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Phýsıs
Collana di Filosofia
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Ispirata all’idea di una nuova Filosofia della natura, Phýsis si propone come
spazio editoriale per lavori che abbiano al centro della loro riflessione la
natura nei suoi molteplici aspetti e come luogo di integrazione e confronto
fra i diversi saperi e le diverse tradizioni filosofiche.
Diretta da
Emilio Carlo Corriero | Iain Hamilton Grant
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gianni vattimo
con un saggio di Emilio Carlo Corriero
Etica
dell’interpretazione
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nuova edizione
a cura di Emilio Carlo Corriero
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è un marchio registrato utilizzato per concessione della società Traumann s.s.
isbn 978-88-7885-889-3
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INDICE
9 Prefazione
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parte prima
Significati dell’ermeneutica
parte seconda
Ermeneutica ed etica
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PREFAZIONE
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va oltre la metafisica anche e soprattutto perché non ritiene più di
dover cercare strutture stabili, fondamenti eterni, e simili – perché
proprio questo significherebbe ancora aspettarsi che l’essere abbia
la struttura dell’oggetto, dell’ente (e forse, alla fine, della merce, per
dirla in termini marxiani). Essa pensa invece di dover cogliere l’essere
come evento, come il configurarsi della realtà peculiarmente legato
alla situazione dell’epoca. Questa è anche provenienza dalle epoche
che l’hanno preceduta. Pensare l’essere significa ascoltare i messaggi
che provengono da tali epoche, e quelli che provengono dagli altri,
anche contemporanei – le culture dei gruppi, i linguaggi specialistici,
le culture «altre» che l’Occidente incontra nella sua impresa di do-
minio e unificazione del pianeta, le sub-culture interne all’Occidente
stesso, che cominciano a prendere la parola. Questi messaggi toccano
l’essere, costituiscono il suo senso – il senso del termine essere, del
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I testi qui raccolti sono stati per lo più oggetto di conferenze, dibattiti,
seminari, comunicazioni a convegni. Dò qui di seguito l’elenco delle sedi
in cui sono stati pubblicati per la prima volta, avvertendo che in alcuni
casi sono anche comparsi già in traduzioni straniere, in riviste e volumi
miscellanei. In italiano, le pubblicazioni originarie sono state:
cap. 1: nel vol. Moderno, postmoderno, a cura di G. Mari, Milano, Fel-
trinelli, 1987.
cap. 2: in “il Mulino”, n. 300, luglio-agosto 1985.
cap. 3: in “aut aut”, nn. 217-218, gennaio-aprile 1987.
cap. 4: ivi, n. 213, maggio-giugno 1986.
cap. 5: in “Fondamenti” (Brescia, Paideia), n. 3, 1985.
cap. 6: nel vol. a cura di A. Bruno, La crisi del soggetto nel pensiero con-
temporaneo, Milano, FrancoAngeli, 1988.
cap. 7: nel vol. a cura di U. Curi, La comunicazione umana, Milano,
FrancoAngeli, 1985.
cap. 8: nel vol. Interpretazione e cambiamento, a cura di G. Galli, Torino,
Marietti, 1985.
cap. 9: in “Micromega”, 1986, n. 1.
cap. 10: in “aut aut”, n. 223, maggio-giugno 1988.
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parte prima
Significati dell’ermeneutica
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1. POSTMODERNITÀ E FINE DELLA STORIA
1
Cfr. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna [1979], trad. it. C. Formenti, Milano,
Feltrinelli, 1981.
2
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità [1985], trad. it. E. Agazzi,
Bari, Laterza, 1987.
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della storia» significa fine dello storicismo, cioè della concezione delle
vicende umane come inserite in un corso unitario dotato di un senso
che, nella misura in cui viene riconosciuto, si svela come un senso di
emancipazione. La storia, intesa in questo modo, finisce perché – dice
Lyotard – «chacun des grands récits d’émancipation à quelque genre
qu’il ait accordé l’hégémonie, a pour ainsi dire été invalidé dans son
principe au cours des cinquante dernières années…»3. Per Lyotard la
razionalità del reale è stata «confutata» da Auschwitz; la rivoluzione
proletaria come recupero della vera essenza umana è stata «confutata»
da Stalin; il carattere emancipativo della democrazia è stato «confutato»
dal maggio ’68; la validità dell’economia di mercato è stata «confutata»
dalle crisi ricorrenti del sistema capitalistico…4 I «grandi racconti»,
quelli che non si limitavano a legittimare in senso narrativo una serie
di fatti e comportamenti, ma che nella modernità e sotto la spinta di
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3
J.F. Lyotard, “Critique”, 495, p. 563.
4
Ibid.
5
Cfr. R. Rorty, Habermas, Lyotard et la postmodernité, “Critique”, 442, p. 186.
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dei «metaracconti» è completa; ma il motivo per cui essa è considerata
tale, è «davvero» tale, si sottrae davvero alla forza altra volta attribuita
ai «metaracconti»? Che cosa significa affermare che i «metaracconti»
sono stati invalidati, se non proporre a propria volta un «metaraccon-
to»? Questo, però, nella misura in cui non si vuole tale, rifiuta ogni
funzione legittimante, e dunque, alla fine, ogni capacità di guidare
ancora scelte storiche. Anche nella variante proposta da Rorty, per il
quale la postmodernità, in fondo, non è altro che «l’oubli graduel d’une
certaine tradition philosophique»6 – nel senso che l’importanza stessa
della tradizione filosofica, della sua centralità ecc., risulta diminuita,
in una prospettiva che vede il destino della filosofia nel più vasto con-
testo delle pratiche sociali –7 può valere l’idea di postmodernità come
fine della storia: nel senso che l’idea di storia è una invenzione della
filosofia, e specialmente della metafisica, cristiana e poi moderna, e
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6
Cfr. R. Rorty, Cosmopolitisme sans émancipation, “Critique”, 495, p. 580.
7
Id., “Critique”, 442, pp. 194-197.
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ma per ragioni di «appartenenza» storico-culturale (non ci interessa
cioè la vita nuda, ma la vita come forma storico-determinata di vita), e,
con ciò, siamo ancora una volta rimandati al rapporto con il passato.
Pensare il postmoderno come fine della storia, alla fin fine, significa,
allora, rimettere al centro dell’attenzione il problema della storia come
radice di legittimazione, e non, invece, prendere atto che questo pro-
blema non si pone più. Il rapporto del postmoderno con il moderno, in
questo senso, è quello, descritto da Löwith, di Nietzsche colla visione
ebraico-cristiana del tempo. La modernità è l’epoca della legittimazione
metafisico-storicistica, la postmodernità è la messa in questione esplicita
di questo modo di legittimazione. Non è cioè, semplicemente, ciò che
viene dopo e si distingue, in positivo, dalla modernità, mediante un
altro principio; o, comunque, se c’è un altro principio, questo non è
eterogeneo alla legittimazione storicistica, ne è solo una «variazione»,
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Cfr. F. Nietzsche, Also Sprach Zarathustra, trad. it., nel volume VI, t. I delle Opere
di F. Nietzsche, Milano, Adelphi («Il convalescente»).
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conseguenze nichilistiche e reazionarie di queste posizioni – rimanere
all’interno del «metaracconto» della modernità, come fa Habermas,
dichiarando semplicemente che gli eventi «invalidanti» a cui allude
Lyotard, sono solo uno scacco provvisorio del progetto moderno, o
una accettazione troppo remissiva di questo scacco. Entrambe queste
posizioni estreme rifiutano di tematizzare seriamente la storia della fine
della storia, spacciandola, l’una – Lyotard – come un fatto che non è
oggetto di racconto ma a cui ci dobbiamo adeguare; e l’altra – Ha-
bermas – come un incidente teoricamente irrilevante, da spiegare in
termini di sociologia o psicologia della conoscenza, come «delusioni
della filosofia della soggettività»9.
La mia tesi è che queste difficoltà del concetto di postmoderno, che
ruotano tutte intorno al fatto che la fine della modernità è la fine della
storia come corso metafisicamente giustificato e legittimante – fine della
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9
Cfr. “Critique”, 442, p. 118.
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M. Heidegger, Saggi e discorsi [1954], trad. it. G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976.
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socio-psicologico, come riconoscere un limite; dichiara, invece, che
la modernità non può essere superata criticamente, giacché proprio la
categoria del superamento critico la costituisce; non si può uscire dalla
modernità – o dalla metafisica – attraverso la via del superamento – o
della critica –, perché questo significherebbe rimanere per l’appunto
nell’orizzonte moderno, della fondazione, dello storicismo. Inutile
ricordare che lo storicismo moderno, per Heidegger come già per
Nietzsche, è metafisica in atto, in quanto dispiega la forza del Grund
come capacità di fondare e rifondare («ri nascimento, «ri voluzione)
epoche, comportamenti, vicende umane. È proprio in considerazione
della problematicità di ogni Überwindung che Heidegger propone di
descrivere il rapporto del pensiero post-metafisico colla metafisica
come una Verwindung. Non si possono qui discutere tutti i significati
di questo termine, ma in esso risuonano, sia la nozione di guarigione,
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R. Schürmann, Le Principe d’Anarchie. Heidegger et la Question de l’Agir, Paris,
Seuil, 1982, ha proposto la tesi che la metafisica sia caratterizzata dal darsi di epoche,
ciascuna dominata da una archè; la fine della metafisica coincide dunque, in questo
senso, coll’anarchia.
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Verwindung: una ripresa che respinge le pretese di assolutezza delle
archai metafisiche, senza, però, potervi opporre un’altra assolutez-
za, ma solo una sorta di «festa della memoria» – l’espressione è di
Nietzsche12, ma rende bene l’atteggiamento andenkend di Heidegger.
Si tratta di un atteggiamento che possiamo anche chiamare di pietas,
non tanto nel significato latino dove aveva per oggetto i valori della
famiglia, ma nel senso moderno di pietà come attenzione devota per
ciò che, tuttavia, ha solo un valore limitato; e che merita attenzione
perché questo valore, pur limitato, è l’unico che conosciamo: pietas è
l’amore per il vivente e le sue tracce – quelle che egli lascia e quelle
che porta in quanto le riceve dal passato. Anche in Nietzsche, la fine
del processo di demistificazione non dà luogo al raggiungimento di
una posizione di certezza, delle vere strutture, ma ad un atteggiamento
pietoso, a ciò che altrove Nietzsche chiama la «filosofia del mattino».
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12
Cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, trad. it. S. Giametta, Milano, Adelphi,
1965, af. 223.
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storia a partire da Umano, troppo umano. Questo modo di rapporto
libero, rammemorativo-monumentale, con il passato, che è attestato
dalla cultura postmoderna, si può pensare proprio nei termini dello
Andenken e della Verwindung heideggeriani.
Ciò che, però, nelle arti e nel costume resta a livello di suggestione,
di atteggiamenti, nella filosofia acquista una più specifica determina-
tezza teoretica, anche se non il rigore della fondatività. Ciò significa
che, nell’intenzione di Heidegger a cui ci riferiamo, l’Andenken as-
sume, nel pensiero post-metafisico, la funzione che era propria della
fondazione metafisica. Rispetto a questa lezione heideggeriana, che
mi pare uscire inequivocabilmente dai suoi testi più tardi, la disputa
tra Lyotard e Habermas appare superficiale, dominata piuttosto da
esigenze e buone intenzioni, che da una impostazione rigorosa dei
problemi; alla quale Rorty giunge più vicino, anche se poi risolve le
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i «metaracconti» sono stati invalidati; Habermas invoca il darsi della
modernità nei termini in cui l’hanno esperita Kant, Hegel e Weber;
questo «metaracconto» non è stato invalidato, secondo lui, evidente-
mente perché corrisponde allo «stato di cose», e, per questo, dobbiamo
ancora assumerlo come come basilare per ogni discussione sul moder-
no e la sua eventuale fine. Rorty, a sua volta, sposta la «descrizione»
della situazione, che vede piuttosto determinata in conseguenza di
una diminuzione di centralità della filosofia nella pratica sociale, che
richiederebbe, dunque, anche differenti modi d’argomentazione. In
tutti i casi, la validità delle tesi proposte si motiva con una pretesa di
più completa adeguatezza a una situazione data; secondo il vecchio
imperativo filosofico di «salvare i fenomeni», rimanere fedeli all’e-
sperienza. Ma ciò che con la consumazione della metafisica è andato
in crisi sembra proprio la cogenza normativa di una situazione di
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raggiungere l’autotrasparenza) – può essere solo la pietas che proviamo,
e, in qualche modo, non possiamo non provare, per il vivente e le sue
tracce-monumenti, quando abbiamo fatto fino in fondo l’esperienza
della «eventualità», infondatezza, non-presenza dell’essere. Si deve
notare che è la dissoluzione della metafisica che ci libera per la pie-
tas; come nella pagina di Nietzsche che ho già citato: una volta che
scopriamo che tutti i sistemi di valori non sono altro che produzioni
umane troppo umane, che cosa ci resta da fare? Li liquidiamo come
menzogne ed errori? No, li teniamo ancora più cari, perché sono
tutto ciò di cui disponiamo al mondo, sono la sola densità, spessore,
ricchezza, della nostra esperienza, sono il solo «essere».
Naturalmente la pietas non si presenta colla cogenza di un «meta-
racconto», perché non invoca, per corroborarsi, strutture metafisiche;
anzi, proprio al contrario, si manifesta in conseguenza della presa
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se si può «fondare» solo mediante la rimemorazione, il rapporto con
il passato rimane determinante, più e in maniera più essenziale di
quanto non sia disposto ad ammettere Lyotard; e proprio nel rap-
porto con il passato, pensato come un «metaracconto» «indebolito»,
cogente non per motivi metafisici ma per motivi di pietas, si trovano
quelle indicazioni normative che Lyotard sembra incapace di reperire
nella sua concezione della postmodernità. Infine, il consenso a cui si
richiama Rorty in nome del pragmatismo, si motiva anch’esso non
in base a una qualche ragione di sopravvivenza, e nemmeno, però,
rimane accettato come un «fatto» che talvolta si verifica ma non è
ulteriormente indagato; il bisogno di consenso e i suoi contenuti e
motivi sono, ancora una volta, cercati nell’eredità della metafisica
ripensata fuori della pretesa di fondazione…
Non è vero, come vorrebbe Lyotard, che raccontare il «metarac-
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13
Cfr. J.F. Lyotard, “Critique”, 495, p. 563.
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guidare da un pregiudizio non, ermeneuticamente, tematizzato. La
reazione di Habermas è appunto il rifiuto del lutto, il ritorno a un
«metaracconto» del passato, l’illusione che si possa far rivivere una
metafisica della storia. Si esce da queste impasses solo prendendo
a tema di una nuova, paradossale filosofia della storia la fine della
(filosofia della) storia.
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2. SECOLARIZZAZIONE DELLA FILOSOFIA
1
Cfr. La ragione nell’età della scienza, trad. it. A. Fabris, Genova, il melangolo, 1982.
2
Cfr. G. Vattimo, Al di là del soggetto, Milano, Feltrinelli, 19842, cap. iv.
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in filosofi come Ricoeur (nel quale si coniuga con la fenomenologia)
o Luigi Pareyson (in cui si incontrano con una ontologia della liber-
tà di ascendenza esistenzialistica). Una portata significativa per la
diffusione delia tematica ermeneutica ha avuto il suo incontro con
l’autoconsapevolezza metodologica della critica letteraria in Europa
e in America (Jauss e la sua scuola; il decostruzionismo americano) e
più in generale delle scienze sociali; mentre un passo decisivo verso
la messa in luce della sua vocazione alla secolarizzazione è venuta dai
lavori di Richard Rorty, che ha esplicitamente teorizzato l’esistenza di
un orientamento unitario tra gli esiti del pensiero di Heidegger, del
pragmatismo deweyano e del tardo Wittgenstein. È anzi proprio il
lavoro di Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature 3, l’opera a cui ci
si può richiamare per chiarire che cosa si intenda per secolarizzazione
della filosofia in connessione con il diffondersi dell’ermeneutica come
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3
La filosofia e lo specchio della natura [1979], trad. it. R. Salizzoni e G. Milione,
Milano, Bompiani, 1986.
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metafisica, per esempio il neopositivismo4. Come, per altri aspetti, la
fenomenologia, anche e soprattutto il neopositivismo appare a Rorty
profondamente legato alla mentalità della fondazione, almeno nella
misura in cui teorizza il linguaggio delle scienze esatte come linguaggio
«vero», e presenta la filosofia sostanzialmente come epistemologia.
La presa di congedo dall’ideale della fondazione accade invece
radicalmente, secondo Rorty, nel pensiero di Heidegger, di Dewey, del
tardo Wittgenstein; più che in altri orientamenti, l’eredità di questi
pensatori vive proprio nell’ermeneutica. Esplicitando Rorty in una
direzione che egli non ha seguito, ma che corrisponde indubbiamente
alle sue intenzioni, si può dire che l’importanza di Heidegger in questo
processo di pensiero non consiste solo nell’aver enfatizzato il nesso
tra essere e linguaggio; ma soprattutto nell’aver pensato l’essere come
evento e non come struttura. Finché l’essere è riportato al linguaggio
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4
Pensiamo alla famosa Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der
Sprache, di R. Carnap, uscita in “Erkenntnis”, 1931, pp. 219-245.
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ne Ge-Schick: l’essere non è Grund, principio o arché, fondamento,
ma Ge-Schick, invio, tramandamento, messaggio; le lingue naturali che
rendono possibile l’esperienza del mondo sono lingue storico-naturali,
accadono di volta in volta come risposte ad altre, che a loro volta sono
già risposte e interpretazioni.
Solo in quanto si mantiene fedele all’eredità dell’ontologia hei-
deggeriana, che si può legittimamente qualificare come nichilistica,
l’ermeneutica coglie radicalmente le implicazioni della finitezza sto-
rica dell’essere-linguaggio, e cioè secolarizza davvero la filosofia. Il
precursore di Heidegger, su questa via, è stato Nietzsche. La portata
dell’annuncio nietzscheano «Dio è morto» non è solo nel suo conte-
nuto (è finita l’epoca delle strutture stabili, perché non ne abbiamo
più bisogno; dunque anche l’epoca del pensiero come fondazione);
ma anche e soprattutto nella sua forma di annuncio, che non descrive
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5
Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen, Neske, 1961, vol. II, p. 338.
6
Cfr. Id., Saggi e discorsi cit., p. 46.
7
Cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo umano cit., af. 223.
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posizione del mondo ‘vero’? Se, come scrive Nietzsche nel Crepuscolo
degli idoli, il mondo vero (le idee platoniche, le essenze stabili) «alla
fine è diventato favola», con il mondo vero è sparito anche il mondo
apparente, che non ha più un termine con cui confrontarsi e da cui
essere ‘smentito’. Ciò che resta dopo la fabulizzazione del mondo vero
non è il mondo apparente come unico mondo – dunque, come mondo
vero a propria volta – ma la storia della fabulizzazione. Il pensiero
è «festa della memoria» o, come dice più esplicitamente Heidegger,
An-denken, rimemorazione. Una volta consumato l’ideale del pensie-
ro come fondazione, legato all’ideale dell’essere come fondamento e
struttura, non resta soltanto il sistema dell’apparenza, il mondo dei
dati accertati dalle scienze e messi a disposizione dalla tecnica; questo
mondo, isolato dalla storia della fabulizzazione, prenderebbe fatalmente
i caratteri di verità del «mondo vero» platonico. Fra i termini con cui
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condizioni di esistenza si sono fatte meno estreme e più sicure, ma
questo è accaduto proprio in virtù di quella razionalizzazione della
vita sociale che anche l’ipotesi di Dio-fondamento ha reso possibile;
e per Heidegger, la fine della metafisica, dunque del pensiero della
fondazione, accade in virtù del suo realizzarsi fattuale nel mondo del
Ge-Stell, il mondo della tecnologia planetaria e dell’organizzazione
(tendenzialmente) totale, della realtà pianificata. Per legittimarsi nella
sua forma di An-denken, dunque, la filosofia secolarizzata racconta
una certa storia, composta di vicende ‘disciplinari’ (il corso della
filosofia, anch’esso, certo, ricostruito ed esperito secondo certe pre-
comprensioni, pregiudizi, ipotesi) e di vicende della storia ‘esterna’
(le condizioni dell’esistenza moderna, le trasformazioni legate al pas-
saggio, se è tale, da modernità a post-modernità). Questi due aspetti
del racconto si chiariscono e corroborano, senza pretese dimostrative,
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con Nietzsche) di rassomiglianze di famiglia, di concatenazioni storico-
destinali, di interpretazioni di messaggi.
