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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica


Dottorato regionale “Pegaso” - Toscana

Corso di dottorato in Scienze dell’Antichità e Archeologia


Curriculum: Filologico - Letterario

CICLO XXXI

PASOLINI E I POETI ANTICHI


Scuola, poesia, teatri

TUTOR
Prof. Alessandro GRILLI
CANDIDATO
Andrea CERICA

A.A. 2017-2018
! 2 !
INDICE

Introduzione. Poeta fra i poeti 9

Ringraziamenti 13

Capitolo zero. Archaiologia, o: il discorso sui maestri 15


0.0. Liceo Manin, 1933-1935: i disegni, lo scudo e le carte di Omero 16
0.1. Liceo Galvani, 1937-1939 28
0.1.1. Mario Borgatti e Alberto Mocchino . 31
0.1.2. Carlo Gallavotti, Virgilio e i lirici greci (I) 35
0.2. Università di Bologna, 1939-1945 44
0.2.1. Il superuomo Coppola, fra lirici greci (II) e Lucilio 46
0.2.2. Edipo in tuta, Edipo in coturni: Fulchignoni e l’Edipo all’alba 53
0.2.3. Corpi scolpiti (I): il manuale di Pericle Ducati e Il giovine della primavera 58
0.3. Due maestri ex libris 62
0.3.1. Pascoli e gli «antichissimi oggetti greci» 62
0.3.2. Kavafis e lo slancio vitale di Iasis: corpi scolpiti (II) 79
0.4. Un excursus: Pasolini insegnante di latino a Casarsa, Valvasone e Ciampino (1943-
1954) 86

Parte I – Grecia lucente, 1941-1950

Capitolo primo. Poesia (greco-latina) a Casarsa 95


1.1. Lirici greci nell’Urtext di Poesie a Casarsa: tra classicismo scolastico e classicismo
ermetico 98
1.2. Amore per la morte: la Saffo friulana 106
1.2.1. Tonuti Spagnol, l’Adone divorato da Narciso 117
1.2.2. La Saffo degli amici (Serra e Bemporad) 132
1.3. I tragici greci nella poesia e nel teatro friulano: la morte degli altri 136
1.4. «Oh Virgilio, Virgilio»: radici bucoliche tra agape, eros e thanatos .153
1.5. Decentrare il classico (I): Coleo di Samo, tra geografia e filosofia 168

Parte II – Squarci di Roma, 1950-1965

Capitolo secondo. Ex praecordiis: poesie e prose romane all’insegna di Lucilio 185


2.1. Il realismo (e l’eros) di Petronio e Lucilio 188
2.2. Il paradigma poetico di Lucilio 198

! 7
Capitolo terzo. Dalla tragedia a De Martino 217
3.1. Squarci di tragedia greca nelle poesie 223
3.2. Il pianto antico: da Stendalì ai film “greci” 234

Capitolo quarto. Pasolini traduttore classico . 255


4.0. La recensione di Degani: fu vera filologia? 259
4.1. Orestiade e Il vantone: le traduzioni di successo 264
4.2. Gli abbozzi: altre due traduzioni per la scena? 269
4.2.1. Antigone, vv. 1-281 269
4.2.2. Eneide I, vv. 1-304 . 283
4.3. Un excursus: le “traduzioni” di Edipo re e Medea 297

Parte III – Tragici contro, 1966-1971

Capitolo quinto. Il teatro di Dioniso nel buio del ’68 305


5.1. Una Grecia (quasi) ‘solo’ barbarica: il teatro e il cinema del ’66 . 307
5.2. Trasumanar e organizzar: l’altruismo di Meneceo-Panagulis e il «terrore» demarti-
niano di Maria 320

Parte IV – Eleusi km 0, 1972-1975

Capitolo sesto. «L’ultimo degli antichi»: Petrolio/Vas 339


6.1. Decentrare il classico (II): sesso e antropologia 340
6.2. Ridere di tutto: il cinismo di Luciano ’o Sarracino 343
6.2.1. Tra satira, performance cinica e poesia . 343
6.2.2. Dalla recensione lucianea all’Appunto 84: mordere personaggi da «rotocalco» 351
6.2.3. Per una satira del successo: Appunti 32, 97 e 129c 356
.

Bibliografia
1. Fonti primarie . 369
1.1.1. Opere (cartacee) di Pasolini . 369
1.1.2. Edizioni DVD dei film discussi . 370
1.2.1. Classici greci e latini e traduzioni . 370
1.2.2. (Alcuni) libri di scuola di Pasolini . 373
2. Fonti secondarie . 374

! 8
INTRODUZIONE

POETA FRA I POETI

Il titolo dell’introduzione e Pasolini e i poeti antichi potrebbero sembrare a chi


banali a chi persino fasulli perché questa tesi sulle fonti antiche degli omnia pasoliniani
non tratta solo di poesia latina e greca ma di altri generi letterari e tocca pure ambiti non
letterari sia dell’antichistica (storia dell’arte, antropologia) sia degli studia humanitatis
contemporanei (cinema, pedagogia, storia); tuttavia non sono farlocchi perché la mia
ricerca ha avuto per primo oggetto di analisi la poesia e come primo metodo di analisi
quello della vecchia critica storico-letteraria: nel corso del triennio ho sì studiato tutti e
dieci i Meridiani ‘poetici’ (poetici in senso cocteauiano), eppure, poiché il nostro
cominciò la propria attività creativa come poeta e, nonostante le diverse metamorfosi e
l’eclettismo, rimase sempre tale, creando a fianco dei versi tout court prose poetiche,
‘cinema di poesia’, tragedie in versi, articoli poetici, etc., e poiché lesse, spiegò,
tradusse soprattutto poeti antichi, era inevitabile concentrarsi sui due Meridiani poetici
stricto sensu – dopo l’iniziale ricognizione di tutta l’opera. Rinnovando con il titolo
dell’introduzione quello della tesi voglio porre al centro la poesia perché oggi non lo si
fa a sufficienza: nell’ambito specifico della letteratura su Pasolini e i classici antichi si
sono privilegiati e si continuano a privilegiare il cinema e il teatro; e sia nella critica
generale sia nella cultura, sia in Italia sia soprattutto nel mondo, il nostro poeta è
conosciuto principalmente come regista (e in secondo luogo come narratore). Insomma,
oggi più di un tempo si leggono poco i versi e invece, senza nulla togliere al cinema,
alla narrativa, agli scritti giornalistici, proprio essi meriterebbero un’attenzione
maggiore (anche a prescindere dagli echi antichi discussi qui): perché è l’evoluzione dai
versi incerti anteriori a Poesie a Casarsa a quelli giovanili, per quanto freschi già
potenti, e dalle raccolte più celebri fino alla poesia eclettica e metamorfica del cinema,
del teatro e infine di Petrolio/Vas, il maggiore lascito che Pasolini ci ha lasciato e il
principale motivo della sua monumentalità; in altre parole, nonostante i piccoli singoli
capolavori, ciò che più conta, come già segnalava chi prima di me si è avventurato negli
omnia, è l’insieme, la tensione evolutiva incessante, sempre in fieri1. Anche per questo,
dunque, non solo per deformazione professionale la mia tesi parla di poesia in una
prospettiva storico-letteraria, ossia cerca di ricostruire il contributo dei poeti antichi alla
poesia di Pasolini dai testi adolescenziali fino al celebre romanzo postumo, e con enfasi
più sull’evoluzione complessiva di tale classicismo che su singole opere o stagioni
creative. Esiste però un’altra ragione: la presente prospettiva storica discende anche
!
1
«Scriveva tutti i giorni, e conservava tutto; con un talento che non aveva paura di sprecarsi. Montale è un poeta
migliore di lui, la Morante è un narratore [sic] più indiscutibile, Fellini è un regista più grande di lui: ma lui sta lì,
messo di traverso, e non riusciamo a scordarcelo. [...] Si ha sempre l’impressione che [...] il suo “capitale poetico”
non sia mai stato investito interamente in una singola opera» (SITI 2015, p. 232).

! 9
dalla singolare simbiosi tra vita e opera; cioè credo che un autore così grafomane,
Narciso e ‘impuro’ 2 vada studiato e spiegato passo dopo passo, seguendone la
progressiva crescita.
Dei testi “latini” e “greci” di Pasolini si è iniziato a discutere, in sede critica, con
interesse vieppiù crescente solo a partire dagli anni ’90 del secolo scorso: prima di
allora erano già stati pubblicati diversi articoli e recensioni, eppure quasi tutti di
modesto valore; nel 1994 a Fisciano e nel 1996 ad Aix-en-Provence si svolsero due
convegni sulla sua opera in rapporto ai modelli ‘antichi’3, con unico riguardo per i testi
macroscopici, cioè per il cinema, le tragedie e le traduzioni da Eschilo e Plauto – quasi
gli stessi oggetti illuminati dal libro di Massimo Fusillo, pubblicato nel 1996 e riedito
nel 2007. La Grecia secondo Pasolini è la pietra miliare della letteratura critica sul
tema, uno studio tuttora valido e raccomandabile non soltanto per la profondità di
analisi ma anche per la prima applicazione del principio della panopsia al nostro caso di
studio, ossia per il primo tentativo di leggere le opere ispirate al mondo classico senza
dimenticare tutto il resto del corpus pasoliniano (poesie comprese): ed è proprio per
quest’ultimo aspetto che la fortunata monografia è stata pionieristica e lungimirante e
mi ha esortato a fare altrettanto o, per meglio dire, ancora di più; facilitato dall’edizione
dei Meridiani (1998-2003), che ha reso accessibile una ricchissima mole di testi inediti
(o solo parzialmente editi) ignoti a Fusillo, io ho potuto continuarne l’opera estendendo
il campo di indagine dal cinema-teatro degli anni ‘60 agli omnia a oggi editi, cioè
dall’Edipo all’alba e dall’Urtext di Poesie a Casarsa (I confini) fino a Petrolio/Vas4. Il
magistero di Fusillo non ha tuttavia illuminato esclusivamente il sottoscritto, ha avviato
un’intera nuova stagione della presente letteratura: dopo di lui e dopo l’edizione sitiana,
i letterati e le letterate hanno prodotto contributi sul medesimo tema sempre più
frequenti, e alcuni di essi si sono rivelati profondi quasi quanto l’opera del maestro.
Penso soprattutto al saggio di Leopoldo Gamberale, debitore nei confronti di Fusillo fin
dal titolo (Plauto secondo Pasolini, 2006); e in atti di convegni, in volumi collettanei o
in rivista non sono mancati altri fini interventi: come quelli di Walter Siti, Andrea
Rodighiero, Stefano Casi, Federico Condello, Paolo Lago, Emanuele Trevi, Silvia De
Laude, Giulia Bernardelli, Francesco Morosi, Sotera Fornaro (nonché Fusillo
medesimo, più volte tornato sul tema)5. Né sono mancati altri convegni interamente
dedicati alla produzione “greco-latina” del nostro, come quello udinese-casarsese del
20026 o quello – divulgativo – di San Vito al Tagliamento, curato nel 2015 da Alberto
Camerotto; addirittura, il 14 marzo 2018 si è svolto a Caen un incontro su una singola

!
2
Per la definizione critica di ‘impurità’ cfr. infra, n. 39 (cap. 6).
3
TODINI 1995 e PRALON 1997a.
4
Ma la tesi dimostra in realtà che i periodi ‘quantitativamente’ più produttivi in termini di riscritture dell’antico
furono gli anni ’40 e ’60, pertanto la principale integrazione alla monografia di Fusillo sta nell’analisi del periodo
giovanile.
5
Fini, beninteso, alcuni di più altri di meno: chi vorrà leggere per intero la tesi scoprirà le riserve che possono
essere mosse dalla singolare prospettiva di un secondo pionieristico studio panottico.
6
FABBRO 2004.!

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opera, la traduzione in romanesco del Miles gloriosus plautino7. Benché tutti i critici e
tutte le critiche appena menzionate abbiano esteso lo sguardo al di là dei loro singoli
oggetti di studio, ancora nessuno – tra loro e fra gli altri – ha avuto il desiderio, la
pazienza e soprattutto la fortuna di avere molto tempo a disposizione per applicare alle
estreme conseguenze il principio della panopsia e approfondire ‘davvero’ la monografia
miliare. La mia ricerca non si contraddistingue però da tutte le altre solo per aver messo
al centro per la prima volta l’intero classicismo di Pasolini, ma inoltre per il particolare
risalto riservato all’inedito e al microscopico e per aver individuato le fonti sia tramite
un’analisi comparata del corpus pasoliniano e quello dei poeti antichi a lui cari (da
Omero a Luciano, da Lucilio a Virgilio, da Alceo a Euripide, da Plauto a Petronio, etc.)
sia attraverso un esame storico-culturale: da un lato, cioè, assieme alle opere celebri ho
studiato con cura pure i molti testi minori che il poeta preferì non pubblicare o che,
quando editi, passarono inosservati; dall’altro ho provato a lumeggiare la genesi di
questi ultimi o di alcuni fra i versi più famosi inquadrandoli grazie a un’indagine
filologica attenta e alle loro fonti testuali (o iconiche) e alla mediazione in carne e ossa
dei ‘maestri’. La ricognizione attenta di tale corpus “minore”8 risulta importante non
soltanto perché inedita, ma perché rivela un grande sommerso e ci lancia dunque un
monito: che l’amore di Pasolini per i poeti antichi non è mai stato prevaricatore, una
passione anzi alla quale si poteva rinunciare o che si poteva dimenticare, a premio su
altre letture e altre riscritture; né ha prodotto sempre capolavori, come invece alcuni
critici e alcune critiche vorrebbero far credere. Poiché la mia è una ricerca scientifica
originale, ossia non compilatoria né divulgativa, ho scelto di privilegiare nella seguente
esposizione proprio le opere e gli anni poco o nulla indagati e pure numerosi testi di
scarso valore letterario: beninteso, ho mantenuto ben ferma l’idea di uno sguardo su
tutta la linea evolutiva e quindi ho trattato anche di opere note quali Edipo re,
Orestiade, etc., però ho cercato il più possibile di introdurre nella discussione critica
argomenti ‘nuovi’ – più della metà della tesi (capp. 0-3) si fonda su quanto è stato
omesso fino a oggi – affinché nei prossimi anni chi vorrà seguirmi possa approfondire
ulteriormente la letteratura critica: credo infatti che più di studiare i testi la cui “grecità”
o “latinità” è macroscopica, e sui quali sono già state spese molte parole ficcanti, sia
necessario estendere e acuire ancora di più il mio sguardo sviluppando una nuova
comparazione fra Pasolini e le new entry (per esempio Lucilio o Virgilio sul versante
della poesia; o Gallavotti, Coppola o Mondolfo su quello dei Maestri e dei mediatori più
e meno illuminanti).
Resta da affrontare un ultimo punto: proprio i Maestri; ossia che la tesi ha la
singolarità di presentare una sorta di seconda introduzione, di dimensioni così notevoli
da fungere da crepidoma e da vera premessa al discorso che ho cercato di sviluppare nel
!
7
Omaggio a Pier Paolo Pasolini. I classici di un classico contro, svoltosi al Teatro Arrigoni di San Vito al
Tagliamento il 4 dicembre 2015, e Modernité de l’Antique. Il vantone, una variation pasolinienne, curato da Marco
Borea, Rosana Orihuela e Raphaëlle Hérout presso l’Università di Caen, sono gli unici due convegni che non hanno
prodotto – né produrranno – degli atti e risultano perciò assenti nella bibliografia finale.
8
In questo caso uso le virgolette perché anche fra i testi meno noti ci sono delle perle.

! 11
corso dei sei capitoli. Se a grandi linee la prima e la seconda parte vertono sulle opere
giovanili e la terza e la quarta sui testi maturi9, il capitolo zero tratta invece della
eccezionale formazione classica di cui Pasolini poté fruire tra il Liceo Galvani di
Bologna e l’Alma Mater; ho infatti deciso di raccontare non solo la storia di una lunga
evoluzione inter- e intra- testuale ma persino l’incontro evenemenziale da cui quella è
scaturita (così come questo emerge sia dai documenti d’archivio sia dai testi scolastici e
scientifici): l’ho fatto nella profonda convinzione che non soltanto le opere più precoci
celino il segno dei maestri che per primi hanno acceso e ravvivato la curiosità del poeta
per il mondo classico, bensì la sua intera vita; il capitolo zero si chiude appunto con una
divagazione sul Pasolini in-segnante di latino, un excursus di fondamentale importanza
per il quarto capitolo10.
In sostanza la mia tesi vorrebbe aprire il terzo tempo della letteratura su Pasolini e
l’antico e – obiettivi ancora più importanti – gettare nuova luce sia sulla tradizione
classica italiana contemporanea sia sull’intero corpus del nostro; e chiudo perciò con il
doppio auspicio che più mi sta a cuore. Se in principio ambivo tirannicamente (e
ingenuamente) a dire tutto quello che c’era da dire sulla produzione “latina” e “greca”
di Pasolini, dopo tre anni di studi matti ho compreso che «nun esiste la fine»11 e dunque,
congedandomi dalla tesi, auspico che lei – sì, lei!12 – costituisca solo un nuovo punto di
partenza, che lasci cioè un segno in chi ha un processore più capace del mio, un animo
più calcentero e curioso del mio, strumenti più innovativi dei miei, nonché una capacità
retorica più affinata: insomma, che tale erede un giorno possa scrivere una monografia
che avvii il quarto tempo; e, soprattutto (!), che Paolina induca a leggere e a rileggere
un’opera che può aprire la mente (e il cuore) ma di cui troppo spesso si parla e si scrive
con superficialità.

Pisa, ottobre 2018

!
9
‘A grandi linee’ è d’obbligo perché ho cercato di illuminare anche molteplici aspetti intratestuali e pertanto di
una singola opera si può trovare menzione in diversi capitoli.
10
Se questo studio documentale è un’assoluta novità per gli studi pasoliniani, non lo è invece per chi si occupa di
tradizione classica: per esempio Marian Makins ha recentemente dimostrato che per l’episodio delle Paludi morte
l’autore de Il Signore degli Anelli attinse dalla descrizione tacitiana della selva di Teutoburgo, un brano che Tolkien
conosceva bene perché proprio sui primi quattro libri degli Annales fu esaminato quand’era studente all’Università di
Oxford; cfr. MAKINS 2016, p. 211.
11
PASOLINI 2001a, p. 2753.
12
Con un occhio agli ultimi versi dell’Iter Africanum (illustrato infra, par. 2.2) la battezzo con il nome di Paolina.

! 12
RINGRAZIAMENTI

In primis voglio esprimere la mia più profonda gratitudine verso quanti hanno
creduto in questo progetto di ricerca, in particolare Alessandro Grilli: che nel 2015,
senza conoscermi, ha confidato nelle mie capacità e in tutto il triennio successivo ha
mantenuto viva la fiducia. A lui e a tutti i miei Maestri, à rebours giù fino alle care
insegnanti delle scuole elementari e ancora più in giù – ma anche più in su! – agli
Augusti, un grazie speciale: senza di loro Paolina non sarebbe nata. Né sarebbe stato
possibile scriverla senza Verena Gasperotti, Alessandro Iannucci e Cristina Chersoni,
che nel 2015 hanno agevolato le mie ricerche d’archivio al Liceo Galvani e
all’Università di Bologna; né senza l’aiuto, il lavoro o i consigli di Alberto Camerotto,
Roberto Chiesi, Marcello Dani, Angela Felice, Sotera Fornaro, Carlo Franco, Nicola
Gardini, Paolo Lago, Francesco Morosi, Filippomaria Pontani e Giuliana Ricozzi: a
tutte e tutti loro rinnovo qui la mia gratitudine. Voglio inoltre ringraziare Alessandra
Tempesta: che per ben due anni ha aperto le porte del Liceo Majorana-Corner di Mirano
e mi ha permesso di divulgare prima alle sue allieve e allievi poi alle sue colleghe i
risultati delle mie ricerche; sarebbe bello se un giorno Paolina venisse uccisa o mangiata
in salsa piccante da uno o una studente di quel liceo. Infine, grazie anche alla gentile
famiglia di Casarsa che il 5 dicembre 2015, senza conoscermi e senza il pollice
dell’autostoppista da parte mia, mi ha dato un passaggio da San Vito al Tagliamento al
cimitero dove riposa quello che per loro era semplicemente «Pier Paolo».

! 13
ARCHAIOLOGIA, O: IL DISCORSO SUI MAESTRI

Questo capitolo ‘zero’ nasce da una domanda sorta quasi spontanea durante le
ricerche del primo anno: da dove trae origine l’interesse di Pasolini per il mondo
classico? Un interesse che andavo scoprendo sempre più vario; esteso dagli autori
canonici a testi iperspecialistici, e dai più noti capolavori dell’arte classica alle arti
minori, ai manufatti ordinari. Il più delle risposte è emerso dalla verifica negli archivi
del Liceo Galvani di Bologna e della locale università (l’Archivio Storico
dell’Università di Bologna1): le due principali istituzioni della formazione pasoliniana,
classica e complessiva; lì, fra le carte care alla disciplina storica, ho trovato le risposte
che si potevano congetturare anche per vie traverse, cioè limitandosi ai campi della
biografia e dell’intervista, o che invece valutazioni a tavolino avrebbero potuto
addirittura escludere perché alla luce dell’epistolario, così polemico verso certo studio e
certi professori universitari, o di scritti tardi come Che cosa è un maestro?, così
dissacrante e rivelatore, o finanche del silenzio sulle personali esperienze di alunno,
anch’esso ‘eloquente’, e, più a monte, in considerazione della storia italiana degli anni
’30 e ’40, segnata tanto da catastrofi fattuali come l’occupazione nazista di Bologna
quanto da travisamenti culturali come la romanizzazione degli studi classici, in
considerazione di tutto ciò sarebbe parso inverosimile il magistero di un Coppola o dei
tanti, a dire del nostro, professori «travet» 2. L’obiettivo di questo capitolo non è
ribaltare la verità dell’autore, ossia porre al di sopra o all’esatto fianco di Roberto
Longhi i nomi di altri insegnanti incontrati fra il liceo e l’università; bensì completarla:
renderla più complessa (e più vera) recuperando e dando il ‘giusto’ spazio a quei
dettagli che invece il nostro preferì tacere. Giusto nella convinzione che siamo chi
incontriamo e tanto più Pasolini, il quale non solo rimase sedotto dalla testimonianza
dei maestri ma si fece carico della loro eredità insegnando lettere nella campagna
friulana, sia pure con il proprio stile e già con volontà di innovazione rispetto alla
norma; e se è vero che il magistero di Pasolini non durò a lungo fra le mura del casale di
Versuta (o delle aule scolastiche di Valvasone e Ciampino), è indubbia la vocazione
pedagogica di tanti suoi scritti: segno di una continuità oltre che di una trasformazione.
E giusto anche nella consapevolezza che il giovane poeta sentì presto l’urgenza di
oltrepassare i limiti della cultura classica di allora, così ancorata al mero dato storico-
letterario da trascurare due aspetti ai quali lui più di qualunque altro letterato
novecentesco diede al contrario netto risalto (l’iconico e l’antropologico): non solo gli
scritti e i film della maturità ci sollecitano a non attribuire un peso soverchio al
contributo degli studi classici giovanili, ma pure alcune predilezioni degli stessi anni in

!
1
D’ora in poi ASUB.
2
PASOLINI 1999a, p. 2594.

! 15
cui si formò, sopra tutte lo studio da ‘autodidatta’ (!) dell’archeologia e dell’arte
classiche. Ho deciso di chiamarlo capitolo zero perché – lo dimostrerà il capitolo uno –
le vie del classicismo pasoliniano partono quasi subito dall’infrazione del patrimonio
tradizionale, dal superamento dell’eredità dei maestri; la storia della sua formazione
andava posta a un livello anteriore, quello di una tabula rasa sulla quale scrivere una
personale versione dell’antico o, meglio, erigere un monumento... per ridere3. Ma se fu
in grado di proporre con forza e personalità un’idea dissacrante del classico (meno in
principio, sempre più dagli anni ’60, del tutto in Petrolio/Vas), lo dobbiamo proprio
all’incontro con dei professori eccezionali che posero le basi da radere al suolo: un
incontro su cui non tutti i letterati italiani del Novecento ebbero la fortuna di poter
contare, sia, intendo, chi ricevette una formazione classica (e.g. Edoardo Sanguineti,
Guido Ceronetti o Vincenzo Consolo) sia chi fu costretto a costruirsela da sé (Salvatore
Quasimodo e Cesare Pavese, solo per citare i nomi più illustri). Poiché sono il primo a
scrivere la storia della formazione classica di Pasolini ho scelto di esporla ben oltre
l’eredità dei maestri: questa, beninteso, rimane al centro dell’attenzione, tuttavia ho dato
conto di dettagli evenemenziali e incluso alcuni insegnanti che non ebbero l’aura di
Carlo Gallavotti e Goffredo Coppola, perché risultasse meno evanescente un quadro che
andrà in ogni caso precisato da chi mi seguirà, magari non solo in riferimento al latino e
al greco. Infine, poiché la testimonianza non è mai resa solo da persone in carne e ossa,
ho contato fra i “maestri” persino dei libri. I testi scolastici che sono riuscito a ricavare
dai suddetti archivi sono tutti elencati nella bibliografia finale e in parte discussi in
questo capitolo: essi hanno anzitutto un valore storico-filologico, ossia vanno letti come
fonti di alcune opere giovanili oltre che espressione della cultura accademica nella quale
Pasolini si formò; ma esistono tre “libri” non strettamente scolastici che hanno valicato
tale significato diventando delle auctoritates da tenere quasi sempre in mano (o in
mente), alla stregua dell’universale einaudiano dei Canti popolari greci antologizzati da
Tommaseo: fra questi spicca il manuale di arte classica di Pericle Ducati.

0.0. Liceo Manin, 1933-1935: i disegni, lo scudo e le carte di Omero

Del manuale di Ducati parlerò in seguito, qui basta anticipare che è una modesta
opera di compilazione ma di grande pregio per l’apparato iconografico: fotografie e
disegni che colpirono l’immaginario di Pasolini al punto da fungere da «guida erotica»4.
Però la fascinazione per l’immagine classica non riguarda solo lo studente universitario,
accese già il ginnasiale al primo incontro con Omero e di questa seduzione rimane

!
3
Alludo al passo allegorico che chiude l’Appunto 74 di Petrolio/Vas, glossato dallo stesso Pasolini con l’Appunto
74a; all’ultima delle Visioni di Carla di Tetis: cioè la versione ingigantita della statua gastrocefala di Baubo da Priene
che l’autore pone quale sintesi emblematica del proprio monumentum testuale, summa a sua volta di tutta l’esperienza
artistico-letteraria precedente Petrolio/Vas. Vd. PASOLINI 1998c, pp. 1636-1639 e cfr., per una buona esegesi, DE
LAUDE 2015, pp. 43-49 (nonché infra, par. 6.1).
4
SITI 2004, p. 167.

! 16
traccia in un progetto narrativo concepito (e naufragato) nei primi anni romani, il
Romanzo del Mare (1951); il relitto consta di due frammenti, editi per la prima volta
come parte di un unico laboratorio da Walter Siti e Silvia De Laude (1998) e ancora,
dopo un ventennio, pressoché sconosciuti (messi in ombra dalla ribalta di Petrolio/Vas):
Coleo di Samo e Operetta marina5. Del primo, che è un testo erudito-sperimentale sul
vago esempio del primo abbozzo di Amado mio (di pochi anni anteriore), discuterò nel
dettaglio alla fine del capitolo successivo: Coleo di Samo può infatti essere considerato
una vera e propria opera-cerniera fra il primo tempo del classicismo pasoliniano,
innovativo solo a sprazzi, e quello più spigliato della maturità, che dalla satira e da una
tragedia letta con lenti insieme filologiche, psicanalitiche e antropologiche alla fine lo
avrebbe portato all’opzione per il paradigma cinico e per la stessa mistica pagana:
classicismo dunque ridotto all’osso nei suoi schemi testuali-letterari e rivitalizzato
addirittura come filosofia di vita. Operetta marina è invece una prosa di minore
sperimentazione e minor impegno: un frammento dominato dal modello proustiano e di
cui forse alcune pagine risalgono già al lungo soggiorno casarsese (postbellico); se
l’intero Romanzo del Mare avrebbe dovuto far convergere la storia dell’infanzia di
Pasolini con quella marina, dalla cosmogonia alle esplorazioni più e meno note, e Coleo
di Samo va parzialmente in siffatta (ambiziosa) direzione, Operetta marina – in quanto
testo assai più autobiografistico del primo – rivela qui anzitutto un valore documentale,
cioè quello di fonte utile a ricordare la prima tappa della formazione classica del poeta:
il Liceo Manin di Cremona, presso il quale studiò per quattro anni scolastici; per alcuni
mesi frequentò anche i ginnasi di Conegliano (ossia la prima metà della prima ginnasio,
a. s. 1932-1933) e di Reggio Emilia (la seconda metà della quarta, a. s. 1935-1936, e la
prima metà della quinta, a. s. 1936-1937), ma dal 1933 a tutto il 1935 trovò l’agognata
continuità nella scuola lombarda6. Beninteso, Operetta marina non è un puntuale diario
di bordo: non consente di ricavare quanto ho dedotto degli archivi bolognesi; però
contiene dei particolari non trascurabili – li vedremo fra poco. Quello che giudico
l’elemento più originale e in comune con il Coleo di Samo, a parte l’idea complessiva di
legare mito e biografia (ripresa con maggiore unità e maturità, nonché in altre direzioni,
nel film Edipo re), è lo spazio concesso al dato iconico, che si tratti dei fotogrammi di
Mutiny on the Bounty di Frank Lloyd, delle illustrazioni ‘fotografiche’ della battaglia
navale di Port Arthur scorte in una raccolta di Domeniche del Corriere, dei disegni dei
romanzi illustrati di Salgari, delle edizioni scolastiche di Omero, del dizionario Melzi o
di imprecisati volumi per i «piccoli» che catalogavano, raffiguravano e raccontavano la
storia di velieri e navi famose. È vero che nel caso di entrambi i frammenti siamo
ancora ben lungi dall’idea di forzare il testo ‘scritto’ non solo con alfabeti
incomprensibili (ai più e alle più), ossia di mero impatto visuale per chi non era parte
!
5
Operetta marina fu pubblicato per la prima volta da Nico Naldini in coda a un altro testo narrativo giovanile
mai licenziato, Romans (Guanda, 1994). I Frammenti per un Romanzo del Mare ora si leggono in PASOLINI 1998b,
pp. 339-365 (Coleo di Samo), 367-420 (Operetta marina).
6
I dati cronologici sono ricavati dai due principali biografi di Pasolini: NALDINI 1998, pp. cli-clii e SICILIANO
2015, pp. 54-55.

! 17
della ristretta cerchia dei mystai, ma soprattutto con fotografie – i celebri scatti di Dino
Pedriali – allusive sia alla nudità cinica sia alla stessa immagine-summa di Baubo, al
gesto dell’anasyrma e ai culti eleusini così spesso evocati nel corso di Petrolio/Vas:
tutti ordigni che avrebbero dovuto frantumare una tradizione logocentrica che già dai
primi anni ’60 Pasolini sentì sempre più stretta7; ed è vero che in Operetta marina lo
spazio concesso all’immagine riflette anzitutto un aspetto ludico-infantile universale: la
possibilità di dare corso alla fantasia di fronte a una carta geografica o a un’immagine
(fissa), l’accensione della conoscenza e dell’avventura nel bambino che legge un testo
figurato; è, questo, un aspetto che emerge chiarissimo dalla lettura dei tre capitoli del
frammento e che resterà lampante fino a che tablet e smartphone non soppianteranno il
libro illustrato per bimbi e bimbe. Tuttavia esistono molte righe in cui la reminiscenza
proustiana cede il passo a considerazioni che celano ben altre prospettive, riprese e
sviluppate anche dal Coleo di Samo; meritano di essere trascritte per intero:

La solitudine in cui, con mia madre al fianco sull’erba della Livenza, o sulla sedia di
vimini nei dopocena alitati dal filo d’aria tiepida che ingolfava la tenda del pergolo, mi
facevo pura trasparenza, mi scarnavo di troppa tenerezza – aveva, o quasi, un equivalente.
Intendo le letture: di cui nessuna in tutti gli anni seguenti sarebbe stata così abbandonata,
così violenta nell’assorbire l’impegno dei sensi in un calore fantastico stupendo di
ricchezza visiva, così interamente applicata su tutta la mia coscienza, né Leopardi, né i
Canti del Popolo Greco, né Machado; era come se la materia su cui si incideva la mia
vita sacilese, con tutte le sue polveri e i suoi soli [...] avesse potuto incrinarsi, e,
aprendosi, mostrarmi in uno spazio non vero, eppure perfettamente reale, inchiodato su
pagine che essendo un mezzo invisibile erano in effetti reali, sconfinati paesi. Dentro
quella dimensione interna, in cui mi facevano sprofondare le letture di Salgari, io,
appunto come nei pomeriggi con mia madre perduti nella pura visività del paesaggio
arrossato dal sole, inacidito di umori di primule, tra le ripercussioni che dalle erbe secche,
dalle gemme immature svaporavano contro le nubi, perdevo la mia persona divenendo
spazio. Non era più possibile definire il limite, nella mediazione assolutamente immediata
del leggere, dove io cessavo di estendermi e si estendevano, struggenti perché in pura
funzione di realtà, i Sahara o le Indie. L’interesse era così acuto, la dedizione così pura
che la parola scritta non esisteva, i fatti e gli sfondi apparivano immediati alla vista e
separati dal tatto solo da una differenza di clima e di luce. Non lettore, così, ma diretto
testimone [...]8.

Seguono alcune pagine di avventurosa ‘vita’ nella realtà salgariana: nonostante


l’opsis sia subentrata all’akoe, cioè la testimonianza all’affabulazione, il corpo alla
mente, sono pagine ancora decifrabili come il riflesso di una comune evasione infantile,
di una sognante proiezione verso l’infinito. La confusione tra il corpo del bimbo e il
paesaggio che lo circonda (o quello materializzato dal libro) deriva senza dubbio da
letture proustiane ed è un modo erudito-allusivo per raccontare le gioie della propria
!
7
Su questi temi vd. infra, cap. 6.
8
PASOLINI 1998b, pp. 411-412 (corsivi miei, eccetto quello del titolo tommaseiano).

! 18
infanzia9, eppure solo poche pagine più innanzi, sempre in relazione alle letture sacilesi
di Salgari, si svela la perentorietà di termini quali «violenta» lettura, l’‘incidersi’ della
vita su un materiale friabile che frana e apre un baratro su mari «inchiodati» alle pagine
dei romanzi: quelle letture non sono soltanto il sinonimo di evasione, avventura, gioco,
ma anche di ferita e rifugio, di un desiderio infranto: lo scacco di non poter vivere
pienamente. In una mattina in cui Pasolini mancò il treno che l’avrebbe portato al
ginnasio di Conegliano e rincasò anzitempo, pieno di sensi di colpa, riprese le letture
liete della sera precedente, sperimentando però una sensazione opposta:

Come una lama, mi penetrò – e vi si immerse, stagnando, ingolfandomi della sua


elementare leggerezza – dentro le membra che mi bruciavano, non so se irritate o
addolcite per il sonno sparso nel gelo del mattino, il mare; il mare fisso, emblematico,
vivente senza che io l’avessi mai visto di un incanto violentissimo; della Baia di Hudson,
forse, nel cui retroterra, le nevi resinose, le radure delle foreste, perduto contro un
orizzonte accecato nel buio bianco. [...] Nel mare io mi rifugiavo, come in una non vita,
un mio segreto benessere; mi lasciavo assorbire dal suo colore inanimato, che nasceva e
moriva con me, come in una estensione esterna creata «dentro», un esilio sconfinato,
azzurro, ai cui margini come rifiuti restavano i rimorsi [...]. Non avevo visto ancora, coi
miei occhi, il mare, a Sacile, e non lo avrei neanche visto per tutto il periodo cremonese,
ma ne avevo una immagine sfolgorante; la cui luce aveva preso un significato che, alle
lievi scosse dello scorrere della mia storia infantile, mi si andava ammassando sempre più
in dentro, sempre più incomunicabile10.

Persiste l’esperienza dello sconfinamento, ma questa volta l’infinito del mare


salgariano sfonda la realtà e si insinua nell’intimo del lettore, arrivando a ferirlo,
diventando «desiderio di morte», annichilimento: allo slancio liberatorio può seguire
l’‘assorbimento’ nel caos, l’‘abbandono’ fatale. Da questi due excerpta le illustrazioni
dei volumi salgariani non parrebbero giocare un ruolo determinante, ma così non è: alla
luce sia di un passo che accosta le letture romanzesche a quelle epiche – sul quale
tornerò in seguito – sia, soprattutto, di una pagina in cui il «mare cremonese» si
confonde con quello disegnato in un’edizione scolastica di Omero:

Isolato come ero, a Cremona, alloglotta, trepido quanto al Mare e a tutte le altre
estensioni dove si svolgesse la storia, mi trovavo ancora in un clima salato, violento,
dipinto di un azzurro e di un sole così intensi da interrompere il battito del cuore. I colori
delle onde, degli scogli, delle lingue di sabbia o dei lontani e diffusi promontori, che si
disegnavano, appena abbozzati con un segno, dietro le figurette degli Dei marini, dietro
Teti o Poseidone o le Nereidi (Teti si reggeva sul basso ventre il peplo pieghettato, coi
due seni tondi come piccoli scudi, Poseidone guidava dal cocchio una pariglia di cavalli
equorei con finimenti dai nomi ovidiani) disegnati con una penna dalla punta sottilissima,
!
9
Cfr. SITI 1996, pp. 520-522 e PAULUS 2007, pp. 406-408. Nella biblioteca casarsese era presente, in francese,
Sodoma e Gomorra: cfr. CHIARCOSSI-ZABAGLI 2017, p. 22.
10
PASOLINI 1998b, pp. 417-418 (corsivi miei).

! 19
a piccoli tratti abili ma leggermente puerili, sul biancore della piccola edizione
dell’Odissea, nell’Appendice o Dizionarietto mitologico, si riflettevano immoti e
abbaglianti da una prospettiva che toglieva il respiro, da un puro vuoto greco... Tutto ciò
che di morto, di strettamente statuario e figurativo c’era in quell’Egeo, aveva però nella
mia coesione assunto una vita gonfia, assoluta, carnale; i giovani e i fanciulli nudi che vi
vivevano, sempre tanto più perfettamente quanto meno la mia violenza estetica era
conscia, contro paesaggi itacensi o jonici dove il mare era appunto quel vuoto cartaceo, di
promontori o litorali segnati con una pura, sottilissima linea di contorno, davano una vita
vera, benché non storica ma insanamente gratuita, alla mia nostalgia invasata nel credere
possibile riavere in gioco un sublime mondo non esistito che in essa. Non, si capisce, che
a dodici anni io pensassi di rimpiangere in qualche minimo modo una civiltà (che per me
era solo un tempo in cui l’uomo era affatto diverso dal presente, incomunicante) una cosa
che allora, come adesso, ma a meno buon diritto, non provocava in me nessun interesse;
ma captare, di quel mondo, la sua rifrazione poetica in cui si faceva pura giocosità,
materia di avventura in sé, in cui, ad esempio, Ulisse, fosse un dodicenne mascherato da
Ulisse, causando così una sproporzione meravigliosa tra il protagonista dell’avventura, e
l’esterno di questa; allora sì che il mare sarebbe divenuto il puro campo di avvenimenti
mitici, gli Dei avrebbero avuto apparizioni esaltanti di prefissato ma non per questo meno
raggiante stupore; i dolori, le preoccupazioni dell’eroe riducendosi a puri, sottesi,
meramente nobilitanti flatus vocis, sarebbe di lui rimasta la semplice, assoluta azione,
senza congiunzioni logiche, senza principio e fine. Adulti puramente figurativi, gli
antagonisti, Circe, i Cimmeri, Antinoo ecc., avrebbero avuto a che fare con un bambino, e
mettersi con lui così in un rapporto di gioco, morire come compagni colpiti da una spada
di sambuco11.

Come i libri di Salgari anche i poemi omerici sfondano la realtà, emergono dalle
pagine scritte (e illustrate) dando sostanza viva, «carnale», alla fantasia del bimbo. Le
ultime righe del brano, unitamente al racconto dei giochi iliadici nei parchi di Cremona
e sulle rive del Po (un poco Simoenta e un poco mar Egeo)12, inquadrano le letture
omeriche nella cornice della fantasia ludica infantile; e ricordano che il mito resta
nominale, astratto, senza radici nella realtà che quegli stessi poemi sanno nonostante ciò
materializzare: Ulisse, Circe, Antinoo, Teti, Poseidon sono degli eidola, delle
‘maschere’, ma «dietro» la loro inconsistenza si staglia il mare, con gli scogli, con i
promontori, con l’arenile e, soprattutto (!), con i medesimi «nudi» efebici visti sulle rive
del Tagliamento da adolescente e, da giovane, sui litorali tirrenici, i primi evocati in
Edipo all’alba (il fratellino di cui si innamora Ismene 13) e narrati in Amado mio
!
11
PASOLINI 1998b, pp. 387-388.
12
Vd. PASOLINI 1998b, pp. 370-381 e, in aggiunta, PASOLINI 2003b, p. 715 (cioè la poesia L’urlo di Ettore a
Eleno, con il relativo commento di SITI 2004, pp. 169-171).
13
«Fu un meriggio di primavera. Io ricordo con chiarezza quel giorno. I fanciulli affluivano sulle sponde del
fiume. Io ero dolce e convinta ai raggi sereni di quella luce, e mi allontanavo dalle mie voglie, a cercar solitudini ben
disposte ai miei canti: correvo lieve pei prati, e godevo della mia gioia, come di una gioia altrui, quasi l’anima serena
e la nuova stagione mi avessero a me stessa rapita. Ero lieta, Tebani, ero simile a voi. Quand’ecco, coi suoi
compagni, scorsi il fratellino. Feci per chiamarlo, ma tacqui, avendolo visto tutto perso in una dolce occupazione.
Fratellino? Che dico? Allora mi avvidi ch’era già aitante, e sulle scarse labbra sorrideva inquietamente un’ombra di
lanugine [...]» (PASOLINI 2001b, p. 24).

