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gianni vattimo

con un saggio di Emilio Carlo Corriero

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Giulio Paolini, Mimesis, 1975

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Phýsıs
Collana di Filosofia
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Phýsis. Collana di Filosofia ISSN 2499-6408

Ispirata all’idea di una nuova Filosofia della natura, Phýsis si propone come
spazio editoriale per lavori che abbiano al centro della loro riflessione la
natura nei suoi molteplici aspetti e come luogo di integrazione e confronto
fra i diversi saperi e le diverse tradizioni filosofiche.

Diretta da
Emilio Carlo Corriero | Iain Hamilton Grant

Comitato scientifico internazionale


Remo Bodei | Massimo Cacciari | Michael Esfeld | Manfred Frank |
Sergio Givone | Jason Wirth

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gianni vattimo
con un saggio di Emilio Carlo Corriero

Etica
dell’interpretazione
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nuova edizione
a cura di Emilio Carlo Corriero

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© 2020 Rosenberg & Sellier

Pubblicazione resa disponibile


nei termini della licenza Creative Commons
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0

www.rosenbergesellier.it
è un marchio registrato utilizzato per concessione della società Traumann s.s.

prima edizione: 1989


nuova edizione italiana: ottobre 2020

isbn 978-88-7885-889-3

LEXIS Compagnia Editoriale in Torino srl


via Carlo Alberto 55
I-10123 Torino
rosenberg&sellier@lexis.srl

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INDICE

9 Prefazione
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parte prima
Significati dell’ermeneutica

15 1. Postmodernità e fine della storia


27 2. Secolarizzazione della filosofia
37 3. Ermeneutica nuova koiné
46 4. Ermeneutica e secolarizzazione
58 5. Utopia, controutopia, ironia

parte seconda
Ermeneutica ed etica

71 6. La crisi della soggettività da Nietzsche a Heidegger


87 7. L’ermeneutica e il modello della comunità
99 8. Dall’essere come futuro alla verità come monumento
110 9. Il disincanto e il dileguarsi
121 10. Etica della comunicazione o etica dell’interpretazione?

133 Etica come orientamento


Emilio Carlo Corriero

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PREFAZIONE

Gli scritti raccolti in questo volume (composti tra il 1984 e il 1988)


sono nati in occasioni diverse, ma sarebbe difficile non vedervi un filo
conduttore comune, che talvolta dà addirittura luogo a vere e proprie
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ripetizioni. L’idea di pubblicarli insieme, e con un titolo ambizioso che


allude all’etica e all’ermeneutica, non risponde solo alla (legittima) esi-
genza pratica di renderli disponibili in maniera meno sparsa e casuale;
ma anche alla speranza (se giustificata o no, lo decideranno i lettori)
che esplicitandone i nessi anche solo con l’atto di riunirli in un libro
si mostrino più chiaramente gli elementi del discorso generale di cui,
per ora, essi costituiscono solo una preparazione. Questi elementi mi
paiono approssimativamente definibili – per servire di guida alla lettura
del volume – nei termini seguenti.
L’ermeneutica sembra costituire la koiné della cultura di oggi. Ciò
implica rischi di equivoci, apre problemi, e obbliga l’ermeneutica a
precisarsi e a radicalizzarsi, in maniera da sfuggire a una interpreta-
zione troppo «comoda» e superficiale, che ne fa una pura apologia
della molteplicità irriducibile degli universi culturali; ma anche in
maniera da non lasciarsi riportare a una nuova metafisica – sia pure
fondata sul «trascendentale» della comunicazione (come è il caso delle
teorie di Apel e di Habermas). Una tale precisazione e radicalizzazione
dell’ermeneutica implica anzitutto il riconoscimento della continuità
sostanziale che, anche contro la lettera dei testi, sussiste tra i pensatori
che maggiormente hanno influito sulla definizione della teoria dell’in-
terpretazione, cioè Nietzsche e Heidegger. La continuità tra di loro è
il nichilismo – non inteso tanto o principalmente come filosofia della
dissoluzione dei valori, della impossibilità della verità, della rinuncia
e della rassegnazione; ma come vera e propria nuova ontologia, nuovo
pensiero dell’essere capace di porsi oltre la metafisica (intesa, questa,
nei termini di Heidegger: pensiero che identifica l’essere con l’ente,
e da ultimo con l’oggettività dell’oggetto calcolato e manipolato dalla
scienza-tecnica). L’ontologia nichilistica nietzscheano-heideggeriana

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va oltre la metafisica anche e soprattutto perché non ritiene più di
dover cercare strutture stabili, fondamenti eterni, e simili – perché
proprio questo significherebbe ancora aspettarsi che l’essere abbia
la struttura dell’oggetto, dell’ente (e forse, alla fine, della merce, per
dirla in termini marxiani). Essa pensa invece di dover cogliere l’essere
come evento, come il configurarsi della realtà peculiarmente legato
alla situazione dell’epoca. Questa è anche provenienza dalle epoche
che l’hanno preceduta. Pensare l’essere significa ascoltare i messaggi
che provengono da tali epoche, e quelli che provengono dagli altri,
anche contemporanei – le culture dei gruppi, i linguaggi specialistici,
le culture «altre» che l’Occidente incontra nella sua impresa di do-
minio e unificazione del pianeta, le sub-culture interne all’Occidente
stesso, che cominciano a prendere la parola. Questi messaggi toccano
l’essere, costituiscono il suo senso – il senso del termine essere, del
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termine realtà – come esso si dà a noi, nella nostra concreta esperienza


di oggi. In questi messaggi – che sono il tema della ontologia post-
metafisica – non si rivela alcuna essenza, alcuna struttura profonda
o legge necessaria; in essi si annunciano però dei valori storici, delle
configurazioni dell’esperienza, delle forme simboliche, che sono trac-
ce di vita, concrezioni d’essere, che vanno ascoltate con pietas, con
l’attenzione devota che meritano per l’appunto le tracce delle vite dei
nostri simili. Tale pietas non è certo comandata da qualche principio,
da qualche imperativo categorico metafisicamente fondato e necessario.
È però liberata, resa possibile, forse come l’unica via ragionevolmente
percorribile, proprio dal venir meno della metafisica – che in nome di
questa o quella struttura «essenziale» ha tanto spesso delegittimato la
pietà per ciò che è vicino, per l’individuale e l’effimero, l’amore del
«prossimo» in tutti i sensi della parola.
Se un’etica «ermeneutica» è possibile – come qui si cerca di mo-
strare in via del tutto provvisoria – essa ha bisogno di un’ontologia
nichilistica, nel senso che si è detto; la quale può argomentarsi solo
come interpretazione di eventi, lettura di «segni dei tempi», ascolto
di messaggi; o anche, come altrove ho proposto (rimando qui al mio
saggio contenuto in Filosofia ’87, Bari, Laterza, 1988), come una «on-
tologia dell’attualità», per la quale è decisivo il riferimento a una certa
immagine della modernità, del suo destino di secolarizzazione, della sua
eventuale «fine». Più che «fondarsi» su questa attività interpretativa
dell’accadere dell’essere, l’etica ermeneutica si esercita già anzitutto in
tale attività; è anche anzitutto, sebbene (forse) non esclusivamente, in
questo senso un’etica dell’interpretazione.

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I testi qui raccolti sono stati per lo più oggetto di conferenze, dibattiti,
seminari, comunicazioni a convegni. Dò qui di seguito l’elenco delle sedi
in cui sono stati pubblicati per la prima volta, avvertendo che in alcuni
casi sono anche comparsi già in traduzioni straniere, in riviste e volumi
miscellanei. In italiano, le pubblicazioni originarie sono state:
cap. 1: nel vol. Moderno, postmoderno, a cura di G. Mari, Milano, Fel-
trinelli, 1987.
cap. 2: in “il Mulino”, n. 300, luglio-agosto 1985.
cap. 3: in “aut aut”, nn. 217-218, gennaio-aprile 1987.
cap. 4: ivi, n. 213, maggio-giugno 1986.
cap. 5: in “Fondamenti” (Brescia, Paideia), n. 3, 1985.
cap. 6: nel vol. a cura di A. Bruno, La crisi del soggetto nel pensiero con-
temporaneo, Milano, Franco­Angeli, 1988.
cap. 7: nel vol. a cura di U. Curi, La comunicazione umana, Milano,
Franco­Angeli, 1985.
cap. 8: nel vol. Interpretazione e cambiamento, a cura di G. Galli, Torino,
Marietti, 1985.
cap. 9: in “Micromega”, 1986, n. 1.
cap. 10: in “aut aut”, n. 223, maggio-giugno 1988.

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parte prima
Significati dell’ermeneutica
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1. POSTMODERNITÀ E FINE DELLA STORIA

Una delle caratterizzazioni più generalmente accettate della postmo-


dernità, è, forse, quella che la vede come la fine della storia.
C’è, ovviamente, in questa caratterizzazione, anche un certo tono
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apocalittico, che viene accentuato specialmente nelle interpretazioni


di sinistra del postmoderno; e ciò accade sia che tali interpretazioni lo
rifiutino polemicamente – è il caso di Habermas – sia che abbraccino
la sua causa come nuova chance di una «emancipazione» che non ha
più nulla a che fare con i vecchi ideali umanistici, ma che, comunque,
rappresenta una alternativa positiva – è la posizione di Lyotard. Ma non
tutti coloro che parlano di postmoderno accettano questa connotazione
apocalittica; e anche il significato di «fine della storia» che si annette
all’espressione viene interpretato, o, per così dire, «declinato», in modo
diverso. Le due posizioni che, in modo diametrale, si contrappongono
generalmente su questo tema, e cioè quella di Lyotard1 e quella di Haber-
mas2, condividono, in realtà, la stessa descrizione della postmodernità,
e divergono soltanto nella valutazione del fenomeno: entrambe infatti
lo descrivono come il venir meno dei grandi «metarécits» che legitti-
mavano l’iniziativa storica dell’umanità sulla via dell’emancipazione, e
il ruolo di guida degli intellettuali in essa; questo per Habermas è una
sciagura, l’imporsi di una mentalità conservatrice, che ha rinunciato
al progetto dell’Illuminismo, identificato con il progetto della mo-
dernità; invece per Lyotard – che segue in ciò Nietzsche, Heidegger,
e più recentemente, Foucault – rappresenta un passo sulla via della
liberazione dal soggettivismo e umanismo moderni, cioè dall’ideologia
del capitalismo, dell’imperialismo ecc. In tutti e due questi casi, «fine

1
Cfr. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna [1979], trad. it. C. Formenti, Milano,
Feltrinelli, 1981.
2
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità [1985], trad. it. E. Agazzi,
Bari, Laterza, 1987.

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della storia» significa fine dello storicismo, cioè della concezione delle
vicende umane come inserite in un corso unitario dotato di un senso
che, nella misura in cui viene riconosciuto, si svela come un senso di
emancipazione. La storia, intesa in questo modo, finisce perché – dice
Lyotard – «chacun des grands récits d’émancipation à quelque genre
qu’il ait accordé l’hégémonie, a pour ainsi dire été invalidé dans son
principe au cours des cinquante dernières années…»3. Per Lyotard la
razionalità del reale è stata «confutata» da Auschwitz; la rivoluzione
proletaria come recupero della vera essenza umana è stata «confutata»
da Stalin; il carattere emancipativo della democrazia è stato «confutato»
dal maggio ’68; la validità dell’economia di mercato è stata «confutata»
dalle crisi ricorrenti del sistema capitalistico…4 I «grandi racconti»,
quelli che non si limitavano a legittimare in senso narrativo una serie
di fatti e comportamenti, ma che nella modernità e sotto la spinta di
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una filosofia scientista5 hanno cercato una legittimazione «assoluta» in


una struttura metafisica del corso storico, hanno perduto credibilità.
Questa perdita per Lyotard è irrimediabile, e indica il fallimento del
progetto moderno – un fallimento, che, si sottointende, non è poi un
gran male, perché, in realtà, questi «metaracconti» legittimanti sono
sempre stati delle violenze ideologiche.
L’obiezione di Habermas è che il fallimento dei progetti emancipativi
della modernità – che egli vede più unitariamente articolati intorno a
quello dell’Illuminismo – non li invalida nel loro fondamento teorico;
la «prova» di ciò, tuttavia, non è, in Habermas, teoricamente cogente:
si limita, in fondo, a segnalare che, senza un «metaracconto» forte, che
si sottragga alla dissoluzione e demistificazione dello storicismo, que-
sta dissoluzione e demistificazione perde senso, non si può nemmeno
pensare. La «critica dell’ideologia», insomma, non può sboccare in una
«critica della critica», come, in fondo, vuole Nietzsche.
Il problema, in fondo, è se anche la storia della «fine della storia»
possa o no valere come un racconto – o un «metaracconto» – legitti-
mante, indicante compiti, criteri di scelta e di valutazione, e dunque
ancora un qualche corso di azione dotato di senso. Per Habermas, la
dissoluzione dei «metarécits» ha senso solo se uno di essi si eccettua,
il che, in fondo, toglie alla dissoluzione dei «metaracconti» il senso
catastrofico di fine della storia; la storia non può finire se non finisce
l’umano (cioè l’ideale dell’emancipazione). Per Lyotard, la dissoluzione

3
J.F. Lyotard, “Critique”, 495, p. 563.
4
Ibid.
5
Cfr. R. Rorty, Habermas, Lyotard et la postmodernité, “Critique”, 442, p. 186.

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dei «metaracconti» è completa; ma il motivo per cui essa è considerata
tale, è «davvero» tale, si sottrae davvero alla forza altra volta attribuita
ai «metaracconti»? Che cosa significa affermare che i «metaracconti»
sono stati invalidati, se non proporre a propria volta un «metaraccon-
to»? Questo, però, nella misura in cui non si vuole tale, rifiuta ogni
funzione legittimante, e dunque, alla fine, ogni capacità di guidare
ancora scelte storiche. Anche nella variante proposta da Rorty, per il
quale la postmodernità, in fondo, non è altro che «l’oubli graduel d’une
certaine tradition philosophique»6 – nel senso che l’importanza stessa
della tradizione filosofica, della sua centralità ecc., risulta diminuita,
in una prospettiva che vede il destino della filosofia nel più vasto con-
testo delle pratiche sociali –7 può valere l’idea di postmodernità come
fine della storia: nel senso che l’idea di storia è una invenzione della
filosofia, e specialmente della metafisica, cristiana e poi moderna, e
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che la perdita di importanza della tradizione filosofica coincide con la


perdita di significato dell’appello alla storia – persino alla storia magistra
vitae –, alle sue leggi e alle sue indicazioni, nella comunità sociale. Che
Rorty sia da interpretare in tal senso, lo confermano, alla fine, i tratti
stessi del suo argomentare: in Philosophy and the Mirror of Nature, egli
concepisce, infatti, la storia della metafisica come una storia di eventi
«casuali», che dunque non può più essere invocata per giustificare
certe conclusioni; questo atteggiamento, tuttavia, fa sospettare che, in
Rorty, la metafisica sia pensata troppo come un abito smesso, come
un’opinione sbagliata di cui ci si libera… La ricostruzione della filosofia
moderna che egli dà pare avere solamente la funzione di prendere atto
di un errore, non quella di indicare vie da proseguire. Ma, allora, in
base a che si «riconosce» l’errore? Potrebbe darsi, attraverso l’appello
a un consenso comunitario – una sorta di linguaggio quotidiano legato
alle nostre forme di vita; in questi termini il riconoscimento resta,
però, problematico per vari motivi: anzitutto, in una certa misura, è,
anch’esso, l’appello a un «metarécit»; racconta una certa storia della
comunità attuale, una certa immagine del nostro mondo in cui la filo-
sofia perde centralità ecc., e implica che a questa immagine si debba
«corrispondere». Ma perché dovremmo? Viene fatto di rivolgere questa
domanda al pragmatismo di Rorty; se la risposta è che lo dobbiamo
se vogliamo partecipare al gioco, alla fine questa partecipazione noi
la vogliamo dunque non come dettata da ragioni immediatamente
biologiche (l’istinto di conservazione, il bisogno di sopravvivenza ecc.)

6
Cfr. R. Rorty, Cosmopolitisme sans émancipation, “Critique”, 495, p. 580.
7
Id., “Critique”, 442, pp. 194-197.

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ma per ragioni di «appartenenza» storico-culturale (non ci interessa
cioè la vita nuda, ma la vita come forma storico-determinata di vita), e,
con ciò, siamo ancora una volta rimandati al rapporto con il passato.
Pensare il postmoderno come fine della storia, alla fin fine, significa,
allora, rimettere al centro dell’attenzione il problema della storia come
radice di legittimazione, e non, invece, prendere atto che questo pro-
blema non si pone più. Il rapporto del postmoderno con il moderno, in
questo senso, è quello, descritto da Löwith, di Nietzsche colla visione
ebraico-cristiana del tempo. La modernità è l’epoca della legittimazione
metafisico-storicistica, la postmodernità è la messa in questione esplicita
di questo modo di legittimazione. Non è cioè, semplicemente, ciò che
viene dopo e si distingue, in positivo, dalla modernità, mediante un
altro principio; o, comunque, se c’è un altro principio, questo non è
eterogeneo alla legittimazione storicistica, ne è solo una «variazione»,
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perché non può costruirsi se non sulla base di un rapporto critico


nei confronti del principio precedente. Quando gli animali cantano
a Zarathustra la canzone dell’eterno ritorno: «Tutto va, tutto torna
indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere […] eternamente l’es-
sere si costruisce la medesima abitazione. […] Ricurvo è il sentiero
dell’eternità». Zarathustra replica: «O voi, maliziosi burloni e organetti
cantastorie! […] come sapete bene ciò che ha dovuto adempirsi in
sette giorni: – e come la bestiaccia mi è strisciata dentro le fauci per
strozzarmi! Ma io ne ho morso il capo e l’ho sputato lontano da me. E
voi, voi ne avete già ricavato una canzone da organetto?»8; Zarathustra
li rimprovera cioè di aver dimenticato che cosa ha dovuto patire per
giungere a concepire l’eterno ritorno. La postmodernità è sicuramente
un modo diverso per esperire la storia e la stessa temporalità – come
testimonia, del resto, la vitalità e la ricorrenza della memoria involon-
taria nella grande letteratura novecentesca – e, dunque, anche una
messa in crisi della legittimazione storicistica che suppone una pacifica
concezione lineare-unitaria del tempo storico. Questo modo diverso,
però, non si è semplicemente lasciato alle spalle lo storicismo e la
metafisica; ha piuttosto, con essi, un rapporto analogo a ciò che Hei-
degger indica con il termine di Verwindung: una ripresa-rassegnazione-
convalescenza-distorsione… Non si può, in altre parole, né dichiarare
«invalidata» ogni forma di legittimazione attraverso il riferimento alla
storia, come vorrebbe Lyotard – il quale, però, significativamente, non
può mantenersi fedele a questo assunto; né si può – per timore delle

8
Cfr. F. Nietzsche, Also Sprach Zarathustra, trad. it., nel volume VI, t. I delle Opere
di F. Nietzsche, Milano, Adelphi («Il convalescente»).

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conseguenze nichilistiche e reazionarie di queste posizioni – rimanere
all’interno del «metaracconto» della modernità, come fa Habermas,
dichiarando semplicemente che gli eventi «invalidanti» a cui allude
Lyotard, sono solo uno scacco provvisorio del progetto moderno, o
una accettazione troppo remissiva di questo scacco. Entrambe queste
posizioni estreme rifiutano di tematizzare seriamente la storia della fine
della storia, spacciandola, l’una – Lyotard – come un fatto che non è
oggetto di racconto ma a cui ci dobbiamo adeguare; e l’altra – Ha-
bermas – come un incidente teoricamente irrilevante, da spiegare in
termini di sociologia o psicologia della conoscenza, come «delusioni
della filosofia della soggettività»9.
La mia tesi è che queste difficoltà del concetto di postmoderno, che
ruotano tutte intorno al fatto che la fine della modernità è la fine della
storia come corso metafisicamente giustificato e legittimante – fine della
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metafisica nella sua forma moderna: cioè lo storicismo illuministico,


idealistico, positivistico, marxista – si possono avviare ad una soluzione
solo tematizzando esplicitamente i problemi che l’invalidazione della
legittimazione dei grandi «metaracconti» lascia aperti. Non, dunque,
rifiutando come incidenti o «sintomi» già spiegati dal «metaracconto»
kantiano-hegeliano-weberiano questi eventi invalidanti, né prendendoli
come vergangen, passati e conchiusi, come se ci lasciassero ormai in
un’altra sfera.
I concetti guida che qui ci servono non possono essere né quello
di fine dei «metaracconti» di Lyotard – troppo «catastrofico» nel pre-
sentarci la modernità come ormai tutta alle nostre spalle; né quello di
comunità illimitata di comunicazione – che riprende semplicemente il
progetto della soggettività emancipatoria moderna come se, dopo Kant
e Hegel e Weber, non fossero accadute che delle «malattie» della intel-
lighenzia borghese né quello di consenso nel significato pragmatistico
della parola – che, quando voglia uscire da un orizzonte puramente
biologico, non può non rifare i conti con il passato e la sua problema-
tica cogenza. Possono invece guidarci i concetti heideggeriani – ma già
radicati in Nietzsche – di An-denken e di Verwindung.
La via attraverso cui Heidegger giunge a questi concetti è esemplare
del rapporto del postmoderno colla modernità. Quando Heidegger
scrive, in Vorträge und Aufsätze10, che la metafisica non può essere
oggetto di un superamento, come se fosse un errore di cui ci libe-
riamo mediante la critica, egli non fa solo una constatazione di tipo

9
Cfr. “Critique”, 442, p. 118.
10
M. Heidegger, Saggi e discorsi [1954], trad. it. G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976.

19

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socio-psicologico, come riconoscere un limite; dichiara, invece, che
la modernità non può essere superata criticamente, giacché proprio la
categoria del superamento critico la costituisce; non si può uscire dalla
modernità – o dalla metafisica – attraverso la via del superamento – o
della critica –, perché questo significherebbe rimanere per l’appunto
nell’orizzonte moderno, della fondazione, dello storicismo. Inutile
ricordare che lo storicismo moderno, per Heidegger come già per
Nietzsche, è metafisica in atto, in quanto dispiega la forza del Grund
come capacità di fondare e rifondare («ri nascimento, «ri voluzione)
epoche, comportamenti, vicende umane. È proprio in considerazione
della problematicità di ogni Überwindung che Heidegger propone di
descrivere il rapporto del pensiero post-metafisico colla metafisica
come una Verwindung. Non si possono qui discutere tutti i significati
di questo termine, ma in esso risuonano, sia la nozione di guarigione,
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di convalescenza (immagine cara anche a Nietzsche), sia quella di


accettazione e rassegnazione, sia quella di distorcimento (Ver-…).
Postmoderno, possiamo tradurre, è ciò che ha con il moderno un
rapporto verwindend: che lo accetta e riprende, portandone in sé le
tracce, come di una malattia della quale continuiamo ad essere conva-
lescenti, e che lo prosegue, ma distorcendolo. In che cosa la metafisica
può essere accettata, conservata e ripresa con un distorcimento, è ciò
che Heidegger ci mostra nella sua elaborazione rammemorativa della
metafisica come storia dell’essere: metafisica è l’epocalità dell’essere,
delle epoche dominate da una archè11, da un Grund, che prende diverse
configurazioni; queste archai, nel pensiero post-metafisico, vengono
ripensate e riconosciute come «accadimenti» della storia dell’essere,
come epistemai foucaultiane, e non come «strutture» eterne dell’essere,
della ragione ecc. Ma assumere le archai come «eventi», non sarà un
modo di ripetere la «critica dell’ideologia» hegelomarxiana? Lo sa-
rebbe se alle archai come eventi si contrapponesse una vera struttura
dell’essere; ma è l’essere stesso che non si lascia più pensare sotto la
categoria – anch’essa solo una delle epocalità – della presenza tutta
dispiegata; dunque l’essere è evento, non è altro che il susseguirsi
degli «eventi» archeologici, e parlarne significa solo «rammemorare»
questi eventi, come la sua Überlieferung, il suo Geschick…; non, però,
come ricordando «errori», che si svelerebbero tali solo se avessimo
afferrato la vera struttura…; e, allora, come? L’Andenken è, appunto,

11
R. Schürmann, Le Principe d’Anarchie. Heidegger et la Question de l’Agir, Paris,
Seuil, 1982, ha proposto la tesi che la metafisica sia caratterizzata dal darsi di epoche,
ciascuna dominata da una archè; la fine della metafisica coincide dunque, in questo
senso, coll’anarchia.

