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William Shakespeare

e il senso del tragico

a cura di
Simonetta de Filippis

LOFFREDO EDITORE
NAPOLI
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati
dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e con i fondi di ricerca di Ateneo

ISBN 978-88-7564-645-5

Copertina:
Progetto grafico di Mariano Cinque

Impaginazione:
Spazio Creativo Publishing - Napoli

© 2013 by LOFFREDO EDITORE s.r.l.


Via Kerbaker, 19 80126 Napoli
http://www.loffredo.it - E-mail: info@loffredo.it
A tre allievi speciali,
Bianca, Laura, Roberto,
mio costante motivo di orgoglio.

Ai miei studenti tutti,


linfa e stimolo per il mio lavoro,
motivo di speranza, sempre.
Indice

Presentazione

 11 Letture del tragico


Simonetta de Filippis

1.  La filosofia del tragico

 23 Shakespeare e il senso del tragico


Simonetta de Filippis
 35 Lo specchio di Richard II e il soggetto della tragedia
Bianca Del Villano
 51 L’assedio delle passioni nell’universo tragico di Shakespeare
Laura Di Michele
 75 Faust, Amleto e la tragedia della conoscenza
Stefano Manferlotti
 83 La tragedia dei padri: il caso di Lear
Antonella Piazza
 93 Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo: aspetti “sacrificali”
nella tragedia shakespeariana
Michele Stanco

2.  Lo sguardo tragico

113 Caritas Romana: il tragico del femminile nel King Lear


Maria Del Sapio Garbero
137 La tragedia della non-comunicazione: silenzi incompresi e ferocia della parola nel
King Lear
Angela Leonardi
153 Othello: l’osceno in scena
Laura Sarnelli
169 Belle Addormentate violate dallo sguardo: Lucrezia, Imogene, Giulietta, Desdemona
Marina Vitale
8 Indice

4.  Adattare, riscrivere, transcodificare il tragico

187 Digital Shakespeare: il tragico nel tempo di internet


Anna Maria Cimitile
201 Omkara e Maqbool: riconfigurazioni indiane del tragico shakespeariano
Rossella Ciocca
209 The Sea and the Mirror: W. H. Auden riscrive La Tempesta
Marina De Chiara
225 Forme del tragico in movimento: i monologhi shakespeariani di Tim Crouch
C. Maria Laudando

5.  Mettere in scena il tragico

243 Occhio, accecamento, visione: una traiettoria barocca da Giulietta a Rosalina


Roberto D’Avascio
255 Amleto il postmoderno: ipotesi di riscrittura scenica
Lorenzo Mango
273 Comico e tragico: un connubio impossibile?
Una riflessione su Totò, principe di Danimarca di Leo de Berardinis
Paolo Sommaiolo

6.  Interpretare il tragico

285 Note di regia


Laura Angiulli
289 Le voci di dentro
Giovanni Battaglia
291 Un Amleto: tragedia e luce
Michelangelo Dalisi
297 Riccardo III e Macbeth: il lavoro di un attore
Alessandra D’Elia
303 Shakespeare e la forza della ‘parola’
Stefano Jotti
307 Giulietta, una madonna qualunque
Giovanni Piscitelli

311 I partecipanti
Presentazione
Letture del tragico
Simonetta de Filippis

Questo volume raccoglie gli interventi dei partecipanti al convegno William


Shakespeare e il senso del tragico, tenutosi all’Università degli studi di Napoli
“L’Orientale” nei giorni 19-21 aprile 2012, un incontro che ha voluto mettere in
campo le competenze in ambito shakespeariano di molti studiosi dell’Ateneo,
nonché di altre università napoletane (Federico II) e campane (Salerno). Il con-
vegno è stato pensato come un momento di riflessione critica e di scambio, ma
anche come occasione di approfondimento per gli studenti del corso triennale
che si sono mostrati estremamente partecipi e fortemente interessati. Devo anzi
loro un ringraziamento molto sentito poiché è stato proprio l’interesse mostra-
tomi dagli studenti che mi ha spinto a creare per loro una opportunità di ascolto
di voci diverse intorno a un argomento su cui si sono tanto appassionati. Una
ulteriore conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, di quanto Shakespeare con-
tinui a essere presente con la sua parola nel nostro mondo e quanto riesca a
toccare le corde sensibili del nostro sentire.
Il volume che qui si presenta intende riprodurre nel suo complesso quelle
giornate intense e vivaci, mantenendo anche l’articolazione nelle diverse sessioni
di lavoro con solo qualche lieve modifica.

Il discorso introduttivo su “Shakespeare e il senso del tragico”, proposto


da chi scrive, sottolinea la modernità della tragedia shakespeariana, sempre più
tragedia di uomini – gli uomini di una nuova epoca di consapevolezza e di fra-
gilità – e non di eroi vittime degli dei e del fato come nella tragedia classica. Una
tragicità interiore che riflette le problematiche del tempo e che si riverbera anche
in molte commedie ove la presenza dell’elemento tragico induce ancor più alla
riflessione critica sull’individuo e sulla società, mettendo l’accento soprattutto
sul problema della crisi dell’identità. Nella prospettiva di un senso del tragico
diffuso e radicato nella società del tempo, le stesse strutture drammaturgiche
nonché le trasgressioni alle convenzioni teatrali da parte di Shakespeare pos-
sono talvolta interpretarsi come espressione dei grandi mutamenti del tempo: è
il caso della violazione del fondamentale principio della poetical justice in una
tragedia come Othello, mentre le scelte fortemente trasgressive rispetto alle re-
gole della società e al principio dell’autorità paterna attribuite ad alcune figure
12 Simonetta de Filippis

tragiche femminili rafforzano e ribadiscono il senso della grande modernità del


teatro shakespeariano. Un teatro in cui il senso del tragico supera “le distinzioni
dei generi teatrali, ponendo al centro un soggetto (senza distinzioni di gender)
che vive una tragicità interiore complessa e perturbante profonda. Una tragicità
che continuiamo a sentire nostra.” (34)

Nella sezione La filosofia del tragico si analizzano diversi aspetti del pensie-
ro del tempo in una prospettiva che tiene conto della crisi di valori, delle incer-
tezze e della fragilità dell’uomo del Rinascimento.
“Lo specchio di Richard II e il soggetto della tragedia” di Bianca Del Villa-
no si concentra sulla metafora dello specchio che, nel teatro di Shakespeare, di-
venta simbolo e strumento di conoscenza, “mezzo attraverso cui rappresentare
e indagare le contraddizioni di un’epoca la cui struttura epistemica appare in
rapido disfacimento.” (35) L’analisi della scena in cui Riccardo osserva il pro-
prio volto riflesso e, non riconoscendosi, infrange lo specchio, conduce a sug-
gestive interpretazioni dell’immagine del broken mirror e ad approfondite ri-
flessioni sul piano epistemico: l’estetica del frammento viene individuata come
la forma di rappresentazione di una soggettività in bilico fra due epoche, fra un
sistema in decadimento e un processo sociale e filosofico teso verso la moder-
nità. Riccardo riconosce nella molteplicità dei frammenti il proprio io diviso
e la possibilità di ritrovare una nuova identità in qualcuno di quei frammenti,
nella consapevolezza che ciascun riflesso può rimandare una diversa visione
del sé – così come all’epoca l’incertezza epistemica conduceva alla formazione
della coscienza (e della tragedia) moderna attraverso cui interpretare le mille
facce della realtà.
Laura Di Michele, in “L’assedio delle passioni nell’universo tragico di Sha-
kespeare”, discute quanto la concezione gerarchica del macrocosmo, messa
in discussione dai grandi mutamenti del tempo, si ripercuota nel microcosmo
mostrando una ragione non più dominante, ma “assediata” dalle passioni. Il
conseguente senso di forte destabilizzazione si esprime attraverso una presen-
za pervasiva del senso del tragico nella produzione shakespeariana, che finisce
con il mettere in crisi la tradizionale articolazione in generi e che dà voce alla
crisi complessiva della cultura alle soglie della modernità. E se questo emerge
in modo evidente nelle grandi tragedie e nei drammi di storia inglese e romana,
è ancor più significativo rilevarne la presenza in commedie come The Comedy
of Errors o nel dramma a lieto fine Cardenio, o infine nella produzione poetica,
anzitutto nel grande affresco tragico che è The Rape of Lucrece, in cui “Shake-
speare sembra affermare una politica delle passioni mediante la quale gli affetti,
i desideri e tutti quei sentimenti che abitano le zone oscure della mente umana
possono essere resi visibili e possono essere percepiti come aspetti ineliminabili
dei comportamenti umani.” (73)
Letture del tragico 13