È probabilmente vero ciò che diceva Nietzsche: questa comprensibi-
lità e praticabilità del mondo in termini di continuità rammemorativa
è propria di un’umanità che vive nell’epoca di una sia pur relativa
sicurezza, e che per questo non ha più bisogno delle soluzioni e
rassicurazioni estreme cercate dal pensiero fondativo. La condizione
dell’esistenza tardo-moderna, in termini nietzscheani – ma anche hei-
deggeriani, credo – non si aspetta più rassicurazione dalle archaì – che,
di fatto, ha imparato a considerare provvisorie, mistificanti, umane
troppo umane; non può tuttavia rinunciare a conferire senso al mondo
e all’esistenza, e per questo ha bisogno di una continuità che vinca,
o almeno nasconda retoricamente, attenui, la dispersione propria del
mondo del Ge-Stell, dove la rassicurazione in termini di agevolazione
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tanto la meditazione heideggeriana sulla storia della metafisica) e tra
i risultati dei saperi specialistici, cercando di riportarli a una immagi-
ne unitaria ‘praticabile’ del mondo (è l’aspetto su cui ha richiamato
l’attenzione Gadamer nei saggi degli ultimi dieci anni, soprattutto:
ermeneutica come filosofia pratica), si secolarizza anche nel senso che
perde sempre più i connotati di una ‘scienza’, sia pure sui generis, come
la metafisica e l’epistemologia, e si avvicina sempre più alla vaghezza,
impurità, provvisorietà del linguaggio quotidiano. Il rovesciamento della
metafisica sembra completo: passare al logos, saltare nei logoi come
voleva il Socrate platonico, non significa allontanarsi dal linguaggio
comune, ma anzi ritornarvi, dalle regioni di astrattezza ed esattezza
formale in cui risiedono i linguaggi specialistici; ma l’elemento di
ripresa, distorsione, secolarizzazione (che esclude un puro e semplice
rovesciamento), rimane, in quanto si tratta sempre di un passaggio,
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uno solo di questi vorrei ancora richiamare l’attenzione, giacché può
indicare la risposta a una domanda che a questo punto non può non
porsi. La domanda è questa: una filosofia così pensata come organo
della ricomposizione della continuità della lingua storico-naturale di
una comunità, non rischia di appiattirsi sulla pura e semplice apologia
e difesa dell’esistente? La continuità che essa cerca di mantenere e
ristabilire, riportandovi mediante la sua attività di interpretazione sin-
tetizzante e di edificazione, i discorsi settoriali, non sarà alla fine solo
quella della tradizione stabilita, del ‘canone’ consolidato, del (buon)
senso comune? Si deve insistere sul fatto che il pensiero secolarizzato
non è pensiero speculativo, ma rammemorazione; che non guarda, cioè,
all’essere come da un osservatorio esterno, ma lo ricorda stando dentro
al suo evento, rispondendo ai messaggi che riceve con interpretazioni
che si aprono a nuove risposte. Ma del pensiero rammemorante fa
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progressiva di tutti i caratteri forti, rassicuranti ma anche violenti,
dell’essere, con tutte le implicazioni etiche e anche politiche che questo
comporta. Per lasciare che la filosofia si dispieghi davvero nella sua
forma di rammemorazione, l’essere deve diventare, da presenza im-
ponente e obbligante dell’ente, memoria e sfondo; la secolarizzazione
non è solo un destino della filosofia, ma riguarda l’essere stesso che
«si dà» finalmente, nell’epoca della fine della metafisica, come ciò che
si ritrae e svanisce.
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3. ERMENEUTICA NUOVA KOINÉ
passati c’è stata una egemonia del marxismo (negli anni Cinquanta e
Sessanta) e dello strutturalismo (negli anni Settanta, procedendo per
grandi schemi), così oggi, se c’è un idioma comune della filosofia e
della cultura, esso va individuato nell’ermeneutica. Naturalmente, non
«si prova» né che nei decenni a cui ci siamo richiamati «ci fosse» una
egemonia marxista e strutturalista; né che oggi «ci sia» una egemonia
ermeneutica. L’affermazione sull’ermeneutica come koiné sostiene solo,
dal punto di vista della descrizione fattuale che, come in passato gran
parte delle discussioni filosofiche o di critica letteraria o di metodologia
delle scienze umane facevano i conti con marxismo e strutturalismo,
spesso anche senza accettarne le tesi, così oggi questa posizione cen-
trale sembra essere stata assunta dall’ermeneutica. Al momento della
pubblicazione di Verità e metodo di Gadamer (1960), l’ermeneutica
era un termine specialistico, indicava ancora, per la cultura comune,
una disciplina molto specifica legata all’interpretazione di testi letterari,
giuridici, teologici; oggi il termine ha assunto un significato filosofico
generale, indica (come spesso è accaduto per altre espressioni, pen-
siamo a «filosofia del linguaggio», che per alcuni anni ha indicato tout
court la filosofia analitica) sia una disciplina filosofica specifica, sia un
orientamento teorico, una «corrente»; all’ermeneutica, in entrambi
questi significati – e non senza una certa ambiguità, inevitabile peral-
tro – si riconosce di fatto una centralità che è attestata dalla presenza
del termine, delle tematiche ermeneutiche e dei testi che le espongono,
nel dibattito, nell’insegnamento, nei corsi universitari, e anche in quei
terreni – come la medicina, la sociologia, l’architettura, per nominarne
alcuni – che cercano nuovi collegamenti con la filosofia.
Tutto ciò, nella sua consapevole vaghezza, equivale solo alla con-
statazione, necessariamente generica, di una accresciuta popolarità
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dell’ermeneutica nella cultura di oggi. La constatazione si fa meno
generica se, oltre a riferire un’impressione, si cercano le possibili ragioni
di questa attualità dell’ermeneutica. La ricerca di tali ragioni costituisce
un primo modo di precisare il significato della tesi, ci si interroga cioè
su che cosa voglia dire, che bisogni, esigenze, trasformazioni esprima
il fatto – se è tale – della nuova popolarità di cui l’ermeneutica gode.
Questo primo passo – che cosa si esprime nell’attualità dell’ermeneu-
tica – prelude a un secondo: quello che si domanda verso dove punti,
in che direzione indichi, l’interesse per l’ermeneutica. Né la prima né
la seconda domanda, con le relative risposte, sono teoricamente irri-
levanti per i contenuti e gli sviluppi dell’ermeneutica stessa: il fatto di
esser divenuta idioma comune, se non egemone, pone probabilmente
all’ermeneutica compiti e esigenze nuove rispetto, per esempio, al
progetto gadameriano del 1960; rispetto a queste esigenze e compiti è
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cui la sua riduzione a caricatura è solo la manifestazione superficiale. Il
metodo strutturale portato alle conseguenze estreme riduceva i contenuti
all’inessenzialità perché collocava in una posizione di astratta neutralità,
mai tematizzata, il soggetto «utente» del metodo stesso. I contenuti a
cui il metodo si applica (il fumetto, il feuilleton; o la storia degli odo-
ri…) sono inessenziali nella misura in cui l’interesse dell’osservatore
si rappresenta come puramente cognitivo. Ma proprio sulla purezza e
cognitività di questo interesse era necessario interrogarsi. Del resto, a
ragione, gli strutturalisti avevano rivendicato anche il significato «poli-
tico» dello studiare gli uomini come formiche (secondo l’espressione di
Lévi-Strauss nella polemica con l’«umanista» Sartre), di contro a una
tradizione storicistica ed evoluzionistica che faceva dell’Occidente il
centro del mondo e si volgeva facilmente in giustificazione ideologica
dell’imperialismo. Lo strutturalismo è stato anche – e questo ne ha
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Derrida. Come ha segnalato Maurizio Ferraris1, i lavori più recenti di
Derrida sono caratterizzati dall’interesse sempre più marcato per la
collocazione istituzionale del filosofo, e in generale per il «conflitto
delle facoltà» – insomma per gli aspetti pragmatici e storico-concreti
della metafisica e della sua decostruzione. Fatti come questi sembrano
indicare che la crisi della koiné strutturalista è motivata da esigenze in
largo senso storicistiche. Sono queste esigenze che spiegano il «passag-
gio» all’ermeneutica, il suo presentarsi come il candidato più verosimile
a valere come koiné culturale degli anni Ottanta.
Ma: come l’ermeneutica recepisce, più dello strutturalismo, l’esigenza
di riconferire essenzialità ai contenuti e di tematizzare la posizione
storica dell’osservatore? Si passa qui alla seconda delle domande in
cui ci è sembrato di poter articolare la questione sul significato dell’at-
tualità dell’ermeneutica. Intendo qui discutere non solo se e fino a che
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1
Cfr. M. Ferraris, Derrida 1975-1985. Sviluppi teoretici e fortuna filosofica, “Nuova
Corrente”, 3, 1984, pp. 351-378. Di Ferraris si veda ora la Storia dell’ermeneutica,
Milano, Bompiani, 1988.
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modello dell’accadere della verità ermeneutica, i giocatori sono sem-
pre anche giocati; e la coscienza, in quanto storicamente determinata,
non può mai raggiungere la perfetta autotrasparenza. Formulandosi
in questi termini, l’ermeneutica riprende e sviluppa l’eredità della
critica esistenzialistica al razionalismo metafisico hegeliano, ma anche
allo scientismo positivistico che, almeno in alcuni elementi essenziali,
echeggia ancora nello strutturalismo. Il disagio storico-concreto (se
valgono le ipotesi accennate sopra, anche «politico») per un pensiero
che non rende conto della effettiva collocazione storica dell’osservatore
non ha un significato diverso dalla critica esistenzialistica all’idealismo
e al positivismo. L’esperienza vissuta – e fenomenologicamente con-
statata – del pensiero si rifiuta a schemi filosofici che suppongano il
soggetto osservatore come punto di vista neutrale o – che è, alla fine,
lo stesso – come opacità che si chiarisce fino alla assoluta autotraspa-
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2
È una conferenza parigina del 1962; se ne veda la traduzione nel volume Filosofia
’86, a cura di G. Vattimo, Bari, Laterza, 1987.
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tutta spiegata. Gli sviluppi etico-politici che Gadamer ha dato negli
ultimi anni alle premesse di Verità e metodo, per esempio nei saggi
de La ragione nell’età della scienza 3, mostrano il significato che egli
attribuisce a questa scelta per un hegelismo dello spirito oggettivo:
il compito del pensiero consiste nel riportare tutto – per esempio, e
anzitutto, gli esiti degli approcci specialistici alla realtà, come quelli
dei linguaggi formalizzati della scienza e le loro applicazioni tecnologi-
che – al logos vivente nella tradizione della lingua, a quello che l’ultimo
Habermas chiama il «mondo della vita» (con un termine husserliano,
nella lettera, ma forse più ermeneutico nella sostanza). Ma perché,
si potrebbe domandare ancora, l’esperienza ermeneutica della verità
deve configurarsi come un «andare nello spirito oggettivo»? Si tratta
forse solo di quella abdicazione allo strapotere dell’oggetto che Adorno
rimprovera a Heidegger nel capitolo sul «Bisogno ontologico» della
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3
La ragione nell’età della scienza cit.
42
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vive nella lingua; e la costitutiva linguisticità dell’esperienza. Questi
obiettivi, Gadamer li ha raggiunti; ma anche in conseguenza di ciò è
venuto in chiaro, nell’imporsi dell’ermeneutica come koiné, che essa
non può fermarsi qui. Non si tratta né solo di rivendicare un modello
«classicistico» di verità contro l’oggettivismo del metodo scientifico
eretto a unico criterio del vero; né solo di riconoscere che si dà una
verità extrametodica accanto alla verità scientifica. In definitiva, non
si tratta di sostituire una ‘descrizione’ ermeneutica dell’esperienza a
una ‘realistica’ o oggettivistica. Forse, è vero che una filosofia non può
diventarare una koiné se non esplicitandosi anche come programma di
emancipazione. Da questo punto di vista, sebbene inaccettabili nei loro
esiti (legati a una ripresa del kantismo, e dunque ancora a un’idea di
soggettività «astorica»)4, le obiezioni di Habermas e Gadamer colpiva-
no nel segno. È vero che la richiesta di una prospettiva emancipativa
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4
Su questo punto, si veda il cap. iv del mio Al di là del soggetto cit.
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volezza e persuasività esercitate nel dialogo sociale? Ma, nel dialogo,
abbiamo – proprio come ermeneutici che non vogliono essere solo
filosofi trascendentali – qualcosa da dire, e che cosa, oltre al parlare
del dialogo come unico possibile luogo della verità?
Posta di fronte a queste richieste, che si fanno esplicite proprio
quando essa diventa una koiné, l’ermeneutica dovrebbe esser condotta
a rifare i conti con le proprie basi, e segnatamente con l’eredità hei-
deggeriana. Nella urbanizzazione a cui (secondo la nota espressione di
Habermas) Gadamer ha sottoposto l’heideggerismo, è andata perduta
(o comunque è passata in secondo piano) una sua parte essenziale, la
concezione heideggeriana della metafisica come storia dell’essere. Ga-
damer, com’è noto, non condivide affatto la «condanna» pronunciata
da Heidegger contro la metafisica greca; per lui, ciò che si tratta di
criticare – alla luce di una «fenomenologia» dell’esperienza vissuta che è
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nel Ge-Stell (l’universale organizzazione tecnico-scientifica del mondo),
la metafisica viene a fine e diventa possibile un suo oltrepassamento.
È nei confronti di questa storia – e non, dunque, di una storicità che
rischia sempre di essere genericamente intesa come appartenenza e
dialogicità – che l’ermeneutica storicamente si impegna e pensa il
proprio compito, in termini radicalmente non trascendentali. Se l’er-
meneutica non è la «scoperta» della costitutiva e oggettiva struttura
dialogico-finita di ogni esperienza umana, ma un momento della storia
della metafisica come storia dell’essere, sia il problema di pensarsi co-
erentemente come interlocutore di un dialogo, sia quello, connesso, di
definirsi in rapporto a un compito di emancipazione (o: a un compito
storico) si configurano in modo diverso. Dire che l’ermeneutica è una
tappa decisiva nel cammino attraverso cui l’essere si sottrae (anche
letteralmente: riducendosi, dissolvendosi) al dominio delle categorie
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4. ERMENEUTICA E SECOLARIZZAZIONE
Ripubblicando dopo molti anni (la prima edizione è del 1950, la terza
del 1962) Esistenza e persona1, con una nuova, amplissima introduzione
e una conclusione di «rettifiche sull’esistenzialismo», Luigi Pareyson
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1
L. Pareyson, Esistenza e persona, nuova ed., Genova, il melangolo, 1985.
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dibattiti sono caratterizzati dalla presenza predominante di tematiche
religiose: penso a Bloch e a Benjamin, a Rosenzweig e a Löwith, a
Hannah Arendt e a Lévinas, solo per fare qualche esempio. Circola
nel pensiero contemporaneo, spesso (ma anche questo è un punto su
cui bisognerebbe riflettere specificamente) sotto forma di una ripresa
di contenuti della tradizione ebraica, una quantità di temi religioso-
esistenziali (non si riesce a definirli in modo più chiaro). Oltre ai suoi
intrinseci pregi teorici, un libro come Icone della Legge di Massimo
Cacciari ha certamente anche un grande significato sintomatico, è
un’espressione tipica di questa situazione. Ebbene, rispetto a questo
clima filosofico, nel quale a importanti suggestioni teoriche si mescolano
certo non pochi rischi di equivoco, la riedizione del libro di Pareyson,
soprattutto alla luce delle tesi svolte nella nuova introduzione, può
costituire un’importante occasione di chiarificazione.
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Anzitutto, per la franchezza con cui chiama le cose con il loro nome,
individuando nel problema del cristianesimo la questione centrale per
la nostra (o per larga parte della nostra) problematica filosofica. Un
pensatore come Karl Löwith, per esempio, ha avuto fino all’ultimo una
chiara consapevolezza di questo fatto, e molte delle idee illustrate da
Pareyson nel libro del 1950 si possono avvicinare – almeno sul piano
del ripensamento storiografico della filosofia dell’Ottocento – proprio
alle idee che, negli stessi anni, andava elaborando Löwith. Ma, soprat-
tutto negli anni più recenti, il richiamo a concetti di origine teologica, o
biblica, nel dibattito filosofico non è stato accompagnato da altrettanta
chiarezza. E invalso l’uso – e penso anche qui, come esempio, alle
opere di Cacciari – di parlare in termini teologici (peccato, redenzione,
incarnazione, angeli) senza porsi esplicitamente il problema dell’am-
bito dottrinale a cui questi termini, in origine, appartengono. Era del
resto Benjamin che, nelle Tesi di filosofia della storia, aveva teorizzato
il fatto che il materialismo storico vince «se prende al suo servizio la
teologia». Ma, se mai ciò è successo (e forse è successo, segnando però
in maniera negativa le vittorie del materialismo storico – il socialismo
reale), oggi la situazione, almeno nell’ambito della nostra filosofia,
sembra essersi rovesciata, il servo è diventato padrone: è la teologia,
semmai, che prende al suo servizio il (i resti del) materialismo storico.
Già in Benjamin, e probabilmente in tutto lo hegelo-marxismo critico,
questi rapporti di servizio non sono mai regolati da contratti chiari;
e anzi, nella lettera del testo di Benjamin, hanno qualcosa di subdolo
e mistificante. Sia in Benjamin, sia negli altri autori francofortesi, la
ripresa, più o meno esplicita, di categorie in largo senso teologiche,
non è mai chiaramente accompagnata da una esplicita tematizzazione
del problema della secolarizzazione: non solo si ragiona in termini
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teologici senza dire entro quali limiti (che non sono mai ‘solo’ quelli
di una, peraltro problematica, metaforizzazione poetica) si riprendono
termini e nozioni della Bibbia e della tradizione ebraico-cristiana; ma
anche: si ragiona in termini hegeliani dentro un quadro marxista senza
mai tematizzare il problema dell’alternativa tra Marx e Hegel…
Anche solo in questo senso è vero che il problema del cristianesimo
è centrale per un largo settore del pensiero contemporaneo, quello
che, da ultimo, ha riscoperto Rosenzweig e La stella della redenzione.
Non si può (se non a patto di gravi ‘scollature’ nell’argomentazione)
ritrovare un rapporto con l’Antico Testamento saltando semplicemente
il suo nesso con il Nuovo, e i problemi del rapporto con il cristia-
nesimo storico, con le istituzioni, come la Chiesa, che si presentano
come valida interpretazione-prosecuzione della rivelazione biblica. Ma
questo problema è per l’appunto il problema della secolarizzazione;
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momento provvisorio superato. Se non regge il razionalismo metafisico
hegeliano, il cristianesimo non è ‘superato’. Allora, argomenta Pareyson,
ha ragione Kierkegaard a riproporsi il problema; e hanno torto Feuer-
bach e Marx, i quali si sbarazzano del cristianesimo ancora con ragioni
hegeliane, mentre d’altra parte vogliono rifiutare Hegel. O meglio: se,
in base a «ragioni esistenziali», si dissolve la visione sistematica della
storia hegeliana, si devono rifare i conti con la Bibbia e con il proble-
ma dell’annuncio cristiano della salvezza. Davanti a questo problema,
nel momento storico della dissoluzione dello hegelismo (e anche oggi,
secondo Pareyson) si possono assumere due posizioni: quella di Kier-
kegaard o quella di Feuerbach e poi di Marx. Ma quest’ultima liquida
il cristianesimo in base a ragioni che riprende da Hegel, e in generale
‘supera’ l’idealismo solo nel quadro di una filosofia dialettica della
storia ancora tutta segnata dal razionalismo metafisico. Se si vuol essere
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resto del mondo – è certamente un’idea di tipo storicistico, facilmente
riportabile nell’ambito di un, sia pur rovesciato e distorto, hegelismo.