! 20
(Benito/Iasis su tutti14), i secondi nelle prime prose e nei primi versi romani, più e meno
coevi a Operetta marina15. In stretto rapporto all’invenzione di questi nudi, ovviamente
assenti nelle caste pubblicazioni scolastiche dell’epoca, ricompare l’idea del vuoto, del
baratro che inghiotte il lettore e lo assorbe amplificandone i sensi fino allo stordimento;
le illustrazioni «puerili», che sanno di morta astrazione, di icona senza vita, prendono
vita solo negli spazi vuoti: solo nella carta bianca, ossia là dove l’immaginazione è in
grado di ‘fingere’ quelle realtà che mancano ai disegni ma non ai versi di Omero. In
altre parole, dei due poemi lo scrittore sembra apprezzare più i personaggi ‘anonimi’ e i
paesaggi che gli eroi: figure umane e naturali erotizzate forse già dal dodicenne, di
sicuro dal giovane appena sceso nei gangli della Roma malandrina16. È certo che sulle
letture ginnasiali di Omero il poeta proietta il proprio amore mostruoso, la propria
«brama sensa sen»17, quella che di lì a poco avrebbe definito ‘infinita fame di corpi
senza anima’18: e senza dubbio si tratta di una corrente fondamentale di quel fiume
carsico che Siti ha rintracciato studiando le reminiscenze omeriche di Pasolini19; eppure
non c’è solo questo, esiste in quelle righe una particolare attenzione per l’immagine
concreta, reale (per quanto in stretta connessione con il suo opposto). Il «vuoto
cartaceo» non deve passare inosservato; né la puntuale ekphrasis delle illustrazioni
omeriche: nell’esilità del tratto è emblematizzata l’evanescenza degli dèi e degli eroi,
nel bianco della pagina il pieno della fantasia creatrice e del pari, più esplicito, il vuoto
dell’ossessione, la presenza fantasmatica della morte. Mutatis mutandis – e dalla sola
prospettiva d’indagine sul classicismo pasoliniano – la descrizione di tali disegni può
!
14
Vd. e.g. PASOLINI 1982, pp. 155-156: «E quando la mano di Desiderio scese lungo il suo corpo giocando col
povero spillo che ne proteggeva il mistero, fu il fanciullo stesso [scil. Iasis] che se lo tolse, esclamando poi con
innocente complicità che egli era ancora bagnato e che sarebbe stato meglio, prima, scaldarsi un poco al sole. [...] Ma
il matrimonio bianco di Desiderio funestò l’estate, proprio mentre la spiaggia raggiungeva i giorni del massimo
splendore: più di un centinaio di giovani vi si radunavano; il trampolino dei tuffi costruito con due massi di cemento
e un po’ d’argilla battuta, brulicava continuamente di ragazzi che si gettavano in acqua, uno dietro l’altro, gridando,
ridendo. La poca sabbia era anch’essa zeppa di ragazzi che, distesi al sole come bisce, chiacchieravano di ‹quelle
cose›».
15
Vd. e.g. alcune righe della continuazione romana di Amado mio: «Dopo Pasqua cominciarono ad andare al
mare, in certe spiaggette a sud di Ostia, tra pinete dove pareva ancora di sentire le voci della pubertà latina»
(PASOLINI 1998b, p. 294; cfr. infra, par. 1.4); o i vv. 34-73 della quinta sezione de Le ceneri di Gramsci: «Shelley...
Come capisco il vortice / dei sentimenti, il capriccio (greco / nel cuore del patrizio, nordico // villeggiante) che lo
inghiottì nel cieco / celeste del Tirreno; la carnale / gioia dell’avventura, estetica // e puerile: mentre prostrata l’Italia /
come dentro il ventre di un’enorme / cicala, spalanca bianchi litorali, // sparsi nel Lazio di velate torme / di pini,
barocchi, di giallognole / radure di ruchetta, dove dorme // col membro gonfio tra gli stracci un sogno / goethiano, il
giovincello ciociaro... / Nella Maremma, scuri, di stupende fogne // d’erbasaetta in cui si stampa chiaro / il nocciòlo,
pei viottoli che il buttero / della sua gioventù ricolma ignaro. // Ciecamente fragranti nelle asciutte / curve della
Versilia, che sul mare / aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi, // le tarsie lievi della sua pasquale / campagna interamente
umana / espone, incupita sul Cinquale, // dipanata sotto le torride Apuane, / i blu vitrei sul rosa... Di scogli, / frane,
sconvolti, come per un panico // di fragranza, nella Riviera, molle, / erta, dove il sole lotta con la brezza / a dar
suprema soavità agli olii // del mare... E intorno ronza di lietezza / lo sterminato strumento a percussione / del sesso e
della luce: così avvezza / ne è l’Italia che non ne trema, come / morta nella sua vita: gridano caldi / da centinaia di
porti il nome // del compagno i giovinetti madidi / nel bruno della faccia, tra la gente / rivierasca, presso orti di cardi,
// in luride spiaggette... (PASOLINI 2003a, pp. 822-823).
16
Cfr. infra, cap. 2.
17
«Jo i soj neri di amòur / nè frut nè rosignòul / dut intèir coma un flòur / i brami sensa sen» (PASOLINI 2003a, p.
66 = Dansa di Narcìs [I], vv. 1-4).
18
«E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame / d’amore, dell’amore di corpi senza anima» (PASOLINI 2003a,
p. 1102 = Supplica a mia madre, vv. 9-10).
19
Cfr. SITI 2004, pp. 167-175.

! 21
essere accostata a quella di Baubo da Priene nell’Appunto 74 di Petrolio/Vas, cioè la
statuetta gastrocefala posta sulla copertina di Antropologia religiosa di Alfonso Maria
Di Nola (recensito nel 1974 sul settimanale Tempo)20: c’è lo stesso interesse per un
mondo classico spogliato dei suoi miti, dei suoi nomi celebri e persino delle sue
letterature, ricondotto sia ad alterità storica (qui «tempo [...] incomunicante», più tardi
«Passato», «Preistoria») sia alle inquietudini del sogno (e dell’eros); l’antico è presenza
misteriosa e inquietante come Quadro, la città sommersa nei fondali del Circeo, grande
come Roma, che Pasolini inventa nel coevo racconto Terracina – coevo, sia chiaro,
rispetto a Operetta marina21. L’autore precisa che il mondo greco non gli cale, ma,
come si vedrà tra breve, non è vero; né bisogna credergli quando aggiunge: «come
adesso»: non solo in considerazione delle opere che saranno discusse nel seguito della
tesi ma anche alla luce dello stesso frammento parallelo, che il mondo classico lo evoca
fin dal titolo22. Nell’ultimo paragrafo del terzo capitolo di Coleo di Samo ritorna proprio
la figura del bambino che si misura con l’atto demiurgico del disegnare: da altre pagine
di Operetta marina appare abbastanza evidente che l’Odissea cremonese è un libro
illustrato23, eppure devo ammettere che nel lungo brano appena trascritto non si capisce
se le figure descritte così dettagliatamente siano opera di un illustratore terzo o di
Pasolini stesso, che da altri testi narrativi sappiamo particolarmente impegnato pure
nell’arte del disegno24; è certo invece che il prototipo del Coleo bambino con in mano il
kalamos con il quale avrebbe tracciato la prima rappresentazione cartografica del mare
(e dell’infinito) si trova in un racconto del 1947, Douce, già discusso da Siti nel
convegno udinese-casarsese del 2002: un passo che scaturiva dall’ekphrasis omerica
dello scudo di Achille (Il. 18, vv. 478-607) e che è bene riconsiderare brevemente anche
qui, per chiarire il nesso fra Operetta marina e Coleo di Samo:

Io immagino che Angelo, come quando io avevo tredici anni, fosse spinto a disegnare
soprattutto dalla voluttà di impadronirsi delle cose e di farne una specie di mito. Un
!
20
Cfr. infra, par. 6.1.
21
«Tra lui e Vittorio remarono per quasi due ore. Ormai pareva che la terra fosse lontanissima: c’era solo il mare
intorno così aperto che dava quasi un senso di paura. Invece, non erano molto distanti da terra: se, a quell’ora, ci
fosse stata la luna, Lucià avrebbe visto sopra il suo capo alzarsi come un’enorme muraglia nera, più nera del cielo, il
Circeo con le sue rupi e le sue foreste. Fu così quasi ai piedi del Circeo che la barca si fermò e Vittorio si chinò a
scandagliare l’acqua. [...] ‹Qui sotto› disse zio Zocculitte, mentre Vittorio lavorava ‹c’è Quadro›. ‹Che d’è?› disse
Lucià. ‹È una città sepolta sotto le acque, negli antichi tempi›. ‹Sta qui sotto la barca?› chiese Lucià. ‹E come no, con
tutte le sue chiese e i suoi palazzi. Era una città grande come Roma› disse lo zio Zocculitte» (PASOLINI 1998b, p.
787). Non è un caso che il protagonista Luciano, attratto dal mistero del mare, finirà per morirvi: in una escursione
condotta ben oltre i limiti raccomandati dallo zio. Vd. PASOLINI 1998b, pp. 795-797.
22
Se prestiamo fede ai pochi indizi ricavabili da Operetta marina e da altri testi giovanili dedicati al periodo
cremonese (come alcuni versi di Via degli Amori) risulta chiaro che il piccolo Pier Paolo si disinteressava della
cultura classica ‘scolastica’, non del latino e del greco tout court; lo tediava la riduzione della civiltà greco-romana a
mero sapere nozionistico, a materie comunicate senza viscerale passione. Di converso era già ‘assorbito’ dalla
«rifrazione poetica» delle prime letture classiche, facilitata dallo straordinario milieu domestico di cui poteva fruire:
ossia dalla madre Susanna, archetipo di tutti i Maestri di cui discuterò nel capitolo zero. Sul magistero poetico-
educativo di Susanna Colussi cfr. SICILIANO 2015, pp. 37, 39-44, 47-48.
23
Vd. e.g. PASOLINI 1998b, p. 380: «Il mare non lo avevo mai visto se non nei versi e le figure dell’Odissea».
24
Ma, come vedremo più tardi (par. 1.2), l’adolescente continuò a praticarla e a perfezionarla, producendo delle
opere trascurate nelle storie dell’arte eppure di grande importanza per chi voglia studiare l’opera pasoliniana in tutte
le sue diramazioni.

! 22
ragazzo, vivendo fuori da qualsiasi forma di possesso, è il più puro nullatenente che si
possa immaginare [...]. È per questo che io (e ora forse anche Angelo) non mi
accontentavo di fare un disegno, ma ogni mio disegno doveva venire a far parte di un
ciclo compreso nell’intero album. I pericolanti segni del lapis venivano così a captare
alcune forme del mondo (e forse non le più invidiabili) fissandole in una leggendaria
collezione la cui infecondità, ahimè, non riusciva a sfuggirmi. Ricordo l’ossessione di
quelle forme di oggetti, e quella specie di infermità, di disagio, quasi di svenimento, che
mi dava la resistenza delle cose a farsi impadronire da me pur nel compromesso della
finzione. [...] Del resto il disegno non era per allora che un aspetto del gioco, cioè del mio
complicatissimo sforzo per realizzare un mondo fantastico della cui esistenza reale però
non dubitavo, malgrado le sue infinite, irrimediabili defezioni. Le mie ricadute
nell’assurda speranza di essere Yanez o Ulisse dovevano certo alla recente
conformazione del mio congegno sentimentale la loro inesausta freschezza. Ma entrato
nella pubertà il disegno acquistò un altro senso (Angelo è ora alle soglie del mutamento):
le aspirazioni false ispirate dall’educazione famigliare e dai maestri, mescolandosi a
quelle ardentemente fantastiche provenienti dalla lettura di Omero o di Verne, mi
fornivano tutto un mondo, un altro mondo, che io trepidante cercavo di tradurre negli
ormai odiosi fogli del mio album. È a questo punto che il discorso dovrebbe cadere sullo
scudo di Achille: quanto mi abbia fatto soffrire quel tremendo scudo sarebbe troppo lungo
e difficile dire. Fu allora che provai la prima angoscia davanti al rapporto delle due durate
così diverse tra loro quali sono la realtà e la sua rappresentazione. Ed ero davvero
malcapitato in quel canto dell’Iliade, in cui il reale e la sua indicazione devono a quella
che si dice ingenuità epica una fusione che par fatta apposta per condurre alla
disperazione quel ragazzo troppo pauroso di non capire che io ero. I prestiti reciproci tra i
buoi i giudici le fanciulle veri e i buoi i giudici e le fanciulle finti, erano qualcosa come un
ondeggiamento che rendeva ossessiva la mia perplessità. Ricordo che un giorno suddivisi
un foglio in dieci spicchi, e vi figurai la creazione del mondo: avevo appena tredici anni,
e abitavo a Cremona. La cucina era il teatro delle mie avventurose manovre mentali, e mi
vedeva chino su quel foglio, da null’altro assillato che dal puro problema del rapporto tra
il reale e il finto.25

Il tavolo della cucina cremonese dove Pasolini si interroga su come essere Dio è lo
stesso presso il quale sfoglia i libri di navi e velieri, legge Salgari, Verne e l’epica greca;
e lì il diciottesimo libro dell’Iliade gli presenta il thauma della sequenza continua, che
rompe la logica della pura razionalità alternando realtà e rappresentazione,
amalgamando l’atto creativo di Efesto e la presa diretta di suoni, canti, azioni, parole,
pensieri: nelle facoltà divine del fabbro l’enfant prodige desideroso ma incapace di
possedere la realtà trova lo scandalo di una creazione in cui pulsa la vita e la vita
dell’artista non subisce scacco. Dunque è Pasolini stesso a dirci che a un certo punto
leggere e disegnare Omero non equivale più soltanto a «essere Ulisse» bensì a essere
addirittura Omero: cioè a creare i medesimi microcosmi dello scudo di Achille. L’antico
diviene così un modello utopico; quindi altro che fonte di poco interesse! È vero che la
!
25
PASOLINI 1998b, pp. 182-183 (corsivi di Pasolini).

! 23
scoperta del diciottesimo libro lo confonde e lo angoscia all’inizio, ma se teniamo a
mente la dichiarata predilezione di Omero rispetto al modello familiare-paterno e
scolastico, nonché le memorie di letture, giochi, disegni iliadici e odissiaci disseminate
in Operetta marina, risulta innegabile che l’Auctoritas continui a esercitare la sua
influenza anche su Pasolini: e Iliade e Odissea non offrono esclusivamente evasione,
avventura ludica, incarnano pure il sogno della creazione dilettosa, senza nevrosi, con
piena partecipazione alle cose. L’excerptum che abbiamo appena letto riflette dei
problemi sui quali il nostro continuò a interrogarsi fino alla morte: se infatti Omero fu
presto relegato a utopia infantile e gli succedettero altri paradigmi (per lo più slegati
dalla tradizione classica), è però importante che ancora nel 1951, nel Coleo di Samo,
continui a profilarsi l’ombra del Poeta; nelle righe finali del frammento ritroviamo la
stessa situazione di Douce, benché trasfigurata in una narrazione mitico-erudita: ossia
con un fantasioso Coleo bambino al posto dell’Efesto iliadico, con la prima
rappresentazione cartografica del Mediterraneo in luogo dello scudo di Achille e
l’autore nei panni del seguace di Omero. Né va dimenticato che Coleo non è solo
controfigura del Pasolini infante sul tavolo cremonese, ma è al contempo un idolo
erotico assimilabile a quei fanciulli che l’enfant prodige sognò nel 1934 leggendo,
disegnando e mutando in gioco l’Odissea – oltre che uno dei prototipi del Riccetto26.
Conviene ancora una volta citare alcune righe di Pasolini, abbozzo di un capitolo che si
sarebbe dovuto intitolare Sguardo di Coleo a Gibilterra:

E questa inquadratura, lunghissima, succede necessariamente per una logica del ritmo,
alle accavallate, isteriche sequenze del piccolo cabotaggio per l’Egeo, del gran salto giù
verso l’Africa, la comparsa del deserto sirtico, l’interminabile riviera libica a sinistra, la
rotta incerta e accanita verso Occidente. I diversi piani di quello sguardo, i valori diversi a
seconda della richiesta dell’immaginazione, concentrati in una semplice e pudibonda
intensità. La grafia, cui in silenzio Coleo cercava la copertura di quell’angolo di mare, era
quella goffa, sproporzionata e pura di un bambino: con un deposito feticistico per cui
aerarsi e irrigidirsi di sacro conformismo, come per qualsiasi cosa grafica accade in un
selvaggio o in un analfabeta. Vasto il bacino dell’Egeo, dilatato, eccessivo; la costa
dell’Illiria dritta e secca verso l’Oceano, l’Italia piccola e insaccata con sotto un’enorme
Sicilia, un’enorme Calabria; un litorale affricano allungato fino all’ignoto dalle sospese
notti di navigazione. Il massimo della semplicità nel pinax lucido e puerile presupposto
dallo sguardo di Coleo, andrebbe applicato sulla complicazione anormale, febbricitante,
da cui lo spazio stesso pareva soverchiato, nauseato, violentato, del mare lì intorno.
Gibilterra commossa nella sua durezza dalle nubi. L’acqua incupita dall’ombra della
Spagna che vi sporgeva. Gli stridi dei gabbiani centuplicati dalla sonorità dello stretto.
Era un pezzo di realtà che facendo saltare con la spaventosa gonfiezza dovuta alla sua
stupenda verginità, le linee della prospettiva in cui per uno sguardo umano era contenuta,
pareva venire a premere contro il petto e schiacciarlo con la sua mole di rocce acqua e

!
26
Vd. e.g. PASOLINI 1998b, pp. 364-365: «‹Cominciava a non piacere più agli uomini e a fare arrossire le prime
fanciulle›, o meglio, diremmo, a assalire in frotta coi compagni le peripatetiche del porto della nativa Samo».

! 24
cielo. E questo fu indubbiamente per Coleo il segno di una personalità del luogo: prese le
forme di un nume27.

Il cerchio si chiude. L’intero Romanzo del Mare doveva costituire una sorta di poema
omerico in prosa: tentativo di saldare vita e arte, di ‘figurare’ la creazione del mondo (e
di sé); ma anche il solo relitto del Coleo di Samo, sia letto in tutti e tre i suoi capitoli sia
isolato nel frustulo che ho citato, rende bene l’idea. L’«ingenuità epica» che aveva reso
possibile la fusione tra il piano della realtà e quello della finzione è qui divenuta lo
stupore sacro di un navigatore bambino che registra e ricrea il mondo appena scoperto: e
così la telecamera dello scrittore sovrappone le inquadrature del viaggio ai segni
tracciati sul pinax, tanto più esili quanto più veloce il cabotaggio (e tanto più lunga – la
ripresa delle Colonne d’Ercole – quanto più meravigliato lo sguardo verso l’Infinito); il
suo microfono registra i suoni del mare, che paiono scaturire dallo stesso periplo: il
cozzo fra le nubi e il promontorio, i versi dei gabbiani. Ma a parte la criptica allusione
letteraria lo sconfinamento nell’ignoto stordisce ancora una volta i sensi e sfonda il
piano della ‘finzione’: il poeta parla esplicitamente di «pezzo di realtà» che schiaccia il
reinventato naukleros samio (cioè Pasolini medesimo). Nonostante i panni omerici,
l’autore del Coleo di Samo si riscopre al punto di partenza: incapace di vivere appieno e
appieno creare; però questa volta è sacro il pezzo di vita che lo anima: se il bimbo a
Cremona restava chino sul tavolo, incallito, ossessionato dal problema28, ora invece, più
esperto nel gestire il fallimento, Pasolini-Coleo ‘si aera’ e intravede il divino. In
conclusione: qui c’è una prima vaga infarinatura cinematografica che mancava negli
altri passi, eppure ritornano le stesse questioni inerenti all’atto creativo, che di scrittura
o disegno si tratti: la possibilità di possedere la realtà, di creare senza morire. Tale
ricerca, mai sopita, lo portò negli anni successivi a esiti senza dubbio più convincenti di
questo, ma per la presenza dell’immagine cartografica Coleo di Samo rimane un’opera
degna di nota: vedremo nel prossimo capitolo come il periplo di Coleo sia solo la più
importante di una lunga serie di pinakes, tabulae, carte geografiche, che non si trova in
nessun’altra pagina di un corpus pur così esteso, variegato, enciclopedico; ed è proprio
il paradigma omerico che deve aver condotto il nostro a siffatta suggestiva variante
dello scudo: una variante emblematica sia della creatività sia dell’eclettismo di Pasolini,
ma in ogni caso un unicum – questa carta-microcosmo – perché, dopo essere entrato nel
mondo di Cinecittà, il poeta smise l’habitus più tradizionale, quello del letterato che
reinventa i classici (antichi e moderni) per pochi eletti, dell’umanista che si sforza di
rinnovare l’eterna erudizione; dalla fine degli anni ’50 provò ad attingere la realtà in
altri modi, nelle intenzioni meno eruditi – quello che lui chiamava il «cinema di poesia»
–, in verità diversamente eruditi – cioè il «cinema d’élite» indicato dalla critica. Alla
!
27
PASOLINI 1998b, pp. 363-364.
28
Vd. anche la poesia Il profumo dei pastelli, vv. 12-22 (dal laboratorio della raccolta del 1946 Via degli Amori,
plaquette mai licenziata): «...lo scudo di Achille / con le sue Zone! / Invasato, sulla pagina / ne tento scialbe
immagini, / e l’intenzione / è attentata da mille / vaghe incertezze, stille / che rodono nel cuore il desiderio. / Eppure
serio / col mio pallido lapis / disegno greggi, colli, schiavi, capi...» (PASOLINI 2003b, pp. 731-732).

! 25
fine la vitalità dell’arte passò da una carta-microcosmo all’universo onirico dei
fotogrammi, alle ‘chartae sporche’ dei versi, alla forma-progetto di tante opere, su tutte
Petrolio/Vas.
A parte le prospettive filosofico-letterarie dei due frammenti del Romanzo del Mare,
si è detto che Operetta marina ci informa sulle letture ginnasiali; e non senza dettagli.
Prima di discuterli una precisazione va rimarcata: stando ai passi sopra citati (e ad altri
ancora), accomunati dall’accostamento fra Omero e Salgari, appare chiaro che la gioia
di leggere l’epica greca è svincolata dallo studio nelle aule del Liceo Manin; anzi, dai
pochi cenni all’esperienza scolastica è possibile ricavare un’aria tetra. Rivelatore già il
contrasto fra l’inconsistenza ipocrita dell’educazione paterna/scolastica e la pienezza
fantastica dell’epica; ma alle due righe di Douce se ne possono aggiungere altre due,
tratte da Operetta marina: «In quei giorni (in cui più duri erano i riassunti dell’Iliade
[...]) in quei giorni il mare perdeva i suoi intensi colori omerici»29, cioè quegli stessi
colori che assieme al bianco della pagina accendevano la fantasia e retrocedevano dal
primo al secondo piano le già esili figure eroiche e divine; e in più tre versi di una
poesia della raccoltina diaristica Via degli Amori: «Andromaca e Diomede / restano
dietro nere copertine / di quaderni sgomenti» (I voti, vv. 5-7)30. Se l’antica pratica del
riassunto sbiadiva l’immaginazione del bimbo, si potrebbe tralasciare l’aspetto più
strettamente evenemenziale, ossia evitare di chiedersi quale fosse l’edizione scolastica
dell’Odissea menzionata a p. 387, eppure ho voluto indagare a fondo perché
quell’edizione cremonese ha un elemento in comune con i libri di scuola usati al
Galvani. In verità, già nelle pieghe del testo pasoliniano si può cogliere un’equivalenza:
ogni tempo e ogni luogo pare avere la sua dilettosa lettura (Sacile Salgari, Cremona
Omero, Reggio Emilia e Bologna Virgilio); e persino due città prive (o quasi) di
paesaggio acquatico come Reggio Emilia e Bologna risultano bagnate dal «mare» della
fantasia pasoliniana31. In comune tra i testi del Manin e quelli del Galvani c’è proprio
l’illustrazione marina, che ormai sappiamo aver contribuito alle «manovre mentali» del
preadolescente: le antologie, gli eserciziari, le grammatiche del Liceo Galvani (tutto ciò
che verosimilmente tarpò le ali del sogno a Bologna così come a Cremona), erano
sprovviste di qualsiasi figura; invece le letture epiche sia in lingua sia in traduzione –
l’Eneide figurava sia nel programma di italiano sia in quello di latino – erano illustrate.
Come vedremo in dettaglio nel prossimo paragrafo, i verbali dei collegi didattici del
liceo felsineo hanno conservato l’indicazione dei libri di testo adottati nelle varie
sezioni, perciò è stato possibile risalire con precisione ai testi scolastici usati da Pasolini
fra il 1937 e il 1939: si tratta, e per l’italiano e per il latino, delle edizioni fiorentine
Sansoni: la storica versione di Annibal Caro, commentata da Vittorio Turri, e il

!
29
PASOLINI 1998b, pp. 382-383.
30
PASOLINI 2003b, p. 723.
31
«Tutto questo da Sacile, il mare salgariano del 1930, a Cremona col suo mare omerico, dal ’30 al ’33 restava
fedele a una vocazione logorata dal suo continuo esprimersi nei giochi e più ancora nelle fantasie del dormiveglia; e
alla stessa vocazione e alla stessa espressione restò coerente negli anni successivi (il mare virgiliano di Scandiano e
Reggio, e poi di Bologna)» (PASOLINI 1998b, p. 392).

! 26
dodicesimo libro curato da Carlo Giorni. In entrambe le edizioni dell’Eneide l’apparato
iconografico spaziava dalle riproduzioni di bassorilievi, statue, monete, gemme, armi,
etc., a veri e propri quadri, disegni e persino qualche fotografia: una ricchezza
invidiabile a confronto della «piccola edizione dell’Odissea» adottata a Cremona, e
seconda solo a quella de L’arte classica di Ducati; l’unica assenza nei due libri
bolognesi era proprio l’immagine cartografica, posta al contrario all’inizio
dell’antologia odissiaca cremonese: le Letture dell’Odissea di Omero tradotta da
Ippolito Pindemonte, curate da Giuseppe Parisi per i tipi milanesi di Luigi Trevisini.
Tuttavia devo precisare che quest’ultima è una congettura, ricavata da una disamina del
verbo pasoliniano unita al sondaggio bibliografico delle antologie di epica degli anni
’30: ho mancato di interrogare direttamente l’archivio del Liceo Manin – ammesso che
esso custodisca documenti analoghi a quelli del Galvani –; né ci viene incontro la
biblioteca privata di Pasolini, che non conserva più nemmeno uno dei libri scolastici –
neppure quelli usati al Galvani. A maggior ragione bisogna quindi ritenere a mente la
complessità del testo da cui ho tratto l’ipotetica identificazione: un brano che confonde,
alla stregua di Omero, realtà (i colori del «mare» cremonese: il Po) e immagine (le
«figurette» divine disegnate «sul biancore della piccola edizione»); e dove non si
capisce se i disegni siano stampati o li abbia vergati lo scolaro in persona. A ciò si
aggiunga che di frequente la memoria del nostro falla e distorce i dettagli, come ricorda
bene Siti nel saggio conclusivo all’edizione dei dieci Meridiani32: in Operetta marina lo
scrittore si riferisce alla sola Odissea, ma potrebbe avere usato un’edizione doppia (i
due poemi omerici) o persino tripla (Iliade di Monti, Odissea di Pindemonte e Eneide di
Caro), anch’esse presenti nel piano editoriale dello stesso Trevisini e di altre case.
Deporrebbe a favore della mia congettura il fatto che Parisi aveva predisposto pure un
«Dizionarietto di mitologia e di antichità classiche», però non bisogna nemmeno
dimenticare che malgrado Pasolini si richiami all’Odissea la figura di Teti rimanda
all’altro poema omerico, né che i cavalli marini di Poseidon sembrano contaminati con
quelli dei Niobidi di OV. Met. 6. 221-223 (altro autore tipicamente ginnasiale)33. Infine
è bene segnalare che il poeta medesimo insegnò epica dal 1947 al 1949 e perciò
potrebbe aver proiettato sul periodo cremonese particolari di anni più recenti: ammesso
che si tratti di un’edizione scolastica Trevisini l’Odissea illustrata evocata dal testo,
potrebbe essere quella che adottò lui come insegnante – fu riedita a lungo, fino agli anni
’60. Perché, allora, arrovellarsi tanto su un’edizione incerta? Oltre che per le lunghe
ragioni che ho cercato di spiegare nel cuore di questo paragrafo, perché i successivi
mostreranno che anche in altri casi uno specifico libro di scuola contribuì
all’immaginario delle opere più precoci: l’Antigone di Sofocle curata da Dario Arfelli e
il manuale di Ducati; dunque non solo le antologie di epica. Se venisse confermato che
il Pasolini ginnasiale in quel di Cremona cominciò a leggere Omero avendo dinanzi a sé
!
32
Cfr. SITI 2003b, pp. 1899-1900.
33
«Una pariglia di cavalli equorei con finimenti dai nomi ovidiani» (PASOLINI 1998b, p. 387) ! Pars ibi de
septem de genitis Amphione fortes / conscendunt in equos Tyrioque rubentia suco / terga premunt auroque graves
moderantur habenas.

! 27
la carta del mar Egeo34, questo primo caso di studio, già consolidato dalle ricerche
d’archivio al Galvani, avrebbe la sua ciliegina.

0.1. Liceo Galvani, 1937-1939

Adesso entriamo per davvero nelle aule di scuola: quelle della V D (a. s. 1936-1937),
I C (a. s. 1937-1938) e II C (a. s. 1938-1939) del Galvani35; conclusa la quarta ginnasio
e iniziata la quinta al Liceo Spallanzani di Reggio Emilia, Pasolini tornò nella natia
Bologna e ne frequentò la scuola superiore più illustre, che già contava nella sua storia
insegnanti di prim’ordine: per restare nell’ambito degli studi classici, Giosuè Carducci,
Luigi Alessandro Michelangeli e Giuseppe Albini. Anche negli anni ’30 il liceo fu
animato da grandi professori quali Galvano della Volpe, Enrico Maria Fusco, Gallo
Galli e Vittorio Lugli; e lo stesso Pasolini poté giovarsi di due ‘maestri’ eccezionali:
Carlo Gallavotti, che lavorò nel liceo bolognese nel medesimo arco di tempo in cui lo
frequentò il nostro e che a questi insegnò latino e greco in prima e in seconda liceo; e
Alberto Mocchino, latinista, ma in I e in II C professore di lettere italiane. La scuola era
allora governata da un preside autoritario che passò alla storia anche per esserne stato il
reggente più longevo (preside dall’a. s. 1929-1930 fino al 1951-1952): Ezio Chiorboli
(1882-1956), letterato lui medesimo e cultore di Carducci non solo quale gloria del
liceo; proprio il suo carduccianesimo e il ferreo rispetto delle direttive ministeriali –
volte tanto ad applicare la riforma Gentile nei suoi mille aggiornamenti e rettifiche
quanto a mutare l’istruzione pubblica in ‘educazione nazionale’ – sono il segno più
evidente dei limiti entro cui si formò il poeta. Beninteso: il processo di fascistizzazione
del sistema educativo era generalizzato; interessava ogni ordine e grado: dalla scuola
elementare fino all’università, dalle attività formative a quelle ricreative; e dunque,
ancorché imperfetto rispetto alla “perfezione” delle politiche naziste, riuscì a inquadrare
l’intera generazione di Pasolini, non il solo poeta-cineasta36. Nonostante ogni scuola
abbia avuto una storia specifica che andrebbe approfondita singolarmente per verificare
gli eventuali margini di erranza rispetto alla norma37, dalla ricchissima pubblicazione
celebrativa del centenario galvaniano emerge con chiarezza il rigidissimo controllo di
insegnanti e studenti diretto da Chiorboli, che lasciò ben pochi spiragli di critica e
dissenso; quindi il liceo felsineo non costituiva affatto un’eccezione e credo sia
necessario ricordare cursoriamente ciò che lì si discute in dettaglio circa il fascismo al
Galvani per due importanti ragioni: sia per comprendere il silenzio di Pasolini sul
liceo38 – lo stesso che colpì l’università, in primis Goffredo Coppola – sia per capire una
!
34
Vd. PARISI 1934, p. 22; mentre per l’illustrazione di Poseidon sul carro equoreo vd. p. 43.
35
Visti i buoni risultati nella pagella di seconda liceo Pasolini decise di anticipare l’esame di maturità all’autunno
del 1939 e saltò così il terzo anno: cfr. NALDINI 1993, p. 22; i voti di seconda liceo possono essere consultati in
ANONIMO 2006-2007, p. 49.
36
Cfr. CHARNITZKY 1996, pp. 294-417.
37
Cfr. CHARNITZKY 1996, pp. 416-417.
38
Con l’eccezione di PASOLINI 1999b, p. 1287.

! 28
causa importante della reazione pedagogica pasoliniana, culminata nella famosa
proposta di abolizione della scuola. Se questi preferì tacere i dettagli della propria
formazione e, da insegnante, già dal 1943 si sforzò di combattere strenuamente
l’autoritarismo e la retorica scolastica con un metodo di insegnamento ludico, inclusivo
e non punitivo, lo dobbiamo all’aria da caserma che respirò nel liceo bolognese; è anche
contro il ricordo dei professori (maschi) in divisa, dei saluti romani, delle conferenze di
propaganda, delle adunate, delle punizioni annotate sul registro di scuola per chi avesse
marinato le attività extra-scolastiche dell’Opera Nazionale Balilla e, dopo il 1937, della
Gioventù Italiana del Littorio, che sono dirette l’aposiopesi e la ribellione pedagogica
esercitata a scuola e, dagli anni ’60, per iscritto. La stessa carriera liceale di Pasolini
contiene i segni della futura insubordinazione. Come ha ricordato un compagno di
classe39 e da ultima anche la mostra Officina Pasolini40, Pasolini era bravo, ma non
bravissimo; e del resto il poeta medesimo, in una lunga intervista condotta da Enzo
Biagi, dichiarò di aver preso in greco alcune volte otto altre volte «un misero sei»41.
Addentrarsi nei voti scolastici permette proprio l’individuazione di una muta
insofferenza42: il sette in cultura militare nella pagella con cui ottenne la licenza liceale
e l’oscillazione in condotta fra otto e nove ne sono un’ulteriore prova43 . Ritengo
eloquente persino la fotografia della V D, conservata nell’archivio del Galvani ed
esposta nella prima sezione di Officina Pasolini44: in una scuola in cui all’entrata
mattutina il preside in persona vigilava che le alunne e le insegnanti non si
presentassero imbellettate e senza grembiule, i professori senza il distintivo gerarchico e
gli alunni insufficientemente «decorosi», cioè «senza giubba o in altro modo troppo
confidenziale o domestico»45, il quindicenne Pasolini ci appare vestito con la doverosa
«giubba», ma sprovvisto di camicia e cravatta, quelle che invece dodici dei tredici
compagni maschi indossano; sotto la giacca porta una semplice maglia di cotone giro
collo. Restiamo ancora un momento sul tema e proviamo a fare zoom out:
l’insegnamento di cultura militare non fu istituito dal fascismo per fare dei giovani
italiani dei meri soldati; oltre a nozioni tecniche, quasi da accademia militare, la nuova
materia introdotta nel 1935 rendeva edotti in storia militare dell’antichità – in primis
romana – con intenti in realtà più propagandistici che illustrativi46. Insomma, è bene

!
39
Cfr. LODI-RIGHI 2008-2009, p. 103.
40
Officina Pasolini si è tenuta al Museo d’arte moderna di Bologna dal 18 dicembre 2015 al 28 marzo 2016 a
coronamento di una ricca serie di celebrazioni cittadine per il quarantennale dalla morte riunite sotto il titolo Più
moderno di ogni moderno. Pasolini a Bologna; hanno curato la mostra Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e
Gian Luca Farinelli. La formazione bolognese di Pasolini è stata oggetto della prima sezione/sala.
41
Mi riferisco alla puntata dedicata a Pasolini del programma Terza B facciamo l’appello (una produzione Rai
del 1971), messa in onda per la prima volta sul programma nazionale la notte seguente l’assassinio; assieme al poeta-
cineasta furono intervistati il professor Gallavotti e gli ex compagni di classe Odoardo Bertani, Agostino Bignardi,
Carlo Manzoni, Nino Pitani e Sergio Telmon.
42
Chiunque li può leggere in ANONIMO 2006-2007, pp. 48-49.
43
Segnalo che anche all’università Pasolini non brillò in cultura militare: il voto di 24/30 è il più basso di tutto il
libretto; vd. PASOLINI 1993, pp. 240-241.
44
La si può vedere anche in PASOLINI 2015, p. 249.
45
ANONIMO 1961, p. 297.
46
Cfr. CHARNITZKY 1996, pp. 412-415.

! 29
ricordare che il nostro si era formato in un’Italia che per la tradizione romano-latina
aveva una vera e propria idolatria (beninteso funzionale al potere, non gratuita47); ma
non bisogna dimenticare nemmeno l’aura poetico-patriottica incarnata da Carducci,
gloria locale e nazionale cui il preside Chiorboli e il liceo intero dedicarono diversi
omaggi 48 : il classicismo reazionario italiano e quello galvaniano paiono dunque
convergenti e spiegano perché, eccettuata la lunga intervista rilasciata a Biagi e quella
di Jon Halliday, l’unico ricordo esplicito del Galvani da parte di Pasolini sia inserito in
una pagina in cui è programmaticamente dichiarato il desiderio di «distruggere»
l’immagine ammuffita e roboante dell’antico, e proposto di converso un approccio
moderno, non omiletico. Si tratta delle righe iniziali del Coleo di Samo, delle quali
parlerò in dettaglio soltanto nel prossimo capitolo49. Qui basta preannunciare che fra i
propositi dell’autore c’è quello di «dimenticare di aver patito sopra la carta patinata in
cui il Liceo Galvani proiettava i muti odori dei gabinetti»: oblio confacente alla ricerca
dell’origine del Mare; proposito solidale con la predilezione per una Venere pre-iconica,
liquida: mischiata con il seme di Urano. La frase appena citata è inserita in un periodo
anacolutico nel quale la memoria del Galvani pare confondersi con quella delle letture
universitarie de L’arte classica di Ducati50: le cui pagine lucide, levigate, di notevole
ampiezza e grammatura erano veramente ricche di quelle illustrazioni più e meno
sensuali che avevano colpito subito l’immaginazione di un ragazzo ancora digiuno dei
corpi in carne e ossa e dei nudi statuari, ossia poco pratico pure di musei archeologici51;
fra i libri in uso nelle classi di Pasolini soltanto uno era realizzato in carta patinata,
Storia della letteratura latina di Augusto Rostagni, ma non poteva competere con il
libro d’arte né in fattura né in quantità (appena cinquantaquattro illustrazioni – di cui un
solo nudo – contro quasi un migliaio)52. Lo stesso verbo scelto da Pasolini sembra più
consono al Ducati che al manuale di latino adottato in I e II C: perché, malgrado il poeta
possa aver optato per ‘patire’ indotto da motivazioni eufoniche (patito-patinata), a me
pare utilizzato anzitutto con valore ossimorico, cioè per significare una gioia tanto
smisurata da scadere nel suo opposto; un piacere-dispiacere carnale che meglio si
concilia con le figure erotizzate dell’arte greco-romana, molto di meno con i busti di
poeti e personaggi storici: in ogni caso ‘tutte’ immagini da dimenticare a partire dagli
anni ’50 perché solo a Roma giunse a piena maturazione quella visione critica nei
confronti della formazione galvaniana e accademica che lo avrebbe protetto dal girare
film tanto retorici quanto le pellicole viste al Cineguf di Bologna (come Olympia di
Leni Riefenstahl). Nel luogo per eccellenza più eversivo di una scuola il nostro sembra
!
47
Cfr. CANFORA 1980, pp. 77-78, 90-92.
48
Ne resta traccia nel primo annuario pubblicato dal liceo (1930): cfr. ANONIMO 1961, p. 331.
49
Cfr. infra, par. 1.5.
50
«Bisognerà dimenticare di aver patito sopra la carta patinata in cui il Liceo Galvani proiettava i muti odori dei
gabinetti, e Via Castiglioni [sic: lungo via Castiglione è sito il Galvani] il buio dei portici dove il compagno di scuola
diventava uno straniero confuso di sesso e di indirizzo – del granuloso volume verde dove il nome Pericle Ducati
traluceva in un filamentoso maiuscolo d’oro, e che, sfogliato, bruciava sotto le dita, sfregava i nervi, le viscere»
(PASOLINI 1998b, pp. 341-342).
51
È a Roma che farà esperienza di entrambi: vd. infra, par. 2.1.
52
Tra breve preciserò la fonte da cui ho ricavato le adozioni dei libri scolastici.

! 30
quindi aver rintracciato il simbolo della sua ribellione contro ogni potere autoritario e
contro la retorica della classicità; una ribellione che si comprenderà meglio alla luce del
paragrafo successivo (e del secondo capitolo53), ma che si può già intuire se si tiene a
mente che durante la presidenza di Chiorboli i gabinetti del liceo furono
sostanzialmente interdetti agli studenti: chiusi durante l’unico intervallo per evitare
qualsiasi affollamento, erano accessibili solo dalla terza ora in poi previa autorizzazione
dell’insegnante; poiché il regolamento del preside causò nei primi anni fastidiose
interruzioni delle lezioni e viavai di pupilli nei corridoi, alcuni docenti proposero di
aprirli durante l’intervallo, però Chiorboli vi si oppose e ordinò che i professori fossero
meno indulgenti con gli alunni dando l’assenso all’uscita esclusivamente in casi
eccezionali54. Insomma: luoghi non soltanto dell’eversione ma persino del proibito; il
proibito degli odori puberali di cui non a caso si impregnavano non i libri adottati dal
collegio scolastico, bensì – nell’immaginazione di cui è prodigo l’autore del Coleo di
Samo – un volume fuori programma, che Pasolini sfogliò e studiò da puro autodidatta
poco tempo dopo l’iscrizione all’università.

0.1.1. Mario Borgatti e Alberto Mocchino

In principio la ribellione rimase dunque inespressa: ‘muta’ come gli odori del sesso;
perché nonostante le oscillazioni in condotta il Pasolini allievo del Galvani non fu un
bullo: lo ricordò con ironia lo stesso Mario Borgatti, intervistato in una sala del Galvani
per il sullodato programma di Enzo Biagi55; né fu uno studente senza buoni risultati.
Borgatti (1895-1985) insegnò latino e greco alla V D; nella fotografia che ho già
evocato appare proprio alla destra di Pasolini, in un elegante completo fornito di
mostrina gerarchica e accompagnato da due accessori che rendono ancora più netto il
contrasto ‘estetico’ fra insegnante e allievo (il borsalino e i guanti). L’archivio del
Galvani, che pure permette di cogliere siffatti dettagli iconici, normativi e numerici, non
consente invece di ricostruire ciò che più sarebbe interessante per una storia della
formazione classica del poeta: il contributo dei professori, il loro lavoro in classe;
naturalmente i contenuti delle lezioni si possono ricavare dalle indicazioni dei
programmi ministeriali, eppure non sono il vero oggetto di queste pagine, che mirano
!
53
Cfr. infra, le prime pagine del cap. 2 e il par. 2.1.
54
Cfr. ANONIMO 1961, p. 299.
55
«[M. B.] Certamente la disciplina, allora, era mantenuta... con un preside, allora, il quale era piuttosto rigido. E
infatti le potrei leggere una piccola, diciamo, una noticina dell’annuario [sic] che è stato pubblicato durante la
celebrazione del centenario. Dice così. [Anonimo inviato di Biagi presso il Galvani] Di questo... di questa scuola?
[M. B.] Di questa stessa scuola... nella quale, noti, ha insegnato Giosuè Carducci! ‹Dal verbale in data del marzo
1938 apprendiamo che il Consiglio dei professori del Liceo punisce, sempre su proposta del Preside, gli alunni di II e
III A e III C del Liceo con la sottrazione di tre o quattro punti nella condotta del secondo trimestre, perché si sono
astenuti da scuola nell’ultimo giorno di carnevale› [= ANONIMO 1961, p. 305]. Noti che il Pasolini e gli altri in
quell’anno frequentavano la II C del liceo, tanto perché si distingua e che non si pensi che si... fossero tra i rei».
Preciso che ho trascritto questa piccola parte dell’intervista a Borgatti da una mia registrazione della puntata di
Restauro trasmessa su RaiStoria il 5 marzo 2012 a cura di Giuseppe Gianotti: puntata assai utile perché ha
ritrasmesso ‘per intero’ la messa in onda di Terza B facciamo l’appello del 3 novembre 1975, della quale in rete sono
invece accessibili solo degli spezzoni.

