahms che viene "lanciato" da Schumann nel 1853 con un celebre articolo
intitolato Vie nuove, che lo valorizza ancora in base al principio del progresso, in linea con
lo storicismo romantico. Nei programmi concertistici di Brahms più del 70% è costituito da
musiche di autori non più viventi, con una posizione preminente assegnata a Bach.
L'estetica di Brahms è opposta quindi alla concezione storicista
precedente: ciò che lui vuole è non "superare" ma mostrare la propria origine.
Nel decennio del Cinquanta, fra i grandi musicisti romantici Chopin, Donizetti e
Mendelssohn sono scomparsi, seguiti poco dopo dall'ormai alienato Schumann; Wagner è in
crisi creativa da cui esce grazie alla filosofia antistoricista di Schopenhauer; Liszt è a
Weimar chiuso nel suo Bund

Musica con aggettivi


Musica romantica: Le qualità distintive della "musica romantica" sono valutate diversamente
dalla storiografia basata su opere-autori e da quella basata più su fattori culturali. La "musica
romantica" impone un ascolto non distratto, o entusiasta fino al fanatismo, o impegnato e
assorto. Il termine "Romantica" si sviluppa anche in relazione-reazione a "musica classica",
definizione anch'essa entrata nell'uso a inizio Ottocento: "classiche" sono le opere che
costituiscono il primo "repertorio di capolavori", nella nascente cultura del concerto moderno.
La "musica romantica" è allora quella che si presenta come conseguenza e rinnovamento
dei repertori classici.
Le arti romantiche sono caratterizzate, secondo Hegel, da alcuni principi comuni: la
«irruzione del contenuto» a discapito della forma, per cui le opere romantiche non sono
oggettivamente perfette e concluse, non «forme esterne a sé» ma «soggettività infinita
dell'idea». Questa indeterminatezza dell'arte romantica trova nella musica la sua massima
espressione.
Riassumendo, il nuovo concetto di "musica romantica" viene distinto
da qualunque altro campo di attività musicale per:
1. distinzione cronologica 1830-50 musica romantica; 1850-1900 musica neo- o
tardoromantica.
2. atteggiamento d'ascolto che essa impone (impegnato); un atteggiamento di ascolto non
limitandosi alla percezione sensoriale.
3. opposizione anticlassica.
4. opposizione alla crescente musica di consumo (musica per l'oggi vs musica per la storia).

Musica assoluta:il concetto nasce e si sviluppa prevalentemente in ambito germanico e


nasconde due accezioni di-
stinte, anzi quasi opposte:
1. è assoluta quella musica che nasce libera nelle forme e nei contenuti dal rapporto con il
testo poetico o con altri vincoli descrittivi o drammaturgici; costruita su una logica interna al
materiale, sull'elaborazione dei temi e sull'architettura complessiva, la "musica assoluta" ha
solo valore in sé;
2. la musica assoluta non è imitazione dei fenomeni, ma "apparenza sensibile di idee"
appunto "assolute", quindi è forma di conoscenza suprema, un'arte che ha un "contenuto"
spirituale non attingibile dalla realtà fenomenica. È la concezione di un'arte come diverso
tipo di conoscenza platonica, conoscenza delle "idee" e dello "spirito";

Musiche "non assolute": Il prodotto più rappresentativo di questa concezione è il poema


sinfonico, termine e genere inaugurati da Franz Liszt nel 1849. I primi due poemi sinfonici
sono la Bergsymphonie e il Tasso. Lamento e trionfo. La concezione della musica a
programma parte dalla convinzione che la struttura musicale possa essere meglio
comunicata e compresa fornendo all'ascolto una traccia narrativa o una serie di analogie
pittorico-visuali. La distinzione fra musica assoluta e non assoluta sta nel contesto culturale:
l’idea di musica assoluta, infatti, si è diffusa in una cerchia di alta borghesia colta molto
autoconsapevole e delimitata (Vienna intorno a Brahms), mentre la musica a programma è
concetto coniato nella Weimar di Liszt e sostenuto nella Lipsia di Franz Brendel.
La musica ben scritta secondo le regole o secondo la funzione occasionale è screditata
come "musica da maestro di cappella", perché risponde a principi non "assoluti", ma
pratici.