20

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Verwindung: una ripresa che respinge le pretese di assolutezza delle
archai metafisiche, senza, però, potervi opporre un’altra assolutez-
za, ma solo una sorta di «festa della memoria» – l’espressione è di
Nietzsche12, ma rende bene l’atteggiamento andenkend di Heidegger.
Si tratta di un atteggiamento che possiamo anche chiamare di pietas,
non tanto nel significato latino dove aveva per oggetto i valori della
famiglia, ma nel senso moderno di pietà come attenzione devota per
ciò che, tuttavia, ha solo un valore limitato; e che merita attenzione
perché questo valore, pur limitato, è l’unico che conosciamo: pietas è
l’amore per il vivente e le sue tracce – quelle che egli lascia e quelle
che porta in quanto le riceve dal passato. Anche in Nietzsche, la fine
del processo di demistificazione non dà luogo al raggiungimento di
una posizione di certezza, delle vere strutture, ma ad un atteggiamento
pietoso, a ciò che altrove Nietzsche chiama la «filosofia del mattino».
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La cultura postmoderna, per esempio nelle poetiche letterarie,


artistiche, architettoniche, assegna alla rammemorazione, alla ripresa
contaminatoria del passato – che sembra non avere spazio né in Lyotard,
né in Rorty, una grande importanza; Habermas, naturalmente, può
benissimo includere questo atteggiamento nella propria descrizione di
postmoderno come conservatorismo e reazione. Ma, in realtà, questa
nuova importanza assegnata al rapporto con il passato non ha nulla
da fare con i presupposti dello storicismo metafisicamente ispirato;
non si tratta, cioè, di collocarsi nella propria autentica posizione nel
corso della storia, riconoscendo e mettendo a frutto analogie costi-
tutive, ma di rendersi finalmente accessibile il passato al di fuori di
ogni logica di derivazione lineare, piuttosto in un atteggiamento di
«stilizzazione», di ricerca degli exempla nel senso retorico del termine;
è questo il rapporto che l’umanesimo quattrocentesco istituiva con i
monumenti dell’umanità passata; e quello che Nietzsche descrive – di-
sapprovandolo, ma poi cambierà idea – nella seconda delle Conside-
razioni inattuali, come «aggirarsi nel giardino della storia come in un
guardaroba di costumi teatrali». È forse significativo che, se questa è
la posizione di Nietzsche nel 1874, in uno dei biglietti della pazzia,
scritto a Burckhardt da Torino all’inizio del gennaio 1889, egli scrive-
rà: «io sono in fondo tutti i nomi della storia»; benché il contesto di
tale affermazione sia già quello del crollo psichico da cui Nietzsche
non si risolleverà più, si può ben vedervi l’espressione coerente di
una posizione che Nietzsche viene assumendo nei confronti della

12
Cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, trad. it. S. Giametta, Milano, Adelphi,
1965, af. 223.

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storia a partire da Umano, troppo umano. Questo modo di rapporto
libero, rammemorativo-monumentale, con il passato, che è attestato
dalla cultura postmoderna, si può pensare proprio nei termini dello
Andenken e della Verwindung heideggeriani.
Ciò che, però, nelle arti e nel costume resta a livello di suggestione,
di atteggiamenti, nella filosofia acquista una più specifica determina-
tezza teoretica, anche se non il rigore della fondatività. Ciò significa
che, nell’intenzione di Heidegger a cui ci riferiamo, l’Andenken as-
sume, nel pensiero post-metafisico, la funzione che era propria della
fondazione metafisica. Rispetto a questa lezione heideggeriana, che
mi pare uscire inequivocabilmente dai suoi testi più tardi, la disputa
tra Lyotard e Habermas appare superficiale, dominata piuttosto da
esigenze e buone intenzioni, che da una impostazione rigorosa dei
problemi; alla quale Rorty giunge più vicino, anche se poi risolve le
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cose in maniera diversa, e, secondo me, meno soddisfacente.


Quello che si tratta di vedere e misurare nella sua portata è la
dissoluzione del pensiero fondativo, cioè della metafisica. È ancora
possibile, al di fuori della struttura della fondazione, un pensiero ca-
pace di «criticare» l’ordine esistente, dunque di soddisfare le esigenze
legittime che Habermas intende far valere? Per restare fedele a queste
esigenze, Habermas rimane nell’orizzonte della fondazione (la critica
dell’ideologia in nome di una specie di cogenza della comunicatività
del discorso); per non ricadere nell’orizzonte fondativo, Lyotard ri-
nuncia, in fondo, al progetto dell’emancipazione; e Rorty, dal canto
suo, propone una razionalità che cerchi il consenso non su basi tra-
scendentali, ma empiriche, pragmatiche (le quali, però, non possono
essere ulteriormente interrogate, a meno di ritrovare un metaracconto).
Heidegger risponde a questi problemi cercando di definire il pen-
siero non fondativo; pensare è rammemorare, riprendere-accettare-
distorcere. O, anche, esercitare nei confronti dell’eredità di pensiero del
passato la pietas come devozione-rispetto che si rivolge alla vita-morte,
al vivente come produttore di monumenti; in definitiva, all’essere come
Geschick, come invio, e come Überlieferung, trasmissione.
Vorrei mostrare, in conclusione, come l’esercizio del pensiero ram-
memorante, distorcente, pietoso, risponda ai problemi che le varie
posizioni sul postmoderno sembrano lasciare aperti. Anzitutto, soltanto
l’Andenken inteso come pietas può motivare la «corrispondenza»
alla situazione, o all’esperienza, che è implicitamente comandata sia
da Habermas, sia da Lyotard o Rorty. Ciascuno di loro avanza tesi
che si raccomandano come valide a preferenza delle altre in gioco,
in quanto, in definitiva, si pretendono più «conformi» alla situazione
che viviamo come postmoderna. Lyotard, si è visto, invoca il fatto che

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i «metaracconti» sono stati invalidati; Habermas invoca il darsi della
modernità nei termini in cui l’hanno esperita Kant, Hegel e Weber;
questo «metaracconto» non è stato invalidato, secondo lui, evidente-
mente perché corrisponde allo «stato di cose», e, per questo, dobbiamo
ancora assumerlo come come basilare per ogni discussione sul moder-
no e la sua eventuale fine. Rorty, a sua volta, sposta la «descrizione»
della situazione, che vede piuttosto determinata in conseguenza di
una diminuzione di centralità della filosofia nella pratica sociale, che
richiederebbe, dunque, anche differenti modi d’argomentazione. In
tutti i casi, la validità delle tesi proposte si motiva con una pretesa di
più completa adeguatezza a una situazione data; secondo il vecchio
imperativo filosofico di «salvare i fenomeni», rimanere fedeli all’e-
sperienza. Ma ciò che con la consumazione della metafisica è andato
in crisi sembra proprio la cogenza normativa di una situazione di
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fatto. Perché dovremmo attenerci a una descrizione vera di strutture


autentiche, quando, peraltro, neanche le scienze positive rivendicano
più questa prerogativa, e invocano piuttosto l’efficacia – che però, per
l’appunto, spesso non ha niente a che fare con le «vere» strutture delle
cose? Secondo Nietzsche, viviamo ormai in una condizione in cui, come
diceva Gorgia dello spettatore della tragedia, è più saggio lasciarsi in-
gannare che non voler essere ingannati; anche il valore del non essere
ingannati, del resto, il valore della verità, si è rivelato un «inganno», un
interesse pratico legato a determinate situazioni dell’esistenza umana
del passato. Ciò che voglio dire è che l’appello a «fatti», esperienze,
situazioni a cui si dovrebbe «corrispondere» – anche non solo o prin-
cipalmente nel senso «descrittivo» del termine – comporta sempre o
il presupposto metafisico che nella realtà così come si dà si nasconde
una normatività per il pensiero, oppure – quando questo presupposto
metafisico si respinga radicalmente, occorre un’altra «motivazione»
per l’appello alla «corrispondenza». La rimemorazione «pietosa»
di Heidegger – o la «festa della memoria» nietzscheana – sembra
l’unica motivazione possibile: come dire che non c’è un «metagioco»
che prescrive il rispetto delle regole dei giochi di linguaggio di cui
parla il secondo Wittgenstein; ma tali regole non vengono nemmeno
rispettate per pure esigenze di sopravvivenza, giacché il bisogno di
sopravvivenza non si presenta, a sua volta, come esterno ai giochi; è
tutto avviluppato anch’esso nelle regole dei giochi, è un gioco fra gli
altri, storicamente denso… Ciò che può comandare il rispetto delle
regole dei giochi – che Habermas e Apel vogliono, in fondo, giusti-
ficato dall’imperativo della comunità illimitata della comunicazione,
che o è una versione diversa del bisogno di sopravvivenza, o è una
tesi metafisica idealistica, strettamente hegeliana (lo spirito che deve

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raggiungere l’autotrasparenza) – può essere solo la pietas che proviamo,
e, in qualche modo, non possiamo non provare, per il vivente e le sue
tracce-monumenti, quando abbiamo fatto fino in fondo l’esperienza
della «eventualità», infondatezza, non-presenza dell’essere. Si deve
notare che è la dissoluzione della metafisica che ci libera per la pie-
tas; come nella pagina di Nietzsche che ho già citato: una volta che
scopriamo che tutti i sistemi di valori non sono altro che produzioni
umane troppo umane, che cosa ci resta da fare? Li liquidiamo come
menzogne ed errori? No, li teniamo ancora più cari, perché sono
tutto ciò di cui disponiamo al mondo, sono la sola densità, spessore,
ricchezza, della nostra esperienza, sono il solo «essere».
Naturalmente la pietas non si presenta colla cogenza di un «meta-
racconto», perché non invoca, per corroborarsi, strutture metafisiche;
anzi, proprio al contrario, si manifesta in conseguenza della presa
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d’atto della dissoluzione di ogni metafisica della presenza. Che «non


possiamo non provare» pietas una volta fatta l’esperienza della mor-
talità e della radicale finitezza ed epocalità dell’essere non significa,
dunque, una qualche necessità logica, giustificata con un rapporto
metafisico di fondazione. Si può, però, ammettere che colla struttura
metafisica è tolto ciò che impediva alla pietas di manifestarsi: questo
può dirsi anche nei termini di Nietzsche, che chiamava la metafisica
uno sforzo per impadronirsi colla forza «delle contrade più fertili»; o
con i termini della storia passata dell’umanità, dove la violenza si è, se
non sempre, certo molto spesso giustificata con fondazioni metafisiche
(religiose, ontologiche, di moralità naturale ecc.).
In tal modo, possono risultare giustificate sia le «ragioni» di Lyotard
sia quelle di Habermas, sia quelle di Rorty: pietas può essere richiesta
sia per la fine dei grandi racconti, sia per la descrizione kantiano-
hegeliana della modernità, sia per il metodo del consenso piuttosto
che per quello della forza, come vuole Rorty. Solo questo? L’Andenken
resta davvero così neutrale dinanzi a queste diverse tesi? Se così fosse,
la sua «risolutività» dei problemi del postmoderno sarebbe assai scarsa,
anzi nulla. Il fatto è che, se l’appello alla situazione e a corrispondervi
può essere solo motivato in termini di pietas e rammemorazione, è la
stessa situazione (a cui corrispondere) che risulta definita in maniera
più specifica, tale da non guardare neutralmente alle ragioni dei vari
interlocutori. La situazione in cui si può «fondare» solo mediante
l’Andenken è quella in cui, per esempio, Nietzsche e Heidegger non
sono solo fenomeni di malattie della soggettività; dunque, non si accetta
l’analisi di Habermas, proprio perché risulta affermata la centralità
dell’esperienza di dissoluzione della metafisica che Habermas tende
invece a sottovalutare come un sintomo di malattia… D’altra parte,

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se si può «fondare» solo mediante la rimemorazione, il rapporto con
il passato rimane determinante, più e in maniera più essenziale di
quanto non sia disposto ad ammettere Lyotard; e proprio nel rap-
porto con il passato, pensato come un «metaracconto» «indebolito»,
cogente non per motivi metafisici ma per motivi di pietas, si trovano
quelle indicazioni normative che Lyotard sembra incapace di reperire
nella sua concezione della postmodernità. Infine, il consenso a cui si
richiama Rorty in nome del pragmatismo, si motiva anch’esso non
in base a una qualche ragione di sopravvivenza, e nemmeno, però,
rimane accettato come un «fatto» che talvolta si verifica ma non è
ulteriormente indagato; il bisogno di consenso e i suoi contenuti e
motivi sono, ancora una volta, cercati nell’eredità della metafisica
ripensata fuori della pretesa di fondazione…
Non è vero, come vorrebbe Lyotard, che raccontare il «metarac-
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conto» della dissoluzione dei «metaracconti» è qualcosa che già è


stato fatto (con Esiodo e Platone);13 l’idea di una storia come deca-
denza non raccontava affatto la storia della fine della storia come ce
la raccontiamo noi oggi, pensava piuttosto a una struttura originaria
forte che, con la sua «presenza», svalutava tutto ciò che da essa si era
allontanato; era dunque, ancora, dentro l’orizzonte della metafisica.
Dire invece, come fa Heidegger, che l’essere si presenta finalmente
come ciò che può essere solo ricordato, dunque come Überlieferung
e come Geschick, vuol dire proporre una filosofia della storia che
non solo sfugge alla metafisica nel suo modo di legittimarsi, ma il cui
contenuto, soprattutto, è la stessa fine e dissoluzione della metafisica,
che indica anche vie e «norme». Prendere atto della fine dei «meta-
racconti» non significa, come nel nichilismo reattivo e vendicativo
descritto da Nietzsche, rimanere senza alcun criterio di scelta, senza
alcun filo conduttore. La fine dei «metaracconti», pensata nell’oriz-
zonte della storia della metafisica e della sua dissoluzione (dunque,
entro un paradossale «metaracconto»), è il darsi dell’essere nella forma
della dissoluzione, dell’indebolimento, della mortalità; ma non della
decadenza, perché non c’è alcuna struttura alta, fissa, ideale da cui la
storia sarebbe decaduta.
Le difficoltà del pensiero della postmodernità mostrano che non si
può lasciare semplicemente vuoto il posto prima occupato dai «me-
taracconti» e dalle filosofie della storia. Sarebbe come non elaborare
un lutto, lasciandolo gravare su di noi nella sua forma immediata, di
perdita a cui si reagisce solo in maniere catastrofiche; o come lasciarsi

13
Cfr. J.F. Lyotard, “Critique”, 495, p. 563.

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guidare da un pregiudizio non, ermeneuticamente, tematizzato. La
reazione di Habermas è appunto il rifiuto del lutto, il ritorno a un
«metaracconto» del passato, l’illusione che si possa far rivivere una
metafisica della storia. Si esce da queste impasses solo prendendo
a tema di una nuova, paradossale filosofia della storia la fine della
(filosofia della) storia.
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2. SECOLARIZZAZIONE DELLA FILOSOFIA

Ciò che propongo di chiamare la secolarizzazione della filosofia è


un fatto divenuto rilevante, e rivelatosi in tutta la sua portata, con il
diffondersi dell’ermeneutica nella cultura degli ultimi due decenni.
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In effetti, se si volesse indicare nel pensiero di oggi una tendenza che


possa considerarsi la koiné filosofica attuale, paragonabile a ciò che
sono stati il marxismo negli anni Cinquanta-Sessanta, e lo strutturali-
smo negli anni Settanta, si dovrebbe probabilmente riconoscere che,
sebbene forse con tratti e modi di diffusione diversi (giacché, per
esempio, non comporta anzitutto le implicazioni politiche che erano
proprie del marxismo), questo ruolo è oggi svolto dall’ermeneutica.
Il termine, come si sa, indica una tendenza filosofica che si è espressa
per la prima volta in maniera caratteristica in Wahrheit und Methode
di Hans Georg Gadamer (1960), elaborando e «urbanizzando» – come
ha detto Habermas – (cioè, forse, già secolarizzando) gli esiti dell’on-
tologia heideggeriana; e che si è venuta arricchendo, complicando,
e forse in certi sensi diluendo in confini sempre più ampi e vaghi,
negli anni recenti. Momenti significativi di questo processo di tra-
sformazione, attraverso cui l’ermeneutica di Gadamer ha subito essa
stessa un processo di secolarizzazione, diventando solo così capace
di presentarsi come la koiné filosofica della nostra cultura, sono stati
anzitutto l’elaborazione che Gadamer stesso ne ha dato in chiave di
«filosofia pratica» (penso per esempio ai saggi del volume Vernunft im
Zeitalter der Wissenschaft, 19761), e poi la ricezione e rielaborazione
(con molte contaminazioni neokantiane) che le tematiche ermeneuti-
che hanno trovato presso pensatori come lo Habermas della «teoria
dell’agire comunicativo» e lo Apel dell’«a priori della comunità illimi-
tata della comunicazione»2, o ancora, con apporti di origine diversa,

1
Cfr. La ragione nell’età della scienza, trad. it. A. Fabris, Genova, il melangolo, 1982.
2
Cfr. G. Vattimo, Al di là del soggetto, Milano, Feltrinelli, 19842, cap. iv.

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in filosofi come Ricoeur (nel quale si coniuga con la fenomenologia)
o Luigi Pareyson (in cui si incontrano con una ontologia della liber-
tà di ascendenza esistenzialistica). Una portata significativa per la
diffusione delia tematica ermeneutica ha avuto il suo incontro con
l’autoconsapevolezza metodologica della critica letteraria in Europa
e in America (Jauss e la sua scuola; il decostruzionismo americano) e
più in generale delle scienze sociali; mentre un passo decisivo verso
la messa in luce della sua vocazione alla secolarizzazione è venuta dai
lavori di Richard Rorty, che ha esplicitamente teorizzato l’esistenza di
un orientamento unitario tra gli esiti del pensiero di Heidegger, del
pragmatismo deweyano e del tardo Wittgenstein. È anzi proprio il
lavoro di Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature 3, l’opera a cui ci
si può richiamare per chiarire che cosa si intenda per secolarizzazione
della filosofia in connessione con il diffondersi dell’ermeneutica come
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koiné filosofica attuale.


Rorty sottopone a critica, nel suo libro, la concezione fondazio-
nalista che ha dominato la filosofia occidentale fin dal suo sorgere;
dapprima nella forma della ricerca dei primi principi, dell’ontos on,
dell’essere come stabilità di strutture fondanti e legittimanti il mon-
do dell’esperienza; poi nella forma, che caratterizza gran parte del
pensiero otto-novecentesco, della fondazione critica o epistemologica
del sapere delle scienze e della legittimità delle altre forme dell’e-
sperienza: in questa versione, la fondazionalità della filosofia non si
manifesta come conoscenza di un ‘campo’ del reale che sta alla base
degli altri, come le cause prime aristoteliche; ma nell’afferramento
riflessivo delle strutture di ogni conoscere valido. Anche se non
pretende di fondare metafisicamente, la filosofia, dal positivismo al
neokantismo alla fenomenologia alle varie forme di neopositivismo,
resta una pretesa di fondare ‘metodologicamente’ ogni altra forma di
sapere. Lo specchio della natura che sta nel titolo del libro di Rorty
è il soggetto conoscente, a cui la filosofia, nelle sue varie versioni
critico-epistemologiche, si rivolge con l’intento di renderlo sempre
più lucido, e capace così di rispecchiare senza limiti e imprecisioni il
reale, il mondo «là fuori». L’importanza del libro di Rorty, almeno dal
punto di vista dell’ermeneutica, consiste nel fatto di evidenziare che
la secolarizzazione della filosofia non viene, nel novecento, da quelle
tendenze che si sono presentate come più radicalmente critiche della

3
La filosofia e lo specchio della natura [1979], trad. it. R. Salizzoni e G. Milione,
Milano, Bompiani, 1986.

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metafisica, per esempio il neopositivismo4. Come, per altri aspetti, la
fenomenologia, anche e soprattutto il neopositivismo appare a Rorty
profondamente legato alla mentalità della fondazione, almeno nella
misura in cui teorizza il linguaggio delle scienze esatte come linguaggio
«vero», e presenta la filosofia sostanzialmente come epistemologia.
La presa di congedo dall’ideale della fondazione accade invece
radicalmente, secondo Rorty, nel pensiero di Heidegger, di Dewey, del
tardo Wittgenstein; più che in altri orientamenti, l’eredità di questi
pensatori vive proprio nell’ermeneutica. Esplicitando Rorty in una
direzione che egli non ha seguito, ma che corrisponde indubbiamente
alle sue intenzioni, si può dire che l’importanza di Heidegger in questo
processo di pensiero non consiste solo nell’aver enfatizzato il nesso
tra essere e linguaggio; ma soprattutto nell’aver pensato l’essere come
evento e non come struttura. Finché l’essere è riportato al linguaggio
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(secondo il Brief über den Humanismus, «il linguaggio è la casa dell’es-


sere»), può ancora accadere (come di fatto accade nella filosofia del
linguaggio di impronta neopositivistica) che l’ideale della fondazione
si mantenga, solo trasferito sul piano del linguaggio; qualcosa del
genere, del resto, lo si vede nelle interpretazioni neokantiane della
svolta linguistica della filosofia: Apel parla di una «semiotizzazione del
kantismo» come carattere della filosofia contemporanea; gli a priori
che rendono possibile l’esperienza e garantiscono l’oggettività del
conoscere e la razionalità dell’agire sono strutture del linguaggio; ma
conservano la portata universale, tendenzialmente non storico-finita,
degli a priori kantiani. Solo se il nesso essere-linguaggio viene esperito
in una prospettiva di radicale finitezza dell’esistenza, come appunto
avviene in Heidegger, si va oltre la mentalità della fondazione; non
solo, nell’ontologia heideggeriana, l’essere accade solo nel linguaggio;
ma, per l’appunto, accade: gli a priori linguistici sono di volta in volta
storicamente qualificati, non sono strutture ma messaggi; tra i vari
mondi linguistici non c’è il nesso che la metafisica aveva stabilito tra
individualità appartenenti a una stessa specie, essi non sono legati
dal fatto di realizzare, con differenze specifiche, uno stesso genere
universale; c’è piuttosto una «rassomiglianza di famiglia» (il termine
di Wittgenstein si può applicare, credo, anche alla concezione hei-
deggeriana della storicità dell’essenza), in cui l’unità è quella di una
trasmissione che non implica però il permanere di un identico, ma
la continuità della catena. E ciò che Heidegger esprime con il termi-

4
Pensiamo alla famosa Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der
Sprache, di R. Carnap, uscita in “Erkenntnis”, 1931, pp. 219-245.