In questo hegelismo distorto rimane l’idea che la posizione del cre-
dente è superata da un atteggiamento più illuminato della ragione,
una ragione storica-relativistica, ‘illuminata’ non nel senso che abbia
raggiunto la perfetta autotrasparenza, ma pur sempre situata in un
grado superiore di consapevolezza che colloca la fede cristiana tra le
cose del passato. (Anche il ‘silenzio’ di Heidegger – che certo non si
pone in una prospettiva di relativismo storicistico – sul cristianesimo,
silenzio che comunque costituisce un problema degno di essere di-
scusso a parte, potrebbe essere, almeno molto in generale, citato come
segno della ‘ovvietà’ in cui appare il rapporto tra cristianesimo, civiltà
occidentale e Bestimmung – vocazione e determinazione – storicistica
di questa civiltà).
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tremore); dall’approfondimento di questa esperienza (penso soprattutto
al capitolo su «Tempo ed eternità») vengono fatti emergere, anche
andando oltre Kierkegaard, gli elementi per la critica della concezione
metafisica dell’essere. Così (e si vedano su ciò le puntigliose precisa-
zioni dell’introduzione)2 nell’esperienza del rapporto con Dio l’essere
si manifesta non come fondamento, ma piuttosto come dono, libertà,
abisso. Se (con Kierkegaard) l’esperienza basilare dell’esistenza è la
libertà, l’essere, con cui la libertà che il singolo esperisce è in rapporto,
non può configurarsi come ‘causa’ o «principio di ragione»; ma solo,
a sua volta, come libertà, infondatezza, baratro che non si arresta a
un principio ultimo la cui ultimità non potrebbe che coincidere con
la necessità dell’arché metafisica. Delle tre categorie della modalità,
scrive Pareyson in una pagina che è tra le più suggestive di tutto il
libro e forse anche una delle più belle della filosofia contemporanea,
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2
Ivi, pp. 18-19.
3
Ivi, pp. 28-29.
4
Cfr. anche, di L. Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, in Aa. Vv., Roman-
ticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Milano, Mursia, 1979; e il bel volume
antologico, con un’ampia monografia introduttiva, Schelling, curato da L. Pareyson,
Casale, Marietti, 1975.
51
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svolge, con ritmo intemporale, la presentazione e il superamento della
possibilità negativa»5.
Dunque, il riproporsi del cristianesimo dopo la dissoluzione dello
hegelismo apre la via a una filosofia che Pareyson chiama ontologia
della libertà, in quanto pensa l’essere non come fondamento ma
come Ab-grund e Ungrund. È nel quadro di questa ontologia che
si colloca l’altro aspetto centrale del pensiero di Pareyson, la teoria
dell’interpretazione e della molteplicità delle prospettive storiche come
inesauribilità rivelativa dell’essere stesso. La conoscenza della verità
non è progressivo avvicinarsi a un nocciolo di strutture metafisiche
già-sempre disponibili, ma accadimento di sempre nuove esperienze,
formulazioni, interpretazioni di un essere la cui abissale libertà, sul
piano cognitivo, coincide appunto con l’inesauribilità. Insomma, è
perché l’Essere non è fondamento, ma Ab-grund, che la verità può avere
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5
L. Pareyson, Esistenza e persona cit., p. 35.
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Proprio a Heidegger, Derrida ha rimproverato il fatto di parlare
ancora all’essere6. È una posizione che si può in parte condividere. Se
l’evento dell’essere non è tale solo, o anzitutto, nel senso soggettivo del
genitivo, ma anche sempre e inscindibilmente nel suo senso oggettivo;
se cioè l’essere non è nulla al di fuori del suo evento, perché continuare
ad ‘attribuire’ l’evento all’essere come sua proprietà, e non parlare
invece semplicemente di eventi – storicizzando radicalmente l’onto-
logia? Tuttavia, ciò che accade nelle singole aperture storico-destinali
(o anche: storico-culturali) non è solo ente, ma anche sempre essere.
Il che, in termini heideggeriani, coincide forse, con la mai completa
‘superabilità’ della metafisica; questa è solo oggetto di una possibile
Verwindung, mai di una Überwindung7; e si riporta probabilmente
anche al costitutivo essere-per-la-morte caratteristico dell’Esserci, da
cui dipende il darsi dell’essere nella forma del monumento.
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6
Per una discussione, cfr. il capitolo «Nietzsche e la differenza» nel mio Le avventure
della differenza, Milano, Garzanti, 1979.
7
Su ciò cfr. il cap. x del mio La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1975.
8
Sul tema dell’ideologia, cfr. il saggio Pensiero espressivo e pensiero rivelativo, nel
volume di L. Pareyson, Verità e interpretazione, Milano, Mursia, 1971.
53
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Heidegger, è sempre accaduto nella storia della metafisica come oblio
dell’essere9.
All’esperienza ‘kierkegaardiana’ dell’esistenza come libertà, il pensiero
corrisponde dunque anzitutto pensando l’essere come evento, e come
evento dell’essere e non solo dell’ente solo questa differenza, quella che
Heidegger chiama la differenza ontologica, si mantiene fedele al ‘dato’
dell’esperienza della libertà, da cui muove, anche in Heidegger e non
solo in Pareyson, la presa di congedo dal razionalismo metafisico he-
geliano e in generale dall’idea metafisica dell’essere come fondamento.
In qualche modo, è il pensare l’essere come evento e non come strut-
tura quello che, per venire alla seconda delle questioni poste sopra, «si
guadagna» riprendendo la speculazione dell’ultimo Schelling. Su ciò,
nel pensiero di Pareyson sussistono alcuni esiti che a mio parere non
sono accettabili; o meglio, che devono essere corretti proprio facendo
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9
Non mi fermo qui sui significati che Heidegger, nelle varie fasi del suo pensiero,
attribuisce al concetto di metafisica. Il tema è affrontato in modo chiaro per esempio
da M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, Roma, Bulzoni, 1977.
54
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è caratteristico dell’esistenza e che, proprio perciò, sta con l’essere in
rapporto ‘differente’, di tensione, quel rapporto che conferisce senso
all’evento e alla storia? Se anche Dio (e in fondo, proprio perché l’essere
è pensato come libertà, è possibile riprendere l’identificazione della
teologia metafisica tra l’essere e Dio) è nella condizione della libertà
minacciata, allora che significa il rapporto dell’esistenza con lui, o con
l’essere? Se questo rapporto deve stabilirsi come tensione e differenza,
in che cosa consisteranno queste ultime? Nonostante il gran parlare di
tragicità, questa ontologia rischia di apparire, come del resto è stata
spesso la metafisica, solo una reduplicazione dei caratteri dell’esistenza.
Probabilmente, il fascino degli aspetti ‘teosofici’ del pensiero del
tardo Schelling, che risuonano in questa concezione di Dio come
libertà minacciata, consiste piuttosto nel fatto che un tale pensiero
sembra maggiormente capace di ‘mobilitare’ l’immaginazione simbo-
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scuno avendo interesse a preservare la reciproca compatibilità […]»10.
Pareyson potrebbe certo rivendicare la validità di questa tesi in nome
della molteplicità inesauribile delle interpretazioni della verità: queste
interpretazioni, però, se non devono essere considerate come ‘parti’
o ‘aspetti’ di un tutto comunque dispiegato in una ideale, metafisica
sincronia, hanno fra loro rapporti ‘storici’ che non si lasciano metter
da parte, proprio nella misura in cui si vuole esser fedeli a una nozione
di essere come evento. Non ci sono linee parallele, quella del mito e
quella del logo, che bisogni preservare nella loro reciproca irriduci-
bilità; perché sostenere questo equivarrebbe (almeno pare a me) ad
affermare una struttura multiforme dell’essere – ritrovandosi dunque
nell’orizzonte della metafisica descrittiva e fondazionale.
La questione della filosofia della mitologia (quale che sia, in termini di
esattezza storiografica, il suo senso in Schelling), e del rapporto del mito
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con il logo, è solo un aspetto del più generale problema del prendere
sul serio l’esperienza dell’essere come evento e non come fondamento.
Come il rapporto del logo con il mito non si può sistemare pacifica-
mente in nome di una ‘struttura’ multivoca, ma pur sempre struttura,
dell’essere (non: to on leghetai pollakos, ma, biblicamente: multifariam
multisque modis locutus est Deus patribus nostris, Epistola agli Ebrei, I,
i: dove è essenziale il riferimento ai padri, cioè a un pollakos ribaltato
sul piano diacronico, che significa anche concatenarsi di interpreta-
zioni, forse in un rapporto di «rassomiglianza di famiglia»…), così la
‘scoperta’ dell’essenza non fondazionale, ma eventuale, dell’essere non
si può capire fuori da una storia della metafisica che, nel suo dipanarsi,
si presenta comunque anche come un filo conduttore dotato di una
sua teleologia, ereditando qualcosa della ‘normatività’ dell’assoluto
autotrasparente di Hegel. Se torniamo alla nostra domanda (b), sul
che cosa «si guadagni» a pensare l’essere in termini di libertà piuttosto
che come fondamento necessario, la risposta non è solo: si guadagna
un essere più conforme all’esistenza (salvando i fenomeni, in qualche
modo); né si guadagna una posizione più capace di render conto della
storia dell’immaginazione simbolica; ma invece: ciò che si guadagna è
una concezione dell’essere che, nel suo prender congedo dalla neces-
sità metafisica, si mostra come avviato verso una emancipazione dalle
strutture forti in cui la metafisica l’aveva imprigionato (imprigionando
con esso anche l’uomo).
Per questo credo che si debba far reagire (più di quanto non faccia
talvolta l’autore stesso) l’ontologia della libertà di Pareyson con la sua
10
L. Pareyson, Esistenza e persona cit., p. 34.
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filosofia dell’interpretazione e dell’inesauribilità della verità. Una filo-
sofia dell’interpretazione o meglio ancora una ontologia ermeneutica,
come anche si potrebbe chiamare la filosofia di Pareyson, non può
reggersi, mi pare, se non su un esplicito riconoscimento dei tratti di
‘indebolimento’ nei quali l’essere si configura alla fine della sua parabola
metafisica. Lo sforzo di pensare radicalmente l’idea di una inesauri-
bile eventualità della verità non si lascia conciliare nemmeno con una
nozione ‘schellinghiana’ di Dio e dell’assoluto, neanche con l’idea di
Ab-grund e Un-grund, se queste idee non sono pensate come tappe
sulla via della ‘secolarizzazione’ o dell’indebolimento dell’essere. Se si
rifiutano questi esiti, l’idea dell’essere, o di Dio, come non-fondamento,
ma dono, libertà, evento (un termine che non rientra nella terminologia
di Pareyson, ma che non mi pare ingiustificato aggiungervi) finisce
per irrigidirsi nuovamente entro prospettive fondazionali-metafisiche,
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5. UTOPIA, CONTROUTOPIA, IRONIA
1
V. Verra, Utopia, in Enciclopedia del Novecento, 1984.
58
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controutopia del cinema espressionista risente profondamente dell’e-
sperienza allora recente della prima guerra mondiale, che forse per la
prima volta aveva determinato, in connessione con le esigenze della
produzione bellica, una organizzazione molto rigida, parcellizzata,
alienata, del lavoro industriale e, di conseguenza, dell’organizzazione
e della disciplina sociale; così il 1984 di Orwell rispecchia non solo
le esperienze dei fascismi europei degli anni Trenta, ma anche, e ben
più pesantemente, l’impatto del totalitarismo staliniano sulla coscienza
liberale di quegli anni.
Sarebbe però sviante, a mio parere, riportare il diffondersi della
controutopia nella letteratura e nell’immaginario collettivo del nostro
secolo a queste delusioni, a esperienze negative come quelle che abbiamo
ricordato, che in fondo sono sempre ancora solo spiegazioni «parziali».
Anche l’attuale, tragicamente fondata, paura per l’incombere della di-
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ne i nessi strettissimi con la storia del razionalismo moderno. Vi sono
certo, a partire da Platone, testi utopici che non rientrano strettamente
nella storia del razionalismo moderno (sebbene, in una prospettiva più
ampia che si rifaccia a Nietzsche o a Heidegger, è perfettamente legitti-
mo includere anche, anzi soprattutto, Platone in questa storia). Ma se
pensiamo al significato più proprio e storicamente preciso del termine
utopia, all’isola descritta da Tommaso Moro nell’opera che improntò
il termine nel senso che esso ha oggi per noi, ci troviamo immediata-
mente collocati dentro alla storia del pensiero razionalistico moderno.
Tommaso Moro, o Campanella nella sua Città del Sole, figurano una
realtà «ottimizzata» non in base ad immagini ispirate da un desiderio
immediato e ingenuo di benessere e di felicità; ma, in qualche modo,
deducono i caratteri dei loro mondi ideali da una ricognizione razionale,
e sistematica, dell’essenza umana, delle sue possibilità e della sua voca-
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nostro tempo, Ernst Bloch. In un famoso libro su Hegel2, Bloch gli
rimprovera non la sua volontà sistematica e il suo sguardo rivolto alla
totalità come unica possibile verità; bensì il carattere anamnestico del
suo pensiero, cioè il fatto che la totalità, il sistema, a Hegel appaia già,
in linea di principio, compiuto. Anche per Bloch, il vero resta l’intero,
il tutto; fuori di esso non c’è che errore e alienazione; ma il tutto non
sta alle nostre spalle come già realizzato, è invece telos utopico colto
dalla coscienza anticipante. Si può anche pensare, come poi ha fatto
più radicalmente Adorno, che inteso così il tutto utopico non possa
neanche raffigurarsi; vigerebbe in tal modo una sorta di divieto – ana-
logo a quello che nell’Antico Testamento vieta di fare immagini e di
pronunciare fin solo il nome di Dio – contro ogni possibilità di farsi
un’idea positiva dei contenuti del telos utopico. Difficile dire se una
tale concezione radicalmente iconoclastica del telos utopico, propria di
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Adorno, sia conforme alla prospettiva di Bloch. Resta però che persino
nella sua forma più radicalmente negativa, quella adorniana, l’utopia
mantiene un legame con la totalità, che non si può mai immaginare
come realizzata. Anche solo fungendo da principio critico che mette
in guardia dalle pretese di ogni realizzazione storica, il telos utopico
mostra il suo nesso con la totalità e, dunque, con la volontà metafisica
di sistema.
Se dunque, come si può ragionevolmente argomentare, l’immagina-
zione utopica, almeno nel suo senso più proprio, che non è quello della
pura e semplice fuga fantastica in un mondo più felice, è un aspetto
costitutivo della mentalità metafisica moderna, che significato assume
la vicenda dell’utopia novecentesca e il suo caratterizzarsi soprattutto
come controutopia? Con la scoperta, vissuta nell’immaginario collettivo
proprio con l’affermarsi delle controutopie, della controfinalità della
ragione, non sono solo singoli errori o rischi di pervertimento che ven-
gono esperiti e segnalati; è lo stesso meccanismo della razionalizzazione
che viene «sospeso», messo in crisi e globalmente sotto accusa. Non
appare più casuale, così, che la controutopia si affermi in un’epoca in
cui, a livello di coscienza comune, si registra una dissoluzione dell’i-
deologia del progresso (anch’essa, certo, motivata dalle esperienze di
«controfinalità» che motivano la controutopia; ma non solo: il progresso
non ha più senso, come dogma di filosofia della storia, perché è la
storia stessa come corso lineare unitario che non è più pensabile, se
non a prezzo di una grave violenza ideologica: (si ricordino le Tesi sulla
2
Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel [1949], trad. it. a cura di R. Bodei, Bologna,
il Mulino, 1975, spec. pp. 495 e segg.
61
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filosofia della storia di Benjamin, e anche, di Bloch, le Differenziazioni
nel concetto di progresso)3; e mentre la filosofia, dapprima in Nietzsche,
poi in Heidegger, ma anche in fondo in un pensatore meno «aurati-
co», come Adorno (con il suo insistere su come tutto è cambiato, per
l’uomo e il suo pensiero, «dopo Auschwitz»), si sente testimone di un
momento di svolta epocale dell’umanità. La scoperta della controfinalità
della ragione – e su ciò sono d’accordo filosofi diversi come Adorno
e Heidegger – è il sigillo di questa svolta epocale. Non è più solo la
possibilità che un singolo meccanismo inventato dalla tecnica, o anche
un intero sistema di macchine, si rivolti – come i robot della fantasia
espressionista – contro l’uomo. La controfinalità della ragione consiste
nel fatto che, proprio realizzandosi «rettamente», secondo i piani, la
ragione si rovescia contro le finalità, di emancipazione e «umanizza-
zione», che la muovevano. A questa scoperta, ovviamente, non si può
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rispondere con un altro passo sulla via di una più piena e autentica
razionalizzazione, giacché è proprio questo meccanismo che si è svelato
nella sua vocazione perversa. Adorno e Horkheimer, nella Dialettica
dell’illuminismo, implicavano che fosse possibile correggere, per così
dire, il pervertimento della ragione attraverso la «critica della ragione
strumentale»; la ragione si era pervertita, cioè, dando luogo al mondo
totalmente amministrato, alla manipolazione delle coscienze ecc., perché
aveva preso come modello della razionalizzazione la ragione scientifica,
oggettivante, misurante. Questo prevalere della razionalità oggettivante,
calcolante, strumentale, era legato, nella prospettiva adorniana, che si
richiamava a tesi weberiane, all’imporsi dell’ordine capitalistico nella
società. Si poteva sperare, insomma, che una emancipazione della società
dal capitalismo avrebbe anche condotto a una visione e un esercizio
meno unilateralmente calcolante e strumentale della ragione, aprendo
la via a una razionalizzazione diversa, capace di ricuperare un senso
liberatorio. Gli sviluppi del pensiero di Adorno successivi all’opera del
1947, tuttavia, hanno camminato piuttosto nella direzione di quell’u-
topismo critico-negativo a cui abbiamo già accennato; sempre meno
realistica è apparsa la speranza in una emancipazione della ragione
dalla sua «figura» storica moderna, che mescola disciplinamento so-
ciale, repressione, oggettivazione calcolante, applicazioni tecnologiche
3
Le Tesi sono tradotte in italiano in W. Benjamin, Angelus Novus, a cura di R. Solmi,
Torino, Einaudi,1962; il saggio di Bloch, che è una conferenza del 1955, è tradotto in
italiano nella raccolta Dialettica e speranza, a cura di L. Sichirollo, Firenze, Vallecchi,
1967. Su questi temi, si veda anche il mio saggio Il tempo nella filosofia del Novecento,
in Il mondo contemporaneo, a cura di N. Tranfaglia, Firenze, La Nuova Italia, 1983,
vol. X/2.
62
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della scienza; e sempre più, invece, il telos utopico è apparso come
affermabile solo in termini negativi.
Verso dove indica, dunque, la consapevolezza, sempre più chiara-
mente presente nella filosofia contemporanea, della svelata controfinalità
della ragione? E le vicende dell’immaginazione utopica, dal canto loro,
danno qualche indicazione circa la via che il pensiero può intrapren-
dere una volta preso atto che il meccanismo lineare, progressista,
della razionalizzazione si è inceppato, avviluppandosi in una radicale
autocontraddizione?
Circa quest’ultimo punto, è l’utopia cinematografica di questi ultimi
anni che fornisce un interessante materiale di riflessione.
Blade Runner, un famoso film di Ridley Scott, uscito nel 1983, è
considerato universalmente come il modello di tutto un filone cinema-
tografico (che, del resto, ha cominciato ad esistere già prima di questo
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rebbe in modo abbastanza ovvio per il fatto che, si immagina, la cata-
strofe che sta alle spalle dei sopravvissuti è stata per l’appunto prodot-
ta con l’ausilio di quegli apparati tecnici che costituivano il mondo
della razionalizzazione. La presa di distanza da tutti gli apparati della
tecnologia, che ancora ci sono e che funzionano male, nella generale
situazione di rovina in cui il mondo apocalittico si trova, risulta piut-
tosto caratterizzata in senso ironico, come accadeva in certe sequenze
de Il dormiglione di Woody Allen (che però non appartiene, probabil-
mente, al genere post-apocalittico). Per tutti questi caratteri – apoca-
lisse già accaduta, rovine del mondo «progredito», presa di distanza
ironico-nostalgica da quel mondo, che è anche, spesso, un distacco dai
suoi ritmi, con un generale rallentamento dell’azione – la controutopia
che proponiamo di chiamare post-apocalittica si avvicina anche, per
connessioni non superficiali, ai contenuti già non «progressisti» di
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4
Cfr. A. Gehlen, Die Säkularisierung des Fortschritts, in Einblicke (vol. VII della
Gesamtausgabe delle opere, a cura di K. S. Rehberg), Frankfurt, Klostermann, 1978.