Il saggio “Faust, Amleto e la tragedia della conoscenza” di Stefano Man-


ferlotti, ponendo in apertura l’antico problema filosofico sui limiti della cono-
scenza, contiene riflessioni sui due grandi personaggi di Faust e Amleto la cui
tragedia è per entrambi legata alla conoscenza differenziandosi, però, sul piano
ideologico in quanto in Faust rimane entro i limiti della fede cristiana (“Faust
coltiva il desiderio impossibile di un antropocentrismo assoluto che al suo in-
terno comprenda anche Dio”, 79) mentre in Amleto assume una prospettiva
laica che gli consente di spostare tutti i termini della questione all’interno della
propria coscienza: “Agnostico senza livore, Amleto non è sospinto – come av-
viene in tutte le religioni conosciute – dall’ansia di durare, ma dall’angoscia di
essere […] il tu di Faust si è mutato nell’io di Amleto e nella letteratura europea
ha fatto la sua sofferta irruzione un’autocoscienza radicale […]” (81).
Antonella Piazza – “La tragedia dei padri: il caso di Lear” – parte dalla pre-
messa teorica che considera la tragedia shakespeariana come una forma in grado
di contenere e dar voce alla dissacrazione della sovranità – e su questo punto la
studiosa si richiama al saggio di Franco Moretti “The Great Eclipse. Tragic Form
as the Deconsecration of Sovreignty” (1985) – per poi interrogarsi sulla possi-
bile relazione tra questa formulazione e quella che Massimo Recalcati chiama
l’“evaporazione del padre” nella nostra contemporaneità (Cosa resta del padre?
La paternità nell’epoca ipermoderna, 2011). Il discorso critico si dispiega attra-
verso un’analisi della figura di Lear, non tanto come re, ma come un padre che di
fronte al “nothing” della figlia prediletta e alla successiva sottrazione dell’amore
delle altre due figlie, subisce un processo di graduale regressione. Una tragedia,
questa di Lear, che “non è […] da ascrivere alla potente e pervasiva arbitrarietà
del potere del padre, quanto al fallimento della funzione paterna” (83).
Michele Stanco, nel contributo “Il tragico come forma narrativa e come vi-
sione del mondo: aspetti ‘sacrificali’”, si richiama inizialmente alla Poetica di
Aristotele, per poi discutere la filosofia del tragico come parte essenziale della
sua stessa struttura narrativa costruita su una concatenazione di eventi che ten-
dono a s/velare il tragico nella sua più profonda dimensione antropologica e
filosofica. La struttura narrativa costante della tragedia shakespeariana presenta
sempre in conclusione la morte dell’eroe secondo quella che può definirsi la po-
etics of closure e che suggerisce “una visione del morire come azzeramento totale
di tutte le possibilità e di tutte le forme dell’ex-sistere. È appunto in questo senso
che la poetica della tragedia viene a coincidere con una filosofia del tragico.”
(101) Una morte, quella dell’eroe, che sembra essere arbitraria e contingente ma
che si configura come una necessaria forma sacrificale che, sola, può consentire
la ricomposizione dell’ordine sociale.

Lo sguardo tragico, titolo della terza sezione del presente volume, raccoglie
alcuni interventi che mettono al centro del discorso la funzione dello sguardo,
14 Simonetta de Filippis

e altri che esaminano aspetti del tragico mediante richiami a raffigurazioni pit-
toriche che, per la loro stessa natura, si rivolgono allo sguardo di chi osserva
presentando attraverso il tratto e il colore dell’immagine quel senso tragico che
Shakespeare esprime con la parola teatrale.
In “Caritas Romana: il tragico del femminile nel King Lear”, Maria Del Sapio
Garbero interpreta la nota scena della tempesta, così centrale in questa tragedia,
non solo come commento al caos provocato da una crisi di autorità, ma come
delusione in Lear di quel bisogno del materno ricercato nelle figlie che invece
gli rimandano “l’immagine di un materno freddo e impietoso” (123). La conse-
guente regressione dell’identità conduce a una visione ribaltata del materno in
cui il padre sembra voler diventare figlio delle proprie figlie, un ribaltamento
che trova rappresentazione nel mito – quello della Caritas Romana con la storia
di Cimone e Pero – e in numerosi dipinti. Il tema della pietas filiale emerge, nella
tragedia shakespeariana, soprattutto nella parte finale con la scena in cui “la fan-
tasia di Lear sembra realizzarsi nella recuperata generosa immagine di una Cor-
delia che quasi culla nel grembo accogliente il vecchio padre in ginocchio” (115).
Angela Leonardi, nella lettura di King Lear proposta in “La tragedia della
non-comunicazione: silenzi incompresi e ferocia della parola nel King Lear”,
osserva come la tragedia prenda spunto da una comunicazione falsata (di Go-
neril e Regan) e da una comunicazione mancata (di Cordelia) che, spezzando
l’ordine stabilito dei legami affettivi, producono dolore, confusione e infine
pazzia nel vecchio re. Vengono poi esaminate alcune delle numerose immagini
zoomorfe legate ai personaggi femminili del dramma, tutti animali rapaci, pre-
datori, che è lo stesso re a evocare come metafora della crudeltà, falsità e voracità
delle figlie: avvoltoi, serpenti, felini, rettili e uccelli rapaci, assumono agli occhi
di Lear le fattezze delle figlie tanto amate e tanto ingrate che, con la loro violenta
negazione del padre, determinano la caduta morale e mentale del re: una mirabi-
le e memorabile rappresentazione del sentire tragico del tempo.
Laura Sarnelli, nel saggio “Othello: l’osceno in scena”, volge il suo sguardo
critico sul testo di Othello per trattare del senso dell’osceno, nel suo doppio
significato di indecente/mostruoso e di ‘fuori scena’. È questa una delle tra-
gedie più ricche di immagini erotiche, in cui il ‘fuori scena’ è molto utilizzato,
in particolare attraverso la parola di Iago che richiama in modo estremamente
brutale e, appunto, ‘o-sceno’, una serie di azioni e di immagini razziste legate al
personaggio del Moro, rappresentante della sessualità nera, dell’alterità e della
trasgressione. La camera da letto, luogo della “mostruosa unione” di razze di-
verse evocato dalla parola ipnotica di Iago attraverso immagini perturbanti, “di-
viene un luogo di promiscuità proibita, di corruzione e trasgressione sia sociale
che razziale”; e quando alla fine questo luogo “mostruoso” compare onstage, si
produce una sorta di “‘duplicità pornografica’ che spinge a guardare, ma che allo
stesso tempo fa distogliere lo sguardo” (166).
Letture del tragico 15

“Belle Addormentate violate dallo sguardo: Lucrezia, Imogene, Giulietta,


Desdemona” di Marina Vitale, trae spunto dal topos della Bella Addormentata,
ricorrente nell’immaginario occidentale, in cui “uno sguardo maschile deside-
rante scorre e indugia su un corpo femminile; un corpo reclino in uno stato di
così totale abbandono da far pensare a uno stato liminale tra la vita e la morte”
(169) – un topos discusso da Freud nel noto saggio “Il perturbante” (1919) e poi
analizzato nella critica femminista da studiose quali Hélène Cixous ed Eliza-
beth Bronfen. Questo tema, che sempre contiene una forte dimensione tragica,
ricorre in The Rape of Lucrece, Romeo and Juliet, Othello e Cymbeline, testi
che vengono qui analizzati utilizzando anche richiami ai modelli iconografici
fissati in alcuni famosi dipinti per delineare una tipologia di figure femmini-
li, altamente tragiche e al contempo fortemente erotiche, i cui corpi inermi e
abbandonati al sonno profondo e allo sguardo maschile si configurano come
oggetti del desiderio.

I drammi shakespeariani sono stati da sempre oggetto di riscritture e adat-


tamenti, fin dal secondo Seicento con John Dryden, per ricordare un nome fra
tutti. La sezione Adattare, riscrivere, transcodificare il tragico discute alcune
riscritture, a cominciare da The Sea and the Mirror: a Commentary on Sha-
kespeare’s ‘The Tempest’, riscrittura poetica della Tempesta proposta da W. H.
Auden nel 1942. Marina De Chiara – nel saggio “The Sea and the Mirror: W. H.
Auden riscrive La Tempesta” – sottolinea come La tempesta di Shakespeare sia
pervasa da un senso del tragico che Auden fa proprio nel suo poema per espri-
mere la delusione esistenziale, attraverso l’immagine dei mari in tempesta con
la loro funzione catartica, ispirandosi alla filosofia di Kierkegaard. Una lettura,
quella di De Chiara, che si sofferma su tutti i personaggi per cogliere il senso
della rivisitazione poetica di Auden e che tiene conto dei terribili eventi politici
degli anni Quaranta con il pericolo e la minaccia di atteggiamenti dittatoriali,
sicché il poeta viene indotto a presentare un Prospero più “maturo e riflessivo,
pronto a mettere da parte le proprie tentazioni tiranniche e dispotiche” (220)
mentre a Caliban viene affidato il monologo conclusivo in prosa poiché “Cali-
bano rappresenta quello che realmente siamo […] è la carne, la materia di cui è
fatto l’uomo, la sua verità inconfessabile” (221).
Più recenti sono le riscritture studiate da C. Maria Laudando in “Forme del
tragico in movimento: i monologhi shakespeariani di Tim Crouch”. La studiosa
parte dalla teoria dei Mobility Studies (Greenblatt 2010) sulla apertura e fluidità
dei processi culturali, per discutere poi il concetto di theatrical mobility che
caratterizza il processo di riappropriazione e trasformazione delle fonti tipico
di molto teatro shakespeariano. In questa prospettiva vengono discussi i cinque
monologhi di Tim Crouch – I, Caliban; I, Peaseblossom; I, Banquo; I, Malvolio;
I, Cinna, the Poet (2003-2012) – ove la parola viene affidata a un personaggio
16 Simonetta de Filippis

marginale dei testi da cui questi monologhi prendono spunto: il ribaltamento


di ruoli che ne deriva facilita quel coinvolgimento attivo degli spettatori tanto
centrale nella sperimentazione teatrale di Crouch, lasciando anche spazio all’im-
provvisazione e, dunque, a processi di continua riscrittura interattiva. Questo
obiettivo comporta naturalmente una operazione di semplificazione sia della
narrazione che dello stile che induce l’autore all’utilizzo di un linguaggio sem-
plice e diretto, ma che sempre conserva una particolare attenzione alla dimen-
sione tragica del discorso shakespeariano.
Interessanti forme di transcodificazione sono discusse da Anna Maria Cimi-
tile – “Digital Shakespeare: il tragico nel tempo di internet” – che, guardando alla
nuova interattività proposta dal web, si interroga su cosa accada a Shake­speare
nell’era di internet e osserva alcuni esempi della presenza digitale di Shake­speare
oggi, in particolare A Cinematic Translation of Shakespearean Tragedies, una
serie di sei corti del 2008 della giovane americana Liz Tabish. Di questi vengono
analizzati Othello e Julius Caesar, che rispecchiano le modalità del film muto
e del film surrealista, e si sottolinea quanto il tragico – una forma che più di
altre richiede una dimensione temporale prolungata – subisca una inevitabile
“riduzione” attraverso internet. Dunque, tanto il senso del tragico quanto la no-
stra percezione di esso mutano come conseguenza della ri-mediazione operata
dall’archivio digitale: “L’esistenza digitale del tragico è un incrociarsi di linee di
fuga verso il passato e verso il futuro […] la ‘questione’ è sempre un engagement
con il tempo” (199).
In “Omkara e Maqbool: riconfigurazioni indiane del tragico shakespearia-
no”, Rossella Ciocca si occupa invece delle modalità di re-inscrizione di Sha-
kespeare nella cornice della cultura indiana contemporanea attraverso l’ana-
lisi delle versioni Bollywoodiane di Macbeth e di Othello proposte da Vishal
Bhardwaj con Maqbool (2003) e Omkara (2006), per mostrare come le carat-
teristiche del tragico shakespeariano si prestino a forme di appropriazione e di
ri-attualizzazione significative nel problematico contesto della società contem-
poranea del subcontinente indiano: la vicenda di Macbeth viene re-inscritta in
una contemporanea Mumbay, moderna e tecnologica ma pur sempre dominata
da vecchie logiche politiche e di potere di clan mafiosi e da complicate affilia-
zioni religiose; la versione di Othello, una sorta di rural-western, è ambientata
invece in una regione interna, povera e arretrata, e ripropone i temi della ma-
lavita organizzata e della corruzione, ma con una maggiore enfasi su questioni
più profonde di identità, intrecciate anche a questioni di casta, di genere, di
razza e di classe.