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ne Ge-Schick: l’essere non è Grund, principio o arché, fondamento,
ma Ge-Schick, invio, tramandamento, messaggio; le lingue naturali che
rendono possibile l’esperienza del mondo sono lingue storico-naturali,
accadono di volta in volta come risposte ad altre, che a loro volta sono
già risposte e interpretazioni.
Solo in quanto si mantiene fedele all’eredità dell’ontologia hei-
deggeriana, che si può legittimamente qualificare come nichilistica,
l’ermeneutica coglie radicalmente le implicazioni della finitezza sto-
rica dell’essere-linguaggio, e cioè secolarizza davvero la filosofia. Il
precursore di Heidegger, su questa via, è stato Nietzsche. La portata
dell’annuncio nietzscheano «Dio è morto» non è solo nel suo conte-
nuto (è finita l’epoca delle strutture stabili, perché non ne abbiamo
più bisogno; dunque anche l’epoca del pensiero come fondazione);
ma anche e soprattutto nella sua forma di annuncio, che non descrive
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una struttura (la non-esistenza di Dio), ma racconta un evento. E forse


soprattutto sotto questo aspetto che Nietzsche rappresenta un’eredità
di pensiero che dobbiamo ancora assimilare in tutta la sua portata. Che
cosa significa, infatti, pensare, nel momento in cui il pensiero non è più
concepibile come fondazione, né nel senso metafisico classico né nel
senso ‘epistemologico’ moderno? La centralità che la questione «was
heisst Denken» riveste in tutta l’opera di Heidegger, per esempio, si
intende solo se la si colloca su questo sfondo.
Interrogarsi sul significato ‘secolarizzante’ che riveste l’attuale dif-
fondersi dell’ermeneutica come ultima (più recente) koiné filosofica
della nostra cultura significa domandare che cosa sia il pensiero che
non si pensa più come lavoro di fondazione. Chi parla della fine della
filosofia, in fondo, risponde già a questa domanda in un certo modo:
identifica la filosofia con il pensiero fondativo e prende atto che, di
tale pensiero, «non ne è più nulla» (come dell’essere nel processo del
nichilismo)5. Ma si può davvero abbandonare la metafisica, l’eredità
della filosofia del passato, e anche dunque l’ideale della fondazione,
come un’opinione a cui non si crede più6? Non dovremo, invece, nei
confronti degli ‘errori’ della morale, della metafisica, dell’arte del
passato, che hanno reso colorito e interessante il mondo, continuare
a celebrare «feste della memoria»7? La presa di congedo dalla meta-
fisica e dal platonismo può significare davvero solo un rovesciamento
della gerarchia platonica, che collochi il mondo dell’apparenza nella

5
Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen, Neske, 1961, vol. II, p. 338.
6
Cfr. Id., Saggi e discorsi cit., p. 46.
7
Cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo umano cit., af. 223.

30

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posizione del mondo ‘vero’? Se, come scrive Nietzsche nel Crepuscolo
degli idoli, il mondo vero (le idee platoniche, le essenze stabili) «alla
fine è diventato favola», con il mondo vero è sparito anche il mondo
apparente, che non ha più un termine con cui confrontarsi e da cui
essere ‘smentito’. Ciò che resta dopo la fabulizzazione del mondo vero
non è il mondo apparente come unico mondo – dunque, come mondo
vero a propria volta – ma la storia della fabulizzazione. Il pensiero
è «festa della memoria» o, come dice più esplicitamente Heidegger,
An-denken, rimemorazione. Una volta consumato l’ideale del pensie-
ro come fondazione, legato all’ideale dell’essere come fondamento e
struttura, non resta soltanto il sistema dell’apparenza, il mondo dei
dati accertati dalle scienze e messi a disposizione dalla tecnica; questo
mondo, isolato dalla storia della fabulizzazione, prenderebbe fatalmente
i caratteri di verità del «mondo vero» platonico. Fra i termini con cui
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Heidegger, più insistentemente, allude all’essenza non metafisica del


linguaggio, c’è la parola Sage; che non va intesa solo come linguaggio
originario, epopea delle origini; ma anche, credo, come favola nel
senso della fabulizzazione nietzscheana.
Dunque, se cerchiamo una essenza postmetafisica del pensiero, un
pensare che non si assegni più il compito della fondazione, dobbiamo
muoverci nell’orizzonte della Sage, della favola, della rimemorazione.
Sono questi i modi di rispondere all’essere come evento e invio, Er-
eignis e Ge-Schick.
Ricordo di un evento (che però è già ben diverso dalla «constata-
zione», registrazione, accertamento ecc. di un ‘fatto’) è già ciò su cui
il pensiero come An-denken ‘fonda’ la propria legittimità. Dire che
la secolarizzazione della filosofia è il senso del darsi dell’ermeneutica
come koiné filosofica significa forse sostenere che una tale secolariz-
zazione ‘deve’ essere presa sul serio, portata fino in fondo? Anche
questo, certo, sulla base di un racconto, in fondo, o di una favola. Non
c’è nessun Grund per affermare che la filosofia non deve più essere
pensiero della fondazione; c’è solo, da un lato, una certa ricostruzione
della vicenda della filosofia nel suo sviluppo, vista come dispiegarsi
e consumarsi dell’idea di fondamento: la ricostruzione che Nietzsche
riassume nel ricordato capitolo del Crepuscolo degli idoli sul mondo
vero che diventa favola; o la ricostruzione che Heidegger delinea nelle
numerose pagine sulla «Metafisica come storia dell’essere»; e dall’altro
lato, c’è una certa interpretazione (fabulizzazione) della corrispon-
denza tra questa consumazione teorica della nozione di fondamento
e la trasformazione delle condizioni di esistenza individuale e sociale
indotte nel nostro mondo dalla scienza e dalla tecnica, intesa nel suo
rapporto con la metafisica. Così, per Nietzsche, Dio muore perché le

31

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condizioni di esistenza si sono fatte meno estreme e più sicure, ma
questo è accaduto proprio in virtù di quella razionalizzazione della
vita sociale che anche l’ipotesi di Dio-fondamento ha reso possibile;
e per Heidegger, la fine della metafisica, dunque del pensiero della
fondazione, accade in virtù del suo realizzarsi fattuale nel mondo del
Ge-Stell, il mondo della tecnologia planetaria e dell’organizzazione
(tendenzialmente) totale, della realtà pianificata. Per legittimarsi nella
sua forma di An-denken, dunque, la filosofia secolarizzata racconta
una certa storia, composta di vicende ‘disciplinari’ (il corso della
filosofia, anch’esso, certo, ricostruito ed esperito secondo certe pre-
comprensioni, pregiudizi, ipotesi) e di vicende della storia ‘esterna’
(le condizioni dell’esistenza moderna, le trasformazioni legate al pas-
saggio, se è tale, da modernità a post-modernità). Questi due aspetti
del racconto si chiariscono e corroborano, senza pretese dimostrative,
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reciprocamente. La persuasività che una tale ‘fondazione’ rimemorativa


pretende di avere è una persuasività ‘ermeneutica’, misurata cioè in
termini di capacità di accogliere gli appelli che le vengono rivolti e
soprattutto di rispondervi con discorsi che suscitino ulteriori risposte.
Possiamo anche dire: la «tesi» del carattere non fondativo, ma ram-
memorativo, del pensiero, si offre come una interpretazione del senso
dell’esistenza nella sua presente collocazione tardo-moderna; la sua
persuasività chiede di esser misurata non in base a prove e fondamenti,
ma in base al fatto che, effettivamente, «dà senso»; e cioè: permette
di collegare in una unità articolata molteplici aspetti dell’esperienza,
e permette di parlarne con (gli) altri.
In tal modo, si delinea anche il compito che si attribuisce un pen-
siero secolarizzato, e si giustifica ancor di più il ricorso heideggeriano
al termine rimemorazione. L’Andenken non risolve e «appropria» la
realtà indicando e cogliendo il Grund, ma rende il mondo praticabile
ricostruendo una continuità. Si vede così che il rapporto del pensiero
non-fondativo con il pensiero della fondazione non è quello dello
«smettere un abito vecchio», non è un distacco netto, ma piuttosto,
anche in questo senso, una «secolarizzazione», una trasformazione
che mantiene, distorce e ricorda, solo come passato, ciò a cui si col-
lega prendendone congedo. La fondazione metafisica, nella classica
formulazione aristotelica, voleva prender possesso del reale nella sua
totalità cogliendo le cause e i principi a cui tutto risale; pensava dunque
a un momento di unità, all’afferramento dell’uno in una esperienza
puntuale (che poi è il modello della stessa ‘evidenza’ con cui si dà,
per la metafisica, il vero); il pensiero secolarizzato mantiene e distorce
l’esigenza di unità, cercandola come continuità (genealogica, ancora

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con Nietzsche) di rassomiglianze di famiglia, di concatenazioni storico-
destinali, di interpretazioni di messaggi.
È probabilmente vero ciò che diceva Nietzsche: questa comprensibi-
lità e praticabilità del mondo in termini di continuità rammemorativa
è propria di un’umanità che vive nell’epoca di una sia pur relativa
sicurezza, e che per questo non ha più bisogno delle soluzioni e
rassicurazioni estreme cercate dal pensiero fondativo. La condizione
dell’esistenza tardo-moderna, in termini nietzscheani – ma anche hei-
deggeriani, credo – non si aspetta più rassicurazione dalle archaì – che,
di fatto, ha imparato a considerare provvisorie, mistificanti, umane
troppo umane; non può tuttavia rinunciare a conferire senso al mondo
e all’esistenza, e per questo ha bisogno di una continuità che vinca,
o almeno nasconda retoricamente, attenui, la dispersione propria del
mondo del Ge-Stell, dove la rassicurazione in termini di agevolazione
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tecnologica delle condizioni di esistenza si paga con una sempre minore


possibilità di farsi una immagine unitaria del mondo. La continuità che
l’uomo tardomoderno domanda alla filosofia per dar senso alla propria
esistenza è la forma secolarizzata della ‘fondazione’ metafisica. È una
continuità che ha il compito di vincere due generi, principalmente, di
discontinuità e dispersione: quella tra presente e passato, e quella tra i
molteplici saperi sul mondo, che nella loro specializzazione crescente
si rifiutano a una sintesi. (Chi, per esempio, riesce a farsi un’immagine
del cosmo che tenga conto dei risultati dell’astrofisica più recente?
Si tratta solo dell’abitudine di generazioni a immaginare il cosmo in
termini copernicani e newtoniani, oppure di una impossibilità più
radicale? Dal punto di vista di Heidegger, si dovrebbe sostenere
questa seconda ipotesi: la scienza moderna, infatti, si caratterizza per
il suo legame con la tecnologia e la manipolazione; non è forse strano,
dunque, che non possa dar luogo a una ‘immagine’ del mondo, ma
solo a progetti macchinici di manipolazione di esso). Non occorre
insistere sul come e perché questi due generi di discontinuità siano
caratteristici dell’esistenza nel mondo della tecnica; la rottura con la
storia, che sembra meno direttamente collegabile alla specializzazione
dei saperi e delle tecniche, ha però la sua radice nella peculiare astrat-
tezza della scienza, nel suo riportare tutto sul piano del Grund, dunque
di una ideale sincronia, che mette fuori gioco ogni storicità che non
sia quella, solo impropriamente definibile come tale, del realizzarsi
effettivo di pianificazioni, che per definizione non prevedono novità
se non come disturbo e ostacolo.
In questa situazione, la filosofia secolarizzata, che non assegna fon-
damenti ma cerca solo di rammemorare, costruendo e ricostruendo la
continuità tra presente e passato (è la dimensione su cui ha insistito

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tanto la meditazione heideggeriana sulla storia della metafisica) e tra
i risultati dei saperi specialistici, cercando di riportarli a una immagi-
ne unitaria ‘praticabile’ del mondo (è l’aspetto su cui ha richiamato
l’attenzione Gadamer nei saggi degli ultimi dieci anni, soprattutto:
ermeneutica come filosofia pratica), si secolarizza anche nel senso che
perde sempre più i connotati di una ‘scienza’, sia pure sui generis, come
la metafisica e l’epistemologia, e si avvicina sempre più alla vaghezza,
impurità, provvisorietà del linguaggio quotidiano. Il rovesciamento della
metafisica sembra completo: passare al logos, saltare nei logoi come
voleva il Socrate platonico, non significa allontanarsi dal linguaggio
comune, ma anzi ritornarvi, dalle regioni di astrattezza ed esattezza
formale in cui risiedono i linguaggi specialistici; ma l’elemento di
ripresa, distorsione, secolarizzazione (che esclude un puro e semplice
rovesciamento), rimane, in quanto si tratta sempre di un passaggio,
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di una ‘conversione’; e deve rispondere all’esigenza che era espressa


dal bisogno metafisico della fondazione, solo che questa esigenza si è
a sua volta trasformata nell’esigenza di continuità.
Il logos a cui avevano guardato i filosofi greci, e che era diventato
calcolo e ratio nella scienza moderna (la logica divenuta matematica),
ricupera il suo senso di ‘discorso’, di lingua parlata da una comunità
storica; entro di esso, soltanto, (e si possono qui evocare le elaborazioni
heideggeriane dell’etimo di legein, legere, raccogliere), accadono tutti
i linguaggi formali dei saperi specialistici, e le pianificazioni della tec-
nica. La filosofia è la ‘disciplina’ – nella piccola misura in cui conserva
una sua fisionomia disciplinare – della ‘riduzione’ di questi molteplici
universi di discorso all’impura, vaga, continuità della lingua storico-
naturale. Viene qui ripresa, anche se secolarizzata e distorta, anche
la connotazione hegeliana della filosofia come civetta di Minerva:
la filosofia secolarizzata non sta alla base, prima, dei saperi speciali
(come loro fondamento o loro metodologia criticamente esplicitata),
ma dopo, alla conclusione; e non come sintesi ‘suprema’, che dispiega
e attua tutta la verità di quei saperi parziali nell’autocoscienza com-
piuta, bensì nella forma di una sorta di sintesi solo ‘superficiale’, che
ha i caratteri dell’edificazione; con tratti più ‘retorici’, dunque, che
‘logici’. Anche la verità, del resto, nella forma secolarizzata che sola
è pensabile per la filosofia non più metafisica, non ha più i caratteri
dell’evidenza colta in un atto puntuale, ma quelli della persuasività di
un sistema di rimandi, o addirittura di uno ‘sfondo’ reggente.
Questi sono solo alcuni dei tratti che si possono riconoscere alla
filosofia una volta che si sia preso atto – in quella forma di «risposta
ermeneutica» a cui alludevamo – della sua secolarizzazione; la fecondità
di questa categoria si potrebbe mostrare ancora con altri sviluppi. Su

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uno solo di questi vorrei ancora richiamare l’attenzione, giacché può
indicare la risposta a una domanda che a questo punto non può non
porsi. La domanda è questa: una filosofia così pensata come organo
della ricomposizione della continuità della lingua storico-naturale di
una comunità, non rischia di appiattirsi sulla pura e semplice apologia
e difesa dell’esistente? La continuità che essa cerca di mantenere e
ristabilire, riportandovi mediante la sua attività di interpretazione sin-
tetizzante e di edificazione, i discorsi settoriali, non sarà alla fine solo
quella della tradizione stabilita, del ‘canone’ consolidato, del (buon)
senso comune? Si deve insistere sul fatto che il pensiero secolarizzato
non è pensiero speculativo, ma rammemorazione; che non guarda, cioè,
all’essere come da un osservatorio esterno, ma lo ricorda stando dentro
al suo evento, rispondendo ai messaggi che riceve con interpretazioni
che si aprono a nuove risposte. Ma del pensiero rammemorante fa
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parte non solo la retroiezione verso il passato, bensì anche la proiezione


sul futuro, nella forma dell’aspettativa, della congettura, del giudizio
e della scelta. Se quel che ci parla e determina, be-stimmt o intona, il
nostro pensiero è l’evento, sia pure solo ‘narrato’ e non dimostrato,
della «morte di Dio», della fine del pensiero della fondazione, in tale
evento, ricordato e non descritto speculativamente, ci sono anche
indicazioni per scelte e orientamenti futuri. La secolarizzazione della
filosofia, potremmo dire, diventa qui filosofia della secolarizzazione;
ciò di cui ‘disponiamo’, come diceva Nietzsche in Umano, troppo
umano, è solo quello che abbiamo ricevuto dalla tras-missione storica:
forme, valori, linguaggi, ‘errori’ tramandatici dall’umanità del passato;
questo è l’unico ‘essere’ che ci è dato incontrare, in noi e nel mondo.
Se questa tras-missione giunge a noi connotata con i caratteri della
secolarizzazione, la risposta che le diamo non può non tenerne conto.
Ricordarla vuol dire anche assumerla come possibile guida delle nostre
aspettative e scelte, sempre rischiose perché non garantite deduttiva-
mente, ma non irragionevoli e arbitrarie. L’annuncio della morte di
Dio, con il significato che Nietzsche gli attribuisce (fine del pensiero
della fondazione, dell’autorità e del Grund; dunque anche fine di ogni
uomo della violenza, di quella violenza che si accompagna al ‘sacro’);
e o anche l’annuncio heideggeriano della fine della metafisica – tutto
questo non è solo il richiamo a un evento del passato, ma anche a
responsabilità da assumere per il futuro, e a scelte, giudizi, posizioni
critiche da prendere nei confronti dell’esistente. Queste responsabilità
e scelte, per quanto è dato vedere sulla base di una ‘rimemorazione’
di ciò che ci è tras-messo dalla filosofia del passato ma anche dalle
nuove condizioni di esistenza sociale della tarda-modernità, sembrano
doversi orientare nel senso della secolarizzazione come consumazione

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progressiva di tutti i caratteri forti, rassicuranti ma anche violenti,
dell’essere, con tutte le implicazioni etiche e anche politiche che questo
comporta. Per lasciare che la filosofia si dispieghi davvero nella sua
forma di rammemorazione, l’essere deve diventare, da presenza im-
ponente e obbligante dell’ente, memoria e sfondo; la secolarizzazione
non è solo un destino della filosofia, ma riguarda l’essere stesso che
«si dà» finalmente, nell’epoca della fine della metafisica, come ciò che
si ritrae e svanisce.
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3. ERMENEUTICA NUOVA KOINÉ

Che significa la tesi, che si può ragionevolmente proporre, secondo


cui l’ermeneutica è la koiné della filosofia o, più in generale, della cultura
degli anni Ottanta? In termini di fatto, significa che, come in decenni
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passati c’è stata una egemonia del marxismo (negli anni Cinquanta e
Sessanta) e dello strutturalismo (negli anni Settanta, procedendo per
grandi schemi), così oggi, se c’è un idioma comune della filosofia e
della cultura, esso va individuato nell’ermeneutica. Naturalmente, non
«si prova» né che nei decenni a cui ci siamo richiamati «ci fosse» una
egemonia marxista e strutturalista; né che oggi «ci sia» una egemonia
ermeneutica. L’affermazione sull’ermeneutica come koiné sostiene solo,
dal punto di vista della descrizione fattuale che, come in passato gran
parte delle discussioni filosofiche o di critica letteraria o di metodologia
delle scienze umane facevano i conti con marxismo e strutturalismo,
spesso anche senza accettarne le tesi, così oggi questa posizione cen-
trale sembra essere stata assunta dall’ermeneutica. Al momento della
pubblicazione di Verità e metodo di Gadamer (1960), l’ermeneutica
era un termine specialistico, indicava ancora, per la cultura comune,
una disciplina molto specifica legata all’interpretazione di testi letterari,
giuridici, teologici; oggi il termine ha assunto un significato filosofico
generale, indica (come spesso è accaduto per altre espressioni, pen-
siamo a «filosofia del linguaggio», che per alcuni anni ha indicato tout
court la filosofia analitica) sia una disciplina filosofica specifica, sia un
orientamento teorico, una «corrente»; all’ermeneutica, in entrambi
questi significati – e non senza una certa ambiguità, inevitabile peral-
tro – si riconosce di fatto una centralità che è attestata dalla presenza
del termine, delle tematiche ermeneutiche e dei testi che le espongono,
nel dibattito, nell’insegnamento, nei corsi universitari, e anche in quei
terreni – come la medicina, la sociologia, l’architettura, per nominarne
alcuni – che cercano nuovi collegamenti con la filosofia.
Tutto ciò, nella sua consapevole vaghezza, equivale solo alla con-
statazione, necessariamente generica, di una accresciuta popolarità

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dell’ermeneutica nella cultura di oggi. La constatazione si fa meno
generica se, oltre a riferire un’impressione, si cercano le possibili ragioni
di questa attualità dell’ermeneutica. La ricerca di tali ragioni costituisce
un primo modo di precisare il significato della tesi, ci si interroga cioè
su che cosa voglia dire, che bisogni, esigenze, trasformazioni esprima
il fatto – se è tale – della nuova popolarità di cui l’ermeneutica gode.
Questo primo passo – che cosa si esprime nell’attualità dell’ermeneu-
tica – prelude a un secondo: quello che si domanda verso dove punti,
in che direzione indichi, l’interesse per l’ermeneutica. Né la prima né
la seconda domanda, con le relative risposte, sono teoricamente irri-
levanti per i contenuti e gli sviluppi dell’ermeneutica stessa: il fatto di
esser divenuta idioma comune, se non egemone, pone probabilmente
all’ermeneutica compiti e esigenze nuove rispetto, per esempio, al
progetto gadameriano del 1960; rispetto a queste esigenze e compiti è
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probabile che l’ermeneutica debba ridefinirsi, riducendo l’indefinitezza


in cui, proprio in quanto koiné, si è venuta a trovare (esempio: nella
cultura americana degli ultimi anni, ermeneutica è venuta a indicare
più o meno tutta la filosofia europeo-continentale contemporanea, ciò
che una volta, nello stesso ambiente culturale, andava sotto il nome
di fenomenologia o di esistenzialismo: sono ermeneuti non solo Ga-
damer e Ricoeur, ma anche Derrida e Foucault, per esempio, e Apel
e Habermas…).
Dunque, se l’ermeneutica ha davvero assunto la posizione di una
koiné culturale in questi ultimi anni, in funzione di quali esigenze ciò si
è verificato? Una prima risposta a questa domanda potrebbe suonare:
l’ermeneutica è la forma in cui un’esigenza storicistica si fa nuova-
mente valere dopo l’egemonia strutturalista. Non è infatti verosimile
che la crisi e la dissoluzione dell’egemonia dello strutturalismo si sia
verificata come puro e semplice effetto di «consumo» di una moda;
cioè, per il fatto – innegabile, del resto – che a un certo momento il
metodo strutturale era stato ridotto a caricatura con l’imporsi in tutti i
campi delle scienze umane di schemi rigidi di catalogazione-descrizione
mediante griglie di opposizioni binarie, che tendevano a privilegiare
su ogni considerazione di contenuto la pura e semplice possibilità di
reperire principi di ordine: anche certe esagerazioni della microstoria,
di cui si diventa sempre più consapevoli, rispecchiano questo clima
culturale esasperatamente formalistico, in cui tutto appariva degno di
studio purché si lasciasse esibire come manifestazione di un qualche
principio strutturante. Se il vertiginoso proliferare di schemi descrittivi
più o meno fine a se stessi ha certamente contribuito alla dissoluzione
dell’egemonia strutturalista proprio attraverso la sua radicalizzazione
estrema, la crisi dello strutturalismo ha però ragioni più profonde, di