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ma non nel senso del ritorno alla natura felice di certe fantasie utopi-
che del passato; bensì nel senso, più rigorosamente conforme alla vi-
cenda dell’utopia nella mentalità moderna, di rappresentare un com-
pimento, un passaggio a una condizione estrema, fondata sulla realiz-
zazione piena di ciò che, per ora, si delinea come la nostra (unica)
possibilità. L’inventario ironico-nostalgico dei feticci del progresso è
forse l’unica «utopia» ancora possibile, l’unica condizione futura im-
maginabile e, in una certa misura, desiderabile, per l’uomo della tarda
modernità che ha visto consumarsi sotto i propri occhi le speranze
nella razionalizzazione, nella Aufklärung sempre più completa, del
mondo. La difficoltà che si incontra a descrivere questa condizione
ancora come un’utopia – ad esempio, nel decidere se si tratti di quel
misto di previsione e anticipazione ottativa, desiderante, che l’utopia
era nel passato – dipende tutta dal fatto che qui, appunto, siamo nel-
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Heidegger ha descritto come il compimento della metafisica. Adorno,
come abbiamo visto, sperava ancora che si potesse dare una correzio-
ne dell’appiattimento della ragione sulla sua configurazione strumen-
tale e di dominio, e che mediante una trasformazione complessiva
della società, la razionalizzazione potesse conoscere un nuovo destino
di emancipazione. Ma questa convinzione lasciò sempre più esplicita-
mente il posto, in lui, al negativizzarsi dell’utopia; e, in sostanza, alla
rinucia ad ogni filosofia della storia. Nell’idea che il tutto è il falso
proprio in quanto si è realizzato, però, c’è, embrionalmente, una nuo-
va filosofia della storia. Essa sarebbe caratterizzata dal sostituire, al
modello lineare (in salita o in discesa, in senso progressivo o regressi-
vo) proprio della visione ebraico-cristiana della storia, e al modello
ciclico caratteristico invece della concezione classica del tempo5, un
modello che non si può definire se non ironico-distorsivo, che può
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5
Seguo qui le note tesi di K. Löwith, Significato e fine della storia ([1949], trad. it.
F. Tedeschi Negri, Milano, Comunità, 1963.
6
Su questo, per una più ampia discussione, anche in connessione con la nozione
di Verwindung (ripresa-mantenimento-distorsione) che si trova elaborata in Heidegger,
mi permetto di rimandare al già cit. La fine della modernità.
7
Per un’introduzione alla storia del concetto, cfr. H. Lübbe, La secolarizzazione
[1965], trad. it. P. Pioppi, Bologna, il Mulino, 1970.
8
Cfr. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), in Sociologia della religione
I, a cura di P. Rossi, Milano, Comunità. 1982. vol. I.
66
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lismo occidentale, cioè, più semplicemente, della stessa modernità. Nel
capitalismo moderno l’etica cristiana non è lasciata indietro come
falsa e inutile; è invece «realizzata», in una forma tuttavia nella quale
i primi discepoli di Gesù difficilmente la riconoscerebbero. È essa che
«spiega» il mondo capitalistico, il quale non può «farne a meno»; e
anzi, la sua presenza storica più effettiva, dunque anche più vera, è
proprio questa, di contro a un mantenersi (ma anch’esso fino a che
punto autentico?) come insieme di precetti sempre meno «verosimili»
perché irrigiditi in forme obsolete, sempre meno applicabili alla vita
così com’è…
Nella sua forma, per ora solo accennata, di utopia post-apocalittica,
l’immaginazione utopica di questi ultimi anni sembra ritrovare, al di là
della scoperta della controfinalità della ragione, una possibilità, sia pur
paradossale, di proiettarsi sul «futuro». Un futuro sui generis, se deve
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parte seconda
Ermeneutica ed etica
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6. LA CRISI DELLA SOGGETTIVITÀ
DA NIETZSCHE A HEIDEGGER
che essi, in qualche modo non generico, dicano «la stessa cosa»; e
che riconoscere questa stessa cosa significhi non solo evidenziare vi-
cinanze e analogie di percorsi concettuali, ma inserire tali vicinanze e
analogie entro un orizzonte epocale, considerandole modi di svelarsi
di un destino che concerne la (nostra) soggettività nell’epoca attuale.
Come si vede, si tratta di una serie di premesse niente affatto «neutrali»
e descrittive; se questo è vero per ogni ricerca filosofica, anche la più
programmaticamente limitata all’accertamento e narrazione di «dati»,
vale in modo del tutto speciale per due pensatori come Nietzsche e
Heidegger, che (certo in modo analogo a Hegel, ma anche con una
differenza di fondo, quanto al tono niente affatto trionfalistico, bensì
critico-decostruttivo, del loro discorso) si sono sentiti e presentati come
pensatori «epocali», esponenti di un pensiero la cui «verità» è anche
e soprattutto la verità di un’epoca.
La tesi di una sostanziale continuità teorica tra Nietzsche e Heidegger
non è affatto ovvia, se solo si pensa che Heidegger stesso, anzitutto,
considera Nietzsche il culmine della metafisica e del nichilismo che
ad essa è inerente, mentre pensa il proprio compito proprio come
quello di andare oltre la metafisica e il nichilismo, secondo una linea
di radicale discontinuità, dunque, con la tradizione che culmina in
Nietzsche. E vero che, negli stessi testi di Heidegger dedicati a questi
problemi (e cioè, in certo senso, tutti i testi dello Heidegger maturo),
il rapporto del pensiero ultra o post-metafisico con il nichilismo del-
la metafisica compiuta non è così schematico, e presenta numerosi
problemi interpretativi; ciò non toglie però che continui a fare un
certo scandalo parlare di uno Heidegger nichilista, mentre è pacifico
che questo attributo si applica a Nietzsche. Ora, senza sviluppare qui
71
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specificamente questo discorso (del resto condotto altrove1), è proprio
la chiarificazione delle ambiguità del rapporto Heidegger-Nietzsche
nel senso di un riconoscimento della sostanziale continuità, del loro
dire la stessa cosa (cioè il nichilismo), quel che appare oggi il compito
della filosofia, uno dei suoi compiti teoricamente decisivi, e non solo
un tema di ricerca storiografica.
Se, come abbiamo accennato, questa continuità non è solo un dato
che può esser fatto emergere dai testi dei due filosofi, ma anche e so-
prattutto il risultato di una attenzione rivolta al loro significato epocale,
è chiaro che per questo secondo aspetto non possiamo che richiamar-
ci – in modo ermeneuticamente corretto – a una «pre-comprensione»
condivisa circa i caratteri salienti dell’epoca che viviamo. Questa pre-
comprensione è del resto ciò di cui è sempre vissuta la filosofia nel
suo appellarsi all’«esperienza», la quale mai è stata ciò che una visione
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1
Si vedano soprattutto i più citati Le avventure della differenza, Al di là del soggetto,
La fine della modernità.
72
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dalla metà degli anni Settanta, una presenza pervasiva dell’ermeneutica:
cioè, di una filosofia centrata intorno al problema dell’interpretazione,
che si richiama a Schleiermacher, Dilthey, Nietzsche, Heidegger, e
che è sviluppata oggi in direzioni diverse ma con molti tratti comuni
da filosofi come Gadamer, Pareyson, Ricoeur, Jauss, e come Richard
Rorty, che vi apporta l’essenziale contributo di un esplicito richiamo
al pragmatismo. L’ermeneutica intesa in questo senso vasto compren-
de anche posizioni filosofiche meno strettamente riconducibili al suo
filone principale, ma profondamente connesse con quello: Karl Otto
Apel e l’ultimo Habermas, Foucault, Derrida; e soprattutto, costituisce
non solo un ambito di elaborazioni teoriche, ma lo sfondo dell’auto-
coscienza metodologica di molta critica letteraria e artistica, di molto
lavoro della storia, della psicologia, delle scienze sociali. Ciò che negli
anni Cinquanta-Sessanta è stato per il pensiero europeo il marxismo2
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2
Sartre descrisse emblematicamente questa posizione egemone del marxismo in
alcune pagine della «Questione di metodo» premessa alla Critica della ragione dialet-
tica [1960], trad. it. P. Caruso, Milano, il Saggiatore, 1963, vol. I, spec. pp. 76 e segg.
3
Cfr. J. Habermas, H.G. Gadamer, Das Erbe Hegels, Frankfurt, Suhrkamp, 1979,
pp. 9-51.
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struttura ma evento, che non si dà più come principio e fondamento,
ma come annuncio e «racconto»), che sembra il senso stesso dell’alleg-
gerimento della realtà che accade nelle nuove condizioni di esistenza
determinate dalle trasformazioni della tecnologia, e che globalmente
si possono indicare come caratteristiche della post-modernità4.
4
Ho sviluppato questo tema specialmente nella introduzione della Fine della mo-
dernità cit.
5
Mi limito qui a pochi cenni. Per analisi più approfondite, si vedano i miei studi su
Nietzsche: Il soggetto e la maschera, Milano, Bompiani, 19832; Introduzione a Nietzsche,
Bari, Laterza, 1985.
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forme definite, dei valori, della stessa nozione di verità. Il fatto è che
il «sospetto» nei confronti della soggettività autocosciente è bensì, da
una parte, ispirato dalla scoperta che le forme definite e stabili di cui
essa vive sono «false», sono apparenze sublimanti prodotte in fun-
zione consolatoria; non però in quanto tali esse vengono smascherate
e condannate, bensì solo nella misura in cui, come nel razionalismo
«illuministico» socratico, vogliono diventare verità, sottrarsi al rappor-
to di funzionalità consolatoria e mascherante che le lega alla vita, al
dionisiaco. La complessità di questa prospettiva si ritroverà, tradotta
in termini diversi, nello sviluppo successivo del pensiero di Nietzsche;
ma già come si presenta nella Nascita della tragedia, essa indica che
Nietzsche non potrà fermarsi a una posizione di puro smascheramento
della superficialità, non verità, della coscienza e del soggetto, ma dovrà
andare oltre, nella direzione del nichilismo e della dissoluzione della
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dano il mondo fenomenico sono «finzioni» regolate dalle convenzioni
sociali; anche l’immagine che l’io si fa di sé, dunque l’autocoscienza
nel senso più proprio, è in realtà solo l’immagine di noi stessi che gli
altri ci trasmettono (e che noi adottiamo anche per ragioni di sicurezza:
per difenderci dobbiamo infatti introiettare il modo in cui gli altri ci
vedono, calcolare con esso; e più in generale, nella lotta per la vita uno
strumento decisivo è il mimetismo)6. Quello che crediamo egoismo,
dunque, è in realtà un «egoismo apparente», come suona il titolo di
un aforisma di Aurora: «La maggior parte degli uomini, qualunque
cosa possano ognora pensare e dire del loro ‘egoismo’, ciononostante,
in tutta la loro vita, non fanno nulla per il loro ego, bensì soltanto per
il fantasma dell’ago che si è formato, su di essi, nella testa di chi sta
intorno a loro e che si è loro trasmesso… Vivono tutti insieme in una
nebbia di opinioni impersonali e semipersonali… Tutti questi uomini
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6
Cfr. Aurora, 26. Le opere di Nietzsche vengono citate con il titolo e il numero
dell’aforisma, o con il numero o il titolo del capitolo; e la traduzione a cui ci si riferisce
è quella della edizione delle Opere a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Mila-
no, 1965 e segg. Gli appunti postumi sono citati nella stessa edizione, con il numero
dell’appunto, il volume e la pagina.
7
Per tutto ciò, cfr. La gaia scienza, 354.
76
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una filosofia della cultura come produzione di «menzogne», sistemi
di concetti e valori che non hanno alcuna possibile «legittimazione»
in una corrispondenza alla natura vera delle cose, ma che nascono e
si moltiplicano solo dal manifestarsi di una capacità di mentire e di
mascherarsi la quale, nata in origine come strumento di difesa e di
sopravvivenza, si autonomizza e si sviluppa al di là di ogni possibile
funzionalità vitale – sicché la menzogna, la metafora, l’inventività della
cultura creatrice di mondi apparenti non ha alcuna possibilità di le-
gittimarsi fondativamente neanche in una prospettiva di pragmatismo
vitalistico. La scoperta della menzogna, o del «sogno» (come dice
l’aforisma 54 della Gaia scienza) non significa che si possa finire di
mentire e di sognare, ma solo che si deve continuare a sognare sapendo
di sognare – solo così si può non perire.
La circolarità vertiginosa della conclusione dell’aforisma 54 della
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Gaia scienza indica in tutta la loro portata i termini della «crisi della
soggettività» così come Nietzsche la scopre e la vive: la superficialità
della coscienza, una volta smascherata, non è la via verso una nuova,
più sicura fondazione; la non-ultimità della coscienza, invece, significa
la fine di ogni ultimità, l’impossibilità, ormai, di pensare in termini di
fondamento, e dunque un generale riaggiustamento nella nozione della
verità e in quella di essere. Questo ampliamento del discorso sma-
scherante ai suoi termini ontologici più vasti e radicali è il senso delle
opere dell’ultimo periodo di Nietzsche, da Zarathustra in avanti; è il
periodo segnato dalla scoperta dell’idea dell’eterno ritorno dell’uguale,
del nichilismo, della volontà di potenza e dell’oltreuomo; tutti termini
che definiscono, più che una filosofia positiva di Nietzsche, il suo sforzo
di realizzare una ontologia dopo la fine del pensiero fondativo, dopo
la «morte di Dio», sforzo che rimane largamente problematico. Per
ciò che riguarda la soggettività, il termine con cui Nietzsche definisce
la sua visione di una umanità non più «soggetta» (nei numerosi sensi,
tra loro profondamente collegati, che ha questa parola: dalla sogget-
tività all’assoggettamento, principalmente) è quello di Übermensch,
superuomo o, meglio, oltreuomo8.
La difficoltà, con la nozione di oltreuomo, consiste nel fatto che la
sua lettura più ovvia sembra ricondurci nell’ambito della soggettività
metafisica (autocoscienza, autodominio, volontà di potenza affermata
contro gli altri), e per giunta di una soggettività potenziata proprio nei
suoi caratteri più tradizionali. Ma nella filosofia dell’eterno ritorno,
8
Ho spiegato più ampiamente le ragioni della scelta di questo termine in Il soggetto
e la maschera cit.
77
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nella quale «non ci sono fatti, solo interpretazioni»9, anche l’idea che,
allora, ci siano solo i soggetti interpretanti è «solo un’interpretazione».
« ‘Tutto è soggettivo’, dite voi: ma già è un’interpretazione, il ‘soggetto’,
non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione,
di appiccicato dopo. E infine necessario mettere ancora l’interprete
dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi»10. Se non
è facile dire chi o che cosa l’oltreuomo sia, è certo, almeno, che esso
non è una forma potenziata di soggettività metafisica e della volontà.
Anche la volontà, che pure, almeno come termine, ha una parte così
centrale nell’ultimo Nietzsche, è presa nel gioco di negazione e sfon-
damento per il quale tutto è interpretazione, anche questa tesi stessa.
Ciò che, in questo quadro, sembra caratterizzare positivamente, ma
molto problematicamente, l’uomo non più soggetto, è la sua capacità
di negare anche se stesso come soggetto, di andare oltre ogni esigen-
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Cfr. l’appunto 7 [60], in Opere, ed. cit., vol. VIII, tomo 1, p. 299.
9
11
Su questo punto, si veda specialmente il paragrafo conclusivo della cit. Introdu-
zione a Nietzsche.
12
Cfr. Genealogia della morale, III, «Che significano gli ideali ascetici?», cap. 9.
13
Ivi, II, «Colpa, cattiva coscienza e simili», cap. 16.
78
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tecnicistico più radicale, la volontà di forma, da un lato; e dall’altro la
dissoluzione di ogni dominio della forma in nome di un’arte non più
assoggettata a ideali costruttivi, ma piuttosto avviata a percorrere fino
in fondo l’esperienza della destrutturazione, della fine di ogni gerarchia,
nei prodotti come nel «soggetto» artista o fruitore.
La problematicità aperta in cui rimane, nell’opera di Nietzsche, la
figura dell’oltreuomo non indica solo, o principalmente, una incon-
cludenza teorica o un’aporia che caratterizzi il suo pensiero; nel suo
allargarsi a discorso ontologico generale, che guarda verso una dissolu-
zione dell’essere inteso come fondamento, questa problematicità allude
all’impossibilità di ridefinire la soggettività con una semplice decisione
teorica, con una «chiarificazione» di concetti e una presa d’atto di
errori. La metafisica, dirà Heidegger, non è semplicemente un errore
di cui possiamo liberarci, una opinione di cui abbiamo riconosciuto la
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Oltre ai volumi citati alla nota 1, si vedano Essere, storia e linguaggio in Heidegger,
15
[1963], 2a ed., Genova, Marietti, 1989; Introduzione a Heidegger, Bari, Laterza, 19854.
79
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cioè come sostanza, solo se e quando si pensa in termini inautentici,
nell’orizzonte del «si» pubblico e quotidiano16.
La «definizione» dell’esserci in termini di progetto invece che in
termini di soggettività, tuttavia, non ha il carattere di uno smaschera-
mento che pervenga a una nuova, più soddisfacente (e rassicurante)
fondazione. Dire che l’esserci è progetto, infatti, apre la questione della
autenticità, centrale per tutto Sein und Zeit, e anche, in termini trasfor-
mati, per il successivo sviluppo del pensiero heideggeriano. Poiché non
può autenticarsi in riferimento ad alcuna sostanzialità preliminarmente
data – per esempio a una «natura», a una essenza ecc. – il progetto si
autentica solo scegliendo la possibilità più propria; non tale in quanto
«appropriata» (legittima in riferimento a una sostanzialità, o struttura, di
base), ma in quanto insieme ineludibile e sempre aperta come possibilità
che, finché l’esserci è, rimane tale. Questa possibilità «più propria» è la
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16
Cfr. Essere e tempo [1927], trad. it. P. Chiodi, Torino, Utet, 19692, spec. i paragrafi
10 e 25.
17
Su tutto questo, oltre alla già cit. Introduzione a Heidegger, cfr. Ugo M. Ugazio, Il
problema della morte nella filosofia di Heidegger, Milano, Mursia, 1976.
18
Der Satz vom Grund, Pfullingen, Neske, 1957.
80
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legame con la tradizione»19. La tradizione di cui parla Der Satz vom
Grund non è quella che Essere e tempo chiama Tradition, caratteriz-
zandola come una accettazione del passato in quanto, insieme, morto e
irrevocabile (dunque tutt’altro che liberante). La Tradition concepisce
il passato come vergangen; ed è il modo in cui si rapporta al passato
l’esistenza inautentica. L’esistenza autentica pensa invece il passato
come gewesen – non come «passato» morto e irrevocabile, ma come
«essente stato», – e la sua tradizione si chiama Ueber-lieferung, con il
termine di radice tedesca (ueber-liefern; tras-mettere). Ora, se si cerca
in Essere e tempo la differenza fra Tradition e Ueberlieferung, fra l’ac-
cettare il passato come vergangen e il tramandarselo come gewesen,
si trova che essa consiste nel fatto che, nel secondo caso, il passato è
accolto nella prospettiva dell’anticipazione decisa della morte. Solo
progettandosi anticipatamente per la propria morte l’esserci è in grado
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Ivi, p. 187.
19
81
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«etico» o «psicologico» di quel particolare ente che è l’esserci. Le
cose, gli oggetti, il mondo nel suo insieme, già per Essere e tempo
vengono all’essere, si danno come enti, solo in quanto c’è l’esserci, che
apre l’orizzonte del loro darsi. Dunque non c’è essere fuori, o prima,
o indipendentemente dal progetto gettato che l’esserci è. Che questo
progetto possa attuarsi come autentico solo in quanto si decide per la
propria morte, e ciò nella forma del salto nel liberante legame della
tradizione, cioè nella assunzione dell’eredità storica come gewesen,
possibilità, mortalità essenteci stata – tutto ciò significa, attraverso
passaggi che non si possono ricostruire analiticamente qui, ma che
risultano abbastanza comprensibili a chi pratica i testi dell’ultimo
Heidegger, che l’essere è evento; che l’essere non è, ma accade, si
dà. Questo, però, è appunto quello che si può chiamare, sempre nel
quadro dell’ipotesi che qui ci guida, il «nichilismo» di Heidegger.