Non potevano mancare discorsi sugli spettacoli teatrali e nella sezione Met-
tere in scena il tragico si discutono alcune interessanti produzioni italiane ispi-
rate a Shakespeare ma che di fatto propongono nuove letture dei testi.
Letture del tragico 17

Roberto D’Avascio, in “Occhio, accecamento, visione: una traiettoria baroc-


ca da Giulietta a Rosalina”, propone un’analisi della categoria estetica del tragi-
co tra Cinquecento e Seicento attraverso un confronto tra Romeo and Juliet di
Shakespeare e ’Tis Pity She’s a Whore di John Ford, osservando come il testo di
Ford, elaborando una trama più torbida e oscura, si configuri solo parzialmente
come una riscrittura della tragedia shakespeariana. In entrambi i testi si riscon-
tra una evidente insistenza sulla metafora dell’occhio, strumento di conoscenza
capace di leggere la realtà e di esprimere percezioni, sentimenti e desideri, un
aspetto che viene discusso particolarmente con riferimento al testo di Ford, an-
che sulla base del saggio di Jean Starobinski L’occhio vivente (1975), per giunge-
re a interpretare l’eccesso visivo della crudeltà teatrale quasi come anticipazione
dell’estetica artaudiana. Il saggio di D’Avascio si conclude con la discussione di
una riscrittura e messa in scena contemporanea di Romeo and Juliet – Rosalina
di Giovanni Piscitelli – che si pone in effetti tra Shakespeare e Ford e che “sem-
bra imbrigliare l’universo shakespeariano nella catastrofe fordiana attraverso il
filo rosso di una forte dimensione barocca” (252).
Hamlet è naturalmente la tragedia più rivisitata nelle produzioni moderne e
contemporanee. La figura del giovane Principe di Danimarca si presta, infatti,
a interessanti riletture in chiave postmoderna quali quelle di Carmelo Bene, di
Federico Tiezzi e di Heiner Müller che vengono studiate nel saggio “Amleto
il postmoderno: ipotesi di riscrittura scenica” di Lorenzo Mango. Si tratta di
riscritture che procedono a una decostruzione drammaturgica agendo, in primo
luogo, proprio sulla dimensione tragica e sui suoi principi strutturali e narrati-
vi, privilegiando una logica del frammento, dell’enigma narrativo, della nega-
zione dell’azione agita e della conseguente produzione compiuta di senso. Le
riscritture di Bene e di Tiezzi creano una forma completamente nuova rispetto
all’originale ed entrambe, pur nella loro diversità, disegnano “una fisionomia
postmoderna di Amleto” e “affrontano in una maniera radicale il tema del tra-
gico, come forma ma anche come sostanza filosofica” (255). Ma la dimensione
decostruttiva, osserva Mango, è insita già nell’originale shakespeariano, “una
tragedia mancata perché sfiora […] diverse forme e modi della tragedia senza
mai centrarli” e che fa di Amleto “uno straordinario laboratorio sperimentale
del postmoderno” (272).
In “Comico e tragico: un connubio impossibile? Una riflessione su Totò,
principe di Danimarca di Leo de Berardinis”, Paolo Sommaiolo studia invece
uno spettacolo come è appunto quello di de Berardinis, in cui la cultura ‘alta’
di Shakespeare viene contaminata da quella ‘bassa’ con prestiti dalla commedia
dialettale, dalla farsa, dall’avanspettacolo, dalla sceneggiata: una modalità origi-
nale di ripensare e mettere in scena il tragico shakespeariano in una produzione
che peraltro contiene echi di Eduardo De Filippo, Charlie Chaplin, Ettore Pe-
trolini, Laurence Olivier, ovvero di quei grandi maestri della scena che hanno
18 Simonetta de Filippis

avuto un ruolo chiave nella ricerca estetica condotta da Leo de Berardinis. La


mescolanza di ‘alto’ e ‘basso’ si ripropone anche nell’organizzazione dello spa-
zio scenico, con l’accostamento di elementi architettonici in stile classico a pezzi
d’arredamento della quotidianità domestica, nonché nella colonna sonora che
alterna brani di musica lirica e sinfonica con pezzi musicali di matrice popolare,
“in uno spiazzante rimescolamento di stili recitativi, di ritmi drammaturgici, di
segni scenografici” (280).

L’ultima sezione del volume – Interpretare il tragico – contiene testimo-


nianze dirette di operatori del teatro che, nel convegno di aprile, hanno dato vita
a un vivace dibattito all’interno di una tavola rotonda.
La regista Laura Angiulli, partendo dalla considerazione della forza della pa-
rola teatrale e dell’importanza della dimensione linguistica nell’universo shake­
speariano, presenta le note di regia per le messe in scena delle sue produzioni di
alcune tragedie di Shakespeare. Nello spettacolo La trilogia del male, si propone
una audace operazione in cui vengono accostate, in un unico spettacolo, tre
grandi opere tragiche – Riccardo III, Otello e Macbeth – successivamente rivi-
sitate in produzioni singole: tre opere che esplorano le diverse declinazioni del
potere, da quello psicologico di Iago a quello politico di Riccardo e Macbeth,
ma che soprattutto mettono l’accento sulle fragilità e sui conflitti interiori del
sentire umano.
L’attrice Alessandra D’Elia e gli attori Giovanni Battaglia e Stefano Jotti
discutono del loro approccio interpretativo a personaggi tragici shakespea-
riani sottolineando tutti quanto la straordinaria pregnanza e, al contempo,
semplicità della parola shakespeariana non abbia bisogno di eccessi recitativi
e quanto l’accostarsi al teatro di Shakespeare ponga interrogativi profondi e
imponga all’attore momenti di autoriflessione interiore e di ascolto del pro-
prio sé.
Michelangelo Dalisi, attore e regista, sottolinea il proprio debito verso Totò,
Principe di Danimarca di Leo de Berardinis nella scrittura e produzione del
suo spettacolo Per Amleto costruito sulla compresenza di tragico e comico, un
lavoro che include diversi tipi di contaminazione – a esempio con il piano ci-
nematografico e musicale – e che, attraverso l’esplorazione della dimensione
metateatrale, affronta la drammatica questione della situazione del teatro e della
cultura oggi in Italia.
Giovanni Piscitelli tratta della propria rivisitazione di Romeo e Giulietta nel-
lo spettacolo Rosalina (discusso anche nel saggio di Roberto D’Avascio), una
scelta – quella di Piscitelli – che parte dall’emozione profonda suscitata in lui
dalla lettura della tragedia shakespeariana e che lo porta a costruire il proprio
testo intorno alla figura di una prostituta napoletana, fra donna e Madonna (se-
condo l’archetipo di Maria Maddalena), mentre la scelta linguistica di utilizzare
Letture del tragico 19

la forma vernacolare di un napoletano arcaico tende a riprodurre, seppure su un


piano diverso, la musicalità e la drammaticità del verso shakespeariano.

Per concludere, desidero ringraziare il Dipartimento di Studi Letterari, Lin-


guistici e Comparati dell’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” per aver
sostenuto questa mia iniziativa, sia per l’organizzazione del convegno che per la
pubblicazione del presente volume.
Un grazie particolare e particolarmente sentito va a tutti i partecipanti che
con i loro interventi hanno reso possibile la realizzazione di un momento di
scambio scientifico tanto proficuo e che mi hanno permesso di riassaporare gli
slanci e gli entusiasmi dei primi anni della mia formazione condivisa con molti
di loro, compagni nell’avventura accademica e nello straordinario viaggio nel
sapere.

