a cura di
Simonetta de Filippis
LOFFREDO EDITORE
NAPOLI
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati
dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e con i fondi di ricerca di Ateneo
ISBN 978-88-7564-645-5
Copertina:
Progetto grafico di Mariano Cinque
Impaginazione:
Spazio Creativo Publishing - Napoli
Presentazione
311 I partecipanti
Presentazione
Letture del tragico
Simonetta de Filippis
Nella sezione La filosofia del tragico si analizzano diversi aspetti del pensie-
ro del tempo in una prospettiva che tiene conto della crisi di valori, delle incer-
tezze e della fragilità dell’uomo del Rinascimento.
“Lo specchio di Richard II e il soggetto della tragedia” di Bianca Del Villa-
no si concentra sulla metafora dello specchio che, nel teatro di Shakespeare, di-
venta simbolo e strumento di conoscenza, “mezzo attraverso cui rappresentare
e indagare le contraddizioni di un’epoca la cui struttura epistemica appare in
rapido disfacimento.” (35) L’analisi della scena in cui Riccardo osserva il pro-
prio volto riflesso e, non riconoscendosi, infrange lo specchio, conduce a sug-
gestive interpretazioni dell’immagine del broken mirror e ad approfondite ri-
flessioni sul piano epistemico: l’estetica del frammento viene individuata come
la forma di rappresentazione di una soggettività in bilico fra due epoche, fra un
sistema in decadimento e un processo sociale e filosofico teso verso la moder-
nità. Riccardo riconosce nella molteplicità dei frammenti il proprio io diviso
e la possibilità di ritrovare una nuova identità in qualcuno di quei frammenti,
nella consapevolezza che ciascun riflesso può rimandare una diversa visione
del sé – così come all’epoca l’incertezza epistemica conduceva alla formazione
della coscienza (e della tragedia) moderna attraverso cui interpretare le mille
facce della realtà.
Laura Di Michele, in “L’assedio delle passioni nell’universo tragico di Sha-
kespeare”, discute quanto la concezione gerarchica del macrocosmo, messa
in discussione dai grandi mutamenti del tempo, si ripercuota nel microcosmo
mostrando una ragione non più dominante, ma “assediata” dalle passioni. Il
conseguente senso di forte destabilizzazione si esprime attraverso una presen-
za pervasiva del senso del tragico nella produzione shakespeariana, che finisce
con il mettere in crisi la tradizionale articolazione in generi e che dà voce alla
crisi complessiva della cultura alle soglie della modernità. E se questo emerge
in modo evidente nelle grandi tragedie e nei drammi di storia inglese e romana,
è ancor più significativo rilevarne la presenza in commedie come The Comedy
of Errors o nel dramma a lieto fine Cardenio, o infine nella produzione poetica,
anzitutto nel grande affresco tragico che è The Rape of Lucrece, in cui “Shake-
speare sembra affermare una politica delle passioni mediante la quale gli affetti,
i desideri e tutti quei sentimenti che abitano le zone oscure della mente umana
possono essere resi visibili e possono essere percepiti come aspetti ineliminabili
dei comportamenti umani.” (73)
Letture del tragico 13
Lo sguardo tragico, titolo della terza sezione del presente volume, raccoglie
alcuni interventi che mettono al centro del discorso la funzione dello sguardo,
14 Simonetta de Filippis
e altri che esaminano aspetti del tragico mediante richiami a raffigurazioni pit-
toriche che, per la loro stessa natura, si rivolgono allo sguardo di chi osserva
presentando attraverso il tratto e il colore dell’immagine quel senso tragico che
Shakespeare esprime con la parola teatrale.
In “Caritas Romana: il tragico del femminile nel King Lear”, Maria Del Sapio
Garbero interpreta la nota scena della tempesta, così centrale in questa tragedia,
non solo come commento al caos provocato da una crisi di autorità, ma come
delusione in Lear di quel bisogno del materno ricercato nelle figlie che invece
gli rimandano “l’immagine di un materno freddo e impietoso” (123). La conse-
guente regressione dell’identità conduce a una visione ribaltata del materno in
cui il padre sembra voler diventare figlio delle proprie figlie, un ribaltamento
che trova rappresentazione nel mito – quello della Caritas Romana con la storia
di Cimone e Pero – e in numerosi dipinti. Il tema della pietas filiale emerge, nella
tragedia shakespeariana, soprattutto nella parte finale con la scena in cui “la fan-
tasia di Lear sembra realizzarsi nella recuperata generosa immagine di una Cor-
delia che quasi culla nel grembo accogliente il vecchio padre in ginocchio” (115).