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cui la sua riduzione a caricatura è solo la manifestazione superficiale. Il
metodo strutturale portato alle conseguenze estreme riduceva i contenuti
all’inessenzialità perché collocava in una posizione di astratta neutralità,
mai tematizzata, il soggetto «utente» del metodo stesso. I contenuti a
cui il metodo si applica (il fumetto, il feuilleton; o la storia degli odo-
ri…) sono inessenziali nella misura in cui l’interesse dell’osservatore
si rappresenta come puramente cognitivo. Ma proprio sulla purezza e
cognitività di questo interesse era necessario interrogarsi. Del resto, a
ragione, gli strutturalisti avevano rivendicato anche il significato «poli-
tico» dello studiare gli uomini come formiche (secondo l’espressione di
Lévi-Strauss nella polemica con l’«umanista» Sartre), di contro a una
tradizione storicistica ed evoluzionistica che faceva dell’Occidente il
centro del mondo e si volgeva facilmente in giustificazione ideologica
dell’imperialismo. Lo strutturalismo è stato anche – e questo ne ha
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fatto, intorno al ’68, un’arma teorica della sinistra: un fatto altrimenti


incomprensibile – la teoria della decolonizzazione, lo sforzo di dare la
parole alle culture altre. Tutto ciò però si è realizzato – come vedia-
mo ora – a prezzo di una restaurazione «positivistica» della pretesa
posizione neutrale dell’osservatore (e l’ossimoro althusseriano della
«pratica teorica» aveva probabilmente, alla fine, questo significato). È
possibile – sempre in questi termini di larghissime generalizzazioni di
sociologia della cultura – che l’esaurimento della moda strutturalista
corrisponda anche a una nuova fase dei rapporti tra cultura occidentale
e culture «altre»: oggi che, bene o male, queste culture hanno preso la
parola (prima tra tutte la cultura islamica, con la sua forza di pressione
anche politica sull’Occidente), non si può più sfuggire al problema
del rapporto tra l’«osservatore» e gli «osservati». Il dialogo con le
culture altre è ormai un vero dialogo, non è più questione di renderlo
possibile liquidando i punti di vista eurocentrici che lo strutturalismo
voleva giustamente sconfiggere; si tratta di esercitarlo davvero, al di
là, dunque, di posizioni puramente descrittive.
Anche senza giovarci di queste osservazioni molto approssimative, si
possono richiamare, tra i segni del passaggio dalla koiné strutturalista alla
koiné ermeneutica, certe vicende esemplari: quella del lavoro semiotico
di Umberto Eco, ad esempio, che negli anni recenti ha manifestato un
interesse crescente per gli aspetti pragmatici dalla semiotica, spostan-
do parallelamente il centro dell’attenzione da Saussure e Peirce, con
tutto ciò che questo comporta. Nello stesso senso si muove l’itinerario
di un pensatore che, se non si è mai presentato come strutturalista,
ha tuttavia influito in modo determinante nella definizione di quelle
tematiche e nel loro imporsi a livello di cultura comune, cioè Jacques

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Derrida. Come ha segnalato Maurizio Ferraris1, i lavori più recenti di
Derrida sono caratterizzati dall’interesse sempre più marcato per la
collocazione istituzionale del filosofo, e in generale per il «conflitto
delle facoltà» – insomma per gli aspetti pragmatici e storico-concreti
della metafisica e della sua decostruzione. Fatti come questi sembrano
indicare che la crisi della koiné strutturalista è motivata da esigenze in
largo senso storicistiche. Sono queste esigenze che spiegano il «passag-
gio» all’ermeneutica, il suo presentarsi come il candidato più verosimile
a valere come koiné culturale degli anni Ottanta.
Ma: come l’ermeneutica recepisce, più dello strutturalismo, l’esigenza
di riconferire essenzialità ai contenuti e di tematizzare la posizione
storica dell’osservatore? Si passa qui alla seconda delle domande in
cui ci è sembrato di poter articolare la questione sul significato dell’at-
tualità dell’ermeneutica. Intendo qui discutere non solo se e fino a che
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punto, in generale, l’ermeneutica faccia valere proprio queste esigenze


di essenzialità e di collocazione storica; ma anche mostrare che, per
recepire davvero tali esigenze, che si sono esplicitate nel momento in
cui è venuta presentandosi come koiné, l’ermeneutica deve ridefinirsi
in maniera più coerente e rigorosa, ritrovando la propria ispirazione
originaria (cioè la meditazione heideggeriana sulla metafisica e il suo
destino).
In generale, che il pensiero si volga all’ermeneutica per ritrovare
la storicità e l’essenzialità dei contenuti che lo strutturalismo aveva
dimenticato, è legittimato dal peso determinante che la teoria dell’in-
terpretazione, nella sua classica formulazione in Gadamer, conferisce
alla Wirkungsgeschichte e al wirkungsgeschichtliches Bewusstsein; l’in-
terpretazione non è descrizione da parte di un osservatore «neutrale»,
ma è un evento dialogico in cui gli interlocutori sono ugualmente posti
in gioco e dal quale escono modificati; si comprendono nella misura
in cui sono compresi entro un orizzonte terzo, di cui non dispongono,
ma nel quale e dal quale sono disposti. Mentre il pensiero strutturale
aveva come suo telos la messa in luce, e la presa di possesso da parte
della coscienza osservante, di ordini articolati secondo regole, il pen-
siero ermeneutico mette l’accento sulla appartenenza di osservante e
osservato a un orizzonte comune, e sulla verità come evento che, nel
dialogo tra i due interlocutori, «mette in opera» e modifica, insieme,
questo orizzonte. Nel gioco, che in Verità e metodo di Gadamer è il

1
Cfr. M. Ferraris, Derrida 1975-1985. Sviluppi teoretici e fortuna filosofica, “Nuova
Corrente”, 3, 1984, pp. 351-378. Di Ferraris si veda ora la Storia dell’ermeneutica,
Milano, Bompiani, 1988.

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modello dell’accadere della verità ermeneutica, i giocatori sono sem-
pre anche giocati; e la coscienza, in quanto storicamente determinata,
non può mai raggiungere la perfetta autotrasparenza. Formulandosi
in questi termini, l’ermeneutica riprende e sviluppa l’eredità della
critica esistenzialistica al razionalismo metafisico hegeliano, ma anche
allo scientismo positivistico che, almeno in alcuni elementi essenziali,
echeggia ancora nello strutturalismo. Il disagio storico-concreto (se
valgono le ipotesi accennate sopra, anche «politico») per un pensiero
che non rende conto della effettiva collocazione storica dell’osservatore
non ha un significato diverso dalla critica esistenzialistica all’idealismo
e al positivismo. L’esperienza vissuta – e fenomenologicamente con-
statata – del pensiero si rifiuta a schemi filosofici che suppongano il
soggetto osservatore come punto di vista neutrale o – che è, alla fine,
lo stesso – come opacità che si chiarisce fino alla assoluta autotraspa-
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renza dello spirito hegeliano. L’ermeneutica, di contro alla pretesa (sia


pure implicitamente) neutralità positivistica e strutturalistica, rivendica
l’appartenenza del «soggetto» al gioco della comprensione e all’evento
della verità, ma invece di inquadrare questo evento, come accadeva
in Hegel, entro un processo diretto dal telos dell’autotrasparenza,
considera l’appartenenza, il giocare essendo giocati, come una fase
definitiva, non superabile in un momento finale di appropriazione e
di consumo dei presupposti da parte del soggetto.
In che senso, però, la «fusione di orizzonti», l’intendersi dei due
interlocutori nello «spirito oggettivo», rappresenta per Gadamer un
accadimento di verità? In un saggio molto importante per capire il
significato che Gadamer attribuisce al proprio pensiero nella situazione
filosofica attuale (quello sui Fondamenti filosofici del ventesimo secolo2),
egli afferma che la filosofia deve oggi lasciarsi orientare dalla nozione
hegeliana di spirito oggettivo. La mediazione totale a cui Hegel pensava
come al compito e telos supremo del pensiero non accade nell’auto-
coscienza dello spirito assoluto – una autocoscienza «monologica»,
sempre pensata ancora come la coscienza di un io cartesiano – ma
nello spirito oggettivo: cioè la cultura, le istituzioni, le «forme simbo-
liche» che costituiscono la sostanzialità della nostra vissuta umanità. Si
potrebbe qui riprendere una lettura lacaniana della formula di Freud:
non «wo Es war soll ich werden»; ma «wo Es war soll ich werden». La
verità si esperisce solo andando dove c’è la sostanzialità dello spirito
oggettivo, non dissolvendo questa sostanzialità in una autocoscienza

2
È una conferenza parigina del 1962; se ne veda la traduzione nel volume Filosofia
’86, a cura di G. Vattimo, Bari, Laterza, 1987.

41

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tutta spiegata. Gli sviluppi etico-politici che Gadamer ha dato negli
ultimi anni alle premesse di Verità e metodo, per esempio nei saggi
de La ragione nell’età della scienza 3, mostrano il significato che egli
attribuisce a questa scelta per un hegelismo dello spirito oggettivo:
il compito del pensiero consiste nel riportare tutto – per esempio, e
anzitutto, gli esiti degli approcci specialistici alla realtà, come quelli
dei linguaggi formalizzati della scienza e le loro applicazioni tecnologi-
che – al logos vivente nella tradizione della lingua, a quello che l’ultimo
Habermas chiama il «mondo della vita» (con un termine husserliano,
nella lettera, ma forse più ermeneutico nella sostanza). Ma perché,
si potrebbe domandare ancora, l’esperienza ermeneutica della verità
deve configurarsi come un «andare nello spirito oggettivo»? Si tratta
forse solo di quella abdicazione allo strapotere dell’oggetto che Adorno
rimprovera a Heidegger nel capitolo sul «Bisogno ontologico» della
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Dialettica negativa? Gadamer però non è tanto un «tradizionalista»


(per il quale la verità sarebbe ciò che si ‘adatta’ al tramandato, al senso
comune, al patrimonio culturale effettivamente ereditato di una socie-
tà) quanto piuttosto un ‘classicista’: l’esperienza della verità è per lui
un’esperienza di ‘integrazione’, di appartenenza non conflittuale. Sono
illuminanti a questo proposito le pagine sul bello (il kalón dei Greci)
sia in Verità e metodo, sia, successivamente, nel già citato La ragione
nell’età della scienza. Chiamare una tale prospettiva «classicistica» è
legittimo, nella misura in cui essa riprende il sogno sette-ottocentesco
di una esperienza greca come corrispondenza senza residui tra interno
ed esterno, tra uomo e cittadino – la stessa che si risente nella nozione
di «bella eticità» di Hegel e nella sua concezione dell’arte classica.
Ma questa concezione della verità come appartenenza, classicistica-
mente improntata, corrisponde davvero a quelle esigenze di storicità
che l’ermeneutica, divenuta koiné (una koiné post-storicistica e post-
strutturalistica) sembra chiamata a soddisfare? Non c’è forse il rischio
che l’esperienza del vero come kalón, appartenenza non conflittuale degli
interlocutori tra loro e all’orizzonte della lingua, dello spirito oggettivo,
della tradizione vivente, che li media, sia solo un altro modo di presen-
tarsi dell’ideale di un soggetto trasparente, astorico, neutralizzato? È un
dubbio legittimo, se si pensa a una certa impressione di inconcludenza
che, non tanto nell’opera di Gadamer quanto nella immagine corrente,
l’ermeneutica sembra suscitare. Per il Gadamer di Verità e metodo,
si trattava di rivendicare la legittimità di una esperienza «extrameto-
dica» della verità: la verità dell’arte, della storia, della tradizione che

3
La ragione nell’età della scienza cit.

42

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vive nella lingua; e la costitutiva linguisticità dell’esperienza. Questi
obiettivi, Gadamer li ha raggiunti; ma anche in conseguenza di ciò è
venuto in chiaro, nell’imporsi dell’ermeneutica come koiné, che essa
non può fermarsi qui. Non si tratta né solo di rivendicare un modello
«classicistico» di verità contro l’oggettivismo del metodo scientifico
eretto a unico criterio del vero; né solo di riconoscere che si dà una
verità extrametodica accanto alla verità scientifica. In definitiva, non
si tratta di sostituire una ‘descrizione’ ermeneutica dell’esperienza a
una ‘realistica’ o oggettivistica. Forse, è vero che una filosofia non può
diventarare una koiné se non esplicitandosi anche come programma di
emancipazione. Da questo punto di vista, sebbene inaccettabili nei loro
esiti (legati a una ripresa del kantismo, e dunque ancora a un’idea di
soggettività «astorica»)4, le obiezioni di Habermas e Gadamer colpiva-
no nel segno. È vero che la richiesta di una prospettiva emancipativa
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può apparire teoreticamente estranea all’ermeneutica; ma non lo è più


tanto se si riflette che, comunque, per essere coerente con le proprie
stesse premesse, una filosofia ermeneutica non può confondersi con
una ennesima «descrizione» delle strutture dell’esperienza. Sostenendo
che la verità non è anzitutto la proposizione che descrive fedelmente,
dall’esterno, uno stato di cose; ma che è evento, risposta a messaggi
che provengono da una tradizione, interpretazione di questi messaggi
e accadimento di un messaggio nuovo trasmesso ad altri interlocuto-
ri – l’ermeneutica non può non impegnarsi concretamente nella risposta
alla propria tradizione e nel dialogo con le «altre» tradizioni con cui si
trova in contatto. L’ermeneutica non può essere solo teoria del dialogo;
anzi, forse non può affatto pensarsi come teoria del dialogo (inteso come
la vera struttura di ogni esperienza umana – ancora «metafisicamente»
descritta nella sua essenza universale); ma deve articolarsi, se vuol
essere coerente, come dialogo – dunque impegnandosi concretamente
nei confronti dei contenuti della tradizione.
Qui l’esigenza «esterna» che richiede all’ermeneutica una prospet-
tiva emancipativa si incontra con l’esigenza interna di «coerenza» e
consequenzialità dell’ermeneutica stessa. Basta, insomma, una «teoria
del dialogo»? Una descrizione dell’esperienza come «continuità», un
appello a riportare l’esperienza alla ricchezza stratificata della nostra
tradizione – dunque un certo classicismo anche nel senso più letterale
e storico del termine? Una enfatizzazione – la stessa che si trova, in
ultima analisi, nella teoria dell’agire comunicativo di Habermas – della
tolleranza, dello scambio argomentativo, della ragione come ragione-

4
Su questo punto, si veda il cap. iv del mio Al di là del soggetto cit.

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volezza e persuasività esercitate nel dialogo sociale? Ma, nel dialogo,
abbiamo – proprio come ermeneutici che non vogliono essere solo
filosofi trascendentali – qualcosa da dire, e che cosa, oltre al parlare
del dialogo come unico possibile luogo della verità?
Posta di fronte a queste richieste, che si fanno esplicite proprio
quando essa diventa una koiné, l’ermeneutica dovrebbe esser condotta
a rifare i conti con le proprie basi, e segnatamente con l’eredità hei-
deggeriana. Nella urbanizzazione a cui (secondo la nota espressione di
Habermas) Gadamer ha sottoposto l’heideggerismo, è andata perduta
(o comunque è passata in secondo piano) una sua parte essenziale, la
concezione heideggeriana della metafisica come storia dell’essere. Ga-
damer, com’è noto, non condivide affatto la «condanna» pronunciata
da Heidegger contro la metafisica greca; per lui, ciò che si tratta di
criticare – alla luce di una «fenomenologia» dell’esperienza vissuta che è
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anch’essa, però, altamente problematica dal punto di vista ermeneutico


(giacché appare ancora troppo diretta dall’idea che si possa giungere
alle cose stesse, e non solo alle «parole» trasmesse…) – è la riduzione
della verità all’ambito del metodo scientifico-positivo, riduzione che è
avvenuta tra Sette e Ottocento (e in cui il kantismo ha avuto una parte
decisiva). Conformemente a queste premesse, Verità e metodo sembra,
in conclusione, troppo poco radicale nel concepire la situazione della
civiltà tecno-scientifica moderna: è vero che, sul piano etico-politico,
Gadamer richiama alla necessità di ricondurre gli specialismi e le finalità
settoriali alla coscienza comune e alla sua continuità con la tradizio-
ne che vive nella lingua; ma questa tradizione rischia di apparire un
po’ troppo umanisticamente stilizzata, come un (sia pur rispettabile)
«supplemento d’anima».
Se, con Heidegger, pensiamo invece la metafisica come storia dell’es-
sere – e dunque, anzitutto, una unità di base tra le «due culture»,
quella umanistica e quella scientifica, espressioni della stessa «epoca»
dell’essere – è possibile che il pensiero ermeneutico riesca a formula-
re un programma emancipativo più radicale, in conseguenza di una
più esplicita assunzione della propria collocazione storica. La vivente
continuità della tradizione a cui dobbiamo riportarci per dare una
regola a scienza e tecnica, e in genere per orientarci nella problematica
etica, è proprio quella che Heidegger chiama storia della metafisica o
storia dell’essere. In questa storia, non si evidenzia solo il problema
di riconoscere, oltre o più fondamentalmente che la verità scientifica,
anche la verità dell’arte, della storia ecc. Anche questo, certo; ma solo
come momento di un più vasto processo, che Heidegger mette sotto il
segno della «tendenza» costitutiva dell’essere a celarsi mentre si svela;
cioè ad accadere come metafisica, fino al momento in cui, culminando

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nel Ge-Stell (l’universale organizzazione tecnico-scientifica del mondo),
la metafisica viene a fine e diventa possibile un suo oltrepassamento.
È nei confronti di questa storia – e non, dunque, di una storicità che
rischia sempre di essere genericamente intesa come appartenenza e
dialogicità – che l’ermeneutica storicamente si impegna e pensa il
proprio compito, in termini radicalmente non trascendentali. Se l’er-
meneutica non è la «scoperta» della costitutiva e oggettiva struttura
dialogico-finita di ogni esperienza umana, ma un momento della storia
della metafisica come storia dell’essere, sia il problema di pensarsi co-
erentemente come interlocutore di un dialogo, sia quello, connesso, di
definirsi in rapporto a un compito di emancipazione (o: a un compito
storico) si configurano in modo diverso. Dire che l’ermeneutica è una
tappa decisiva nel cammino attraverso cui l’essere si sottrae (anche
letteralmente: riducendosi, dissolvendosi) al dominio delle categorie
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metafisiche della presenza dispiegata, colloca il pensiero ermeneutico


in una posizione non contemplativa, ma impegnata, nei confronti di
questo cammino, e gli fornisce anche guide e criteri per operare scelte
di contenuto.
Per rispondere alle domande che le pone la sua nuova posizione di
koiné, l’ermeneutica sembra dover ritrovare una, sia pur paradossale,
filosofia della storia; paradossale perché il senso di questa filosofia della
storia non è altro che la (lunga) fine della filosofia della storia. Del
resto, anche le moderne filosofie della storia sono momenti essenziali
di quella metafisica che Heidegger dichiara superabile solo nella for-
ma della Verwindung, della ripresa-accettazione-distorsione. Ricoeur,
concentrandosi su «tempo e racconto», ha forse colto anche questa
esigenza di ripensamento della storicità, anche se ancora una volta
sembra risolverla sul piano di una descrizione strutturale, invece che
in una radicale concezione dell’ermeneutica come momento della storia
dell’essere. Al di fuori di una tale radicalizzazione, non si vedono per
ora altre strade attraverso le quali l’ermeneutica possa rispondere alle
domande che le provengono non solo dalla filosofia, ma da sempre più
diversi e numerosi campi della cultura di oggi.

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4. ERMENEUTICA E SECOLARIZZAZIONE

Ripubblicando dopo molti anni (la prima edizione è del 1950, la terza
del 1962) Esistenza e persona1, con una nuova, amplissima introduzione
e una conclusione di «rettifiche sull’esistenzialismo», Luigi Pareyson
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insiste sul fatto che quella «attualità dell’esistenzialismo» da cui partiva


il suo libro del 1950 (e che era anche il tema di uno dei primi capitoli)
non è affatto tramontata. E oggi come allora, questa attualità gli pare
equivalere alla ineludibilità del problema del cristianesimo. Sebbene
il libro sia ricco di sviluppi teorici che delineano l’ossatura di una po-
sizione filosofica abbastanza ‘sistematica’ (nei limiti in cui è possibile
applicare questo aggettivo a un pensiero fondamentalmente esistenzia-
listico cone quello di Pareyson), è questo l’aspetto di esso che attira di
più l’attenzione nell’attuale situazione filosofica; e non si fa torto alla
complessità del discorso se si prende questo come filo conduttore di una
discussione che, sia pure entro i limiti di una breve nota, si proponga
di discutere il senso della posizione di Pareyson, certamente uno dei
pensatori che più hanno segnato la filosofia italiana di questi ultimi
decenni. Del resto, anche nelle intenzioni dell’autore, è proprio dalla
tesi iniziale della attualità dell’esistenzialismo e della ineludibilità del
problema del cristianesimo che tutto il resto dell’elaborazione dipende.
Immediatamente, la tesi dell’attualità dell’esistenzialimo e della
centralità del problema del cristianesimo sembra più plausibile oggi
che non nella situazione del 1950: allora il rinnovamento del pensiero
italiano sembrava orientato verso il marxismo, verso l’introduzione in
Italia di tematiche neo-positiviste, o anche nel senso dell’esistenzialismo,
ma nella forma ateistica sartriana. Era relativamente audace, allora, fare
del problema del cristianesimo il problema centrale della filosofia. Oggi
non sembra più così stravagante: almeno nella misura in cui molti dei
pensatori che si leggono o rileggono attualmente e influiscono sui nostri

1
L. Pareyson, Esistenza e persona, nuova ed., Genova, il melangolo, 1985.

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dibattiti sono caratterizzati dalla presenza predominante di tematiche
religiose: penso a Bloch e a Benjamin, a Rosenzweig e a Löwith, a
Hannah Arendt e a Lévinas, solo per fare qualche esempio. Circola
nel pensiero contemporaneo, spesso (ma anche questo è un punto su
cui bisognerebbe riflettere specificamente) sotto forma di una ripresa
di contenuti della tradizione ebraica, una quantità di temi religioso-
esistenziali (non si riesce a definirli in modo più chiaro). Oltre ai suoi
intrinseci pregi teorici, un libro come Icone della Legge di Massimo
Cacciari ha certamente anche un grande significato sintomatico, è
un’espressione tipica di questa situazione. Ebbene, rispetto a questo
clima filosofico, nel quale a importanti suggestioni teoriche si mescolano
certo non pochi rischi di equivoco, la riedizione del libro di Pareyson,
soprattutto alla luce delle tesi svolte nella nuova introduzione, può
costituire un’importante occasione di chiarificazione.
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Anzitutto, per la franchezza con cui chiama le cose con il loro nome,
individuando nel problema del cristianesimo la questione centrale per
la nostra (o per larga parte della nostra) problematica filosofica. Un
pensatore come Karl Löwith, per esempio, ha avuto fino all’ultimo una
chiara consapevolezza di questo fatto, e molte delle idee illustrate da
Pareyson nel libro del 1950 si possono avvicinare – almeno sul piano
del ripensamento storiografico della filosofia dell’Ottocento – proprio
alle idee che, negli stessi anni, andava elaborando Löwith. Ma, soprat-
tutto negli anni più recenti, il richiamo a concetti di origine teologica, o
biblica, nel dibattito filosofico non è stato accompagnato da altrettanta
chiarezza. E invalso l’uso – e penso anche qui, come esempio, alle
opere di Cacciari – di parlare in termini teologici (peccato, redenzione,
incarnazione, angeli) senza porsi esplicitamente il problema dell’am-
bito dottrinale a cui questi termini, in origine, appartengono. Era del
resto Benjamin che, nelle Tesi di filosofia della storia, aveva teorizzato
il fatto che il materialismo storico vince «se prende al suo servizio la
teologia». Ma, se mai ciò è successo (e forse è successo, segnando però
in maniera negativa le vittorie del materialismo storico – il socialismo
reale), oggi la situazione, almeno nell’ambito della nostra filosofia,
sembra essersi rovesciata, il servo è diventato padrone: è la teologia,
semmai, che prende al suo servizio il (i resti del) materialismo storico.
Già in Benjamin, e probabilmente in tutto lo hegelo-marxismo critico,
questi rapporti di servizio non sono mai regolati da contratti chiari;
e anzi, nella lettera del testo di Benjamin, hanno qualcosa di subdolo
e mistificante. Sia in Benjamin, sia negli altri autori francofortesi, la
ripresa, più o meno esplicita, di categorie in largo senso teologiche,
non è mai chiaramente accompagnata da una esplicita tematizzazione
del problema della secolarizzazione: non solo si ragiona in termini