Napoli, marzo 2013


Il tragico come forma narrativa
e come visione del mondo:
aspetti “sacrificali” nella tragedia shakespeariana
Michele Stanco

capulet
As rich shall Romeo’s by his lady’s lie,
Poor sacrifices of our enmity.
(Romeo and Juliet, 5.3.303-304)1

La Poetica di Aristotele è stata spesso considerata come una trattazione piut-


tosto limitata della tragedia. Vari studiosi del tragico, tra i quali Peter Szondi,
hanno sostenuto che Aristotele avrebbe messo a punto solo una poetica della
tragedia, mentre non sarebbe stato in grado di cogliere il tragico nella sua essen-
za filosofica.2
Nel presente lavoro vorrei, al contrario, tentare di rivalutare l’importanza
di una poetica del tragico: non tanto della specifica poetica tragica delineata da
Aristotele, quanto dell’idea aristotelica che il tragico sia anche e soprattutto una
poetica, ovvero una particolare forma narrativa e una particolare concatenazio-
ne di eventi. A tal fine, cercherò di evidenziare la stretta connessione tra poetica
della tragedia e filosofia del tragico, ovvero (come suggerisce il titolo stesso del
presente lavoro), tra la ‘forma narrativa della tragedia’ e la ‘visione tragica’. Ro-
vesciando l’assunto di Szondi e dei suoi epigoni, proverò dunque a suggerire
che la filosofia del tragico risieda, essenzialmente, nella sua stessa componente
narrativa. In particolare, tenterò di mostrare come nella tragedia shakespeariana
(pur senza sottovalutare l’importanza delle differenze specifiche che separano le
singole tragedie) si possa cogliere una sequenza narrativa costante e come que-

1
  “Altrettanto ricco giacerà Romeo accanto alla statua della sua signora, / l’uno e l’altra vitti-
me sacrificali del nostro odio.” Qui, e di seguito, le citazioni e i riferimenti al dramma elisabettia-
no sono tratti dalle edizioni Arden correnti (ove non indicato i corsivi sono miei); le traduzioni
sono mie.
2
  Nel suo Saggio sul tragico (1961), Peter Szondi sostiene: “Fin da Aristotele vi è una poetica
della tragedia; solo a partire da Schelling vi è una filosofia del tragico” (trad. Gianluca Garelli,
Torino: Einaudi, 1996), 3.
94 Michele Stanco

sta, a sua volta, rimandi a un determinato orizzonte antropologico-culturale. Va


da sé che quanto verrà presentato, lungi dal costituire una sistematica formula-
zione concettuale, sarà solo una serie di semplici e modesti spunti di riflessione.
Un utile punto di partenza per il nostro esame del tragico possiamo trovarlo
in una definizione di Salvatore Natoli. Secondo Natoli, l’esperienza del dolore
poggia su una circolarità tra danno e senso.3 In altri termini, l’esperienza del
dolore avrebbe sia una componente fattuale, quella appunto del danno, che una
componente emotivo-concettuale, quella del senso.
Se applichiamo tale distinzione all’ambito della tragedia, possiamo conside-
rare il danno, in quanto evento, come il corrispettivo dell’intreccio, e possiamo
vedere nel senso, in quanto sua configurazione emotivo-concettuale, il corri-
spettivo di una filosofia del tragico. Dunque, se danno e senso sono circolar-
mente correlati, possiamo dire che, a loro volta, l’intreccio di una tragedia e la
visione tragica costituiscono due facce diverse di una unità inscindibile.

Premessa. Virtù e fortuna: intrecci e visioni del mondo nella commedia e nella
tragedia

Nel Rinascimento (non solo inglese) il dibattito sul rapporto tra ‘virtù’
e ‘fortuna’ si pone al centro della riflessione etica, politica, storica. Com’è
noto, un esempio tra i più macroscopici, ma anche tra i più controversi, lo si
può trovare nell’opera politica di Niccolò Machiavelli. All’interno del pen-
siero laico, razionale, empirista, il rapporto tra virtù e fortuna è un rapporto
circoscritto e limitato a quegli ambiti esperienziali all’interno dei quali la virtù
(nel senso, ovviamente, rinascimentale del termine) appare in grado di condi-
zionare la sorte. Come osserva lo stesso Machiavelli, attraverso la significativa
metafora di un fiume al quale non si può resistere allorché rompe gli argini
ma che si può incanalare nei “tempi quieti”, la fortuna può essere considerata
“arbitra della metà delle azioni nostre”, ma “etiam lei” ne lascia “governare
l’altra metà.”4
Viceversa, all’interno del pensiero religioso, o di modelli culturali di tipo
analogico-simbolico a esso variamente intrecciati, il rapporto tra virtù e fortuna
è, per così dire, di tipo totalizzante. Allorché la giustizia divina viene assunta
come garante di un ‘principio retributivo’, si deve giocoforza immaginare che la
fortuna arrida, sempre e in ogni caso, alla virtù. Anche in quegli eventi della vita

  Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore (Milano: Feltrinelli, 19957).


3

  Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XXV: “Quanto possa la Fortuna nelle cose umane, et
4

in che modo se li abbia a resistere” (a cura di Luigi Firpo, Torino: Einaudi, 1961, 120-121).
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 95

− quali lutti, malattie, catastrofi naturali e altro − che sembrerebbero irriducibili


a qualsiasi legge morale o controllo da parte dell’uomo. Quanto a quei casi che
sembrano, di fatto, smentire tale linea di pensiero, essi, a loro volta, trovano ade-
guate giustificazioni: o si immagina una giustizia post mortem (attualizzantesi,
cioè, nei premi e nei castighi ultramondani) che andrà a compensare l’ingiustizia
terrena, oppure si invocano l’inadeguatezza della ragione umana e l’imperscru-
tabilità dei disegni divini.
All’interno di tale ambito di pensiero, l’idea di una omologia tra virtù e for-
tuna trovava una applicazione anche in procedimenti, e visioni del mondo, di
tipo inferenziale: non solo, cioè, si immaginava che i buoni e i virtuosi sarebbe-
ro stati premiati dalla sorte, ma − in base a un principio del tipo post hoc, ergo
propter hoc − si poteva anche decidere della virtù e dell’onestà di qualcuno sulla
base della fortuna da lui o da lei incontrata nelle sue azioni.
È noto come una porzione dei casi giudiziari, anche nell’età rinascimentale,
fosse ancora basata sulla pratica dell’ordalìa. Per quanto fosse ormai divenuta
una pratica culturale di tipo residuale, il trial by battle (o trial by combat) tro-
vava ancora una rappresentazione e una codifica in vari drammi dello stesso
Shakespeare (uno tra i tanti esempi è il progettato duello tra Mowbray e Bo-
lingbroke in Richard II).5 Né si dimentichi che la colpevolezza delle presunte
streghe, come ci attestano vari trattati dell’epoca, tra i quali la Daemonologie
(1597) del futuro Giacomo I,6 era giuridicamente stabilita attraverso analoghe
pratiche di tipo inferenziale, quali la trafittura del corpo tramite spilli oppure
prove di annegamento.7
In definitiva, se i buoni venivano premiati dalla fortuna, viceversa la buona
fortuna poteva essere assunta come indizio (se non come prova) di bontà. Di
tale visione del mondo si può trovare una precisa eco letteraria negli intrecci a
lieto fine, nonché nelle teorie poetiche dell’epoca.
Un intreccio a lieto fine, naturalmente, premia i personaggi buoni o virtuosi.
D’altro canto, in base ai procedimenti inferenziali su descritti, il lieto fine ha
anche un preciso statuto assiologico-valoriale: esso, cioè, dimostra retrospet-
tivamente, attraverso i premi e le punizioni attribuiti ai vari personaggi, il loro
rispettivo grado di bontà e di virtù.

5
  Significativamente, però, il duello inizialmente proposto come metro giuridico per giudi-
care dell’onore dei due contendenti, non avrà luogo (Richard II, 1.3). Sugli aspetti più generali
di questo tema, cfr. Robert R. Reed Jr., Crime and God’s Judgement in Shakespeare (Lexington,
Kentucky: The University Press of Kentucky, 1984).
6
  All’epoca del trattato, il futuro re Giacomo I era ancora Giacomo VI di Scozia.
7
  James R. (James VI), Daemonologie, in forme of a Dialogue (1597). Cfr. l’“Introduzione” di
Giovanna Silvani alla edizione anastatica dell’edizione stampata a Edimburgo nel 1597 (Trento:
Università degli Studi di Trento, 1997), VII-XXVII.
96 Michele Stanco

Il fatto che la poesia dovesse avere una funzione morale e, conseguentemen-


te, una forma narrativa esemplare è attestato, con una certa insistenza, dalle po-
etiche dell’epoca: un esempio tra i più noti è l’idea della superiorità morale della
poesia sulla storia avanzata da Sir Philip Sidney in The Defense of Poesy (1579?;
pubbl. 1595).8 La funzione morale attribuita da Sidney e dai suoi contemporanei
alla poesia si basa su varie, e diverse, pratiche di tipo inferenziale. I buoni sono
premiati; il loro premio costituisce un segno di virtù; ciò, a sua volta, è segno di
una giustizia e di un ordine di tipo retributivo. La poesia, infine, è moralmente
sana perché ci restituisce un adeguato quadro di tutte queste cose, attraverso le
forme della cosiddetta “giustizia poetica”.
Nelle commedie shakespeariane l’intreccio, con il suo rituale happy ending,
e la conseguente ricompensa dei personaggi buoni, ci rimanda a tale tipo di vi-
sione del mondo. Essendo la virtù, per così dire, omologa alla fortuna, ciascun
personaggio va incontro alla sorte − buona o cattiva − che merita di ricevere.9
Difatti, nonostante vari personaggi lamentino l’ingiustizia della propria sorte,
definendo la fortuna come una sgualdrina che mal distribuisce i suoi doni,10 il
regime di ingiustizia e di disordine morale che pervade le sequenze iniziali della
commedia viene alla fine superato da una ricomposizione armonica dell’ordine
− ricomposizione sancita, per lo più, da un matrimonio tra i protagonisti giova-
ni e buoni (e/o da un eventuale recupero del loro status sociale).11
Di tale ricomposizione, oltre che nell’intreccio, vi sono tracce evidenti in
alcuni dialoghi, dotati di un preciso statuto metapoetico. A esempio, in As You
Like It il personaggio di Imene (il cui stesso nome ha un chiaro valore meta-
poetico, rimandando alla chiusura matrimoniale propria del genere), in un suo
song, riassume gli aspetti riformatori e palingenetici della commedia − applica-