Angela Leonardi, nella lettura di King Lear proposta in “La tragedia della
non-comunicazione: silenzi incompresi e ferocia della parola nel King Lear”,
osserva come la tragedia prenda spunto da una comunicazione falsata (di Go-
neril e Regan) e da una comunicazione mancata (di Cordelia) che, spezzando
l’ordine stabilito dei legami affettivi, producono dolore, confusione e infine
pazzia nel vecchio re. Vengono poi esaminate alcune delle numerose immagini
zoomorfe legate ai personaggi femminili del dramma, tutti animali rapaci, pre-
datori, che è lo stesso re a evocare come metafora della crudeltà, falsità e voracità
delle figlie: avvoltoi, serpenti, felini, rettili e uccelli rapaci, assumono agli occhi
di Lear le fattezze delle figlie tanto amate e tanto ingrate che, con la loro violenta
negazione del padre, determinano la caduta morale e mentale del re: una mirabi-
le e memorabile rappresentazione del sentire tragico del tempo.
Laura Sarnelli, nel saggio “Othello: l’osceno in scena”, volge il suo sguardo
critico sul testo di Othello per trattare del senso dell’osceno, nel suo doppio
significato di indecente/mostruoso e di ‘fuori scena’. È questa una delle tra-
gedie più ricche di immagini erotiche, in cui il ‘fuori scena’ è molto utilizzato,
in particolare attraverso la parola di Iago che richiama in modo estremamente
brutale e, appunto, ‘o-sceno’, una serie di azioni e di immagini razziste legate al
personaggio del Moro, rappresentante della sessualità nera, dell’alterità e della
trasgressione. La camera da letto, luogo della “mostruosa unione” di razze di-
verse evocato dalla parola ipnotica di Iago attraverso immagini perturbanti, “di-
viene un luogo di promiscuità proibita, di corruzione e trasgressione sia sociale
che razziale”; e quando alla fine questo luogo “mostruoso” compare onstage, si
produce una sorta di “‘duplicità pornografica’ che spinge a guardare, ma che allo
stesso tempo fa distogliere lo sguardo” (166).
Letture del tragico 15
Non potevano mancare discorsi sugli spettacoli teatrali e nella sezione Met-
tere in scena il tragico si discutono alcune interessanti produzioni italiane ispi-
rate a Shakespeare ma che di fatto propongono nuove letture dei testi.
Letture del tragico 17
capulet
As rich shall Romeo’s by his lady’s lie,
Poor sacrifices of our enmity.
(Romeo and Juliet, 5.3.303-304)1
1
“Altrettanto ricco giacerà Romeo accanto alla statua della sua signora, / l’uno e l’altra vitti-
me sacrificali del nostro odio.” Qui, e di seguito, le citazioni e i riferimenti al dramma elisabettia-
no sono tratti dalle edizioni Arden correnti (ove non indicato i corsivi sono miei); le traduzioni
sono mie.
2
Nel suo Saggio sul tragico (1961), Peter Szondi sostiene: “Fin da Aristotele vi è una poetica
della tragedia; solo a partire da Schelling vi è una filosofia del tragico” (trad. Gianluca Garelli,
Torino: Einaudi, 1996), 3.
94 Michele Stanco
Premessa. Virtù e fortuna: intrecci e visioni del mondo nella commedia e nella
tragedia
Nel Rinascimento (non solo inglese) il dibattito sul rapporto tra ‘virtù’
e ‘fortuna’ si pone al centro della riflessione etica, politica, storica. Com’è
noto, un esempio tra i più macroscopici, ma anche tra i più controversi, lo si
può trovare nell’opera politica di Niccolò Machiavelli. All’interno del pen-
siero laico, razionale, empirista, il rapporto tra virtù e fortuna è un rapporto
circoscritto e limitato a quegli ambiti esperienziali all’interno dei quali la virtù
(nel senso, ovviamente, rinascimentale del termine) appare in grado di condi-
zionare la sorte. Come osserva lo stesso Machiavelli, attraverso la significativa
metafora di un fiume al quale non si può resistere allorché rompe gli argini
ma che si può incanalare nei “tempi quieti”, la fortuna può essere considerata
“arbitra della metà delle azioni nostre”, ma “etiam lei” ne lascia “governare
l’altra metà.”4
Viceversa, all’interno del pensiero religioso, o di modelli culturali di tipo
analogico-simbolico a esso variamente intrecciati, il rapporto tra virtù e fortuna
è, per così dire, di tipo totalizzante. Allorché la giustizia divina viene assunta
come garante di un ‘principio retributivo’, si deve giocoforza immaginare che la
fortuna arrida, sempre e in ogni caso, alla virtù. Anche in quegli eventi della vita
Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XXV: “Quanto possa la Fortuna nelle cose umane, et
4
in che modo se li abbia a resistere” (a cura di Luigi Firpo, Torino: Einaudi, 1961, 120-121).
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 95
5
Significativamente, però, il duello inizialmente proposto come metro giuridico per giudi-
care dell’onore dei due contendenti, non avrà luogo (Richard II, 1.3). Sugli aspetti più generali
di questo tema, cfr. Robert R. Reed Jr., Crime and God’s Judgement in Shakespeare (Lexington,
Kentucky: The University Press of Kentucky, 1984).
6
All’epoca del trattato, il futuro re Giacomo I era ancora Giacomo VI di Scozia.