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teologici senza dire entro quali limiti (che non sono mai ‘solo’ quelli
di una, peraltro problematica, metaforizzazione poetica) si riprendono
termini e nozioni della Bibbia e della tradizione ebraico-cristiana; ma
anche: si ragiona in termini hegeliani dentro un quadro marxista senza
mai tematizzare il problema dell’alternativa tra Marx e Hegel…
Anche solo in questo senso è vero che il problema del cristianesimo
è centrale per un largo settore del pensiero contemporaneo, quello
che, da ultimo, ha riscoperto Rosenzweig e La stella della redenzione.
Non si può (se non a patto di gravi ‘scollature’ nell’argomentazione)
ritrovare un rapporto con l’Antico Testamento saltando semplicemente
il suo nesso con il Nuovo, e i problemi del rapporto con il cristia-
nesimo storico, con le istituzioni, come la Chiesa, che si presentano
come valida interpretazione-prosecuzione della rivelazione biblica. Ma
questo problema è per l’appunto il problema della secolarizzazione;
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un problema che non si risolve pretendendo di leggere i testi biblici


appunto anzitutto come testi – testi che, allo stesso titolo di altri grandi
messaggi del passato, appartengono alla tradizione, o meglio costitui-
scono la tradizione a cui noi apparteniamo. I testi biblici rivendicano
una peculiare normatività, ed è proprio intorno a questa rivendicazione
che nella nostra tradizione si costituisce e articola il concetto stesso
di testo (non sarebbe difficile mostrare che il testo è un concetto, in
origine, carico di pretese normative: sono testi anzitutto quelli su cui
una società o una cultura si modellano; e anche oggi, nel linguaggio
comune, il testo è prima di tutto «il libro di testo», quello che, in
qualche misura, «fa testo»…). Non si dà teoria dell’interpretazione,
della testualità, forse nemmeno una semiotica, senza una tematizzazione
della secolarizzazione. Hegel, che riprendeva a piene mani termini e
concetti biblici, fino al dogma della Trinità, aveva però una esplicita
teoria della secolarizzazione, pensava a una Aufhebung della religione
da parte della filosofia, e questo rapporto legittimava in termini chiari
anche la ripresa della dogmatica ebraico-cristiana.
In Pareyson – come del resto, sebbene con minore chiarezza, in
altri pensatori religioso-esistenziali contemporanei – la centralità del
problema del cristianesimo si ripropone in quanto si è dissolta la sintesi,
l’unità del razionalismo metafisico hegeliano, e ciò proprio ad opera
dell’esistenzialismo. Se le ragioni avanzate, da punti di vista diversi, da
Kierkegaard (l’irriducibilità al sistema della scelta morale del singolo)
e da Feuerbach e Marx (la irriducibile materialità della storia), contro
il razionalismo metafisico hegeliano, sono valide, allora la realtà non
si lascia più pensare come un processo lineare di ritorno dello spirito
presso di sé, come conciliazione, illuminazione progressiva della ra-
gione entro cui la religione e il cristianesimo rappresenterebbero un

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momento provvisorio superato. Se non regge il razionalismo metafisico
hegeliano, il cristianesimo non è ‘superato’. Allora, argomenta Pareyson,
ha ragione Kierkegaard a riproporsi il problema; e hanno torto Feuer-
bach e Marx, i quali si sbarazzano del cristianesimo ancora con ragioni
hegeliane, mentre d’altra parte vogliono rifiutare Hegel. O meglio: se,
in base a «ragioni esistenziali», si dissolve la visione sistematica della
storia hegeliana, si devono rifare i conti con la Bibbia e con il proble-
ma dell’annuncio cristiano della salvezza. Davanti a questo problema,
nel momento storico della dissoluzione dello hegelismo (e anche oggi,
secondo Pareyson) si possono assumere due posizioni: quella di Kier-
kegaard o quella di Feuerbach e poi di Marx. Ma quest’ultima liquida
il cristianesimo in base a ragioni che riprende da Hegel, e in generale
‘supera’ l’idealismo solo nel quadro di una filosofia dialettica della
storia ancora tutta segnata dal razionalismo metafisico. Se si vuol essere
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radicalmente conseguenti con le premesse esistenziali che, anche per


Feuerbach e Marx, conducono a dissolvere il sistema hegeliano, si deve
seguire Kierkegaard. In tal modo, si apre la via a un «esistenzialismo
cristiano», quello che, nei vari capitoli del suo libro, Pareyson delinea
nei suoi contenuti, richiamandosi non solo a Kierkegaard ma, come
vedremo, anche e soprattutto all’ultimo Schelling.
Ma, anzitutto, è plausibile in generale la tesi che, se si rifiuta Hegel,
non si può che ritrovare il problema del cristianesimo? Sembra di sì,
almeno nella misura in cui si prende atto che, in seguito non a una vera
e propria ‘confutazione’, ma piuttosto a un ‘tramonto’ della credenza
positivistica nella obiettività e certezza della conoscenza scientifica,
oggi è ormai difficile trovare chi neghi credibilità alla Bibbia in base
all’argomento classico dell’improbabilità dei miracoli su cui dovrebbe
fondarsi l’accettazione della rivelazione come parola di Dio («se Cri-
sto non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede», dice San Paolo).
Siamo in generale in una condizione che, anche sotto questo aspetto,
si può chiamare ‘secolarizzata’: non ci sono più scienziati positivisti
che irridono ai miracoli in nome delle leggi della natura; ma non ci
sono più, o sono sempre meno, credenti che si affannino a sostenere
la ‘storicità’ letterale di questi miracoli: Bultmann e la demitizzazione
hanno fatto scuola anche nell’esegetica cattolica… In fondo, se c’è una
‘confutazione’ del cristianesimo più o meno tacitamente accettata nella
cultura contemporanea, essa è, almeno largamente, di tipo hegeliano,
cioè orientata in senso storicistico: così, l’idea che il cristianesimo ap-
partenga radicalmente alla storia della cultura dell’Occidente, e dunque
che non possa avanzare pretese di universale validità – pretese che,
anzi, sono funzione di questa appartenenza, insieme cause ed effetto
dell’eurocentrismo imperialistico con cui l’Occidente si è imposto sul

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resto del mondo – è certamente un’idea di tipo storicistico, facilmente
riportabile nell’ambito di un, sia pur rovesciato e distorto, hegelismo.
In questo hegelismo distorto rimane l’idea che la posizione del cre-
dente è superata da un atteggiamento più illuminato della ragione,
una ragione storica-relativistica, ‘illuminata’ non nel senso che abbia
raggiunto la perfetta autotrasparenza, ma pur sempre situata in un
grado superiore di consapevolezza che colloca la fede cristiana tra le
cose del passato. (Anche il ‘silenzio’ di Heidegger – che certo non si
pone in una prospettiva di relativismo storicistico – sul cristianesimo,
silenzio che comunque costituisce un problema degno di essere di-
scusso a parte, potrebbe essere, almeno molto in generale, citato come
segno della ‘ovvietà’ in cui appare il rapporto tra cristianesimo, civiltà
occidentale e Bestimmung – vocazione e determinazione – storicistica
di questa civiltà).
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Sembra dunque abbastanza plausibile la tesi di Pareyson secondo


cui la dissoluzione dello hegelismo, cioè la crisi dello storicismo me-
tafisico, riapre il problema del cristianesimo. E plausibile, sebbene in
modo e misura diversa, si può considerare anche la seconda tesi, legata
a questa: e cioè che, tra le alternative che si aprono dopo Hegel, la più
radicale e coerente è quella kierkegaardiana. Anche la plausibilità di
questa seconda tesi è anzitutto fondata su una constatazione di fatto:
quella a cui alludevamo sopra ipotizzando che nella situazione attuale
sia stata la teologia, alla fine, a prendere al proprio servizio il mate-
rialismo storico; e cioè che, nella crisi del marxismo che la filosofia e
la cultura stanno vivendo, si ripropongano con sempre maggior forza
tematiche esistenzialistiche e, in largo senso, kierkegaardiane. Queste
tematiche, come del resto si vede nel libro di Pareyson, si coniugano
però molto profondamente con una ontologia che non deriva tanto da
Kierkegaard quanto, come si diceva, dal tardo Schelling. E anche per
questo, cioè in quanto danno luogo ad una ontologia, aprono poi, a
loro volta, alternative diverse; sulle quali, come ora mostrerò, si può (e
a mio parere si deve) dissentire da Pareyson e in genere dalle filosofie
di tipo esistenziale.
Seguiamo anzitutto, pur nei limiti che qui ci siamo posti, l’argo-
mentazione di Pareyson. Se si sceglie la soluzione di Kierkegaard a
preferenza di quella di Feuerbach e Marx, dice Pareyson, è aperta
la via a una nuova filosofia. Che, già nel libro del 1950 ma molto più
nettamente nella nuova introduzione, si caratterizza essenzialmente in
riferimento al tardo pensiero di Schelling. L’esperienza chiave della
meditazione di Kierkegaard è quella del rapporto diretto del singolo
con Dio, che mette fuori gioco la riduzione e conciliazione di esso
nel e con l’universale (Aut Aut, la vocazione di Abramo in Timore e

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tremore); dall’approfondimento di questa esperienza (penso soprattutto
al capitolo su «Tempo ed eternità») vengono fatti emergere, anche
andando oltre Kierkegaard, gli elementi per la critica della concezione
metafisica dell’essere. Così (e si vedano su ciò le puntigliose precisa-
zioni dell’introduzione)2 nell’esperienza del rapporto con Dio l’essere
si manifesta non come fondamento, ma piuttosto come dono, libertà,
abisso. Se (con Kierkegaard) l’esperienza basilare dell’esistenza è la
libertà, l’essere, con cui la libertà che il singolo esperisce è in rapporto,
non può configurarsi come ‘causa’ o «principio di ragione»; ma solo,
a sua volta, come libertà, infondatezza, baratro che non si arresta a
un principio ultimo la cui ultimità non potrebbe che coincidere con
la necessità dell’arché metafisica. Delle tre categorie della modalità,
scrive Pareyson in una pagina che è tra le più suggestive di tutto il
libro e forse anche una delle più belle della filosofia contemporanea,
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è la realtà la più importante e insieme la più misteriosa: la possibilità


è solo «il prodotto di un alleggerimento e allargamento retrospettivo
della realtà»; e la necessità «è una specie di realtà pesante, che poggia
su se stessa e insiste su di sé confermandosi e ribadendosi»; ma «della
realtà ch’è soltanto realtà, non promossa dalla possibilità né reclamata
dalla necessità, anzi anteriore alla prima e scevra della seconda, che non
ne sono se non un ribaltamento all’indietro o un’iterazione interna, una
cosa sola si può dire: ch’essa è perché è; ciò che non è se non un’altra
formulazione della sua infondatezza, giacché essa è non perché, poten-
do non essere, supponga un fondamento, né perché non potendo non
essere, si fondi da sé, ma perché appunto, è senza fondamento. Il che,
ancora, è come dire che essa è del tutto gratuita… Ora, dire che la realtà
è perché è […] significa dire che la realtà è appesa alla libertà»3. Qui
l’esperienza kierkegaardiana della libertà viene interpretata in termini
ontologici con l’aiuto di concetti che si trovano delineati nell’ultima
filosofia di Schelling. L’ultimo Schelling4 è il filosofo dell’Assoluto
non-assoluto, del Dio che è libertà in quanto trionfo su una negatività
che è dentro lui stesso. «La positività di Dio – scrive Pareyson poco
più avanti nella già citata introduzione – non ha la consistenza d’una
superficie piatta e levigata, né l’aspetto di un volto univoco e tranquillo,
ma piuttosto lo spessore d’una profondità contrastata, nella quale si

2
Ivi, pp. 18-19.
3
Ivi, pp. 28-29.
4
Cfr. anche, di L. Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, in Aa. Vv., Roman-
ticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Milano, Mursia, 1979; e il bel volume
antologico, con un’ampia monografia introduttiva, Schelling, curato da L. Pareyson,
Casale, Marietti, 1975.

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svolge, con ritmo intemporale, la presentazione e il superamento della
possibilità negativa»5.
Dunque, il riproporsi del cristianesimo dopo la dissoluzione dello
hegelismo apre la via a una filosofia che Pareyson chiama ontologia
della libertà, in quanto pensa l’essere non come fondamento ma
come Ab-grund e Ungrund. È nel quadro di questa ontologia che
si colloca l’altro aspetto centrale del pensiero di Pareyson, la teoria
dell’interpretazione e della molteplicità delle prospettive storiche come
inesauribilità rivelativa dell’essere stesso. La conoscenza della verità
non è progressivo avvicinarsi a un nocciolo di strutture metafisiche
già-sempre disponibili, ma accadimento di sempre nuove esperienze,
formulazioni, interpretazioni di un essere la cui abissale libertà, sul
piano cognitivo, coincide appunto con l’inesauribilità. Insomma, è
perché l’Essere non è fondamento, ma Ab-grund, che la verità può avere
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una storia e molteplici interpretazioni, nelle quali non si formula solo


con gradi diversi di esattezza, ma si dà, accade, istituendosi di volta
in volta come autentica novità.
Si aprono a questo punto due questioni, entrambe concernenti il
significato filosofico della ripresa di tematiche religioso-esistenziali
non solo in Pareyson, come si è visto, ma in molte zone della filosofia
contemporanea. Al centro di questa ripresa – come conferma anche
il Rosenzweig della Stella della redenzione – c’è il pensiero del tardo
Schelling (che del resto è anche uno degli ispiratori di Heidegger). Le
due questioni sono: (a) una volta ‘sfondato’ l’essere, liquidata la nozione
metafisica di fondamento, ha ancora senso parlare dell’essere e perché?;
(b) che cosa «si guadagna», filosoficamente, a pensare l’essere come
abisso e libertà piuttosto che come principio e fondamento?
Le due domande si possono porre anche in ordine inverso; nella
loro connessione si delinea anche un suggerimento per una possibile
risposta, nel senso che, a mio parere, potremmo scoprire che ciò che
si guadagna a pensare l’essere non più come fondamento ma come
abisso e libertà è proprio una certa libertà di «prendere congedo»
dall’essere e di «non palarne più» almeno in una certa misura. Le
questioni poste concernono, come si capisce, non solo l’ontologia
della libertà di Pareyson, ma anche quel filone che abbiamo chiamato
religioso-esistenziale della filosofia contemporanea; e alla fine, anche
Heidegger, o almeno le diverse interpretazioni che si danno del suo
pensiero nella nostra cultura.

5
L. Pareyson, Esistenza e persona cit., p. 35.

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Proprio a Heidegger, Derrida ha rimproverato il fatto di parlare
ancora all’essere6. È una posizione che si può in parte condividere. Se
l’evento dell’essere non è tale solo, o anzitutto, nel senso soggettivo del
genitivo, ma anche sempre e inscindibilmente nel suo senso oggettivo;
se cioè l’essere non è nulla al di fuori del suo evento, perché continuare
ad ‘attribuire’ l’evento all’essere come sua proprietà, e non parlare
invece semplicemente di eventi – storicizzando radicalmente l’onto-
logia? Tuttavia, ciò che accade nelle singole aperture storico-destinali
(o anche: storico-culturali) non è solo ente, ma anche sempre essere.
Il che, in termini heideggeriani, coincide forse, con la mai completa
‘superabilità’ della metafisica; questa è solo oggetto di una possibile
Verwindung, mai di una Überwindung7; e si riporta probabilmente
anche al costitutivo essere-per-la-morte caratteristico dell’Esserci, da
cui dipende il darsi dell’essere nella forma del monumento.
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Ciò che accade, infatti, nell’evento, nelle aperture storico-destinali


della verità, non è solo ente ma essere perché in qualche modo l’evento
sempre pretende di durare oltre la contingenza storica e individua-
le – perché vuole essere monumento. L’Esserci è un «animale metafisico»
perché, essendo mortale, è un costruttore di monumenti. Per l’evento,
il voler essere monumento non significa solo volontà di affermarsi e
imporsi (o volontà di potenza nel senso banale del termine); ma anche,
inscindibilmente, legame con i monumenti del passato: non si diventa
monumento solo imponendosi come riconoscibilità durevole, ma
‘innalzandosi’ al mondo dei monumenti, formulandosi secondo una
monumentalità che non è mai inventata arbitrariamente, ma ereditata.
Che si debba ancora parlare di essere e non solo di ente è un’esigenza
scritta in questo modo di darsi dell’evento. Ridurre l’evento, con una
sorta di procedimento demitizzante, al puro livello dell’ente, è, forse,
impossibile. Tanto che ancora il pensiero che tenta una simile riduzione
continua a pensare in termini metafisici, o di una monumentalità che,
essendo inconsapevole, esercita su di esso il dominio tipico della ide-
ologia8. Alla ‘razionalità’ eventuale della metafisica-monumento, nelle
forme di pensiero riduttivo e ideologico, si sostituiscono le razionalità
dei singoli eventi epocali elevate a strutture eterne: come, secondo

6
Per una discussione, cfr. il capitolo «Nietzsche e la differenza» nel mio Le avventure
della differenza, Milano, Garzanti, 1979.
7
Su ciò cfr. il cap. x del mio La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1975.
8
Sul tema dell’ideologia, cfr. il saggio Pensiero espressivo e pensiero rivelativo, nel
volume di L. Pareyson, Verità e interpretazione, Milano, Mursia, 1971.

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Heidegger, è sempre accaduto nella storia della metafisica come oblio
dell’essere9.
All’esperienza ‘kierkegaardiana’ dell’esistenza come libertà, il pensiero
corrisponde dunque anzitutto pensando l’essere come evento, e come
evento dell’essere e non solo dell’ente solo questa differenza, quella che
Heidegger chiama la differenza ontologica, si mantiene fedele al ‘dato’
dell’esperienza della libertà, da cui muove, anche in Heidegger e non
solo in Pareyson, la presa di congedo dal razionalismo metafisico he-
geliano e in generale dall’idea metafisica dell’essere come fondamento.
In qualche modo, è il pensare l’essere come evento e non come strut-
tura quello che, per venire alla seconda delle questioni poste sopra, «si
guadagna» riprendendo la speculazione dell’ultimo Schelling. Su ciò,
nel pensiero di Pareyson sussistono alcuni esiti che a mio parere non
sono accettabili; o meglio, che devono essere corretti proprio facendo
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appello a quell’altro aspetto del suo pensiero che si condensa intorno


al nocciolo dell’interpretazione. Schematizzando, la questione si può
porre così: rispetto a un assoluto pensato come autotrasparenza pura,
fondamento conciliato con sé, finale coincidenza di essenza e manifesta-
zione, ecc. – com’era lo spirito assoluto hegeliano, ma anche, sia pure
in termini diversi, il fondamento della metafisica – il Dio di Schelling
che comprende in sé (superandolo, senza però risolverlo dialettica-
mente) anche il lato notturno, l’abisso su cui solo si può affermare la
libertà, appare più vicino all’esperienza della libertà, più verosimile
per un uomo kierkegaardiano. Se l’esistenza ha rapporto con l’essere,
e l’esistenza è libertà, l’essere non può pensarsi nei termini dell’assoluto
hegeliano, così distante nella sua (sia pure solo ‘finale’) autotrasparenza
conciliata: salviamo dunque i fenomeni, pensiamo l’essere come libertà,
abisso, gratuità precaria. In tal modo, però, si rischia di sopprimere
uno degli aspetti permanentemente attuali (anche per Heidegger) della
metafisica, proprio la differenza ontologica: il salto nei logoi, l’acca-
dere di essere e non solo di ente nell’evento. L’assoluto di Hegel, in
altre parole – come sa bene l’hegelo-marxismo del nostro secolo – è
anche norma, ideale, filo conduttore, telos: nel suo non rispecchiare
semplicemente la situazione di conflitto e precarietà in cui l’esistenza di
fatto si svolge, vale anche come principio di giudizio. Pensare l’essere
come libertà, come trionfo mai garantito sulla Nachtseite, non sarà in
fondo peccare di antropomorfismo – attribuire anche all’essere ciò che

9
Non mi fermo qui sui significati che Heidegger, nelle varie fasi del suo pensiero,
attribuisce al concetto di metafisica. Il tema è affrontato in modo chiaro per esempio
da M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, Roma, Bulzoni, 1977.