! 31
anzi al solo ‘segno’ simbolico del magistero, alla sola personalità in grado di accendere
il fuoco della conoscenza, ossia di animare e sostanziare quei contenuti nominali. In
assenza dei temi scritti e soprattutto dei registri di classe – che il preside sollecitava a
compilare con acribia!56 – è assai difficile capire quale sia stata la mediazione svolta dai
due professori che insegnarono latino e greco a Pasolini fra il 1937 e il 1939: lo è
specialmente per Borgatti, che non ha lasciato quasi nessuna traccia in memorie di
allievi, né una produzione scritta da poter incrociare con gli argomenti elencati nei
programmi; né possono venirci in soccorso i quaderni degli studenti perché la pratica
degli appunti era anch’essa proibita dal rigido regolamento di Chiorboli57. Rimangono
soltanto i verbali dei collegi docenti e i fascicoli personali dei professori, dai quali si
ricavano per lo più dettagli amministrativi; con l’eccezione delle adozioni dei libri: un
bel lume sugli strumenti utilizzati dagli insegnanti per alimentare il fuoco della
conoscenza. Poiché il lessico metaforico che continuo a usare potrebbe sembrare fuori
luogo, cioè moderno, preciso che al contrario era lo stesso preside a invocare un
approccio meno nozionistico e più passionale, da parte sia degli insegnanti sia degli
allievi58; e non per iniziativa personale ma nel rispetto della riforma Gentile59. Tutti i
libri di testo che sono riuscito a dedurre dal tredicesimo volume dei Verbali del collegio
dei professori e dei consigli di classe, 1931, 1932, 1933, 1934, 1935, 1936, 1937-1942
– tutti, beninteso, quelli riferibili alle classi di Pasolini – sono elencati al punto 1.2.2
della bibliografia; nel seguito di questa sintesi ci sarà lo spazio per discuterne o citarne
solo alcuni. Ora veniamo finalmente ai maestri.
Borgatti fu un pilastro dell’insegnamento ginnasiale del Galvani; vi lavorò per quasi
tutta la carriera, dal 1928 al 1960, cioè da quando ottenne la cattedra di ordinario dopo
un breve periodo di supplenze in altre cinque scuole del regno (1922-1927): fu titolare
di materie letterarie (italiano, latino, greco, storia e geografia) nel ginnasio superiore –
ginnasio dal 1940 – e, salvo un incarico nel corso liceale per il solo 1939, restò sempre
fedele al suo ruolo di grammatistes; anche nel 1951, quando gli venne proposta una
cattedra per l’insegnamento del latino e del greco nelle classi liceali ma rinunciò,
anteponendo – immagino – la sicurezza dell’abitudine alla sfida di un nuovo incarico.
Nel 1921 si era laureato in «belle lettere» presso l’Università di Bologna discutendo una
tesi in fonologia storico-comparativa sui dialetti dell’area modenese, bolognese e
ferrarese – di Cento, in particolare: la cittadina natia. Negli ultimi anni di insegnamento
si produsse nella letteratura scolastica aggiornando alcune storiche grammatiche latine
ed eserciziari di Eugenio Turazza, tuttavia negli anni in cui Pasolini frequentò il Galvani
aveva all’attivo solo alcune pubblicazioni di poche pagine sullo stesso tema della tesi di
laurea60. Dai documenti dell’archivio ricaviamo quindi una figura di insegnante senza

!
56
Cfr. ANONIMO 1961, p. 319.
57
Cfr. ANONIMO 1961, p. 321.
58
Cfr. ANONIMO 1961, p. 316.
59
Cfr. CHARNITZKY 1996, pp. 114-129.
60
Ho tracciato questo breve profilo sulla base del materiale consultato all’archivio del Galvani: in particolare il
fascicolo personale di Borgatti, b. 10 fasc. 11 BORGATTI MARIO DOC. 277.

! 32
macchia né lode: l’esperienza già più che decennale al momento dell’arrivo di Pasolini
al Galvani, unita al rigido indirizzo didattico voluto da Chiorboli (che prevedeva quattro
verifiche scritte per ogni mese oltre ai «frequenti compiti di latino e greco» assegnati
per lo studio domestico61), contribuì a rendere il nostro un buon lettore delle lingue
classiche, in particolare del latino, ma sembra che non abbia saputo donargli
l’imprevisto e il sovrappiù di maestri quali Mocchino, Gallavotti, Coppola e Longhi. Sia
chiaro che non è mia intenzione sminuire il lavoro ordinario di un insegnante, cioè la
sua capacità di comunicare con effetto i contenuti previsti dal programma – nel nostro
caso le grammatiche latina e greca e la lettura di alcuni classici: il dodicesimo libro
dell’Eneide, parte dell’epistolario di Cicerone, il primo libro dell’Anabasi senofontea e
una scelta dei Dialoghi di Luciano62. Intendo solo ricordare che il vero insegnamento di
un Maestro travalica le mere competenze – dalle quali ovviamente non si può
prescindere –, scaturisce bensì dalla sua ‘aura’ complessiva e molte volte è diacronico:
lascia il segno con effetto ritardato, pochi o molti anni dopo a seconda del caso63; e,
ripeto, Borgatti non mi sembra aver oltrepassato l’ordinarietà. Inoltre c’è bisogno di una
buona percezione dell’insegnante da parte dell’allievo affinché possa realizzarsi
l’eccezione di cui parlo: e non credo che questo docente, incaricato di insegnare anche
cultura militare64, andasse del tutto a genio a Pasolini – il cui odio per il padre, ufficiale
di fanteria, è fin troppo noto per essere sviscerato qui.
Al contrario un segno può averlo lasciato Alberto Mocchino: due alunni ne hanno
ricordato la vasta cultura, estesa fino al campo del cinema – arte cara a Pasolini fin dalla
più tenera età, lo si vedrà nel prossimo paragrafo. La testimonianza più interessante è
quella di Luciano Serra, già compagno di scuola al ginnasio di Reggio Emilia, quindi al
Galvani e infine all’università, nonché amico e letterato sodale: pubblicò una plaquette
presso lo stesso editore e nello stesso anno in cui uscì Poesie a Casarsa (1942), in
quegli stessi anni partecipò anche all’attività delle riviste Architrave e Il Setaccio, e
assieme pure a Francesco Leonetti e Roberto Roversi già nell’estate del 1941 lui e
Pasolini avevano sognato di fondare la rivista letteraria Eredi65. Luciano Serra è l’unico
a fare i nomi attorno ai quali ruota questo capitolo zero: i nomi di Carlo Gallavotti e
Goffredo Coppola; ne fece anche altri, in realtà, come quelli del professore di storia e
filosofia Evangelista Valli e del supplente di storia dell’arte Antonio Rinaldi – l’unico
insegnante liceale ricordato dallo stesso poeta –, però la mia tesi ha nel mirino solo

!
61
Per la precisione: un tema di italiano, una versione dall’italiano al latino, una dal latino in italiano e una dal
greco all’italiano. Cfr. ANONIMO 1961, p. 317.
62
Queste letture sono ricavate dai Verbali del collegio dei professori e dei consigli di classe, 1931, 1932, 1933,
1934, 1935, 1936, 1937-1942 – Volume XIII, pp. 130, 198, 199: cioè, più precisamente, dai verbali del collegio
docenti del 6 giugno 1934 e di quello del 15 ottobre 1936: l’ordine del giorno del primo collegio era l’adozione dei
libri di testo per l’a. s. 1934-1935, ma il libro virgiliano, quello dell’Anabasi e i dialoghi lucianei furono riconfermati
negli anni seguenti, fino alla frequenza di Pasolini; dal secondo verbale citato risulta che il collegio dell’autunno
1936, riunito per la scelta dei libri dell’a. s. 1936-1937, sostituì l’antologia liviana adottata il 6 giugno 1934 con
quella dell’epistolario ciceroniano. Per tutti i riferimenti precisi alle edizioni vd. infra, Bibliografia, 1.2.2.
63
Cfr. RECALCATI 2014, pp. 5, 97-117.
64
Cfr. ANONIMO 1961, p. 851.
65
Cfr. infra, sottopar. 1.2.2.

! 33
l’insegnamento delle letterature classiche. Serra ricorda Mocchino come «mirabile
studioso di Orazio»66, il che è vero, ma vista la docenza di lettere italiane nelle classi
frequentate da Pasolini sarebbe stato più opportuno citare il caso di Pascoli: è più
verosimile che abbia introdotto il nostro sulla via pascoliana invece che su quella di
Orazio, della cui opera rimangono pochissime tracce nei dieci Meridiani67. Pure Nico
Naldini lega il nome di Mocchino alle esperienze latine di Pasolini ricordandone
l’exploit all’esame di maturità nell’autunno 193968; ma l’archivio del liceo parla chiaro:
nella I C dell’a. s. 1937-1938 e nella II C dell’a. s. 1938-1939 Mocchino insegnò
letteratura italiana. Ed è la ragione per cui non posso addentrarmi sul tema del suo
lascito: posso tracciarne solo un breve profilo biografico – anch’esso ricavato dal
fascicolo personale69 –, che dia un’idea del suo spessore.
Mocchino (1889-1961) insegnò per nove anni lettere italiane e latine nel corso liceale
del Galvani: dall’a. s. 1933-1934 fino al 1941-1942, quando ottenne la cattedra di
Letteratura latina all’Università di Trieste; prima di prendere servizio nel liceo
bolognese aveva già insegnato per un quindicennio materie letterarie in alcuni ginnasi
(prima inferiori, poi superiori) dell’Italia settentrionale. Nato a Voghera, nel 1912 si era
laureato in Lettere presso l’Università di Pavia e, diversamente da Borgatti, aveva
tenuto un saldo legame con il mondo della ricerca scientifica: prima di accedere
all’insegnamento scolastico superiore si perfezionò a Firenze (1913-1914) e negli anni
’20 scrisse ben sei libri, di cui tre antologie scolastiche edite da Mondadori (Fedro,
Tibullo e Ovidio, Orazio), e tre monografie universitarie (un saggio di estetica, uno sui
carmi latini di Pascoli e uno su Virgilio): opere che assieme a una ricchissima
produzione pubblicistico-erudita su Il Resto del Carlino e su varie riviste di cultura
(Rivista d’Italia, Leonardo, La cultura, Italia letteraria, Pegaso, Pan, etc.) gli diedero
notorietà, nonché la stima di accademici illustri (su tutti Manara Valgimigli); nel 1935
conseguì l’abilitazione per l’insegnamento universitario di Lingua e letteratura latina e
di lì il passaggio all’accademia fu breve. La sua produzione scientifica e pubblicistica
ha una singolare vivacità; e soprattutto concilia bene antichistica e modernità: un tratto,
quest’ultimo, non distintivo invero del solo Mocchino perché anche gli scritti di
Gallavotti e Coppola rivelano un radicamento nella letteratura moderna e
contemporanea, però in lui tale vocazione è più spiccata che negli altri due, che
dell’antico sembrano ancora nutrire un culto soverchiante. Credo che il principale
insegnamento di Mocchino sia stato proprio l’“equiparazione” fra lettere antiche e
moderne; complice il fatto che altrimenti da Gallavotti e Coppola insegnò per lungo
tempo italiano, poté leggere con più cura e coinvolgimento autori come Boccaccio,
Pascoli, etc., e trasmettere ai suoi allievi l’importanza di praticare entrambi gli universi

!
66
SERRA 2010, p. 10.
67
Cfr. infra, sottopar. 0.3.1 e cap. 2, n. 112.
68
«Fu promosso a pieni voti, e il compito di latino fu mostrato dal professor Mocchino agli altri insegnanti
perché lo ammirassero» (NALDINI 1993, p. 22).
69
!Archivio del Liceo Galvani, b. 53 fasc. 7 MOCCHINO ALBERTO DOC. 1289.!

! 34
letterari: questa stessa idea permea il primo scritto pubblico di Pasolini, dell’aprile
1942, di cui tratterò in dettaglio all’inizio del prossimo capitolo.

0.1.2. Carlo Gallavotti, Virgilio e i lirici greci (I)

Di certo Gallavotti non ha bisogno di presentazioni; do in ogni caso pochi ragguagli


su questa ‘eccentrica’ figura di filologo classico iniziando proprio dalla sua esperienza
al Galvani, perché vi si fa un cenno rapidissimo – e per giunta con due imprecisioni –
nella voce del DBI70. Gallavotti prese servizio nella scuola bolognese come professore
liceale di lettere classiche nello stesso anno in cui vi entrò Pasolini; e vi restò fino al
novembre 1939, lo stesso mese in cui la matricola, appena diciassettenne, cominciò i
corsi di Lettere presso l’Alma Mater. Considerando che altrimenti da Borgatti e
Mocchino Gallavotti frequentò la scuola superiore per pochi anni – prima del Galvani
solo i licei classici di Pinerolo (a. s. 1934-1935) e di Perugia (a. s. 1935-1936); né, dopo
il Galvani, insegnò più latino e greco nei licei –, già si intuisce che Pasolini ebbe una
grande fortuna a incrociare la stella di Gallavotti: stella nascente perché si era laureato
presso l’Università di Bologna nel 1929 con una tesi su Proclo (relatore Augusto
Rostagni) e già nel 1932 aveva ottenuto la libera docenza in Lingua e letteratura greca,
dopo essersi perfezionato a Firenze con Giorgio Pasquali, Medea Norsa e Girolamo
Vitelli e aver collaborato ai Papiri della Società Italiana. Nel momento in cui Pasolini lo
incontrò Gallavotti aveva già insegnato all’università sostituendo a Firenze nell’a. a.
1932-1933 Pasquali stesso e avviato lo studio propedeutico alle edizioni di Teocrito e
dei bucolici greci minori (Theocritus quique feruntur bucolici Graeci, 1946) e dei due
poeti lesbi (Saffo e Alceo, 1947-1948); aveva inoltre pubblicato numerosi saggi sulle
principali riviste di filologia e studi classici italiane scrivendo di estetica antica, Catullo,
Filico di Corcira, Luciano di Samosata, Callimaco, etc.: sia articoli di critica filologica e
letteraria sia lavori di critica dei testi; e anche numerosissime recensioni e diversi
contributi all’Enciclopedia Italiana Treccani. Infine, due libri: la monografia Luciano
nella sua evoluzione artistica e spirituale (1932) e l’edizione scolastica Sansoni
Cornelii Taciti «Dialogus de oratoribus» (1934).
Dalle poche tracce rimaste dell’incontro fra Gallavotti e Pasolini, in parte ricavate da
testimonianze oculari in parte dall’eredità depositatasi nell’opera letteraria del nostro,
!
70
Cfr. NICOLAI 1998, p. 526; le imprecisioni sono lievi, ma vanno comunque segnalate: il mese in cui «fu
comandato all’Officina dei papiri ercolanesi» fu quello di novembre (1939), non dicembre; lo apprendo da una lettera
del provveditore agli studi di Bologna al preside Chiorboli con oggetto l’immediato sollevamento di Gallavotti
dall’incarico di insegnante e il suo trasferimento a Napoli (lettera firmata il 17 novembre, vista dal professore il
giorno seguente); dalla stessa missiva apprendo che l’incarico di direttore dell’Officina decorreva già dal 16 ottobre
1939. La lettera è contenuta nel fascicolo personale di Gallavotti, dal quale ho tratto anche altri dati necessari a
tracciare questo breve profilo: b. 33 fasc. 15 GALLAVOTTI CARLO DOC. 832. L’altra leggerezza di NICOLAI 1998 è di non
aver specificato il nome del liceo classico bolognese: a Pinerolo e Perugia esisteva un unico liceo ginnasio, a Bologna
ne esistevano due: il Galvani e il Minghetti, in forte rivalità come è nella storia di altre città italiane (e.g. Genova,
segnata dall’antagonismo fra il Colombo e il D’Oria; Venezia, dove un tempo rivaleggiarono il Foscarini e il Polo,
oggi il Polo e il Franchetti, etc.). Rimando, in ogni caso, per chi volesse approfondire biografia e bibliografia del
Gallavotti al trentaseiesimo volume della Rivista di cultura classica e medioevale: cioè ad ANONIMO 1994 e ROSSI
1994.

! 35
emerge che furono Virgilio e i lirici greci i due argomenti attraverso i quali l’insegnante
esercitò il più del proprio magistero sull’allievo. Come già sappiamo dall’introduzione,
Pasolini predilesse la poesia antica (lirica, bucolica, epica, tragica o satirica che fosse); e
se Coppola pochissimi anni dopo rappresentò la prima vera porta di accesso ai generi
tragico e satirico, Gallavotti avviò invece verso la poesia lirica e quella bucolica.
Malgrado durante l’ultimo anno di vita il poeta-cineasta abbia amato, recensito e citato
più volte Luciano, fra prosa (Petrolio/Vas e articoli di giornale) e versi (il sonetto
Signor Maestro, abbiamo visto il Diavolo dell’Angelo), e persino, nella recensione
L’amara ironia di Luciano prima che Roma morisse, abbia scopiazzato una nota forse
dello stesso Gallavotti inclusa nel Millennio recensito (I dialoghi di Luciano, 1974)71,
nonostante tutto ciò è inverosimile che il maestro abbia acceso anche la passione per il
retore-filosofo – che pure l’alunno già conosceva dall’antologia di Carlo Brighenti. Si è
appena visto che il Samosatense era un autore molto caro al giovane Gallavotti, però
rappresentava all’epoca una lettura tipicamente ginnasiale: cioè, proprio come avvenne
nel caso di Pasolini, veniva letto in virtù della sua lingua chiara ed elegante per
esercitare gli alunni di quinta alla prosa di Platone, Demostene, Lisia e dei pochi altri
autori canonici del triennio; né i dialoghi né i romanzi né le !"#$%$&%' né gli altri scritti
lucianei erano invece studiati al liceo. A Luciano sono dedicate appena due pagine nella
Storia della letteratura greca di Rostagni, il manuale in uso in I e II C e sul quale il
nostro si preparò per la maturità anticipata72; proprio quest’ultima scelta lo obbligò
verosimilmente a leggere in solitudine quelle righe: buone invero, ma approssimative a
confronto di quanto Gallavotti scrisse sia nella monografia del 1932 sia
nell’introduzione all’edizione Universale Einaudi del 1943; lo studio da privatista
impedì a Pasolini di trovare la profondità di un mediatore come Gallavotti. Perduti i
registri e i temi, assenti gli appunti (banditi dal preside), si può sempre ipotizzare che il
maestro in prima o in seconda liceo abbia verificato gli alunni su una versione lucianea
e da lì si sia lanciato in qualche commento; ma rimane un’ipotesi senza possibile
riscontro. Infine preciso che non c’è traccia di Luciano nemmeno nell’eserciziario
adottato per la I C (il Florilegio greco di Giovanni Decia, nella riedizione di Ugo Enrico
Paoli): sono proposte versioni dei soli canonici Isocrate, Demostene, Platone, etc73.
Altro discorso si potrebbe fare a proposito di Tacito: proprio nel 1938, quando
Gallavotti adottò per la II C l’antologia tacitiana Tre Cesari curata da Concetto
Marchesi 74, aveva da poco dato alle stampe una riedizione del Dialogo degli oratori
!
71
Cfr. infra, par. 6.2.
72
Cfr. ROSTAGNI 1934, pp. 222-224. Ho ricavato la notizia dei manuali di Rostagni (di greco e anche latino) dai
verbali dei collegi docenti del 15 ottobre 1936 e del 5 giugno 1937: nel primo i profili storici di Rostagni furono scelti
a premio sul Manuale della letteratura latina di Girolamo Vitelli e Guido Mazzoni e sulla terza edizione, accresciuta,
del Disegno storico della letteratura greca di Giovanni Setti; e il secondo collegio, riunitosi per l’adozione dei libri
dell’a. s. 1937-1938, riconfermò entrambi i testi del Rostagni. Cfr. Verbali del collegio dei professori e dei consigli di
classe, 1931, 1932, 1933, 1934, 1935, 1936, 1937-1942 – Volume XIII, pp. 199-200, 229.
73
Anche il Florilegio greco fu scelto nell’ottobre 1936 e confermato nel giugno 1937.
74
Cfr. Verbali del collegio dei professori e dei consigli di classe, 1931, 1932, 1933, 1934, 1935, 1936, 1937-1942
– Volume XIII, p. 275: ossia il verbale del collegio docenti del 13 maggio 1938, che all’ordine del giorno aveva
l’adozione dei libri di testo per l’a. s. 1938-1939.

! 36
Sansoni del 1934, arricchito di traduzione; quindi è assai probabile che Pasolini sia stato
ragguagliato bene su quell’autore del canone scolastico latino, eppure non mi risulta che
abbia mai nutrito una passione per gli storici antichi, né latini né greci: perché per
quanto la storiografia antica – altrimenti dal più di quella odierna – rientri a pieno titolo
nell’ambito della letteratura, da Erodoto in poi il mestiere dello storico e il lavoro del
poeta prendono strade diverse. In un saggio pubblicato nel dicembre 1942 su Il Setaccio
(Ragionamento sul dolore civile) è sì citato Erodoto, però per il mero tramite di un
saggio di filosofia di Rodolfo Mondolfo utilizzato anche nel laboratorio del Romanzo
del Mare (L’infinito nel pensiero dei Greci)75; sulla questione tornerò nel prossimo
capitolo, ora è sufficiente anticipare che alla luce della passione geografica attestata dal
Coleo di Samo il giovane Pasolini può anche aver nutrito interesse per il più geografico
(e “romanzesco”) fra gli storici greci del canone scolastico, ma deve averlo letto solo a
spizzichi e bocconi – ammesso che l’abbia letto. Coleo di Samo sembra avere modelli
più poetici che di prosa (Omero, Esiodo) e, se non è impossibile richiamare anche la
scienza storica, non si può tuttavia non pensare alla storiografia arcaica, Ecateo di
Mileto in primis, cioè a quella produzione in cui filosofia, storia, geografia, letteratura,
etnografia erano intrecciate e ancora oggi difficilmente districabili: un nodo gordiano
che senza dubbio per breve tempo deve aver entusiasmato un Pasolini già poliedrico e
sperimentatore; amante dell’ibrido come Luciano e come, mutatis mutandis, proprio gli
storici greci pre-erodotei. In breve, Pasolini apprezzò solo quegli autori che già in epoca
antica più si sottraevano alla codificazione di ‘storici’: liquidati in poche righe dal
Rostagni76, e con tutta probabilità taciuti a lezione da Gallavotti, Pasolini li scoprì da
solo, in piccola parte e non per conoscenza diretta, cioè non attraverso l’edizione di
Felix Jacoby. Anticipo infine che fu verosimilmente un compagno di scuola e università
a suggerirgli la lettura del libro di Mondolfo dal quale avrebbe poi allargato l’orizzonte
di letture fino a giungere alla composizione del Coleo di Samo: Francesco Leonetti,
iscrittosi a Filosofia – nella stessa università in cui Mondolfo fino ad alcuni anni prima
aveva insegnato.
Hanno avuto una parte cospicua nella ricostruzione dell’eredità di Gallavotti due
memorie senza le quali l’archivio del liceo avrebbe potuto dir poco. La prima, e la più
estesa, viene dagli stessi protagonisti di cui mi sto occupando, intervistati da Biagi il 29
maggio 1971 per il già noto programma; quel documento audiovisivo è una fonte
preziosa per ricostruire l’esperienza di Pasolini al Galvani, ma nell’ora di messa in onda
l’attualità ha portato il giornalista a focalizzarsi sul più celebre degli allievi e a dare alle
rimembranze meno spazio che in altre puntate: in particolare fu trascurato il professor
!
75
«Ci siamo messi in un nuovo moto – nuovo per noi, come fu nuovo per i morti, e come sarà nuovo per i
nascituri – e in questo ci sentiamo più liberi e trepidi a ritentare la vita. Un moto d’amore (che a noi sembra nuovo,
anzi è nuovo, perché se così non fosse un passo dell’esistenza umana sarebbe inattuato), simile a quello che spinse la
misurata anima greca a mari ignoti, al pédion [sic] plethos ápeiron che estinse Bruno nel rogo o Battisti sul patibolo»
(PASOLINI 1999b, p. 22). Cfr. HDT. 1. 204: !" µ#$ %& '()* +,'-(.$ /0* 1234,,.* /25/.* /0* 62,'7.* 8239:µ-$.* ;
62582,:* <'-(=9>, /" %# '()* ?@ /9 82A B3>:$ <$2/-33:$/2 '9%7:$ C8%-89/2> '301:* D'9>(:$ C* D':E>$; MONDOLFO
1934, p. 11; e infra, par. 1.5.
76
Cfr. ROSTAGNI 1934, pp. 91-92.

! 37
Gallavotti, interpellato da Biagi solo su due temi (com’era ciascuno dei presenti a quei
dì, e le differenze fra i ragazzi del Galvani e i suoi alunni romani), eppur capace in
meno di tre minuti di lasciare il segno con una bella e sintetica spiegazione del valore
degli studi classici, aggiunta in coda alla risposta al secondo quesito. Alla fine
rivolgendosi ‘spontaneamente’ a Pasolini, il maestro solleva il problema dell’atto
metafrastico, la fatica e la sfida del tradurre l’antico: ossia non tanto la difficoltà di
interscambiare due sistemi linguistici diversi, quanto la resa dell’intera cultura racchiusa
nel testo greco o latino: la traduzione dei «valori» dell’autore x, y o z (e della sua
società). Per Gallavotti, in sostanza, la traduzione dalle lingue classiche è «intelligenza
di valori diversi dalla nostra società»; è anche intelligenza di «forme» differenti, e
indicando e apostrofando il talentuoso allievo sembra alludere più al suo «gusto» di
rendere in bell’italiano il bel latino o il bel greco: però gli studi classici (traduzioni
comprese) sono anzitutto conoscenza storico-antropologica, implicano la continua
misura con l’altro da noi. Si tenga bene a mente questo aspetto perché tra poco ne darò
qualche esempio concreto; per il momento ritengo opportune altre valutazioni
sull’intervista. Qualche istante prima Gallavotti aveva risposto al primo quesito di Biagi
dicendo che di Pasolini ricordava la «vivacità delle traduzioni»: se incrociamo
l’affermazione con il già citato successo nella prova di maturità, al quale può essere
aggiunto un episodio analogo riferito da Siciliano77, appare confermato che già in tenera
età il nostro era capace di fare una vera opera di traduzione; anche in assenza della
prova oculare è possibile interpretare i «temi» di Pasolini dal latino e dal greco già come
versioni ‘d’autore’, non versioni in traduttese, né sciapide traduzioni di servizio:
insomma, prodromi di quanto avrebbe cominciato a fare con Saffo soltanto qualche
anno più tardi. Senza dubbio i Tommasi resteranno tuttora insoddisfatti; non però anche
le storiche e gli storici più severi, che legittimamente potevano nutrire il sospetto della
distorsione agiografica leggendo i due biografi ma ora, di fronte alla testimonianza di
una figura terza, non possono non dissolverlo. C’è tuttavia un ulteriore (e ultimo)
margine di approfondimento. Uscito di scena Gallavotti, Biagi domanda a Pasolini se
era molto bravo a scuola, questi risponde abbastanza laconico e subito riprende il filo
del discorso di Gallavotti ricordando che gli piaceva tradurre più dal latino che dal
greco e che amava particolarmente la traduzione improvvisata, a voce, non tanto quella
scritta. In questa dichiarazione si trova conferma di un aspetto cruciale delle sue
traduzioni classiche, ancora passato del tutto inosservato alla pur amplissima letteratura
critica: lo si vedrà nel quarto capitolo, dedicato al Pasolini traduttore-auctor; per il
momento basta osservare qual è l’esempio fatto dall’ex alunno:

«Ma quello che amavo soprattutto era il latino più che il greco, visto che il professor
Gallavotti ha parlato di questo. E mi piaceva più che tradurre per scritto mi piaceva più

!
77
«Accadde che una versione in latino di Pier Paolo – liceo Galvani di Bologna – fosse stata portata in giro nelle
classi per una squisitezza sintattica, un’attrazione modale, risolta con tale particolarità da venir stimata esemplare»
(SICILIANO 2015, p. 56).

! 38
tradurre oralmente: leggevamo le Egloghe in classe a voce alta in latino e traducevamo
improvvisando, mi piaceva molto questo»78.

Il Pasolini sedicenne amava dunque tradurre ab imo corde: lasciando informe la sua
opera, puro suono; desiderava parole in libertà, aeree – non futuriste, beninteso –, ossia
più semplicemente traduzioni non costrette dentro a neri, «sgomenti» quaderni79. Nel
giovanissimo lettore di Virgilio convivono la vivacità dell’autore e l’irrequietezza dello
scolaro: non del tutto a suo agio a sedere a lungo, penna alla mano, dentro le mura di
una scuola-caserma. C’è evidentemente anche la seduzione della musica virgiliana, la
bellezza dell’aula che all’improvviso risuona del latino letto ad alta voce dagli allievi,
ma sembra già prefigurarsi la vulcanica, «disperata vitalità» dello scrittore, quella che a
partire dagli anni ’60 tenderà sempre più verso l’appunto, verso la forma-progetto,
avantestuale; e nemmeno è secondario ricordare che molte delle sue traduzioni classiche
sono rimaste non finite o non ultimate: i frammenti friulani da Saffo, Eneide e Antigone.
Soprattutto la versione dell’Eneide è segnata da una lexis che, quantunque poetica, si
contamina profondamente con la prassi oratoria, con una dizione ‘scolastica’ anziché
teatrale tout court: è proprio nell’abbozzo virgiliano che pare essersi depositata la
‘voce’ del Pasolini interrogato da Gallavotti e di quello che, a sua volta insegnante di
lettere, tradusse il poeta latino per i suoi scolari, prima in Friuli e infine a Ciampino.
Beninteso, che il nostro ricordi la lettura delle Bucoliche non squaderna universi
incogniti perché da secoli Virgilio rappresentava l’Auctoritas per eccellenza
dell’istruzione classica; però bisogna inoltre precisare che Gallavotti era particolarmente
portato per il commento del Teocrito latino avendo in quegli stessi anni in cantiere
l’edizione dei bucolici greci commissionatagli da Pasquali: per questo motivo credo che
Pasolini sia stato segnato dalle sue lezioni in materia, e che la predilezione per il
Virgilio bucolico e georgico discenda da Gallavotti, non dal solo Pascoli80. Nonostante
la centralità del poeta latino, ancora non ne sono state indagate le reminiscenze nel vasto
e variegato corpus pasoliniano; solo cinque critici ne hanno indicato l’importanza, ma
senza la minima discussione approfondita81. L’unico caso studiato è il più ovvio, cioè la
traduzione dei primi trecentoquattro versi del poema epico: un lavoro su commissione,
!
78
Trascrivo di seguito anche il resto dell’intervista che ho appena commentato: «[E. B.] Ma lei di loro perché
come li ricorda uno per uno così? [C. G.] [...] [Ricordo] poi la vivacità di Pasolini, le vivacità delle traduzioni di
Pasolini dal greco... con grande impegno. [...] [Quella classe] sentiva di più il desiderio di leggere, di imparare,
soprattutto di leggere, di capire, di capire i testi, almeno questo era – credo – il mio unico mestiere... che sapevo fare
in quella classe: quello di impegnarvi sulla responsabilità di una... di uno studio che era intelligenza di valori diversi
dalla nostra civiltà e, soprattutto – lo dico a Pasolini –, l’intelligenza di ‘forme’ diverse, forme diverse di espressione,
il gusto di tradurre da una lingua che ha un peso... un peso lessicale diverso, una sintassi diversa, e riuscire a rendere
motivi e valori di quel testo trasferiti in un linguaggio che è, ha un altro significato, un’altra impostazione, io credo
che questo sia una delle opere dell’intelligenza, una maniera di impegnare l’intelligenza a una precisione, a una
logica, a una chiarezza mentale. [E. B.] Pasolini, lei a scuola era molto bravo? [P. P. P.] Mah, molto no. Ero un po’
discontinuo cioè, sì, ero sull’otto, insomma; però avevo delle discontinuità: per esempio in greco delle volte prendevo
otto delle volte prendevo un misero sei, ecco. Ma quello che amavo soprattutto era il latino [...]».
79
Cfr. supra, par. 0.0.
80
Cfr. infra, sottopar. 0.3.1.
81
Cfr. MARTELLINI 1983, p. 27, CERAMI 1996, p. 649, Walter Siti in PASOLINI 2003b, p. 1899, TUCCINI 2003, p.
55 e FAVINI 2005, pp. 531-533, 540.

! 39
non ricercato di persona come invece, sul piano storico-biografico, le lezioni sulle
Georgiche nella campagna di Versuta82 e, su quello letterario, le citazioni o parodie nei
versi in proprio (per esempio nelle due poesie del 1962 Monologo sul sole e E sulla
luna. Poesia pornografica). Restando ancora un momento al Virgilio del Galvani devo
precisare che i verbali non hanno dato numerose notizie al riguardo: lo Scriptorum
Romanorum supplementum, ossia l’altra antologia di Marchesi utilizzata da Pasolini, era
stato appositamente adottato per estendere le letture latine anche fra gli autori non
canonici83, e infatti non contiene alcun verso virgiliano; dai documenti d’archivio non è
dunque possibile ricavare attraverso quali edizioni Pasolini al ‘liceo’ lesse le Bucoliche,
le Georgiche e l’Eneide, posso soltanto evidenziare che la storia letteraria di Rostagni
conteneva un buon profilo di Virgilio, sicuramente sgradito al Funaioli ma
‘appassionato’ e facilmente comprensibile per una generazione che stava sperimentando
atrocità civili e belliche: quel dolore dai quali nemmeno i pastori virgiliani sono del
tutto al riparo84.
L’altra memoria che ha reso possibile il presente paragrafo l’ha rilasciata Luciano
Serra: Gallavotti «entusiasmò gli allievi coi lirici greci»85. Anche in questo caso i
verbali non illuminano sul tema, ma non possiamo trascurare il profilo letterario di
Rostagni – che, lo ricordo, fu maestro di Gallavotti e rimase sempre in contatto con lui,
accogliendo i suoi numerosi saggi nella Rivista di filologia e di istruzione classica. La
storia letteraria greca, così come quella latina, non era improntata alla più ferrea norma
filologica, era anzi animata da una sincera empatheia con gli autori: tale aspetto
incontrava di certo la natura dello stesso Gallavotti, che editò diversi testi antichi
compresi i frammenti di Saffo e Alceo e aveva tantissime competenze storico-
filologiche (papirologiche, epigrafiche, linguistiche, metriche, etc.) eppure non era ben
considerato per il suo interventismo ecdotico, tant’è che la sua edizione dei poeti eolici
non diventò mai di riferimento (una sorte un poco diversa ebbe quella dei bucolici); in
sostanza, nonostante gli anni fiorentini, in lui rimase sempre l’impronta crociana di
Rostagni, che lo rese eccentrico rispetto ai filologi duri e puri, di scuola tedesca.
Leggere assieme la storia letteraria Mondadori e le due monografie che Gallavotti
ricavò da un corso universitario su Saffo e Alceo tenuto un decennio dopo le lezioni
galvaniane (Storia e poesia di Lesbo nel VII-VI sec. a.C. e La lingua dei poeti eolici)
consente di cogliere delle convergenze fra il maestro Rostagni e l’allievo Gallavotti; e,
causa la totale assenza di registri al Galvani, leggere quanto Gallavotti ha scritto sulla
lirica lesbia pochi anni dopo l’insegnamento nel liceo bolognese rimane l’unico modo
per ricostruire qualche tassello delle lezioni che entusiasmarono Pasolini e i compagni.
Tuttavia, diversamente dal caso di Virgilio, Gallavotti non fu il solo mediatore della
lirica greca: all’inizio del 1940 uscirono le famose traduzioni di Quasimodo, che il
!
82
Cfr. infra, par. 0.4.
83
Ricavo l’informazione dal verbale del collegio docenti del 15 ottobre 1936: cfr. Verbali del collegio dei
professori e dei consigli di classe, 1931, 1932, 1933, 1934, 1935, 1936, 1937-1942 – Volume XIII, p. 200.
84
Cfr. ROSTAGNI 1936, pp. 183-184.
85
SERRA 2010, p. 10. Cfr. anche SERRA 2005, p. 36.

! 40
nostro lesse con passione già nell’estate di quell’anno; e nel secondo anno di università
(a. a. 1940-41) seguì il corso di Goffredo Coppola su Alceo, Saffo, Anacreonte ed
Erinna, del quale dirò in dettaglio nel prossimo sottoparagrafo limitandomi a
preannunciare che era frequentato anche da studenti che non seguivano il curricolo di
lettere classiche, oltre che per le non comuni doti del professore, perché erano letti in
aula gli stessi testi di Quasimodo86. Intendo dire che la passione lirico-greca di Pasolini
si inserisce in un quadro ben più ampio del Galvani: un quadro di generale riscoperta (e
approfondimento), favorita anzitutto dai nuovi ritrovamenti e dalle nuove edizioni
papiracee. Naturalmente è possibile isolare un contributo specifico di Gallavotti, ma
occorre tenere presente che Coppola poté approfondire la lettura, la traduzione e il
commento dei lirici lesbi molto più di quanto era in grado il collega, benché
indubbiamente più ferrato sul tema: il corso monografico universitario prevedeva più di
cinquanta lezioni, i programmi scolastici ministeriali davano spazio solo a una piccola
scelta di frammenti. Oltre agli altri due mediatori bisogna ricordare infine i compagni di
lettura: non mi riferisco agli ovvi commilitoni del Galvani, bensì agli amici Serra,
Roversi e specialmente a Giovanna Bemporad, che negli anni dell’università tradussero
e/o citarono Saffo esattamente come lo fece Pasolini tanto nei versi quanto nelle prose
giovanili. Saffo era l’autrice più apprezzata da tutti e quattro, però nell’opera di Pasolini
è rimasto il segno anche di qualche altro lirico greco: Alceo, Ibico, Pindaro.
È giunto il tempo di individuare la cifra più specificamente gallavottiana della Saffo
di Pasolini; e di ricordare l’affermazione fatta negli studi Rai a proposito del classico
come ‘altro’ storico-antropologico. Un aspetto cruciale ereditato dall’allievo è proprio il
tema del sacro, della ritualità greco-arcaica: cioè, stando ai saggi pubblicati negli anni
’30 e ’40, è verosimile che il professore sia riuscito non solo a trasmettere il valore
poetico dei lirici ma anche a sensibilizzare gli alunni al quadro socio-culturale entro cui
la lirica antica si colloca; ovviamente con ciò non intendo dire che fosse giunto a un
superamento della teoria evoluzionistica della lirica culminata nel famoso libro di Bruno
Snell (La cultura greca e le origini del pensiero europeo), eppure, come rivela lo stesso
titolo Storia e poesia di Lesbo, con ogni probabilità Gallavotti deve aver dato conto di
realtà storico-culturali quali gli agoni panellenici e locali, come le ricorrenze religiose e
commemorative, come il simposio, il tiaso, le cerimonie funebri e le altre occasioni
specifiche entro cui la lirica antica nasceva; anche se non arriva al livello di
elaborazione concettuale di Bruno Gentili, il Gallavotti che scrive di Saffo e Alceo
oltrepassa il mero dato letterario. E come gli stessi frammenti saffico-friulani
testimoniano – databili alla metà degli anni ’40 – Pasolini è già interessato a questa
prospettiva ‘quasi antropologica’: è vero che aspetti centrali di quelle quattro poesie
sono il tema erotico e quello della solitudine87, entrambi ricorrenti nelle prose e poesie
coeve che alludono a Saffo; e sono due temi legati all’interpretazione sia di tanta poesia
decadente sia della cultura accademica del tempo (una cultura che come prova la stessa
!
86
Cfr. SERRA 2005, p. 37.
87
Cfr. FUSILLO 1996, pp. 244-245; CONDELLO 2007, pp. 28, 38; LAGO 2018, p. 20.

! 41
storia letteraria di Rostagni enfatizzava la funzione emotiva del codice poetico di
Saffo88): però l’argomento principe è quello della morte, colta anche nel suo aspetto
rituale non solo di fantasma della psiche. Pasolini include nella sua piccola selezione
pure un testo trenodico-corale quale il fr. 140 V., che di certo non era fra i più gettonati
– diversamente dai frr. 31 e 168B V., sui quali si erano già cimentati tanti poeti più e
meno moderni –; ma il lutto funebre pare travalicare il frammento su Adone e
proiettarsi sul celebre fr. 31 V., perché il titolo pasoliniano Lament è ambiguo, sembra
legarsi ai frr. 140 e 95 V., entrambi segnati da un’invocazione alla divinità, da un
«sentimento religioso» che può essere messo in relazione con le pagine di Gallavotti su
Saffo e Alceo: ne trascrivo solo un brano, specificando che ho voluto citare dal testo più
‘didattico’ fra i molti che Gallavotti dedicò alla lirica lesbia (cioè il primo fascicolo,
alcaico, di Storia e poesia di Lesbo – il secondo, dedicato a Saffo, fu annunciato ma alla
fine non uscì):

È il vigoroso carme ! 1 [scil. ALC. fr. 129 V.], nel quale si parla ugualmente dell’ignobile
Pittaco e della città divorata e delle leggi calpestate, ma qui c’è un cuore straziato che si
abbandona, poiché il poeta, cacciato in esiglio, è separato dal corpo vivo della sua città, e
sempre ha davanti agli occhi i compagni morti per il tradimento di Pittaco, e le parole del
loro giuramento, e la maestà degli dèi patrii offesa. È una vera e propria !"#, una
maledizione, che Alceo lancia contro Pittaco; ma la stessa santità della religione gli pone
in bocca le parole violente, e l’animo gli si accende in questo sacro entusiasmo, con cui
rievoca insistemente l’antica fondazione del sacro temenos sul monte Pileo, dove sono
innalzati gli altari di Zeus, di Hera, di Dioniso, nel santuario fondato ab antico perché
fosse un centro di vita religiosa comune a tutta la stirpe dei Lesbi e quindi il simbolo
della esistenza e della continuità della stirpe: «... (dove) i Lesbi questo grande temenos
comune costruirono, ed altari innalzarono dei Beati immortali; ed Antiéo denominarono
Zeus, ed Eolia te, la gloriosa dea, d’ogni cosa genitrice, e questo terzo nominarono
Chemelio, il feroce Dioniso». Alceo dunque è per ora rifugiato in questo Heraion del
monte Pileo, e nell’animo percosso dal dolore ne sente il fascino sovrumano. A questi dèi,
che presiedettero al rito solenne dell’eteria, rivolge la sua ardente preghiera89.