7
James R. (James VI), Daemonologie, in forme of a Dialogue (1597). Cfr. l’“Introduzione” di
Giovanna Silvani alla edizione anastatica dell’edizione stampata a Edimburgo nel 1597 (Trento:
Università degli Studi di Trento, 1997), VII-XXVII.
96 Michele Stanco
8
Difatti, secondo Sidney, la storia mostra ciò che accade; la poesia, invece, mostra ciò che
dovrebbe accadere (o che sarebbe giusto che accadesse).
9
La visione retributiva della sorte ha radici di tipo teologico-provvidenziale, legandosi anche
a un preciso sistema di ricompensa ultramondano sulla cui natura, per ovvi motivi, si può solo ac-
cennare in questa sede. Sull’aspetto retributivo della commedia shakespeariana e sui dettami della
giustizia poetica si rinvia a Michele Stanco, Il caos ordinato. Tensioni etiche e giustizia poetica in
Shakespeare (Roma: Carocci, 2009).
10
La definizione della fortuna come “strumpet” o “outrageous” è in Hamlet (2.2.235-236;
2.2.489ss; 3.1.57ss); in As You Like It Rosalind, nel rispondere a Celia, sostiene che “her [Fortu-
ne’s] benefits are mighitly / misplaced” (“i suoi benefici sono elargiti a sproposito”, 1.2.33-34), ag-
giungendo poi che la Fortuna è una donna benevola, ma cieca (1.2.34). Il tema, tuttavia, è talmente
pervasivo che sarebbe impossibile registrarne tutte le occorrenze lessicali.
11
Nonostante, a un livello d’indagine più profondo, il lieto fine di molte commedie shake-
speariane risulti variamente problematico, nondimeno esso rimane una costante narrativa relativa
all’intreccio comico: senza happy ending il genere stesso della commedia perderebbe la sua carat-
teristica fondante.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 97
bili non solo al dramma in questione, ma anche al genere stesso in quanto tale:
“Peace ho! I bar confusion. / ’Tis I must make conclusion / Of these most strange
events.” (As You Like It, 5.4.124-126)12
Con il suo intervento provvidenziale, dunque, Imene impedisce alla confu-
sione (vale a dire, al caos della sorte) di procurare ulteriori danni, portando a
termine l’azione drammatica e restituendole un preciso ordine morale: “’Tis I
must make conclusion” “[…] and these things finish.” (5.4.125, 139)
Va peraltro precisato che il meccanismo retributivo viene applicato soprat-
tutto in relazione ai personaggi virtuosi; per i malvagi, vige − in qualche modo e
con esiti narrativi più o meno convincenti − il principio del perdono: principio
che fa sì che la loro punizione venga stemperata alla luce di una forma di cle-
menza neotestamentaria. La commedia, più che punire i malvagi, va a premiare
i buoni.
Com’è noto, alcune commedie, o forse tutte, presentano dei finali proble-
matici, nei quali cioè l’equità del sistema retributivo del lieto fine non risulta
del tutto convincente.13 Nondimeno, la presenza di tale sistema − pur con tutte
le sue ambivalenze − a fondamento degli intrecci comici appare innegabile. Del
resto, come si è visto, l’ambivalenza del principio retributivo non caratterizza
solo l’universo della finzione, ma appartiene anche al mondo reale essendo insi-
ta nella stessa fallacia inferenziale su cui esso poggia.
12
“Silenzio! Bando alla confusione / Son io che devo trovar la conclusione / A questi eventi
così strani.”
13
Com’è noto, accanto ai cosiddetti problem plays o dark comedies (Measure for Measure,
All’s Well That Ends Well, Troilus and Cressida), molte altre commedie presentano finali etica-
mente discutibili. A esempio, in The Merchant of Venice è anche il sistema di premi e di puni-
zioni nei confronti di personaggi più o meno moralmente discutibili − quali Antonio, Bassanio
e Shylock − a far prevalere, sia pure non senza un certo livello di problematicità, l’orizzonte
valoriale cristiano su quello ebraico.
14
Difatti, nonostante le parole finali dei ghosts e dello stesso Richmond mostrino la fine di
98 Michele Stanco
È noto come una parte della critica neoclassica abbia censurato la tragedia shake-
speariana per il suo carattere immorale (a esempio, Thomas Rymer in The Tragedies
of the Last Age Considere’d, 1678). È altrettanto noto come alcune delle riscritture
e degli adattamenti neoclassici delle tragedie shakespeariane mirassero a fornire allo
spettatore, attraverso un nuovo e più adeguato finale, quegli insegnamenti morali e
quella funzione esemplare di cui gli originali apparivano invece privi.