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si intrecciano così tra di loro e con la storia della razionalizzazione
tecnico-scientifica del mondo. È l’organizzazione tecnica del mondo che
rende obsoleti sia l’essere come fondamento sia la struttura gerarchica,
dominata dall’autocoscienza, della soggettività.
In Heidegger il passaggio dal piano dell’analitica esistenziale (Essere
e tempo) a quello della storia della metafisica come storia dell’essere (il
senso della «svolta» nel suo pensiero a partire dagli anni Trenta) avviene
proprio in riferimento alla consapevolezza che, in un mondo come il
nostro e il suo, di grandi potenze storiche tendenzialmente totalizzanti, e
totalitarie, l’essenza dell’uomo non può (più, se mai ha potuto) pensarsi
in termini di strutture individuali, e anche di definizioni sovrastoriche.
Non è difficile mostrare, se si pensa soprattutto alle pagine più «sto-
ricamente» compromesse e «compromettenti» della Introduzione alla
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metafisica (il corso del 1935 in cui Heidegger parla esplicitamente del
destino del mondo occidentale, di Germania, Russia e America, e della
loro tendenza a costituirsi in sistemi di dominio totale)21, che il chiarirsi,
in Heidegger, del senso non nominale ma «verbale» dell’essenza (Wesen,
letto come un verbo all’infinito: essenzializzarsi, determinarsi di volta in
volta in modo destinale, epocale; accadere) è legato alla consapevolezza
del «peso» che le potenze storiche hanno nel determinare il destino
dell’umanità e il darsi di quei progetti gettati, di volta in volta, che
sono le aperture della verità e dell’essere in cui le umanità storiche (le
«essenze» storico-destinali dell’uomo) si definiscono; ora, questo peso
che conduce l’essere a darsi – a farsi conoscere e ad accadere – nella
sua epocalità ed eventualità si dispiega proprio nel mondo moderno
della scienza-tecnica; non è, ancora una volta, una struttura «eterna»
che diventerebbe visibile solo a noi, è l’accadere epocale dell’essere
nel quadro delle condizioni che si verificano con l’organizzazione
tecnologica (tendenzialmente) totale del mondo. Heidegger esprimerà
più tardi tutto ciò nelle pagine di Identità e differenza in cui parlerà
del Ge-Stell (che ho proposto di tradurre con imposizione22), cioè del
sistema dell’organizzazione totale tecnico-scientifica del mondo, come
compimento della metafisica e come possibile «primo lampeggiare»
dell’evento dell’essere, cioè come chance di un oltrepassamento della
metafisica reso possibile dal fatto che, nel Ge-Stell, uomo ed essere
21
Cfr. Introduzione alla metafìsica, (corso del 1935, pubbl. nel 1953), trad. it. G. Masi,
Milano, Mursia, 19, pp. 46-47.
22
Cfr. Le avventure della differenza cit., p. 185.
83
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perdono le caratteristiche che la metafisica aveva loro attribuito, cioè,
anzitutto, la posizione di soggetto e di oggetto23.
3. Al di là del soggetto?
23
Identità e differenza [1957], trad. it. U.M. Ugazio, “Aut aut”, n. 187-88 (gennaio-
aprile 1982), pp. 13-14.
84
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per la morte, se si assume nella sua radicale infondatezza), riusciremo
a riconoscere nell’accadere in cui siamo gettati. Nietzsche e Heidegger,
in modi diversi ma secondo intenzioni largamente simili, ci dicono
che questo accadere si definisce come Ge-Stell, come mondo della
scienza-tecnica, e che in questo mondo dobbiamo cercare i tratti di
una umanità post-metafisica, capace di non essere più «soggetta».
Ma il mondo della scienza-tecnica non è per l’appunto il mondo
dell’organizzazione totalitaria, il mondo della disumanizzazione, della
pianificazione che riduce ogni umanità, ogni esperienza individuale,
ogni singolarità personale, a momento di una normalità tutta prevista
dalla statistica, o quando non rientri in questa medietà, a marginalità
accidentale priva di peso? Nietzsche e Heidegger sembrano invece
scommettere, ciascuno a modo suo, su un’altra possibilità legata al
dispiegarsi della scienzatecnica moderna. Per Nietzsche, il mondo in
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85
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Possiamo invece ritenere che la concezione heideggeriana della tec-
nologia sia già, più o meno esplicitamente, modellata sull’informatica,
che costituisce verosimilmente l’essenza della tecnica post-moderna o
tardo-moderna24. Il Ge-Stell non dà la possibilità per l’uomo di perdere
i suoi caratteri metafisici di soggetto in quanto, nel mondo tecnologico,
egli diventa lavoratore di fabbrica, parte della macchina. Più radical-
mente, invece, la tecnologia informatica sembra rendere impensabile
la soggettività come capacità di un singolo di possedere e manipolare,
in una logica ancora metafisica di signoria-servitù, le informazioni dalla
cui coordinazione e collegamento dipende il vero «potere» nel mondo
tardo-moderno. Non si tratta dell’utopia negativa dei robot che prendono
il dominio del mondo; si tratta invece, più realisticamente, di prender
atto che l’intensificarsi della complessità sociale, non semplificata ma
resa più capillare e pervasiva con la tecnologia dell’informazione,
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24
Cfr. ancora l’introduzione alla cit. Fine della modernità.
86
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7. L’ERMENEUTICA E IL MODELLO DELLA COMUNITÀ
1
Si veda la traduzione italiana, Comunità e società, a cura di G. Giordano e con
introduzione di R. Treves, Milano, Comunità, 19792.
2
Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Discorsi sulla religione e Monologhi, trad. it., prefazione
e note di G. Durante, Firenze, Sansoni, 1947; a questa ed. si riferiscono le indicazioni
delle pagine tra parentesi nel testo.
87
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e che di conseguenza è retta dalla «pura legalità», da «formule morte
invece di vita, soltanto regole e abitudini invece di libera attività»
(p. 259). Per contro, c’è una comunità ideale (ideale in quanto non
ancora attuata, ma realmente possibile), già presente in germe negli
uomini che vivono nello spirito: è quella che si attua nell’amicizia e
nell’amore, e che si fonda su legami profondi, essenziali, tra i singoli,
che in essa esperiscono l’unione con altre anime che sono come parti di
loro (nel senso della metà perduta di Platone). I tratti di questa comunità
ideale vengono ulteriormente elaborati da Schleiermacher con un’enfasi
romantica che ci risulta estranea (e che, è appena il caso di ricordarlo,
mostra la connessione di queste sue idee con il resto dell’ambiente del
primo romanticismo). Di là dal tono e dall’enfasi, tuttavia, si incontra
qui nel testo schleiermacheriano una tesi che percorrerà l’ontologia
sociale, per usare l’espressione di Theunissen3, fino ai nostri giorni; e
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3
Cfr. M. Theunissen, Der Andere, Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, Berlin,
De Gruyter, 1965.
4
J. P. Sartre, Critica della ragione dialettica cit.
88
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meccanica proprie del mondo del lavoro organizzato, della vitalità e
della potenza materiale; invece, per gli scopi della comunità spirituale
il linguaggio «è ancora rozzo e uniforme» (p. 262); esso a lungo «impe-
disce allo spirito di arrivare alla intuizione (Anschauung) di se stesso…
Egli deve cercare a lungo tra la profusione del linguaggio, prima di
trovare un termine che sia al di sopra di ogni sospetto, e al quale af-
fidare i suoi più interni pensieri. Ma, una volta trovato, i nemici dello
spirito si impadroniscono della frase e le impongono un significato
che le è estraneo» (p. 262). I figli dello spirito non hanno ancora un
loro linguaggio adeguato, condividono il linguaggio del mondo e sono
perciò soggetti al fraintendimento; l’ideale sarebbe un linguaggio che
aderisse ai contenuti spirituali come un abito perfettamente trasparente
e capace di manifestare senza tradirli o nasconderli tutti i movimenti
dell’interiorità (pp. 263-64).
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5
Cfr. W. Dilthey, L’etica di Schleiermacher [1864], trad. it. e introduzione di F. Bianco,
Napoli, Guida, 1974, pp. 93 e segg.
6
Cfr. K.O. Apel, Transformation der Philosophie, Frankfurt a/M, Suhrkamp, 1973;
trad. it. parziale, Comunità e comunicazione, a cura di G. Carchia con introduzione di
G. Vattimo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1977.
7
Cfr. in particolare J. Habermas, Logica delle scienze sociali, Bologna, il Mulino,
1970; inoltre: Aa. Vv., Ermeneutica e critica dell’ideologia, Brescia, Queriniana, 1979;
89
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qui illustrare l’ipotesi, primo: che il modello o l’ideale della comunità
non si può mantenere nell’ermeneutica senza riprendere anche gli sfondi
metafisici a cui esso è in origine collegato; secondo: che la fase attuale
dell’ermeneutica si caratterizza come esplicitazione della insostenibilità
di questo modello e ricerca di un modello alternativo.
Anzitutto, però, occorre vedere come il modello della comunità
gioca nella costituzione della stessa ermeneutica schleiermacheriana.
Benché sia più complessa e problematica di quanto non appaia in
certe interpretazioni odierne, l’ermeneutica di Schleiermacher si può
definire globalmente come una ermeneutica della ricostruzione (così
la chiama Gadamer, sulla scorta anche delle ricerche di Kimmerle,
editore del testo critico degli scritti ermeneutici di Schleiermacher)8.
La condizione di fraintendimento che, nel monologo citato almeno,
(ma in sostanza anche dopo), si fonda sulla opposizione tra figli del
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90
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una lettura «esatta» dei testi: è un valore in sé, in quanto ristabilisce,
o stabilisce, l’ideale comunità dello spirito, quella comunità descritta
dal terzo monologo citato prima. Il primo precetto dell’ermeneutica
schleiermacheriana, «evitare il fraintendimento», presuppone che
questo non sia solo un accidente, mentre il comprendere accadrebbe
naturalmente; invece, considera che normalmente noi viviamo in una
situazione di fraintendimento, e che la comprensione deve dunque essere
cercata di proposito9. Ma il fraintendimento è condizione «normale»
solo perché, come sappiamo dai Monologhi, i figli del mondo e i figli
dello spirito condividono lo stesso linguaggio, che viene stravolto dai
primi e dunque richiede un lavoro di ricomposizione del senso. Le
varie forme specifiche di fraintendimento che Schleiermacher analiz-
za (Herm., pp. 86 e segg.) si riportano tutte a una comune radice: la
mancanza di una comunità ideale tra autore e lettore. Questa comunità
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9
Hermeneutik, ed. Kimmerle, cit., p. 86; d’ora in avanti le indicazioni delle pagine
a cui si riferiscono le citazioni saranno date tra parentesi nel testo, con l’abbreviazione
del titolo in Herm.
10
Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. cit., pp. 236-237.
91
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della comunità ideale (nella quale le individualità si incontrano come
momenti dell’universale e dell’infinito) e alla dottrina romantica del
genio e della sua produzione inconscia. Tutta la dottrina dell’individualità
che Schleiermacher elabora nei Discorsi sulla religione conduce verso
questo esito: la personalità individuale si forma costituendosi intorno
a un momento di illuminazione decisivo, a una esperienza pregnante
che è contatto con l’infinito; questa esperienza è anche quel centro
profondo che il comprendere deve afferrare per poter ricostruire il
testo. In tal modo, però, ciò che il comprendere afferra non è solo
l’individualità dell’altro, ma l’infinito in essa, in una configurazione
particolare. Sia la possibilità dell’identificazione con l’altro, sia il risultato
finale dell’operazione interpretativa sono tutte legate a questa unione
di infinito e particolare nell’individualità. L’individualità è pensata cioè
in termini di genio: come una creatività libera la cui forza produttiva e
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92
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derivate da lui11. Quello che Dilthey intende per Erlebnis si può capire
riferendosi a un passo del Leben Schleiermachers12 nel quale, parlando
di Schleiermacher, egli scrive: «ognuno dei suoi Erlebnisse è compiuto
in se stesso, un’immagine particolare dell’universo sottratta a ogni con-
nessione esplicativa». Mentre per Schleiermacher l’esperienza puntuale
si stagliava sullo sfondo di una totalità pensata panteisticamente, in
Dilthey questo sfondo reggente e legittimante è quello della vita, che
sostiene sia il significato dell’Erlebnis per l’individuo, sia la possibilità
della comprensione da parte degli altri. Anche in Dilthey, come in
Schleiermacher, la penetrazione dell’Erlebnis dell’altro (dunque anche
dell’opera, del documento storico, dell’espressione, insomma) non ha
tanto lo scopo di garantire una conoscenza esatta di questi «oggetti»,
ma quello di produrre una intensificazione della vita. Si tratta anche
per lui, come per Schleiermacher, di «ricostruire», cioè di ricollocare,
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11
Come osserva giustamente Gadamer, Verità e metodo, tr. cit., pp. 90-91.
12
Cfr. W. Dilthey, Leben Schleiermachers, ed. Mulert, 2a ed., Berlin, 1922, vol. I, p. 341.
13
Cfr. su ciò H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. cit., pp. 93 e 307.
14
Cfr. W. Dilthey, Gesammelte Schriften, vol. V, a cura di G. Misch, Berlin-Stuttgart,
Vandenhoeck, 1957, p. 277. Per tutti questi riferimenti a Dilthey, mi sono largamente
giovato del capitolo che gli dedica P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo,
Torino, Einaudi, 19712.
15
Gesammelte Schriften, vol. V, cit., p. 274.
16
Gesammelte Schriften, vol. VII, a cura di B. Groethuysen, Berlin-Stuttgart, Van-
denhoeck, 19582, p. 215. Il testo è tradotto nella silloge W. Dilthey, Critica della ragione
storica, a cura di P. Rossi, Torino, Einaudi, 1954, p. 324: i termini italiani adottati da
Rossi sono rispettivamente «consentimento» e «penetrazione simpatetica».
17
Sul concetto di tipo cfr. P. Rossi, Lo storicismo cit., p. 52.
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ogni uomo una costante determinazione, in cui vengono limitate le
possibilità che vi sono contenute… L’intendere, il Verstehen, gli apre
un ampio campo di possibilità, le quali non esistevano nella determi-
nazione della vita reale». Così «il nostro orizzonte si amplia mediante
possibilità di vita che solo in tal modo ci diventano accessibili. L’uomo
può quindi vivere nell’immaginazione varie altre esistenze…»18. Per
questo, il saggio su L’essenza della filosofia (1907) potrà dire che «il
poeta è l’uomo vero»19. In questo saggio, del resto, l’esperienza delle
molteplici possibilità di esistenza a cui accediamo mediante la poesia
rimane anche forse l’unica autentica esperienza di universalità che
ci è data; mentre assai problematica appare l’universalità del sapere
filosofico concepito come psicologia o sistematica trascendentale delle
visioni del mondo. La tensione, molto sensibile nel saggio sull’Essenza
della filosofia, tra mobilità e «fedeltà alla vita» della poesia, e sistema-
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18
Gesammelte Schriften, vol. VII, cit., pp. 215 e 216; tradotto in Critica della ragione
storica cit., pp. 325-326.
19
Tradotto in Critica della ragione storica cit., p. 462.
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manifestare la vita (o l’infinito, nei termini di Schleiermacher). L’ideale
della comprensione come trasposizione identificante, einfühlende, ha alla
sua base una concezione ontoteologica dell’individualità; non è tanto
caratterizzata dal riferimento al divino, quanto dalla presenza piena
(del soggetto a sé, dell’intimità raggiunta tra autore e interprete ecc.)
che è proprio ciò intorno a cui si costruisce il pensiero ontoteologico
della metafisica nella descrizione che ne dà Heidegger.
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soggetti, essi pure semplicemente-presenti…»20. Non occorre alcuna
Einfühlung che getti un ponte tra l’io e gli altri, come se fossero ini-
zialmente semplici-presenze separate21.
Corrispondentemente a questa de-enfatizzazione della problematica
dell’altro (che del resto consegue alla concezione della radicale finitezza
e opacità del Dasein) anche il Verstehen si definisce in modo nuovo.
Intanto, esso non è una forma specifica di conoscenza accanto ad altre
(non è il conoscere della storia opposto al conoscere della natura, per
esempio). È invece il tratto costitutivo dell’esistere dell’Esserci. L’Es-
serci ci è in quanto comprende già sempre il mondo; e comprendere il
mondo, poi, non equivale a penetrare una qualche essenza o struttura
già «presente», ma afferrare il presente in relazione a un progetto.
Fin dalle prime battute del paragrafo 31, dove Heidegger definisce
la comprensione come un esistenziale, la nozione di intendere è rife-
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Ivi, p. 212.
21
22
Ivi, p. 237.
23
Sulle nozioni di Tradition e Ueberlieferung si vedano le illuminanti pagine di
M. Bonola, Verità e interpretazione nello Heidegger di «Essere e tempo» cit., pp. 81 e
segg., che ho utilizzato ampiamente per questa parte del saggio.
96
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si rapporta nella forma della Ueber-lieferung (o sich-selbst-Ueberliefern)24
si può attribuire i tratti del comprendere identificante, perché questo
lascerebbe fuori proprio il carattere progettuale che è invece costitutivo
della comprensione esistenziale heideggeriana.
Come all’ideale dell’auto trasparenza soggiaceva una ontoteologia
della presenza piena (elaborata poi nella forma del panteismo roman-
tico di Schleiermacher o nel vitalismo diltheyano) così la nozione di
comprensione come apertura progettuale e del Dasein come radicale
opacità rimanda a una ontologia il cui senso globale è che l’essere è
tempo25. È questa rivoluzione ontologica che mette fuori gioco l’ideale
ermeneutico della trasposizione identificante. Questo ideale ha privile-
giato l’identificazione come raggiungimento, o ricupero, di un Grund:
l’autocoscienza, l’unione con l’altro come modo di afferrare l’infinito
ecc. Ma se l’essere è tempo, ogni ideale di autotrasparenza risulta
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24
Cfr. tutto il paragrafo 74 di Essere e tempo.
25
È questa la tesi radicale, che condivido, di H.G. Gadamer: cfr. Verità e metodo
cit., p. 304.
97
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esplicitamente come base la produttività della distanza. Spunti in questo
senso non mancano in varie aree della cultura contemporanea: in psico-
analisi, per esempio, il senso della rivoluzione lacaniana può esser visto
proprio nell’aver messo fuori gioco una lettura della psicoanalisi come
via di svelamento e di riappropriazione nella trasparenza. Lo stesso si
può dire forse di molte esperienze della critica letteraria post-moderna,
per la quale la lettura e comprensione del testo diventa sempre più
una prosecuzione del lavoro dell’artista, o, sotto altri punti di vista,
una decostruzione nella quale il testo non risulta tanto «identificato»
(o «caratterizzato», come voleva la critica romantica) ma «sfondato» in
una rete di riferimenti indefinita (un po’ come nelle letture etimologiche
di Heidegger)26. Sotto un altro aspetto, il problema di abbandonare
effettivamente il modello della comunità si presenta là dove, come nei
recenti scritti di Gadamer, il compito dell’ermeneutica viene individuato
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26
Sulle varie direzioni di sviluppo dell’ontologia ermeneutica a cui qui si accenna
mi permetto di rimandare alla Postilla 1983 della mia introduzione alla citata trad. it.,
di Verità e metodo.
27
Su ermeneutica, etica, politica sono da vedere i saggi recenti di Gadamer (successivi
a Verità e metodo) raccolti in La ragione nell’età della scienza cit.
98
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8. DALL’ESSERE COME FUTURO
ALLA VERITÀ COME MONUMENTO
1
Iniziata, come si sa, in J. Habermas, Logica delle scienze sociali cit.; si veda poi la
risposta di H.G. Gadamer, in Kleine Schriften, vol. I, Mohr, Tübingen 1967, pp. 113-130;
e l’ulteriore intervento di J. Habermas, Der Universalitätsanspruch der Hermeneutik, nella
raccolta Hermeneutik und Dialektik, scritti in onore di Gadamer nel 700 compleanno,
Tübingen, Mohr, 1970, vol. I, pp. 73-104, trad. it. in G. Ripanti (a cura di) Ermeneutica
e critica dell’ideologia cit., pp. 131-167.