Elemento invece comune anche all’interpretazione di Coppola è l’attenzione per la


violenza del sentimento che anima Alceo (così come Saffo): «cuore straziato», «sempre
ha davanti agli occhi», «rievoca insistemente», «animo percosso dal dolore», «ardente
preghiera». Entrambi i maestri di Pasolini devono aver sottolineato l’emotività dei due
poeti lesbi, la loro animosità impetuosa, alle volte contraddittoria; non si era ancora
giunti al livello di Vincenzo Di Benedetto, che applicò le teorie psicanalitiche alla
critica di Saffo, però lentamente si andava già verso quella direzione e di certo Pasolini
!
88
Vd. ROSTAGNI 1934, pp. 76-77: «Molti dei carmi di Saffo erano rivolti ad esprimere il fervore dei sentimenti
ch’essa provava per queste sue giovinette; il dolore del momento del distacco, quando andavano a nozze; la gelosia di
fronte all’uomo cui erano destinate (così, per esempio, nell’ode famosissima fra tutte, !"#$%&"# µ'( )*$'+ !!"#
!"#$%$& !µµ"#’ !#$%, tradotta con liberi adattamenti da Catullo)».
89
GALLAVOTTI 1948c, pp. 56-57 (corsivi miei); chi giudicasse l’esempio non abbastanza pertinente veda pure
GALLAVOTTI 1948c, pp. 8-12, 36, 65.

! 42
ne fu influenzato, perché insisté sulla morte tanto come dato culturale quanto come
ossessione psichica, connessa al panico della solitudine. C’è un passo della tesi di laurea
su Pascoli in cui è espresso un concetto che si ritrova, anche se posto e detto in altri
termini, in entrambi i filologi (oltre che nella letteratura di Rostagni): ossia che la lirica
di Saffo è poesia sincera, diretta, ‘fotografica’:

Questo fantastico oggettivarsi dei romantici è un aggrapparsi a un pretesto qualsiasi onde


trasporre, e quindi purificare, l’interesse del tutto egoistico e interiore dei loro pensieri
umani. È un tentativo per evitare il puro sfogo. Un placare l’impeto della voce, della
disperazione, mentre invece inventando una figura o un paese, la parola vi si placa,
diviene essa stessa oggetto... Però questo è un esprimersi marginale, precario, un eludere
se stessi, che disdegnavano i grandi classici: Kai [sic] egò mona kateudo90.

A Pasolini Saffo sembra parlare senza schermi, in prima persona: dichiarare in prima
persona il proprio trauma; al contrario di quanto farebbe Pascoli, nascosto dietro a una
poesia pavida e troppo erudita. Analogamente, in due articoli di giornale pubblicati tra il
1937 e il 1942, Coppola definì la lirica di Saffo «candida per natural colore e non
luccicante per lisciature e belletto dell’arte», contraddistinta da «parole e sentimenti
fragranti di vita»: una lirica in cui addirittura «la parola è un essere vivente»91, così
come i fiori del fr. 2 V. «sono per davvero nell’ode, poiché il paesaggio è vivamente e
semplicemente descritto come soltanto Saffo sa dipingere»92. Dunque, anche da parte di
Coppola vi è discredito per l’arte mediata: beninteso, dai suoi scritti sui lirici emerge la
comprensione della realtà storica in cui la poesia lesbia si inserisce, ma meno di quanto
intuì Gallavotti; di Saffo e Alceo il professore campano coglie e apprezza la ‘cordialità’,
l’immediatezza, la lexis non soltanto fotografica o realistica, bensì addirittura ‘reale’,
concreta. Se si aggiungono due righe di Gallavotti dalla stessa monografia da cui ho
citato in precedenza: «La concezione dell’arte per l’arte [...] è ancora assai lontana dalla
mentalità di questi greci dell’età arcaica»93; «Gioie e dolori, vorremmo intitolare il
volume di Alceo»94, credo si capisca bene come pure il maestro del Galvani abbia
contribuito all’idea che Pasolini si era fatto della lirica lesbia. Nel suo caso, però, è
doverosa una precisazione: a differenza di Coppola Gallavotti riconosceva come
«poesia» sono quei frammenti in cui i due poeti riuscivano a sublimare i moti più
violenti della loro psiche. Inoltre l’allievo di Rostagni era riuscito a introdurre Pasolini
anche a una lettura diversa: a quella sensibilità storico-antropologica, insoddisfatta del
mero dato letterario, che avrebbe portato molti frutti negli anni della maturità ma che
aveva già seminato nella produzione giovanile, di poco successiva alla frequenza del
Liceo Galvani; avanzo questa idea perché non sono stato l’unico a notare che il

!
90
PASOLINI 1993, p. 37.
91
COPPOLA 2006, p. 105.
92
!COPPOLA 2006, p. 88.
93
GALLAVOTTI 1948c, p. 32.
94
GALLAVOTTI 1948c, p. 47.

! 43
giovanissimo Pasolini, pur non avendo ancora letto De Martino, Frazer, Eliade e Di
Nola, ebbe un interesse per l’antico che travalicava il piano letterario tradizionale – lo si
vedrà nel dettaglio al sottopar. 0.3.1 e nel prossimo capitolo.

0.2. Università di Bologna, 1939-1945

Quando Pasolini si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Alma Mater, da


diversi anni lo studio di filologia classica era incarnato da due maestri affermati e
stimati: Goffredo Coppola e Gino Funaioli, entrambi allievi del principe della filologia
classica (italiana), entrambi perfezionatisi in Germania (il primo a Kiel, il secondo tra
Monaco e Bonn), ma consci dei limiti e degli eccessi del metodo appreso in gioventù;
entrambi, infine, cultori di Carducci e polemici verso l’insegnamento neoidealistico
crociano, che al contrario aveva messo radici in tutti e due i classicisti che avevano
insegnato letteratura a Pasolini nei due a. s. 1937-1938 e 1938-1939, oltre che nelle due
storie letterarie di Rostagni 95 . Insomma, nonostante il loro spessore e la loro
lungimiranza, Coppola e Funaioli rappresentarono un cambiamento in negativo; in
negativo, beninteso, agli occhi di uno studente che detestava soverchi approfondimenti
di ordine filologico-testuale tanto nell’ambito greco-latino quanto in quello italiano96; e
comunque negativo solo in parte – lo vedremo a breve. Nel paragrafo precedente ho
cercato di spiegare come Mocchino e ancor più Gallavotti non fossero degli sprovveduti
in materia – anche perché come Coppola e Funaioli frequentarono la scuola di Vitelli –,
ma per quanto il Liceo Galvani fosse un’istituzione seria e severa non poteva garantire
lo stesso livello di analisi dei testi che l’università consentiva di raggiungere: c’era
soprattutto il tempo per tracciare il profilo storico-letterario complessivo, specie in
un’epoca in cui desanctisianamente si dava molta importanza alla narrazione globale e
ci si limitava alla lettura e al commento di pochi autori canonici, lasciando le letture
supplementari allo studio domestico degli allievi e delle allieve (era il caso
dell’antologia scolastica di Marchesi adottata in I C); era la stessa struttura che
contribuiva a un approccio più stimolante per un giovane come Pasolini, non solo il
piglio eccentrico di entrambi i maestri del Galvani.

!
95
Su Coppola vd. infra, sottopar. 0.2.1; su Funaioli cfr. invece PARATORE 1969, pp. 2495-2509 e GIANOTTI 2016,
pp. 177-188, mentre sull’antichistica a Bologna durante il ventennio fascista cfr. DEGANI 1989, pp. 20-31, FERRATINI
1992, pp. 18-51 e CANFORA 2005, pp. xi-xii.
96
Il più noto accesso di repulsione è contenuto in una lettera a Franco Farolfi dell’inverno 1941: «Sono, ora,
preso nel vortice di una nuova occupazione, l’esercitazione d’italiano: le Rime del Tasso dopo S. Anna: la
bibliografia è immensa, sono ormai in totale quattro ore di lavoro in biblioteca, solo per annotare e guardare che libri
vi siano intorno a questo argomento. È questo il classico lavoro universitario, fatto per puro senso di retorica e di
erudizione, da cui aborro e che stroncherò, con atto di coraggio, sul viso stesso al prof. Calcaterra, quando
pronuncerò la mia relazione. Cosa può importare a me, che idolatro Cézanne, che sento forte Ungaretti, che coltivo
Freud, di quelle migliaia di versi ingialliti ed afoni di un Tasso minore?» (PASOLINI 1986, p. 28); molto bello invece
lo scritto che spiega l’importanza del magistero longhiano (Che cosa è un maestro? [1971]): vd. PASOLINI 1999a, pp.
2593-2594.

! 44
Il nostro, per la verità, non fu l’unico a rimanere insoddisfatto della filologia da «culi
di pietra»97: il suo vitalismo vulcanico, che già dai primi anni di università alimentava le
partite di calcio, le recite teatrali, la scrittura di versi e articoli, le opere di pittura e
disegno, accelerò l’odio verso la pedanteria accademica facendolo prima optare per il
curricolo moderno e poi per l’insegnamento del Maestro; ma è quello che mutatis
mutandis accadde anche a un altro giovane molto vivace e inquieto come Alberto
Graziani, che dopo aver abbandonato la Facoltà di Medicina, abbandonò il progetto di
tesi supervisionato da Coppola e seguì le orme di Longhi98. Pasolini si fermò molto
prima di lui: si limitò a seguire le lezioni di latino e greco e a sostenere l’esame di
Lingua e letteratura latina (obbligatorio); e non si legò mai a Coppola, né mai lo ricordò
negli anni seguenti. Già sappiamo che fece il suo nome soltanto l’amico e sodale
Luciano Serra: e sarà indicazione da tenere in gran conto perché, come dimostra il
sottoparagrafo successivo, fu paradossalmente proprio Coppola a tenere vivo il fuoco
acceso da Gallavotti; non lo provano esclusivamente le mie indagini all’ASUB, ma in
primis una missiva dello stesso Pasolini e parte del suo corpus letterario. Quanto poi al
silenzio tombale dell’allievo, a ben vedere non è difficile da spiegare: esso si inserisce
nel generale imbarazzo che ammutì chi aveva incrociato la stella cadente di Coppola.
Prima però di tracciare la storia del loro incontro, è bene dare qualche riferimento
evenemenziale. Nell’a. a. 1939-1940 la matricola seguì l’ultimo corso bolognese di
Gino Funaioli prima del trasferimento nell’ateneo capitolino: aveva per tema le origini
della letteratura latina e la storiografia liviana; e non deve aver entusiasmato Pasolini se
ancora negli anni ’60 lo ricorda come esempio di retorica scolastica da aggiornare
radicalmente99 – più del contenuto deve averlo contrariato l’intera figura di Funaioli,
improntata alla vecchia scuola carducciana e perciò oggettivamente anacronistica. Gli
subentrò proprio Coppola – di tutt’altro stile!100 –, che dall’a. a. 1940-1941 ottenne la
cattedra di latino mantenendo anche l’insegnamento di greco su incarico (disciplina che
aveva insegnato come ordinario fin dal 1932). Pasolini seguì ben tre suoi corsi
accademici: quelli di Lingua e letteratura greca dell’a. a. 1939-1940, sul teatro tragico
(esemplificato sulla lettura dell’Ippolito di Euripide), e dell’a. a. 1940-1941, sui quattro
lirici già ricordati; e l’insegnamento di Lingua e letteratura latina dell’a. a. 1940-1941,
sulla satira di Lucilio. All’ASUB non è stato possibile consultare tutti e quattro i registri
delle lezioni perché quelli del primo anno universitario di Pasolini risultano perduti101.
Aggiungo che la matricola seguì anche il corso di Storia greca tenuto da Arturo Solari:
dall’Annuario dell’università apprendiamo che furono discussi ben tre argomenti e

!
97
Bella definizione di Siti in PASOLINI 2003b, p. 1899.
98
Cfr. CANFORA 2005, pp. 179-184, 205-213.
99
Cfr. infra, par. 0.4.
100
Cfr. CANFORA 2005, p. 196: «Ottimi allievi, quali Schiassi e Graziani, si sono legati a lui: è l’effetto del suo
insegnamento seminariale, non disgiunto – nota più di una volta Graziani nelle sue lettere – da un modo di fare da
‘coetaneo’ coi suoi allievi».
101
Ho ricavato i temi dei corsi dell’a. a. 1939-1940 dall’introduzione di Bazzocchi e Raimondi alla tesi di laurea
su Pascoli: PASOLINI 1993, p. ix; informazioni che i due hanno tratto dall’Annuario dell’università bolognese (1939-
1940, p. 178), non dal materiale documentale dell’ASUB.

! 45
svolte in aggiunta esercitazioni di epigrafia romana; mentre però il secondo e il terzo
tema sono esplicitati bene nell’Annuario (alcuni momenti della guerra del Peloponneso,
soprattutto la spedizione ateniese in Sicilia; e le conquiste di Alessandro Magno), al
contrario il primo argomento annotato, ossia «la seconda guerra per l’indipendenza
greca»102, lascia adito a qualche dubbio interpretativo e in assenza del relativo registro
credo che non sia possibile stabilire con precisione se Solari alludesse alla fine della
seconda guerra persiana, con la rivincita delle poleis ioniche dopo la famosa disfatta del
494-493 a.C., oppure alla politica antipersiana della lega delio-attica; di certo si può dire
soltanto che Solari trattò due temi di storia greca classica e uno di storia ellenistica (o,
meglio, tardo-classica). Infine: il nostro seguì pure l’insegnamento di Storia romana (a.
a. 1940-1941), durante il quale Solari discusse gli anni 14-69 d.C., dal principato di
Tiberio all’ascesa al potere di Vespasiano – oggetto del secondo volume, allora in corso
di stampa, de L’impero romano –; e a complemento del corso monografico furono
svolte ben ventuno esercitazioni di epigrafia (sul totale di sessanta lezioni)103. Dal
registro apprendiamo che oltre alle dispense sul tema del corso il testo d’esame era il
primo volume della monografia di Solari, Unità e universalità di Augusto (1940)104; e
che nella lezione del 15 marzo 1941 si parlò anche di un’opera letteraria che negli anni
della maturità Pasolini avrebbe letto nella versione, adattata per le scene teatrali, di
Ettore Paratore: l’Apokolokyntosis di Seneca105. Addentrarmi oltre non mi pare giusto
perché la figura davvero umbratile di Solari non deve avere lasciato il segno: se
nell’esame di Coppola Pasolini conquistò uno dei pochi 30/30 della sua carriera
universitaria e, come vedremo, alluse con entusiasmo allo studio di latino che lo
precedette, invece in storia antica prese 27/30, una votazione di poco inferiore alla
media (personale) del 27,9; un risultato che appare ancora più eloquente se confrontato
con gli ottimi voti che da sempre aveva raggiunto in storia (antica e moderna): 9/10
nell’esame di licenza ginnasiale e nelle pagelle di prima e seconda liceo106; 30/30 in
Storia moderna107.

0.2.1. Il superuomo Coppola, fra lirici greci (II) e Lucilio

L’epiteto con cui ho voluto designare Coppola è preso dallo scritto in memoria di
Longhi già ricordato in nota: come dissi, non è mia intenzione equiparare le due figure,
però Coppola non è nemmeno inquadrabile nella categoria dei «modesti travet»108 entro
!
102
Annuario della Regia Università di Bologna, a. a. 1939-1940, p. 180 = <http://amshistorica.unibo.it/195>
(07.06.2018).
103
Cfr. Registro delle lezioni di Storia romana con esercitazioni di epigrafia romana dettate dal Prof. Arturo
Solari nell’anno scolastico 1940-1941 (ASUB, Registri delle lezioni, Busta 59/a 60). Come il registro del corso sul
teatro tragico anche quello dell’insegnamento di Storia greca dell’a. a. 1939-1940 risulta perduto.
104
Ibid., p. 2.
105
Ibid., p. 14.
106
Cfr. ANONIMO 2006-2007, pp. 48-49.
107
Cfr. PASOLINI 1993, pp. 238-239.
108
«Longhi era prima uomo che professore (cioè maestro) proprio perché non c’era niente di professorale da
grattare in lui per ritrovarlo: era subito ciò che era, cioè un uomo superiore: era uomo cioè in quanto superuomo, in
!

! 46
la quale agli occhi di Pasolini rientravano di sicuro Solari, Funaioli e anche il secondo
relatore di tesi, Carlo Calcaterra – il primo era il venerato Longhi, ma persi a Pisa gli
appunti per la tesi di storia dell’arte il poeta decise di riparare sul detestato italianista; su
Coppola non avrebbe potuto perché in quei mesi, divenuto infine rettore in una Bologna
occupata dai nazisti, lanciava strali contro gli allievi renitenti alla leva della Repubblica
di Salò (come appunto il nostro, che era scappato nella campagna friulana: prima a
Casarsa, poi a Versuta). Come sa bene chi abbia letto Il papiro di Dongo, il filologo di
Guardia Sanframondi non reclutava allievi in aula citando il verso oraziano Dulce et
decorum est pro patria mori – l’esempio cinematografico del professor Kantorek (All
Quiet on the Western Front di Lewis Milestone, 1930) era seguito soltanto nelle
apposite conferenze tenute per le truppe. Né parlava ex cathedra, era anzi premuroso e
attento nei confronti dei suoi studenti; inoltre possedeva una vasta cultura, e soprattutto
rappresentava una voce fuori dal coro (accademico)109: è vero che l’Università di
Bologna era fascistissima e lo era in particolare la Facoltà di Lettere e Filosofia110,
tuttavia non esistevano altre figure di professori agit-prop (anche critiche) così esposte.
E infatti a lungo andare non gli giovò la sua fede politica, ferrea ma fino alla metà degli
anni ’30 lucida e capace di muovere obiezioni al potere come nel campo che lo
riguardava direttamente111; fede divenuta oltranzista (e filo-nazista) solo durante il
conflitto mondiale: tanto che negli ultimi anni fu protetto dalle SS, e non soltanto in
difesa dai partigiani112. Esistevano anche fascisti della prima ora, più precoci e più
potenti di Coppola (per esempio Pericle Ducati), però nessuno si impegnò come lui.
Ovviamente non intendo dire che il magistero di Coppola si sia esercitato pure sul
campo politico-pubblicistico, ma non bisogna confondere il giovanissimo Pasolini con
il più noto polemista: allora, nemmeno ventenne, non aveva ancora maturato quelle
riserve sul potere che avevano già cominciato a insinuarsi nei coetanei combattenti,
quelli che al fronte si erano scontrati con le miserie della guerra (dissonanti rispetto alla
retorica megalomaniaca della propaganda); allora, per citare il poeta medesimo113, era
«fascista, forse razzista» come il più dei suoi compagni di università: la sua segreta
ribellione era indirizzata contro il grigiore della cultura accademica impersonata dai
travet e contro il fanatismo della cultura scolastica incarnata dal preside Chiorboli.
Credo che il diciassettenne non abbia potuto non rimanere affascinato dall’energia di
Coppola, che non animava solo gli articoli di giornale più violenti bensì anche le pagine

!
quanto idolo, in quanto personaggio da Commedia. Per un ragazzo avere a che fare con un uomo simile era la
scoperta della cultura come qualcosa di diverso dalla cultura scolastica. Un professore è un uomo alienato dalla sua
professione, un’autorità che nei casi migliori getta la prima maschera autoritaria per scoprire un’altra maschera,
quella del modesto travet» (PASOLINI 1999a, pp. 2993-2594).
109
Su Coppola raccomanderei anche FERRATINI 1992, pp. 22, 36-43 e BRIZZI 2004; meno accurati e acuti, ma
comunque utili, CINTI 2004 e JELARDI 2005.
110
Cfr. CANFORA 2005, p. xii.
111
Vd. le polemiche sulla scuola: COPPOLA 2006, pp. 227-273.!
112
Cfr. CANFORA 2005, pp. 464, 470-473, 479-480, 486-488.
113
Cfr. PASOLINI 2003a, p. 1695 (versi tratti dalla prima redazione dell’epigramma Alle case degli antichi):
«Nella notte, già per me antica, di Bologna, / antica perché la vissi ragazzo, prima della guerra, / antica perché ero
universitario, fascista, / forse anche razzista [...]». Cfr. anche PASOLINI 1999b, pp. 1290-1291.

! 47
dei testi d’esame studiati fra 1941 e 1942, la Letteratura latina edita da Cappelli e la
monografia Gaio Lucilio cavaliere e poeta. Beninteso vanno fatte delle distinzioni: cioè
non bisogna equiparare le due passioni politiche, i due spiriti battaglieri, perché
Coppola aveva un’unica patria ideale (il PNF), mentre Pasolini, dopo l’iniziale
conformismo, rifiutò qualsiasi adesione fideistica e fu assai più inviso al partito
comunista di quanto Coppola lo era a certe frange fasciste. Eppure, molto
verosimilmente, la matricola apprezzò il dinamismo e l’intraprendenza del professore
campano; posso dirlo sia alla luce delle lettere in cui polemizza contro i professori chini
sui libri per tutto (o quasi) il loro tempo sia in considerazione di Che cosa è un
maestro?: dinanzi al modello superomistico di Longhi (e Coppola), in cui si è incarnata
la maschera che ciascuna ‘persona’ di cultura porta sul proprio volto, i sullodati
professori iperstudiosi appaiono senza identità, miserabili conformisti nascosti dietro
una maschera vacante – per temperare parole tanto graffianti potrei citare quelle di
Medea Norsa, dirette contro gli stessi professori anodini, conformisti: «zucche vuote
che galleggiano sempre per quanto cambino i governi e i regimi»114. Solo negli anni più
cupi del conflitto il nostro poté dare il giusto nome di fanatismo alla passione politica di
Coppola; solo dopo l’incontro con Giovanna Bemporad, l’unica nelle cerchie
frequentate dal giovanissimo poeta ad aver sperimentato su di sé la discriminazione
nazi-fascista, anche lui poté prendere definitivamente le distanze da quel professore
fucilato assieme ai più noti nomi del regime: fino al 1942 si giovò invece volentieri
della sua dottrina non comune e del suo piglio quasi giovanile. Nella rada letteratura
critica su Coppola Enzo Degani e Alfonso Traina hanno dato a intendere che negli anni
’40 il filologo campano viveva di rendita e imbastiva lezioni raffazzonate115; come ha
mostrato il libro di Canfora e come spero possano rivelare pure le mie pagine, ciò è vero
solo in parte. Sia chiaro che non intendo mettere in discussione la testimonianza resa da
Traina, che frequentò proprio uno degli ultimissimi insegnamenti di Coppola116, ma il
quadro emerso dalle ricerche d’archivio dà un’idea ben differente dei corsi accademici
sui lirici greci e su Lucilio: solidale con la ricostruzione storica tracciata da Canfora, che
segna nella partecipazione all’ARMIR il definitivo punto di non ritorno del Coppola
(1942); prima che il lume dell’intelligenza si perdesse nel gelo di Stalingrado, questi
poté ancora svolgere il proprio ruolo di maestro – ancorché con minore dedizione
rispetto a quella profusa nei confronti di Alberto Graziani.
Inizio dall’insegnamento di greco, del quale ho anticipato alcuni caratteri nel
sottoparagrafo precedente; e proprio per dare una prova della bontà di Coppola cito
l’elenco dei frammenti letti, tradotti e commentati a lezione – limitandomi ai due poeti
più esemplificati dal professore, nonché i più apprezzati da Pasolini; e seguendo

!
114
CANFORA 2005, p. xv.
115
Cfr. DEGANI 1989, p. 30 e TRAINA 2006, p. 331.
116
Il corso di greco dell’a. a. 1942-1943, cominciato in ritardo: cioè in gennaio, dopo il tragico rientro dalla
Russia.

! 48
l’edizione oggi di riferimento (quella di Eva Maria Voigt)117. Il corso cominciò nel
novembre 1940 e il filologo campano, altrimenti da quanto fece nel coevo insegnamento
di latino, iniziò direttamente a leggere, analizzare e commentare i testi: dalla produzione
innodica di Alceo (frr. 307a, 307c, 308, 34, 283, 42 V.) ai carmi stasiotici (frr. 38a,
208a, 6, 73, 69, 119, 70, 129 V.), ultimi alcuni esempi simposiali e «varî» (frr. 347, 45,
346, 140 V.); e prima di passare alla lirica di Saffo dedicò una lezione alle imitazioni di
Orazio, il cui intero corpus andava studiato per l’esame di latino. In quest’ultimo caso
nel registro annotò soltanto: «Alceo e Orazio», perciò non è possibile sapere con
precisione quali frammenti alcaici (e carmi oraziani) trattò; però è improbabile che
abbia omesso in toto HOR. Carm. 1. 9, 1. 10, 1. 14 e 1. 37: il secondo e il terzo perché
nelle precedenti lezioni ne aveva discusso i modelli greci (ALC. frr. 308 e 208a V.); il
primo e il quarto perché sono tra i testi oraziani più celebri (tanto che uno sarà citato da
Pasolini nella sceneggiatura di Uccellacci e uccellini118). Nel caso in cui abbia discusso
tutti e quattro i carmi oraziani deve averlo fatto ovviamente con grande sintesi e dalla
sola prospettiva intertestuale alcaica; dedicò di converso ben tre lezioni al primo
componimento saffico esaminato: il celebre fr. 31 V., letto e commentato con “a fronte”
anche la traduzione catulliana (e forse persino quella di Quasimodo119). Quindi, più
rapidamente, trattò i frr. 94, 1, 16, 2, 96, 17, 44, 46, 47-58, 60, 62, 63, 65, 71, 73a, 81,
82a, 95, 98a-b V. e infine i frammenti epitalamici 104-116 V. Come ho già anticipato,
Coppola era meno ferrato sul tema di quanto lo fosse Gallavotti e il numero inferiore di
pubblicazioni in materia non aiuta la mia ricostruzione: del corso rimane la mera lista di
cui sopra; e fino a che non dovessero emergere uno o più quaderni di appunti di chi lo
frequentò o le note preparatorie dello stesso Coppola, non sarà possibile entrare nelle
singole questioni filologiche poste da ciascun frammento e illuminare lo spessore del
critico. Di scritti più o meno coevi sui lirici si contano solo tre articoli di giornale, tutti
pubblicati sul Popolo d’Italia tra 1937 e 1942: La scoperta di una nuova ode di Saffo
(fr. 2 V.), Nuovi canti di Alceo (frr. 129 e 130b V.) e Versi di Saffo (frr. 98a e 96 V.)120;
l’ultimo dei tre scritti di certo non brilla per la malcondotta critica ai Lirici greci di
Quasimodo, dalla quale apprendiamo che non leggeva in classe le traduzioni del poeta
siculo-greco come esempio da seguire121: il che in realtà era facilmente prevedibile,
considerata la formazione iperfilologica, eppure è importante che abbia almeno posto il
problema a lezione – forse con toni meno superbi e magniloquenti di quelli adottati
nell’articolo – invece di tacere con sufficienza un argomento allora molto discusso da
letterati e letterate. Se dunque la sostanza interpretativa è in gran parte perduta122,
!
117
Cfr. Registro delle lezioni di Lingua e letteratura greca dettate dal Professor Goffredo Coppola nell’anno
scolastico 1940-1941 (ASUB, Registri delle lezioni, Busta 59/a 51). Nel registro i frammenti sono indicati ora con
titolo italiano ora con il verso da cui comincia il frustulo; aggiungo infine che il mio elenco segue alla lettera l’ordine
di Coppola.
118
Cfr. infra, n. 112 (cap. 2).
119
In tutto il registro non è mai fatto cenno a Quasimodo; la notizia risulta solo da due testimoni oculari: Luciano
Serra ed Ezio Raimondi.
120
Ora si possono leggere in COPPOLA 2006, pp. 86-89, 100-107.
121
Cfr. COPPOLA 2006, pp. 105-107.
122
Non mi pare possibile approfondire le valutazioni già proposte al termine del sottopar. 0.1.2.

! 49
l’elenco tratto dal registro rivela almeno che si trattava di una scelta ‘ampia’ e
‘aggiornata’: vi figurava per esempio il fr. alcaico 129 V., la cui scoperta fu annunciata
nell’estate 1942 sul quotidiano di regime ma che all’epoca del corso era appena stato
pubblicato sul diciottesimo volume dei Papiri di Ossirinco, letto da Coppola grazie alle
fotografie fornitegli da Gallavotti123. In aggiunta a quanto detto in precedenza si può
soltanto osservare come Saffo, la poetessa prediletta da Pasolini e dalla cerchia di sodali
Serra, Roversi e Bemporad, non sia stata soverchiata dallo stasiotikos Alceo, per il
quale Coppola provava anzi maggiore simpatia; e notare infine che è dato particolare
rilievo ai testi saffici più disforici, perché nelle prime lezioni dedicate alla poetessa è
discusso, tra i due “ovvi” frr. 31 e 1 V., il 94 V., ossia proprio il carme che sarà citato e
alluso ripetutamente da Pasolini (e amici) nei versi e nelle prose giovanili, solo di
qualche anno successive al corso bolognese. In sostanza, la lettura delle succinte note
del registro permette sia di ridefinire l’opera didattica del filologo fucilato a Dongo,
taciuta o svalutata fino alla nota ricostruzione di Canfora, sia di cogliere qual è stata la
mediazione di Coppola nei confronti delle conoscenze lirico-greche di Pasolini: cioè
l’ampliamento e l’approfondimento dei testi; non sappiamo in che esatte direzioni e con
quale spessore, tuttavia non c’è dubbio che le sue lezioni consentirono al giovane poeta
di farsi un’idea più concreta e variegata di quegli autori che già andava leggendo per
conto proprio, assieme sia a compagni in carne e ossa (soprattutto Bemporad) sia a un
compagno (e modello) letterario: Salvatore Quasimodo.
Ciò che non è stato possibile ricostruire nel caso dei lirici, lo è invece in quello della
satira luciliana; grazie alla monografia Gaio Lucilio cavaliere e poeta, pubblicata
all’inizio del 1941 e quindi giusto in tempo perché gli studenti potessero acquistarla e
studiarla per l’esame, abbiamo più della mera lista di letture che anche questa volta si
può ricavare dalla disamina del registro. Anzitutto va detto che non c’è una precisa
sovrapponibilità tra monografia e insegnamento accademico: nei cinque capitoli del
libro c’è lo spazio per l’esame di tre sole satire (LUCIL. 587-634, 688-702 e 1-54 M.) e
per la discussione di alcuni temi generali della produzione luciliana, come l’erudizione
da poeta ellenistico, lo stile espressionistico-realista, la mordacità politica, etc., mentre
il corso accademico, avviato da una lunga prolusione e una serie di quattro lezioni
introduttive sul quadro storico-letterario in cui va collocata l’opera (e la vita) di Lucilio,
nonché sulla storia e critica del testo, forniva una lettura tanto ampia quanto quella del
coevo insegnamento di greco; ma un notevole rilievo lo avevano in verità pure gli
obbligati confronti con la produzione satirica di Orazio. Dunque: in ventidue lezioni
trattò – nel seguente ordine – i libri XXVI (LUCIL. 587-634 e 676-687 M.), XXVII (LUCIL.
688-702 M.), XXIX (LUCIL. 851-869 e 888-894 M.), I (LUCIL. 1-54 M.), V (LUCIL. 193-
206 M.), III (LUCIL. 97-148 M.), IV (LUCIL. 149-158 M.), IX (LUCIL. 338-382 M.), il più
lungo frammento luciliano tramandatoci (1326-1338 M.) e infine i libri XV (LUCIL. 480-
489 M.) e XXX (LUCIL. 1008-1038 M.); e per un totale di nove lezioni lesse, tradusse e
commentò anche quattro satire del venosino: HOR. S. 2. 1 e 1. 1 prima delle quattro
!
123
Cfr. CANFORA 2005, pp. 369-370.

! 50
lezioni dedicate alla prima satira del XXVI libro, HOR. S. 1. 4 dopo quest’ultima e HOR.
S. 1. 10 dopo la prima satira del XXVII libro124. Così come si era aperto, il corso sulle
reliquiae luciliane si chiuse: cioè con un quadro mirato a tracciare i bersagli politici e
letterari dell’autore. La differenza cruciale fra i due insegnamenti pare proprio questa:
se in quello di greco si era limitato al close reading, al contrario in quello dedicato al
poeta di Sessa Aurunca riservò ben quindici lezioni a dei temi generali: dal rapporto con
il Circolo degli Scipioni agli accenni autobiografici, dalla metrica a particolarità
stilistiche e lessicali, dalle parodie ai legami con la tradizione comica greca e latina.
Chiunque si sia occupato/a di Lucilio sa quanto ne sia malridotta l’opera e ponga
difficili questioni interpretative125: tenendo presente che quello dell’a. a. 1940-1941 fu il
primo corso di latino tenuto da Coppola, già si intuisce quanto il professore fosse ancora
volenteroso (e ambizioso); né si trattava di un’eccezione, perché già da alcuni anni
aveva intrapreso lo studio di altri autori latini arcaici frammentari (Ennio, Accio,
Pacuvio, Cecilio Stazio). Da quel poco che il registro consente di intravedere,
completato per fortuna dalla monografia parallela al corso, sembra che Coppola sia
riuscito a rendere stimolante e accessibile una serie ‘variegata’ di satire (di tema
politico, filosofico, erotico, letterario, autobiografico, etc.) che difficilmente allieve e
allievi avrebbero potuto leggere e apprezzare da soli, ossia senza la mediazione di un
professore esperto di autori frammentari greci e latini e del genere comico, strettamente
imparentato con quello satirico – specie nel caso di Lucilio stando a HOR. S. 1. 4, vv. 1-
5 e a quanto scrive Coppola nel quarto capitolo126. Poco importa che non fosse un
latinista stricto sensu; o, meglio, importa solo per questioni minute relative alla
iperspecialistica letteratura su Lucilio: la stessa che non ha tenuto quasi in nessun conto
– per ignoranza, credo, non per voluto tacitamento –, il suo contributo. Anche se Gaio
Lucilio cavaliere e poeta non raggiunge il livello di profondità de Il teatro tragico in
Roma repubblicana (1940) e Teatro di Terenzio (1942), è tuttavia capace di tracciare un
ritratto icastico della prima “voluminosa” opera satirica latina: un ritratto che lasciò
sicuramente il segno in uno dei suoi pochissimi lettori; ma oltre alle doti affabulatorie
ed esegetiche lo stesso stile vivace, improntato a una anesis di stampo lucianeo, e la
quasi assenza di note devono avere catturato l’attenzione di Pasolini! All’epoca in cui il
poeta in erba seguì il corso su Lucilio, così come negli anni precedenti (e pure in quelli
immediatamente successivi), non praticava letture satiriche, antiche o moderne: e allora
tanto più straordinario appare il punto esclamativo con cui elevò il latino a materia
preferita nell’ottobre 1941, pochi mesi prima dell’esame di Coppola127; in quella lettera

!
124
Cfr. Registro delle lezioni di Lingua e letteratura latina dettate dal Professor Goffredo Coppola nell’anno
scolastico 1940-1941 (ASUB, Registri delle lezioni, Busta 59/a 53). Anche qui i titoli non fanno riferimento alle
edizioni correnti, ma sono dati il più delle volte in italiano e talora attraverso la citazione dei versi latini. Questa volta
però dalla monografia luciliana si ricava che l’edizione seguita è quella di Friedrich Marx, tuttora di riferimento.
125
Non che sia facile la lirica eolica, ma almeno è più comprensibile e, soprattutto, gustabile.
126
Cfr. COPPOLA 1941b, pp. 64-72.
127
«Mi riprende alla gola – e per la mia ignoranza mi sento desolato – la passione per la musica. E insieme ad
essa molte altre passioni: quella dello spagnolo, quella del latino (!), quella dell’Arte (conseguenza di queste passioni
sarà una spesa enorme in libri) [...]» (PASOLINI 1986, pp. 124-125).

! 51
a Franco Farolfi – destinatario anche delle esternazioni contro i professori pedanti128 –
non è fatto il nome di Coppola né quello di Lucilio, però il nome di quest’ultimo lo farà
alcuni anni più tardi, nel 1950, appena arrivato a Roma: in due prose che costituiscono
la prova tangibile dell’entusiasmo per lettera, Squarci di notti romane e la prosecuzione
romana di Amado mio. Come si vedrà nel secondo capitolo, il legame con Lucilio è
anzitutto un legame con il suo universo erotico omosessuale: un tema che mai Coppola
avrebbe potuto discutere a lezione perché in quegli stessi anni sposava e propagandava
lo sterminio dei ‘diversi’; e che non avrebbe potuto trattare in ogni caso, anche se non
fosse stato un nazi-fascista129. Ma ancora più indicibile la pederastia, ricorrente tanto
nelle satire luciliane quanto in Amado mio e in Squarci di notti romane. Questo in parte
mette in guardia di fronte alla ricostruzione tracciata fin qui: se la mediazione del
filologo è stata ‘fondamentale’, tuttavia non è stata soverchiante; ha lasciato dei margini
di autonomia. Credo che per Pasolini il piacere di leggere il ridottissimo corpus
luciliano venisse anzitutto da un senso di liberazione dalla censura del tabù, e con ciò
non intendo affatto porre un legame diretto fra l’autobiografismo pederotico di Amado
mio (e di altre prose giovanili) e quello del settimo libro delle satire; la riscoperta
dell’opera di Lucilio avvenne anzi solo a Roma, nella città in cui visse anche il poeta
latino e dove, per la prima volta, il nostro sperimentò l’eros «senza anima», quello che
fino al secolo precedente era chiamato ‘amor pagano’: soltanto lì poteva ancora udire
«le voci della pubertà latina»130, sparse fra i pineti del litorale dove sbarcò Enea e
morirono Eurialo e Niso, nascoste nella periferia degradata dove si andava accampando
un nuovo esercito barbarico – ma questa volta inerme – o esibite nel centro ricco di
antichi fasti ed eterna malavita. Eppure Roma non si limitò a presentargli di frequente il
fantasma di passate letture latine, fu anzitutto il luogo delle ‘novità’ letterarie: delle
prime radicali svolte, quella del cinema sopra ogni altra, e anche di generi tradizionali
che non aveva praticato in gioventù; fra questi il genere satirico, amato per la prima
volta grazie a Coppola. La riscoperta romana di Lucilio poté avvenire grazie a
esperienze biografiche borderline, che in Petrolio/Vas avrebbe poi presentato come
antiche tout court – alludendo, anziché a Lucilio, a Petronio e ai misteri eleusini131 –, e
del pari in forza del segno lasciato dal maestro: è grazie alla spiegazione degli elementi
costitutivi dell’innovativo programma satirico e grazie alla lettura di un’ampia scelta di
satire, ulteriormente arricchita in privato dall’allievo, che l’opera perduta di uno dei più
grandi autori latini ha potuto rivivere in Pasolini come in nessun altro autore moderno.
Nel secondo capitolo darò quasi tutti i dettagli di questa straordinaria fortuna luciliana;
qui è sufficiente ripetere che il diciannovenne lettore delle reliquiae vi trovò sia la gioia

!
128
Cfr. supra, n. 96.
129
La monografia non tace l’erotismo luciliano, ma si limita all’eterosessualità; e non appena viene menzionato
un fallo, non viene tradotto: cfr. COPPOLA 1941b, p. 77, dove omette di tradurre caulem testisque (LUCIL. 281 M.; «si
taglia il ..... e d’un colpo solo i due .... »).
130
Vd. supra, n. 15 e infra, par. 1.5.
131
Ma, come si vedrà in dettaglio nel secondo capitolo, PASOLINI 1998c, p. 340 accosta Petronio e Lucilio.

! 52
dell’omosessualità sia la sorpresa di un’opera incognita alla quale soltanto un professore
spigliato e talentuoso avrebbe potuto introdurlo.

0.2.2. Edipo in tuta, Edipo in coturni: Fulchignoni e l’Edipo all’alba

Nel giugno 1941 Pasolini acquistò il biglietto per la messinscena di una tragedia
greca: niente meno che l’Edipo re di Sofocle, diretto da Enrico Fulchignoni; da una
lettera a Farolfi cogliamo l’entusiasmo col quale il nostro guardava allo spettacolo, che
fu probabilmente la sua prima rappresentazione classica132. Nelle missive seguenti non
vi fece più cenno, perciò non possiamo sapere cosa pensò dell’intera messinscena e di
dettagli vistosi come la traduzione italiana di Ettore Romagnoli o dei costumi che
Filippo Maria Pontani bollò come «tute da benzinari»133; certo è che il giovanissimo
poeta non si dimenticò né del testo originale né della sua messinscena: sia a breve sia a
lungo termine134. Meno di un anno dopo, appena conseguito l’ottimo risultato all’esame
di latino, Pasolini scrisse una tragedia in parte in versi e in parte in prosa intitolata
Edipo all’alba, che in una lettera a Luciano Serra disse di avere terminato135, ma che in
realtà rimase pressoché incompiuta e tuttora si può leggere per intero solo in traduzione
francese136: perché Siti e De Laude hanno scelto di pubblicarne solo gli atti primo e
quarto e l’edizione critica di Giacomo Trevisan, pur vincitrice nel 2006 del premio per
le tesi di laurea sulla vita e sull’opera di Pasolini, non ha mai visto la luce delle stampe.
Invece molti anni più tardi (1966), costretto a letto da un’ulcera, il poeta-cineasta lesse
(in parte rilesse) i tragici greci e concepì sia il «teatro di Parola», cioè sette tragedie
direttamente ispirate al teatro attico di V secolo a.C.137, sia la “trilogia” filmica Edipo
re, Medea e Appunti per un’Orestiade africana: l’epilogo della prima pellicola mostra
un Edipo e un’Antigone in panni tanto umili e impolverati quanto potevano esserlo le
tute dell’Edipo re di Fulchignoni, e, soprattutto (!), nella prima sottosequenza i due esuli
appaiono aggirarsi negli stessi luoghi dove per la prima volta il regista aveva preso
nozione della tragedia greca, prima al Galvani poi all’università e infine a teatro138. Così
come non può essere un caso che siano state scelte proprio quelle ambientazioni
bolognesi, non può esserlo nemmeno la volontà di iniziare e finire il film nella
!
132
«Domani insieme agli amici suddetti andrò a vedere un’interessantissima riesumazione dell’Edipo re per la
regia di Fulchignoni» (PASOLINI 1986, p. 42).
133
PONTANI 1965, p. 149.
134
L’Edipo re di Fulchignoni è ricordato da CASI 1998, p. 39 (e, con qualche approfondimento, CASI 2005, pp.
30-31, 36), Siti e De Laude in PASOLINI 2001b, p. 1118, TREVISAN 2008, p. 61, IMBORNONE 2011, p. 54, SANTATO
2012, p. 416 e TOMASSINI 2013, p. 14, ma solo Stefano Casi ha provato a spiegarne l’importanza.
135
«Per ora sappi che: L’Edipo all’alba è terminato e completato (non vedo l’ora di sentire il vostro giudizio);
[...]» (PASOLINI 1986, p. 127).
136
Vd. PASOLINI 2005a, pp. 53-99.
137
Orgia, Pilade, Affabulazione, Porcile, Calderón, Bestia da stile; la settima, mancata, prese la forma
(anfibologica) di Teorema: cfr. infra, cap. 5.
138
La sottosequenza bolognese, beninteso, comprende scene girate al Portico dei Servi e in Piazza Maggiore, non
sotto i portici del Liceo Galvani o di via Zamboni: i due luoghi filmati sono rappresentativi della città cui Pasolini
voleva alludere e hanno prevalso su quelli più strettamente autobiografici. Si tenga comunque presente che il Teatro
del Corso, dove verosimilmente andò in scena l’Edipo re diretto da Fulchignoni, distava pochissimi metri dal Portico
dei Servi in cui sono filmati Citti-Edipo e Ninetto-Antigone!