Da un lato, venivano accentuati i tratti negativi di personaggi moralmente
discutibili in modo da presentare il finale tragico come una giusta punizione nei
confronti dei loro comportamenti: è questo, a esempio, il caso della riscrittura
di Antony e Cleopatra di John Dryden. Nel suo All for Love (1677), difatti,
Dryden si propone, come da lui espressamente dichiarato nella Prefazione, di
presentare la sfortunata fine della coppia di amanti come la sorte giustamente
meritata da due “famous Patterns of unlawful Love”.15
Dall’altro lato, i personaggi positivi venivano riscattati dal loro destino di
morte, avvertito come moralmente iniquo, per essere invece premiati con un
lieto fine: è questo, a esempio, il caso della happy-ending version di King Lear
da parte di Nahum Tate (1681) in cui la giustizia poetica è sancita dalla salvezza
di Cordelia e dal suo matrimonio finale con Edgar.
Due operazioni apparentemente opposte, quelle di Dryden e di Tate, eppu-
re miranti a un comune obiettivo: ripristinare quel sistema retributivo e quella
forma di giustizia poetica avvertiti come moralmente necessari alla forma dram-
matica, ed evidentemente assenti nella tragedia shakespeariana.
Non c’è alcun dubbio che le riscritture alle quali si è accennato scompaiano
esteticamente di fronte alla forza degli originali shakespeariani. Di esse, tutta-
via, ci importa soprattutto perché, nel loro tentativo di moralizzare la sorte dei
personaggi (di trovare, cioè, una corrispondenza tra virtù e fortuna) ci indicano,
e contrario, come la tragedia shakespeariana fosse viceversa basata su princìpi
totalmente diversi. In Shakespeare, la complessità psicologica e l’ambivalenza
etica di Antonio e Cleopatra fa sì che la loro morte non solo non abbia nulla di
esemplare, ma anzi ci rimandi all’arbitrarietà morale delle vicende umane. A sua
Riccardo III in chiave esemplare, sarebbe comunque una forzatura vedere nella caduta del tiranno
la semplice attuazione di un principio retributivo. Nel caso del Richard III siamo di fronte, per
così dire, a una narrazione esemplare di tipo ‘problematico’.
15
Nella sua Prefazione, Dryden afferma che, dal momento che Antonio e Cleopatra costitu-
iscono “famous Patterns of unlawful Love”, “their end accordingly was unfortunate” (“famosi
esempi di amore illegittimo”; “la loro fine, di conseguenza, fu sfortunata.”); John Dryden, All for
Love, edited by D. M. Vieth (Lincoln: University of Nebraska Press, 1972). Dal nostro punto di
vista, è particolarmente rimarchevole l’uso dell’avverbio “accordingly”, attraverso il quale l’auto-
re afferma che la morte dei due amanti è il corrispettivo morale − ovvero la giusta punizione − nei
confronti della loro colpa.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 99
volta, nel Lear, la cattiva sorte, pur abbattendosi sui personaggi malvagi (Go-
neril e Regan, Edmund), alla fine non risparmia neanche i personaggi buoni o
comunque dotati di precisi, per quanto discutibili, valori morali: né la pura Cor-
delia, né lo stesso protagonista Lear sfuggono al loro finale destino di morte.
La presenza nella tragedia shakespeariana di una serie di vittime innocenti
(da Ofelia a Cordelia, ai nipoti del futuro Riccardo III, al giovanissimo Arthur)
ha indotto la critica a parlare di “ingiustizia tragica”: definizione, questa, indub-
biamente appropriata in relazione ad alcuni casi specifici.16 In termini più gene-
rali, tuttavia, la tragedia shakespeariana, più che essere propriamente ingiusta,
sembra offrirci uno spettacolo di casualità retributiva. L’idea che la cieca fortuna
mal distribuisca i propri doni, smentita dal lieto fine della commedia, si rivela,
così, profondamente vera in relazione all’universo tragico.
In sintesi, dunque, mentre le riscritture e gli adattamenti su citati, di Dryden
e di Tate, propongono una visione del mondo sostanzialmente analoga, basata
su un medesimo principio di giustizia retributiva tanto nelle tragedie (vizi puni-
ti) quanto nelle commedie (virtù premiate), in Shakespeare le tragedie ci restitu-
iscono una visione del mondo ben diversa da quella delle commedie.
Mentre nelle commedie la “fortune” si rivela, alla fine, “bountiful” (anche
perché sorretta da una “providence divine”: The Tempest, 1.2.178, 159), nelle
tragedie essa si mostra sin dall’inizio, e rimane per tutto il corso dell’azione,
“outrageous” (Hamlet, 3.1.57). Come osserva lo stesso Amleto, non v’è possibi-
lità alcuna per lui, ma in generale per nessun uomo, di rimettere a posto un tem-
po irrimediabilmente “slogato” o “fuori sesto” (Hamlet, 3.1.57; 1.5.186-187).
16
Cfr., a esempio, il sottotitolo dell’interessante volume di R. S. White, Innocent Victims:
Poetic Injustice in Shakespearean Tragedy (London: The Athlone Press, 1986).