2
Si veda su ciò specialmente la sezione seconda della seconda parte di Verità e
metodo di H.G. Gadamer, cit., pp. 312 e segg.
99
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concezione della verità in termini di progetto. L’emergere di quella che
propongo di chiamare una visione monumentale della verità potrebbe
dunque esser intesa come un aspetto – o come l’aspetto centrale – di
quella svolta del pensiero heideggeriano annunciata per la prima volta
nello scritto sull’umanismo (1946), e che, sommariamente, consiste nel
riconoscimento che non c’è anzitutto l’uomo, ma anzitutto e principal-
mente l’essere. Come per altri aspetti della svolta, tuttavia, è probabile
che la trasformazione subita dal pensiero di Heidegger da Sein und
Zeit alle opere più tarde non sia così radicale come si tende a pensare.
È noto che Sein und Zeit aveva opposto, alla nozione metafisica di
verità come adeguazione della proposizione allo stato di cose, un’idea
di verità come progetto esistenziale: il mondo non è uno spettacolo
da registrare ‘obiettivamente’, e anche l’obiettività della scienza è un
atteggiamento che l’Esserci assume nell’ambito di un progetto, di quel
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progetto che egli stesso, nella misura in cui esiste, è. Anche la cono-
scenza come registrazione obiettiva di fatti – che si certifica in base a
criteri storicamente dati, che appartengono anch’essi al progetto get-
tato che l’Esserci è – è un’articolazione interna della precomprensione
che costituisce l’Esserci nel suo essere-nel-mondo. La conoscenza è
descritta, così, come ‘articolazione del (pre-)compreso’ ossia come
interpretazione (Auslegung) fondata su un originario Verstehen – che
del resto, anche in quanto non è pura registrazione del dato, Heidegger
chiama Entwurf, progetto. Già nel paragrafo 32 di Sein und Zeit, dove
è tematizzato il rapporto comprensione-interpretazione, Heidegger
rileva la circolarità che lega i due termini, e prevede l’obiezione che
si potrebbe avanzare: «il circolo non deve essere degradato a circulus
vitiosus, e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si
nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità
che è afferrata in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso
che il suo compito primo, durevole e ultimo è quello di non lasciarsi
mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso
o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, ga-
rantendo così la scientificità del proprio tema»3. Non ci sono, in Sein
und Zeit, ulteriori specificazioni di che cosa significhi far emergere la
precomprensione dalle cose stesse; ma c’è invece una elaborazione
di che cosa significa pensare l’Esserci in termini di costituzione esi-
stenziale irriducibile alla semplice-presenza, che è propria degli enti
intramondani (le ‘cose’), e dunque alla problematica della circolarità
(l’idea di circolo vizioso vale nell’ambito del semplicemente-presente).
3
Essere e tempo cit., p. 250.
100
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La via su cui Sein und Zeit cerca una elaborazione della tematica della
verità, cioè, non è quella che garantirebbe, in qualche modo, un accesso
‘alle cose stesse’ al di fuori delle opinioni ricevute o casuali; ma quella
che, invece, ricercando una ‘autenticazione’ del progetto, individua,
o almeno ritiene di individuare i modi in cui la comprensione non si
lascia assoggettare dal mondo del man, della chiacchiera e della banalità
quotidiana. Possiamo riassumere tutto questo dicendo – in termini che
chiariscono Heidegger, ma anche lo semplificano alquanto – che la
problematicità della verità è, in Sein und Zeit, chiaramente riconosciuta;
non qualunque ‘pre-comprensione’ del mondo, in cui l’Esserci si trovi
gettato, è capace, dispiegandosi in interpretazione, di condurci alla
conoscenza della verità; la distinzione tra la ‘scientificità’ e la banalità
della chiacchiera si opera tuttavia a livello del progetto, in relazione
al suo qualificarsi in un modo piuttosto che in un altro, e non a livello
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4
Ivi, p. 348.
101
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conda sezione dell’opera (e si può considerare la ricerca della soluzione
del problema della verità come progetto). Questa sezione, però, non
sembra offrire molti elementi per chiarire che cosa significhi ‘decidersi
anticipatamente’ per la morte, e si diffonde invece a lungo sulla storicità
dell’Esserci. Eppure, proprio questa diffusa trattazione del problema
della storicità può considerarsi l’unico possibile chiarimento di che cosa
significhi la decisione anticipatrice della morte (e dunque, anche, di che
cosa sia la conoscenza della verità). Se infatti cerchiamo contenuti più
specifici e riconoscibili per la nozione di esistenza autentica in Sein und
Zeit, ciò che troviamo è anzitutto una distinzione che concerne i modi
di rapportarsi alla propria gettatezza come proveniente dal passato5.
Il progetto che l’Esserci è, e che costituisce la sua precomprensione
del mondo, è progetto gettato: ciò significa che è, anzitutto e per lo
più, de-finito e determinato dalla appartenenza a un mondo storico
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5
Cfr. su ciò lo studio di M. Bonola, Verità e interpretazione nello Heidegger di
Essere e tempo cit.
6
Cfr. Essere e tempo cit., pp. 552-553.
102
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heideggeriana tra vergangen e gewesen, che il passato si presenta come
una possibilità ancora aperta; ma che, per l’appunto, si presenta come
una possibilità aperta, che dunque richiede nuove decisioni, perde
l’ovvietà opaca e monolitica con cui la gettatezza quotidiana cerca
di imporsi. Non c’è una differenziazione in termini di coscienza più
o meno acuta e ‘appropriata’ (al soggetto cosciente) della storia; ma
invece, in termini di esplicita assunzione di una finitezza in relazione
ad altre finitezze (quelle tramandate come eredità storica). Intesa così,
la seconda sezione della parte prima di Sein und Zeit (che resta anche
l’ultima della parte pubblicata), anticipa anche il lavoro successivo di
Heidegger: la distruzione, o decostruzione, rammemorante della storia
della metafisica è per l’appunto l’autotramandamento esplicito di cui
parla Sein und Zeit, che ci fa uscire dall’ovvietà obliosa (dell’essere)
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7
Ivi, p. 549.
8
Ivi, p. 550.
103
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dal saggio su «L’origine dell’opera d’arte» in Holzwege9), resta che la
possibilità di accesso alla verità, in quanto legata alla autenticità del
progetto, non è tanto legata al presente o al futuro ma al passato. È il
passato, ripetuto come possibilità (ancora) aperta, che ci libera dalla
opaca ovvietà del quotidiano. Questo passato ancora aperto – come un
testo classico, un’opera d’arte, un ‘eroe’ capace di fare da modello – è
quello che, per l’appunto, si può chiamare monumento; un termine
che qui è da noi scelto, certamente, anche con un intento provocatorio,
ma che si legittima in quanto capace di portare ad espressione una
quantità di elementi presenti, anche se non espliciti, nel testo heideg-
geriano: segnatamente, la nozione di traccia, di rammemorazione, di
opera d’arte, di mortalità. È solo nella cornice così definita che si dà,
per Heidegger, un’esperienza di verità.
Si può discutere se Gadamer sia un prosecutore fedele di Heideg-
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9
Si veda in questo il cap. su «L’infrangersi della parola poetica», nel mio La fine
della modernità cit.
10
Cfr. R. Schürmann, Le principe d’anarchie. Heidegger et la question de l’agir cit.
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è legittimo pensare; ma la sua identificazione con la lingua nella sua
vita storica, fatta di strutture linguistiche e segnata però, soprattutto,
da opere caratterizzanti, da testi eminenti. Proprio questo sottolinea la
differenza tra due possibili traduzioni del termine Sprache: traducendo
lingua, come Gadamer sembra preferire, si accentua di più sia la nozione
di lingua naturale e storica (linguaggio è anche quello della fisica, e i
simbolismi artificiali che si danno solo entro una lingua) sia l’idea di
un patrimonio di testi bestimmend per la lingua stessa. Se è così, si
può dire che anche per Gadamer, come per Heidegger (in misura e
senso diversi, almeno in parte), noi facciamo esperienza del mondo in
un orizzonte in cui le cose vengono all’essere solo nel progetto gettato
che noi sempre siamo; questo progetto è la lingua che parliamo e che
ci parla, la quale vive come insieme di regole, come patrimonio di
testi bestimmend, e come dialogo interpersonale. L’essere non è come
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l’oggetto: accade nel dialogo che ci lega agli altri, con i quali soltanto
esperiamo le cose; e questo dialogo dà luogo a un intendersi sulle cose
solo perché avviene in un medium, la lingua, che non è solo mezzo, ma
ambito reggente storicamente qualificato da testi eminenti. Torneremo
ancora su questa descrizione ermeneutica dell’esperienza da parte di
Gadamer; ma per ora sottolineiamo che il discorso dei monumenti si
fa più appropriato e stringente proprio, anzitutto, nella misura in cui
qui non c’è (o c’è assai meno che in Heidegger) una differenza tra
l’essere – come invio, destinazione, trasmissione – e i contenuti effettivi
della tradizione. La nozione gadameriana di Verwandlung ins Gebilde,
che ha un ruolo centrale in Verità e metodo proprio là dove si illustra
il carattere esemplare dell’esperienza estetica per ogni possibile espe-
rienza della verità, mi sembra confermare appunto questo elemento
monumentale: l’intendersi che accade nell’esperienza ermeneutica, o
anche la comprensione dell’opera d’arte o del testo del passato con
cui entriamo in dialogo, avviene solo per la via della ‘trasmutazione
in forma’; cioè, possiamo dire, nella misura in cui la fusione di oriz-
zonti fra gli interlocutori si ‘innalza’ al piano del monumento: sia che
gli interlocutori si intendano entro, o in riferimento a un canone di
forme tramandate; sia che dall’incontro si produca una nuova forma
capace di durare, di divenire a propria volta canone, classico. (Queste
due possibilità, in realtà, non configurano due alternative, ma forse
due aspetti sempre inscindibili, anche se presenti in gradi diversi, in
ogni dialogo ermeneutico, dall’interpretazione dell’opera d’arte alla
produzione di nuove istituzioni nel dialogo sociale). Quali che siano
le difficoltà di pensare in relazione alla ‘trasmutazione in forma’ i vari
aspetti dell’esperienza ermeneutica, un tratto rimane certo: ed è che
la trasmutazione in forma, come appare dai numerosi esempi a cui
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ricorre Gadamer in Verità e metodo11, non ultimo quello del ritratto,
significa che l’esperienza del mondo si dà per l’uomo in uno scambio
dialogico che è reso possibile da una lingua la quale non è struttura di
un medium comunicativo, ma patrimonio di forme, cioè di monumenti.
Non c’è dialogo interpersonale se non come riconoscersi in ‘forme’, che
sono tramandate o anche prodotte ex novo, ma che sono tali solo nella
misura in cui si ‘provano’ storicamente capaci di coagulare intorno a
sé l’esperienza di singoli e gruppi.
Se volessimo, provvisoriamente, riassumere questo aspetto dell’on-
tologia ermeneutica gadameriana, potremmo dire che in essa come
in Heidegger, l’essere non è (non è il darsi della cosa nella semplice-
presenza) ma accade, avviene – viene a noi in un tessuto di domande
e risposte, in una esperienza di Mit-dasein resa possibile e dotata di
senso dalla lingua che è il medium in cui si trasmettono forme – cioè
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11
Sulla «Verwandlung ins Gebilde», cfr. Verità e metodo cit., p. 142 e segg.; e Kleine
Schriften, vol. I cit., p. 157.
12
Un riferimento illuminante, che qui possiamo solo accennare, è la definizione
dell’interpretazione che dà L. Pareyson, come «conoscenza di forme da parte di per-
sone»: cfr. L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività [1954], Milano, Bompiani,
19883, pp. 157 e segg.
106
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benché una rottura con la tradizione sia contemplata, essa è motivata
dall’esigenza, ontologicamente ‘fondata’, di ristabilire una continuità,
di rammemorare qualcosa che la metafisica tradizionale ha obliato13.
Se si aggiunge a tutto questo il fatto che, in Heidegger, il compito del
pensare, così come lui stesso lo ha inteso e praticato, sembra essere
essenzialmente quello della ripetizione, del risalimento nella storia della
metafisica, e che uno dei motivi-guida di tutto il discorso di Gadamer
è anche, e anzitutto, la rivendicazione della centralità del sapere uma-
nistico contro le pretese egemoniche delle scienze della natura – si
accentua l’impressione che l’esperienza della verità, per l’ermeneutica,
sia essenzialmente un’esperienza di ripetizione. La trasformazione che
si opera nell’incontro ermeneutico con l’altro è una trasmutazione in
forma, il mediare l’estraneità dell’altro con sé nell’ambito di una forma
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13
Si veda ancora, su ciò, il citato lavoro di M. Bonola, Verità e interpretazione nello
Heidegger di Essere e tempo, spec. p. 207 e segg.
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ganica’14, ma può comportare rotture rivoluzionarie, prese di distanza,
o anche il ristabilimento dell’autentica immagine del passato contro i
travisamenti presenti.
Tutto questo non ha da fare solo con i possibili ‘contenuti’ della
decisione, con i diversi possibili significati dell’evento che è l’interpre-
tazione, l’accadimento ermeneutico, e che, in quanto accadimento, è
sempre un novum, anche quando sia mosso dal proposito di ripetere
il passato (come nella esecuzione ‘fedele’ di un capolavoro artistico).
La storia dell’Occidente è piena, del resto, di rinascenze, che innova-
no appunto proprio nella misura in cui si propongono di ristabilire,
di ritrovare e rimettere in vigore, momenti originari, passati canonici
(indebitamente) dimenticati.
Riconoscendo il carattere di accadimento proprio dell’atto inter-
pretativo, tuttavia, l’ermeneutica non teorizza la sua necessaria novità.
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14
Cfr. Kleine Schriften, vol. I cit., p. 160; il saggio, intitolato significativamente «Die
Kontinuität der Geschichte und der Augenblick der Existenz», è alle pp. 149-160.
15
Cfr. ancora il già citato La fine della modernità, spec. l’introduzione e il cap. vi..
16
Cfr. A. Gehlen, Die Säkularisierung des Fortschritts cit.
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al rinnovamento storico, alla rivoluzione ecc. Allorché il nuovo vale
solo come tale, o il progresso vale solo in quanto conduce a situazioni
in cui ulteriore progresso è possibile, senza più alcuna definizione di
un ideale punto di arrivo, il valore del nuovo ha percorso tutta la sua
parabola, e si può forse parlare, proprio in relazione a questo, di una
fine della modernità.
È questa la prospettiva in cui bisogna guardare alla ‘monumentaliz-
zazione’ ermeneutica della verità. Certamente essa comporta una presa
di distanza dal ‘futurismo’ (in senso letterale) della metafisica moderna
della storia, a favore dell’ideale della continuità. Tuttavia, la crisi del
valore del nuovo si consuma anche indipendentemente dalle conclu-
sioni dell’ontologia ermeneutica. La quale invece, dal canto suo: (a) si
mantiene fedele a una concezione non metafisico-fondativa della storia;
che, come dice Heidegger in Sein und Zeit, «l’esserci si scelga i propri
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17
Cfr. Essere e tempo cit., p. 552.
109
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9. IL DISINCANTO E IL DILEGUARSI
1
Cfr. P. Flores d’Arcais, Il disincanto tradito, “Micromega”, 1986, n. 2.
110
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manchi una coerenza logica nel discorso; manca invece nel lettore (non
solo in uno specifico lettore, il sottoscritto) la disponibilità a pensare
i problemi politici come «risolvibili» alla luce di una teoria giusta, o
almeno, principalmente alla luce di una teoria. Fa parte di quel disin-
canto del mondo a cui dovremmo essere fedeli anche una certa dose
di scetticismo, o comunque l’esperienza della inevitabile obliquità
del rapporto fra teoria e pratica. Né il tradimento del disincanto e il
fallimento del progetto moderno nascono principalmente da «difetti»
della teoria; né la ripresa del progetto e la più radicale fedeltà al di-
sincanto si potranno realizzare come «conseguenze» o «applicazioni»
di una teoria giusta.
Potremmo però adottare una visione della teoria che, proprio in una
prospettiva disincantata, la vedesse piuttosto come un «accompagna-
mento retorico», una specie di «supplemento d’anima», indispensabile
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in quanto sa che il mondo non ha un senso «oggettivo», e che tocca
invece all’uomo «creare anzitutto il senso oggettivo e la connessione
di senso, la relazione alla realtà, in quanto la sua relazione è di creare
teoricamente e praticamente il senso»2? Concepito soprattutto sotto
questa luce, il progetto moderno caratterizzato dal disincanto appare
definito in termini di prassismo o, si potrebbe anche dire con Hei-
degger, di «umanismo». Il mondo non solo non è popolato di dèi (e
può dunque esser concepito come la grande macchina nella quale si
installano la scienza-tecnica e la razionalizzazione capitalistica); ma:
non è neanche coglibile come un ordine obiettivo, dato; e comunque,
quali che siano le differenze tra la «necessità» obiettivamente cogente
del mussen «naturale» e l’autonomia della sfera morale, è certo che
almeno il mondo umano, l’etica e la politica, non è riportabile a leggi
«date», ma solo a ciò che l’uomo, come essere libero, fa di sé. L’altra
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2
K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Napoli, Morano, 1966,
p. 181. Riprendo le citazioni contenute nel saggio cit. di P. Flores d’Arcais.
3
K. Löwith, Dio, uomo e mondo cit., p. 175.
4
P. Flores d’Arcais, Il disincanto cit., p. 91.
112
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Non fa scandalo che una fondazione ultima non ci sia. Si potrebbe
forse, proprio per capire più radicalmente il significato del disincanto
e le sue «implicazioni», analizzare meglio ciò che si contiene nella
raccomandazione della fedeltà alla scelta compiuta dalla modernità.
Si vedrà subito che, se si tratta di raccomandare una fedeltà e non di
dimostrare una inevitabile conseguenza logica, solo la seconda alter-
nativa, quella egualitaria, può essere oggetto della raccomandazione.
Avrebbe senso, posto che la modernità avesse fatto l’altra scelta, quella
«egocratica», affermare che bisogna seguirla non per ragioni logiche
ma per «fedeltà»? Parlare di fedeltà piuttosto che di necessità logica è
un modo di praticare il disincanto; ma si può predicare l’autoritarismo
in nome del disincanto? Una visione della razionalità che prenda atto
della impossibilità di una «fondazione ultima», e che si proponga invece
come appello di una «vocazione» o di un «invio» storico, sembra non
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mette anche in luce – credo – che la pura e semplice rivendicazione
dell’uguaglianza, se è davvero disincantata, non ha argomenti razio-
nali da far valere contro la riduzione della realtà, almeno del mondo
umano, dell’etica e della politica, a puro gioco di forze. I vari modi
in cui, soprattutto da parte dei «deboli», si è cercato di esorcizzare
questa consapevolezza, sono stati spazzati via dal disincanto: le teorie
metafisiche sull’uomo, il mondo, Dio, il fondamento, l’essenza ecc., sono
tutte forme di mascheramento della insensatezza del reale. Una volta
venuto in chiaro questo, che cosa resta? Appunto l’uguaglianza come
perfetta reciprocità formale: ma nulla prescrive che tale reciprocità,
in cui ciascuno fa valere le proprie «ragioni», non debba prevedere
anche che ciascuno faccia valere i propri muscoli.
Il solo modo di evitare queste conseguenze paradossali, ma non
tanto, del disincanto – un tema che, sotto il nome di nichilismo, soprat-
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5
In questa direzione «formalistica» mi sembra si muovano sia K.O. Apel (si veda
Comunità e comunicazione cit.) sia J. Habermas, da ultimo nella Teoria dell’agire co-
municativo, trad. it. a cura di G.E. Rusconi, Bologna, il Mulino, 1986. Ho discusso
più ampiamente le posizioni di Apel e di Habermas nel quarto capitolo di Al di là
del soggetto cit.