Musica con sostantivi


I sostantivi riguardanti il discorso musicale romantico sono: ironia, Humor (umoristico), Witz
(estro), riflessione.
L'"ironia romantica" non indica lo scherzoso né il comico, ma è uno strumento di
autoconsapevolezza dell'artista: significa abbandono e distanziamento, istinto e
riflessione.
Aforisma e frammento: Dopo il 1830 la poetica del frammentismo trova applicazione anche
nella musica, con le raccolte di pezzi brevi: è vero che già Beethoven lascia qualche
raccolta di pezzi brevi (le Bagatelle), ma è il romanticismo che fa dell'aforisma una
delle sue forme principali. L'aforisma è un'illuminazione che in sé, contiene una verità
intuita e immediatamente espressa, totale, assoluta e integrata nell'attimo. L'aforisma è
la negazione del pensiero sistematico, concentrato nel punto, nell'istante
anche musicale. Al contrario, il frammento come dice il termine è ciò che resta di un intero,
e in sé non contiene nulla di compiuto come l'aforisma. Il frammento è necessitato a legarsi
ad altri frammenti, a formare il "sistema di frammenti". Schumann scrive diverse raccolte di
pezzi brevi negli anni giovanili; lo stesso fanno Chopin e altri come Heller, Raff, Hiller.
E ci sono poi casi ibridi, raccolte che è più difficile considerare sistemi ciclici di frammenti o
gruppi di immagini aforistiche, come le Années lisztiane o le ultime opere pianistiche di
Schumann.
Più tardi, quando Brahms inizia le raccolte di pezzi brevi ogni pezzo ha una sua autonomia
e realizza l'idea dell'aforisma in sé compiuto e autonomo.
Brutto e grottesco: (da Google: Il grottesco risulta così essere la differenza specifica dell'arte
moderna rispetto a quella antica, ciò che consente la rappresentazione nell'arte della totalità
molteplice degli aspetti della natura). Schumann usa il grottesco di solito per creare un
"umoristico" contrasto con le parti più sognanti, come si vede dalla Humoreske op. 20.
Forma e stile: Ogni composizione deve avere la sua propria forma, e per questo Schumann
dirà di «giocare con le forme» mescolando forma-sonata e tecnica della variazione, rondò e
fuga, variazioni e tecniche di sviluppo motivico.
Ancor più incisivo è il "problema dello stile" personale: non esiste uno "stile romantico";
"stile" diventa una categoria ausiliaria a quella dell'individualità: ogni nota, ogni battuta, ogni
frase per il compositore romantico deve portare l'impronta stilistica distintiva del suo autore.

Intanto il mondo musicale produce una quantità crescente di musica che non ha nessuno
di questi caratteri, non grottesco, non umoristico, non caratteristico. La musica ottocentesca
non caratteristica è musica che parla alla sua attualità, è la voce di un momento storico, è
musica per il consumo.
Profondità. Filosofia della musica: il superamento della dimensione superficiale, quella
dimensione che si percepisce solo attraverso il senso, a favore della "profondità", attingibile
solo con l'intelletto, è un altro principio dell'arte romantica.
La "filosofia della musica" è basata sul rifiuto del principio di imitazione: l'arte non ritrae
questo mondo, ma parla di altri contenuti, porta a manifestazione il mondo delle idee. Per
questo la musica strumentale, la meno vincolata alla riproduzione o mimesi della realtà,
passa dall'ultimo posto, dov'era nel Settecento, al primo nella gerarchia delle arti.

Comportamenti (pratiche, istituzioni, discorsi)

Il marketplace nella "età del concerto"