100 Michele Stanco
co, è solo la morte dell’eroe a segnare l’opera come tragedia in senso stretto. A
esempio, la morte di Hotspur (Speron-di-fuoco) in 1 Henry IV, non solo non
impedisce all’azione drammatica di proseguire, ma addirittura ne rende possibi-
le la progressione verso una sorta di lieto fine: difatti, è proprio grazie all’ucci-
sione del suo antagonista che il protagonista del dramma, il principe Hal, pone
fine alla ribellione e riesce a mettere il regno al sicuro.17 In altri casi, la morte
di un personaggio minore risulta del tutto ininfluente rispetto alla progressio-
ne dell’azione: è questo, a esempio, il caso di Falstaff in Henry V (2.3.1-37) −
dramma in cui il ruolo di Falstaff appare decisamente ridimensionato rispetto al
dittico precedente (1 Henry IV e 2 Henry IV).
In altri casi, le morti di personaggi più o meno minori possono risultare in
qualche modo preparatorie rispetto alla morte del protagonista. Come sugge-
risce la regina Gertrude, dopo la morte di Ofelia (che, a sua volta, segue quella
di Polonio e, in qualche modo preannuncia quelle successive), “One woe doth
tread upon another’s heel / So fast they follow” (Hamlet, 4.7.161-162).18
Si tratta, però, di morti che, pur essendo − in vari modi − tragiche, non val-
gono, di per sé, a caratterizzare il dramma in quanto tragedia: semmai, gettano
le premesse per quella conclusione tragica che sarà successivamente determinata
dalla morte del protagonista. È, dunque, solo ed esclusivamente la morte dell’eroe
a svolgere un ruolo propriamente risolutivo, andando a concludere l’azione.
In breve, affinché si possa parlare di ‘tragedia’ non solo è necessario che sia il
protagonista a morire, ma è anche necessario che la sua morte ‘chiuda’, per così
dire, l’azione. Precisazione, questa, solo apparentemente superflua, se si pensa −
per limitarsi a un unico, arcinoto esempio − all’infinito dibattito critico suscitato
dalla anomalia della morte ‘anticipata’ di Giulio Cesare nella tragedia omonima.19
La morte di Cesare nel terzo atto (dunque, a metà circa dell’azione drammatica)
è stata variamente interpretata dalla critica: accanto a chi ha sostenuto che la sua
figura e il suo fantasma continuano ad aleggiare anche post mortem (sia nella co-
Pertanto, non condivido la lettura di ‘genere’ di Giorgio Melchiori, allorché egli scrive che
17
la presenza della “figura guerriera” di Hotspur (e la sua morte) “suggerisce una duplicità di inten-
zioni”, determinando una duplicità di genere: “tragedia storica e commedia” (“Introduzione” a
Enrico IV, parte prima, in W. Shakespeare, I drammi storici, tomo I, a cura di Giorgio Melchiori,
Milano: Mondadori, “I Meridiani”, 1979, 262ss.).
18
“Una sciagura calpesta il calcagno all’altra / Tanto velocemente si susseguono.” Analoga-
mente, in Macbeth, l’assassinio di Duncan è solo il preludio a una serie di atti efferati, legati dal
principio del sangue-chiama-sangue, i quali, a loro volta, anticipano la morte conclusiva e pro-
priamente tragica del protagonista.
19
Sergio Perosa, “Julius Caesar: le strutture drammatiche”, in Il precario equilibrio. Momen-
ti della tradizione letteraria inglese (Torino: Stampatori, “Nuova Cultura”, 1980), 76-99; David
Daniell, “Introduction”, in William Shakespeare, Julius Caesar (London: Thomson, “The Arden
Shakespeare”, 1998), 1-147.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 101
scienza lacerata di Bruto, sia più in generale nell’immaginario collettivo degli altri
personaggi) rendendo in tal modo Cesare protagonista fino alla fine, c’è chi ha so-
stenuto, viceversa, che i veri protagonisti sono i due congiurati Bruto e Cassio, la
cui morte si verifica, secondo le ‘regole’, nel V e ultimo atto. Dal nostro punto di
vista, non interessa tanto individuare quale tra le due letture sia corretta (ammesso
che sia lecito privilegiarne una e una sola), quanto segnalare il fatto che entrambe,
nel loro stesso tentativo di giustificare la morte ‘anticipata’ di Cesare, indiretta-
mente ce la presentano come uno scarto rispetto a una regola generale.