114
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frammento di Lenzer Heide del giugno 1887 6. In quell’appunto, che
fa parte dei testi inediti dell’ultimo periodo del pensiero nietzscheano
destinati in origine alla mai scritta Volontà di potenza, Nietzsche de-
scrive il nichilismo proprio in termini di disincanto: l’uomo europeo,
mediante la razionalizzazione dell’esistenza sociale resa possibile da
morale, metafisica e religione – cioè dalla credenza in Dio, nell’ordine
obiettivo del mondo ecc. – è diventato capace di vedere il carattere
di finzione proprio della morale, della religione, della metafisica: Dio
è un’ipotesi troppo estrema che, nelle condizioni di sicurezza sia pur
relativa in cui oggi viviamo, non ci è più necessaria, e ciò proprio in
virtù delle modificazioni della vita sociale che l’«ipotesi» Dio ha reso
possibili; lo stesso vale per la morale fondata in pretese leggi di natu-
ra, e per la metafisica. Il disincanto è la presa d’atto che non ci sono
strutture, valori, leggi obiettive; che tutto è posto, creato dall’uomo
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(almeno nel dominio del senso). Con ciò, però, non si può più evitare
(come invece ha sempre fatto la metafisica nelle sue varie forme, con
le sue pretese di cogliere strutture obiettive) il riconoscimento che non
si dà se non il gioco delle forze. E tuttavia, in questa situazione nella
quale i deboli non possono che perire, alla fine non sono destinati ad
avere la meglio i più violenti, ma invece «i più moderati, quelli che non
hanno bisogno di principi di fede estremi,… quelli che sanno pensare,
riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore, senza
diventare perciò piccoli e deboli…». Se si leggono attentamente gli
appunti dell’ultimo Nietzsche, appare possibile spiegarsi questo salto
verso un ideale di moderazione, certo poco conforme all’immagine
corrente del suo pensiero. Si tratta7 di una specie di ritorno a Schopen-
hauer, che tanta importanza aveva avuto nella formazione del pensiero
giovanile di Nietzsche. Lo smascheramento della volontà di potenza
che si cela in ogni pretesa di cogliere un ordine obiettivo, e dunque
della insussistenza di un tale ordine – ciò che Löwith descrive come
presa d’atto che il senso non è dato, ma deve essere creato dall’uo-
mo – non dà luogo, in Nietzsche, alla pura e semplice esaltazione della
forza (come vogliono i suoi interpreti nazisti e fascisti), ma dà luogo
allo spostamento dello sguardo verso l’uomo «più moderato». In una
prima approssimazione, questo spostamento sembra giustificato dal
fatto che, come del resto testimonia tutta la tradizione occidentale,
il gioco delle forze ha sempre funzionato solo mascherandosi dietro
6
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-87, vol. VIII, tomo 1, delle Opere cit.,
pp. 199-206.
7
Su ciò, si veda la mia Introduzione a Nietzsche cit., pp. 94 e segg.
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legittimazioni metafisiche. Sembra che, una volta scoperta come
pura violenza, la violenza non ottenga più i suoi scopi; come, in una
situazione in cui tutti scopertamente mentono, la menzogna diventa
inutile e impossibile. Possiamo però chiederci perché lo svelamento e
l’estremizzazione della violenza – o: il disincanto – debba condurre a
un tale rovesciamento dialettico, non poi tanto diverso da quello che
Marx prevede come svolta rivoluzionaria «necessaria» una volta che
tutti, tranne uno o pochi, siano ridotti alla condizione di proletari. Nulla
sembra giustificare la necessità che una condizione «estrema» si rovesci
nel suo opposto. In Marx, certo, tutto dipende dalla intollerabilità
della condizione di sfruttamento e dal fatto che, al punto estremo, il
proletariato non ha più da perdere altro che le sue catene. Ma, forse,
il discredito della teoria marxiana della inevitabilità della rivoluzione
(legato certo anche alla constatazione che la proletarizzazione universale
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8
F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, ed. cit., vol. VI, tomo 2, p. 285.
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apparente»: se non c’è più un mondo vero che faccia da criterio, an-
che il mondo apparente non potrà più chiamarsi tale. Il disincanto,
insomma, non si può pensare come l’afferramento di una struttura vera
del reale; né, il che è importante, come il «trasferirsi» nel mondo delle
relazioni non mascherate, cioè dei puri rapporti di forza. Nietzsche
pensa piuttosto – anche se l’oscurità di questa soluzione costituisce
la vera difficoltà, forse non risolvibile, del suo pensiero tardo – a una
capacità di produrre simboli non «ideologici», cioè non inconsapevol-
mente funzionalizzati allo stabilimento o al mantenimento di rapporti
di dominio. Quel che è chiaro dai suoi testi, però, è che la possibilità
di una tale attività simbolizzatrice «libera» è direttamente legata al fatto
che l’uomo può trascendere l’interesse per la sopravvivenza, sottrarsi
ai limiti imposti dalla lotta per l’esistenza, alla cieca volontà di vivere
di cui aveva parlato Schopenhauer.
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dalla proprietà, dalla falsa coscienza dell’ideologia. Potremmo invece
pensare che il buon diritto del proletariato sia razionalmente sostenibile
proprio in base al fatto che, nell’essere espropriato, esso «si riduce»
all’essenziale – a quel «presque rien» di cui parla Adorno nel capitolo
conclusivo della Dialettica negativa come dell’ultimo possibile nome
dell’essere metafisico9; un essenziale che ha qualcosa della «quintes-
senza» evaporante, una sorta di minimalità.
Non tradire il disincanto significa anche prender atto che esso non
può arrestarsi alla pura e semplice instaurazione della reciprocità co-
municativa, dell’uguaglianza tra gli individui; cioè, al liberalismo. Le
remore che si provano nel riproporre alla sinistra la pura e semplice
ripresa dei valori «liberali», con tutto il rispetto per tali valori – i quali,
come in fondo pensa Habermas, avrebbero solo il difetto di non potersi
realizzare nelle strutture della società liberale borghese – nascondono
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9
Cfr. Th.W. Adorno, Dialettiva negativa [1966], trad. it. C. Donolo, Torino, Einaudi,
1970, p. 368.
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interne di un pensiero come quello di Foucault (l’archeologia del
sapere è solo smascheramento delle epistemai come effetti di giochi
di forze, e niente di più?); o fenomeni come l’attenzione che, sempre
da sinistra, si è rivolta al decisionismo di Cari Schmitt (la riduzione
della politica al rapporto «elementare» amico-nemico è sicuramente
una forma di disincanto; ma basta?) – tutto ciò sembra indicare che
la sinistra ha bisogno di una iniezione di nichilismo, o di etica. Non
sono elementi che provengano dall’esterno, introdotti arbitrariamente,
credo. Si può raccomandare la fedeltà ad essi nello stesso modo in
cui si raccomanda di esser fedeli alle scelte della modernità; anzi, con
una maggiore «cogenza» razionale; almeno nel senso che, se la scelta
della modernità è stata per l’accezione egualitaria del disincanto, come
giustamente sostiene Flores, questa scelta include, implicitamente ma
inequivocabilmente, un rifiuto della violenza e della sopraffazione; ma
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misura in cui l’ideale dello sviluppo si rivela sempre meno sostenibile
come unico orizzonte di una filosofia della storia. Proprio per esser
fedeli all’eredità moderna del disincanto, è probabile che dobbiamo
fare più consapevolmente i conti con questa dimensione.
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10. ETICA DELLA COMUNICAZIONE
O ETICA DELL’INTERPRETAZIONE?
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storici determinati non da ragioni teoretiche, ma da giochi di forze e
da decisioni di disciplinamento; e infine la concezione del corso della
scienza nel quadro di paradigmi anch’essi non anzitutto determinati
«teoreticamente», che è il nocciolo della teoria di Thomas Kuhn.
Esprimendo e interpretando, nel modo filosoficamente più conse-
guente e ricco, questi fermenti antiscientistici presenti in larga parte
del pensiero contemporaneo, l’ermeneutica si costituisce come filosofia
guidata fin dall’inizio da una vocazione etica, nel senso specifico che
si è detto, e contribuisce potentemente a quella che è stata chiamata
la «riabilitazione della filosofia pratica»; ma poi, i contenuti di questa
riabilitazione non sembrano soddisfare alle esigenze più propriamente
morali che pure l’etica implica, al suo bisogno di render giustizia anche
all’aspettativa di imperativi e norme. L’etica che l’ermeneutica rende
possibile sembra essere principalmente un’etica dei beni, per usare
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1
Cfr. Inquiries into Truth and Interpretation, Oxford, Clarendon Press, 1984,
pp. 199-200.
122
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variamente, soprattutto nei saggi di La ragione nell’età della scienza)
pensa il socratico «salto nei logoi» come passaggio dai linguaggi spe-
cialistici e dalle sfere di interesse particolari (che diventano eticamente
riprovevoli quando tendono a valere in modo isolato) al logos-coscienza
comune, questo lo può pensare solo in quanto l’orizzonte di riferimento,
il logos inteso come ragione in atto nella lingua, diventa sempre più
solo un’idea limite, l’ideale regolativo di una comunità di vita sempre
in via di farsi, e mai identificabile come una fattuale società storica, i
cui valori stabiliti dovrebbero essere accettati e assunti come canoni.
L’apparenza conservatrice e reazionaria dell’etica ispirata all’erme-
neutica si svela così solo un’apparenza. Tuttavia, e proprio per queste
stesse ragioni, il passaggio al logos-coscienza comune, come ideale
morale normativo, sembra ridursi a troppo poco. Proprio nella misura
in cui non è pensato come un patrimonio di valori definiti una volta
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per tutte, questo logos finisce per identificarsi con la pura e semplice
esigenza di universalizzazione che la filosofia fa valere formalmente,
ma verso i cui contenuti, significati, effettivi criteri di preferibilità,
sembra non volersi impegnare. Apparentemente ciò corrisponde alla
consapevolezza che i valori, in base ai quali di volta in volta si fa valere
nel dialogo sociale la preferibilità di una certa scelta, sono radicalmente
storici. Il che, ovviamente, è giusto. Ma la filosofia che si pensa in tal
modo come una specie di metateoria o di metaetica, si rappresenta a
se stessa come a propria volta non storica, collocandosi illusoriamente
in un punto di vista esterno (una «view from nowhere», secondo il
titolo di una recente opera di Thomas Nagel), un punto di vista che
non si dà, o almeno non si dà se vale l’ipotesi della radicale storicità
che caratterizza il logos e i valori che lo costituiscono.
Quel che qui propongo di chiamare «etica della comunicazione», in
contrasto con l’etica dell’interpretazione, rientra totalmente in questa
prospettiva ancora largamente dominata da un pregiudizio metafisico-
trascendentale, che assume la storicità in modo troppo poco radicale,
almeno dal punto di vista dell’ermeneutica. Nonostante le innegabili
differenze, esplicitatesi anche in discussioni e polemiche, che separano
l’ermeneutica nella sua configurazione canonica gadameriana dall’etica
della comunicazione di autori come Apel e Habermas, queste posizioni
non sono poi così lontane fra loro; o meglio, Apel e Habermas espli-
citano un atteggiamento trascendentale che in Gadamer è respinto,
ma tuttavia è presente come un rischio quasi inevitabile, almeno nella
misura in cui egli sembra rifiutarsi ad un radicale riconoscimento della
storicità dell’ermeneutica stessa. Intendo dire che l’etica di ispirazione
ermeneutica, almeno nella formulazione gadameriana, ha davanti a sé
solo due vie: o si irrigidisce, e determina in maniera molto netta la
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fisionomia del logos come insieme di valori condivisi da una comunità
storica effettiva (magari dispiegandosi come «metafisica semantica» alla
maniera di Davidson), e allora diventa fatalmente un’etica conservatrice,
che assume come criterio i valori accettati e l’ordine esistente; o invece,
come tende sostanzialmente a fare è consapevole del carattere di idea-
limite che appartiene al logos-lingua proprio nelle condizioni attuali, e
allora finisce però per presentarsi come una pura esigenza formale di
universalizzazione attraverso la comunicazione, non dissimile da quella
che risuona, nella luce di una esplicita ripresa del trascendentalismo
kantiano, in posizioni come quelle di Apel e di Habermas. Il limite
di queste posizioni, come si è accennato, consiste dal punto di vista
dell’ermeneutica nel proporre, implicitamente almeno, una restau-
razione metafisica: non solo o non tanto perché il soggetto di cui si
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124
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ha osservato Dieter Henrich2 si rispecchia in questo aspetto costitutivo
della teoria di Habermas la persuasione, tipicamente moderna, «che una
vita umana raggiunge la quiete e la perfezione solo quando nella sua
prassi ritrova il cammino verso quella comunità degli uomini che viene
prima di lei» (p. 504); mentre per esempio il giovane Hegel, e molte
teorie più recenti, pensano questo processo di ritrovamento di sé nella
comunità in termini più intimistici, come amore, Habermas lo pensa in
termini di esistenza politica e di discussione razionale. Ma, possiamo
aggiungere noi andando oltre le intenzioni di Henrich, anche questo
conferma, se ce ne fosse bisogno (il che Habermas certo non nega),
il profondo legame dell’etica della comunicazione con la metafisica
moderna, orientata al dispiegamento pieno della soggettività; questo
dispiegamento non cessa di esser pensato cartesianamente in termini
di autotrasparenza, anche quando si associa all’idea della comunità;
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2
Cfr. Was ist Metaphysik? – Was ist Moderne?, “Merkur”, 1986, pp. 495-508 (spec.
pp. 503-504).
3
Cfr. di Habermas, Ruckkehr zur Metaphysik. Eine Tendenz der deutschen Philoso-
phie?, “Merkur”, 1985, pp. 898-905.
125
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alle intenzioni autentiche dell’ermeneutica, che così si trova a dover
prender atto della propria distanza dall’etica della comunicazione.
L’ermeneutica «esautora» bensì il soggetto idealistico, ma non per
renderlo disponibile all’indagine scientifico-positiva. Per Habermas,
il fatto che l’io sia «assegnato» alle sue relazioni con gli altri significa
che esso è finito in quanto può così divenire l’oggetto delle scienze
umane; per l’ermeneutica, che l’io sia assegnato alla sua costituzione
intersoggettiva (o, con Heidegger, «gettato» in un mondo) significa
che tutto ciò che lo concerne non può essere oggetto di descrizione
strutturale, ma si dà solo come destino. Di questo destino possono
certo far parte anche le scienze umane, ma in tal caso si presentano
sotto una ben diversa luce. Si può concordare con il presupposto,
più o meno sottinteso, di Habermas, che sia l’affermarsi della scienza
anche sul terreno della conoscenza dell’uomo, ciò che caratterizza la
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secolarizzata; le è essenziale, molto più di quanto si riconosca in ge-
nere, la sua provenienza dal mondo della riforma protestante, delle
guerre di religione, del sogno classicistico di ricuperare la tradizione
della letteratura e dell’arte dell’antichità. In termini «habermasiani»,
potremmo tradurre: l’ermeneutica è la filosofia della società dell’o-
pinione pubblica, oggi della comunicazione di massa. In linguaggio
heideggeriano: essa è la filosofia dell’epoca delle immagini del mondo
e del loro inevitabile conflitto. Queste varie caratterizzazioni – che si
potrebbero ampliare; che anzi si devono ampliare – rispondono a una
domanda che proviene direttamente dal nocciolo originario dell’erme-
neutica. Se essa teorizza che l’esperienza della verità è appartenenza e
non rispecchiamento, infatti, dovrà anche dire a quale epoca, a quale
mondo, o provenienza, essa stessa, come teoria, appartiene. Non può
stare tranquilla ritenendo di aver finalmente presentato una descrizione
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solo nel fatto che l’ermeneutica si mostra come appartenente all’età
in cui viviamo, come sua teoria, solo in un certo senso «adeguata»4. È
nel mondo dell’opinione pubblica, dei mass media, del «politeismo»
weberiano, della organizzazione tecnica tendenzialmente totale dell’e-
sistenza, che può darsi una teoria della verità non come conformità
ma come interpretazione. La più esplicita articolazione di questo nesso
destinale, del fatto che essa stessa appartiene alla modernità (anche
definita nei termini di oblio dell’essere e di nichilismo), è un lavoro
che l’ermeneutica deve ancora compiere. Gadamer non ha ritenuto di
dare questo senso al suo discorso, e in ultima analisi ciò significa che
egli si è preclusa la considerazione dell’ermeneutica come destino, con
le conseguenze sul piano etico che abbiamo sopra indicato. Gadamer
sembra aver pensato piuttosto che si trattava di rivendicare la possibi-
lità di esperienze extrametodiche della verità, contro le pretese dello
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4
Su questi temi, si vedano i saggi raccolti in Filosofia ’86 cit.
5
Mi permetto di rimandare ancora, su questo tema, al mio saggio su «Metafisica,
violenza, secolarizzazione», in Filosofia ’86 cit.
128
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conflitto con le dichiarazioni esplicite di Heidegger, che solo in alcuni
momenti della sua opera ha lasciato intravvedere (come nel testo sul
lampeggiare del che è in Identität und Differenz) la possibilità che proprio
nei tratti nichilistici della modernità si annunci un nuovo pensiero non
più metafisico. Questa possibilità, che Heidegger intrav- vede soltanto,
diventa probabilmente esplicita e riconoscibile solo con la modifica-
zione profonda che il Ge-Stell, il mondo della tecnica, subisce con il
passaggio dalla tecnologia meccanica alla tecnologia informatica. Oggi,
come è noto, la differenza tra società sviluppate e società sottosviluppate
non si fa più tanto in termini di possesso di tecnologie meccaniche, di
macchine capaci di piegare, concentrare, superare le forze della natura,
spostando, scomponendo e ricomponendo. Non è più questione di
motori, ma di computer e di reti che li collegano, permettendo anche di
dirigere le macchine più «brute», quelle meccaniche. Non è nel mondo
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delle scelte nella provenienza, e non in una qualche struttura, fosse pure
la struttura ermeneutica, dell’esistenza. L’ermeneutica, come consapevo-
lezza che la verità non è rispecchiamento ma appartenenza, non nasce
come la correzione di un errore, la rettifica di una visione; proviene
dalla modernità come epoca della metafisica e del suo compimento nel
nichilismo del Ge-Stell. Riconoscendo il proprio destino nichilistico,
l’ermeneutica dà luogo a un’etica che ha alla sua base una ontologia
della riduzione e dell’alleggerimento; o, se si vuole, del dileguarsi. In
quest’etica convergono, e trovano una formulazione rigorosa, molteplici
elementi schopenhaueriani presenti nelle più avvertite morali del nostro
secolo: sia lo sperimentalismo dell’ultimo Nietzsche – per il quale il
superuomo è in fondo l’uomo «più moderato», o anche l’artista, che
ama l’esperimento anche al di là degli interessi dell’autoconservazione;
sia gli esiti della dialettica negativa di Adorno (il presque rien, la riso-
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variazione dell’argomento, teorizzando che l’uomo è «per natura» un
io intersoggettivo, comunicante (ma questa tesi egli la prova solo in
base al sapere delle scienze umane, che come scienze appartengono a
un orizzonte storico che andrebbe tematizzato criticamente in modo
più esplicito, come faceva l’originaria teoria critica). Nell’etica della
comunicazione, per quanto ciò possa apparire paradossale, non c’è
una sufficiente « fondazione» della moralità. Paradossalmente ancora,
è l’etica dell’interpretazione che fornisce alla morale motivazioni più
solide – se non, certo, fondamenti. Nella misura in cui l’ermeneutica
si riconosce come provenienza e destino, come pensiero dell’epoca
finale della metafisica e cioè del nichilismo, essa può trovare nella «ne-
gatività», nel dileguarsi come «destino dell’essere» – il quale si dà non
come presenza dell’arché ma solo come provenienza – quel principio
orientativo che le permette di realizzare la propria originaria vocazione
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ETICA COME ORIENTAMENTO
Emilio Carlo Corriero
1
Le cui basi teoriche, a ben vedere già presenti dagli inizi degli anni Settanta, erano
state esplicitate qualche anno prima nell’omonimo volume che raccoglieva contributi
di autori che riconoscevano, a diverso titolo, le ‘ragioni’ storiche di un’ontologica
‘debole’; cfr. Il pensiero debole [1983], a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti, Milano,
Feltrinelli, 2010.