! 53
campagna friulana (ricreata a Sant’Angelo Lodigiano), con la telecamera che si solleva
da terra e a terra alla fine ritorna: movimento allusivo non solo al ciclo vitale e
funzionale alla soggettiva del neonato steso sul prato139, ma forse anche all’evasione
onirica della lettura – i primi fotogrammi, cioè i titoli di testa, sono pur sempre dei fogli
stampati in bei caratteri bodoniani. Cerco di spiegarmi meglio. Se prestiamo fede a una
testimonianza del cugino Naldini140, sul medesimo prato in cui il regista decise di dare
avvio (e conclusione) al racconto della propria vita, nell’estate 1939 lo studente del
Galvani preparò l’esame di maturità anticipato; fra le letture non c’era l’Edipo re, ma
una tragedia sempre di mito tebano e sempre di Sofocle: Antigone, curata da Dario
Arfelli per i tipi di Signorelli141. Analogamente alla messinscena bolognese, quel testo
deve aver acceso l’interesse di Pasolini perché se ne trovano tracce nell’Edipo all’alba:
per questo mi piace credere che nella scelta di tradurre in immagini la storia di Edipo/sé
il regista abbia pensato anche alle lontane letture «all’ombra di un boschetto», non solo
al prologo dell’Edipo a Colono (vv. 16-18)142: letture impegnative, senza dubbio, quindi
non avvicinabili a quelle omeriche cremonesi, eppure addolcite da un contorno bucolico
che poté amplificare la fantasia, l’evasione suscitata dal testo.
Prima di discutere il legame fra Antigone e il dramma pasoliniano desidero però
riprendere il filo del discorso sullo spettacolo di Fulchignoni. Come ha spiegato bene
Stefano Casi, il giovanissimo studente dell’Alma Mater frequentava il teatro con
passione e interesse, e non assisté alla sola regia sofoclea dell’eclettico medico
messinese: appena alcuni mesi prima, nelle vacanze natalizie 1940-1941, aveva seguito
la messinscena di Piccola città di Thornton Wilder e ne aveva parlato per lettera a
Farolfi con un vocabolario degno non di un semplice spettatore bensì di un aspirante
scrittore desideroso di provare anche quella via artistica143; tanto più dispiace il silenzio
sull’Edipo re, che di sicuro più di Piccola città deve averlo spronato a scrivere l’Edipo
all’alba. Se si può tuttavia dare per certo che lo studente apprezzò l’anticonformismo e
le recenti innovazioni tecniche portate da Fulchignoni, allora è ravvisabile davvero una
linea di continuità fra il teatro spoglio di realtà oggettuali e centrato sulla
comunicazione ‘verbale’ del primo e il «teatro di Parola» del secondo: in verità nel
Manifesto per un nuovo teatro (1968) Pasolini afferma di tagliare i ponti con la scena
contemporanea e moderna e lì – come altrove – non fa mai il nome di Fulchignoni;
desidera richiamarsi al solo modello dei tragediografi greci arrivando di converso a

!
139
Cfr. FUSILLO 1996, pp. 40, 69.!
140
«Si preparò da solo, mutando di poco i suoi programmi estivi, studiando per alcune ore al giorno all’ombra di
un boschetto sulla riva sinistra del Tagliamento» (NALDINI 1993, p. 22).
141
!Ricavo l’informazione dai verbali del collegio docenti del 13 maggio 1938, riunitosi per la scelta dei libri di
testo dell’a. s. 1938-1939, e di quello del 10 maggio 1939, che riconfermò a seguito di una direttiva ministeriale
‘tutte’ le adozioni dell’anno precedente, tra cui c’era l’Antigone curata da Arfelli: cfr. Verbali del collegio dei
professori e dei consigli di classe, 1931, 1932, 1933, 1934, 1935, 1936, 1937-1942 – Volume XIII, pp. 275, 322
(Archivio del Liceo Galvani).
142
!"#$% &’ '&’ ()#*%, +% ,-.’ )/0-,12, 3#456 / &-.67%, 891:1%, ;µ<=9$>? <>06*<@)#$2 &’ / )A,5 01@’ 1B@C6
)B,@$µ$D,’ ;7&*6)%, versi così tradotti nel film del 1967: «Siamo in un posto con tanti alberi messi in fila, e con tanti
fiumiciattoli, e un grande prato verde verde...» (trascrizione mia dalla colonna dialogo).
143
Cfr. PASOLINI 1986, p. 23 e CASI 1998, pp. 38-39.

! 54
polemizzare duramente con i drammaturghi più recenti, eppure per lui la prima
rappresentazione di quei testi tanto amati e ‘impossibili’ era pur sempre quella del
1941144: aveva già cominciato a leggerli tra le aule del Galvani e dell’università e lungo
le ombrose rive del Tagliamento (dove scopriva anche i Canti popolari greci di
Tommaseo, Kavafis e i nudi efebici evocati in Amado mio), però, immaginazioni da
lettura a parte, ‘vide’ in scena una di quelle tragedie soltanto nel giugno 1941 – in una
scenografia e in un apparato costumistico in netto contrasto con la tradizione
archeologica di Duilio Cambellotti. Si può quindi ragionevolmente presupporre un
contributo del medico-regista alla più profonda origine del progetto drammaturgico
degli anni ’60: indiretto – senza dubbio – perché passa per il tramite del teatro greco, ma
consistente se portò dei frutti dopo un quarto di secolo. Lo ripeto, spero in termini più
chiari: con ogni probabilità nel 1966 (e nel 1968) Pasolini si era dimenticato del buon
Fulchignoni, non però del suo Edipo re in tuta, non della prima tragedia greca ‘vista’ in
azione: così essenziale e centrata sulla lexis poetica (di Romagnoli). I sette drammi del
1966 non proseguirono l’esperienza del Tpi perché si rivolgevano all’intelligencija;
l’italiano target-oriented di Orestiade venne sostituito da una lingua ancora più
contaminata con la prosa e tuttavia foriera di un pensiero denso e difficilmente
intelligibile al più del pubblico: così anche l’unica compagnia teatrale al cui lavoro
Pasolini aveva aderito soltanto pochi anni prima (1959-1961) fu surclassata dal
«nuovo[-antico] teatro». E sempre sul tema della visualizzazione della classicità greca
va notato che tra l’Orestiade siracusana e le sette tragedie c’è il medesimo scarto che
intercorre fra Medea e le sequenze centrali di Edipo re, da un lato, e la cornice storica di
quest’ultimo e gli Appunti per un’Orestiade africana, dall’altro; cioè: all’idea di un
antico così arcaico e altro da risultare onirico e sacro si oppone l’immagine di un
classico-contemporaneo, ossia di un mito così ‘attuale’ da indossare i panni
desacralizzati dell’oggi; detto in altri termini, all’Oreste-Gassman in abiti tribali si
contrappone l’Oreste novecentesco di Pilade, all’Edipo-Citti fornito di petasos e tunica
l’Edipo-Citti senza copricapo, coi capelli arruffati e la giacca sgualcita (e il petto nudo),
retto da un’Antigone in T-shirt. Come nel caso di Lucilio, Pasolini ci mette del tempo
per imparare la lezione; nell’immediato la messinscena dell’Edipo re non sembra dare
altri frutti che lo sprone a scrivere: perché il primo dramma edipico di Pasolini ha ben
poco di contemporaneo, si riconnette anzi alla tradizione alfieriana e dannunziana
(soprattutto sul piano stilistico); non solo all’Oedipe di André Gide, ipoteticamente

!
144
Vd. PASOLINI 1999a, p. 2499: «Non può essere il RITO POLITICO dell’Atene aristotelica, con i suoi ‹molti› che
erano poche decine di migliaia di persone» (corsivo mio); ‘non può’, ma Pasolini lo vorrebbe: vd. infatti il comma 7
del manifesto: «Il nuovo teatro si vuol definire, sia pur banalmente e in stile da verbale, ‹teatro di parola›. La sua
incompatibilità sia col teatro tradizionale sia con ogni tipo di contestazione al teatro tradizionale, è dunque contenuta
in questa sua autodefinizione. Esso non nasconde di rifarsi esplicitamente al teatro della democrazia ateniese,
saltando completamente l’intera tradizione recente del teatro della borghesia, per non dire l’intera tradizione moderna
del teatro rinascimentale e di Shakespeare» (PASOLINI 1999a, pp. 2483-2484). Cfr. infra, par. 5.1.

! 55
chiamato in causa da Siti e De Laude e, sulla loro scia, da Casi, Trevisan, Imbornone e
Tomassini145.
Edipo all’alba costituisce il terzo caso di testo pasoliniano ispirato alla tradizione
classica, sia pure attraverso la mediazione di alcuni autori moderni (Freud incluso)146:
mentre però il legame con la figura sofoclea di Edipo (re) è già stata segnalata da
entrambi gli studiosi che se ne sono occupati nel dettaglio147, è passato quasi del tutto
inosservato quello con la figura di Antigone148. La tragedia comincia agli albori del
giorno seguente l’accecamento finale dell’Edipo re, perciò, come il Pilade lo sarà per
l’Orestea di Eschilo, essa costituisce di certo una immaginata continuazione del testo
sofocleo; eppure la luce mattutina evoca anche quella della parodo dell’Antigone (vv.
100-109), perché il fulcro tragico sembra essere quello che riguarda il personaggio
(antigoneo) di Ismene: cioè il vero scarto rispetto all’Edipo re, la cui ombra si allunga
sui primi due atti, si coglie solo nel terzo e soprattutto nel quarto atto, dove compare
un’Ismene che ormai pare essersi impossessata della maschera della protagonista
sofoclea – e specularmente l’Antigone pasoliniana assume ‘in parte’ il ruolo
dell’Ismene greca. Già tale capovolgimento dei personaggi è sintomatico della grande
libertà con cui Pasolini si è posto sulla via dei classici antichi: della loro appropriazione
da parte del poeta moderno; ed emblematica è pure la presenza delle Menadi-Furie negli
atti secondo e quarto, un personaggio che non abbandonerà mai l’opera del nostro, in
particolare quella più manifestamente ispirata al teatro tragico149. Ma vediamo anzitutto
il significato complessivo di questo saggio giovanile: Pasolini ha voluto recuperare la
figura edipica di lutto estremo ed estrema predestinazione, aggiungendovi quella di
Antigone: e, beninteso, non l’eroina antitirannica di Hölderlin-Brecht o Liliana Cavani,
bensì la figlia continuatrice di Edipo, che ama di amore ‘mostruoso’ il padre e un
innominato fratellino; ancora una volta il tema sessuale è al centro ed è il vero e proprio
legante di questo dramma franto fra i personaggi di Edipo e Ismene. Mentre nei primi
due atti non c’è alcuna azione ma Edipo si limita a piangere in un lungo threnos i propri
«peccati» e la scia di morte che ne è seguita, il terzo e il quarto introducono l’eroica
confessione di Ismene; la stessa scelta sitiana di pubblicare il quarto atto seguito dal
frammento del primo150, nasce dalla consapevolezza che è il personaggio di Ismene il
vero protagonista di Edipo all’alba, figura marginale quasi come il Pilade eschileo
!
145
Cfr. PASOLINI 2001b, p. 1118, CASI 2005, p. 37, TREVISAN 2008, p. 61, IMBORNONE 2011, p. 64 e TOMASSINI
2013, pp. 13-14. Nessuno però ha fornito la prova provata che Pasolini lesse già in così tenera età il dramma gidiano;
di certa c’è solo la lettura de L’immoraliste – infatti presente in edizione francese nella sua biblioteca privata: cfr.
CHIARCOSSI-ZABAGLI 2017, p. 16 –, ma risale al dopoguerra! Io credo che prima di quel romanzo Pasolini non avesse
ancora conosciuto l’opera di Gide: anche perché il fascismo non incentivava la circolazione delle letterature straniere,
in particolare francese e inglese. Più saggio limitarsi alla letteratura italiana (in particolare Alfieri, oggetto del corso
tenuto da Carlo Calcaterra nell’a. a. 1939-1940), a Freud e al teatro sofocleo.
146
Il primo è l’abbozzato incipit della tragedia Gli alati (1938), per il quale cfr. la nota di Siti e De Laude in
PASOLINI 2001b, p. 1115; il secondo è Il giovine della primavera, discusso nel sottoparagrafo seguente.
147
Cfr. TREVISAN 2008, p. 61, 67 e IMBORNONE 2011, p. 55, 59, 66-67.
148
L’ha ipotizzato solo FORNARO 2017, pp. 93-95.
149
Come già notarono Siti e De Laude in PASOLINI 2001b, p. 1119 l’imberbe scrisse Menadi intendendo però,
verosimilmente, le Erinni.
150
Vd. PASOLINI 2001b, pp. 19-38.

! 56
divenuto al contrario la maschera principale nell’omonima tragedia del 1966. Dunque,
con ribaltamento dei ruoli rispetto al prologo del testo greco, l’Ismene-Pasolini veste i
panni di Antigone: la figlia meno nota è capace di riprendersi l’importanza che Sofocle
le aveva tolto sia gridando a tutti la propria attrazione sessuale per il fratellino intravisto
nudo sulle sponde di un Asopo che molto ricorda il Tagliamento, sia suicidandosi151.
Anche se il tema pederotico prevale su quello funebre – il !"µ#$%&'( del v. 523 diventa
«fremito», «arsione», «tormento»152 – e il dramma pasoliniano sembra quindi preludere
alle pagine di diario rielaborate in Atti impuri e all’invenzione autobiografistica di
Amado mio, l’originale sofocleo ha posto delle radici; ne è prova il fatto che esiste una
convergenza fra l’edizione studiata nell’estate 1939 – fornita di solo testo greco – e
questa tragedia scritta tra il febbraio e l’aprile 1942. Se Ismene diviene protagonista e
controfigura dell’autore anche attraverso il ruolo che Antigone gioca nel prologo antico,
l’eroina sofoclea ha però ulteriori rifrazioni moderne: fra i personaggi è presente
un’Antigone vestita di saio che probabilmente deve qualcosa più all’originale mediato
da Arfelli che al francese di Gide.
Professore di lettere al Galvani e in più, dopo l’improvvisa caduta della stella di
Coppola, incaricato all’Alma Mater di un corso di letteratura greca (sull’Edipo re)153,
nel 1933 Arfelli aveva firmato l’edizione scolastica Signorelli che Gallavotti e colleghi
– curatore compreso – adottarono solo qualche anno più tardi (1938): qui, con poca
professionalità, nella lunga introduzione al testo greco parla di Antigone non soltanto
nei termini di una eroina depositaria e difenditrice del culto funebre – aspetto (giusto)
che il Pasolini adulto recupererà, anche autonomamente rispetto alla vecchia lettura
adolescenziale 154 –, ma persino in quelli di una santa cristiana: «purissimo fiore»,
«mistica eroina», «troppo alta e pura e devota per odiar chicchessia», testimone di una
«invitta fede», «testimone del Cielo», «invitta al Male», «spirito d’amore», «raggiante
di Verità»155 sono soltanto alcuni degli attributi che il grecista riferisce alla protagonista;
perciò non deve stupire che in Edipo all’alba pure Pasolini abbia sviluppato tali aspetti
dopo aver trasferito su Ismene l’originario anticonformismo di Antigone. Vediamo
qualche esempio. Nell’acme tragica l’eroina in saio si mostra sensibile alla compassione
e al culto funebre con un’osservanza quasi cattolica: non appena Ismene muore di
spada, suicidatasi sul vago esempio del !"#$% [...] &"%'(% (v. 72) inseguito
dall’Antigone sofoclea, il personaggio pasoliniano riconferma quella «pietà» e quella
carità nei confronti della rea confessa che già le aveva dimostrato in precedenza, nel
terzo atto, cioè prima del coming out suicida, e che invece il coro di tebani nega nella

!
151
«Io non voglio pietà, né voglio tacere: a voi, che fuggite il pensiero della sventura come gli uccelli si
disperdono dopo la tempesta, io griderò chiara e intatta la mia vergogna [...]» (PASOLINI 2001b, p. 25). Cfr. SOPH.
Ant., vv. 86-87: !!µ!", #$%$&'$! !"##$% &'()*% !!" / !#$%!’, !"# µ$ %&'( )*+,-./ 0123; anni più tardi tradotti da
Pasolini così: «Ah dillo, invece, fallo sapere! Mi sarai / più odiosa tacendo che gridandolo a tutti» (PASOLINI 2001b,
p. 1016). Sulla centralità arcaica di Ismene cfr. FORNARO 2012, pp. 47-51.
152
Vd. PASOLINI 2005b, pp. 91-96.
153
Cfr. TRAINA 2006, p. 332.
154
Cfr. ARFELLI 1933, p. 23 e, per una discussione più recente e approfondita, DERDERIAN 2001, pp. 136-160.
155
ARFELLI 1933, pp. 5, 7, 23.

! 57
maniera più risoluta; è la prima a intonare una preghiera davanti alla salma di Ismene,
prima ancora del coro di Menadi (il personaggio che più della stessa Antigone difende
la protagonista), e prega con piena gratitudine rivolta a Dio156. E anche all’inizio di
questo atto cruciale – il quarto – nelle prime parole di Ismene è presente un ritratto di
Antigone coerente a quello di Arfelli: «Io non reggo al tuo sguardo; viva e pura a te
s’affaccia l’anima nelle pupille»157.

0.2.3. Corpi scolpiti (I): il manuale di Pericle Ducati e Il giovine della primavera

Oltre a scrivere la tragedia appena discussa e un radiodramma del quale pare non sia
rimasto altro che l’annuncio dato a Farolfi nella stessa lettera in cui gli riferiva di
Piccola città al Teatro del Corso158, il giovanissimo studente universitario realizzò
anche una prima “sceneggiatura” cinematografica, intitolata Il giovine della primavera.
Giustamente definita da Siti «una sorta di poemetto visivo»159 e da Pasolini medesimo
«un folle pezzo dannunziano»160, fu scritta per partecipare a un premio: o i Littoriali
della cultura che si svolsero a Bologna tra la fine di aprile e l’inizio di maggio del 1940
(cioè in corrispondenza del termine del primo anno accademico) 161, o il generico
«concorso indetto dal Guf locale» evocato dal poeta e riportato senza ulteriori
precisazioni da Siti e Zabagli – i due editori si limitano a datare il testo al 1940 in via
congetturale, in base «al fatto che Pasolini si iscrisse all’Università nell’ottobre
1939»162. Vista l’acerbità dell’opera la datazione proposta nei Meridiani è verosimile,
ma per raccogliere eventualmente tracce del premio più tangibili e dissolvere così ogni
dubbio occorrerebbe intraprendere delle specifiche indagini d’archivio all’Università di
Bologna; senza di queste l’unica osservazione che posso aggiungere alla nota di Siti e
Zabagli ruota attorno a un dettaglio dell’intervista di Jon Halliday appena citata,
integrato però dall’esame di due testi che i due studiosi hanno tenuto in non cale benché
coevi a Il giovine della primavera e quindi più particolareggiati della conversazione
(degli anni ’60) su cui si fonda la ricostruzione volgata: rispondendo a Halliday il nostro
parla di un Guf «locale» e mi pare inverosimile che l’ateneo felsineo, dopo la poderosa
organizzazione dei Littoriali – che avevano valenza nazionale e dopo l’edizione
!
156
«È morta e noi soavi / proseguiamo nel mito / della nostra esistenza. / Noi illumina il sole / noi ferisce l’aure, /
a noi cantano uccelli / e fioriscono i cigli. / Grazie, grazie, Signore / consolazione acerba / soavemente ci dai. / È
morta! Aerea vita / noi solleva / ed investe leggera. / Grazie, grazie, Signore / sento luce di morte, / dolce e smarrita. /
Grazie, grazie, Signore: / VENTO LIEVE DI MORTE / SPARGI SU NOI VIVENTI / morte e liberazione» (PASOLINI 2005b, p.
98).
157
PASOLINI 2005b, p. 85 (corsivo mio).
158
«Mi sono dato morbosamente a scrivere un articolo per Architrave, ed una rappresentazione radiofonica per i
Prelittoriali di Radio» (PASOLINI 1986, p. 22).
159
PASOLINI 2001a, p. 3213.
160
!«Più avanti, quando fui a Bologna, mi iscrissi a un cineclub e vidi alcuni classici: tutto René Clair, i primi
Renoir, qualche Chaplin e così via. Fu allora che nacque il mio grande amore per il cinema. Ricordo di aver
partecipato a un concorso indetto dal Guf locale con un folle pezzo dannunziano, completamente barbarico e
sensuale» (PASOLINI 1999b, pp. 1303-1304).!
161
Stando a GIORDANO-ZABAGLI 2010, p. 26, ma il nome di Pasolini non risulta tra i classificati al Concorso per
un soggetto cinematografico (cfr. ADDIS SABA-ALFASSIO GRIMALDI 1983, p. 228).
162
Cfr. PASOLINI 2001a, pp. 3213-3214.!

! 58
bolognese non furono più celebrati (con la sola eccezione di quelli femminili)163 –,
subito si sobbarcasse l’allestimento di un altro concorso, seppur minore: cioè già nel
1940. In compenso, dall’epistolario risulta che Pasolini avrebbe voluto partecipare ai
Littoriali maschili del 1941 (alla fine soppressi) e che si era preparato con fervore alla
competizione 164 ; poiché non si conservano lettere anteriori al giugno 1940 né al
momento risultano esserci prove documentali di una presenza di Pasolini all’edizione
precedente (quella bolognese di fine aprile-inizio maggio 1940), può darsi che Il giovine
della primavera fosse proprio una delle opere alle quali si era dedicato «anima e corpo»,
ossia il testo con cui si candidò ai Prelittoriali – di cinema, dopo quelli di critica –
organizzati nel 1941 dal Guf bolognese per stabilire i concorrenti alla mai avvenuta gara
nazionale di San Remo. Una datazione al 1941 mi sembra più solidale con la stessa
natura dell’opera: che a parte una citazione dall’Iliade montiana già segnalata dai due
editori (II, vv. 284-286)165 non si fonda su precisi testi letterari – semmai su una vaga
contaminazione fra il Virgilio bucolico e il D’Annunzio greco-nietzschiano –, ma si rifà
espressamente a una tradizione visuale, sia cinematografica sia iconografica. Il nostro
iniziò a seguire il cinema con una certa frequenza solo dopo l’inizio dell’università e
perciò mi pare poco probabile che uno scritto dalla marcata cifra visiva sia stato
concepito senza che l’autore avesse avuto il tempo di costruirsi una minima cultura in
materia. Spetta alle critiche e ai critici cinematografici individuare ne Il giovine della
primavera gli eventuali echi di pellicole viste da Pasolini al Cineguf di Bologna; qui è
sufficiente riconfermare e ampliare tutte le idee avanzate da Siti e Zabagli. Ossia, in
primis, che Olympia di Leni Riefenstahl (1938) è una molto probabile fonte, soprattutto
per la sequenza dello stadio166, per l’idea di giustapporre riprese di statue greche con
quelle di figure in carne e ossa e per le inquadrature in dettaglio di parti del corpo; va
precisato però che solo le prime sequenze del lunghissimo film contengono i riscontri
più ficcanti. In secundis: è vero che la sensualità arcadico-archeologica del «pezzo»
pasoliniano è consentanea a quella dell’opera fotografica del barone Guglielmo, eppure
non al punto da spodestare D’Annunzio: perché il più delle fotografie di Wilhelm von
Gloeden erano dei nudi (maschili), mentre nella sceneggiatura tutti i corpi appaiono
seminudi, coperti dalla foglia di fico, da una ghirlanda o altro accorgimento (come
quelli di Leni Riefenstahl dal perizoma); e anche se avrebbe potuto davvero apprezzarne
i ritratti fotografici, all’epoca lo studente dell’Alma Mater si doveva accontentare dei
nudi di Lucilio o delle immagini presenti nel L’arte classica di Ducati, oppure della
sensualità di certi versi dannunziani – se il regime aveva “confinato” lo scandaloso vate
!
163
Cfr. ADDIS SABA-ALFASSIO GRIMALDI 1983, p. 142.
164
«Lo stato provvisorio in pendente, creato in queste ultime settimane, dal volontarismo, dalla chiamata degli
studenti del ’21, dalla progettata chiusura dell’Università, dalla eventuale sospensione dei Littoriali (alla preparazione
dei quali mi ero dato anima e corpo), tutto ciò mi ha gettato in una condizione temporalesca [...] Prelittoriali della
Cultura. Ho partecipato ai Prelittoriali di Critica Stilistica, classificandomi primo, lodato da eminenti critici quali il
Bertocchi, il Guidi, Corazza, ecc. Avrei dovuto andare a S. Remo, per partecipare ai Littoriali, ma questi sono stati
sospesi per quest’anno, con mio grande livore» (PASOLINI 1986, pp. 33 [da una lettera a Farolfi del gennaio-febbraio
1941], 39 [da una lettera allo stesso della primavera 1941]).
165
Cfr. PASOLINI 2001a, p. 3214.
166
Vd. PASOLINI 2001a, pp. 2593-2595.

! 59
a Gardone Riviera, non poteva di certo dedicare mostre né diffondere in altro modo i
ritratti di minorenni per lo più senza foglie di fico o perizomi. Infine, la questione
relativa al Ducati. Ai due editori della sceneggiatura va il merito di aver indicato
l’importanza dell’iconografia classica; tuttavia occorre aggiungere che le statue de Il
giovine della primavera desunte dal manuale non sono tre, bensì quattro: oltre alla testa
dell’Efebo biondo dall’acropoli di Atene, all’Apollo da Tenea e alla Nike di Delo già
segnalate167, è menzionata una «statuetta di donna steatopigia»168 che non ha destato
l’attenzione di Siti e Zabagli probabilmente perché non connessa all’iconografia greca
tradizionale. Pasolini poté osservarne due esemplari nel primo capitolo del Ducati
(Periodo primo. Le origini, 3000-2000 a. C.): la principale, proveniente dal sito
preistorico di !"#$%&' (Tessaglia), «rappresenta un tipo che, per la esageratissima
accentuazione delle parti molli del corpo, si distacca dal tipo di donna ignuda offerto
prima dalle forme rozzamente stilizzate di Cnosso e poi dagli idoli marmorei delle
Cicladi. È invece il tipo di donna steatopigica, che ci è noto da esemplari di provenienze
diversissime»169; la seconda è un esemplare analogo, in calcare bianco, da Sparta. C’è
però un’altra nota che non dovrebbe passare inosservata: «Considerando che nei tempi
meno remoti il tipo di donna steatopigica si rinviene in territori africani e sparisce
invece dal bacino mediterraneo, si è voluto riconoscere in queste figurine singolari la
documentazione di una razza primitiva, che dal bacino del Mediterraneo si sarebbe in
seguito ristretta in Africa»170.
Non solo alla luce di questo nuovo riscontro ma anche a partire da una più attenta
lettura de Il giovine della primavera si capisce che Pasolini non è interessato ai meri
nudi efebici, né si ispira esclusivamente all’iconografia classica come fa Leni
Riefenstahl (e l’ideologia nazista che le sta dietro)171; per spiegarmi ritengo necessaria
una sintesi dell’opera, pressoché sconosciuta persino alla letteratura critica. La
sceneggiatura visualizza, con un procedimento di frequente montaggio alternato, le
peripezie di un «giovine» greco – con ogni probabilità coetaneo e controfigura
dell’autore – in un imprecisato paesaggio prima agreste poi cittadino infine di nuovo
bucolico: incontra prima un pastorello, insieme al quale si reca in città, e qui,
sull’acropoli, altri sette fanciullini intenti a suonare il flauto e un vecchietto che gli
ricorda Tersite; poi si reca da solo allo stadio, dove compete nella corsa con sette
ragazzi; infine incontra una donna suonatrice di tar (uno strumento a corda dell’Asia
centrale), con la quale va in camporella. La loro unione, allegorizzata attraverso il
montaggio alternato dell’amplesso e della figurina steatopigia di cui sopra, rigenera la
natura: il «giovine» ritorna al boschetto fluviale dell’incipit, trovandolo non più
ingemmato ma fiorito. Per inciso, l’immagine iniziale su cui anularmente si chiude il

!
167
Cfr. PASOLINI 2001a, p. 3214 e, più a monte, DUCATI 1939, pp. 185, 130, 137.
168
PASOLINI 2001a, p. 2597.
169
DUCATI 1939, p. 11 (corsivo mio).!
170
DUCATI 1939, p. 11 (corsivi miei).
171
L’idea non è solo di Siti e Zabagli ma anche di HOUCKE 2012, pp. 124-128, HOUCKE 2015a, p. 82 e HOUCKE
2015b, pp. 211-215.

! 60
testo mi ricorda il maturando intento a leggere all’ombra degli alberi del Tagliamento:
«Uno, due, tre tronchi in fila; appoggiato con la schiena al quarto tronco della fila, è un
giovine quasi nudo; solo ai fianchi è cinto di una ghirlanda verde, ed è calzato di
coturni»172. La sua testa è montata assieme a quella dell’Efebo biondo, che sebbene sia
definita «arcaica» rimanda all’immaginario (neo)classico tradizionale, come fanno pure
i coturni e la ghirlanda; e in più l’esperienza erotica in cui culmina l’opera, la nutrita
presenza di bei corpi maschili (efebici e infantili), l’immagine convenzionale della
suonatrice di reprobi costumi, il paesaggio idealizzato: tutti questi elementi danno
ragione agli editori del testo e ad Anne-Violaine Houcke; tutti e tre hanno indicato
l’erotismo winckelmanniano de Il giovine della primavera e io stesso ho voluto
evidenziarlo nel titolo del presente sottoparagrafo. Esiste tuttavia una tensione
disgregatrice, che va in direzione opposta rispetto all’idillio; e non mi riferisco al gusto
modaiolo per l’arcaico (l’Apollo, la Nike, lo stesso efebo proto-classico antichizzato da
Pasolini), diffuso nel primo Novecento e fatto proprio, fra gli altri, anche dal vate
D’Annunzio; c’è naturalmente pure questo, ma è più importante illuminare l’irruzione
del ‘Preistorico’ e della bruttezza (evidentissima già nel montaggio dei versi montiani di
Tersite: «È guercio, zoppo, e di contratta gran gobba al petto; aguzzo il capo e sparso di
raro pelo» 173 ). Oltre all’«esageratissima» statuina steatopigia, razzisticamente
disprezzata da Ducati, occorrono i dettagli degli ani di alcune pecore e della bava d’una
mucca, le inquadrature in figura intera, in primo piano e in dettaglio del vecchio
deforme sosia dell’antieroe omerico e infine la figura intera di una vacca gravida174.
Tali particolari non possono essere trascurati non soltanto perché avranno più illustri
eredi negli anni a venire – il più sbalorditivo è la statuina gastrocefala da Priene –, ma
anche perché già in altre opere precoci, come si vedrà tra breve, accanto a un’immagine
convenzionale della Grecia ci sono il fascino per un arcaismo così estremo da
confondersi con la preistoria e soprattutto l’amore per il quotidiano/reale e per la
“bruttezza” – che per il nostro era un’altra forma della bellezza. In conclusione, senza il
manuale di Ducati non solo il vergine e oppresso studente dell’Alma Mater non avrebbe
potuto trovare un po’ di conoscenza e di appagamento erotici; nemmeno sarebbe
riuscito a farsi un’idea completa del mondo greco-romano – in un’epoca, è bene
precisarlo, in cui non era così facile come oggi conoscere per immagini le civiltà
antiche: sfortunatamente (o fortunatamente) non esistevano reti virtuali e motori di
ricerca, e viaggiare era più difficile. Le due statuine muliebri preistoriche non sono
un’eccezione; il Ducati ha inserito e discusso numerosi altri manufatti ‘anonimi’, di
ogni età, non soltanto le opere più (e meno) celebri dell’arte statuaria e i monumenti: e
non a caso tra le varie opere alternate alla realtà Il giovine della primavera include per

!
172
PASOLINI 2001a, p. 2587. Preciso che dopo essersi alzato e aver abbandonato l’ombra dei gelsi (albero più
friulano che greco antico) il «giovine» guada un fiume.
173
PASOLINI 2001a, p. 2591. Cfr. MONTI 1952, p. 47: «Non venne a Troia di costui più brutto / ceffo, era guercio
e zoppo, e di contratta / gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso / di raro pelo [...]».
174
Vd. PASOLINI 2001a, pp. 2589, 2591-2592, 2597.

! 61
giunta «un vaso greco che rappresenta una corsa di efebi»175: nel manuale non se ne
trova nemmeno uno di corrispondente, ma importa poco perché ve ne sono molti altri,
famosi e non; ciò che importa è che Pasolini abbia voluto lasciarlo adespoto.

0.3. Due maestri ex libris

Non meno influenti dei professori conosciuti di persona due maestri ancora più
eterodossi: Konstandinos Kavafis, guida taciturna, oracolare, più che vero e proprio
modello per la società letteraria a lui coeva176, eppure eletto dal nostro a compagno del
Ducati, cioè a una sorta di gallerista di amenità statuarie 177 ; e Giovanni Pascoli,
professore a tutti gli effetti, con all’attivo tre libri scolastici che esercitarono
un’influenza sulle generazioni di poco precedenti quella di Pasolini ma, specie nel
campo dell’antichistica, mal tollerato178.

0.3.1. Pascoli e gli «antichissimi oggetti greci»

Nell’introduzione all’edizione oggi canonica dei Poemi conviviali Giuseppe Nava


non mancò di cogliere un dettaglio passato inosservato alla critica: che la poetica del
«particolare», sulla quale l’autore dell’Antologia della lirica pascoliana si soffermò a
più riprese fin dalle primissime righe, ne influenzò così in profondità l’immaginario da
condizionare molto più tardi anche i film Edipo re e Medea179; l’osservazione è acuta e
merita un’elaborazione meno cursoria, prima però urge una premessa.

!
175
PASOLINI 2001a, p. 2594.
176
Per primi lo ricordarono i poeti che ebbero la fortuna di incontrarlo, come Filippo Tommaso Marinetti (in un
elzeviro pubblicato sulla Gazzetta del Popolo del 2 maggio 1930, poi scisso in due capitoli ne Il fascino dell’Egitto:
A passeggio con mia madre sulla spiaggia del Porto Antico e Il poeta greco-egiziano Cavafy; vd. e.g. MARINETTI
1981, p. 98 [corsivo mio]: «L’altro [braccio del Porto Antico] spinge nell’alto mare il Forte Kaid Bey, vecchia
costruzione biancastra e fragile, che, certo, l’occhio visionario di Cavafy non vede, poiché si rizza al suo posto
l’antico faro meraviglia del mondo») e, soprattutto, Giuseppe Ungaretti: sia nel celebre Ricordo di Cavafis del 1950
(«Ogni sera, al tavolo d’una latteria del Boulevard di Ramleh, [...] si sedeva insieme ai miei coetanei che redigevano
la rivista Grammata [...]. Cavafis appariva assorto e sentenzioso [...]. A volte, nella conversazione lasciava cadere un
suo motto pungente, e la nostra Alessandria assonnata allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non
vidi mai più nulla risplendere» [UNGARETTI 1956, p. 5]) sia in Cavafy, ultimo alessandrino del 1957 («Mi furono
d’insegnamento ineguagliabile le conversazioni con lui» [UNGARETTI 1974, p. 666]). Maestro – ma senza scuola – lo
è diventato dopo la tetralogia di Durrell.
177
Questa archaiologia dovrebbe dimostrare, fra le altre cose, che Pasolini e Kavafis ebbero in comune anche la
passione per i volumi di arte antica nonostante il poeta italiano li abbia letti e sfogliati solo per un breve arco
temporale (quello, appunto, della formazione, nonché della precoce intuizione del genio poetico di Kavafis). Cfr.
infra, sottopar. 0.3.2.
178
Cfr. BELPONER 2010, pp. 105-116.
179
«Pur senza sottovalutare il rapporto con l’io profondo del poeta, sempre attivo nel caso di Pascoli, ci sembra
invece che il suo interesse per il mito costituisca un dato culturale e non solo soggettivo, come ben videro due critici
per opposte vie interessati a quella questione: il Pasolini della tesi di laurea [...]. Osserva il Pasolini a proposito
dell’incipit de L’etèra: ‹Ma nulla ci impedisce di essere presi da quella suggestione arcana e indicibile che al poeta e
a noi proviene dalla vista degli antichissimi oggetti greci (più ancora che dai capolavori dell’arte) come anfore,
utensili, steli›. Siamo ricondotti, per altra via, al ‹sapore di vita vissuta› di cui parlava Serra nel suo saggio del primo
decennio del Novecento; e Pasolini se ne ricorderà nei suoi film sulla Grecia antica, da Edipo re a Medea» (PASCOLI
2008, p. xi). Preciso che il saggio alluso da Nava è Intorno al modo di leggere i Greci (1910-1911).

! 62
Fino a oggi la scelta pasoliniana di iniziare la tesi dai Conviviali e di dare a questi
un’attenzione considerevole, quasi pari a quella prestata alle Myricae e ai Canti di
Castelvecchio, è parsa sorprendente180; sorpresa legittima alla luce della minore fortuna
(in Italia) del Pascoli “greco”, oggi come allora. Tuttavia tale stupore è pure una spia
dell’incompletezza delle ricerche: già sappiamo dall’introduzione che manca uno studio
comparato fra il Pasolini poeta – specie nel senso più convenzionale del termine – e i
poeti classici; e se il prossimo capitolo suggerisce che fra le letture del nostro la lirica
greca giocò un ruolo determinante seppur non prioritario, il presente sottoparagrafo
intende segnalare che Pascoli ebbe una funzione mediatrice di rilievo in questa specifica
eredità. Il magistero del poeta ‘fraterno’181 non si coglie solo nei versi più noti182,
emerge anzi con maggiore nitore e risalto da un testo senza dubbio «marginale»183 come
è l’Antologia ma a mio giudizio non ancora studiato a sufficienza; per ovvie ragioni di
sintesi qui non è possibile entrare in tutti i dettagli della questione, spero però che
quanto segue, unitamente al resto, basti per dimostrare che l’incipit da L’etera e
l’apprezzamento per il Pascoli conviviale non dovrebbero più sorprenderci.
Riprendo il filo dell’intuizione di Nava aggiungendo qualche chiarimento preventivo
sulla tesi. La poetica del «particolare» è evidenziata fin dalle prime righe del lungo
saggio introduttivo e già questo è segno del notevole valore attribuitole dal giovane
interprete; valore confermato nell’appendice all’Introduzione, là dove Pasolini annovera
la scoperta di tale poetica tra i contributi di originalità e di merito dell’Antologia184.
Provo a riassumerla in poche righe. Il criterio di base che orienta l’antologista è la
distinzione, entro l’orizzonte di un’opera esclusivamente «minore», fra «poesia e non
poesia»; cioè, anche a costo di presentare di frequente solo brevi excerpta, il nostro
seleziona e commenta i soli momenti di poesia «pura»: quei componimenti o quei versi
in cui Pascoli è riuscito ad affrancarsi dalle proprie eccezionali ma narcisistiche doti
tecniche e a esprimere, istintivamente, la realtà. Detto in altri termini, secondo Pasolini
Pascoli è sia prigioniero del proprio mondo interiore – una psiche piena di inquietudini
che riversa sulla poesia un ‘vuoto morale’ –, sia è gravato da uno sterminato e sincero
ma inconcludente amore per la tradizione (classica e non solo); riesce a rasentare grandi
poeti lirici quali Saffo e Leopardi solo quando è rapito e liberato dal dio, cioè quando
una illuminazione momentanea gli fa attingere la realtà, isolandola in un oggetto o in
una situazione concreta che in tutta la sua poeticità pare «abnorme», «sproporzionata»
rispetto all’insieme: dettagli che risaltano nitidi da un fondo opaco di «non poesia» o
«poesia minore»185. Come ricordano la citazione di Nava riportata in nota e i curatori
dell’edizione postuma della tesi, l’idea deriva da alcune riflessioni di Renato Serra, che
con Pasolini condivideva – ancorché in altre forme – un odio-amore per Pascoli; Serra è
!
180
Cfr. PASOLINI 1993, p. xviii. !
181
Vd. PASOLINI 1993, p. 219.
182
Cfr. il commento perpetuo di Antonia Arveda a La meglio gioventù, cioè PASOLINI 1998a, e CADEL 2002, pp.
15-58.
183
BAZZOCCHI 1998a, p. 25.
184
Cfr. PASOLINI 1993, p. 107.
185
Per un compendio più analitico del mio cfr. DE FRANCESCHI 1990, pp. 93-94.

! 63
citato più volte nella tesi, perciò è indubbio che l’antologista ricavò quel criterio
selettivo da una lettura tanto viscerale quanto però informata 186 . E, per quanto
discutibile e senza eredi, l’individuazione di questi «frammenti» di poesia correlati a
oggetti o situazioni fu così intensa da porre radici non soltanto nella produzione artistica
coeva alla tesi, bensì, come ha segnalato Marco Antonio Bazzocchi, anche in quella
cinematografica (complessiva):

La densità figurativa contenuta in questo brano [scil. la prosa giovanile Un mio sogno],
così come nella tesi su Pascoli, è collegata ad una lettura visiva che privilegia i frammenti
del reale e ad un principio di deformazione manieristica nel rapporto col reale. Tale
principio di deformazione verrà chiamato «sacralità» nel cinema degli anni Sessanta.
«Allucinato, infantile amore per la realtà» è un’espressione che viene da un’intervista di
questi anni187.