Va da sé che la morte finale del protagonista, in quanto elemento narrativo,
riguarda la poetica della tragedia e, in particolare il suo scioglimento − ovvero,
quella che potremmo definire la sua poetics of closure. Nondimeno, la colloca-
zione finale della morte dell’eroe, oltre a una valenza poetica, assume anche un
preciso senso filosofico, legato − in maniera precipua − al rispecchiamento da
parte dello spettatore nelle vicende e nella sorte del protagonista (rispecchia-
mento che non solo è alla base dell’azione drammatica in quanto tale, ma che era
anche espressamente previsto dalla teoria letteraria dell’epoca).20 In altri termini,
la scelta di chiudere l’azione con la morte dell’eroe rimanda lo spettatore alla
sua propria morte. Se lo spettatore si identifica (in senso lato) col protagonista,
le morti di personaggi più o meno minori sono eventi ai quali egli − al pari,
appunto, del protagonista − assiste come mero testimone: sono le morti degli
‘altri’.21 Viceversa, il fatto che la morte del protagonista viene a coincidere con
la chiusura dell’azione può essere considerato come l’omologo narrativo di una
visione esistenziale del morire: dopo la morte del personaggio principale non c’è
più azione perché la morte − come avrebbe poi suggerito Heidegger, ma come
avevano già da tempo intuito i poeti tragici − è la possibilità che tutte le altre
possibilità divengano impossibili (ovvero, la possibilità che annulla tutte le al-
tre). Dunque, il fatto che la morte del protagonista chiuda e, per così dire, sigilli
definitivamente l’azione drammatica suggerisce, a un tempo, un’idea dell’essere
come essere-per-la-morte e una visione del morire come azzeramento totale di
tutte le possibilità e di tutte le forme dell’ex-sistere. È appunto in questo senso
che la poetica della tragedia viene a coincidere con una filosofia del tragico.
Come osserva con filosofica saggezza il principe danese, allorché si avverte che
la vita sta per venire meno, non resta che abbandonarsi al nulla, anticipando quel
silenzio che necessariamente porrà fine all’ex-sistere: “The rest is silence.” (5.2.342)22
20
Su questo punto rimando a Michele Stanco, “‘Specchio della natura’ o ‘larger than life’?
Verosimiglianza, catarsi e straniamento in Shakespeare”, in Chiara Lombardi (a cura di), Il per-
sonaggio. Figure della dissolvenza e della permanenza (Alessandria: Dell’Orso, 2008), 619-627.
21
Come osserva Heidegger, posso morire per un altro, ma non posso sottrarre un altro alla
sua propria morte.
22
“Il resto è silenzio.”
102 Michele Stanco
Se, sul piano narrativo, la tragedia si chiude con la morte finale del protagoni-
sta, sul piano assiologico-valoriale, la morte dell’eroe − in contrasto con l’ordine
e l’equità retributiva propri della commedia − appare moralmente arbitraria.
La sciagura, il dolore, come osservano i filosofi, “sono […] ciò che per eccel-
lenza colpisce.” Questa accezione del dolore è perfettamente espressa dall’am-
piezza semantica del verbo pavscw, “che significa insieme accadere, subire, sof-
frire.” Il dolore, dunque, non si sceglie, bensì “giunge ineluttabile.”23 Di qui, il
senso del patire e della passione. Nessuna possibilità di controllo, dunque, da
parte dell’individuo.
Questa dimensione arbitraria − ma anche ineluttabile − del patire sembra
essere alla base degli intrecci e della visione tragica shakespeariana.
In alcune interpretazioni critiche, la tragedia shakespeariana è stata letta, for-
se in maniera un po’ riduttiva, sulla base della nozione di un errore tragico, che
condurrebbe il protagonista alla morte. L’eroe cadrebbe perché incapace di leg-
gere il mondo e i suoi segni. Esempio classico di questo tipo di lettura: il moro
Otello, il quale cade vittima della parola e delle trame tessute da Iago, non riu-
scendo a cogliere il carattere ingannevole e doppio del suo linguaggio. A diffe-
renza della tragedia greca, la caduta dell’eroe non sarebbe determinata “dal Fato
o da una colpa familiare e collettiva che gli dei intendono punire; in un mondo
senza dei com’è quello in cui questi eroi si aggirano, la loro colpa nasce dal loro
non vedere il mondo, dalla loro incapacità o dal loro rifiuto di conoscerlo.”24
L’idea di addebitare la caduta del protagonista a un suo errore riprende, con
ogni evidenza, il concetto aristotelico di hamartìa (errore, difetto, colpa). No-
nostante si tratti di una lettura non priva d’interesse, essa tuttavia convince solo
a metà. Interpretare la tragedia shakespeariana secondo tale principio significa,
se non attribuire un carattere moralistico-esemplare alla caduta, almeno imma-
ginare uno stretto nesso causale, ipotizzare un legame necessario ed esclusivo,
tra errore e caduta. E, per converso, significa suggerire che il personaggio possa
in qualche modo riuscire a dominare la propria fortuna attraverso la virtù, o
almeno una condotta più prudente.
In realtà, tuttavia, gli eroi tragici shakespeariani, così come i personaggi che
fanno loro da cornice, non abitano un mondo governato da princìpi retributivi.
Essi, quasi sempre, sono colpiti anche al di là dei propri errori e dei propri de-
meriti: se non da un Fato, almeno dalla non-controllabilità della sorte. Il dolore,
Agostino Lombardo, L’eroe tragico moderno. Faust, Amleto, Otello (Roma: Donzelli,
24
1996), 60.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 103
25
Com’è noto, la sospensione della condanna a morte nei confronti di Cordelia e Lear non
giunge in tempo utile.