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è caratteristico dell’esistenza e che, proprio perciò, sta con l’essere in
rapporto ‘differente’, di tensione, quel rapporto che conferisce senso
all’evento e alla storia? Se anche Dio (e in fondo, proprio perché l’essere
è pensato come libertà, è possibile riprendere l’identificazione della
teologia metafisica tra l’essere e Dio) è nella condizione della libertà
minacciata, allora che significa il rapporto dell’esistenza con lui, o con
l’essere? Se questo rapporto deve stabilirsi come tensione e differenza,
in che cosa consisteranno queste ultime? Nonostante il gran parlare di
tragicità, questa ontologia rischia di apparire, come del resto è stata
spesso la metafisica, solo una reduplicazione dei caratteri dell’esistenza.
Probabilmente, il fascino degli aspetti ‘teosofici’ del pensiero del
tardo Schelling, che risuonano in questa concezione di Dio come
libertà minacciata, consiste piuttosto nel fatto che un tale pensiero
sembra maggiormente capace di ‘mobilitare’ l’immaginazione simbo-
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lica. Il Dio abisso, lotta, libertà minacciata non ‘supera’ e sopprime,


come non può non fare in una prospettiva di razionalismo metafisico,
tutti gli erramenti che costituiscono la storia delle forme simboliche,
o della ‘cultura’, dell’umanità: proprio il tardo Schelling è autore di
una filosofia della mitologia, e della rivelazione, che probabilmente
non poteva riuscire a Hegel.
Ma in fondo, proprio la possibilità che si apre dal punto di vista che
sommariamente chiamiamo ‘schellinghiano’, di costruire una filosofia
della mitologia e di ricuperare un dialogo non puramente aufhebend con
la storia dei simboli (qui penso anche, nella filosofia contemporanea,
a Ricoeur), avvia a un altro aspetto del problema, da cui può venire
qualche indicazione nel senso della «presa di congedo» dall’essere che
sembra poter essere uno dei possibili esiti dell’abbandono del razio-
nalismo metafisico e dell’essere come fondamento. Se l’essere non è
fondamento, ma evento, esso non è nemmeno struttura: e in ciò risiede
la profonda connessione tra l’ontologia della libertà e il cristianesimo,
e più in generale con il Dio biblico che ‘crea’ liberamente, ponendo
dunque il mondo sotto il segno dell’accadimento e della storicità. Ma
se in tal modo ci si lascia alle spalle l’essere come struttura, anche una
visione del rapporto tra mitologia, religione, filosofia, che le consideri
semplicemente fonti diverse, e irriducibili l’una all’altra, di verità, di-
venta difficile da sostenere: è difficile condividere la tesi di Pareyson,
secondo cui «se la filosofia interviene, lo fa non per tradurre il discorso
mitico in discorso razionale, cosa per definizione impossibile, perché
non è mito quello che si lascia risolvere in logo, né è logo quello che
intende dissolvere il mito, essendoci invece posto per entrambi, e cia-

55

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scuno avendo interesse a preservare la reciproca compatibilità […]»10.
Pareyson potrebbe certo rivendicare la validità di questa tesi in nome
della molteplicità inesauribile delle interpretazioni della verità: queste
interpretazioni, però, se non devono essere considerate come ‘parti’
o ‘aspetti’ di un tutto comunque dispiegato in una ideale, metafisica
sincronia, hanno fra loro rapporti ‘storici’ che non si lasciano metter
da parte, proprio nella misura in cui si vuole esser fedeli a una nozione
di essere come evento. Non ci sono linee parallele, quella del mito e
quella del logo, che bisogni preservare nella loro reciproca irriduci-
bilità; perché sostenere questo equivarrebbe (almeno pare a me) ad
affermare una struttura multiforme dell’essere – ritrovandosi dunque
nell’orizzonte della metafisica descrittiva e fondazionale.
La questione della filosofia della mitologia (quale che sia, in termini di
esattezza storiografica, il suo senso in Schelling), e del rapporto del mito
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con il logo, è solo un aspetto del più generale problema del prendere
sul serio l’esperienza dell’essere come evento e non come fondamento.
Come il rapporto del logo con il mito non si può sistemare pacifica-
mente in nome di una ‘struttura’ multivoca, ma pur sempre struttura,
dell’essere (non: to on leghetai pollakos, ma, biblicamente: multifariam
multisque modis locutus est Deus patribus nostris, Epistola agli Ebrei, I,
i: dove è essenziale il riferimento ai padri, cioè a un pollakos ribaltato
sul piano diacronico, che significa anche concatenarsi di interpreta-
zioni, forse in un rapporto di «rassomiglianza di famiglia»…), così la
‘scoperta’ dell’essenza non fondazionale, ma eventuale, dell’essere non
si può capire fuori da una storia della metafisica che, nel suo dipanarsi,
si presenta comunque anche come un filo conduttore dotato di una
sua teleologia, ereditando qualcosa della ‘normatività’ dell’assoluto
autotrasparente di Hegel. Se torniamo alla nostra domanda (b), sul
che cosa «si guadagni» a pensare l’essere in termini di libertà piuttosto
che come fondamento necessario, la risposta non è solo: si guadagna
un essere più conforme all’esistenza (salvando i fenomeni, in qualche
modo); né si guadagna una posizione più capace di render conto della
storia dell’immaginazione simbolica; ma invece: ciò che si guadagna è
una concezione dell’essere che, nel suo prender congedo dalla neces-
sità metafisica, si mostra come avviato verso una emancipazione dalle
strutture forti in cui la metafisica l’aveva imprigionato (imprigionando
con esso anche l’uomo).
Per questo credo che si debba far reagire (più di quanto non faccia
talvolta l’autore stesso) l’ontologia della libertà di Pareyson con la sua

10
L. Pareyson, Esistenza e persona cit., p. 34.

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filosofia dell’interpretazione e dell’inesauribilità della verità. Una filo-
sofia dell’interpretazione o meglio ancora una ontologia ermeneutica,
come anche si potrebbe chiamare la filosofia di Pareyson, non può
reggersi, mi pare, se non su un esplicito riconoscimento dei tratti di
‘indebolimento’ nei quali l’essere si configura alla fine della sua parabola
metafisica. Lo sforzo di pensare radicalmente l’idea di una inesauri-
bile eventualità della verità non si lascia conciliare nemmeno con una
nozione ‘schellinghiana’ di Dio e dell’assoluto, neanche con l’idea di
Ab-grund e Un-grund, se queste idee non sono pensate come tappe
sulla via della ‘secolarizzazione’ o dell’indebolimento dell’essere. Se si
rifiutano questi esiti, l’idea dell’essere, o di Dio, come non-fondamento,
ma dono, libertà, evento (un termine che non rientra nella terminologia
di Pareyson, ma che non mi pare ingiustificato aggiungervi) finisce
per irrigidirsi nuovamente entro prospettive fondazionali-metafisiche,
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perdendo però anche quell’elemento differenziale, di tensione, che


ancora l’assoluto hegeliano conteneva.
Il problema che così si delinea è, ancora una volta, quello con cui si
trova confrontata l’interpretazione di Heidegger e dello heideggerismo:
o il richiamo a rammemorare l’essere si dispiega in una sorta di teologia
negativa, che pensa comunque l’essere come nuovamente accessibile
al di là dell’oblio in cui la metafisica lo ha fatto cadere (e allora si
può sia «ritornare a Parmenide», come suggerisce Severino; sia, più
ragionevolmente, ritornare a Schelling o a una filosofia cristiana della
creazione e della libertà); oppure si sviluppa una ontologia che pensa
l’essere come traccia, monumento, memoria – che comporta però un
atteggiamento di maggiore ‘amicizia’ per la metafisica, la quale non è un
erramento da cancellare, bensì un itinerario di ‘consumazione’ attraverso
cui l’essere finisce per darsi nella forma indebolita della traccia, della
presa di congedo, della rimemorazione. Nel pensiero di Heidegger,
come in quello di Pareyson, ci sono entrambe queste possibilità: ma
prender sul serio lo ‘sfondamento’ dell’essere sembra richiedere che,
contro ogni ritorno, sia pure in termini di teologia negativa, all’essere
metafisico, si segua fino in fondo la via della secolarizzazione.

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5. UTOPIA, CONTROUTOPIA, IRONIA

È stato giustamente osservato1 che una caratteristica essenziale


dell’utopia nel Novecento è l’affermarsi e il diffondersi di quel genere
letterario che è stato variamente qualificato come antiutopia, distopia,
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controutopia…; e forse questa non è una delle caratteristiche dell’u-


topia novecentesca, ma la caratteristica saliente, almeno a giudicare
dalla costanza con cui la letteratura e le altre forme d’arte utopiche,
il cinema soprattutto, hanno prodotto immagini di mondi «perfetta-
mente negativi», che dunque conservano tutti i caratteri «ottimizzanti»
dell’utopia, nel senso che immaginano una realtà in cui quelle che nella
situazione attuale sono solo possibilità siano realizzate in tutte le loro
implicazioni estreme; ma tutto ciò, invece di dar luogo a un mondo
perfettamente felice, dà luogo proprio alla condizione opposta, alla
totale e irrimediabile infelicità. Rispetto ai modelli di controutopie del
passato, ad esempio rispetto alle anticipazioni che si possono trovare
in opere come i Gulliver’s Travels, la negatività della controutopia
novecentesca è più radicale e totale; non ha la forma dell’exemplum
che mette in guardia contro distorsioni e pericoli insiti in possibili
conseguenze di fatti e componenti attuali. Opere come Metropolis di
Fritz Lang (1926), come il famoso 1984 di G. Orwell (1948; anch’es-
so, di recente, è divenuto film), e ancora come Il mondo nuovo di
Huxley (1932), che sono ormai i testi emblematici della controutopia
novecentesca, hanno qualcosa, sul piano della radicalità delle loro tesi,
che li distingue da tutte le controutopie del passato. Si può spiegare
questa radicalità sulla base delle esperienze negative del Novecento,
sul piano della politica, delle applicazioni belliche della tecnologia, del
fallimento e perversione delle rivoluzioni, come quella comunista? Si
sa che tutti questi elementi sono stati fattori essenziali nel motivare
la nascita delle controutopie: certamente, il clima catastrofico della

1
V. Verra, Utopia, in Enciclopedia del Novecento, 1984.

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controutopia del cinema espressionista risente profondamente dell’e-
sperienza allora recente della prima guerra mondiale, che forse per la
prima volta aveva determinato, in connessione con le esigenze della
produzione bellica, una organizzazione molto rigida, parcellizzata,
alienata, del lavoro industriale e, di conseguenza, dell’organizzazione
e della disciplina sociale; così il 1984 di Orwell rispecchia non solo
le esperienze dei fascismi europei degli anni Trenta, ma anche, e ben
più pesantemente, l’impatto del totalitarismo staliniano sulla coscienza
liberale di quegli anni.
Sarebbe però sviante, a mio parere, riportare il diffondersi della
controutopia nella letteratura e nell’immaginario collettivo del nostro
secolo a queste delusioni, a esperienze negative come quelle che abbiamo
ricordato, che in fondo sono sempre ancora solo spiegazioni «parziali».
Anche l’attuale, tragicamente fondata, paura per l’incombere della di-
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struzione atomica o della devastazione ecologica del pianeta non basta a


giustificare la radicalità con cui l’immaginazione utopica produce i suoi
modelli perfettamente negativi. La controutopia caratteristica del nostro
secolo fa piuttosto pensare a motivazioni più globali, diverse non solo
per grado da quelle che si rifanno a determinate esperienze negative,
particolarmente dolorose, dell’umanità del nostro secolo. Quel che è
accaduto, e che si manifesta nella controutopia, si può definire come
il venire in luce della controfinalità della ragione; di ciò che, con altri
termini, Horkheimer e Adorno, nel loro libro del 1947, hanno chiamato
la Dialettica dell’illuminismo. Non si tratta soltanto, cioè, del fatto che, in
base a determinate esperienze negative – le due grandi guerre mondiali,
e le innumerevoli guerre locali dove si impiegano strumenti di morte
sempre più sofisticati; lo sfruttamento intensivo delle risorse del pianeta
fino ai limiti dell’esaurimento; le nuove, illimitate possibilità di controllo
e disciplinamento fornite dall’elettronica – ci siamo accorti che il «pro-
gresso», soprattutto in termini di tecnologia, può condurre a conseguenze
catastrofiche per la vita. Una tale possibilità rientra ancora pienamente
nella tradizione: sempre l’invenzione di nuove tecniche ha comportato
la possibilità di una loro applicazione perversa, o ha fatto sorgere rischi
prima sconosciuti. Ciò che sembra caratterizzare la nostra situazione è
invece qualcosa di più generale che, sebbene sotto gli occhi di tutti, si
lascia cogliere solo da un particolare sforzo di riflessione; è la scoperta
che, proprio nella misura in cui realizza sempre più perfettamente i suoi
programmi, e dunque non per un errore, un accidente, una distorsione
casuale, la razionalizzazione del mondo si rovescia contro la ragione e i
suoi fini di perfezionamento ed emancipazione.
Se vale, una tale ipotesi getta retrospettivamente una diversa luce
anche sulla storia passata dell’utopia. Ad esempio, ci conduce a veder-

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ne i nessi strettissimi con la storia del razionalismo moderno. Vi sono
certo, a partire da Platone, testi utopici che non rientrano strettamente
nella storia del razionalismo moderno (sebbene, in una prospettiva più
ampia che si rifaccia a Nietzsche o a Heidegger, è perfettamente legitti-
mo includere anche, anzi soprattutto, Platone in questa storia). Ma se
pensiamo al significato più proprio e storicamente preciso del termine
utopia, all’isola descritta da Tommaso Moro nell’opera che improntò
il termine nel senso che esso ha oggi per noi, ci troviamo immediata-
mente collocati dentro alla storia del pensiero razionalistico moderno.
Tommaso Moro, o Campanella nella sua Città del Sole, figurano una
realtà «ottimizzata» non in base ad immagini ispirate da un desiderio
immediato e ingenuo di benessere e di felicità; ma, in qualche modo,
deducono i caratteri dei loro mondi ideali da una ricognizione razionale,
e sistematica, dell’essenza umana, delle sue possibilità e della sua voca-
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zione. Quel che in Moro e soprattutto in Campanella è una razionalità


fondata sul riconoscimento di essenze, le quali, dispiegandosi come
ideali normativi, danno luogo a quella che si può chiamare una utopia
metafisica, nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone (postuma, 1627)
diventa utopia tecnologica, che si giova di tutte le possibilità messe a
disposizione dell’uomo dalle macchine allora conosciute. Ma c’è una
parentela profonda tra questi due tipi di utopia, ed è la loro natura di
realtà ottimizzata mediante una pianificazione razionale. Nessuno usa
il termine utopia per indicare il paese di Bengodi, una qualunque im-
magine di mondo felice, come sarebbe, retrospettivamente, una mitica
età dell’oro che stia all’origine della storia. Propriamente, il termine
utopia ha da fare con la realizzazione di una realtà ottimale mediante
la pianificazione razionale, sia essa orientata metafisicamente (come in
Campanella) o tecnologicamente (come in Bacone).
Considerata in questo modo, l’utopia svela la propria parentela con
il razionalismo moderno, o con quella che Heidegger chiamerebbe la
volontà sistematica della metafisica. Nella prospettiva heideggeriana,
come si sa, metafisica è quel pensiero che considera l’essere come un
sistema di oggetti rigorosamente concatenati fra loro dal principio di
causalità. Questa concatenazione di tutti gli enti secondo il nesso di
fondazione, che nella metafisica antica – ad esempio, e soprattutto, in
Aristotele – è solamente colta a livello ideale dalla mente, nella mo-
dernità si attua realmente ad opera della tecnica; la quale, dunque, è
la metafisica realizzata. Ora, guardata nelle sue origini specificamente
moderne, l’utopia è effettivamente un aspetto della volontà di sistema
propria della metafisica; si potrebbe dire, è un razionalismo metafi-
sico, o uno hegelismo, ribaltato nella dimensione del futuro. Così,
ad esempio, concepisce l’utopia il massimo pensatore «utopico» del

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nostro tempo, Ernst Bloch. In un famoso libro su Hegel2, Bloch gli
rimprovera non la sua volontà sistematica e il suo sguardo rivolto alla
totalità come unica possibile verità; bensì il carattere anamnestico del
suo pensiero, cioè il fatto che la totalità, il sistema, a Hegel appaia già,
in linea di principio, compiuto. Anche per Bloch, il vero resta l’intero,
il tutto; fuori di esso non c’è che errore e alienazione; ma il tutto non
sta alle nostre spalle come già realizzato, è invece telos utopico colto
dalla coscienza anticipante. Si può anche pensare, come poi ha fatto
più radicalmente Adorno, che inteso così il tutto utopico non possa
neanche raffigurarsi; vigerebbe in tal modo una sorta di divieto – ana-
logo a quello che nell’Antico Testamento vieta di fare immagini e di
pronunciare fin solo il nome di Dio – contro ogni possibilità di farsi
un’idea positiva dei contenuti del telos utopico. Difficile dire se una
tale concezione radicalmente iconoclastica del telos utopico, propria di
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Adorno, sia conforme alla prospettiva di Bloch. Resta però che persino
nella sua forma più radicalmente negativa, quella adorniana, l’utopia
mantiene un legame con la totalità, che non si può mai immaginare
come realizzata. Anche solo fungendo da principio critico che mette
in guardia dalle pretese di ogni realizzazione storica, il telos utopico
mostra il suo nesso con la totalità e, dunque, con la volontà metafisica
di sistema.
Se dunque, come si può ragionevolmente argomentare, l’immagina-
zione utopica, almeno nel suo senso più proprio, che non è quello della
pura e semplice fuga fantastica in un mondo più felice, è un aspetto
costitutivo della mentalità metafisica moderna, che significato assume
la vicenda dell’utopia novecentesca e il suo caratterizzarsi soprattutto
come controutopia? Con la scoperta, vissuta nell’immaginario collettivo
proprio con l’affermarsi delle controutopie, della controfinalità della
ragione, non sono solo singoli errori o rischi di pervertimento che ven-
gono esperiti e segnalati; è lo stesso meccanismo della razionalizzazione
che viene «sospeso», messo in crisi e globalmente sotto accusa. Non
appare più casuale, così, che la controutopia si affermi in un’epoca in
cui, a livello di coscienza comune, si registra una dissoluzione dell’i-
deologia del progresso (anch’essa, certo, motivata dalle esperienze di
«controfinalità» che motivano la controutopia; ma non solo: il progresso
non ha più senso, come dogma di filosofia della storia, perché è la
storia stessa come corso lineare unitario che non è più pensabile, se
non a prezzo di una grave violenza ideologica: (si ricordino le Tesi sulla

2
Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel [1949], trad. it. a cura di R. Bodei, Bologna,
il Mulino, 1975, spec. pp. 495 e segg.

61

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filosofia della storia di Benjamin, e anche, di Bloch, le Differenziazioni
nel concetto di progresso)3; e mentre la filosofia, dapprima in Nietzsche,
poi in Heidegger, ma anche in fondo in un pensatore meno «aurati-
co», come Adorno (con il suo insistere su come tutto è cambiato, per
l’uomo e il suo pensiero, «dopo Auschwitz»), si sente testimone di un
momento di svolta epocale dell’umanità. La scoperta della controfinalità
della ragione – e su ciò sono d’accordo filosofi diversi come Adorno
e Heidegger – è il sigillo di questa svolta epocale. Non è più solo la
possibilità che un singolo meccanismo inventato dalla tecnica, o anche
un intero sistema di macchine, si rivolti – come i robot della fantasia
espressionista – contro l’uomo. La controfinalità della ragione consiste
nel fatto che, proprio realizzandosi «rettamente», secondo i piani, la
ragione si rovescia contro le finalità, di emancipazione e «umanizza-
zione», che la muovevano. A questa scoperta, ovviamente, non si può
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rispondere con un altro passo sulla via di una più piena e autentica
razionalizzazione, giacché è proprio questo meccanismo che si è svelato
nella sua vocazione perversa. Adorno e Horkheimer, nella Dialettica
dell’illuminismo, implicavano che fosse possibile correggere, per così
dire, il pervertimento della ragione attraverso la «critica della ragione
strumentale»; la ragione si era pervertita, cioè, dando luogo al mondo
totalmente amministrato, alla manipolazione delle coscienze ecc., perché
aveva preso come modello della razionalizzazione la ragione scientifica,
oggettivante, misurante. Questo prevalere della razionalità oggettivante,
calcolante, strumentale, era legato, nella prospettiva adorniana, che si
richiamava a tesi weberiane, all’imporsi dell’ordine capitalistico nella
società. Si poteva sperare, insomma, che una emancipazione della società
dal capitalismo avrebbe anche condotto a una visione e un esercizio
meno unilateralmente calcolante e strumentale della ragione, aprendo
la via a una razionalizzazione diversa, capace di ricuperare un senso
liberatorio. Gli sviluppi del pensiero di Adorno successivi all’opera del
1947, tuttavia, hanno camminato piuttosto nella direzione di quell’u-
topismo critico-negativo a cui abbiamo già accennato; sempre meno
realistica è apparsa la speranza in una emancipazione della ragione
dalla sua «figura» storica moderna, che mescola disciplinamento so-
ciale, repressione, oggettivazione calcolante, applicazioni tecnologiche

3
Le Tesi sono tradotte in italiano in W. Benjamin, Angelus Novus, a cura di R. Solmi,
Torino, Einaudi,1962; il saggio di Bloch, che è una conferenza del 1955, è tradotto in
italiano nella raccolta Dialettica e speranza, a cura di L. Sichirollo, Firenze, Vallecchi,
1967. Su questi temi, si veda anche il mio saggio Il tempo nella filosofia del Novecento,
in Il mondo contemporaneo, a cura di N. Tranfaglia, Firenze, La Nuova Italia, 1983,
vol. X/2.

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della scienza; e sempre più, invece, il telos utopico è apparso come
affermabile solo in termini negativi.
Verso dove indica, dunque, la consapevolezza, sempre più chiara-
mente presente nella filosofia contemporanea, della svelata controfinalità
della ragione? E le vicende dell’immaginazione utopica, dal canto loro,
danno qualche indicazione circa la via che il pensiero può intrapren-
dere una volta preso atto che il meccanismo lineare, progressista,
della razionalizzazione si è inceppato, avviluppandosi in una radicale
autocontraddizione?
Circa quest’ultimo punto, è l’utopia cinematografica di questi ultimi
anni che fornisce un interessante materiale di riflessione.
Blade Runner, un famoso film di Ridley Scott, uscito nel 1983, è
considerato universalmente come il modello di tutto un filone cinema-
tografico (che, del resto, ha cominciato ad esistere già prima di questo
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film, ad esempio in opere come 1997 Fuga da New York, o le varie


epopee dei sopravvissuti, inaugurate dall’ultima, indimenticabile scena
de Il pianeta delle scimmie) in cui, a partire dalla scenografia e dai
ritmi dell’azione, il futuro appare sotto la luce delle rovine. Quel che
resta impresso di Blade Runner, molto più che la vicenda stessa (la
caccia ai «replicanti», dei robot con sembianza umana che si ribellano
alla «scadenza» fissata dai loro costruttori) è l’immagine di una città
(Los Angeles?) che ha tutti i tratti architettonici di un enorme parco
archeologico di edifici del ventesimo secolo; si è parlato, a ragione, di
una immaginazione scenografica post-moderna. Questa scenografia di
rovine, come appare più esplicitamente in altri film, è giustificata dal
fatto che le vicende raccontate, spesso banali e di una violenza molto
«tradizionale», si immaginano collocate in un momento in cui l’apo-
calisse atomica è già avvenuta. Si può parlare di un vero e proprio
filone post-apocalittico della utopia cinematografica contemporanea.
Che si tratti di utopia, non pare dubbio; non solo per il motivo bana-
le che sono vicende collocate nel futuro, e in un futuro che si pensa
determinato dalla estremizzazione di quegli elementi di progresso
tecnico e scientifico che caratterizzano la nostra vita attuale. Si tratta
di utopie anche e soprattutto perché, paradossalmente, la condizione
post-apocalittica che tali opere descrivono è una condizione a suo
modo felice; almeno nel senso che la catastrofe atomica, che incombe
su di noi come una minaccia costante, lì si immagina già avvenuta, e
per i sopravvissuti ciò costituisce comunque una forma di liberazione.
Un senso – sia pure, sempre, paradossale – di liberazione riveste anche
la presa di distanza, che nel genere post-apocalittico si verifica, dalla
tecnologia e dai suoi prodotti. È un distacco non necessariamente
motivato in termini esplicitamente etico-razionali, che si giustifiche-

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rebbe in modo abbastanza ovvio per il fatto che, si immagina, la cata-
strofe che sta alle spalle dei sopravvissuti è stata per l’appunto prodot-
ta con l’ausilio di quegli apparati tecnici che costituivano il mondo
della razionalizzazione. La presa di distanza da tutti gli apparati della
tecnologia, che ancora ci sono e che funzionano male, nella generale
situazione di rovina in cui il mondo apocalittico si trova, risulta piut-
tosto caratterizzata in senso ironico, come accadeva in certe sequenze
de Il dormiglione di Woody Allen (che però non appartiene, probabil-
mente, al genere post-apocalittico). Per tutti questi caratteri – apoca-
lisse già accaduta, rovine del mondo «progredito», presa di distanza
ironico-nostalgica da quel mondo, che è anche, spesso, un distacco dai
suoi ritmi, con un generale rallentamento dell’azione – la controutopia
che proponiamo di chiamare post-apocalittica si avvicina anche, per
connessioni non superficiali, ai contenuti già non «progressisti» di
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utopie precedenti, attestate non tanto nella letteratura e nella teoria,


quanto nella pratica di gruppi contestativi dei tardi anni Sessanta. I
«figli dei fiori» dei campus californiani, mossi dalla volontà di realiz-
zare una forma di vita vicina alla natura, ecologicamente equilibrata,
non repressa ma anche, inscindibilmente, non aggressiva e soprattutto
sottratta ai miti della produzione attraverso una implicita scelta per la
«crescita zero», mostrano atteggiamenti che, nella sostanza, si ritrova-
no spesso nel filone post-apocalittico; il quale rappresenta una sorta
di forzato ritorno alla condizione «naturale», che però non è né un
nuovo paradiso terrestre originario, né una pura e semplice ricaduta
nella barbarie; il ritorno alla natura, qui, porta invece con sé le tracce,
coltivate con nostalgia ironica, del «progresso» compiuto e finito. Si
direbbe che la catastrofe atomica che, in questo tipo di utopia, ha
«fermato» il corso, una volta considerato inarrestabile, del «progresso»,
sia la condizione per l’attuarsi di un atteggiamento inventariale, che
finisce per assumere nei confronti della massa di oggetti prodotti dal
mondo tecnologico avanzato una posizione contemplativa, del tipo di
quella descritta da Schopenhauer come contemplazione estetica delle
idee. Vale la pena cercare di descrivere lo stato d’animo che si delinea
nelle situazioni a cui ci mettono di fronte questi film, perché proba-
bilmente esso dice più di molte teorie circa la condizione «post-isto-
rica» (l’espressione, come si sa, è di Arnold Gehlen)4 che sembra
propria dell’uomo di oggi. In definitiva, il significato delle controuto-
pie post-apocalittiche è quello di figurare un’esistenza non più storica,

4
Cfr. A. Gehlen, Die Säkularisierung des Fortschritts, in Einblicke (vol. VII della
Gesamtausgabe delle opere, a cura di K. S. Rehberg), Frankfurt, Klostermann, 1978.