Aggiungo che la «densità figurativa» dell’Antologia doveva di certo dipendere pure


dagli appunti per la tesi di storia dell’arte perduti a Pisa: se l’occhio selezionatore di
Pasolini va a convergere con lo sguardo invasato di Pascoli notato da Serra («fisso negli
oggetti, che la fantasia calda come di fanciullo gli offre pieni e sensibili»188), ciò accade
in virtù di una spiccata sensibilità visiva che non portò il nostro “solo” a fare e
teorizzare il cinema ma già negli anni di formazione lo aveva persino sollecitato a
studiare storia dell’arte e – cosa meno nota – a dipingere e a disegnare (pubblicandone
anche qualche esito in rivista).
Queste poche righe dovrebbero aver chiarito che l’osservazione di Nava coglie in
realtà solo un aspetto di un fenomeno assai più vasto e prolifico, che travalica i film
“greci” e tocca il cuore della stessa poetica pasoliniana: il collimare del suo sguardo
«allucinato, infantile» con quello del ‘fanciullino’ di San Mauro; e che il “realismo”
onirico-espressionista di tante opere pasoliniane serpeggi già fra le pagine della tesi è
una ulteriore prova che nell’Antologia «Pascoli diviene una sorta di controfigura»189.
Questa dunque la cornice entro cui va collocata la nota di Nava. Sulla questione ci
sarebbe molto altro da dire – ed è la ragione per cui lamentavo l’esiguità degli studi
sulla tesi pasoliniana –, ma devo limitarmi a Edipo re e Medea scendendo finalmente
nel concreto delle pagine che il nostro ha dedicato a un tema analogo a quello della mia
tesi: Pascoli e l’antico.
Si è visto che l’apprezzamento per i Poemi conviviali avviene nel quadro di una
valutazione eccentrica e tutt’altro che elogiativa190; a ciò si aggiunga che secondo un
modo critico e poetico tipico di Pasolini la lirica pascoliana è interpretata come una

!
186
Cfr. PASOLINI 1993, p. xviii e, a monte, SERRA 1958a, pp. 1-47.
187
BAZZOCCHI 1998a, p. 34.
188
SERRA 1958a, p. 3 (corsivo mio). Il legame tra fanciullezza e fissità maniacale è derivato al Serra dalle pagine
del Fanciullino: qui, al sesto capitolo, è ricordato il celebre passo platonico sulla mania poetica (Phaedr. 245a),
alluso anche da Pasolini nella seconda parte dell’Introduzione (cfr. PASOLINI 1999a, p. 91).
189
PASOLINI 1993, p. xxv.
190
Fu il relatore Calcaterra a spronare il giovane a seguire il proprio istinto di poeta fratello.

! 64
poesia in incessante ‘antinomia’ fra lexis romanza e classica191, e che su Officina
(1955), nel famoso saggio disceso dalla tesi192, il poeta aggiornò l’idea di dieci anni
prima parlando di compresenza di «sperimentalismo» (il polo romanzo) e di
«ossessione» (il polo classico)193: ancora una volta si spinse ben al di là del mero dato
linguistico cercando anzi di illuminare il fondo psicologico della lirica pascoliana, ma a
questo punto introducendo un termine-chiave vieppiù rivelatore della propria poesia e
del proprio immaginario classico. Sul termine ‘ossessione’ tornerò nei capitoli
successivi194, qui basta segnalare un elemento di rottura rispetto alla tesi del ’45; il
termine implica un processo di evidente regressione: comprensibile perché in Pascoli
Pasolini valutò la lirica di Zvanì quale poesia antesignana di tante tecniche e
caratteristiche del novecentismo e pertanto arretrò fin quasi all’irrilevanza quel polo
classico che – lo vedremo tra breve – accese invece tanti entusiasmi in un giovane
ancora fresco degli studi con i sullodati maestri. In altre parole: negli anni ’50 Pasolini
si è ormai volto in direzione di un affrancamento dai modelli decadenti e di una poesia
sperimentale, apertamente politica e meno modellata sui classici antichi – furono gli
anni ’40 e ’60 i decenni più ricchi di letture greco-latine 195 –, perciò non deve
sorprendere che sia liquidata come monotona fissità una componente «sublime»196 che
dieci anni prima si era meritata valutazioni talvolta fin troppo entusiastiche e,
soprattutto, era giudicata ‘inscindibile’ dalla poesia pura. Rievocare questo scarto è
l’ultimo tassello della cornice; consente di riconoscere già, e contrario, il primo stadio
del classicismo pasoliniano (oggetto della prima parte della mia tesi): un classicismo
che pur provvisto di elementi peculiari include anche aspetti convenzionali come
l’enfasi per l’antichità e il presunto equilibrio dei classici. Vediamo dunque in anticipo
alcuni caratteri di questa prima fase; sempre, beninteso, ricavandoli in filigrana
dall’Antologia.
Mentre l’«ossessione» del ’55 rende patologico e improduttivo l’originario «furor
poeticus»197 dell’occhio pascoliano «fisso negli oggetti» e la tradizione classica ne esce
così sovvertita sia nel rispetto della svolta personale di Pasolini sia in sintonia con le

!
191
Vd. PASOLINI 1993, p. 24, che enfatizza l’idea della compresenza di due opposti registri linguistici, già
assodata dalla critica, riconfigurandola come un’antinomia costitutiva, onnipresente, non isolabile in due tempi (il
tempo delle Myricae e quello dei Conviviali).
192
Pascoli, uscito sul primo numero di Officina (maggio 1955), fu riedito all’inizio della seconda parte di
Passione e ideologia (1960). Sul secondo numero della nuova serie di Convivium (1947) Pasolini aveva già
pubblicato un saggio che rielaborava alcune idee della tesi (Pascoli e Montale), ma lì il classicismo pascoliano era
completamente tralasciato. Vd. PASOLINI 1999a, pp. 997-1006, 271-281.
193
PASOLINI 1999a, p. 1000.
194
Vd. infra, capp. 3 e 4.
195
Vd. supra, Introduzione.
196
È parola leopardiana, da un passo dello Zibaldone citato nella prima parte della tesi (PASOLINI 1993, p. 31);
ma le fanno eco aggettivi come «marmoreo», «dolce» (PASOLINI 1993, p. 173) e anche il più esplicito e iterato
«bello» (PASOLINI 1999a, p. 102), o sostantivi quali «purezza», «candore» (PASOLINI 1999a, p. 102), e intere
valutazioni come a esempio quella sul classicismo romantico tommaseiano, accostato a quello di Pascoli: «Resta il
miracolo del loro linguaggio, che per modelli aveva sempre, e malgrado tutto, i classici latini [...]; in quella
aggettivazione dei Romani così asciutta, in quella loro architettata sintassi, nel suono del loro periodo (Leopardi)»
(miei solo i primi due corsivi).
197
PASOLINI 1999a, pp. 91, 102.

! 65
poetiche novecentesche, l’idea della lingua «marmorea» – connotato costitutivo del
Pascoli conviviale e nella tesi e su Officina – implica uno stereotipo di moderazione
decisivo: ma uno stereotipo che legandosi al nucleo più originale dell’Antologia
contiene allo stesso tempo un implicito di novità. Da un lato la metafora del marmo
rimanda al volume e al lucore plastico, a quegli idoli erotici evocati nel sottoparagrafo
precedente, dall’altro essa si lega al concetto di selezione e di controllo alla base della
supposta poesia pura; cioè Pascoli si avvicinerebbe ai grandi lirici non solo per merito
di un dio, ossia, fuor di metafora, grazie a una istintiva e frammentaria comunione con il
mondo reale, ma anche grazie all’aposiopesi: o, meglio, a un processo di sfrondamento
della sua sterminata erudizione associato simbolicamente all’atto scultoreo «per forza di
levare» – come suggerisce il commento al Sileno; e, più a monte, come aveva teorizzato
il Michelangelo scultore e poeta. Dunque, al fondo della poetica del particolare c’è una
doppia densità figurativa: oltre a quella visivo-cinematografica suggerita da Nava e
Bazzocchi, pure quella plastica – che presuppone il venerato manuale di Ducati. Il
miracoloso sprigionamento di Sileno dalle cave di Paros indicherebbe,
allegoreticamente, che il non-detto coopera con l’istinto alla fulminea liberazione di
Pascoli dalla prigionia della tecnica poetica e dell’enciclopedismo. Nei commenti ai
Conviviali termini come «riassunto», «stringatezza», «rinuncia» e analoghi198 ricorrono
più che altrove perché lì a differenza che nelle altre raccolte il contatto con la realtà si
cristallizzerebbe in dettagli che sono sempre e solo riconducibili a una straordinaria
conoscenza della letteratura; pare che la regola aurea della poesia pascoliana sia sempre
less is more, però il giovane studente, conscio dell’enormità del classicismo pascoliano,
la ribadisce in particolar modo in riferimento ai Conviviali. Ecco, in conclusione, che
«oggetti antichissimi» come la lucerna o gli auloi de L’etera, la focaccia apotropaica di
Psyche o persino l’Apollo Sauroctono del Fanum Apollinis (unico dei Carmina a essere
discusso) non costituiscono soltanto una sorta di fotogrammi precursori di quelli che in
Edipo re mostrano le corone turrite di Polibo, Laio ed Edipo o il petasos dell’eroe e di
Creonte199, ma per giunta una specie di fotografie paragonabili a quelle de L’arte
classica di Ducati: una fototeca letteraria che implica la stasi della venerazione, ma che
in considerazione della nota contro i «capolavori» ricordata da Nava sembra voler
sprigionare anche l’effetto di xenon dinanzi a un mondo antropologicamente diverso dal
contemporaneo, come per l’appunto farà l’apparato costumistico dei film “greci” – in
sinergia, beninteso, con scenografie, set, musiche e ‘silenzi’ verbali – o per esempio, al
di là di quelle due pellicole, la ripresa delle mura ortane e del selciato di un viottolo
circostante contenuta nel documentario Pasolini... e la “forma della città” (1974)200.
!
198
Vd. PASOLINI 1993, pp. 167-169.
199
Va precisato che la corona turrita, a differenza del petaso, non si conforma a puntino all’iconografia classica:
sia per ottenere un maggiore risalto visivo sia per enfatizzare il senso di allotopia e persino di barbarie connessa al
mito greco, il regista ha optato per l’iconografia vicino-orientale, assira nella fattispecie. Questa scelta risulta ancora
più evidente nel film Medea: nella sequenza del ritorno argonautico a Iolco, girata fra gli studi romani e i dintorni di
Aleppo, accanto a Pelia fa capolino la stele di Hammurabi.
200
Il documentario andò in onda sul secondo canale il 7 febbraio 1974 all’interno del programma televisivo di
Anna Zanoli Io e...: una trasmissione durante la quale a svariati intellettuali dell’epoca si chiedeva di parlare con
!

! 66
L’autore dell’Antologia è un giovane ancora in formazione benché abbia già intrapreso
ambiziosamente più di una via artistico-letteraria, pertanto non deve stupire che la tesi
contenga delle contraddizioni: come, nella prima parte dell’Introduzione, l’estrema
enfasi su una statua prassitelica; e nei commenti il deciso apprezzamento per un poema
(Sileno) che ha per fonti figurative «i grandi capolavori dell’arte greca» accantonati
invece in incipit di tesi. Nel Pasolini del ’45 si scontrano stereotipi della classicità e
nuove intuizioni, assai fertili negli anni a venire; e la più importante è senza dubbio
quella ricordata da Nava, ossia il classico come ‘Preistoria’ («antichissimi oggetti»), il
classico apprezzato non solo quale polarità inscindibile di una mixis di lingua culta e
popolare ma già, e in forma più che abbozzata, quale dato antropologico-culturale. Se
ciò appare conforme allo Zeitgeist – penso a Frazer, Freud, Nietzsche e, sul fronte
italiano disprezzato da Serra201, a Giuseppe Fraccaroli, Emilio Cecchi e allo stesso
Pascoli – il Pasolini degli anni ’60 e ’70 sarà uno tra i pochi letterati a ribadire
incessantemente questa lettura, inglobandola nel pieno della sua riflessione poetico-
filosofica.
L’ultima aggiunta alle valutazioni di Nava e Bazzocchi trova conforto sia in una
breve nota del saggio introduttivo (la n° 4 alla Prima parte, dove è citato il volume
dell’etruscologo bolognese in relazione all’arte ‘realistica’ di Prassitele 202 ) sia,
soprattutto, nella nota di commento al Sileno, forse il poema conviviale più ammirato da
Pasolini. «La cosa più originale del poema è quel ‹riassunto› di statue, che è un’idea
poetica bellissima, tutta moderna, e realizzata con pazienza e interno splendore»203.
Così si chiude il giudizio del poemetto, uno tra i pochi sprovvisti di valutazioni
negative; l’antologista si riferisce alle ultime tre lasse, che contengono una teoria di
marmi greci profetizzata da Sileno al «fanciullo» Skopas, dai celebri modelli di Mirone,
Policleto e Fidia fino alle innovative opere attribuite allo scultore di Paro: l’Afrodite di

!
parole semplici della loro opera d’arte preferita; e Pasolini, memore della sequenza-excursus de Le mura di Sana’a
(1971), scelse l’arte anonima di Orte. Poiché questo documentario-intervista, curato da Paolo Brunatto, è poco noto,
per comodità trascrivo la colonna dialogo della sequenza dedicata a Orte: «Questa strada per cui camminiamo, con
questo selciato sconnesso e antico, non è niente, non è quasi niente, è un’umile cosa... Non non si può nemmeno
confrontare con certe opere d’arte d’autore, stupende, della tradizione italiana, eppure io penso che questa stradina,
dal niente, così umile, sia da difendere con lo stesso accanimento, con la stessa buona volontà, con la stessa... con lo
stesso rigore con cui si difende un’opera d’arte di un grande autore. Esattamente come... si deve difendere il
patrimonio della poesia popolare anonima... come la poesia d’autore, come la poesia di Petrarca o di Dante eccetera
eccetera. E così il punto dove porta questa strada, quell’antica porta della città di Orte, anche questa non è quasi
nulla: vedi, son delle mura semplici, dei bastioni... dal colore, così, grigio... che in realtà nessuno si batterebbe con
rigore, con rabbia, per difendere questa cosa... e io ho scelto invece proprio di difendere questo. Quando dico che ho
scelto come oggetto di questa trasmissione la forma di una città, la struttura di una città, il profilo di una città, voglio
proprio dire questo: voglio difendere qualcosa che non è... che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno
difende... che è opera, diciamo così, del popolo, di una intera storia, dell’intera storia del popolo di una città... di
un’infinità di uomini senza nome, che però hanno hanno lavorato all’interno di un’epoca che poi ha prodotto i frutti
più estremi, più assoluti, nelle opere d’arte d’autore. Ed è questo che non è sentito, perché chiunque, con chiunque tu
parli... è immediatamente d’accordo con te nel dover difendere un’opera d’arte di un autore: un monumento, una
chiesa, la facciata della chiesa, un campanile, un ponte... un rudere... il cui valore storico è ormai assodato, ma
nessuno si rende conto che invece quello che va difeso è proprio questo anonimo, questo passato anonimo, questo
passato senza nome, questo passato popolare».
201
Alludo alle celebri pagine di Intorno al modo di leggere i Greci.
202
Vd. PASOLINI 1993, pp. 46-47.
203
PASOLINI 1993, p. 169.

! 67
Capua/di Milo204, i perduti gruppi dei Niobidi (traslato nel tempio di Apollo in Circo) e
di Achille e Teti con Poseidon, Nereidi e Tritoni (dal vicino tempio di Nettuno) e infine
la Centauromachia del Mausoleo di Alicarnasso 205 , intrecciata però a un corteo
dionisiaco: aggiunta pascoliana che è anzitutto ekphrasis letteraria, di derivazione
tragica (EUR. Ba., vv. 64-169), ma che non può non alludere anche alla più celebre
scultura scopadea, nota dalla copia (ridotta) della Menade di Dresda206. Il commento è
stringato ed esoterico, perciò conviene guardare all’unica parte della tesi dove Pasolini
si profonde, ossia l’Introduzione. Qui, subito dopo la lunga analisi de L’etera, il nostro
considera il Fanum Apollinis interpretandolo in modo falsato ma conforme alla poetica
del particolare: l’oggetto attorno a cui ruota il poemetto non è più l’intero tempio, bensì
il solo simulacro prassitelico custodito nella cella, giudicato quale fonte primigenia del
carme: «Ecco l’Apollino Saurottono sottile immagine di marmo, da cui sgorga un carme
latino: At cellae in medio, tacito velut immemor aevi / arboris aerebat trunco modo
puber Apollo [vv. 8-9]»207. Il Fanum Apollinis non è incluso nell’antologia, immagino
perché linguisticamente estraneo al resto della raccolta; nell’Introduzione sono riportate
in compenso alcune citazioni lunghe, isolate dal corpo del testo, nella maggior parte
relative alla statua (oltre a quelli appena trascritti, i vv. 15-18, 93-95, 171-172, 156-158,
199-206), e in più è trattato il nucleo tematico del carme (la fine del mondo antico e la
sua palingenesi): tuttavia in modo cursorio e improprio perché come rivelano le stesse
citazioni Pasolini è interessato a ben altro208, ossia perché non ha posto in realtà su un
piedistallo critico la mera statua ma la giovinezza estrema del dio: modo puber,
juvenalis, puero, pubescere videtur, puer; ogni citazione evoca l’efebia. Non è un caso
che lo presenti subito come «Apollino» e più tardi lo ricordi come «piccolo Apollo»209;
e, soprattutto, che elenchi ed isoli lui stesso nel corso dell’analisi alcune parole della
giovinezza e dell’eros: «puero, rosea, pubescere, corpus...»210. Appassionato lettore di

!
204
Naturalmente si tratta di attribuzioni oggi superate, ma segnalo che nel volume di Ducati la Venere di Milo
non è attribuita a nessuna mano precisa – come nell’odierna critica –, invece la Venere di Capua proprio a Skopas –
mentre oggi il bronzo ellenistico all’origine del marmo adrianeo (nonché della Venere di Milo) è tendenzialmente
riferito alla cerchia di Lisippo: cfr. DUCATI 1939, pp. 402, 504-505; per la critica moderna vd. invece HAVELOCK
2007, pp. 93-98 e BOARDMAN 2010, pp. 191-192.
205
Tutte le attribuzioni dipendono dal trentaseiesimo libro della Naturalis Historia pliniana, le cui righe sul
Sileno di Paro sono la prima fonte del poemetto. Segnalo che del gruppo marino sembrano sopravvissuti, in originale,
solo l’Achille Ludovisi e il Tritone Grimani e, in copia, una Nereide (del ninfeo vicino al teatro di Ostia); e che nel
caso di quello rappresentante la strage dei Niobidi lo stesso Plinio dichiarava incertezze di paternità: Par haesitatio
est in templo Apollinis Sosiani, Niobae liberos morientes Scopas an Praxiteles fecerit (Nat. 36. 28). Cfr. CALCANI
2009, pp. 8-9, 72-81, 132-133.
206
La cosa è passata del tutto inosservata nei commenti perpetui, compreso quello di Nava, che si sono limitati a
richiamare le Baccanti euripidee.!
207
PASOLINI 1993, p. 16.
208
Come esempio di disattenzione mi limito a segnalare il passo in cui il laureando riconosce a Pascoli una rara
originalità di pensiero riferendosi però a dei versi smaccatamente allusivi: ad Act. Ap. 17. 22-25 (celebre discorso
paolino sicuramente noto a Pasolini) e PRUD. Symm. 1. 325-327: «Gran parte dei pensieri pascoliani sull’esistenza e il
tono particolare con cui egli generalmente si esprime, si adunano, e mai con tanta serenità e lontananza, come in
queste parole di Erone; [segue la citazione dei vv. 199-206]. Qui possiamo veramente credere in un cristianesimo del
Pascoli» (PASOLINI 1993, p. 19). Se avesse letto con maggior cura il carme latino avrebbe compreso che Pascoli è più
‘pagano’ di quanto si pensi (cfr. PIANEZZOLA 1973, pp. 39-40).
209
PASOLINI 1993, p. 169.
210
PASOLINI 1993, p. 17.

! 68
oscenità luciliane e dei nudi greco-romani del Ducati, l’autore dell’Antologia sembra
aver dimenticato le simbologie connesse alla statua, dal semplice legame con la figura
di Cristo a quello con il capretto portato in sacrificio; e così l’idolo pascoliano viene
caricato di un valore erotico marcato ed estraneo: estraneo perché la freschezza
innegabile del latino dipende dalla sola precisione con cui Pascoli ha condotto la sua
ekphrasis prassitelica. E quando il nostro scrive che «la poesia resta lì in quel
particolare sproporzionato, in quell’idolino»211, Apollo ormai si confonde con i molti
«frutíns» delle liriche friulane, con l’Adone «tenerut» della Saffo casarsese, con i
Nisiuti e gli Iasis delle prose: del resto, la scrivania del laureando ospita molte altre
carte; gli incroci con la tesi sono continui! Va detto che in numerosi altri passi della tesi
si coglie un analogo impressionismo, però ho voluto citare proprio il caso del Fanum
Apollinis perché è il più appariscente e rivelatore: evidenzio ora l’ultima imprecisione
delle pagine sul carme latino per chiarire ulteriormente sia l’enfasi sanguigna con cui
Pasolini si approccia all’antico sia il fondo del suo immaginario classico. Poche righe
dopo aver citato in nota alcuni brani del commento di Ducati all’Apollo Sauroctono di
Prassitele, chiosa: «ecco l’ineffabile gioia che assale alla vista o al pensiero di qualche
antichissimo simulacro di marmo, specie se di piccolissime proporzioni e di artefice
ignoto», e riporta i vv. 15-18212. Questo passo così incongruo sembra ribadire che
malgrado il grande amore per i corpi statuari la vera predilezione riguarda le opere di
artigianato, le opere ‘anonime’: l’impiccolimento del simulacro prassitelico e la sua
quasi trasformazione in oggetto potrebbero parere risibili, ma un occhio sereno le
riconosce anzi consentanee alle parole con cui poche pagine innanzi il laureando
elogiava il primo «particolare» della «pura» poesia pascoliana (la lucerna di Myrrhine);
ricorrono le stesse idee di anonimato – che alla luce della menzionata intervista ortana
appaiono meno peregrine – e di passato più che remoto: arcaico o finanche preistorico.
Possiamo ormai dare per assodato che la simpatia per il Pascoli ekphrastes non sorge
solo da un profondo interesse per l’arte antica ma – più immediatamente – da una
fascinazione erotica: pulsione che uno sguardo sinottico ai Conviviali selezionati
nell’Antologia individua anche nelle pagine relative al Sileno. Prima però di affrontarle
ritengo opportuno puntualizzare che l’apprezzamento per ‘tutte’ le espressioni
‘materiali’ del mondo classico (dagli «utensili» ai «capolavori»), anche a prescindere
dal caso pascoliano in oggetto, dipende dalla lettura dilettantesca del manuale di Ducati:
dilettantesca in senso proprio perché all’Università di Bologna Pasolini non seguì i corsi
di archeologia classica. Se cioè l’autore dell’Antologia mostra un particolare occhio di
riguardo per dettagli secondari – secondari alla luce delle dinamiche testuali pascoliane
–, ciò è dovuto anzitutto a L’arte classica: opera curata non da uno storico dell’arte
antica bensì da un archeologo ed etruscologo e perciò corredata di numerose fotografie
e disegni di realia accanto a quelle dei capolavori plastici e figurativi. Beninteso, la
panopsia di Pasolini deve sicuramente qualcosa a Zvanì perché è innegabile che il poeta
!
211
PASOLINI 1993, p. 17.
212
PASOLINI 1993, p. 16: corsivo mio, per evidenziarne il furor.

! 69
di San Mauro descrive il mondo classico perfino nei suoi aspetti più umili e materiali
quali «anfore, utensili, steli», però l’autore della tesi ha potuto cogliere appieno quei
dettagli perché già in precedenza, grazie a un manuale ragguardevole (e pure ad
antichisti a tutto tondo come Gallavotti e Coppola), godeva di una cultura classica non
comune. D’altronde, come ho appena suggerito, il Sileno stesso esemplifica bene la
profondità dell’immaginazione pascoliana. La prima lassa rielabora la «notiziola di
Plinio»213 (Nat. 36. 14), ma non si limita a rievocare la miracolosa epifania marmorea;
anzi, con la sintesi giustamente notata da Pasolini, Pascoli tratteggia il duro, quotidiano
lavoro nelle cave di Paros: non sono versi paragonabili a quelli con cui l’autore de Le
ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo e Poesia in forma di rosa canterà i
cantieri romani e centro-settentrionali, eppure non mancano «azioni nude», parole
«schiette»214, addirittura crude. Chi ha in mano gli «utensili» tanto cari all’antologista
(il «maglio» [vv. 7, 26], le «lime», i «trapani» [v. 8], i «cunei» [v. 25], la «bietta» [v.
27] e i «martelli» [v. 46]215) è ripetutamente nominato per quello che è, senza il minimo
eufemismo: mentre gli «oggetti» sono accompagnati spesso da epiteti esornativi
(allusivi a svariati testi classici), gli operai sono chiamati «per mezzo del loro puro e
semplice nome»216 di «schiavi» (vv. 9, 17, 24, 46)217; e gli unici attributi concorrono
proprio a descriverne la condizione sub-umana («ignudi» [vv. 17, 23] e «ululanti» [v.
24] come cani)218. Nella nota di commento al poemetto Pasolini non dice qual è il
particolare deformante da cui scaturirebbe la poesia del Sileno, ma è possibile
individuarlo nella statua del dio sia perché è questa all’origine dei versi più apprezzati
(«il riassunto di statue») sia perché è accostata a quella dell’«Apollino» («ricorda un
poco il simulacro del piccolo Apollo del poema latino»219). All’inclusione dell’intero
Sileno nell’antologia e al suo apprezzamento «senza riserve»220 contribuirono di certo le
previsioni di Skopas e la realistica descrizione delle cave pariote; grazie però alla
considerazione sinottica che annunciavo poc’anzi può essere aggiunto agli elementi di
poesia «pura» lo stesso personaggio di Skopas, definito in perfetto accordo con il testo
pascoliano prima «fanciullo» e poi «giovinetto»221: tanta precisione significa che la
tenera età di Skopas, come quella del «piccolo Apollo», dell’Esiodo de Il poeta degli
iloti o di Narciso, Croco e Giacinto de I gemelli, deve aver acceso il desiderio erotico di

!
213
PASOLINI 1993, p. 169.
214
PASOLINI 1993, p. 5.
215
PASCOLI 2008, pp. 242-243, 245.
216
PASOLINI 1993, p. 5.
217
PASCOLI 2008, pp. 242-243, 245.
218
Vd. PASCOLI 2008, pp. 242-243. Sono detti in realtà anche «Paflàgoni» (v. 18), ma non è un gratuito sfoggio
di erudizione perché, nella pausa dell’ora notturna (l’ora in cui Skopas ha deciso di ritornare alla cava e interrogare il
simulacro), sognano con nostalgia la loro terra («sognano fiumi barbari» [v. 10]).
219
PASOLINI 1993, p. 169.
220
PASOLINI 1993, p. 6.
221
«C’è una stringatezza nel racconto (il fanciullo Scopas che va a contemplare il simulacro di Sileno sorto
miracolosamente nel marmo, secondo una notiziola di Plinio), che sconfina senza sbilanciarsi in divertissements
fantastici. [...] Ma ecco l’immagine di Sileno in quella sua solitudine ambigua e in quel suo riso rivolto altrove, che fa
esclamare al giovinetto: [...]» (PASOLINI 1993, p. 169). Vd. PASCOLI 2008, pp. 242, 245: «Sono un fanciullo [...] Il
giovinetto gli sedea di contro / sopra un macigno, con al vento i bruni / riccioli» (vv. 13, 47-49).

! 70
Pasolini. Le note agli altri due poemetti sono molto succinte e non insistono sui
rispettivi fanciulli come invece facevano le pagine dell’Introduzione dedicate al Fanum
Apollinis, tuttavia non può essere una coincidenza fortuita che siano stati selezionati, nel
caso de I gemelli, proprio i versi che ospitano un breve catalogo di giovinetti (vv. 99-
108), e nel caso de Il poeta degli iloti l’unico passo in cui l’età infantile ha un ruolo di
preminenza: sembra davvero che la purezza poetica pascoliana dipenda anche dalla
presenza di ragazzini. Chi non ne fosse ancora persuaso consideri che figure di fanciulli
compaiono persino nei Brevi chiarimenti sui testi di poesia: inseriti fra il saggio
introduttivo e l’antologia commentata l’autore li considerava una sorta di appendice,
atta a riunire i frustuli di poesia ancora più frammentari rispetto a quelli inclusi
nell’antologia tout court; lì il poema conviviale più rappresentato è La civetta, che
racconta la morte di Socrate ma dalla prospettiva eccentrica di una banda di pischelli
appostati sopra il carcere di Atene. Anche qui Pasolini glissa, addirittura non li nomina
nemmeno e pone anzi l’attenzione sulle notazioni paesistiche di ascendenza leopardiana
– e vede bene! –, però in entrambe le citazioni (vv. 4-16, 124-138) Gryllo, Hyllo,
Coccalo e Cottalo non mancano, né mancano gli «altri fanciulli, / figli d’arcieri sciti,
figli di metèci» (vv. 51-52)222: tutti colti con quel realismo e quella nudità di parole
tanto cari all’interprete; e di questi figli poveri di un’Atene tutt’altro che idillica223,
punteggiata di «deformi catapecchie al piede / di bigie rocce dalle strie giallastre» (vv.
6-7) e «tuguri» (v. 51)224, il nostro si ricorderà molti anni più tardi225. Aggiungo soltanto
che sono ricci i capelli di Gryllo, Hyllo e gli altri («i ricciuti capi dei fanciulli» [v.
129]226) proprio come la chioma di Skopas («i bruni / riccioli» dei vv. 48-49 del Sileno)
e il crine di tanti ragazzini pasoliniani, da Cenci di Rissòt di amòur al Ricetto di Ragazzi
di vita e Ninetto Davoli. Ma a parte i raffronti con gli altri brani antologizzati conviene
prestare attenzione alle stesse parole di commento al Sileno: chi legga il primo periodo
che ho citato nella nota 221 si accorgerà che la menzione del piccolo Skopas precede
quella di Sileno e – cosa vieppiù rilevante – il fanciullo è associato a quel concetto di
brevitas/reticenza fin dalle primissime righe dell’Introduzione posto tra i fattori
scatenanti la supposta poesia pura.
Dalle più intime cause dell’ammirazione per il Pascoli greco, riposte tra l’eros, la
poesia personale di Pasolini e la coeva lettura e rilettura de L’arte classica, ritorno – e
concludo – sul valore antropologico-culturale segnalato da Nava: sarebbe riduttivo
concentrarsi sulla pederastia e sui marmi! Questo secondo livello di analisi mi porta a
discutere di un argomento che non è solo un tema-chiave di Pascoli ma rappresenta
!
222
PASCOLI 2008, p. 273.
223
Vd. PASCOLI 2008, pp. 271-272: «Gryllo / figlio di Gryllo facitor di scudi / [...] Hyllo [...] il figlio / d’Hyllo
vasaio» (vv. 28-29, 31-32).
224
PASCOLI 2008, pp. 270, 273.
225
Credo se ne sia ricordato quando scrisse Atene (poesia poi inclusa in Trasumanar e organizzar): il cui incipit,
di concerto con la voluta indeterminatezza dell’intero componimento, gioca a confondere tempo antico (l’Atene
classica) e passato (l’Atene dell’adolescenza di Maria Callas): «Ai tempi di Atene / le ragazze ridevano, alle porte di
casette basse tutte uguali / (come nei quartieri poveri di Rio); / [...] (PASOLINI 2003b, p. 173). Su Atene cfr. infra, par.
5.2.
226
PASCOLI 2008, p. 278.

! 71
addirittura il marchio incancellabile dell’intero classicismo pasoliniano: è quello che a
partire dall’interpretazione de L’etera il giovane poeta chiama «‹senso› della morte»,
distinguendolo attentamente dal corrispettivo «mito» 227. Può esservi beninteso una
componente decadentistica, tanto in Pascoli quanto nell’alunno casarsese, eppure, dato
il legame del tema funebre con la poetica del particolare, quegli schemi convenzionali
sono travalicati: e, ancora una volta, ciò vale per entrambi; con la differenza che
Pasolini rimprovera al maestro un errore da cui realmente negli anni a venire lui si
asterrà. Come già detto, l’autore dell’Antologia individua nella lirica pascoliana un
vuoto sostanziale, imputabile sia all’inquietudine interiore sia al peso dell’erudizione; in
altre parole, il poeta di San Mauro non avrebbe da dire nulla di nuovo: sarebbe privo
non solo della presunta immediatezza dei grandi classici ma soprattutto del loro portato
filosofico, e il primo esempio di una così grave caduta consisterebbe nella seconda parte
de L’etera: versi in cui Pascoli cerca invano di ‘rinnovare’ la fonte della poesia classica,
il «mito». La critica è assai dura e il tema altrettanto complesso per essere sviscerato e
risolto in queste pagine; mi limito a segnalare che nell’assunto di Pasolini sono
contenuti in compenso due aspetti insindacabili, colti poi da critici moderni quali
Giuseppe Nava e Daniela Baroncini: che il Pascoli conviviale, in modo conforme alla
poetica del fanciullino, crede davvero nella poesia come occasione di ritorno allo
stupore primitivo e sente perciò il dovere morale di dare nuovo corso alla mitologia; e in
più il classico è da lui così profondamente amato che la sua produzione greco-latina è
un fanciullesco agone contro la paura che esso muoia228. Dunque, anche se non si
espresse in questi medesimi termini, Pasolini capì e segnalò la radicalità di quella
predilezione pascoliana229 e ne mise inoltre bene a fuoco la vocazione mitologica230;
tuttavia, in un’ottica personale che forse deve qualcosa a un poeta-filosofo assai più
apprezzato (Leopardi), ne prese le distanze mantenendo sempre la consapevolezza
tragica dell’impossibilità di quella sfida e dell’irreversibilità del tempo. È siffatta
coscienza che lo fa entusiasmare di fronte ai versi ricchi di dati storico-culturali e
deprimere là dove Pascoli legittimamente – a mio giudizio – rifavella il mito; ed è
sempre tale coscienza che già negli anni ’40, benché meno che nei ’60, lo indurrà a
connettere le personali riletture del mito classico alla perdita irreparabile del «Passato»,
con tutte le sue tradizioni millenarie e in primis quel culto dei morti che invece la
società edonistico-tecnologica svia di continuo. Quasi tutte le citazioni testuali
pasoliniane da L’etera contengono gli oggetti e le azioni del rito funebre; invece il mito
di Ade, sia quello odissiaco de L’ultimo viaggio sia quello platonico dei Poemi di Ate e
dei Poemi di Psyche, non gli interessa, perché quando «si lascia la città greca, cioè il
mondo dei vivi, e si entra in quella senza memorie dei morti, la fantasia, lì, non ha
effetti»231: perché, in un poeta moderno, il «‹mito della morte› [...] è di molto inferiore
!
227
Vd. PASOLINI 1993, p. 10.
228
Cfr. BARONCINI 2005, pp. 22-24, 30-35, 40; PASCOLI 2008, pp. xvii-xviii, xxiv.
229
Vd. PASOLINI 1993, pp. 6-7.
230
Vd. PASOLINI 1999a, p. 138.
231
PASOLINI 1993, p. 11.

! 72
al più originario e umano ‹senso› della morte»232. Anche Pasolini nutre un interesse per
le ‘origini’ – la stessa scelta del friulano va in una direzione simile233 –, ma per
un’origine (come la nascita dei culti di morte) ancora più vetusta del mito; pertanto la
lista di tutti i «particolari» ricavabili dalle citazioni pasoliniane della prima parte de
L’etera mi sembra un elenco vieppiù rivelatore di quello citato da Nava 234: prima la
«lucerna» votiva (vv. 7, 21, 33, 48, 52, 64; «lampada» ai vv. 31 e 64), accesa
dall’innamorato con «rugiada di perenne ulivo» (v. 5); e poi il «sepolcro» (v. 63;
«tempietto» ai vv. 6 e 72) con l’«arca» che custodisce le spoglie di Myrrhine (vv. 23,
70, 74), visitato da Eveno e prima ancora da un gruppo di simposiasti che accendono le
«tede» al fuoco della lucerna e leggono l’«epigramma» scolpito sulla «stele» (vv. 31-
34). In realtà sono evidenziate anche azioni e dettagli non direttamente riconducibili alla
pratica funebre, come il suonare il flauto doppio235, o addirittura sovversive, come
l’apertura del sarcofago originata dal desiderio di Eveno di rivedere il bel corpo di
Myrrhine 236 ; ma che l’ossessione pasoliniana della morte prevalga sugli aspetti
vitalistici lo riprova il primo elenco della tesi, precedente quello già considerato di
«anfore, utensili, steli»:

Cominciamo la lettura dall’Etèra:

E Moscho a quella lampada solinga


la teda accese, e lesse nella stele.

Qui v’è una nudità, una sorveglianza nel non dire parole, ma cose, gesti. Moscho, cioè
una persona, e greca; e tutti gli oggetti rievocati per mezzo dei loro puri e semplici nomi:
lampada, teda, stele. E le azioni nude, e cioè vive237 .

Così comincia la tesi: connettendo morte e “realismo”; un realismo manieristico che


deforma e fa sbalzare dalla morte la vita. La lucerna votiva ne è l’emblema e torna nelle
pagine successive come nei versi pascoliani, ma con in più quello specifico valore di
«particolare sproporzionato» creatore di poesia238 che nell’immaginario dell’interprete
diventa tanto assoluto da sconfinare nelle note ad altri componimenti (dove non si tratta
più dello stesso genere di lampada239, o anche quando si tratta sempre dello stesso240 è
solo un dettaglio cursorio, non davvero determinante come nel caso de L’etera).
All’elenco di particolari funerei del primo poemetto analizzato si aggiunge quello di
Psyche (vv. 133-168), brevemente discusso nelle note di commento:
!
232
PASOLINI 1993, p. 10 (corsivo mio).
233
Cfr. infra, par. 1.2.
234
Seguo l’ordine dei versi pascoliani specificando che le citazioni che ricorrono in PASOLINI 1993, pp. 5-10 ne
seguono un altro.
235
Vd. PASOLINI 1993, p. 7.
236
Vd. PASOLINI 1993, p. 11.!
237
PASOLINI 1993, p. 5 (corsivi miei).
238
Vd. soprattutto PASOLINI 1993, pp. 7-8.
239
Vd. PASOLINI 1993, p. 171.
240
Vd. PASOLINI 1999a, p. 135.

! 73
L’incorporea leggenda [...] si regge tutta su piccole notizie realistiche, immagini rilucenti:
le labbra, l’obolo, la focaccia col miele e col papavero, il cane, la lena del rematore;
minimi particolari sproporzionati, che in una loro trama marginale e puntuale fanno sì che
possa svilupparsi l’informe e statica leggenda di avvenimenti altrimenti inafferrabili ai
sensi241.

I dettagli della catabasi di Psyche sono in tutto allineabili ai particolari de L’etera,


«particolari la cui verità e realtà tutt’ora sperimentabili, rendono non meno veri e reali
quegli estinti ateniesi»242. Come appare con grande chiarezza da queste righe, per
Pasolini l’aspetto cruciale è il concetto di «realtà», ossia la tangibilità della morte: quel
«‹senso› della morte» che analizzando L’etera aveva ritenuto connaturato alla grecità
più antica («quel suo sentimento di morte, di arcaico, di greco»243). Il giovane autore
include nell’antologia persino i versi a lui meno congeniali ma che si salvano perché
riuscirebbero a dare ‘corpo’ a un mito di cui la modernità ha perso il ‘senso’ e che
risulta perciò ‘statico e inafferrabile’. Va anche notata la reticenza del nostro a proposito
dei personaggi di Cerbero e Caronte: che è senza dubbio riflesso del testo pascoliano,
dove si parla solo di «cane» (vv. 131, 140) e di «rematore»/«vecchio» (vv. 129, 148,
151)244, eppure assume un rilievo notevole alla luce di altri commenti pasoliniani sui
presunti eccessi di nomenclatura245; nonché in vista delle famose traduzioni target-
oriented (ora attualizzanti ora escludenti i nomi di divinità e luoghi e altri elementi
giudicati superflui o poco intelligibili)246. In ogni caso sia chiaro che questi ultimi sono
aspetti secondari, al centro sta l’idea della descrizione iperrealistica: cioè la capacità del
Pascoli conviviale di far percepire la morte come una presenza tangibile e inquietante,
che sfonda la barriera della finzione letteraria e, nel caso specifico, rende percepibile il
senso di soffocamento e affondamento di Psyche. Dunque: già nell’ottica del Pasolini
ventenne l’antico crea ‘scandalo’, mette in crisi l’amoralità contemporanea – la favola
di Amore e Psyche è definita «informe e statica» solo per la già menzionata coscienza
della perdita e quindi in rapporto alla comune sensibilità moderna, non per una
personale antipatia nei confronti della filosofia platonico-apuleiana, che anzi poco sopra
era definita «stupenda»247; e se si considera che nella riflessione cinematografico-
filosofica degli anni ’60 morte e realtà si legano al concetto di sacralità, si comprende
allora ancor meglio l’intuizione di Nava. Nell’elenco desunto da Psyche c’è in sostanza
la novità di due personaggi demitizzati, cioè spogliati della loro maschera e perciò
arricchiti in mistero e xenon; compaiono anche due «oggetti» connessi al mito infero,
l’obolo di Caronte e l’offa di Cerbero: evoluzioni narrative di antichissimi rituali
!
241
PASOLINI 1993, p. 171.
242
Vd. PASOLINI 1993, p. 10 (corsivi miei).
243
PASOLINI 1993, p. 10.
244
Vd. PASCOLI 2008, pp. 264-266.
245
«Un minuto amore per la poesia classica della lingua greca, che troppo scopertamente si espone in certe
costruzioni, nella grafia dei nomi ecc.» (PASOLINI 1993, pp. 11-12).
246
Cfr. infra, cap. 4.
247
«[Pascoli] dilata la stupenda significazione morale che aveva intravisto nella favola di Psyche» (PASOLINI
1993, p. 171).