26
Colin McGinn, “Shakespeare e la tragedia”, in Shakespeare filosofo (Roma: Fazi, 2008), 217
(ed. or. Shakespeare’s Philosophy, 2006).
104 Michele Stanco
ed eroine vittime, oltre che dei propri errori, anche della stessa imprevedibilità
della fortuna − si vedano, a esempio, le morti di Romeo, e di conseguenza di
Giulietta, determinate anche, come si è visto, dall’arrivo troppo rapido del gio-
vane presso la cripta dei Capuleti.
A tale proposito, un utile commento ci viene dalle parole di Gloucester in
Lear: “As flies to wanton boys, are we to th’ Gods” (4.1.36).27
Attraverso la sua similitudine, Gloucester non sembra tanto rimandarci a una
dimensione divino-metafisica delle umane vicende (se gli dèi sono indifferenti,
possiamo anche immaginare che non ci siano), quanto evidenziarne la casualità
retributiva, sottolineando − per dirla con Amleto − il carattere “oltraggioso”
della fortuna. Come osservava Machiavelli nel passo su citato, se la fortuna è
un fiume è solo nei momenti di quiete che possiamo tentare di controllarne gli
argini. Lo stesso principe ideale, per quanto accorto, è necessariamente condi-
zionato da una Fortuna che, non a caso, in conformità con i pregiudizi di genere
propri dell’epoca, è volubilmente “donna”.
In sintesi, dunque, il patire dell’eroe tragico appare sia moralmente arbitrario
(in quanto egli viene colpito anche al di là di colpe ed errori individuali da lui
commessi) sia fattualmente contingente (in quanto prodotto, o co-prodotto, da
un insieme di circostanze fortuite, ovvero dai rovesci imprevedibili della fortu-
na).
Tuttavia, per altri versi, il dolore tragico sembra nascere da cause più vaste,
non necessariamente arbitrarie, ma forse solo derivanti da più oscure scaturigini
morali. Allo stesso modo, il suo carattere contingente sembra, in qualche modo,
contraddetto da una sorta di necessità interna all’azione tragica. Da un lato,
cioè, siamo portati a pensare che Romeo e Giulietta avrebbero potuto salvarsi
se la lettera di Frate Lorenzo fosse stata recapitata in tempo utile; dall’altro lato,
però, avvertiamo, se non un finalismo interno alla sventura, almeno una sorta
di ineluttabilità e di necessità: come se la lettera di Frate Lorenzo non potesse
che rimanere non consegnata. Su tutto ciò occorrerà approfondire la riflessione.
Si è detto sin qui che: 1. la tragedia si conclude con la morte dell’eroe; 2. tale
morte (così come quella dei personaggi che lo circondano) sembra essere sia mo-
ralmente arbitraria che fattualmente contingente. Tuttavia, si è anche aggiunto
che l’azione tragica shakespeariana sembra porci dei problemi ulteriori, alla luce
dei quali occorre, se non correggere, almeno integrare tali osservazioni liminari.
“Come le mosche per i monelli, così siam noi per gli dei”.
27
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 105
Riguardo al primo punto (la morte finale dell’eroe tragico), se è vero che la
morte dell’eroe chiude la sua vicenda privata e personale, ponendo fine all’azio-
ne drammatica, è nondimeno vero che la tragedia shakespeariana lascia anche,
sia pur solo fugacemente, intravedere un ‘dopo’.
I greci, com’è noto, distinguevano tra zoé e bíos, tra un principio vitale ge-
nerale e la vita individuale dei singoli enti.28 Mentre la nostra specifica vita qua-
lificata, la “vita quam vivimus”, ha un inizio e una fine, il principio vitale è
sovra-individuale e non muore. Ora, nella sua stessa configurazione narrativa,
nel suo offrirci dei fugaci squarci successivi alla morte dell’eroe, la tragedia sha-
kespeariana ci rimanda appunto al fatto che la Vita continua anche dopo che
le esistenze dei singoli enti si sono spente, ricordandoci che la collettività va
avanti anche dopo la morte dell’eroe. Soprattutto, però, l’intreccio tragico ci
rimanda al ‘dopo’ come a un momento di ricomposizione dell’ordine, ovvero
di un nuovo principio. Tutte le tragedie shakespeariane ci presentano, dopo la
morte cruenta dell’eroe, e dopo il lutto a essa conseguente, i semi di una futura
ri-fondazione: ciò accade, a esempio, nella prefigurazione di una futura pace
tra i Capuleti e i Montecchi (Romeo and Juliet), nell’imminente conquista del
potere da parte di Ottaviano (Antony and Cleopatra), nell’avvicendamento di
Fortebraccio sul trono danese (Hamlet), nella nomina di Cassio quale gover-
natore di Cipro (Othello), nella riconquista della corona scozzese da parte del
legittimo erede Malcolm (Macbeth), nella presumibile incoronazione di Edgar
(King Lear), e così via.29
In altri termini, la morte dell’eroe viene a coincidere con il crollo di un ordi-
ne o di un sistema, preludendo alla ricomposizione di un nuovo ordine. George
Steiner, nel commentare tale tipo di chiusura collettiva e, in qualche modo, pacifi-
catrice, osserva che in Shakespeare, ma anche più in generale, “la tragedia assoluta
è molto rara.”30 Nonostante tale definizione non sia metodologicamente del tutto
felice (nella misura in cui parte dal presupposto di applicare alle opere e ai generi
letterari delle aspettative o categorie ideali, quali quella di “tragedia assoluta”, per
poi rilevare che esse non si danno nella effettiva prassi testuale), essa fotografa con
nitidezza un elemento importante degli intrecci tragici shakespeariani: quello, ap-
punto, di una ricomposizione sociale finale, successiva alla morte dell’eroe.