Il rapporto fra musica e società muta con lo sviluppo demografico del primo Ottocento,
legato all'affermazione delle classi medie borghesi, del sistema capitalistico e
dell'urbanizzazione. Nasce la nuova pratica del concerto pubblico a pagamento, tanto che si
può chiamare l'Ottocento "età del concerto", per indicare l'età della grande
commercializzazione della musica, della
nuova "industria musicale".
La "cultura del concerto" fu una creazione delle classi medie acculturate; queste classi
intorno al 1830 stanno rapidamente sostituendo l'aristocrazia come principale committente e
consumatrice di musica.
Si possono distinguere tre tipologie organizzative di concerti:
1) l'istituzione fissa, la società concertistica guidata da professionisti.
2) i concerti a beneficio, ossia organizzati direttamente dal musicista spesso
rischiando in proprio.
3) i concerti organizzati da associazioni amatoriali: in Italia era la prassi delle vecchie
accademie filarmoniche nobiliari.
Dopo la metà del secolo si sviluppano altre forme di concerto, caratterizzate dal repertorio e
dall'uditorio a cui si rivolgono: il "concerto popolare" e il "concerto storico".
Il "concerto popolare" nasce a Parigi intorno al 1860, si caratterizza per un prezzo del
biglietto relativamente ridotto, ma soprattutto per la scelta del repertorio, che media fra
sinfonismo storico "di repertorio", sinfonismo più leggero e attualità anche di grande
impegno.
Il "concerto storico" rappresenta invece l'opposta forma di storicismo: è il concerto in cui
l'esecutore specializzato interpreta musiche dei "classici" passati, a discapito delle novità.
Oltre a queste forme di concerto tradizionale, ci sono poi le sempre crescenti occasioni di
ascolto effimero o consumistico, come le sale da ballo a Vienna.

L’attività concertistica I (il concerto sinfonico)


Nei decenni centrali del secolo poche grandi orchestre europee, gestite da organi
istituzionalizzati, autonomi e professionali, hanno determinato la selezione del repertorio di
capolavori da rieseguire.
Questo fenomeno di "classicizzazione" (fissazione dei classici) corrisponde a una
diminuzione di nuove composizioni nei programmi delle maggiori società sinfoniche, con
la conseguenza di marginalizzare il compositore e porre il direttore in una posizione sempre
più prestigiosa.
Sul piano pratico, nel periodo 1830-90 il concerto orchestrale diviene il "concerto
sinfonico" moderno: non più un programma con orchestra alternata a brani solistici come
nelle vecchie "accademie", ma un programma di musica orchestrale comprendente una sola
sezione solistica. Inoltre si può indicare una costante tendenza all'ampliamento degli
organici attraverso il secolo da una media di circa cinquanta-sessanta componenti a quasi il
doppio nel 1900

L'attività concertistica II (il récital solistico e il concerto cameristico)


A Parigi inizia anche il moderno récital pianistico. Nel 1828 arriva il giovanissimo Liszt, nel
1832 Paganini, nel 1836 l'altro grande pianista Sigismund Thalberg. Sono loro a iniziare il
nuovo concerto virtuosistico, non paragonabile alle vecchie "accademie vocali-strumentali"
organizzate-eseguite-ascoltate all'interno della stessa categoria sociale. Il concerto
virtuosistico si basa al contrario su un rapporto di fascinazione, un "rapporto di potere" fra
musicista e uditore. Liszt è l' iniziatore del moderno récital per pianoforte solo,
presentandosi da solo come "uomo-orchestra".
Il successo della figura del virtuoso di strumento in età romantica fa leva fortemente sulla
componente visuale, sulla presenza fisica, sulla corporeità: sia le descrizioni di Paganini e
l'aneddotica luciferina che lo accompagnò, sia le numerosissime fotografie di Liszt e le
altrettanto numerose loro caricature, ci restituiscono la comune considerazione del virtuoso
non solo come un dominatore dei suoni, ma anche come un corpo concreto, visibile, che
nell'esibizione porta un' irruenta componente gestuale e teatrale.

L’editoria, i lettori e la specializzazione


Dopo gli anni Trenta e soprattutto nei Settanta, gli editori maggiori arrivano a numeri altissimi
di nuove pubblicazioni e a tirature fino a migliaia di copie. Negli ultimi decenni del secolo
gli editori entrano in modo poderoso nella gestione di concerti e teatri. Schott a Magonza
ha una voce influente nell'organizzare le stagioni di concerti, dialogando per la scelta dei
programmi con un grande direttore come Nikisch; Giulio Ricordi influenza il maggior teatro
italiano ed entra nel comitato direttivo della Società Orchestrale della Scala (1878).