8
  Difatti, secondo Sidney, la storia mostra ciò che accade; la poesia, invece, mostra ciò che
dovrebbe accadere (o che sarebbe giusto che accadesse).
9
  La visione retributiva della sorte ha radici di tipo teologico-provvidenziale, legandosi anche
a un preciso sistema di ricompensa ultramondano sulla cui natura, per ovvi motivi, si può solo ac-
cennare in questa sede. Sull’aspetto retributivo della commedia shakespeariana e sui dettami della
giustizia poetica si rinvia a Michele Stanco, Il caos ordinato. Tensioni etiche e giustizia poetica in
Shakespeare (Roma: Carocci, 2009).
10
  La definizione della fortuna come “strumpet” o “outrageous” è in Hamlet (2.2.235-236;
2.2.489ss; 3.1.57ss); in As You Like It Rosalind, nel rispondere a Celia, sostiene che “her [Fortu-
ne’s] benefits are mighitly / misplaced” (“i suoi benefici sono elargiti a sproposito”, 1.2.33-34), ag-
giungendo poi che la Fortuna è una donna benevola, ma cieca (1.2.34). Il tema, tuttavia, è talmente
pervasivo che sarebbe impossibile registrarne tutte le occorrenze lessicali.
11
  Nonostante, a un livello d’indagine più profondo, il lieto fine di molte commedie shake-
speariane risulti variamente problematico, nondimeno esso rimane una costante narrativa relativa
all’intreccio comico: senza happy ending il genere stesso della commedia perderebbe la sua carat-
teristica fondante.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 97

bili non solo al dramma in questione, ma anche al genere stesso in quanto tale:
“Peace ho! I bar confusion. / ’Tis I must make conclusion / Of these most strange
events.” (As You Like It, 5.4.124-126)12
Con il suo intervento provvidenziale, dunque, Imene impedisce alla confu-
sione (vale a dire, al caos della sorte) di procurare ulteriori danni, portando a
termine l’azione drammatica e restituendole un preciso ordine morale: “’Tis I
must make conclusion” “[…] and these things finish.” (5.4.125, 139)
Va peraltro precisato che il meccanismo retributivo viene applicato soprat-
tutto in relazione ai personaggi virtuosi; per i malvagi, vige − in qualche modo e
con esiti narrativi più o meno convincenti − il principio del perdono: principio
che fa sì che la loro punizione venga stemperata alla luce di una forma di cle-
menza neotestamentaria. La commedia, più che punire i malvagi, va a premiare
i buoni.
Com’è noto, alcune commedie, o forse tutte, presentano dei finali proble-
matici, nei quali cioè l’equità del sistema retributivo del lieto fine non risulta
del tutto convincente.13 Nondimeno, la presenza di tale sistema − pur con tutte
le sue ambivalenze − a fondamento degli intrecci comici appare innegabile. Del
resto, come si è visto, l’ambivalenza del principio retributivo non caratterizza
solo l’universo della finzione, ma appartiene anche al mondo reale essendo insi-
ta nella stessa fallacia inferenziale su cui esso poggia.

Di tutt’altra natura, invece, la dimensione morale dell’universo tragico. A


differenza delle commedie, nelle tragedie shakespeariane l’intreccio rimanda a
una visione del mondo all’interno della quale il rapporto tra virtù e fortuna ap-
pare non omologo o motivato, bensì eticamente arbitrario e fattualmente con-
tingente. Anche se in alcuni tipi di tragedie, che possiamo definire esemplari, si
può trovare una forma di corrispondenza tra carattere e destino (con la sconfitta
e la morte finale come punizione per i personaggi malvagi), nella tragedia shake-
speariana mai o solo raramente è dato trovare l’applicazione di un ordine morale
e di una giustizia di tipo retributivo − se non vagamente, e in maniera comunque
alquanto problematica, in Richard III.14

12
  “Silenzio! Bando alla confusione / Son io che devo trovar la conclusione / A questi eventi
così strani.”
13
  Com’è noto, accanto ai cosiddetti problem plays o dark comedies (Measure for Measure,
All’s Well That Ends Well, Troilus and Cressida), molte altre commedie presentano finali etica-
mente discutibili. A esempio, in The Merchant of Venice è anche il sistema di premi e di puni-
zioni nei confronti di personaggi più o meno moralmente discutibili − quali Antonio, Bassanio
e Shylock − a far prevalere, sia pure non senza un certo livello di problematicità, l’orizzonte
valoriale cristiano su quello ebraico.
14
  Difatti, nonostante le parole finali dei ghosts e dello stesso Richmond mostrino la fine di
98 Michele Stanco

È noto come una parte della critica neoclassica abbia censurato la tragedia shake-
speariana per il suo carattere immorale (a esempio, Thomas Rymer in The Tragedies
of the Last Age Considere’d, 1678). È altrettanto noto come alcune delle riscritture
e degli adattamenti neoclassici delle tragedie shakespeariane mirassero a fornire allo
spettatore, attraverso un nuovo e più adeguato finale, quegli insegnamenti morali e
quella funzione esemplare di cui gli originali apparivano invece privi.
Da un lato, venivano accentuati i tratti negativi di personaggi moralmente
discutibili in modo da presentare il finale tragico come una giusta punizione nei
confronti dei loro comportamenti: è questo, a esempio, il caso della riscrittura
di Antony e Cleopatra di John Dryden. Nel suo All for Love (1677), difatti,
Dryden si propone, come da lui espressamente dichiarato nella Prefazione, di
presentare la sfortunata fine della coppia di amanti come la sorte giustamente
meritata da due “famous Patterns of unlawful Love”.15
Dall’altro lato, i personaggi positivi venivano riscattati dal loro destino di
morte, avvertito come moralmente iniquo, per essere invece premiati con un
lieto fine: è questo, a esempio, il caso della happy-ending version di King Lear
da parte di Nahum Tate (1681) in cui la giustizia poetica è sancita dalla salvezza
di Cordelia e dal suo matrimonio finale con Edgar.
Due operazioni apparentemente opposte, quelle di Dryden e di Tate, eppu-
re miranti a un comune obiettivo: ripristinare quel sistema retributivo e quella
forma di giustizia poetica avvertiti come moralmente necessari alla forma dram-
matica, ed evidentemente assenti nella tragedia shakespeariana.
Non c’è alcun dubbio che le riscritture alle quali si è accennato scompaiano
esteticamente di fronte alla forza degli originali shakespeariani. Di esse, tutta-
via, ci importa soprattutto perché, nel loro tentativo di moralizzare la sorte dei
personaggi (di trovare, cioè, una corrispondenza tra virtù e fortuna) ci indicano,
e contrario, come la tragedia shakespeariana fosse viceversa basata su princìpi
totalmente diversi. In Shakespeare, la complessità psicologica e l’ambivalenza
etica di Antonio e Cleopatra fa sì che la loro morte non solo non abbia nulla di
esemplare, ma anzi ci rimandi all’arbitrarietà morale delle vicende umane. A sua

Riccardo III in chiave esemplare, sarebbe comunque una forzatura vedere nella caduta del tiranno
la semplice attuazione di un principio retributivo. Nel caso del Richard III siamo di fronte, per
così dire, a una narrazione esemplare di tipo ‘problematico’.
15
  Nella sua Prefazione, Dryden afferma che, dal momento che Antonio e Cleopatra costitu-
iscono “famous Patterns of unlawful Love”, “their end accordingly was unfortunate” (“famosi
esempi di amore illegittimo”; “la loro fine, di conseguenza, fu sfortunata.”); John Dryden, All for
Love, edited by D. M. Vieth (Lincoln: University of Nebraska Press, 1972). Dal nostro punto di
vista, è particolarmente rimarchevole l’uso dell’avverbio “accordingly”, attraverso il quale l’auto-
re afferma che la morte dei due amanti è il corrispettivo morale − ovvero la giusta punizione − nei
confronti della loro colpa.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 99

volta, nel Lear, la cattiva sorte, pur abbattendosi sui personaggi malvagi (Go-
neril e Regan, Edmund), alla fine non risparmia neanche i personaggi buoni o
comunque dotati di precisi, per quanto discutibili, valori morali: né la pura Cor-
delia, né lo stesso protagonista Lear sfuggono al loro finale destino di morte.
La presenza nella tragedia shakespeariana di una serie di vittime innocenti
(da Ofelia a Cordelia, ai nipoti del futuro Riccardo III, al giovanissimo Arthur)
ha indotto la critica a parlare di “ingiustizia tragica”: definizione, questa, indub-
biamente appropriata in relazione ad alcuni casi specifici.16 In termini più gene-
rali, tuttavia, la tragedia shakespeariana, più che essere propriamente ingiusta,
sembra offrirci uno spettacolo di casualità retributiva. L’idea che la cieca fortuna
mal distribuisca i propri doni, smentita dal lieto fine della commedia, si rivela,
così, profondamente vera in relazione all’universo tragico.
In sintesi, dunque, mentre le riscritture e gli adattamenti su citati, di Dryden
e di Tate, propongono una visione del mondo sostanzialmente analoga, basata
su un medesimo principio di giustizia retributiva tanto nelle tragedie (vizi puni-
ti) quanto nelle commedie (virtù premiate), in Shakespeare le tragedie ci restitu-
iscono una visione del mondo ben diversa da quella delle commedie.
Mentre nelle commedie la “fortune” si rivela, alla fine, “bountiful” (anche
perché sorretta da una “providence divine”: The Tempest, 1.2.178, 159), nelle
tragedie essa si mostra sin dall’inizio, e rimane per tutto il corso dell’azione,
“outrageous” (Hamlet, 3.1.57). Come osserva lo stesso Amleto, non v’è possibi-
lità alcuna per lui, ma in generale per nessun uomo, di rimettere a posto un tem-
po irrimediabilmente “slogato” o “fuori sesto” (Hamlet, 3.1.57; 1.5.186-187).

Al fine di articolare in maniera più chiara l’esposizione del tragico shakespe-


ariano se ne proporrà la suddivisione in tre punti principali. Nel primo si esa-
minerà la morte dell’eroe tragico; nel secondo la valenza morale di tale morte;
nel terzo si approfondiranno e si riesamineranno i primi due punti alla luce di
ulteriori considerazioni derivanti da una teoria espiatorio-sacrificale.