! 74
apotropaici che l’antropologia e l’archeologia del mondo classico hanno rivelato diffusi
e vitali in tutto il bacino mediterraneo248. Della focaccia è possibile che si sia ricordato
nella sequenza in cui Edipo visita la Pizia, e dell’obolo nella sequenza dei funerali dei
tebani morti di peste; sono dettagli assenti in una scrittura organizzata ma sintetica come
quella della sceneggiatura249, tuttavia durante le riprese, ossia nel momento in cui
inevitabilmente si scontrò con la necessità di dare un ‘corpo’ al mito – vale a dire una
rappresentazione «reale», «vera» come quella di certo Pascoli conviviale –, il regista
attinse dalla propria formazione. Grazie a Fusillo sappiamo che le letture antropologiche
coeve ai film “greci” travalicavano questa precisa eredità e sarebbe scorretto negarne
l’importanza250, però io credo che dettagli quali le infulae e i rami di ulivo di cui sono
addobbate certe comparse nelle sequenze di supplica, come quella pitica o quella che
traduce il prologo dell’Edipo re sofocleo, o il gesto della Pizia di accompagnare la
profezia con alcuni bocconi che Gian Piero Brunetta e Fusillo hanno identificato in
assaggi di ricotta251, abbiano in realtà delle radici negli anni bolognesi. Beninteso, il
regista di Edipo re era sicuramente intenzionato a ‘declassicizzare’ la cultura classica
che l’aveva formato “aggiornando” quegli elementi tradizionali con un apparato
iconico-musicale eclettico; tuttavia a me pare inevitabile rintracciare proprio negli anni
giovanili l’origine di alcune scelte fatte sul set dei due film ‘archeologici’ (archeologici
rispetto a Teorema e ad Appunti per un’Orestiade africana252) ! fra un attimo spero di
fornire la prova probante. Dell’offa/µ"#$%%&'%( avrebbe potuto apprendere le nozioni di
base già da Borgatti, Mocchino o Gallavotti, in una ipotetica lezione sul sesto libro
dell’Eneide o sul sesto dell’Inferno dantesco; ma potrebbe essere stato Pascoli stesso il
primo a “spiegargli” ! cioè, fuor di metafora, suggerirgli ! il valore antropologico-
culturale connesso. Ipotizzo un processo analogo anche per il caso della moneta stretta
fra le labbra di Psyche, di cui può esserci un’effettiva reminiscenza nei funerali dei
tebani: il cinema etnografico segnalato da Fusillo ha avuto il suo indubbio contributo in
termini di tecniche di ripresa, e soprattutto in considerazione dell’ambientazione, del
ricorso a comparse locali e del corredo musicale253; ma quando le prime inquadrature

!
248
!Cfr. CANTILENA 1995, pp. 165-172; BURKERT 2003, pp. 191-193.
249
Vd. PASOLINI 2001a, pp. 992, 1012-1013.
250
Credo che ai capitoli cinematografici de La Grecia secondo Pasolini si possa rimproverare solo di non aver
messo nel giusto risalto l’aspetto testuale-verbale; Fusillo dà conto degli episodi tragici tradotti intersemioticamente
nei film, ma riconosce una priorità all’aspetto iconico (e di conseguenza anche antropologico) ineccepibile per
qualsiasi opera cinematografica provvista di una colonna video, meno però in molti film pasoliniani: che, dal Vangelo
in poi, sono di frequente ‘traduzioni’ “fedeli” di opere letterarie. Cfr. infra, par. 4.3.
251
Cfr. BRUNETTA 1970, p. 99 e FUSILLO 1996, pp. 78-79. Io avrei usato maggiore cautela: in considerazione del
luogo in cui fu girata la sequenza, ossia Zagorà (ricavo la precisazione geografica da CHIESI 2015, p. 47, che però
sbaglia nel negare qualsiasi riferimento pasoliniano all’iconografia classica). Credo che il cibo assaggiato dalla
sacerdotessa sia un indefinibile assortimento di pietanze locali invece che una porzione di ricotta, formaggio
mediterraneo allora difficilmente reperibile in un Marocco (centrale) meno globalizzato dell’odierno; ipotizzo un
assortimento perché alla sacerdotessa vengono offerte più ciotole e piatti. È possibile che a farne le veci sia stato
scelto un formaggio locale, che di certo non mancava, ma è altrettanto possibile che la Pizia si sia cibata di un
pastone infarinato o di un altro miscuglio forse allusivo alle offe degli àuguri (più che alle µ"#$%%&)%($ offerte in
Grecia a divinità ctonie come Trofonio).
252
Cfr. infra, cap. 5.
253
Cfr. FUSILLO 1996, p. 111.

! 75
della sequenza rendono ben visibile una lastrina metallica stretta fra le labbra di un
cadavere, non può non esservi una intenzionale allusione erudita alla ‘moneta in
tomba’254. Questo particolare, così come tutti gli altri (i petasoi, le corone turrite, etc.),
non sono resi archeologicamente stricto sensu: il regista vuole solo suggerirne l’idea per
deformare subito l’iconografia tradizionale; e non per un mero gusto di irriverenza
poetica, bensì, come rivela già la tesi su Pascoli, perché less is more e soltanto così si
evita la finzione e si tocca il reale. Con ciò non voglio dire che esiste una diretta
dipendenza tra gli svariati dettagli dei due film e i «particolari» del Pascoli conviviale:
ma che c’è di sicuro un’indiretta convergenza di pensiero. E per spiegarlo desidero
tornare sulle prime pagine della tesi; lì, a proposito della conoscenza pascoliana del
mondo antico, Pasolini scrive:

La preparazione culturale a questa poesia era del resto in Pascoli accurata, assimilata,
particolareggiata. Si sente che da molti anni il poeta aveva fatto suoi certi particolari, che,
qui, non appaiono affatto voluti:

[...] Poi voci


alte destò l’auletride col flauto
doppio, di busso [...]

ecc. E quindi la poesia non è solo risultato di un gusto acuto ma generico dell’antico, ma
piuttosto di uno studio placato negli anni255.

Benché siano subito riconosciuti i meriti del Pascoli antichista, il nostro non poteva
avere allo stesso tempo una nozione precisa del grado di eterodossia di tale erudizione;
lascia capire che il poeta di San Mauro arriva a concepire frammenti di una realtà ‘altra’
grazie all’assiduità delle letture classiche e così si trova nel paradosso di una poetica
innovativa – seppure a tratti – che riposa su una cultura sostanzialmente umanistica,
tradizionale: anche se il saggio introduttivo comincia da L’etera e i Poemi conviviali
sono tra le raccolte più rappresentate nell’antologia (la prima per numero di versi), in
realtà Pasolini interpreta il Pascoli greco-latino come un autore convenzionale, alienato
dal confronto quotidiano con le letterature classiche (nel 1955 dirà ‘ossessionato’). Non
poteva essere a conoscenza di letture eccentriche come quelle di Michele Kerbaker256 e
di Max Müller257, né aveva messo bene a fuoco quale fosse la percezione che del
Pascoli filologo si aveva quando questi si insediò sulle cattedre accademiche o
pubblicava le antologie scolastiche – eppure, in quest’ultimo caso, avrebbe potuto farlo,

!
254
Si può solo discutere se il regista se ne sia ricordato attraverso la mediazione pascoliana o una fonte antica a
lui nota come a esempio LUC. DMort. 4. 1 (così commentato da BRIGHENTI 1931, p. 76: «Caronte, figlio dell’Erebo e
della Notte, il vecchio canuto e severo, il quale tragittava le anime al di là dello Stige per un obolo, che i familiari
ponevano, per questo, in bocca al morto»).
255
PASOLINI 1993, pp. 6-7.
256
Cfr. BAZZOCCHI 1994, pp. 22-24.
257
Cfr. PASCOLI 2008, pp. xviii-xix.

! 76
perché nella tesi cita uno scritto del Valgimigli che affronta la questione258. Nonostante
ciò, per vie traverse (Serra259), l’autore dell’Antologia è comunque riuscito a cogliere la
novità che una parte dell’odierna letteratura riconosce al Pascoli conviviale: cioè quella
di poeta che apre a una conoscenza antropologica del mondo classico, non soltanto
letteraria; e ciò è stato possibile, Serra a parte, grazie a una consonanza che è il frutto di
un comune orizzonte culturale più che di una vera e propria convergenza di poetiche.
Né il Pascoli conviviale né il Pasolini laureando avevano letto Frazer o studiato a fondo
i padri della moderna psicanalisi (e nemmeno Nietzsche), tuttavia avevano entrambi
intuito la necessità di uno sguardo nuovo sul mondo antico. Questa è la convergenza di
pensiero cui accennavo poc’anzi: complice lo Zeitgeist, l’alunno ha intravisto nel poeta
conviviale i germi di un classicismo di rottura che troverà espressione chiarissima nei
due film “greci” ricordati da Nava.
Cerco infine di chiarire quali sono i termini del debito pasoliniano nei confronti del
Pascoli greco-latino: al di là dei film, dei quali si è già detto; e cercando di tenere
presenti alcune differenze. Anzitutto si possono rilevare dei limiti cronologici
abbastanza precisi: l’influenza si lega strettamente alle letture propedeutiche alla tesi di
laurea e all’eredità complessiva del Pascoli poeta, pertanto, se l’apice va fissato nel
cuore degli anni ’40, già alla fine dello stesso decennio lo scambio può dirsi
ampiamente concluso260; e la cosa non deve stupire perché il nostro usava digerire alla
presta i maestri – e in salsa piccante! – per inseguire nuove letture e nuovi stimoli.
Malgrado i giudizi riduttivi di Pasolini, Pascoli ha tagliato i ponti con l’umanesimo e
con la filologia classica positivistica proponendo letture dell’antico – finanche nelle
antologie scolastiche – in bilico tra filologia e poesia261; e Pasolini, dal canto suo, già
nella tesi, nel saggio che inaugurava il primo numero di Officina e in altre occasioni
(persino negli anni ’70), ha rivendicato la propria passione e formazione filologica: per
lo più in ambiti che nulla avevano da spartire con la cultura classica e – lui intendeva –
in termini ben lontani dalla scuola positivistica. L’attività poetica ha indicato a entrambi
la necessità di un classicismo moderno e creativo: ostico perciò ai tanti grecisti e
latinisti che non apprezzavano una sintesi fra studio filologico e vocazione artistica.
Non intendo dire che Pasolini abbia imparato dal Pascoli l’eterodossia; né voglio
evidenziare in una misura soverchia le contrapposizioni fra ciascuno dei due e le
rispettive accademie; né dimentico che a differenza dell’eterno ribelle Zvanì è sia salito
in cattedra sia, negli anni più maturi, ha scritto e parlato da una posizione culturale
ufficiale: bensì intendo segnalare, quale premessa ai punti che seguiranno tra breve, che
nel poeta di San Mauro il poeta di Casarsa ha trovato un nuovo e stimolante «modo di
leggere» i classici; ‘nuovo’ rispetto agli studi ginnasiali, liceali e universitari: il modo

!
258
VALGIMIGLI 1937, pp. 7-10, citato da PASOLINI 1999a, p. 103 senza, beninteso, il riferimento preciso alle
pagine che ho indicato.
259
Sia quello di Giovanni Pascoli (1909) sia quello di Intorno al modo di leggere i Greci.
260
Dico ampiamente perché sul Pascoli classico il nostro sorvola tanto nel saggio pubblicato su Convivium per
volontà di Calcaterra quanto nel più celebre Pascoli di Officina.
261
Cfr. SERRA 1958a, pp. 2-3; BARONCINI 2005, pp. 18-19; BELPONER 2010, pp. 105-116; e SENSINI 2019.

! 77
della poesia. Nel Pascoli greco-latino il nostro non si è rispecchiato ma ha visto un volto
«fraterno»: il volto di un lettore che ha sentito come lui l’urgenza di creare.
Quello che io reputo il primo grande insegnamento pascoliano, teorizzato nel
Fanciullino (prosa assai apprezzata da Pasolini262), è l’idea che «la poesia non si fa sui
libri»263, precetto che nell’ambito specifico dei due classicismi si traduce in citazioni dai
poeti greci e latini inavvertite e istintive, non fatte a tavolino; non in imitazioni, ma al
massimo in allusioni; o, per citare il Serra, in «motivi poetici», «fantasmi», «movimenti
lirici e drammatici»264. E non passi inosservato come il precetto incroci i già discussi
apprezzamenti sul non-detto pascoliano; e in più che la stessa selezione dell’Antologia
ha delle radici nel Fanciullino: nel sesto capitolo, per la precisione, là dove si distingue
tra poesia «pura» e «applicata» e nel «grande oceano perlifero» della Commedia è
individuata la ‘perla’ di una squilla serale (Pg. VIII, vv. 5-6) 265, confrontabile sia con i
«particolari» conviviali isolati dal laureando sia, più a monte, con Ciant da li
ciampanis266. Se il classicismo dei secondi anni ’40 si nutre dunque di ‘fantasmi’ (che
nel seguito della tesi io rintraccerò per primo), esiste però una cruciale divergenza:
quantitativa; dovuta al fatto che Pasolini frequentò le letterature moderne ben più di
Pascoli e meno di lui quelle antiche. Il poeta di San Mauro ha inoltre influenzato le
stesse letture latine del giovane poeta casarsese: come ha suggerito il solo Luciano
Favini267, dietro ai fantasmi virgiliani della prima produzione lirica c’è anche Pascoli;
sappiamo già che la predilezione per il Mantovano è anteriore alle letture del periodo
universitario e scopriremo, per giunta, che essa incrocia un erotismo analogo a quello di
Gide268, tuttavia è indubbio che le lezioni di Pasolini sulle Georgiche ricordate da
Naldini269 e le private letture virgiliane (risalenti entrambe al periodo dello sfollamento
in Friuli e agli anni appena successivi) incontrano l’amore pascoliano per il Virgilio
agreste, non epico: per il «poeta della pace»270. Evidentemente le contingenze storiche e
la poetica personale di Pasolini, già avviata da qualche anno, facilitarono quegli studi,
però devono essere stati proprio dilettevoli e viscerali se ancora alla fine degli anni ’60,

!
262
Vd. PASOLINI 1993, pp. 219-220.
263
Vd. PASCOLI 2002, p. 967: «La poesia benefica di per sé, la poesia che di per sé ci fa meglio amare la patria, la
famiglia, l’umanità, è, dunque, la poesia pura, la quale di rado si trova. In Italia poi, che è la mia patria (non la tua, o
fanciullo: tu sei del mondo, e non sei d’ora ma di sempre), in Italia è più rara che altrove. Invero non mai da noi fu
amata la poesia elementare e spontanea. Come in genere la nostra letteratura, così inspecie la nostra poesia ha avuto
innanzi a sé dei modelli. Noi abbiamo specchiato il nostro stile nell’arte latina, come i latini avevano fatto coi greci.
Ciò può aver giovato a dare concretezza e maestà alle nostre scritture; ma quanto a poesia, ciò l’ha soffocata: la
poesia non si fa sui libri» (dal cap. VII).
264
SERRA 1958b, p. 493. Sia chiaro che ne condivido solo l’analisi, non il giudizio.
265
PASCOLI 2002, pp. 965-966. Cfr. PASOLINI 1993, p. 16: «L’immagine di Apollo è il motivo musicale di questo
poemetto; è il pretesto nato appunto, da quell’indefinibile sete di poesia e da quell’inquietudine. Se ne nasce un intero
poema [scil. come nel caso del Sileno], tanto meglio; ad ogni modo io cercherò l’ispirazione della poesia, là dov’essa
è ‹pura›, non ‹applicata› [altrove dirà: «riflessa»]».
266
Non se n’è accorta Arveda, che pure segnala numerosissime altre ascendenze pascoliane; e una dantesca
(Tanto gentile e tanto onesta pare, v. 13) che però giudico assai meno calzante rispetto alla seconda terzina
dell’ottavo canto del Purgatorio: vd. PASOLINI 1998a, pp. 42-45.
267
Cfr. FAVINI 2005, p. 532.
268
Cfr. infra, par. 1.4.
269
Cfr. GOLINO 2015, p. 216.
270
Cfr. TRAINA 1987, pp. 998, 1001.

! 78
durante il viaggio in cui “girò” gli Appunti per un’Orestiade africana, scrisse una poesia
in cui è alluso Aen. 8, v. 456: ossia il celebre cinguettio mattutino decantato nel sesto
capitolo del Fanciullino271. A questa ulteriore convergenza è parzialmente legata la
poetica delle ‘cose’ naturali (arboree e floreali in primis): il nostro non perviene mai alla
perizia botanica del poeta fraterno e a testi del tenore di Lucus Vergili, ma come il
classicismo pascoliano si nutre di continuo di immagini vegetali, tanto da portare talora
a una coincidenza fra antico e natura272, così le allusioni classiche (non solo virgiliane)
della produzione friulana si cristallizzano in particolari della vegetazione casarsese273;
beninteso, ciò non esclude che l’«hortus conclusus»274 in cui è ambientata tutta la prima
lirica pasoliniana abbia un’origine molteplice, cioè sia il frutto di «plurime
mediazioni»275, dalla lirica greca eolica fino a quella modernista spagnola passando per
la provenzale. Paradossalmente il secondo grande insegnamento riguarda
quell’inquietudine che il giovane poeta andò criticando a più riprese nell’Introduzione
all’Antologia: sull’antico paesaggio di Casarsa aleggiano non solo i fantasmi appena
ricordati ma anche quelli della psiche, perché come Zvanì pure l’alunno proiettò sul
classico le proprie ossessioni e i propri sogni276; Pasolini non mise subito in pratica le
intuizioni di cui disseminò la tesi, andò anzi in senso contrario, ripercorrendo il mondo
antico come il luogo degli archetipi personali, delle strutture portanti della psiche, in
primis quelle di dolore e di lutto. L’ossessione per la morte domina e dominerà sempre,
anche anni più tardi, anche in seno all’interpretazione politico-antropologica di tante
opere “classiche” (da Orestiade a Petrolio/Vas); tuttavia nella lirica casarsese il mito è
soggettivato, si rapporta all’io profondo del poeta: con ogni probabilità ciò dipende in
buona parte da quel comune orizzonte culturale che ha fondato la contemporaneità e che
ho già ricordato in riferimento alla questione antropologica, eppure, a fronte dei ripetuti
rimproveri del laureando e, soprattutto, alla luce dei suoi versi friulani, viene da pensare
che chi disprezza compra e che per giunta nelle ossessioni abbia trovato un Pascoli
fraterno. Dato il tema, le differenze sono sfaccettate così come le personalità dei due
poeti e non ho qui lo spazio per discuterle; mi limito soltanto a segnalare che Pasolini, a
differenza del maestro/fratello, assimilò miti e maschere della tragedia attica: genere
invece poco frequentato da Pascoli.

0.3.2. Kavafis e lo slancio vitale di Iasis: corpi scolpiti (II)

Non ho scelto a caso la metafora di Serra: anche il secondo maestro mai incontrato
de visu è poeta di fantasmi; segnatamente, però, fantasmi erotici, maschili: tant’è che il
!
271
Vd. PASOLINI 2003b, pp. 66-67 = Proposito di scrivere una poesia intitolata «I primi sei canti del
Purgatorio», vv. 70-77: «Le esperienze mattutine medioevali / tornano artificialmente / (se c’è mai qualche cosa di
artificiale): / molti sono ancora i luoghi nel mondo / dove non si trovano pali della luce e caselli. / Dove canta
Filomena, concentrata, ignara, / piena della sua certezza. / Dove la brezza è annusata da sabini o leoni».
272
Cfr. BARONCINI 2005, pp. 24-25.
273
Cfr. infra, par. 1.4.
274
MARTELLINI 1983, p. 28.
275
FAVINI 2005, p. 532.
276
Su Pascoli cfr. SERRA 1958a, pp. 26-29.

! 79
nostro, appena conclusa la tesi pascoliana, se ne innamorò a prima vista. Mi riferisco
alla precoce intuizione del genio poetico kavafiano, resa possibile dall’antologia che
Filippo Maria Pontani, il grecista che più di qualsiasi altro tradusse e divulgò Kavafis in
Italia, aveva pubblicato nel maggio 1945 sul secondo quaderno di Poesia (periodico al
quale solo qualche anno dopo avrebbe contribuito lo stesso Pasolini). Non è possibile
datare con assoluta precisione questo primo incontro fra i due poeti, ma è verosimile che
sia avvenuto nel primissimo dopoguerra, cioè non prima dell’estate del ’45 e non più
tardi di quella del ’47, perché il primo abbozzo di Amado mio, databile al ’47 ed edito
da Siti e De Laude con il titolo non autoriale di Le «maglie», contiene diversi omaggi
all’alessandrino, su tutti la dedica e il titolo Un loro dio, mutuato da !!"# $%&# !"# e
accantonato con ogni probabilità man mano che il romanzo si evolveva, ossia quando al
paradigma di Kavafis si sostituirono quelli dei canti anonimi neogreci tradotti dal
Tommaseo, nonché di Machado, Saffo e altri: tutte letture più estese, assidue e a breve
termine più produttive rispetto a quella dell’alessandrino; ma che proprio negli anni a
venire si rivelarono meno prolifiche dell’insegnamento del primo. Pasolini fiutò subito
concetti alla base della poetica di Kavafis come la ‘fantasia’: cioè la necessità di
ridefinire tanto i contorni di una città divorata dal tempo, «senza un monumento»
(Alessandria d’Egitto)277, quanto i corpi dei suoi abitanti, sia quelli amati o sognati in
gioventù sia quelli antichi, immaginati e contemplati fra letture e visite al locale Museo
di arte greca e romana; o come, ancora di più, l’idea della bellezza celata nei luoghi e
nelle occasioni più inaspettate; e subito il giovane poeta, nei panni del romanziere in
erba, provò a mettere in pratica le illuminazioni venute da tale lettura, soprattutto
l’erotismo ‘gentile’ di Kavafis, ossia diretto e palpabile eppure mai volgare, però non
venne mai a capo del progetto, anche nei suoi stadi più avanzati e meno kavafiani. Se ne
ricordò qualche dopo, a Roma, quando col sesso mercenario svanì la teoria d’amore
romantica, ben manifesta nei due capitoli centrali dell’Amado mio che leggiamo oggi278,
e ne prese il posto un’erotica vieppiù coraggiosa e traumatica di quella del poeta
neogreco: il «respiro dell’ossessione» 279 , la fame infinita «di corpi senza anima».
L’Urtext di Amado mio costituisce quindi uno dei primi capitoli della fortuna italiana di
Kavafis, a ulteriore conferma che questi passò attraverso poeti e scrittori prima che
attraverso gli studiosi280: ed è un capitolo ancora sconosciuto alla critica e che merita
perciò una trattazione a parte per la profondità dei riflessi di Kavafis sulla prima idea
dell’opera narrativa, tanto più sorprendenti se si considera che il giovane Pasolini poté
leggere appena dieci poesie281. Qui c’è soltanto lo spazio per affrontare una questione
più minuta e preliminare: ossia quale contributo il classicismo di Kavafis ha dato a

!
277
UNGARETTI 1969, p. 497.
278
Il secondo e il terzo dell’edizione D’Angeli, corrispondenti al primo e secondo di quella Siti-De Laude.
279
PASOLINI 1998c, p. 340.
280
Cfr. IERANÒ 2015, pp. 295-297.
281
All’argomento ho dedicato una piccola monografia che dovrebbe uscire prossimamente: Un loro dio. Storia di
una notte fra Pasolini e Kavafis.

! 80
quello di Pasolini; i suoi esiti concreti saranno ripresi nel prossimo capitolo, là dove
discuterò brevemente di Amado mio282.
Anzitutto vediamo quali sono le dieci poesie lette in Friuli; le cito nell’ordine in cui
compaiono nell’antologia di Pontani: Torna, Per rimanere, Sulla soglia del caffè,
Tomba di Iasis, Ionica, Rimembra corpo..., I passi, Sotto la casa, La scadenza di
Nerone, Un loro dio283. Nel laboratorio del romanzo, cioè fra primo abbozzo e varie
riscritture, sono testualmente citate e isolate dal corpo in prosa Tomba di Iasis, Sulla
soglia del caffè e Un loro dio; e sono alluse, oltre a queste tre, Per rimanere e Ionica.
Già da un primo sguardo appare chiaro che a fronte di una piccola antologia
rappresentativa di entrambe le componenti del corpus kavafiano (erotica e storica),
Pasolini predilige la prima; la storia non è del tutto esclusa perché in ambo i testi che
più hanno influito sull’intera elaborazione narrativa (Tomba di Iasis e Un loro dio)
l’eros è inserito entro la cornice di una capitale ellenistica (rispettivamente Alessandria
e Seleucia), ma come avviene appunto in seno alle due poesie e finanche alla stessa
selezione di Pontani la memoria storica risulta secondaria. Quindi l’insegnamento di
Kavafis confluisce in un percorso già attivo da alcuni anni, dalle letture de L’arte
classica ai Poemi conviviali passando per le Bucoliche virgiliane: e la novità specifica
del poeta neogreco sta nell’impeto con cui vi si immette, cioè nell’‘esplicitazione’ di ciò
che nelle altre opere era presente ma solo suggerito, sussurrato agli occhi e alle orecchie
di un ragazzo così oppresso dal tabù sociale da rifugiarsi in quei libri; nel mondo
classico di Ducati, Pascoli e Virgilio l’omoerotismo non era la cifra né dichiarata né
dominante284. In parole più semplici, l’antologia – più ancora di Lucilio – gli chiarisce
che l’omosessualità è naturale, che l’amore per i ragazzi merita di essere proferito,
raccontato285. Tuttavia, ripeto, è l’‘impeto’ l’elemento cruciale di questa confluenza; e
qui, a parte Kavafis, anche Pontani ha avuto un ruolo. Pasolini predilige le due poesie
più impudiche dell’antologia, quelle in cui si fa riferimento esplicito alla prostituzione,
non al mero amore omossessuale: poiché Kavafis è poeta cristallino, la forza del
‘disvelamento’ rimonta a lui; eppure un’analisi della citazione (manipolata) di !"#$
!"#$% rivela come il traduttore abbia ulteriormente enfatizzato l’eros dell’originale e il
nostro l’abbia in parte seguito. Qui non ho lo spazio per esaminare nel dettaglio il
rimaneggiamento286, ma è sufficiente segnalare due particolari degli ultimi due versi
dell’epigramma (vv. 7-8):
!
282
Cfr. infra, par. 1.5.
283
Vd. PONTANI 1945, pp. 482-486.
284
Cfr. PONTANI 1945, p. 486: «La predilezione indefinita e segreta pel corpo efebico, talora il baleno d’una
parola che rompe i veli, o, persino, esplicito, il dramma dei sensi confusi, dànno a questa passione, che divampa o si
consuma per via, negli ambienti più umili e sozzi, in umbratili stanze, su rari sfondi di natura, un magico, singolare
colore» (corsivi miei).
285
Cfr. la testimonianza dell’alunno prediletto (Antonio Spagnol, rinominato in Amado mio ora Benito ora Iasis)
a proposito dello scandalo che costrinse Pasolini a fuggire a Roma: «In seguito i giovani ritrattarono quanto avevano
dichiarato, anche perché non erano sorretti da alcuna certezza, e lo stesso Pasolini affermò che aveva voluto ispirarsi
nel suo comportamento alle idee dello scrittore francese [scil. André Gide] e al pensiero dei poeti della Grecia antica.
Si riferiva quindi ad un mondo e a delle realtà che non dettavano scandali, anzi i rapporti omosessuali erano
considerati una normalità» (CLAROTTO 2018, p. 74).
286
Rimando al primo capitolo della mia monografia.

! 81
[...] !"#$%& '() *#µ(
'+, -.+/ µ0&1 '. 2"#µ3) 45$%1 '. 67+)( 89$#':'3287 .

Tu sai la furia della nostra vita:


e quale ardore, e qual piacere estremo!288

Tu sai l;ossessione della nostra vita:


in che ardore, che stupendo piacere!289

Poiché Kavafis è poeta di dettaglio, di lima, non si può trascurare l’uso di una
punteggiatura più posata nel greco: che Pontani ha dinamizzato sia ricorrendo alla
virgola in luogo del secondo punto in alto sia al punto esclamativo finale. Ma la
compostezza dell’originale è anche una questione di lessico: *#µ( è l’impulso vitale
degli alessandrini; quello che Edmund Keeley e Philip Sherrard tradussero the pace of
our life 290: insomma, una parola che non ha la connotazione enfatico-negativa di
«furia», divenuta persino patologica nel cambio in «ossessione». Gli attributi-chiave
dello slancio degli alessandrini sono calore e pienezza di godimento: all’antico/moderno
lettore dell’epigramma tombale viene ricordato che nella città ellenistica esisteva una
sessualità calorosa e appagante, senza difetti né tabù; a differenza di adesso –
sottintende Kavafis – ciascuno poteva ottenere il ‘massimo’ piacere (89$#':'3): il
piacere che invece Pontani rende «estremo» e Pasolini cambia in «stupendo». La
modifica è illuminante, chiarisce come questi colga l’antica gioia dei sensi nell’eccesso,
sia che si tratti dei letti sui quali giacque Iasis sia dei bordelli desiderati dal dio ignoto
sceso a Seleucia in forma efebica – il dio del primo titolo ma anche dell’explicit del
romanzo oggi edito.
Questo era solo un campione, ma uno studio approfondito dell’Urtext di Amado mio
mostra che nell’antologia curata da Pontani il giovane poeta non ritrovò banalmente i
nudi statuari già contemplati con desiderio – ancora inespresso – fra le pagine del
Ducati, né l’idolino prassitelico del Fanum Apollinis adorato nella tesi di laurea, e
neppure gli efebi omerici e virgiliani incontrati a scuola; bensì intese la nuda natura
dell’erotismo pagano, la vide senza più schermi e, soprattutto, nei suoi risvolti più crudi:
risvolti che in sintonia con la propria vulcanica personalità poi enfatizzò ulteriormente.
Vide in pochi versi quello che Gallavotti non poté spiegare alla I C pur entusiasmandola
con i lirici, né alla II C commentando le Bucoliche291; vide ciò che nemmeno Pascoli
!
287
KAVAFIS 1963, p. 75. Preciso che l’antologia pontaniana non aveva il greco a fronte.
288
PONTANI 1945, p. 483.
289
PASOLINI 1998b, p. 274.
290
KEELEY-SHERRARD 1975, p. 54.
291
Vd. supra, sottopar. 0.1.2 e, in più, GALLAVOTTI 1948c, p. 35, dove inquadrando la realtà socio-culturale della
poesia di Alceo il professore parla con evidente imbarazzo delle eterie maschili: senza nominare la pederastia e
l’omosessualità: «Tutto ciò favorisce l’accendersi dei trasporti affettivi in deviazioni contro natura, che sono
testimoniate in questa età così a Sparta e a Creta così come ad Efeso e a Mitilene, in crude forme di animalesca
sensualità oppure in una sfera più elevata di passionale vagheggiamento per la bellezza efebica» (corsivi miei). Nel
seguito della monografia, in sintonia con questa interpretazione, Lico e Menone risultano dispensatori di sole gioie
«spirituali» (GALLAVOTTI 1948c, p. 49).

! 82
diceva, non tra i versi né tra le righe; e nemmeno la storia dell’arte e dell’archeologia
classica scritta da un funzionario di regime fra i più ligi ed esposti292. Di quest’ultima
avrebbero potuto parlargli soltanto le illustrazioni, in primis quella che riproduce il
coperchio bronzeo di uno specchio corinzio di IV secolo a.C. lavorato a rilievo con
Zeus e Ganimede (oggi all’Altes Museum di Berlino); rilievo non solo discusso fra le
pagine del volume con parole tanto alate quanto eufemistiche, ma persino duplicato sul
frontespizio. Ed è vero che proprio a Ganimede è paragonato Iasis in Amado mio, oltre
che all’Hermes kavafiano 293 : per cui si può ipotizzare con un buon margine di
verosimiglianza che il nostro avesse in mente il disegno-simbolo dell’amato manuale;
però, in anni in cui l’omoerotismo era contato fra le patologie psichiatriche e
considerato finanche una deviazione punibile con lo sterminio, il messaggio passò solo
tramite i canali segreti dell’inconscio294. Fu solo grazie al poeta neogreco che Pasolini
imparò la ‘bellezza’ dell’omosessualità, in tutte le sue gamme: «stupendo» è parola
ricorrente nelle pagine più kavafiane del complesso laboratorio di Amado mio; e in parte
è parola pontaniana, che traduceva il più semplice !"#$%295. Dunque: Pasolini rimase
illuminato dinanzi alle dieci poesie; esse sciolsero così tanti impliciti che in un primo
tempo decise di porre sotto l’«ombra» 296 di Kavafis il primo opus narrativo non
diaristico: soltanto lui gli aveva dato il coraggio di raccontare ciò che prima non aveva
avuto il coraggio di raccontare, se non in pagine di diario piene di sensi di colpa poi in
parte dissimulate in Atti impuri. Sfortunatamente, di fronte a una realtà storica di
persistente arretratezza, il coraggio e la gioia svanirono presto e con esse svanì l’amata
«ombra», soppiantata dai fantasmi mortali di Saffo (e ricomparsa dopo che il coming-
out avvenne in modo tragico e il poeta fu indotto all’esilio) 297; ma in quelle pagine che
io preferisco chiamare Un loro dio anziché Le «maglie» ci sono ancora i frammenti di
quel «piacere» antico che lo stesso Kavafis aveva sognato e plasmato contro un presente
di infelicità – nel quale anche Durrell poco più tardi si sarebbe andato rispecchiando.
Amado mio a parte, dopo la scoperta di Kavafis Pasolini focalizzò molto più spesso la
bellezza maschile evocata dai classici latini e greci.

!
292
Cfr. FERRATINI 1992, p. 44.
293
«Desi infatti aveva tradito Van Gogh o Scipione per fare un disegno neoclassico, che paresse la riproduzione
di un Erme o di un Ganimede» (PASOLINI 1982, p. 149).
294
Se l’Antigone di Arfelli era equiparata a una santa martire, il Ganimede di Ducati a un angelo; ma a parte ciò
non va trascurato il fatto che l’autore abbia definito solo «magnifica» una torsione muscolare che altrove, in
riferimento a un corpo femminile, aveva descritto con parole meno castigate: vd. DUCATI 1939, p. 448: «L’aquila di
Zeus coi vanni non già superbamente spiegati, ma quasi racchiusi e raccolti per l’insolito incarico che le è stato
affidato, con delicato tocco dei suoi artigli, fasciati da drappo, solleva la tenera figura di Ganimede, che ci apparisce
come un angelico adolescente in magnifica torsione di tutto il corpo»; e p. 402: «È un ritmo audace di linee in
fortissima torsione, degno, per questa fase di arte, di un artista così innovatore come Scopa; da questo schema
agitatissimo del corpo, in cui pare che la carne abbia fremiti, emana quel trasporto impetuoso, quella follia mistica,
che gli antichi esaltavano nella creazione scopadea». È vero che la differenza dipende pure dal soggetto e dalla fama
di Skopas, ma credo che il confronto aiuti a illuminare la contraddizione in cui incorre Ducati definendo «angelico»
un corpo nudo che esibisce ben tesi i muscoli.
295
K’ &'(# )’ !"#$% *+µ# [...] (KAVAFIS 1963, p. 54 = !"#$ %&'()(!"# $%& '!(")", v. 3) , «E vidi, allora, lo
stupendo corpo» (PONTANI 1945, p. 483), citato senza alterazioni da PASOLINI 1982, p. 131.
296
PASOLINI 1998b, p. 274.
297
Vd. infra, sottopar. 1.2.1.

! 83
A questo dato biografico prima che letterario si lega un elemento più interno alle
dinamiche del classicismo. Per quanto fosse esigua l’antologia di Pontani, il nostro
intuì di sicuro l’attualità-vitalità del µ!"# $#%&''(%)*% concepito da Kavafis, opposta
alla pascoliana paura del dissolvimento: se cioè nei Poemi conviviali aveva colto
l’inquietudine del vuoto, al contrario nell’antico evocato ex nihilo dal poeta
alessandrino vide il gaudio e la potenza dell’+,µ-. Parlo di ‘intuizione’ perché
disponeva della sola traduzione di poche poesie e perché non conosceva la storia
letteraria neogreca; né la breve nota pontaniana posta in coda all’antologia metteva al
centro la questione storico-letteraria, il legame con la tradizione classica e bizantina – si
soffermava anzi sull’eros fantasmatico! Nonostante ciò, anche grazie allo scarto fra i
due ‘maestri ex libris’, nonché all’amato Ungaretti (evocatore del sommerso
alessandrino), Pasolini deve aver intravisto l’eccentricità del classicismo di Kavafis.
Ossia deve aver capito che Alessandria d’Egitto non era terra di rovine su cui proiettare
le proprie angosce e al contempo il proprio desiderio di ‘restauro’, bensì polvere sulla
quale, sull’esempio del fondatore, bisognava riportare di nuovo alla luce un’intera città;
che la città kavafiana, seppure anch’essa abitata dai traumi, rivaleggiava in novitas e
vitalismo con la capitale ellenistica perché fra le inquietudini del neogreco mancava
quella di perdere i ruderi antichi: fra età tardo-antica e medievale i monumenti erano già
stati ampiamente compromessi (infinitamente più che ad Atene e a Roma). Brani di Un
loro dio come il «discorso su Iasis» non ospitano una concezione dell’antico molto
diversa da quella di Kavafis: entusiasmato dalla scoperta, Pasolini vi descrive Iasis
come un dio proteiforme298; e l’idea che il corpo dell’eromenos ospiti il divino e tenda
alle innumerevoli fogge in cui gli dèi sanno ancora manifestarsi sopravvive persino in
alcune pagine di Amado mio299. In questa teoria d’amore pasoliniana, così “politeistica”,
mi sembra celato il desiderio kavafiano di rendere l’antico ‘attuale’; nel potere erotico
emanato dallo Iasis di Un loro dio – cioè Le «maglie» – io intravedo la ‘vitalità’ del
mondo pagano incarnata dal protagonista di !"#$ %&'(). Tuttavia, una volta temperatosi
l’entusiasmo della prima ora, ricomparsi i tabù contro cui il nostro si scontrava ogni
giorno e impostesi altre letture, tale slancio decadde e l’autore di Amado mio finì per
riconfigurare il proprio immaginario classico: un immaginario popolato di ‘fantasmi’
che non indicano più la vita, ospitano l’orrore di un mondo avviato al rapido
disfacimento e all’oblio. Allora sull’immagine dell’efebo divino, che pure riaffiora nel
romanzo in posizione di assoluto rilievo (l’explicit), prevale quella della statua adonia: il
simulacro tanto bello quanto vuoto e imbalsamato300. E Iasis viene così assimilato ai
numerosi corpi senza vita («senza anima») che aleggiano nel terzo capitolo
dell’edizione D’Angeli: i corpi di Kostandinos, Iannis, Ioannis e degli altri anonimi
‘cari agli dèi’ cantati nei moirologia raccolti dal Tommaseo301; nonché a quelli della
!
298
Vd. PASOLINI 1998b, pp. 278-280.
299
Vd. PASOLINI 1982, pp. 129-132, 191-194. Sulla questione cfr. infra, par. 1.5.
300
Vd. infra, sottopar. 1.2.1.
301
Rimando al secondo capitolo della mia monografia; qui mi limito a specificare che nel corrispondente capitolo
dell’edizione Siti-De Laude, fondata su un principio filologico-genetico (contro quello seguito nella prima edizione,
!

! 84
produzione coeva di Pasolini, che si tratti delle versioni friulane (l’Adone di SAPPH. 140
V., il fenicio Phlebas di The Waste Land o il «frut Elis» di Georg Trakl) o dei versi in
proprio: oltre alle numerose varianti di Narciso a cominciare da Il nini muàrt, l’«antic
cuarpisìn» di Suspir, il «flour di viola [...] ençamò fresq e coma vif» del Funeral di un
zovinùt muart par la patria, il «bimbo» di Maggio, etc.; fino alle trasfigurazioni liriche
di Antonio Spagnol, il giovane contadino chiamato in Amado mio ora Benito ora Iasis
(cioè il «giovanetto»/«fanciulletto» di O lucerna, a quest’ora, ben lontano, O fanciullo,
ti perdo; la tua immagine e Mi destai d’improvviso, ero solo)302.
In sintesi posso concludere che l’insegnamento di Kavafis riguardò soprattutto il
tema sessuale; per citare Pontani direi che le dieci poesie ‘ruppero i veli’ perché è da
allora che a gradi il poeta di Casarsa cominciò a cantare in versi e a dire in prosa quello
che fino a prima non era riuscito a proferire senza schermi. Se del classicismo kavafiano
restano solo dei frantumi nel grande cantiere incompiuto di Amado mio, in compenso la
sua «ombra» erotica si allunga su tutta l’opera: ci sono casi di citazioni-allusioni303,
però ciò che più conta è proprio il valore ‘magistrale’ di quella scoperta; il fatto che
l’alessandrino abbia spalleggiato Pasolini nella scelta sempre più decisa dei bei corpi
maschili. E l’idea di includere fra i maestri un autore così poco frequentato e ancora
sconosciuto alla critica pasoliniana dipende da alcune pagine dello stesso poeta-
cineasta: testimoni indiscutibili che, per quanto fugace, quell’incontro lasciò un segno
indelebile. Mi riferisco alle prime scene de Il padre selvaggio (1962), trattamento di un
film avviato alla produzione ma osteggiato dal Ministero del turismo e dello spettacolo
e perciò mai girato – pubblicato sulla rivista Cinema e film (1967), alla fine uscì in
volume presso Einaudi (1975)304. Nella pellicola Pasolini avrebbe dovuto raccontare, fra
le altre cose, la propria idea di insegnamento: una pedagogia ‘eretica’ che rimpiazza le
lezioni di latino con letture della poesia contemporanea (Kavafis compreso)305:

Stavolta l’insegnante arriva alle baracche del liceo con una novità. Regge sulle spalle un
grosso, pesantissimo pacco. E due negretti che gli trotterellano dietro, ne reggono altri
due anch’essi grossi e pesantissimi. [...] Si aprono in classe i pacchi. Sono libri, un
centinaio di libri che l’insegnante ha fatto pervenire dall’Europa. Libri sull’Africa,
sull’etnologia dei popoli selvaggi, poeti: poeti negri, e Hikmet, Neruda... Eliot, Thomas,
Machado, Kavafis...306

!
che aveva privilegiato la coerenza interna e la godibilità), sono citati solo canti erotici; nessun moirologi, benché il
capitolo resti comunque segnato da tensioni disforiche, distruttive.
302
Vd. infra, sottopar. 1.2.1.
303
Cfr. e.g. PASOLINI 1998c, p. 345 (dove una reminiscenza di !"#$ %&'()(*#+ ",) (*-#.# si lega al paradigma
erotico-espressionista di Lucilio; cfr. infra, par. 2.1): «Non lo sospetti, ma ogni boccone, ogni sorsata e ogni boccata
di fumo, nel primo bar, ti scolpiva nel marmo della tua bellezza ancora non creata».
304
Cfr. PASOLINI 2001a, pp. 3052-3053 e BINI 2018, p. 68.
305
Per un sunto dell’opera vd. ZOLETTO 2010, pp. 21-23.
306
PASOLINI 2001a, p. 273.