28
Su questo punto, cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (To-
rino: Einaudi, 1995).
29
Il finale di Lear è diverso nelle due diverse edizioni, in-quarto e in-folio, in cui la tragedia ci
è pervenuta (nel caso specifico, ci siamo riferiti all’edizione in-folio); in entrambi i testi, comun-
que, il finale della tragedia propone una forma di pacificazione/rifondazione (sia pure attribuita
a personaggi diversi).
30
George Steiner, “La tragedia assoluta”, in Nessuna passione spenta (Milano: Garzanti,
1997), 72 (ed. or. No passion spent. Essays 1978-1996).
106 Michele Stanco
Com’è noto, nel mito le navi greche sono bloccate a causa di una bonaccia e, dunque, non
31
possono raggiungere Troia. Come predice l’indovino Calcante, solo sacrificando Ifigenia i venti
potranno tornare a spirare.
Il tragico come forma narrativa e come visione del mondo 107
ineluttabilmente con sé una successiva catena di morti. Senza tali morti la col-
lettività non potrà riuscire a ritrovare sé stessa (o a domare la propria violenza
interna). Se in commedie quali As You Like It o The Tempest l’usurpazione può
essere rimediata, e la legittimità dinastica ripristinata, tale possibilità rimane vi-
ceversa preclusa in tragedie come Hamlet o Macbeth, poiché nell’azione tragica
l’usurpatore ha anche assassinato l’usurpato. Le tragedie ci presentano, dunque,
una situazione di non-ritorno, all’interno della quale non c’è alcuna possibilità
di perdono, né di restaurazione dell’ordine se non attraverso una lunga scia di
sangue.
di pace sociale a richiedere la loro morte e il loro sacrificio (così come accade,
appunto, nel mito di Ifigenia).
Come si vedrà, un po’ tutte le tragedie di Shakespeare, nella loro stessa se-
quenza narrativa, si prestano a una simile, duplice, lettura.
In una scia parzialmente analoga si pone la tragedia The Duchess of Malfi
(pubblicata nel 1623, ma probabilmente composta nel 1613) di John Webster. Si
confrontino, a tale proposito, le parole conclusive di Delio, a commento della
vera e propria carneficina messa in atto nelle sequenze precedenti: “Let us make
noble use / Of this great ruin.” (5.5.111-112)33
Nella sua esortazione, Delio mette in atto una forma di razionalizzazione
dello schema sacrificale; anzi, una razionalizzazione ancor più spinta di quella
evocata da Capuleti (o ricavabile dalle sue parole). La “grande rovina” − ovvero,
la lunga scia delle morti precedenti − non è stata la necessaria espiazione o il
necessario strumento in vista del successivo riordino politico-dinastico, ma può
essere usata ‘come se’ lo fosse.
Alla luce di tutto ciò, la stessa sequenza narrativa della tragedia shakespearia-
na assume un significato più forte. Come si è visto, la morte dell’eroe è sempre
seguita da una ricomposizione dell’ordine (o, comunque, dall’instaurazione di
una nuova stagione politica). Nessuna delle tragedie pone un esplicito legame
tra i due eventi; nondimeno, il ripetersi stesso di tale sequenza sembra suggerire
l’esistenza, anche se solo implicita e allusiva, di un preciso nesso tra la morte
dell’eroe e la successiva ricomposizione dell’ordine. Le su citate parole del vec-
chio Capuleti, seppur allusive, manifestano, forse meglio di qualsiasi parafrasi
critica, la natura propiziatorio-sacrificale di tale nesso. L’eroe, in altri termini,
appare come la vittima da immolare per placare la violenza e il caos in cui il sot-
tomondo da lui abitato è precipitato.
All’interno di tale quadro, l’eroe stesso non è propriamente ‘innocente’, visto
che le colpe della sua collettività lo hanno, in qualche modo, metonimicamente
‘macchiato’: egli, pur senza essere propriamente colpevole, è per così dire un
innocente contaminato.
34
Su tale teoria, cfr. René Girard, La violenza e il sacro (Milano: Adelphi 1980); Il capro espia-
torio (Milano: Adelphi, 1987); Carlo Gentili e Luca Garelli, Il tragico (Bologna: il Mulino, 2010).