1. Morte finale del protagonista

La tragedia shakespeariana presenta una sequenza narrativa costante, il cui


punto d’approdo è invariabilmente costituito dalla morte dell’eroe. Spesso i cri-
tici hanno evidenziato il carattere tragico delle morti di personaggi secondari.
Tuttavia, nonostante la morte − qualsiasi morte − sia di per sé un evento tragi-

16
  Cfr., a esempio, il sottotitolo dell’interessante volume di R. S. White, Innocent Victims:
Poetic Injustice in Shakespearean Tragedy (London: The Athlone Press, 1986).
100 Michele Stanco

co, è solo la morte dell’eroe a segnare l’opera come tragedia in senso stretto. A
esempio, la morte di Hotspur (Speron-di-fuoco) in 1 Henry IV, non solo non
impedisce all’azione drammatica di proseguire, ma addirittura ne rende possibi-
le la progressione verso una sorta di lieto fine: difatti, è proprio grazie all’ucci-
sione del suo antagonista che il protagonista del dramma, il principe Hal, pone
fine alla ribellione e riesce a mettere il regno al sicuro.17 In altri casi, la morte
di un personaggio minore risulta del tutto ininfluente rispetto alla progressio-
ne dell’azione: è questo, a esempio, il caso di Falstaff in Henry V (2.3.1-37) −
dramma in cui il ruolo di Falstaff appare decisamente ridimensionato rispetto al
dittico precedente (1 Henry IV e 2 Henry IV).
In altri casi, le morti di personaggi più o meno minori possono risultare in
qualche modo preparatorie rispetto alla morte del protagonista. Come sugge-
risce la regina Gertrude, dopo la morte di Ofelia (che, a sua volta, segue quella
di Polonio e, in qualche modo preannuncia quelle successive), “One woe doth
tread upon another’s heel / So fast they follow” (Hamlet, 4.7.161-162).18
Si tratta, però, di morti che, pur essendo − in vari modi − tragiche, non val-
gono, di per sé, a caratterizzare il dramma in quanto tragedia: semmai, gettano
le premesse per quella conclusione tragica che sarà successivamente determinata
dalla morte del protagonista. È, dunque, solo ed esclusivamente la morte dell’eroe
a svolgere un ruolo propriamente risolutivo, andando a concludere l’azione.
In breve, affinché si possa parlare di ‘tragedia’ non solo è necessario che sia il
protagonista a morire, ma è anche necessario che la sua morte ‘chiuda’, per così
dire, l’azione. Precisazione, questa, solo apparentemente superflua, se si pensa −
per limitarsi a un unico, arcinoto esempio − all’infinito dibattito critico suscitato
dalla anomalia della morte ‘anticipata’ di Giulio Cesare nella tragedia omonima.19
La morte di Cesare nel terzo atto (dunque, a metà circa dell’azione drammatica)
è stata variamente interpretata dalla critica: accanto a chi ha sostenuto che la sua
figura e il suo fantasma continuano ad aleggiare anche post mortem (sia nella co-

  Pertanto, non condivido la lettura di ‘genere’ di Giorgio Melchiori, allorché egli scrive che
17

la presenza della “figura guerriera” di Hotspur (e la sua morte) “suggerisce una duplicità di inten-
zioni”, determinando una duplicità di genere: “tragedia storica e commedia” (“Introduzione” a
Enrico IV, parte prima, in W. Shakespeare, I drammi storici, tomo I, a cura di Giorgio Melchiori,
Milano: Mondadori, “I Meridiani”, 1979, 262ss.).
18
  “Una sciagura calpesta il calcagno all’altra / Tanto velocemente si susseguono.” Analoga-
mente, in Macbeth, l’assassinio di Duncan è solo il preludio a una serie di atti efferati, legati dal
principio del sangue-chiama-sangue, i quali, a loro volta, anticipano la morte conclusiva e pro-
priamente tragica del protagonista.
19
  Sergio Perosa, “Julius Caesar: le strutture drammatiche”, in Il precario equilibrio. Momen-
ti della tradizione letteraria inglese (Torino: Stampatori, “Nuova Cultura”, 1980), 76-99; David
Daniell, “Introduction”, in William Shakespeare, Julius Caesar (London: Thomson, “The Arden
Shakespeare”, 1998), 1-147.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 101

scienza lacerata di Bruto, sia più in generale nell’immaginario collettivo degli altri
personaggi) rendendo in tal modo Cesare protagonista fino alla fine, c’è chi ha so-
stenuto, viceversa, che i veri protagonisti sono i due congiurati Bruto e Cassio, la
cui morte si verifica, secondo le ‘regole’, nel V e ultimo atto. Dal nostro punto di
vista, non interessa tanto individuare quale tra le due letture sia corretta (ammesso
che sia lecito privilegiarne una e una sola), quanto segnalare il fatto che entrambe,
nel loro stesso tentativo di giustificare la morte ‘anticipata’ di Cesare, indiretta-
mente ce la presentano come uno scarto rispetto a una regola generale.
Va da sé che la morte finale del protagonista, in quanto elemento narrativo,
riguarda la poetica della tragedia e, in particolare il suo scioglimento − ovvero,
quella che potremmo definire la sua poetics of closure. Nondimeno, la colloca-
zione finale della morte dell’eroe, oltre a una valenza poetica, assume anche un
preciso senso filosofico, legato − in maniera precipua − al rispecchiamento da
parte dello spettatore nelle vicende e nella sorte del protagonista (rispecchia-
mento che non solo è alla base dell’azione drammatica in quanto tale, ma che era
anche espressamente previsto dalla teoria letteraria dell’epoca).20 In altri termini,
la scelta di chiudere l’azione con la morte dell’eroe rimanda lo spettatore alla
sua propria morte. Se lo spettatore si identifica (in senso lato) col protagonista,
le morti di personaggi più o meno minori sono eventi ai quali egli − al pari,
appunto, del protagonista − assiste come mero testimone: sono le morti degli
‘altri’.21 Viceversa, il fatto che la morte del protagonista viene a coincidere con
la chiusura dell’azione può essere considerato come l’omologo narrativo di una
visione esistenziale del morire: dopo la morte del personaggio principale non c’è
più azione perché la morte − come avrebbe poi suggerito Heidegger, ma come
avevano già da tempo intuito i poeti tragici − è la possibilità che tutte le altre
possibilità divengano impossibili (ovvero, la possibilità che annulla tutte le al-
tre). Dunque, il fatto che la morte del protagonista chiuda e, per così dire, sigilli
definitivamente l’azione drammatica suggerisce, a un tempo, un’idea dell’essere
come essere-per-la-morte e una visione del morire come azzeramento totale di
tutte le possibilità e di tutte le forme dell’ex-sistere. È appunto in questo senso
che la poetica della tragedia viene a coincidere con una filosofia del tragico.
Come osserva con filosofica saggezza il principe danese, allorché si avverte che
la vita sta per venire meno, non resta che abbandonarsi al nulla, anticipando quel
silenzio che necessariamente porrà fine all’ex-sistere: “The rest is silence.” (5.2.342)22

20
  Su questo punto rimando a Michele Stanco, “‘Specchio della natura’ o ‘larger than life’?
Verosimiglianza, catarsi e straniamento in Shakespeare”, in Chiara Lombardi (a cura di), Il per-
sonaggio. Figure della dissolvenza e della permanenza (Alessandria: Dell’Orso, 2008), 619-627.
21
  Come osserva Heidegger, posso morire per un altro, ma non posso sottrarre un altro alla
sua propria morte.
22
  “Il resto è silenzio.”
102 Michele Stanco

2. Modalità del morire: arbitrarietà morale del dolore individuale

Se, sul piano narrativo, la tragedia si chiude con la morte finale del protagoni-
sta, sul piano assiologico-valoriale, la morte dell’eroe − in contrasto con l’ordine
e l’equità retributiva propri della commedia − appare moralmente arbitraria.
La sciagura, il dolore, come osservano i filosofi, “sono […] ciò che per eccel-
lenza colpisce.” Questa accezione del dolore è perfettamente espressa dall’am-
piezza semantica del verbo pavscw, “che significa insieme accadere, subire, sof-
frire.” Il dolore, dunque, non si sceglie, bensì “giunge ineluttabile.”23 Di qui, il
senso del patire e della passione. Nessuna possibilità di controllo, dunque, da
parte dell’individuo.
Questa dimensione arbitraria − ma anche ineluttabile − del patire sembra
essere alla base degli intrecci e della visione tragica shakespeariana.
In alcune interpretazioni critiche, la tragedia shakespeariana è stata letta, for-
se in maniera un po’ riduttiva, sulla base della nozione di un errore tragico, che
condurrebbe il protagonista alla morte. L’eroe cadrebbe perché incapace di leg-
gere il mondo e i suoi segni. Esempio classico di questo tipo di lettura: il moro
Otello, il quale cade vittima della parola e delle trame tessute da Iago, non riu-
scendo a cogliere il carattere ingannevole e doppio del suo linguaggio. A diffe-
renza della tragedia greca, la caduta dell’eroe non sarebbe determinata “dal Fato
o da una colpa familiare e collettiva che gli dei intendono punire; in un mondo
senza dei com’è quello in cui questi eroi si aggirano, la loro colpa nasce dal loro
non vedere il mondo, dalla loro incapacità o dal loro rifiuto di conoscerlo.”24
L’idea di addebitare la caduta del protagonista a un suo errore riprende, con
ogni evidenza, il concetto aristotelico di hamartìa (errore, difetto, colpa). No-
nostante si tratti di una lettura non priva d’interesse, essa tuttavia convince solo
a metà. Interpretare la tragedia shakespeariana secondo tale principio significa,
se non attribuire un carattere moralistico-esemplare alla caduta, almeno imma-
ginare uno stretto nesso causale, ipotizzare un legame necessario ed esclusivo,
tra errore e caduta. E, per converso, significa suggerire che il personaggio possa
in qualche modo riuscire a dominare la propria fortuna attraverso la virtù, o
almeno una condotta più prudente.
In realtà, tuttavia, gli eroi tragici shakespeariani, così come i personaggi che
fanno loro da cornice, non abitano un mondo governato da princìpi retributivi.
Essi, quasi sempre, sono colpiti anche al di là dei propri errori e dei propri de-
meriti: se non da un Fato, almeno dalla non-controllabilità della sorte. Il dolore,

  Natoli, L’esperienza del dolore, 19.