2
Per Vattimo, tolta la pretesa metafisica dell’essere, per la quale sarebbe possibile
accedere a un qualche ontos on, per le sue categorie metafisiche nonché per i suoi
momenti ‘storici’ non rimane che la pietas che è dovuta alle tracce di ciò che ha vissuto:
«Pietas è un termine che evoca anzitutto la mortalità, la finitezza e la caducità […].
Il trascendentale, quello che rende possibile ogni esperienza del mondo, è la caducità:
l’essere non è ma ac-cade; forse anche nel senso che cade-presso, che accompagna in
quanto caducità ogni nostra rappresentazione», ivi, p. 23.
133
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impositiva e violenta – perché forte di una verità assoluta – e nella
conseguente apertura a un modello di razionalità inclusiva e accogliente.
Tuttavia, l’evidente pondus etico, già presente nelle stesse premesse
dell’ermeneutica di Vattimo e che avrebbe poi contraddistinto i suoi
sviluppi teorici degli anni a venire, non era stato ancora opportunamente
chiarito e correva il rischio di tradursi in un generico messaggio ecume-
nico e accogliente di apertura all’essere e alle sue molteplici espressioni.
Si può certamente affermare che proprio in Etica dell’interpretazione,
Vattimo si riproponesse, per la prima volta esplicitamente, di mettere
in luce la valenza etica dell’ermeneutica in generale e, in particolare, le
peculiari risorse della sua proposta rispetto a progetti analoghi ricon-
ducibili a quella grande e variegata ‘famiglia’ – che in quel contesto
storico si presentava come una nuova koiné filosofica –, ponendo le
basi teoriche per un discorso più ampio dedicato ai fondamenti della
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3
Supra, p. 124.
134
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una tradizione (una lingua, una cultura) a cui l’esistenza appartiene, e
che riformula inviando nuovi messaggi ad altri interlocutori»4.
La centralità di Etica dell’interpretazione all’interno del percorso
filosofico di Vattimo risiede dunque, da un alto, nell’esplicito tentativo
di fornire le basi per una più ampia riflessione sull’etica in un quadro
filosofico in cui, caduti i presupposti ultimi del sapere nonché la fiducia
in una ragione capace di risolvere l’essere nei suoi concetti, si era im-
posta una riflessione sulla ‘filosofia pratica’, sui suoi fondamenti e sulla
sua legittimità e, dall’altro, di mettere alla prova – consapevolmente o
meno poco importa – la tenuta, la coerenza e la fertilità del suo pensiero
dinanzi alla sfida rappresentata dal problema etico.
Nel caso di questo libro, che a ben vedere si inserisce in un dibattito
più ampio che riguarda le sorti dell’etica come disciplina filosofica – basti
pensare al dibattito sulla riabilitazione della filosofia pratica5 degli anni
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4
Supra, p. 126.
5
Cfr. Riedel, M. (a cura di), Rehabilitierung der praktischen Philosophie, 2 voll.,
Freiburg i.B., Rombach, 1972-74.
6
Pensatore che fu fondamentale nel percorso di Vattimo, il quale peraltro realizzò
la traduzione italiana del capolavoro Verità e metodo nel 1983. Per uno sguardo sulla
riflessione etica di Gadamer si veda A. Da Re, L’ermeneutica di Gadamer e la filosofia
pratica, Rimini, Maggioli, 1982
7
Nella lettera a Rudolf Ehrenberg del 18 novembre 1917; cfr. F. Rosenzweig, Il
nuovo pensiero, a cura di G. Bonola, Arsenale, Venezia, 1983.
135
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maldestramente per agevolare un’ulteriore forma di fondazionalismo,
risultando allo stesso Rosenzweig ancora “insufficiente” a chiarire ade-
guatamente il rapporto della rivelazione con la filosofia, il concetto di
‘orientamento’ mi pare adatto a descrivere adeguatamente quel passo
in là compiuto dal ‘pensiero debole’ di Vattimo rispetto alle filosofie
del fondamento: un passo in là che non consiste in un abbandono
all’irrazionalismo, ma intende anzi proporre una razionalità capace di
‘orientarsi’ nell’assenza del fondamento; un passo che segue Heidegger
nella tensione a superare ogni forma di ontoteologia8, proponendo un
pensiero capace di ‘orientarsi’ nella storia da cui proviene e verso cui
dirige. Orientare non è certamente fondare e al contempo, tuttavia,
non significa abdicare al compito che occorre sempre riservare alla
riflessione filosofica, in particolare quando questa, oltre che operare un
lavoro negativo di demistificazione, intende porsi sul piano positivo della
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8
Il superamento auspicato da Heidegger poggia sull’evidenza per la quale «ogni
filosofia è teologia nel senso originario ed essenziale che la comprensione concettuale
(λόγος, lógos) dell’ente nella sua totalità pone la questione del fondamento dell’Essere,
e questo fondamento viene chiamato θεός [theós], dio», in M. Heidegger, Schellings
Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit, a cura di H. Feick, Tübingen,
Niemeyer, 1971, p. 61.
9
Vattimo fa esplicito riferimento a un’etica della provenienza nell’omonimo saggio
contenuto nel suo Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto (Milano, Garzanti,
2003, pp. 49-58), in cui precisa che se si accetta che nella questione etica è implicito
il convincimento che in essa si possano individuare principi vincolanti, impegnativi,
si deve ammettere che «anche cor-rispondere all’epoca [in cui si vive] è una forma di
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e si stratifica e offre le risorse per rammemorare il passato e volgere
al futuro, accogliendo l’essere come libero evento, nel suo accadere e
nel suo manifestarsi, senza mai imporsi come legge o vincolo10: un tale
orientamento dipende in fondo dalla funzione attribuita da Vattimo alla
pietas (o alle pietates) che si determina storicamente in un determinato
contesto, in modo non dissimile dal senso comune di cui parla Kant
nella Critica del giudizio a proposito del giudizio estetico.
Come detto, la Orientierung evocata da Rosenstock per descrivere la
‘rivelazione’ presentava certamente un carattere fortemente ‘teologico’
per il quale la rivelazione storica assumeva i tratti del fondamento a
partire dal quale organizzare la riflessione filosofica, la quale perdeva così
quella autonomia a cui lo stesso Rosenzweig non intendeva rinunciare,
e dunque l’accostamento proposto può sembrare errato o fuorviante.
Nondimeno, se accogliamo l’idea di una ‘rivelazione’ scevra da residui
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impegno responsabile» e che anche in ciò «rimane una qualche specie di obbligatorietà,
che autorizza a parlare di una razionalità e di un’eticità, cioè l’impegno a derivare da
certi “principi” (qui solo nel senso di punti di partenza) conseguenze logiche e impe-
rativi pratici», ivi, pp. 50-51.
10
Ché ciò significherebbe incorrere nel noto is-ought problem: «L’etica metafisica
[…] cade fatalmente sotto la critica conosciuta come la “legge di Hume”, secondo cui
non è lecito, come fa la metafisica, passare senza esplicite ragioni dalla descrizione di
uno stato di fatto alla formulazione di un principio morale», ivi, p. 51.
11
«Verità come caritas ed essere come Ereignis, evento, sono due aspetti che si
richiamano in maniera stretta», G. Vattimo, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo
non religioso, Milano, Garzanti, 2002, p. 118.
12
G. Vattimo, Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?,
Milano, Garzanti, 1998, p. 63.
137
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Vattimo «alcuna vera ultimità», «né la perentorietà di un principio
metafisico», e dunque orienta ma senza poter/voler fondare alcunché.
Nel pensiero di Vattimo, la diagnosi epistemologica post-metafisica si
intreccia indistricabilmente al destino di secolarizzazione che percorre
il cristianesimo nel cui ‘amore’ evangelico risiede il senso profondo e
‘ultimo’ della rivelazione vetero e neo-testamentaria: da questa sintesi
storica e costantemente aperta al futuro non può derivare alcuna fon-
dazione, ma semmai per l’appunto un orientamento che assume quella
storia come destino di liberazione e accoglie l’essere nel suo accadere.
Se si accetta questa ipotesi interpretativa, occorre però immediatamente
comprendere che l’‘orientamento’ di cui si sta parlando, e su cui può
‘fondarsi’ (ermeneuticamente) un’etica, non può mai intendersi come la
premessa forte per un qualche ‘sistema dell’etica’, ma coincide semmai
con un sapere che è anche pratico, ossia con la ‘pratica’ ermeneutica
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13
Supra, p. 10.
14
Secondo la classica distinzione proposta da Max Weber nella famosa conferenza
del 1919 Politik als Beruf; cfr. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, ed. it.
a cura di M. Cacciari, Milano, Mondadori, 2018.
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dell’essere, certamente dal suo passato ma anche dal suo futuro e anzi
dalla salvaguardia di quel futuro come garanzia della continuità della
sua provenienza. Si potrebbe dire che nell’ottica di Vattimo è proprio
la mancanza di un quadro assiologico di riferimento a rendere possibile
l’azione etica nel farsi dell’essere, nel suo accadere entro una storia di
cui ha (o può avere) memoria; in questo senso, per Vattimo, l’etica
ermeneutica ha necessità di un’ontologia nichilistica che si esercita in
quella che Vattimo definisce come un’‘ontologia dell’attualità’, «per la
quale è decisivo il riferimento a una certa immagine della modernità, del
suo destino di secolarizzazione, della sua eventuale “fine”»15: non v’è
però in ciò – va ribadito – il tentativo di proporre una nuova visione del
mondo, né la volontà di suggerire un’etica che si fondi su una generica
interpretazione dell’essere come evento; v’è piuttosto l’idea che l’etica
dell’interpretazione si esplichi precisamente in questa attività continua
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15
Supra, p. 10.
16
G. Vattimo, Essere e dintorni, Milano, La nave di Teseo, 2018, pp. 9-10.
139
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rapporto con l’essere, l’apertura entro cui siamo e entro cui ci orien-
tiamo senza poter rinvenire una qualche struttura sistematica stabile.
Ciò non significa affatto che il programma filosofico di Vattimo non
offra una articolazione organica in cui ontologia, epistemologia, filosofia
pratica, estetica e filosofia della religione si compongano in una forma
coerente e per certi versi sistematica, significa semplicemente che se
è possibile riconoscere un tale ‘sistema’, esso non si fonda in nessun
caso su di un Grund-satz, un principio fondamentale, da cui derivare
le singole proposizioni (Sätze), sul modello di un sistema razionalisti-
co moderno che ha probabilmente il suo esemplare più significativo
nell’idealismo post-kantiano, ma piuttosto su di una complessiva
assunzione ontologica fondamentale (ma non fondativa) che ‘orienta’
il discorso filosofico nel suo complesso, riflessione etica inclusa, ov-
viamente. A testimonianza della coerenza sistematica del pensiero di
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17
«Mi sono detto spesso, e me lo ripeto continuamente, che questo “ricomporsi” dei
pezzi del mio puzzle filosofico-religioso è troppo bello per essere vero»: G. Vattimo,
Credere di credere cit., p. 33.
18
Poiché il libro più recente, Essere e dintorni, in fondo si presenta nella sua com-
posizione come un “breviario” che rimpiazza propria la forma del “trattato”.
140
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dell’etica non possa che essere affrontata sulla base di una chiara
concezione ontologica. Riprendendo un titolo di Hilary Putnam, non
si dà qui un’etica senza ontologia; tuttavia, la proposta di Vattimo
non incorre in una fallacia naturalistica, poiché il quadro ontologico
descritto dal pensiero debole offre semplicemente le coordinate per
un’etica che in prima istanza si ‘orienta’ proprio a partire da quelle
coordinate, ma nella sua prassi (che, come detto, è anzitutto ‘pratica
ermeneutica’) contribuisce a rideterminare le coordinate suddette e
dunque ‘orienta’ attivamente il quadro ontologico, modificandolo e
arricchendolo: in questo duplice significato abbiamo in Vattimo un’e-
tica come orientamento, ossia ci troviamo in presenza di un’azione
‘orientata’ entro un quadro ontologico, quale risultato transeunte di
un continuo (storico) processo ermeneutico, capace altresì di agire al
fine rideterminare sempre ancora il quadro di riferimento, ‘orientando’
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19
G. Vattimo, Nichilismo ed emancipazione cit., p. 51.
20
F. Nietzsche, La gaia scienza, af. 125.
141
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quella storia che giunge al suo esaurimento una provenienza e (forse)
una destinazione che coincide per Vattimo con un orizzonte di eman-
cipazione. In questo baratro aperto dalla ‘morte di Dio’ non si profila
mai per Vattimo l’accesso a una verità ulteriore sulla quale imbastire
le proprie reti concettuali, ma solo l’evidenza di una storia che giunge
alla sua fine, una lunga fine che lascia nel suo strascico le risorse per
orientarsi nell’essere e nel suo accadere. Di qui deriva la piena respon-
sabilità per l’essere umano di un posizionamento nella storia e nella
natura, un posizionamento che non è arbitrario proprio in quanto si
conforma a una storia (di indebolimento), a una provenienza che ri-
conosce e per la quale prova quel sentimento di pietas necessario a
riconoscere la caducità della propria finitezza. Parlo di ‘responsabilità’
a proposito di questo posizionamento nella storia e nella natura, poiché
l’etica come orientamento che l’accompagna ha sempre in vista gli
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effetti che l’azione produce, poiché si inserisce in una storia che acco-
glie e a cui intende dar seguito. Nel summenzionato saggio Ermeneu-
tica e secolarizzazione, Vattimo è piuttosto esplicito nel chiarire come
la direzione che quell’orientamento ha da prendere dipenda dalla ca-
ritas e dal destino di emancipazione che si implicano vicendevolmen-
te. Riprendendo in parte la filosofia della libertà del suo maestro Pa-
reyson, Vattimo mostra come il nichilismo della sua ermeneutica sia
di fatto riconducibile all’ontologia della libertà di ascendenza schellin-
ghiana e come, rispetto a qualsivoglia filosofia del fondamento neces-
sario, offra «una concezione dell’essere che, nel suo prendere congedo
dalla necessità metafisica, si mostra come avviato verso un’emancipa-
zione dalle strutture forti in cui la metafisica l’aveva imprigionato
(imprigionando con esso anche l’uomo)»21. Tuttavia, secondo Vattimo,
Pareyson avrebbe dovuto “far reagire” di più l’ontologia della libertà
dell’ultima fase del suo pensiero con la sua più antica filosofia dell’in-
terpretazione22, perché ciò avrebbe confermato come la sua visione di
una inesauribile eventualità della verità si lascia conciliare con i con-
cetti fondamentali della filosofia di Schelling – in particolare l’idea di
Ungrund (non-fondamento) come ‘assoluto considerato a sé’, prima di
qualsivoglia manifestazione dell’essere – solo a condizione di pensare
questi ultimi in un quadro di secolarizzazione e di indebolimento
dell’essere; se si rifiutano questi esiti, afferma risolutamente Vattimo,
«l’idea di essere, o di Dio, come non-fondamento, ma dono, libertà,
evento […] finisce per irrigidirsi nuovamente entro prospettive fon-
21
Supra, p. 56.
22
Qui Vattimo si riferisce in particolare alle tesi di Verità e interpretazione del 1971.
142
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dazionali-metafisiche»23. Dunque, leggere Schelling e la sua filosofia
della libertà all’interno della prospettiva debolista segnata da Nietzsche
e Heidegger, è quanto suggerisce di fare Vattimo che, però, proprio
mentre riprende il percorso del maestro24 per ripensarlo nella sua
prospettiva, di fatto rileva ed evidenzia involontariamente una carenza
interna al suo stesso pensiero. Se è vero, infatti, che l’ontologia della
libertà di Pareyson corre il rischio di istituire nuovi fondamenti meta-
fisici fuori da una prospettiva di indebolimento dell’essere, altrettanto
vero è il fatto che il pensiero debole, definito entro i confini segnati
da Nietzsche e Heidegger, è privo, in quegli autori, di un esplicito
contenuto ‘religioso’25, quantunque evidentemente in Nietzsche il
cristianesimo sia presente come oggetto di condanna e sfida. Il ruolo
decisivo che progressivamente assume nel pensiero di Vattimo la cari-
tas, quale significato ultimo della rivelazione giudaico-cristiana, rica-
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23
Supra, p. 57.
24
L’occasione è offerta dalla pubblicazione della nuova edizione di Esistenza e persona
di Pareyson (Genova, il melangolo, 1985); cfr. supra, p. 46.
25
È quanto lamenta lo stesso Pareyson a proposito di Heidegger. Auspicando che
l’heideggeriano essere come niente e la libertà schellinghiana come facoltà del bene e del
male si fecondino a vicenda, realizza che ciò in Heidegger non pare possibile proprio
per la sua impostazione anticristiana: «Solo il cristianesimo – scrive Pareyson – avrebbe
potuto suggerire a Heidegger la centralità della libertà come facoltà del bene e del
male», in L. Pareyson, Heidegger: la libertà e il nulla, “Annuario Filosofico”, 1989; ho
sviluppato il tema in E.C. Corriero, Libertà e conflitto. Da Heidegger a Schelling, per
un’ontologia dinamica [2012], Torino, Rosenberg & Sellier, nuova ed. 2020, pp. 143 e segg.
26
Cfr. E.C. Corriero, Vertigini della ragione. Schelling e Nietzsche [2008], nuova ed.,
Torino, Rosenberg & Sellier, 2018; cfr. anche Id., The Absolute and the Event. Schelling
after Heidegger, London - New York, Bloomsbury, 2020.
143
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rientamento che è alla base della sua etica dell’interpretazione. Pensa-
re all’essere come dono (di grazia) e libertà, come accade in Schelling,
può sicuramente lasciar pensare a nuove strutture ancora metafisiche,
ma l’introduzione dell’Ungrund, del non-fondamento, proprio in uno
scritto dedicato al tema della libertà27 consente di cogliere la portata
postmetafisica (e postheideggeriana) del pensiero schellinghiano. Qui
si compie un passaggio fondamentale nella storia che dalla Charis
conduce alla caritas28: l’originario e infondato dono dell’essere che
precede Dio stesso, si ripete nella volontà kenotica del cristianesimo,
nel dono che Dio fa del Figlio suo agli uomini. A guidare il doppio
dono è il medesimo amore, ma assistiamo a un suo progressivo abbas-
samento che si traduce nella storia e nelle relazioni fra gli uomini. Se
il non-dove da cui deriva il primo libero dono (ancestrale) dell’essere
impedisce una risposta adeguata e si traduce sempre in ipostasi meta-
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27
In cui peraltro proprio alla Liebe è assegnato il compito di ricucire la frattura
originaria dell’essere e di accompagnare ogni creazione dell’essere.
28
Ho ripercorso il passaggio in E.C. Corriero, Il Nietzsche italiano. La morte di Dio
e la filosofia italiana della seconda metà del Novecento, Torino, Nino Aragno Editore,
2016, pp. 308 e segg.
29
Supra, p. 90.
144
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autore a cui Vattimo aveva dedicato una monografia nel 1968 e costi-
tuisce assieme a Schelling (implicitamente) e poi a Gioacchino da
Fiore30 un’importante fonte per la meditazione sul ‘religioso’ e sulla
sua ricaduta etica. Già, perché l’orientamento di cui necessita il pen-
siero debole per la sua proposta etica non può arrestarsi al disincanto,
ossia al riconoscimento della mancanza di un senso oggettivo dell’esi-
stere e alla conseguente responsabilizzazione dei singoli nella creazio-
ne del senso, che vengono così riconosciuti nella loro pari dignità. Per
Vattimo, tale esito si tradurrebbe semplicemente nella conflittualità del
liberalismo poiché «ritrovando alla fine del disincanto i “pari diritti”
dei singoli, non si fa altro che canonizzare il mondo come volontà di
potenza»31, ossia un mondo in cui il singolo è mosso dalla volontà di
proporre e imporre la propria visione assumendo su di sé le medesime
istanze metafisiche che non ritrova fuori di sé. Ma ciò è impedito
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30
Si veda in particolare G. Vattimo, Dopo la cristianità cit., in particolare pp. 29-43.
31
Supra, p. 118.
32
Come paventato peraltro dalla tesi di Böckenförde, formulata nel 1964 nello
scritto La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, per la quale lo Stato
liberale si basa su presupposti, tra cui la piena libertà del singolo, che esso stesso non
è in grado garantire fino in fondo.
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