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ma non nel senso del ritorno alla natura felice di certe fantasie utopi-
che del passato; bensì nel senso, più rigorosamente conforme alla vi-
cenda dell’utopia nella mentalità moderna, di rappresentare un com-
pimento, un passaggio a una condizione estrema, fondata sulla realiz-
zazione piena di ciò che, per ora, si delinea come la nostra (unica)
possibilità. L’inventario ironico-nostalgico dei feticci del progresso è
forse l’unica «utopia» ancora possibile, l’unica condizione futura im-
maginabile e, in una certa misura, desiderabile, per l’uomo della tarda
modernità che ha visto consumarsi sotto i propri occhi le speranze
nella razionalizzazione, nella Aufklärung sempre più completa, del
mondo. La difficoltà che si incontra a descrivere questa condizione
ancora come un’utopia – ad esempio, nel decidere se si tratti di quel
misto di previsione e anticipazione ottativa, desiderante, che l’utopia
era nel passato – dipende tutta dal fatto che qui, appunto, siamo nel-
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la situazione in cui una «utopia» si delinea, per la prima volta dopo il


compimento della storia della metafisica e della sua volontà di sistema,
fuori da ogni prospettiva di temporalità lineare e dunque potenzial-
mente progressiva. Non solo, alla fine della metafisica e della fede nel
progresso, l’utopia non può avere per contenuto altro che l’inventario,
la nostalgia, il revival, ma anche dal punto di vista del valore emotivo,
questa condizione non può più apparire come un «compimento», il
raggiungimento (corrispondente dunque a un corso di eventi, a una
tensione attiva che trova la sua soddisfazione) di una condizione desi-
derabile, o comunque finale nel senso teleologico della parola. L’uomo
della post-istoria non guarda più al corso del mondo con quella ten-
sione, di speranza o di paura, che caratterizzava l’umanità dominata
da un’esperienza lineare del tempo. Da questo punto di vista, forse,
un’altra lezione può venire, per la lettura del significato dell’utopia
post-apocalittica, dalla Dialettica dell’illuminismo adorniana. La ripre-
sa e la trasformazione che subisce la nozione di dialettica in Adorno,
fino a diventare, come si sa, «dialettica negativa», non è determinata
principalmente da motivi di tipo logico e sistematico; la dialettica,
nella sua forma hegeliana, non è abbandonata perché contraddittoria
o comunque concettualmente insoddisfacente. L’unica ragione che ha
Adorno per pensare che, contrariamente a quanto ha creduto Hegel,
non «il vero è il tutto», ma anzi «il tutto è il falso», è che, nel secolo
e mezzo che ci separa da Hegel, il tutto è diventato reale; la totalizza-
zione razionale del mondo, almeno in linea di principio, si è realizza-
ta. Qui, ancora una volta, Adorno è più vicino a Heidegger di quanto
non voglia pensare: l’organizzazione totale del mondo, il dominio di
una razionalità strumentale sempre più perfezionata e capace di disci-
plinare la società senza apprezzabili residui, è per l’appunto quello che

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Heidegger ha descritto come il compimento della metafisica. Adorno,
come abbiamo visto, sperava ancora che si potesse dare una correzio-
ne dell’appiattimento della ragione sulla sua configurazione strumen-
tale e di dominio, e che mediante una trasformazione complessiva
della società, la razionalizzazione potesse conoscere un nuovo destino
di emancipazione. Ma questa convinzione lasciò sempre più esplicita-
mente il posto, in lui, al negativizzarsi dell’utopia; e, in sostanza, alla
rinucia ad ogni filosofia della storia. Nell’idea che il tutto è il falso
proprio in quanto si è realizzato, però, c’è, embrionalmente, una nuo-
va filosofia della storia. Essa sarebbe caratterizzata dal sostituire, al
modello lineare (in salita o in discesa, in senso progressivo o regressi-
vo) proprio della visione ebraico-cristiana della storia, e al modello
ciclico caratteristico invece della concezione classica del tempo5, un
modello che non si può definire se non ironico-distorsivo, che può
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richiamarsi anche, nella filosofia di oggi, a certi esiti «nichilistici»


dell’ermeneutica6. L’accadere storico, in altri termini, non sarebbe né
progresso, né regresso, né ritorno dell’uguale, ma «interpretazione»
sempre più o meno falsificante di premesse ed eredità provenienti dal
passato. Un tale modello non si applica solo, almeno nella nostra
ipotesi, alle vicende della razionalizzazione della società e allo svelarsi
della controfinalità che le accompagna; sembra più profondamente
radicato in tutta la storia moderna, che non a caso si è presentata
spesso sotto la figura della «secolarizzazione». Questo concetto, la cui
fecondità per la possibile ricostruzione di una filosofia della storia è
ancora da esplorare7, più che al rovesciamento di un ordine sacro non
più accettato, o al lasciarsi alle spalle questo stesso ordine come un
errore ormai riconosciuto e liquidato, allude invece ad un rapporto di
ripresa-mantenimento-distorsione; rapporto che è appunto tipico dei
legami che connettono la civiltà profana moderna alle sue radici
ebraico-cristiane. Secolarizzazione esemplare, da questo punto di vista,
è il rapporto che Max Weber8 stabilisce tra l’etica protestante, e più
in generale il monoteismo ebraico-cristiano, e lo sviluppo del capita-

5
Seguo qui le note tesi di K. Löwith, Significato e fine della storia ([1949], trad. it.
F. Tedeschi Negri, Milano, Comunità, 1963.
6
Su questo, per una più ampia discussione, anche in connessione con la nozione
di Verwindung (ripresa-mantenimento-distorsione) che si trova elaborata in Heidegger,
mi permetto di rimandare al già cit. La fine della modernità.
7
Per un’introduzione alla storia del concetto, cfr. H. Lübbe, La secolarizzazione
[1965], trad. it. P. Pioppi, Bologna, il Mulino, 1970.
8
Cfr. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), in Sociologia della religione
I, a cura di P. Rossi, Milano, Comunità. 1982. vol. I.

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lismo occidentale, cioè, più semplicemente, della stessa modernità. Nel
capitalismo moderno l’etica cristiana non è lasciata indietro come
falsa e inutile; è invece «realizzata», in una forma tuttavia nella quale
i primi discepoli di Gesù difficilmente la riconoscerebbero. È essa che
«spiega» il mondo capitalistico, il quale non può «farne a meno»; e
anzi, la sua presenza storica più effettiva, dunque anche più vera, è
proprio questa, di contro a un mantenersi (ma anch’esso fino a che
punto autentico?) come insieme di precetti sempre meno «verosimili»
perché irrigiditi in forme obsolete, sempre meno applicabili alla vita
così com’è…
Nella sua forma, per ora solo accennata, di utopia post-apocalittica,
l’immaginazione utopica di questi ultimi anni sembra ritrovare, al di là
della scoperta della controfinalità della ragione, una possibilità, sia pur
paradossale, di proiettarsi sul «futuro». Un futuro sui generis, se deve
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ridefinirsi nel quadro di una concezione non più lineare né circolare,


ma ironico-ermeneutico-distorsiva, della storia, che, anche con l’aiuto
dell’immaginazione utopica, la filosofia e la cultura si avvicinano appena
ora ad esplorare.

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parte seconda
Ermeneutica ed etica
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6. LA CRISI DELLA SOGGETTIVITÀ
DA NIETZSCHE A HEIDEGGER

1. Nietzsche, Heidegger e la post-modernità

L’ipotesi da cui qui si parte è che, nella questione della soggettività,


vi sia una sostanziale continuità teorica tra Nietzsche e Heidegger;
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che essi, in qualche modo non generico, dicano «la stessa cosa»; e
che riconoscere questa stessa cosa significhi non solo evidenziare vi-
cinanze e analogie di percorsi concettuali, ma inserire tali vicinanze e
analogie entro un orizzonte epocale, considerandole modi di svelarsi
di un destino che concerne la (nostra) soggettività nell’epoca attuale.
Come si vede, si tratta di una serie di premesse niente affatto «neutrali»
e descrittive; se questo è vero per ogni ricerca filosofica, anche la più
programmaticamente limitata all’accertamento e narrazione di «dati»,
vale in modo del tutto speciale per due pensatori come Nietzsche e
Heidegger, che (certo in modo analogo a Hegel, ma anche con una
differenza di fondo, quanto al tono niente affatto trionfalistico, bensì
critico-decostruttivo, del loro discorso) si sono sentiti e presentati come
pensatori «epocali», esponenti di un pensiero la cui «verità» è anche
e soprattutto la verità di un’epoca.
La tesi di una sostanziale continuità teorica tra Nietzsche e Heidegger
non è affatto ovvia, se solo si pensa che Heidegger stesso, anzitutto,
considera Nietzsche il culmine della metafisica e del nichilismo che
ad essa è inerente, mentre pensa il proprio compito proprio come
quello di andare oltre la metafisica e il nichilismo, secondo una linea
di radicale discontinuità, dunque, con la tradizione che culmina in
Nietzsche. E vero che, negli stessi testi di Heidegger dedicati a questi
problemi (e cioè, in certo senso, tutti i testi dello Heidegger maturo),
il rapporto del pensiero ultra o post-metafisico con il nichilismo del-
la metafisica compiuta non è così schematico, e presenta numerosi
problemi interpretativi; ciò non toglie però che continui a fare un
certo scandalo parlare di uno Heidegger nichilista, mentre è pacifico
che questo attributo si applica a Nietzsche. Ora, senza sviluppare qui

71

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specificamente questo discorso (del resto condotto altrove1), è proprio
la chiarificazione delle ambiguità del rapporto Heidegger-Nietzsche
nel senso di un riconoscimento della sostanziale continuità, del loro
dire la stessa cosa (cioè il nichilismo), quel che appare oggi il compito
della filosofia, uno dei suoi compiti teoricamente decisivi, e non solo
un tema di ricerca storiografica.
Se, come abbiamo accennato, questa continuità non è solo un dato
che può esser fatto emergere dai testi dei due filosofi, ma anche e so-
prattutto il risultato di una attenzione rivolta al loro significato epocale,
è chiaro che per questo secondo aspetto non possiamo che richiamar-
ci – in modo ermeneuticamente corretto – a una «pre-comprensione»
condivisa circa i caratteri salienti dell’epoca che viviamo. Questa pre-
comprensione è del resto ciò di cui è sempre vissuta la filosofia nel
suo appellarsi all’«esperienza», la quale mai è stata ciò che una visione
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schematica e caricaturale dell’empirismo ha creduto, cioè l’imprimersi


di segni e tracce sulla tabula rasa della mente, ma, per l’appunto, espe-
rienza storicamente qualificata, «conoscenza del mondo», familiarità
con aspettative, memorie, linguaggi. Oltre che sui testi dei due filosofi,
dunque, la tesi della continuità tra Nietzsche e Heidegger si fonda sulla
nostra pre-comprensione del significato della nostra esistenza storica
nell’epoca attuale; riflettere su questa continuità significa, nello stesso
tempo, «attivare» e approfondire questa pre-comprensione, certo vaga
e indeterminata, ma non per questo meno orientante e reggente ogni
nostro tentativo di pensiero.
È ovvio che tale precomprensione reggente, l’orizzonte della nostra
esperienza, non può che rimanere largamente implicita; ma è impor-
tante ricordarne la presenza e la portata. Essa, del resto, si dà anche
a riconoscere attraverso segni e «sintomi» molteplici. Per esempio:
l’orizzonte teorico, e insieme esperienziale-epocale, entro cui possia-
mo parlare di una continuità Nietzsche-Heidegger, con il corollario
di un «nichilismo» heideggeriano, è quello definito dall’ermeneutica
come koiné filosofica della nostra epoca. Cioè: benché non si possa
esplicitare esaustivamente e una volta per tutte il contenuto di quella
precomprensione del mondo attuale e della nostra esperienza in esso,
che fa da sfondo al riconoscimento della continuità tra Heidegger e
Nietzsche, possiamo cogliere alcuni tratti salienti di essa in fenomeni
un po’ meno imprecisamente descrivibili; uno di essi è il fatto, credo
facilmente documentabile, che c’è nella cultura attuale, diciamo a partire

1
Si vedano soprattutto i più citati Le avventure della differenza, Al di là del soggetto,
La fine della modernità.

72

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dalla metà degli anni Settanta, una presenza pervasiva dell’ermeneutica:
cioè, di una filosofia centrata intorno al problema dell’interpretazione,
che si richiama a Schleiermacher, Dilthey, Nietzsche, Heidegger, e
che è sviluppata oggi in direzioni diverse ma con molti tratti comuni
da filosofi come Gadamer, Pareyson, Ricoeur, Jauss, e come Richard
Rorty, che vi apporta l’essenziale contributo di un esplicito richiamo
al pragmatismo. L’ermeneutica intesa in questo senso vasto compren-
de anche posizioni filosofiche meno strettamente riconducibili al suo
filone principale, ma profondamente connesse con quello: Karl Otto
Apel e l’ultimo Habermas, Foucault, Derrida; e soprattutto, costituisce
non solo un ambito di elaborazioni teoriche, ma lo sfondo dell’auto-
coscienza metodologica di molta critica letteraria e artistica, di molto
lavoro della storia, della psicologia, delle scienze sociali. Ciò che negli
anni Cinquanta-Sessanta è stato per il pensiero europeo il marxismo2
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e negli anni Sessanta-Settanta lo strutturalismo, è oggi, con modalità


e implicazioni diverse, l’ermeneutica.
Se è così, come a me pare – ma anche questo deve rimanere qui
solo accennato – siamo di fronte a una manifestazione caratteristica
di quella «atmosfera» culturale nella quale diventa possibile capire la
continuità Nietzsche-Heidegger. L’ermeneutica, infatti, in questo senso
insieme vago e pervasivo, unifica di fatto l’eredità teorica di Nietzsche
e di Heidegger, ben al di là delle tesi interpretative di Heidegger
lettore di Nietzsche. Io sostengo che questa unificazione non è frutto
di un equivoco storiografico, di una confusione superficiale o di una
eccessiva «urbanizzazione» (secondo l’espressione di Habermas riferita
a Gadamer3) sia di Heidegger sia di Nietzsche, ma di una tendenza
profonda della nostra cultura; in altre parole: è un fatto della nostra
esperienza, con il quale la meditazione filosofica deve fare i conti e che
deve «salvare», secondo l’imperativo di «salvare i fenomeni» che vige
per essa fin dalla sua storia più antica.
È probabile che il riconoscimento della sostanziale continuità tra
Nietzsche e Heidegger costituisca anche il tratto decisivo di ciò che
chiamiamo post-modernità in filosofia. Questa continuità, infatti, come
verrà in chiaro in ciò che segue, indica nella direzione di una dissoluzio-
ne non solo della soggettività «moderna» dell’uomo, ma anche, più in
generale, nella direzione di una dissoluzione dell’essere stesso (non più

2
Sartre descrisse emblematicamente questa posizione egemone del marxismo in
alcune pagine della «Questione di metodo» premessa alla Critica della ragione dialet-
tica [1960], trad. it. P. Caruso, Milano, il Saggiatore, 1963, vol. I, spec. pp. 76 e segg.
3
Cfr. J. Habermas, H.G. Gadamer, Das Erbe Hegels, Frankfurt, Suhrkamp, 1979,
pp. 9-51.

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struttura ma evento, che non si dà più come principio e fondamento,
ma come annuncio e «racconto»), che sembra il senso stesso dell’alleg-
gerimento della realtà che accade nelle nuove condizioni di esistenza
determinate dalle trasformazioni della tecnologia, e che globalmente
si possono indicare come caratteristiche della post-modernità4.

2. Dallo smascheramento del soggetto al nichilismo

Nel quadro di questa più generale continuità Nietzsche-Heidegger,


mi propongo ora di isolare il significato di ciò che si indica come la
«crisi della soggettività». I tratti di questa crisi, che – come ho già ri-
cordato – non toccano solo la nozione di soggetto, ma accompagnano
(esprimono; codeterminano) una crisi della soggettività nell’epoca in cui
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Nietzsche e Heidegger pensano, si presentano secondo linee analoghe


nei loro testi; con differenze, tuttavia, che saranno da riportare, nella
ipotesi qui presentata, al compiersi (in Heidegger) del passaggio alla
postmodernità, che in Nietzsche rimane solo annunciato e avviato.
In Nietzsche5, la crisi della soggettività si annuncia anzitutto come
smascheramento della superficialità della coscienza. Questo è uno
dei sensi, anche se ancora largamente impliciti in quell’opera, della
distinzione tra apollineo e dionisiaco elaborata nella Nascita della tra-
gedia. Socrate, che è il campione dell’apollineo – della forma definita,
della razionalità – separato e sradicato dal suo rapporto costitutivo
con il dionisiaco – il mondo della vita immediata, delle pulsioni,
della vicenda inarrestabile di nascere e morire –, è anche il campione
dell’autocoscienza, giacché così si può definire anche il suo «sapere di
non sapere». Ma appunto nella misura in cui si assolutizza e si distacca
dalle sue radici dionisiache – mitiche, irrazionali, vitali – e si prefigge
il compito di una Aufklärung totale, la razionalità apollinea perde ogni
vitalità, diventa decadenza.
Il criterio in base a cui La nascita della tragedia condanna il socra-
tismo non è quello della verità, ma quello della vita: il che significa
che l’autocoscienza di Socrate non è «criticata» e smentita come non
vera, ma come non vitale. Si annunciano in questo molteplici decisivi
sviluppi dell’ulteriore processo nietzscheano di smascheramento delle

4
Ho sviluppato questo tema specialmente nella introduzione della Fine della mo-
dernità cit.
5
Mi limito qui a pochi cenni. Per analisi più approfondite, si vedano i miei studi su
Nietzsche: Il soggetto e la maschera, Milano, Bompiani, 19832; Introduzione a Nietzsche,
Bari, Laterza, 1985.

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forme definite, dei valori, della stessa nozione di verità. Il fatto è che
il «sospetto» nei confronti della soggettività autocosciente è bensì, da
una parte, ispirato dalla scoperta che le forme definite e stabili di cui
essa vive sono «false», sono apparenze sublimanti prodotte in fun-
zione consolatoria; non però in quanto tali esse vengono smascherate
e condannate, bensì solo nella misura in cui, come nel razionalismo
«illuministico» socratico, vogliono diventare verità, sottrarsi al rappor-
to di funzionalità consolatoria e mascherante che le lega alla vita, al
dionisiaco. La complessità di questa prospettiva si ritroverà, tradotta
in termini diversi, nello sviluppo successivo del pensiero di Nietzsche;
ma già come si presenta nella Nascita della tragedia, essa indica che
Nietzsche non potrà fermarsi a una posizione di puro smascheramento
della superficialità, non verità, della coscienza e del soggetto, ma dovrà
andare oltre, nella direzione del nichilismo e della dissoluzione della
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stessa nozione di verità e di essere.


Nelle opere successive a La nascita della tragedia, a partire dalle
Considerazioni inattuali e da Umano, troppo umano, lo smascheramento
della superficialità del soggetto autocosciente andrà sempre più espli-
citamente di pari passo con lo smascheramento della nozione di verità
e con la più generale dissoluzione dell’essere come fondamento; tanto
che si può dire che l’espressione compiuta della crisi della soggettività
in Nietzsche è l’annuncio della «morte di Dio» che verrà formulato
per la prima volta nella Gaia scienza, ma che riassume in un enunciato
emblematico tutto il percorso che Nietzsche fa già a partire dalle prime
opere successive al giovanile scritto sulla tragedia.
Da un lato, in queste opere, Nietzsche prosegue e radicalizza lo
smascheramento della superficialità dell’io, soprattutto attraverso il
riconoscimento del gioco di forze dei rapporti sociali, e specialmente dei
rapporti di dominio. L’inedito Su verità e menzogna in senso extramorale
mostra il costituirsi del mondo della verità e della logica sulla base
dell’«obbligo di mentire secondo regole» socialmente fissate, secondo
un sistema di metafore accettato e imposto dalla società, mentre tutti
gli altri sistemi metaforici in cui si esprime la creatività dei singoli, se
anche non sono ricacciati senz’altro nell’inconscio, sono degradati a
«finzioni poetiche». Umano, troppo umano condurrà tutta la sua critica
della conoscenza su basi analoghe, insistendo però anche sul fatto che
ciò di cui facciamo esperienza cosciente è quello per cui abbiamo un
linguaggio, nomi e possibilità di descrizione nella lingua socialmente
convenuta e imposta. Il mondo della coscienza tende dunque a confi-
gurarsi sempre più come mondo della consapevolezza condivisa, anzi
prodotta dalla società in noi attraverso i condizionamenti imposti dal
linguaggio. Non solo, però, i contenuti della nostra coscienza che riguar-

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dano il mondo fenomenico sono «finzioni» regolate dalle convenzioni
sociali; anche l’immagine che l’io si fa di sé, dunque l’autocoscienza
nel senso più proprio, è in realtà solo l’immagine di noi stessi che gli
altri ci trasmettono (e che noi adottiamo anche per ragioni di sicurezza:
per difenderci dobbiamo infatti introiettare il modo in cui gli altri ci
vedono, calcolare con esso; e più in generale, nella lotta per la vita uno
strumento decisivo è il mimetismo)6. Quello che crediamo egoismo,
dunque, è in realtà un «egoismo apparente», come suona il titolo di
un aforisma di Aurora: «La maggior parte degli uomini, qualunque
cosa possano ognora pensare e dire del loro ‘egoismo’, ciononostante,
in tutta la loro vita, non fanno nulla per il loro ego, bensì soltanto per
il fantasma dell’ago che si è formato, su di essi, nella testa di chi sta
intorno a loro e che si è loro trasmesso… Vivono tutti insieme in una
nebbia di opinioni impersonali e semipersonali… Tutti questi uomini
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sconosciuti a se stessi credono nell’esangue entità astratta ‘uomo’,


che è appunto solo il risultato di queste opinioni impersonali, diffuse
e avvolgenti, che si sviluppano e vivono in maniera autonoma dai
singoli» (Aurora, af. 105). Il carattere di «fantasma sociale» dell’io ha
radici insieme «linguistiche» (l’obbligo, per comunicare, di mentire
secondo un sistema di menzogne, o metafore, socialmente accettato)
e «disciplinari»: è la necessità di comunicare i nostri bisogni agli altri
che ci obbliga a conoscerli in maniera sistematica, a descriverli in modo
comprensibile, e dunque a superficializzarli; ma tutte queste esigenze
sembrano culminare in quella del rapporto «tra chi comanda e chi
ubbidisce», rapporto che, soprattutto, richiede l’autocoscienza7.
Se però, da un lato, la critica della superficialità della coscienza, e
dunque del soggetto nella sua definizione metafisica più classica, si
svolge nel senso dello smascheramento della sua pretesa immediatezza
e «ultimità», riportata a un gioco di forze che il soggetto non controlla
ma di cui è risultato ed espressione, d’altro lato, come già appariva dal
gioco di apollineo e dionisiaco della Nascita della tragedia, Nietzsche
prosegue anche sulla via del riconoscimento sempre più esplicito della
«necessità dell’errore» (cfr. Umano, troppo umano, tutta la parte I),
che ha una sua espressione emblematica nell’aforisma 361 della Gaia
scienza, «Del problema del commediante», dove è delineata tutta

6
Cfr. Aurora, 26. Le opere di Nietzsche vengono citate con il titolo e il numero
dell’aforisma, o con il numero o il titolo del capitolo; e la traduzione a cui ci si riferisce
è quella della edizione delle Opere a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Mila-
no, 1965 e segg. Gli appunti postumi sono citati nella stessa edizione, con il numero
dell’appunto, il volume e la pagina.
7
Per tutto ciò, cfr. La gaia scienza, 354.