23

  Agostino Lombardo, L’eroe tragico moderno. Faust, Amleto, Otello (Roma: Donzelli,
24

1996), 60.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 103

cioè − per riprendere la definizione su proposta di pavscw − “colpisce”: senza se


e senza ma.
È certamente vero che Otello non sa leggere le parole di Iago; tuttavia, la sua
caduta non sembra imputabile solo al suo errore ma anche a una serie di circo-
stanze contingenti, quali il famoso smarrimento del fazzoletto da parte di De-
sdemona o, più in generale, la condizione di bisogno nella quale viene a trovarsi
Cassio dopo la sua destituzione. Circostanze e contingenze talmente vaste, in-
tricate, imprevedibili da sfuggire al dominio anche dei più virtuosi. Così come in
Romeo and Juliet, errori e colpe varie, pur rilevanti, non sono gli unici responsa-
bili della tragica fine dei due giovani sposi: contro gli innamorati “avversati dalle
stelle” (Prologo, 6) giocano anche una serie di equivoci e, soprattutto, una tem-
pistica estremamente sfavorevole: dalla lettera non recapitata di Frate Lorenzo
all’arrivo a sua volta intempestivo di Romeo nella cripta − poco prima, cioè, che
Giulietta si risvegli. Analogamente, in King Lear, oltre alla dissennatezza e alla
malvagità di vari personaggi, giocano un ruolo tragico i tempi stessi dell’azione:
così, la morte di Cordelia e, di conseguenza, quella di Lear sono dovute anche a
un difetto di sincronia tra la volontà e la sua attuazione. 25
Dunque, più che attraverso una causalità morale del tipo errore-caduta, la fine
tragica dell’eroe sembra leggibile attraverso una più vasta, e complessa, interazio-
ne tra varie componenti. Secondo McGinn, la caduta dell’eroe tragico shakespea­
riano è determinata da una nefasta combinazione tra “carattere” e “situazione”:
Carattere e situazione si combinano per mettere in moto il meccanismo della tra-
gedia. È la situazione in cui si trova l’irresoluto Amleto che porta all’esito tragico:
la necessità di vendicare l’assassinio del padre […] La sua indecisione potrebbe
non avere ripercussioni se non si trovasse in una situazione a lui così costituzio-
nalmente inadatta.26

Non è dunque tanto, o solo, un errore o un difetto morale a determinare la


caduta dell’eroe tragico, ma una più vasta combinatoria, all’interno della quale
sarebbe vano cercare precisi nessi morali o princìpi retributivi.
L’uomo, in altri termini, sbaglia; tuttavia, esser buoni o prudenti può non
bastare: la fortuna non si lascia plasmare dal personaggio perché − a differenza
di quanto accade nelle commedie − essa non è omologa, né in alcun modo appa-
rentata alla virtù. Questo ci insegna il destino di vittime (più o meno) innocenti
quali Ofelia, Desdemona, Cordelia. E questo ci insegna il destino di tanti eroi

25
  Com’è noto, la sospensione della condanna a morte nei confronti di Cordelia e Lear non
giunge in tempo utile.
26
  Colin McGinn, “Shakespeare e la tragedia”, in Shakespeare filosofo (Roma: Fazi, 2008), 217
(ed. or. Shakespeare’s Philosophy, 2006).
104 Michele Stanco

ed eroine vittime, oltre che dei propri errori, anche della stessa imprevedibilità
della fortuna − si vedano, a esempio, le morti di Romeo, e di conseguenza di
Giulietta, determinate anche, come si è visto, dall’arrivo troppo rapido del gio-
vane presso la cripta dei Capuleti.
A tale proposito, un utile commento ci viene dalle parole di Gloucester in
Lear: “As flies to wanton boys, are we to th’ Gods” (4.1.36).27
Attraverso la sua similitudine, Gloucester non sembra tanto rimandarci a una
dimensione divino-metafisica delle umane vicende (se gli dèi sono indifferenti,
possiamo anche immaginare che non ci siano), quanto evidenziarne la casualità
retributiva, sottolineando − per dirla con Amleto − il carattere “oltraggioso”
della fortuna. Come osservava Machiavelli nel passo su citato, se la fortuna è
un fiume è solo nei momenti di quiete che possiamo tentare di controllarne gli
argini. Lo stesso principe ideale, per quanto accorto, è necessariamente condi-
zionato da una Fortuna che, non a caso, in conformità con i pregiudizi di genere
propri dell’epoca, è volubilmente “donna”.
In sintesi, dunque, il patire dell’eroe tragico appare sia moralmente arbitrario
(in quanto egli viene colpito anche al di là di colpe ed errori individuali da lui
commessi) sia fattualmente contingente (in quanto prodotto, o co-prodotto, da
un insieme di circostanze fortuite, ovvero dai rovesci imprevedibili della fortu-
na).
Tuttavia, per altri versi, il dolore tragico sembra nascere da cause più vaste,
non necessariamente arbitrarie, ma forse solo derivanti da più oscure scaturigini
morali. Allo stesso modo, il suo carattere contingente sembra, in qualche modo,
contraddetto da una sorta di necessità interna all’azione tragica. Da un lato,
cioè, siamo portati a pensare che Romeo e Giulietta avrebbero potuto salvarsi
se la lettera di Frate Lorenzo fosse stata recapitata in tempo utile; dall’altro lato,
però, avvertiamo, se non un finalismo interno alla sventura, almeno una sorta
di ineluttabilità e di necessità: come se la lettera di Frate Lorenzo non potesse
che rimanere non consegnata. Su tutto ciò occorrerà approfondire la riflessione.

3. Lacerazione e ricomposizione: radici sacrificali della tragedia shakespeariana

Si è detto sin qui che: 1. la tragedia si conclude con la morte dell’eroe; 2. tale
morte (così come quella dei personaggi che lo circondano) sembra essere sia mo-
ralmente arbitraria che fattualmente contingente. Tuttavia, si è anche aggiunto
che l’azione tragica shakespeariana sembra porci dei problemi ulteriori, alla luce
dei quali occorre, se non correggere, almeno integrare tali osservazioni liminari.

  “Come le mosche per i monelli, così siam noi per gli dei”.
27
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 105

Riguardo al primo punto (la morte finale dell’eroe tragico), se è vero che la
morte dell’eroe chiude la sua vicenda privata e personale, ponendo fine all’azio-
ne drammatica, è nondimeno vero che la tragedia shakespeariana lascia anche,
sia pur solo fugacemente, intravedere un ‘dopo’.
I greci, com’è noto, distinguevano tra zoé e bíos, tra un principio vitale ge-
nerale e la vita individuale dei singoli enti.28 Mentre la nostra specifica vita qua-
lificata, la “vita quam vivimus”, ha un inizio e una fine, il principio vitale è
sovra-individuale e non muore. Ora, nella sua stessa configurazione narrativa,
nel suo offrirci dei fugaci squarci successivi alla morte dell’eroe, la tragedia sha-
kespeariana ci rimanda appunto al fatto che la Vita continua anche dopo che
le esistenze dei singoli enti si sono spente, ricordandoci che la collettività va
avanti anche dopo la morte dell’eroe. Soprattutto, però, l’intreccio tragico ci
rimanda al ‘dopo’ come a un momento di ricomposizione dell’ordine, ovvero
di un nuovo principio. Tutte le tragedie shakespeariane ci presentano, dopo la
morte cruenta dell’eroe, e dopo il lutto a essa conseguente, i semi di una futura
ri-fondazione: ciò accade, a esempio, nella prefigurazione di una futura pace
tra i Capuleti e i Montecchi (Romeo and Juliet), nell’imminente conquista del
potere da parte di Ottaviano (Antony and Cleopatra), nell’avvicendamento di
Fortebraccio sul trono danese (Hamlet), nella nomina di Cassio quale gover-
natore di Cipro (Othello), nella riconquista della corona scozzese da parte del
legittimo erede Malcolm (Macbeth), nella presumibile incoronazione di Edgar
(King Lear), e così via.29
In altri termini, la morte dell’eroe viene a coincidere con il crollo di un ordi-
ne o di un sistema, preludendo alla ricomposizione di un nuovo ordine. George
Steiner, nel commentare tale tipo di chiusura collettiva e, in qualche modo, pacifi-
catrice, osserva che in Shakespeare, ma anche più in generale, “la tragedia assoluta
è molto rara.”30 Nonostante tale definizione non sia metodologicamente del tutto
felice (nella misura in cui parte dal presupposto di applicare alle opere e ai generi
letterari delle aspettative o categorie ideali, quali quella di “tragedia assoluta”, per
poi rilevare che esse non si danno nella effettiva prassi testuale), essa fotografa con
nitidezza un elemento importante degli intrecci tragici shakespeariani: quello, ap-
punto, di una ricomposizione sociale finale, successiva alla morte dell’eroe.