La pubblicistica: il critico, il giornalista specializzato


Un nuovo mestiere della musica è quello del critico specializzato, che inizia più o meno
dagli stessi anni Trenta. Il tono della critica mediottocentesca è sì retorico e formale, ma
assai più polemico delle abitudini attuali, il che espone il giornalista a dispute anche molto
crude, fino a degenerare in duelli.
A fine secolo si verifica un sostanziale mutamento nella stampa periodica più o meno
avvertibile ovunque: alcuni periodici, anziché trattare l'attualità, il mondo musicale
contemporaneo, pongono al centro la musica del passato; iniziano l'attività riviste già
definibili "musicologiche", che studiano professionalmente la musica in termini
storiografici, filosofici, analitici, filologici non più indirizzate a orientare gli orizzonti di attesa
della collettività; un esempio è la "Rivista Musicale Italiana".
La professione del musicista: arte e mestiere
La professione del musicista cambia radicalmente attraverso il secolo romantico; uno
strumentista si forma perlopiù nelle scuole musicali con corsi di studio progressivi; il corso
di studi prepara a una professione, a fornire strumentisti per le orchestre e le bande della
nazione. Per questo il metodo didattico è di fondamentale importanza. Ogni docente del
Conservatoire è tenuto a stilare un metodo "scientifico" per lo strumento che insegna, e
solo dal 1800 al 1814 sono stampati quattordici metodi.
Per il solista di strumento le cose possono andare diversamente: il più grande violinista
italiano, Paganini, è più o meno un autodidatta e non genera una vera e propria scuola.
Per il compositore il discorso è più complesso. Con la nuova estetica dell'arte non più
imitatrice di modelli trasmessi ma creatrice, il compositore spesso cerca la sua strada fuori
della scuola.
Solo nell'età borghese, e quindi con la formazione degli Stati nazionali, si stabilizza la
forma di scuola musicale sempre più finanziata dallo Stato.

La formazione del musicista


Il modello formativo moderno è ancora quello del Conservatoire de Paris (fondato nel 1795):
il musicista è un cittadino che assume una funzione sociale precisa.
Se si crede che il musicista svolga un'utilità sociale per l'intera cittadinanza, lo Stato deve
garantire la funzionalità dell'istituzione didattica; ogni maestro deve scrivere un metodo,
ogni allievo è sottoposto a esami pubblici periodici.
Nella seconda metà del secolo entrano fra le materie insegnate nei conservatori la storia e
l'estetica della musica. La diffusione di queste discipline anche a livello didattico è
conseguenza dell'interesse per il recupero del passato.
L'Ottocento vede anche figure professionali minori, una di queste è il maestro delle
filarmoniche di provincia, una figura sociale simile al maestro di scuola,p. Questo maestro
doveva di solito insegnare ogni strumento e le basi della grammatica, oltre a dirigere la
banda locale.
Si diffonde inoltre la figura del maestro di musica privato, indirizzato verso le famiglie delle
classi medie.

Il direttore d'orchestra: sintomo di una mentalità che cambia


La moderna arte direttoriale ha almeno tre aspetti radicati nella cultura ottocentesca: il
rapporto con il compositore e la capacità di interpretarne le intenzioni; il rapporto con
l'orchestra, l'autorevolezza verso i professori d'orchestra; il rapporto con il pubblico, la
qualità della gestualità e la capacità di colpire anche visualmente. Troviamo questa
triplice qualità nei più noti fra gli iniziatori dell'arte direttoriale: Habeneck e Angelo Mariani.

Un nuovo modo di comporre: abbozzi, schizzi, varianti, versioni


Il modo di comporre musica cambia radicalmente nell’Ottocento. Nel produrre musica d'arte
il compositore non segue più né la semplice ispirazione né una forma o modelli dati per
convenzione di genere. Nasce un modo di comporre a strati, una graduale ascesa all'opera
compiuta: dai primi abbozzi "secondo ispirazione", il creatore porta a superfcie l'opera finita
attraverso fasi progressive, per tentativi e strade sbagliate, scartando e tornando indietro,
completando o sfoltendo. È ciò che gli storici attuali hanno chiamato "processo creativo",
un processo che produce grandi quantità di materiali preparatori, brevi schizzi (concept
sketches) o più lunghi abbozzi (continuity drafts).
Non è casuale che di Brahms ci siano giunti pochissimi schizzi, non perché non li facesse,
ma perché ha voluto distruggerli: la sua estetica dell'opera compiuta, della forma perfetta e
p autosufficiente, non poteva tollerare che sopravvivessero come "fasi provvisorie" versioni
non compiute.
Diverso è il caso di Chopin che crea le versioni multiple; esse derivano dall'uso di vendere
le proprie opera più editori contemporaneamente, in nazioni diverse. Questa prassi della
provoca una serie di "varianti d'autore".