! 85
0.4. Un excursus: Pasolini insegnante di latino a Casarsa, Valvasone e Ciampino
(1943-1954)

Il padre selvaggio mi dà l’abbrivio per sunteggiare un altro dato biografico che


un’indagine complessiva sul classicismo di Pasolini non poteva tralasciare:
l’insegnamento di lettere, storia e geografia tra il Friuli e Roma; ma prima di venire ai
dati evenemenziali vediamo come il poeta li ha rielaborati nel progetto filmico.
Anzitutto sia chiaro che Il padre selvaggio dipende solo in parte da esperienze
biografiche del regista; alla sua origine vi è anzi l’attualità storica dell’Africa, già
incontrata marginalmente nel 1960 a Siracusa per la partecipazione all’Orestiade del
Tpi. Se allora si era trattato dell’adesione a un programma altrui e di un’idea
antropologico-culturale dell’Africa – in sintonia con l’interpretazione marxista di
Eschilo avanzata da George Thomson, sposata da Lucignani e Gasmann e visualizzata
dallo scenografo e costumista Teo Otto, che optò appunto per l’immaginario
«totemistico»307 –, al contrario nel 1962 fu Pasolini in persona a ricercare con tenacia (e
in loco!) l’ambientazione equatoriale: memore della trilogia (e in particolare del
personaggio delle Erinni/Eumenidi) ne Il padre selvaggio decise di raccontare la
difficile storia di sublimazione del tribalismo nella neonata democrazia congolese; la cui
liberazione, subito contrastata dalla secessione del Katanga, era passata all’attenzione
della stampa europea per il massacro di tredici soldati italiani in servizio presso il
contingente ONU (l’eccidio di Kindu, del novembre 1961). Ma sul tavolo di lavoro vi
era anche il reportage di Yves Bénot uscito su Il contemporaneo del dicembre 1961, Tre
anni di insegnamento a Conacry308: fu questa la lettura che originò prima il soggetto e
poi il trattamento; era la testimonianza di un appassionato intellettuale francese – già
insegnante in Marocco nei primissimi anni ’50 – che aveva abbandonato l’attività
giornalistica parigina (prima per Ce soir, poi per Les Lettres françaises) e nel 1959 era
ritornato al vecchio mestiere, stavolta però in una scuola superiore della capitale
africana e con il progetto esplicito di rendere più libere e consapevoli le generazioni
della nuova Guinea indipendente grazie a una pedagogia non convenzionale,
anticolonialista – cioè fondata sullo studio della letteratura autoctona (i poeti neri
contemporanei) al posto di quella ufficiale francese, sulla discussione militante di temi
d’attualità e sulla parziale autogestione degli studenti 309 . Alla storia africana
contemporanea e al fantasma eschileo310 Pasolini aggiunse sia la propria esperienza di
scolaro sia quella di maestro: è vero che dalla vicenda di Bénot ricavò molti dettagli311,
così come dalla cronaca politica, e pure dai viaggi africani con Alberto Moravia e Dacia
!
307
PASOLINI 1960b, p. 178. Cfr. infra, par. 4.1.
308
Cfr. PASOLINI 2001a, p. 3053.
309
Cfr. DORIGNY 2005, pp. 151-152.
310
L’eredità di Orestiade è ravvisabile soprattutto nel coprotagonista de Il padre selvaggio, cioè nello scolaro
prediletto dall’insegnante, che alla stregua di un piccolo Oreste riesce faticosamente a sublimare le proprie origini
tribali attraverso la scuola, attraverso il lume della ragione – l’idea torna in Appunti per un’Orestiade africana, con
Oreste in persona in luogo di Davidson ’Ngibuini e l’Università di Dar es Salaam al posto della scuola di Kado.
311
Cfr. PASOLINI 2001a, p. 3054.

! 86
Maraini, ma nella storia dell’incontro fra l’innominato insegnante europeo e Davidson
’Ngibuini (lo scolaro schivo e brillante che alla fine diverrà poeta talentuoso) disseminò
persino il ricordo dei propri esperimenti didattici friulani – anche perché si rispecchiò
nell’eroico insegnamento di Bénot, lo vedremo fra un attimo. Mentre le somiglianze fra
la pedagogia reale e quella filmica sono già state segnalate312, sono passati inosservati
particolari molto fertili per il quadro tracciato in questo capitolo: per esempio quella che
il soggetto definiva in breve la cultura del «classicismo accademico»313 viene precisata
dalle prime scene del trattamento, dedicate ai primi giorni di scuola del nuovo docente,
e si concretizza in una emblematica lezione «sulle origini della poesia latina (Nevio,
Ennio, ecc.)» 314. Già sappiamo che fu proprio questo il tema del primo corso di
letteratura latina seguito all’università e pertanto non deve stupire che finanche la
disciplina diletta risulti accantonata a favore di Kavafis e degli altri poeti non canonici:
sia perché con ogni probabilità l’autore de Il padre selvaggio non aveva in mente le
lezioni dell’eccentrico Coppola ma il corso di un professore assai più convenzionale
come il Funaioli; sia – segnatamente – perché ormai scriveva da una mutata prospettiva,
non più quella dello scolaro timido e conformista (e ancora fascista), simile mutatis
mutandis a Davidson315, bensì quella di un intellettuale maturo e corsaro che aveva
sperimentato per diversi anni l’insegnamento del latino, e avendo a cuore che i suoi
scolari ‘poveri’ lo imparassero sul serio si era addirittura inventato un metodo ludico.
Ex post Pasolini criticò la propria formazione classica e lo studio mnemonico-
nozionistico anche in termini molto duri316; ma sempre e solo da un punto di vista
ideologico, cioè in quanto classista ed esclusiva: se la pellicola avrebbe dovuto narrare
un vero e proprio sovvertimento dei temi scolastici, nell’attività didattica reale il nostro
non arrivò mai a tanto perché confidava nel valore delle lettere antiche – a patto che
diventassero un patrimonio ‘comune’ e non precludessero lo studio dei poeti viventi:
ossia credeva nei classici senza le prevaricazioni e le idolatrie del «classicismo
accademico» che aveva conosciuto assai bene da ragazzo e aveva visto sopravvivere
alla caduta del fascismo. Desidero terminare l’archaiologia con l’accenno a questo film
mai girato e con poche considerazioni sul Pasolini maestro di latino non soltanto per
completezza ma inoltre perché il finale sia tanto di monito quanto riconferma di ciò che
andavo dicendo nell’introduzione. Il monito a non dare un peso soverchio ai maestri:
essi vanno rapportati principalmente con il poeta in formazione (quindi non molto al di
là del 1950). E la riprova che i poeti antichi sono una fonte ineludibile di poesia, eppure
il Pasolini adulto non li pone quasi mai su un piedistallo: si legano indissolubilmente al
!
312
Cfr. CAMINATI 2007, pp. 117-120.
313
PASOLINI 2001a, p. 318.
314
PASOLINI 2001a, p. 268.!
315
Vd. PASOLINI 2001a, p. 318: «Tra gli scolari, uno, Davidson, è il più ostile di tutti alle novità di metodo e di
cultura del nuovo insegnante: ed è il più ostile proprio perché è il più intelligente e il più sensibile. Sono infatti gli
intelligenti ed i sensibili che si appassionano alle cose con un attaccamento che può essere fazioso: anche alle
istituzioni del conformismo e alla retorica».
316
«Il professore chiama lui e, a differenza degli altri, Davidson parla. Ma, su Ennio e Nevio, recita una assurda
lezioncina, visibilmente imparata a memoria o quasi, una serie di informazioni banali e accademiche da vecchio
manuale scolastico» (PASOLINI 2001a, p. 269).

! 87
Passato e vanno perciò letti e difesi, però la priorità è data alle letterature (e alle
urgenze) del presente.
Il nostro fu polemico verso la cultura scolastica non solo nella “sceneggiatura”
appena discussa ma anzitutto come insegnante: ne resta traccia sia nelle memorie degli
allievi sia in un articolo uscito sul quotidiano Il Mattino del Popolo quando era da poco
diventato professore di lettere nella scuola media di Valvasone, Scolari e libri di testo
(26.11.1947). Dopo una lunga premessa pedagogica Pasolini polemizza in particolare
con i colleghi più anziani, autori di antologie scolastiche per le medie inferiori: ne
critica tre equivoci concettuali di cui informerebbero i loro testi, nonché la scelta di
conformarsi pedissequamente ai programmi ministeriali (e precidere così la lettura degli
scrittori contemporanei)317. Non è questa la sede opportuna per entrare nel dettaglio
dell’articolo, che invoca un tema molto dibattuto da Pasolini anche altrove e, di
conseguenza, dalla letteratura critica sull’autore: la passione pedagogica che dovrebbe
animare ciascun insegnante, l’insegnamento come accensione dell’amore per la
conoscenza più che acquisizione di conoscenze, etc. etc.318; ripeterei il già detto e
amplierei il presente excursus più dell’opportuno. In realtà io ho voluto ricordare
Scolari e libri di testo come documento storico per una ricostruzione ‘impossibile’: lo
scritto menziona gli strumenti dell’insegnante, cioè le grammatiche e gli eserciziari di
italiano e latino, le edizioni scolastiche dei poemi epici, le detestate antologie di
letteratura italiana; a dire il vero non è dato nessun riferimento bibliografico preciso, ma
anche se l’articolo ne fosse stato provvisto tali indicazioni avrebbero avuto ben poco
valore, perché dalle testimonianze degli alunni raccolte da Giuseppe Mariuz (per il
Friuli) e da Enzo Lavagnini e Giordano Meacci (per Ciampino) risulta che il professor
Pasolini non faceva uso dei «libri di testo» e si era inventato in compenso un metodo
tutto personale per coinvolgere le classi nelle materie insegnate. In più la ricostruzione
mi sembra impossibile perché il nostro non procedeva per discipline serrate, bensì, per
citare l’alunno ciampinese Ugo Ferranti, seguiva il metodo dell’«insegnamento totale»:
«Quando leggevamo l’Iliade si faceva anche geografia, il discorso si ampliava. ‹Dov’è
Troia?›. Allora lui ci indicava la zona dei ritrovamenti sulla cartina. Eravamo
entusiasti»319. Stando a questa singola memoria, in fondo Pasolini non parrebbe assai
diverso dai docenti di un tempo, meno iperspecializzati di quelli odierni e perciò più
inclini all’interdisciplinarità; ma considerandola assieme alle altre emergono anzi una
ferma volontà di infrazione della norma e la necessità di leggere ‘assieme’ i poeti
classici e quelli contemporanei320: quando spiegava i poemi omerici non illustrava
soltanto le cartine, vi affiancava la lettura di Virgilio, Dante, Marinetti, Ungaretti e
persino i suoi amici in carne e ossa (Paolo Volponi, Attilio Bertolucci, etc., non Alvaro

!
317
PASOLINI 1999b, pp. 50-54.
318
Cfr. almeno il saggio apripista Pedagogia (1977) in ZANZOTTO 1994, pp. 141-152, CAPITANI-VILLA 2005,
MEACCI 2015 e CARNERO-FELICE 2015.
319
MEACCI 2015, p. 115 (corsivo mio, perché non passi inosservato anche quel dettaglio).
320
Vd. per esempio la testimonianza dell’allievo pasoliniano più illustre, Vincenzo Cerami: MEACCI 2015, pp.
61-62.

! 88
Rissa!) – e sia chiaro che li presentava alle sue classi non per renderle piccole
accademie di critici aggiornati sull’ultima novità letteraria bensì per comunicare forte e
chiaro che la poesia non è lettera morta. Ciò che appare straordinario da uno studio delle
memorie su Pasolini professore è che l’«insegnamento totale», l’attualità del classico, la
poesia vivente, il gioco del «totolatino» 321 e gli altri accorgimenti finalizzati a destare la
curiosità per una lingua particolarmente estranea ai suoi alunni, bambini di umile classe
sociale: tutto ciò non implicava una perdita né di formalità né di coscienza storica delle
differenze fra gli autori trattati; nonostante l’adozione di un metodo ludico il nostro
mirava alla ‘complessità’, perché uno degli equivoci della letteratura scolastica
esplicitati nel sullodato articolo era proprio l’impostazione didascalica dei vecchi
colleghi. Secondo Pasolini la giusta tecnica non era quella di regredire al presunto
livello inferiore del discente ma il continuo sforzo di rendere l’allievo compartecipe del
processo conoscitivo: coinvolgerlo attivamente – in modi diversi a seconda della
situazione – per fargli sperimentare di persona ciò di cui si andava trattando; e poiché la
sua disciplina era anzitutto lingua e letterratura, il professor Pasolini rendeva le proprie
aule delle officine di scrittura entro cui potevano nascere poesie, recite teatrali, racconti,
etc. E questo senza porsi tirannicamente come ‘il’ modello da seguire o per arruolare
nuovi scrittori: al contrario, oltre che per praticare la semplice scrittura italiana (e latina)
corretta, per rendere più comprensibile il processo letterario, renderne evidente la
laboriosità, il carattere non estemporaneo. Pertanto chi desideri ricostruire l’attività del
Pasolini insegnante deve guardare alle opere ‘comuni’ nate in seno all’Academiuta di
lenga furlana, o prendere in mano i quaderni gelosamente custoditi da alcuni alunni
ciampinesi; non tanto i registri di classe, i programmi ministeriali e i libri di testo.
Anche se è concettualmente scorretto isolare il professore di latino da quello di
italiano, storia e geografia, devo farlo per comporre l’ultimo tassello di questa base
biografica; tradirò senza dubbio gli ideali didattici del nostro, però non incrino le
fondamenta della mia argomentazione storico-critica: provo quindi a riassumere i dati
evenemenziali322. Pasolini visse tre diverse esperienze di insegnamento: la prima nella
campagna friulana, quand’era ancora studente (transfuga) dell’Università di Bologna
(autunno 1943-primavera 1945). All’inizio dell’a. s. 1943-1944 assieme a Giovanna
Bemporad e altri due amici aprì a San Giovanni (frazione di Casarsa) una scuola che
aveva anzitutto il compito di garantire la continuità didattica a chi era impossibilitato
dalla guerra a frequentare gli istituti pubblici; ma l’esperimento durò solo poche
settimane perché il provveditore agli studi di Udine ne ordinò quasi subito la chiusura.
Pasolini tuttavia non si diede per vinto e ripropose la stessa formula prima a Casarsa,
nella sala da pranzo di casa, e poi nella stanza affittata nel casale di Versuta (e campi
limitrofi), dove nel frattempo era sfollato per ripararsi dai bombardamenti – qui venne

!
321
Cfr. LAVAGNINI 2005, p. 115; MEACCI 2015, pp. 116, 261.
322
La sintesi è tracciata a partire da CHIAROTTO 1995, integrato dalla lettura delle svariate testimonianze raccolte
in MARIUZ 1993 e, soprattutto, MEACCI 2015. Un capitolo sul Pasolini insegnante di latino non è ancora stato scritto.

! 89
arruolata come insegnante anche la madre Susanna Colussi323. Finché fu spalleggiato
dall’amica, insegnò solo il latino (oltre a storia, geografia e italiano)324; alla sua dipartita
si assunse pure la responsabilità del greco. Di questo primo periodo occorre evidenziare
un tema preciso (e la cornice storica). Nico Naldini, uno degli alunni, ricorda come
«evento memorabile» le lezioni sulle Georgiche di Virgilio, lettura che ha lasciato il
segno anche nell’opera scritta (meno, però, di quella delle Bucoliche)325; se questo
argomento così tradizionale parebbe ridimensionare la sua eterodossia pedagogica, si
tenga invece presente che il quadro bellico entro cui nasce la «scuoletta privata» può
essere messo in relazione con l’attualità congolese de Il padre selvaggio: la missione
civile di Pasolini è analoga a quella dell’anonimo maestro di Davidson ’Ngibuini
(portare il fuoco della poesia mentre... saevit toto Mars impius orbe326), analoghi il
fervore e i mezzi didattici. È con tutta probabilità tra Casarsa e Versuta che il giovane
poeta meditò sull’insegnamento, sui propri maestri, e, spronato anche dalle contingenze
belliche, si inventò nuove strategie di “seduzione”. Il secondo periodo di insegnamento
è altrettanto breve: dall’a. s. 1947-1948 al 1948-1949; ma questa volta il nostro opera
dentro il sistema della pubblica istruzione, impegnato nel rodaggio della neonata scuola
media inferiore: è professore incaricato alla scuola media di Valvasone. Come è noto, il
terzo anno viene abortito dalla denuncia per atti osceni con minori; espulso
dall’insegnamento pubblico potrà tornare in aula solo in una piccola scuola media
parificata, la Francesco Petrarca di Ciampino. Vi insegna dall’a. s. 1951-1952 ai primi
mesi del 1954-1955, più per necessità che per desiderio (ma non senza vocazione); né
va dimenticato che il professore inizia in parallelo un’intensa opera di scrittura
letteraria, cinematografica e critica che alla fine gli consentirà proprio di emanciparsi e
rinunciare all’impegnativo – ma poco remunerativo – insegnamento. Oltre al metodo
ludico e interdisciplinare del suo latino, gli allievi ne hanno ricordato ancora le letture
virgiliane327: notizia che sarà da tenere in gran conto in vista del quarto capitolo. Credo
però che sia più importante chiudere su un’ulteriore esperienza di insegnamento
ufficiosa. Pasolini insegnò greco e latino alla figlia del preside della Petrarca per
prepararla alla quinta ginnasio e lei, Misa Bolotta, ne ha ricordato non solo la lettura dei
lirici (Ibico in particolare328) ma perfino il segno del Maestro: «Mi faceva dei discorsi
sulla fonologia delle parole, mi faceva osservare anche come cambiava la mia scrittura

!
323
Quando era possibile faceva lezione all’aria aperta oppure, anziché al chiuso del casale in cui era ospite, fra le
mura di un piccolo deposito di attrezzi agricoli messo a disposizione dal nonno di Antonio Spagnol: cfr. CLAROTTO
2018, p. 55. Sull’insegnamento a Versuta vd. anche i capitoli quarto e sesto di Atti impuri, cioè PASOLINI 1998b, pp.
59-71, 87-93.
324
Cfr. BEMPORAD 1998, p. 101.
325
Cfr. GOLINO 2015, p. 216, ma anche NALDINI 1989, p. 62 e CHIAROTTO 1995, p. 402. Sugli esiti letterari vd.
infra, par. 1.4.
326
VERG. Georg. 1, v. 511.
327
Uno addirittura ricordava la metrica di qualche verso dell’Eneide: cfr. MEACCI 2005, p. 334 (ma vd. anche p.
235).
328
Fr. 286 PMG, letto a Misa Bolotta nella traduzione di QUASIMODO 1940, p. 156.

! 90
quando scrivevo in greco, come l’alfabeto greco fosse più bello. Forse ho studiato
grafologia per questo»329.

!
329
LAVAGNINI 2005, p. 116.

! 91
BIBLIOGRAFIA

1. FONTI PRIMARIE

1.1.1. Opere (cartacee) di Pasolini

PASOLINI 1942 = Pier Paolo Pasolini, “Nota sull’odierna poesia”, «Gioventù italiana del
Littorio. Bollettino del Comando federale di Bologna», aprile 1942, p. 6.
PASOLINI 1955 = Pier Paolo Pasolini (a c. di), Canzoniere italiano. Antologia della poesia
popolare, Guanda, Parma 19551 (3ª ed.: Garzanti, Milano 1992).
PASOLINI 1960a = Eschilo, Orestiade, trad. di Pier Paolo Pasolini, S.T.E.U., Urbino 1960.
PASOLINI 1960b = Eschilo, Orestiade, trad. di Pier Paolo Pasolini, (“Quaderni del Teatro
popolare italiano”), Einaudi, Torino 1960.
PASOLINI 1982 = Pier Paolo Pasolini, Amado mio preceduto da Atti impuri, a c. di Concetta
D’Angeli, Garzanti, Milano 1982.
PASOLINI 1986 = Pier Paolo Pasolini, Lettere 1940-1954, a c. di Nico Naldini, Einaudi, Torino
1986.
PASOLINI 1988 = Pier Paolo Pasolini, Lettere 1955-1975, a c. di Nico Naldini, Einaudi, Torino
1988.
PASOLINI 1993 = Pier Paolo Pasolini, Antologia della lirica pascoliana. Introduzione e
commenti, a c. di Marco Antonio Bazzocchi, Ezio Raimondi, Einaudi, Torino 1993.
PASOLINI 1998a = Pier Paolo Pasolini, La meglio gioventù, a c. di Antonia Arveda, Salerno,
Roma 1998.
PASOLINI 1998b = Pier Paolo Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, 1946-1961, a c. di Silvia De
Laude, Walter Siti, (“I Meridiani”), Arnoldo Mondadori, Milano 1998.
PASOLINI 1998c = Pier Paolo Pasolini, Romanzi e racconti, vol. II, 1962-1975, a c. di Silvia De
Laude, Walter Siti, (“I Meridiani”), Arnoldo Mondadori, Milano 1998.
PASOLINI 1999a = Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a c. di Silvia De
Laude, Walter Siti, (“I Meridiani”), Arnoldo Mondadori, Milano 1999.
PASOLINI 1999b = Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a c. di Silvia De
Laude, Walter Siti, (“I Meridiani”), Arnoldo Mondadori, Milano 1999.
PASOLINI 2001a = Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, a c. di Walter Siti, Franco Zabagli (“I
Meridiani”), Arnoldo Mondadori, Milano 2001.
PASOLINI 2001b = Pier Paolo Pasolini, Teatro, a c. di Silvia De Laude, Walter Siti (“I
Meridiani”), Arnoldo Mondadori, Milano 2001.!
PASOLINI 2003a = Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, t. I, a c. di Walter Siti, (“I Meridiani”),
Arnoldo Mondadori, Milano 2003.

! 369
PASOLINI 2003b = Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, t. II, a c. di Walter Siti, (“I Meridiani”),
Arnoldo Mondadori, Milano 2003.
PASOLINI 2005a = Pier Paolo Pasolini, Théâtre 1938-1965, a c. di Hervé Joubert-Laurencin, Les
Solitaires Intempestifs, Besançon 2005.
PASOLINI 2005b = Giacomo Trevisan, Pier Paolo Pasolini, Edipo all’alba. L’edizione critica –
Tesi di laurea discussa alla Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Udine, A. A. 2004-2005.
PASOLINI 2015 = Pier Paolo Pasolini, Il mio cinema, a c. di Graziella Chiarcossi, Roberto
Chiesi, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2015.

1.1.2. Edizioni DVD dei film discussi

Cecilia Mangini, Stendalì. Suonano ancora, Fotogrammi/Kurumuny, Calimera 2005.


Pier Paolo Pasolini, Appunti per un’Orestiade africana, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna
2009.
Pier Paolo Pasolini, Edipo re, Medusa, Milano 2006.
Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma, (“Cinema Forever”), Medusa, Milano 2004.
Pier Paolo Pasolini, Medea/Le mura di Sana’a, Minerva-Raro Video, Roma 2005.
Pier Paolo Pasolini, La rabbia, Minerva-Raro Video, Roma 2008.
Pier Paolo Pasolini, Sopralluoghi in Palestina/Ivo Barnabò Micheli, A futura memoria, 2 DVD,
Ripley’s Home Video, Roma 2005.
Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, (“Cinema Forever”), Medusa, Milano 2004.

1.2.1. Classici greci e latini (quando possibile citati nelle edizioni usate da Pasolini1) e
traduzioni (doppiamente asteriscate quelle possedute da Pasolini)

David Asheri (ed.), Erodoto, Le storie, vol. I, Libro I. La Lidia e la Persia, (“Scrittori greci e
latini”), Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori, Roma-Milano 1988.
Guido Avezzù (ed.), Sofocle, Edipo a Colono, (“Scrittori greci e latini”), Fondazione Lorenzo
Valla-Arnoldo Mondadori, Milano 2008.
Luigi Belloni (ed.), Eschilo, I Persiani, Vita e Pensiero, Milano 19881 (2ª ed., 1994).
BROWN 2018 = Andrew Brown (ed.), Aeschylus, Libation Bearers, Liverpool University Press,
Liverpool 2018.
CHARPIN 1978 = François Charpin (ed.), Lucilius. Satires, vol. I, Livres I-VIII, Les Belles
Lettres, Paris 1978.
CHARPIN 1979 = François Charpin (ed.), Lucilius. Satires, vol. II, Livres IX-XXVIII, Les Belles
Lettres, Paris 1979.
Christopher Collard (ed.), Euripides, Supplices, Teubner, Leipzig 1984.
Georges De Plinval (ed.), Cicéron, Traité des lois, Les Belles Lettres, Paris 1959.
!
1
In tal caso sono asteriscate.

! 370
DELLA VALLE 1952 = Eugenio Della Valle, L’Antigone di Sofocle. Introduzione, saggio e
versione poetica, Laterza, Bari 1952.
Ernst Diehl (ed.), Anthologia lyrica, vol. I/fasc. IV, Poetae melici. Monodia, Fragmenta
Adespota, Teubner, Leipzig 19362 (1ª ed.: Anthologia lyrica Graeca, vol. IV, Poetae melici.
Monodia, 1925).
Euripides, Bacchae, a c. di Eric Robertson Dodds, Oxford University Press, Oxford 19441 (2ª
ed., 1960).
FERRARI 2010 = Franco Ferrari, Sofocle, Antigone – Edipo re – Edipo a Colono, (“BUR”),
Rizzoli, Milano 2010.
FO 2012 = Publio Virgilio Marone, Eneide, a c. di Alessandro Fo, Einaudi, Torino 2012.
Georges Fohlen (ed.), Cicéron, Tusculanes, vol. II, III-V, Les Belles Lettres, Paris 1960.
FRACCAROLI 1913 = Giuseppe Fraccaroli, Lirici greci. (Poesia melica), Bocca, Torino 1913.
GALLAVOTTI 1948b = Carlo Gallavotti (ed.), Saffo e Alceo. Testimonianze e frammenti, vol. II,
Libreria Scientifica Editrice, Napoli 19481 (3ª ed, 1957).
Carlo Gallavotti (ed.), Theocritus quique feruntur Bucolici Graeci, Publica officina
polygraphica, Roma 19933 (1ª ed, 1946).
Bruno Gentili (ed.), Pindaro, Le Olimpiche, (“Scrittori greci e latini”), Fondazione Lorenzo
Valla-Arnoldo Mondadori, Milano 2013.
Mario Geymonat (ed.), P. Vergili Maronis Opera, Edizioni di storia e letteratura, Roma 20082
(1ª ed.: Paravia, Torino 1973).
GRIFFITH 1999 = Mark Griffith (ed.), Sophocles, Antigone, Cambridge University Press,
Cambridge 1999.
HALLERAN 1995 = Michael R. Halleran (ed.), Euripides, Hippolytus, Aris & Phillips,
Warminster 1995.
KRENKEL 1970 = Werner Krenkel (ed.), Lucilius. Satiren, vol. I, Brill, Leiden 1970.
Hugh Lloyd-Jones, Nigel Guy Wilson (eds.), Sophoclis Fabulae, Oxford University Press,
Oxford 1990.
Matthew Donald Macleod (ed.), Luciani opera, voll. II (Libelli 26-43), IV (Libelli 69-80),
Oxford University Press, Oxford 1974-1987.
MASTRONARDE 1994 = Donald J. Mastronarde (ed.), Euripides, Phoenissae, Cambridge
University Press, Cambridge 19942 (1ª ed.: Teubner, Leipzig 1988).
MAZON 1949 = *Paul Mazon (ed.), Eschyle, vol. II, Agamemnon, Les Choéphores, Les
Euménides, Les Belles Lettres, Paris 19492 (1ª ed., 1925).
MAZON 1955 = *Alphonse Dain (ed.), Paul Mazon (trad.), Sophocle, vol. I, Les Trachiniennes,
Antigone, Les Belles Lettres, Paris 19551 (2ª ed., 1962).
Silvio Medaglia (ed.), Erodoto, Le storie, vol. IV, Libro IV. La Scizia e la Libia, (“Scrittori
greci e latini”), Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori, Milano 19931 (2ª ed., 2001).
MONTI 1952a = Omero, Iliade tradotta da Vincenzo Monti, vol. I, (“BUR”), Rizzoli, Milano
1952.

! 371
MONTI 1952b = Omero, Iliade tradotta da Vincenzo Monti, vol. II, (“BUR”), Rizzoli, Milano
1952.
Konrad Müller (ed.), Petronii Arbitri Satyricon reliquiae, Saur, München-Leipzig 20034 (1ª ed.:
Heimeran, München 1961).
NOVELLI 1959 = **Pietro Novelli, Sofocle, Antigone, Società anonima editrice Dante Alighieri,
Milano-Roma-Napoli-Città di Castello 1959.
Omero, Iliade, a c. di Maria Serena Mirto, Guido Paduano, (“I millenni”), Einaudi, Torino
2012.
Omero, Odissea, a c. di Guido Paduano, (“I millenni”), Einaudi, Torino 2010.
Ovidio, Metamorfosi, vol. III, Libri V-VI, a c. di Gianpiero Rosati, (“Scrittori greci e latini”),
Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori, Milano 2009.
Denys Lionel Page (ed.), Poetae melici Graeci, Oxford University Press, Oxford 1962.
Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. V, Mineralogia e storia dell’arte. Libri 33-37, a c. di
Antonio Corso, Rossana Mugellesi, Gianpiero Rosati, (“I millenni”), Einaudi, Torino 1988.
PONTANI 1965 = **Saffo – Alceo – Anacreonte, Liriche e frammenti, a c. di Filippo Maria
Pontani, (“Collezione di poesia”), Einaudi, Torino 1965.
PORRO 1996 = Alceo, Frammenti, a c. di Antonietta Porro, Giunti, Firenze 1996.
G. Aurelio Privitera (ed.), Pindaro, Le Istmiche, (“Scrittori greci e latini”), Fondazione Lorenzo
Valla-Arnoldo Mondadori, Roma-Milano 1982.
QUASIMODO 1940 = **Salvatore Quasimodo, Lirici greci, Edizioni di «Corrente», Milano 19401
(ultima ed.: a c. di Niva Lorenzini, Arnoldo Mondadori, Milano 2004).
RICCI 1951 = **Sofocle, Il mito di Edipo. Edipo re, Edipo a Colono, Antigone, a c. di
Domenico Ricci, (“BUR”), Rizzoli, Milano 1951.
RICCI 1953 = **Sofocle, Aiace, Elettra, Le Trachinie, Filottete, I segugi, a c. di Domenico
Ricci, (“BUR”), Rizzoli, Milano 1953.
RICCI 1954 = **Euripide, Alcesti, Medea, Ippolito, Il Ciclope, a c. di Domenico Ricci, (“BUR”),
Rizzoli, Milano 1954.
ROMAGNOLI 1926 = Ettore Romagnoli, Sofocle, Le tragedie, vol. II, Edipo re, Edipo a Colono,
Antigone, Zanichelli, Bologna 1926.
ROMAGNOLI 1932 = Ettore Romagnoli, I poeti lirici, vol. II, Terpandro, Alceo, Saffo,
Zanichelli, Bologna 1932.
ROMAGNOLI 1933 = Ettore Romagnoli, I poeti lirici, vol. III, Alcmane, Anacreonte, Corinna,
Zanichelli, Bologna 1933.
SALVETI 1976 = Gaetano Salveti, Rapsodia arcaica. Lirici greci, Rebellato, Treviso 1976.
SERMONTI 2007 = Vittorio Sermonti, L’Eneide di Virgilio, (“BUR”), Rizzoli, Milano 2007.
SETTEMBRINI 1974 = **Luciano, I Dialoghi. Dialoghi degli Dei, Dialoghi marini, Dialoghi dei
morti, Dialoghi delle cortigiane, trad. di Luigi Settembrini, (“I Millenni”), Einaudi, Torino
1974.
Sofocle, La morte di Eracle (Trachinie), a c. di Andrea Rodighiero, Marsilio, Venezia 2004.
Walter Stockert (ed.), Euripides, Hippolytus, Teubner, Leipzig 1994.

! 372
THOMSON 1938 = George Thomson (ed.), The Oresteia of Aeschylus, vol. I, Cambridge
University Press, Cambridge 19381 (2ª ed.: Hakkert-Academia, Amsterdam-Prague 1966).
UNTERSTEINER 1947 = Mario Untersteiner (ed.), Eschilo, Le tragedie, vol. II, Sette contro Tebe,
Agamennone, Coefore, Eumenidi, Istituto editoriale italiano, Milano 1947.
VALGIMIGLI 1942 = Manara Valgimigli, Saffo e altri lirici greci, Edizioni del Pellicano, Vicenza
19421 (3ª ed.: (“Lo specchio”), Arnoldo Mondadori, Milano 1954).
Herman van Looy (ed.), Euripides, Medea, Teubner, Leipzig 1992.
VIVALDI 1962 = **Publio Virgilio Marone, Eneide, a c. di Cesare Vivaldi, Guanda, Parma
19621 (4ª ed.: 2 voll., Garzanti, Milano 1990).
Eva-Maria Voigt (ed.), Sappho et Alcaeus, Athenaeum-Polak & Van Gennep, Amsterdam 1971.
Eric Herbert Warmington (ed.), Remains of Old Latin, vol. III, Lucilius, The Twelve Tables,
Heinemann-Harvard University Press, London-Cambridge (Massachusetts) 1961.
Eric Herbert Warmington (ed.), Remains of Old Latin, vol. IV, Archaic Inscriptions,
Heinemann-Harvard University Press, London-Cambridge (Massachusetts) 1953.

1.2.2. (Alcuni) libri di scuola di Pasolini

a) Ginnasio

BASSI-GIORNI 1936 = Marco Tullio Cicerone, Lettere, a c. di Domenico Bassi, Carlo Giorni,
Sansoni, Firenze 1936.
BRIGHENTI 1931 = Luciano, Dialoghi, a c. di Carlo Brighenti, Cristofari, Milano 1931.
GIORNI 1933 = Virgilio, Il libro XII dell’Eneide, a c. di Carlo Giorni, Sansoni, Firenze 1933.
GUIDA 1935 = Senofonte, Il primo libro dell’Anabasi, a c. di Cesare Guida, Signorelli, Milano
1935.
PARISI 1934 = Giuseppe Parisi, Letture dell’Odissea di Omero tradotta da Ippolito Pindemonte,
Trevisini, Milano 19341 (2ª ed., 1946).
TURRI 1933 = Virgilio, L’Eneide tradotta da Annibal Caro, a c. di Vittorio Turri, Sansoni,
Firenze 19333 (1ª ed., 1892).

b) Liceo

ARFELLI 1933 = Sofocle, Antigone, a c. di Dario Arfelli, Signorelli, Milano 1933.


CASALI 1938 = Leandro Casali, Autori cristiani. Lattanzio, Sant’Agostino, Tertulliano,
Sant’Ambrogio, Minucio Felice, Nuovo Testamento, Inni ed epigrammi, Sansoni, Firenze 1938.
CESSI 1937 = Demostene, Sulla condotta sleale della seconda ambasceria, a c. di Camillo
Cessi, Signorelli, Milano 1937.
DECIA-PAOLI 1937 = Giovanni Decia, Florilegio greco, a c. di Ugo Enrico Paoli, Le Monnier,
Firenze 1937.
GUZZO 1934 = Platone, Dialoghi, vol. IV, Fedone, a c. di Augusto Guzzo, Vallecchi, Firenze
19342 (1ª ed., 1925).

! 373
MARCHESI 1937 = Concetto Marchesi, Scriptorum Romanorum supplementum, Principato,
Milano-Messina 19372 (1ª ed., 1936).
MARCHESI 1938 = Tacito, Tre Cesari. Tiberio, Nerone, Ottone, a c. di Concetto Marchesi,
Principato, Messina-Milano 1938.
ROSTAGNI 1934 = Augusto Rostagni, Storia della letteratura greca, Arnoldo Mondadori,
Milano 19341 (3ª ed., 1946).
ROSTAGNI 1936 = Augusto Rostagni, Storia della letteratura latina, Arnoldo Mondadori,
Milano 19361 (3ª ed.: 2 voll., U.T.E.T., Torino 1949-1952).

c) Università

COPPOLA 1941a = Goffredo Coppola, Letteratura latina, Cappelli, Bologna 1941.


COPPOLA 1941b = Goffredo Coppola, Gaio Lucilio cavaliere e poeta, Zanichelli, Bologna
1941.
KELLER-HOLDEN 1899-1925 = Otto Keller, Alfred Holden (edd.), Q. Horati Flacci opera, 2
voll., Teubner, Leipzig 1899-19252 (1ª ed., 1864-1869).
MARX 1904-1905 = Friedrich Marx (ed.), C. Lucilii carminum reliquiae, 2 voll., Teubner,
Leipzig 1904-1905.
SOLARI 1940 = Arturo Solari, L’impero romano, vol. I, Unità e universalità di Augusto, Società
Editrice Dante Alighieri, Genova-Roma-Milano-Napoli 1940.

2. FONTI SECONDARIE
!
ADDIS SABA-ALFASSIO GRIMALDI 1983 = Marina Addis Saba, Ugoberto Alfassio Grimaldi,
Cultura a passo romano. Storia e strategie dei Littoriali della cultura e dell’arte, Feltrinelli,
Milano 1983.
ADORNO 1969 = Theodor W. Adorno, “Televisione e modelli di cultura di massa”, in Marino
Livolsi (a c. di), Comunicazioni e cultura di massa. Testi e documenti, Hoepli, Milano 1969, pp.
379-393 (1ª ed. or.: “How to Look at Television”, «Quarterly of Film, Radio and Television» 8,
1954, pp. 213-235).
ADORNO-HORKHEIMER 1966 = Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Dialettica
dell’illuminismo, Einaudi, Torino 19661 (2ª ed. or.: Dialektik der Aufklärung. Philosophische
Fragmente, Querido, Amsterdam 1947 [1ª ed., 1944]).
ALBINI 1967 = Umberto Albini, “Recenti versioni di Plauto”, «A&R» 12 (NS), gennaio-giugno
1967, pp. 14-22.
ALBINI 1979 = Umberto Albini, “Il banco di prova delle Coefore”, «Dioniso» 50, 1979 – Atti
del convegno La traduzione dei testi teatrali antichi, Siracusa-Lipari, 23-26 maggio 1979, pp.
47-57.
ALBINI 1980 = Umberto Albini, “Tra filologia e teatro”, «Dioniso» 51, 1980, pp. 7-23.
ALBINI 1987 = Umberto Albini, Viaggio nel teatro classico, Le Monnier, Firenze 1987.

! 374
ALMAGIÀ-BENEDETTI-UDINA 1934 = Roberto Almagià, Piero Benedetti, Manlio Udina,
“Mare”, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, vol. XXII, Malc-Messic, Istituto
della Enciclopedia Italiana, Roma 1934 = <http://www.treccani.it/enciclopedia/mare_res-c9263a28-
8bb1-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Enciclopedia-Italiana%29/> (12.08.2018).
AMABA 2015 = Roberto Amaba, “Dioses desconchados. Ruinas de Pasolini y Hölderlin”, in
AMABA-GONZÁLEZ GARCÍA 2015, pp. 52-74.
AMABA-GONZÁLEZ GARCÍA 2015 = Roberto Amaba, Fernando Gonzáles García (a c. di), Pier
Paolo Pasolini. Una desesperada vitalidad, Shangrila Textos Aparte, Santander (Cantabria)
2015 = «Shangrila» 23-24, maggio 2015.
AMENGUAL 1976 = Barthélémy Amengual, “Quand le mythe console de l’histoire: Œdipe Roi”,
«Études cinématographique» 109-111, 1976 (n° monografico a c. di Michel Estève, Pier Paolo
Pasolini. Le mythe et le sacré), pp. 74-103.
AMOROSO 1994 = Filippo Amoroso, “L’Orestea di Pasolini”, «Nuove Effemeridi» 7/26, 1994,
pp. 83-86.
ANGELINI 1996 = Franca Angelini, “Affabulazione di Pier Paolo Pasolini”, in Letteratura
italiana. Le Opere, vol. IV, Il Novecento, t. II, La ricerca letteraria, Einaudi, Torino 1996, pp.
835-874.
ANGELINI 2000 = Franca Angelini, Pasolini e lo spettacolo, Bulzoni, Roma 2000.
ANGIONI 2014 = Maria Cecilia Angioni, “Dret, Llei i Poder a la història dels Atrides segons P.
P. Pasolini”, «Ítaca» 30, 2014, pp. 29-42.
ANONIMO 1960 = Anonimo, “Convegno sull’Orestea di Eschilo”, «Dioniso» 34, 1960, pp. 5-9.
ANONIMO 1961 = Anonimo, I cento anni del Liceo Galvani. 1860-1960, Cappelli, Bologna
1961.
ANONIMO 1994 = Anonimo, “Bibliografia di Carlo Gallavotti”, «RCCM» 36, 1994, pp. v-xxx.
ANONIMO 2006-2007 = Anonimo, “Alcuni documenti relativi alla presenza al Galvani di Pier
Paolo Pasolini”, «I Quaderni di cultura del Galvani» 13/1 (NS), 2006-2007, pp. 45-49.!
!

ANONIMO 2016 = Anonimo, “Leggere i poeti del proprio tempo”, «Il Sole 24 ore», 3 aprile
2106, p. 33.
ANSELMI 1996 = Gian Mario Anselmi, “L’innocenza perduta. Pier Paolo Pasolini tra letteratura,
mito e antropologia”, «L’anello che non tiene» 8/1-2, 1996, pp. 9-13.
ARMENIA 1997 = Michele Armenia, “Notizie da Ftia. Suggestioni omeriche in Pasolini”, in
Nico Naldini (a c. di), Il maestro delle primule. Dalla meglio gioventù alla nuova preistoria –
Atti del convegno, Passariano di Codroipo, 1995, Provincia di Pordenone, Pordenone 1997, pp.
123-140.
ARONICA 1987 = Daniela Aronica, “Sulle tracce di una transcodificazione: Edipo re da Sofocle
a Pasolini”, «Autografo» 4, 1987, pp. 3-14.
ARONICA 2017 = Daniela Aronica, “Presentimento e coscienza dell’incesto nei rifacimenti
dell’Edipo re sofocleo”, «Quaderns d’Italià» 22, 2017, pp. 153-164.
ATTAL 2013 = Frédéric Attal, Histoire des intellectuels italiens au XXe siècle. Prophètes,
philosophes et experts, Les Belles Lettres, Paris 2013.
!"#$%"& 1989 = %'()* !+,-./*, !"#$%$ &'( µ)*+,-'%$, &01,µ2, "32.+ 1989 (2ª ed., 2004).

! 375
BALLERINI 2013 = David Ballerini, Edipo re e Medea di Pier Paolo Pasolini. Mito, visione e
storia di due sfortune, Createspace Independent Publishing, 2013.
BARA!SKI 1999 = Zygmunt G. Bara"ski, Pasolini Old and New. Surveys and Studies, Four
Courts, Dublin 1999.
BARBA 2005 = Vassiliki Barba, “Callas, la Medea di Pasolini”, «Linguistica e letteratura» 30,
2005, pp. 193-199.!
!

BARILLI 1961 = Renato Barilli, “Gli intellettuali e l’errore”, «Il Mulino» 10, dicembre 1961, pp.
956-964.
!

BARONCINI 2005 = Daniela Baroncini, “Introduzione. Pascoli e l’innocenza del classico”, in


Giovanni Pascoli, Letture dell’antico, a c. di Daniela Baroncini, Carocci, Roma 2005, pp. 15-
62.!
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