28
  Su questo punto, cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (To-
rino: Einaudi, 1995).
29
  Il finale di Lear è diverso nelle due diverse edizioni, in-quarto e in-folio, in cui la tragedia ci
è pervenuta (nel caso specifico, ci siamo riferiti all’edizione in-folio); in entrambi i testi, comun-
que, il finale della tragedia propone una forma di pacificazione/rifondazione (sia pure attribuita
a personaggi diversi).
30
  George Steiner, “La tragedia assoluta”, in Nessuna passione spenta (Milano: Garzanti,
1997), 72 (ed. or. No passion spent. Essays 1978-1996).
106 Michele Stanco

Il secondo punto su cui occorre aggiungere qualche precisazione è il qua-


dro assiologico-valoriale sottostante a tale ricomposizione finale. Se, come si
è detto, a un primo livello di indagine la tragedia ci presenta l’umano patire
come moralmente arbitrario, a un’indagine più approfondita si ricava l’impres-
sione che le morti, per quanto non giuste in relazione ai singoli individui che
ne vengono colpiti, siano comunque generate da una sorta di colpa collettiva
o trans-individuale. Il sacrificio di Ifigenia ci appare ingiusto o moralmente
immotivato in relazione alla virtù e all’innocenza della vergine che dovrebbe
essere immolata; tuttavia, al tempo stesso, esso trova una sua spiegazione mo-
rale (poco importa se condivisibile o meno) se allarghiamo il nostro sguardo
dal singolo individuo alla collettività cui egli appartiene. In altri termini (com’è
noto), nella tragedia − così come nel complesso dei miti che ne è alla base −
l’equità morale delle morti non va giudicata solo in relazione ai singoli indivi-
dui, ma va calata all’interno di un più vasto scenario sociale.31 Dunque, la morte
di Ifigenia non va giudicata solo in relazione all’innocenza della giovane, ma
anche in relazione alle colpe di altri: nel caso specifico, del padre Agamennone
nei confronti della divinità.
Nella tragedia, insomma, sembra agire una sorta di giustizia morale più oscu-
ra (e, forse, più difficile da comprendere ai nostri occhi moderni). La colpa, da
chiunque commessa, porta in sé una necessità morale di espiazione: i suoi effetti,
più che sul reo stesso, ricadono sul nucleo o sulla collettività alla quale il reo ap-
partiene. Così, le morti tragiche, più che essere moralmente arbitrarie, appaiono
dettate da una causalità morale riconducibile a parametri e princìpi particolari,
affatto diversi da quelli delle commedie.
Se nelle commedie la giustizia morale obbedisce a un principio individuali-
stico-retributivo, nelle tragedie essa assume un carattere collettivo-metonimico:
la punizione della colpa può, cioè, essere traslata dal reo all’innocente, purché
quest’ultimo appartenga a un gruppo familiare o sociale in qualche modo affine
a quello del reo. In altri termini, come nell’universo della commedia, anche nella
tragedia viene contemplata una sorta di corrispondenza tra valori e azioni, tra
colpe ed eventi; nella tragedia, tuttavia, tale correlazione risponde a parametri
morali più oscuri − o forse più arcaici − e, in ogni caso, non circoscritti al singo-
lo individuo colpevole, ma estesi alla collettività nel suo insieme.
Oltre a essere in qualche modo moralmente motivata o giustificata (sia pure
entro i parametri etici su descritti), l’espiazione − per lo stesso motivo − appare
anche fattualmente necessaria. La colpa tragica, infatti, è irreparabile e porta

  Com’è noto, nel mito le navi greche sono bloccate a causa di una bonaccia e, dunque, non
31

possono raggiungere Troia. Come predice l’indovino Calcante, solo sacrificando Ifigenia i venti
potranno tornare a spirare.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 107

ineluttabilmente con sé una successiva catena di morti. Senza tali morti la col-
lettività non potrà riuscire a ritrovare sé stessa (o a domare la propria violenza
interna). Se in commedie quali As You Like It o The Tempest l’usurpazione può
essere rimediata, e la legittimità dinastica ripristinata, tale possibilità rimane vi-
ceversa preclusa in tragedie come Hamlet o Macbeth, poiché nell’azione tragica
l’usurpatore ha anche assassinato l’usurpato. Le tragedie ci presentano, dunque,
una situazione di non-ritorno, all’interno della quale non c’è alcuna possibilità
di perdono, né di restaurazione dell’ordine se non attraverso una lunga scia di
sangue.

Se tale è il quadro generale della tragedia shakespeariana, rimane però da


chiarire meglio il significato più profondo della necessità tragica, ovvero il ca-
rattere fattualmente necessario del dolore e della morte. Un utile spunto può
venirci dalla scena finale di Romeo and Juliet, e precisamente dalle parole del
vecchio Capuleti, allorché egli definisce i due giovani sfortunati come “Poor
sacrifices of our enmity!” (5.3.304)32
A un primo livello di interpretazione, Capuleti sembra voler semplicemente
dire che è stato l’odio tra le due rispettive famiglie a determinare la morte dei
due giovani. Una spiegazione del genere potrebbe essere pienamente razionale
e in linea con la nostra moderna visione del mondo (vale a dire, con la nostra
idea dei rapporti causa/effetto): se l’amore tra Romeo e Giulietta non fosse sta-
to condizionato dalla faida tra i Capuleti e i Montecchi, la loro storia d’amore
avrebbe potuto avere un epilogo felice.
A sua volta, la successiva pace tra le due famiglie, prefigurata dalla stessa sce-
na, può trovare una spiegazione pienamente razionale: i due vecchi capifamiglia
decidono finalmente di riappacificarsi in quanto pentiti per le funeste conse-
guenze del proprio odio.
Tuttavia, l’uso del termine “sacrifices” ci suggerisce la possibilità di un’inter-
pretazione alternativa. In maniera semi-allusiva, Capuleti sembra suggerirci che
la morte dei due giovani sia una forma di “sacrificio” necessaria alla successiva
pacificazione.
Insomma, la tragedia sembra prevedere, accanto a una lettura per così dire
moderna, anche una più sotterranea lettura arcaica: da un lato, la morte acciden-
tale di Romeo e Giulietta porta successivamente le due famiglie alla riflessione,
al pentimento, alla riappacificazione; dall’altro, però, se si rovesciano tali nessi
causali, Romeo e Giulietta muoiono pour cause: essi devono essere necessaria-
mente “sacrificati” affinché la pace tra le loro famiglie possa essere ripristinata.
Non è cioè la loro morte a generare la successiva pace, ma è la stessa esigenza

  “Povere vittime sacrificali del nostro odio!”


32
108 Michele Stanco

di pace sociale a richiedere la loro morte e il loro sacrificio (così come accade,
appunto, nel mito di Ifigenia).
Come si vedrà, un po’ tutte le tragedie di Shakespeare, nella loro stessa se-
quenza narrativa, si prestano a una simile, duplice, lettura.
In una scia parzialmente analoga si pone la tragedia The Duchess of Malfi
(pubblicata nel 1623, ma probabilmente composta nel 1613) di John Webster. Si
confrontino, a tale proposito, le parole conclusive di Delio, a commento della
vera e propria carneficina messa in atto nelle sequenze precedenti: “Let us make
noble use / Of this great ruin.” (5.5.111-112)33
Nella sua esortazione, Delio mette in atto una forma di razionalizzazione
dello schema sacrificale; anzi, una razionalizzazione ancor più spinta di quella
evocata da Capuleti (o ricavabile dalle sue parole). La “grande rovina” − ovvero,
la lunga scia delle morti precedenti − non è stata la necessaria espiazione o il
necessario strumento in vista del successivo riordino politico-dinastico, ma può
essere usata ‘come se’ lo fosse.
Alla luce di tutto ciò, la stessa sequenza narrativa della tragedia shakespearia-
na assume un significato più forte. Come si è visto, la morte dell’eroe è sempre
seguita da una ricomposizione dell’ordine (o, comunque, dall’instaurazione di
una nuova stagione politica). Nessuna delle tragedie pone un esplicito legame
tra i due eventi; nondimeno, il ripetersi stesso di tale sequenza sembra suggerire
l’esistenza, anche se solo implicita e allusiva, di un preciso nesso tra la morte
dell’eroe e la successiva ricomposizione dell’ordine. Le su citate parole del vec-
chio Capuleti, seppur allusive, manifestano, forse meglio di qualsiasi parafrasi
critica, la natura propiziatorio-sacrificale di tale nesso. L’eroe, in altri termini,
appare come la vittima da immolare per placare la violenza e il caos in cui il sot-
tomondo da lui abitato è precipitato.
All’interno di tale quadro, l’eroe stesso non è propriamente ‘innocente’, visto
che le colpe della sua collettività lo hanno, in qualche modo, metonimicamente
‘macchiato’: egli, pur senza essere propriamente colpevole, è per così dire un
innocente contaminato.

In conclusione, la duplice lettura della sequenza narrativa tragica dà adito a


due possibili interpretazioni degli eventi. Da un lato, la ricomposizione dell’or-
dine è un tentativo di porre fine al disordine determinato da una lunga, quanto
fortuita, scia di lutti; dall’altro, in maniera simbolica, i lutti sono necessariamen-
te, sacrificalmente partoriti da quella stessa esigenza interna di ri-ordino sociale
che si manifesterà pienamente all’esterno allorché la loro lunga scia di sangue si
sarà esaurita.

  “Facciamo buon uso di questa grande rovina.”


33
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 109

Naturalmente, interpretare la tragedia shakespeariana alla luce di una teo-


ria del “capro espiatorio”34 non significa necessariamente attribuire all’autore
una corrispondente concezione propiziatorio-sacrificale − o almeno una consa-
pevole drammatizzazione di tale concezione. Nella tragedia shakespeariana lo
schema sacrificale è presente in maniera ancor più allusiva ed elusiva che nella
tragedia greca (com’è noto, l’unica tragedia greca di impianto esplicitamente sa-
crificale sono Le Baccanti di Euripide); per usare un’espressione warburghiana,
possiamo dire che esso si presenta come una “memoria attenuata” o come una
traccia residuale di una visione del mondo ormai desueta.
In sintesi, nella tragedia shakespeariana l’impianto sacrificale sembra tradursi
in un lascito archetipico, ormai scomposto, all’interno del quale il rapporto di
causalità tra morte e rinascita (o ri-fondazione), viene solo debolmente evocato
dalla stessa sequenza narrativa, senza mai tuttavia essere verbalmente esplici-
tato. Nondimeno, la sua presenza, per quanto oscura e sotterranea, è tale da
generare una precisa poetica, da partorire una serie di intrecci, da dar vita a una
serie di immagini (si pensi, a esempio, alle immagini di sangue e di lacerazione
nel Macbeth) che costituiscono parte essenziale del senso tragico e che, in virtù
della loro stessa forza ed evocatività, si sono stampate in maniera indelebile nel
nostro immaginario collettivo.

34
  Su tale teoria, cfr. René Girard, La violenza e il sacro (Milano: Adelphi 1980); Il capro espia-
torio (Milano: Adelphi, 1987); Carlo Gentili e Luca Garelli, Il tragico (Bologna: il Mulino, 2010).

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