Composizioni

Il sistema dei generi


I generi centrali nella nuova cultura sono la composizione sinfonica , l'oratorio, il teatro
musicale, la musica da camera. Uno
spazio particolare ha infine la musica sacra, nel secolo in cui la spiritualità si laicizza e la
musica sale al rango di religione dell'arte.
Il Lied romantico: Il Lied (letteralmente "canto") ha una storia molto lunga; originariamente
un genere popolare strettamente tedesco il Lied romantico è una lirica per voce e
pianoforte su testo prevalentemente tedesco dotato di autonomia estetica, quasi sempre
di grandi poeti. I fondamenti del Lied romantico sono l’abbandono della semplicità
settecentesca, ancora vicina all'origine popolare della canzone melodica con semplice
accompagnamento; l’importanza della parte pianistica; scelta di testi poetici di alto valore.
Il viennese Franz Schubert è il compositore spartiacque nella storia del Lied romantico.
Dopo di lui, Schumann investe tutto il genere di un'importanza pari alla sonata o alla
sinfonia. Gli aspetti del moderno Lied, che Schubert trasmette al successivo Ottocento sono:
la scelta dei poeti, la stretta aderenza del canto alla declamazione del testo, l'impiego di
oggetti sonori ("motivi") affidati al pianoforte, la qualità dell'espressione soggettiva, la
realizzazione di grandi cicli di Lieder.
Robert Schumann nell'attività giornalistica non parla mai di alcun
Lied di Schubert. Sul piano artistico due elementi differenziano Schumann da Schubert: un
più incisivo intervento sui testi poetici, che Schumann taglia, ripete, altera per esigenze
interpretative e un diverso ruolo del pianoforte, che può dilungarsi in preludi, interludi e
postludi anche cospicui.

La musica per pianoforte


La maggioranza dei compositori romantici dedica al pianoforte sia grandi sonate sia pezzi
più brevi in forma libera. A metà strada fra il pezzo breve e la grande sonata, assai frequente
è poi il pezzo di dimensioni medie in un movimento unico: ballate, fantasie, poemi pianistici
narrativi; sono spesso forme di dimensioni ragguardevoli (15 minuti e più). Un esempio
rappresentativo sono la Prima Ballata op. 23 di Chopin.
Se la musica per pianoforte ha potuto acquisire il ruolo di testimone centrale dell'età
romantica è anche per la sua collocazione quotidiana, domestica.
Fryderyk Chopin
Il più rappresentativo testimone del pianoforte romantico è Fryderyk Chopin. Fra i generi
praticati da lui, apparentemente il più consumistico sembra essere il valzer; tuttavia la
funzione d'uso originaria, la danza, non lascia alcuna traccia.

La musica da camera
Il quartetto d’archi è un genere per pochi, in opposizione alla "cultura del concerto" legata
invece alla mentalità utilitaristica del profitto borghese.
L'affermazione che la musica da camera è espressione della nuova borghesia, ma nasconde
una contraddizione: da un lato la musica da camera risponde alle esigenze culturali della
"borghesia colta" d'altro lato è in frontale opposizione alle esigenze economiche di quella
stessa mentalità borghese (è "assoluta", quindi estranea alla morale utilitaristica del
lavoro-reddito).
Per quanto riguarda la musica per duo violino o violoncello e pianoforte, il repertorio si
divide in due campi: da un lato i compositori dedicano al duo sonate in forma classica,
dall'altro la componente solistica torna in primo piano.

La musica sinfonica
La paura dell' epigonismo nei confronti dei classici, opposto al principio di "unicità"
romantico, frena a lungo la produzione sinfonica. La composizione sinfonica
post-beethoveniana può essere divisa in tre periodi:
1) la sinfonia romantica strettamente intesa (Schumann, Berlioz,
Mendelssohn):1830-1850;
2) il poema sinfonico e la musica a programma (Liszt, Strauss): dal 1850 al Novecento:
3) la "seconda fioritura della sinfonia" (Brahms, Bruckner, Cajkovskij, Dvoták, Franck,
Martucci, Saint-Saëns, Mahler): dal 1875 al Novecento.
Nella sinfonia romantica ciò che conta è il rinnovamento romantico, contraddittorio e
intenzionalmente ambiguo, di una tradizione formale che era divenuta prassi.

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