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una filosofia della cultura come produzione di «menzogne», sistemi
di concetti e valori che non hanno alcuna possibile «legittimazione»
in una corrispondenza alla natura vera delle cose, ma che nascono e
si moltiplicano solo dal manifestarsi di una capacità di mentire e di
mascherarsi la quale, nata in origine come strumento di difesa e di
sopravvivenza, si autonomizza e si sviluppa al di là di ogni possibile
funzionalità vitale – sicché la menzogna, la metafora, l’inventività della
cultura creatrice di mondi apparenti non ha alcuna possibilità di le-
gittimarsi fondativamente neanche in una prospettiva di pragmatismo
vitalistico. La scoperta della menzogna, o del «sogno» (come dice
l’aforisma 54 della Gaia scienza) non significa che si possa finire di
mentire e di sognare, ma solo che si deve continuare a sognare sapendo
di sognare – solo così si può non perire.
La circolarità vertiginosa della conclusione dell’aforisma 54 della
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Gaia scienza indica in tutta la loro portata i termini della «crisi della
soggettività» così come Nietzsche la scopre e la vive: la superficialità
della coscienza, una volta smascherata, non è la via verso una nuova,
più sicura fondazione; la non-ultimità della coscienza, invece, significa
la fine di ogni ultimità, l’impossibilità, ormai, di pensare in termini di
fondamento, e dunque un generale riaggiustamento nella nozione della
verità e in quella di essere. Questo ampliamento del discorso sma-
scherante ai suoi termini ontologici più vasti e radicali è il senso delle
opere dell’ultimo periodo di Nietzsche, da Zarathustra in avanti; è il
periodo segnato dalla scoperta dell’idea dell’eterno ritorno dell’uguale,
del nichilismo, della volontà di potenza e dell’oltreuomo; tutti termini
che definiscono, più che una filosofia positiva di Nietzsche, il suo sforzo
di realizzare una ontologia dopo la fine del pensiero fondativo, dopo
la «morte di Dio», sforzo che rimane largamente problematico. Per
ciò che riguarda la soggettività, il termine con cui Nietzsche definisce
la sua visione di una umanità non più «soggetta» (nei numerosi sensi,
tra loro profondamente collegati, che ha questa parola: dalla sogget-
tività all’assoggettamento, principalmente) è quello di Übermensch,
superuomo o, meglio, oltreuomo8.
La difficoltà, con la nozione di oltreuomo, consiste nel fatto che la
sua lettura più ovvia sembra ricondurci nell’ambito della soggettività
metafisica (autocoscienza, autodominio, volontà di potenza affermata
contro gli altri), e per giunta di una soggettività potenziata proprio nei
suoi caratteri più tradizionali. Ma nella filosofia dell’eterno ritorno,

8
Ho spiegato più ampiamente le ragioni della scelta di questo termine in Il soggetto
e la maschera cit.

77

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nella quale «non ci sono fatti, solo interpretazioni»9, anche l’idea che,
allora, ci siano solo i soggetti interpretanti è «solo un’interpretazione».
« ‘Tutto è soggettivo’, dite voi: ma già è un’interpretazione, il ‘soggetto’,
non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione,
di appiccicato dopo. E infine necessario mettere ancora l’interprete
dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi»10. Se non
è facile dire chi o che cosa l’oltreuomo sia, è certo, almeno, che esso
non è una forma potenziata di soggettività metafisica e della volontà.
Anche la volontà, che pure, almeno come termine, ha una parte così
centrale nell’ultimo Nietzsche, è presa nel gioco di negazione e sfon-
damento per il quale tutto è interpretazione, anche questa tesi stessa.
Ciò che, in questo quadro, sembra caratterizzare positivamente, ma
molto problematicamente, l’uomo non più soggetto, è la sua capacità
di negare anche se stesso come soggetto, di andare oltre ogni esigen-
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za di autoconservazione, nella direzione di una sperimentalità senza


limiti, che ricorda il disinteresse estetico kantiano nella sua versione
schopenhaueriana, ulteriormente estremizzata11.
L’ascetismo e tutti i complessi giochi crudeli che l’uomo metafisico
e morale è stato capace di giocare con se stesso, e che oggi si svilup-
pano solo ulteriormente con la spensierata hybris dei tecnici e degli
ingegneri12, attestano che, con l’uomo, si è presentato sulla terra un
fenomeno del tutto inedito, un animale capace di rivolgersi contro se
stesso, contro gli interessi della propria conservazione; «qualcosa di
tanto nuovo, profondo, inaudito, enigmatico, colmo di contraddizioni
e colmo di avvenire, che l’aspetto della terra ne fu sostanzialmente
trasformato»13. La capacità di sperimentazione al di là degli interessi
della conservazione si attua bensì, secondo Nietzsche, nella spensierata
inventiva dei tecnici e degli ingegneri – il che fa pensare che la scienza
e la tecnica abbiano un ruolo decisivo nella definizione della nuova
posizione dell’uomo, non più soggetto, nel mondo; ma si tratta di pochi
cenni. La figura esemplare dell’oltreuomo rimane fondamentalmente,
per Nietzsche, quella dell’artista; e le vie «ultraumane» che egli de-
linea per l’arte nei suoi ultimi scritti sembrano alludere alle due vie
principali percorse dall’avanguardia nel novecento: lo sperimentalismo

Cfr. l’appunto 7 [60], in Opere, ed. cit., vol. VIII, tomo 1, p. 299.
9

Ibid., e cfr. anche Al di là del bene e del male, 22.


10

11
Su questo punto, si veda specialmente il paragrafo conclusivo della cit. Introdu-
zione a Nietzsche.
12
Cfr. Genealogia della morale, III, «Che significano gli ideali ascetici?», cap. 9.
13
Ivi, II, «Colpa, cattiva coscienza e simili», cap. 16.

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tecnicistico più radicale, la volontà di forma, da un lato; e dall’altro la
dissoluzione di ogni dominio della forma in nome di un’arte non più
assoggettata a ideali costruttivi, ma piuttosto avviata a percorrere fino
in fondo l’esperienza della destrutturazione, della fine di ogni gerarchia,
nei prodotti come nel «soggetto» artista o fruitore.
La problematicità aperta in cui rimane, nell’opera di Nietzsche, la
figura dell’oltreuomo non indica solo, o principalmente, una incon-
cludenza teorica o un’aporia che caratterizzi il suo pensiero; nel suo
allargarsi a discorso ontologico generale, che guarda verso una dissolu-
zione dell’essere inteso come fondamento, questa problematicità allude
all’impossibilità di ridefinire la soggettività con una semplice decisione
teorica, con una «chiarificazione» di concetti e una presa d’atto di
errori. La metafisica, dirà Heidegger, non è semplicemente un errore
di cui possiamo liberarci, una opinione di cui abbiamo riconosciuto la
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falsità e che mettiamo da parte 14. Così, l’insostenibilità della nozione


di soggettività registra e manifesta una insostenibilità della soggettività
stessa nel mondo, nella presente epoca dell’essere; e non può trovare una
pacificante risoluzione teorica, ad opera di qualche pensatore geniale.
L’itinerario che va dallo smascheramento del soggetto metafisico alla
dissoluzione dell’essere come fondamento e al nichilismo, che abbiamo
visto delinearsi nella riflessione nietzscheana sul soggetto, caratterizza
anche, sia pure in termini diversi, la meditazione di Heidegger. Anche
qui procederò per cenni molto larghi, permettendomi di rinviare alle
trattazioni più ampie già date in altri scritti15. Quel che si può chiama-
re, guidati dall’analogia con Nietzsche ma senza alcuna forzatura, lo
«smascheramento» del soggetto nel pensiero heideggeriano è la critica
delle visioni dell’uomo come un Vorhandenes, una «cosa» fra le altre,
solo caratterizzata da attributi specifici (per esempio, come dice lo
scritto sull’umanismo, la definizione metafisica dell’uomo come animale
ragionevole, per genere prossimo e differenza specifica). In Essere e
tempo, l’uomo non è pensabile come soggetto proprio perché questo
farebbe di lui ancora qualcosa di «semplicemente presente»; è invece
Dasein, esserci; e cioè, anzitutto, progettualità. Il soggetto ha ancora
una sostanzialità, pensa Heidegger, che l’esserci come progetto non ha;
l’uomo si definisce non come una determinata sostanza ma come «aver
da essere», apertura sulla possibilità. L’esserci si pensa come soggetto,

Cfr. M. Heidegger. Saggi e discorsi cit., p. 46.


14

Oltre ai volumi citati alla nota 1, si vedano Essere, storia e linguaggio in Heidegger,
15

[1963], 2a ed., Genova, Marietti, 1989; Introduzione a Heidegger, Bari, Laterza, 19854.

79

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cioè come sostanza, solo se e quando si pensa in termini inautentici,
nell’orizzonte del «si» pubblico e quotidiano16.
La «definizione» dell’esserci in termini di progetto invece che in
termini di soggettività, tuttavia, non ha il carattere di uno smaschera-
mento che pervenga a una nuova, più soddisfacente (e rassicurante)
fondazione. Dire che l’esserci è progetto, infatti, apre la questione della
autenticità, centrale per tutto Sein und Zeit, e anche, in termini trasfor-
mati, per il successivo sviluppo del pensiero heideggeriano. Poiché non
può autenticarsi in riferimento ad alcuna sostanzialità preliminarmente
data – per esempio a una «natura», a una essenza ecc. – il progetto si
autentica solo scegliendo la possibilità più propria; non tale in quanto
«appropriata» (legittima in riferimento a una sostanzialità, o struttura, di
base), ma in quanto insieme ineludibile e sempre aperta come possibilità
che, finché l’esserci è, rimane tale. Questa possibilità «più propria» è la
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possibilità incombente della morte. Il progetto che l’esserci è si sceglie


autenticamente solo in quanto si decide anticipatamente per la propria
morte. Heidegger, come è noto, rifiuta di descrivere in termini esistentivi
il significato della decisione anticipatrice; essa non è certo la decisione
di porre fine alla vita con il suicidio, ma non è neppure un «pensare
alla morte» nei termini del monito cristiano sul ritornare polvere17. Il
contenuto che riempie la nozione di decisione anticipatrice della morte
è piuttosto da cercare nelle pagine della seconda sezione di Essere e
tempo (quella stessa che si apre con la problematica dell’essere per la
morte, introdotta dalla questione circa la possibilità di essere un tutto
da parte dell’esserci) dove si tratta del rapporto con l’eredità storica
(specialmente il paragrafo 74) e in quelle dove si parla del rapporto
dell’esserci con gli altri (specialmente il paragrafo 53).
Il senso di queste pagine si può vedere riassunto in un passo di
uno scritto molto più tardo, Der Satz vom Grund18, che non parla
più di autenticità e inautenticità, temi e termini che sono confluiti,
trasformandosi, nella tematica dell’eventualità dell’essere (il passaggio
è comprensibile se si tiene presente la terminologia tedesca: autentico
è eigentlich; evento è Er-eignis; in comune, hanno la radice eigen,
proprio). In questa pagina, ciò che era in Essere e tempo la decisione
anticipatrice della morte diventa il «salto» nell’abisso del «liberante

16
Cfr. Essere e tempo [1927], trad. it. P. Chiodi, Torino, Utet, 19692, spec. i paragrafi
10 e 25.
17
Su tutto questo, oltre alla già cit. Introduzione a Heidegger, cfr. Ugo M. Ugazio, Il
problema della morte nella filosofia di Heidegger, Milano, Mursia, 1976.
18
Der Satz vom Grund, Pfullingen, Neske, 1957.

80

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legame con la tradizione»19. La tradizione di cui parla Der Satz vom
Grund non è quella che Essere e tempo chiama Tradition, caratteriz-
zandola come una accettazione del passato in quanto, insieme, morto e
irrevocabile (dunque tutt’altro che liberante). La Tradition concepisce
il passato come vergangen; ed è il modo in cui si rapporta al passato
l’esistenza inautentica. L’esistenza autentica pensa invece il passato
come gewesen – non come «passato» morto e irrevocabile, ma come
«essente stato», – e la sua tradizione si chiama Ueber-lieferung, con il
termine di radice tedesca (ueber-liefern; tras-mettere). Ora, se si cerca
in Essere e tempo la differenza fra Tradition e Ueberlieferung, fra l’ac-
cettare il passato come vergangen e il tramandarselo come gewesen,
si trova che essa consiste nel fatto che, nel secondo caso, il passato è
accolto nella prospettiva dell’anticipazione decisa della morte. Solo
progettandosi anticipatamente per la propria morte l’esserci è in grado
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di vedere il passato come storia, come eredità di possibilità ancora


aperte, che gli parlano come possibili modelli, ma anche come modelli
(solo) possibili. Il rapporto autentico con l’eredità del passato è aperto
dalla consapevolezza vissuta della propria mortalità, che in tal modo
si mette in condizioni di assumere come solo mortali anche le tracce
e i modelli che le sono stati tramandati; il salto nella Ueberlieferung
è un legame liberante perché toglie all’ordine «dato», cioè ereditato,
in cui il progetto che l’esserci è si trova gettato, ogni perentorietà di
«ordine naturale»; esso è (solo) evento, solo traccia di altre esistenze
possibili-mortali, che l’esserci accetta o respinge come possibilità aperte
ancora per lui20.
Si tratta, come è ovvio, di una tematica che sembra molto lonta-
na da quella di Nietzsche. La vicinanza e il parallelismo che, nella
nostra ipotesi, sussistono tuttavia tra gli itinerari di Nietzsche e di
Heidegger appaiono meno problematici se si pensa che anche qui,
come in Nietzsche, quel che accade nella meditazione sui limiti e
l’insostenibilità della (nozione di) soggettività è la scoperta della
infondatezza dell’essere. È infatti dell’essere stesso che si tratta nel
discorso sull’autenticità possibile dell’esserci, discorso che non a caso,
del resto, nello Heidegger delle opere più tarde lascia il posto a quello
sulla eventualità dell’essere (si veda sopra quanto abbiamo accennato
sulla connessione, anzitutto, ma non solo, terminologica, tra le due
tematiche). La questione dell’autenticità non è un puro problema

Ivi, p. 187.
19

Su tutto ciò, cfr. M. Bonola, Verità e interpretazione nello Heidegger di «Essere e


20

tempo», Torino, Ed. di “Filosofia”, 1983.

81

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«etico» o «psicologico» di quel particolare ente che è l’esserci. Le
cose, gli oggetti, il mondo nel suo insieme, già per Essere e tempo
vengono all’essere, si danno come enti, solo in quanto c’è l’esserci, che
apre l’orizzonte del loro darsi. Dunque non c’è essere fuori, o prima,
o indipendentemente dal progetto gettato che l’esserci è. Che questo
progetto possa attuarsi come autentico solo in quanto si decide per la
propria morte, e ciò nella forma del salto nel liberante legame della
tradizione, cioè nella assunzione dell’eredità storica come gewesen,
possibilità, mortalità essenteci stata – tutto ciò significa, attraverso
passaggi che non si possono ricostruire analiticamente qui, ma che
risultano abbastanza comprensibili a chi pratica i testi dell’ultimo
Heidegger, che l’essere è evento; che l’essere non è, ma accade, si
dà. Questo, però, è appunto quello che si può chiamare, sempre nel
quadro dell’ipotesi che qui ci guida, il «nichilismo» di Heidegger.
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Come nel caso di Nietzsche, anche se attraverso un itinerario più


complesso che, necessariamente, risulta meno chiaro quando lo si
voglia guardare in termini sintetici anche in Heidegger l’insosteni-
bilità della soggettività metafisica si amplia in un generale discorso
ontologico che esperisce lo «sfondamento» dell’essere, mediante la
scoperta del costitutivo rapporto dell’esistenza con la morte. L’esi-
stenza si appropria, diventa autentica (eigen-tlich) solo nella misura
in cui si lascia espropriare, decidendosi per la morte, nell’evento (Er-
eignis) espropriante e traspropriante (ent-eignend e ueber-eignend)
che è l’essere stesso come Ueber-lieferung tramandamento di tracce,
messaggi, forme linguistiche in cui, soltanto, la nostra esperienza del
mondo è resa possibile, e in cui le cose vengono all’essere.
Questo sfondamento nella direzione dell’ontologia, e di una on-
tologia nichilistica – è qui un altro tratto che accomuna Nietzsche e
Heidegger – accade, come già si è accennato, non in conseguenza di
un puro movimento di concetti; ma in relazione a trasformazioni più
generali nelle condizioni di esistenza, che hanno da fare con la tecnica
moderna e la sua razionalizzazione del mondo. In Nietzsche, il filo del
discorso è molto lineare: la morte di Dio significa la fine della credenza
in valori e fondamenti ultimi, perché questa credenza corrispondeva a
un bisogno di rassicurazione proprio di una umanità ancora «primitiva»;
la razionalizzazione e organizzazione del lavoro sociale e lo sviluppo
della scienza-tecnica, che sono stati resi possibili proprio dalla visione
religioso-metafisica del mondo (potremmo qui pensare alla sociologia
della religione di Weber, al rapporto in essa stabilito tra scienza-tecnica
capitalistica e monoteismo ebraico-cristiano) hanno reso superflua questa
credenza, e questo è, anche, il nichilismo. Destino della soggettività,
svelata nella sua infondatezza, e dissoluzione nichilistica dell’essere

82

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si intrecciano così tra di loro e con la storia della razionalizzazione
tecnico-scientifica del mondo. È l’organizzazione tecnica del mondo che
rende obsoleti sia l’essere come fondamento sia la struttura gerarchica,
dominata dall’autocoscienza, della soggettività.
In Heidegger il passaggio dal piano dell’analitica esistenziale (Essere
e tempo) a quello della storia della metafisica come storia dell’essere (il
senso della «svolta» nel suo pensiero a partire dagli anni Trenta) avviene
proprio in riferimento alla consapevolezza che, in un mondo come il
nostro e il suo, di grandi potenze storiche tendenzialmente totalizzanti, e
totalitarie, l’essenza dell’uomo non può (più, se mai ha potuto) pensarsi
in termini di strutture individuali, e anche di definizioni sovrastoriche.
Non è difficile mostrare, se si pensa soprattutto alle pagine più «sto-
ricamente» compromesse e «compromettenti» della Introduzione alla
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metafisica (il corso del 1935 in cui Heidegger parla esplicitamente del
destino del mondo occidentale, di Germania, Russia e America, e della
loro tendenza a costituirsi in sistemi di dominio totale)21, che il chiarirsi,
in Heidegger, del senso non nominale ma «verbale» dell’essenza (Wesen,
letto come un verbo all’infinito: essenzializzarsi, determinarsi di volta in
volta in modo destinale, epocale; accadere) è legato alla consapevolezza
del «peso» che le potenze storiche hanno nel determinare il destino
dell’umanità e il darsi di quei progetti gettati, di volta in volta, che
sono le aperture della verità e dell’essere in cui le umanità storiche (le
«essenze» storico-destinali dell’uomo) si definiscono; ora, questo peso
che conduce l’essere a darsi – a farsi conoscere e ad accadere – nella
sua epocalità ed eventualità si dispiega proprio nel mondo moderno
della scienza-tecnica; non è, ancora una volta, una struttura «eterna»
che diventerebbe visibile solo a noi, è l’accadere epocale dell’essere
nel quadro delle condizioni che si verificano con l’organizzazione
tecnologica (tendenzialmente) totale del mondo. Heidegger esprimerà
più tardi tutto ciò nelle pagine di Identità e differenza in cui parlerà
del Ge-Stell (che ho proposto di tradurre con imposizione22), cioè del
sistema dell’organizzazione totale tecnico-scientifica del mondo, come
compimento della metafisica e come possibile «primo lampeggiare»
dell’evento dell’essere, cioè come chance di un oltrepassamento della
metafisica reso possibile dal fatto che, nel Ge-Stell, uomo ed essere

21
Cfr. Introduzione alla metafìsica, (corso del 1935, pubbl. nel 1953), trad. it. G. Masi,
Milano, Mursia, 19, pp. 46-47.
22
Cfr. Le avventure della differenza cit., p. 185.

83

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perdono le caratteristiche che la metafisica aveva loro attribuito, cioè,
anzitutto, la posizione di soggetto e di oggetto23.

3. Al di là del soggetto?

Sarebbe ancora una illusione metafisica – legata, almeno implicita-


mente, all’idea che vi sia un mondo ordinato di essenze, definibili per
genere prossimo e differenza specifica – pensare di trarre da Nietzsche
una lezione sulla natura vera della soggettività, tale da correggere i
nostri eventuali errori circa questo «specifico» tema della filosofia.
Ciò che abbiamo trovato, invece, è che l’insostenibilità, anche la
contraddittorietà interna della concezione metafisica del soggetto
(in Nietzsche, la scoperta della sua superficialità e non-ultimità;
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in Heidegger, l’esperienza della progettualità infondata) si dà solo


come insostenibilità del soggetto stesso in un mondo radicalmente
trasformato dall’organizzazione tecnico-scientifica nella quale culmina,
esplicitamente per Heidegger, ma implicitamente anche per Nietzsche,
la metafisica come pensiero della fondazione. L’oltrepassamento della
concezione metafisica del soggetto, in questa prospettiva, diventa
oltrepassamento della «essenza» storico-destinale della soggettività
metafisica, e questo implica il problema dell’oltrepassamento della
metafisica nel suo darsi storico-concreto, come mondo dell’organiz-
zazione totale. Insomma, che la figura dell’oltreuomo nietzscheano, o
quella del pensiero «rammemorante» heideggeriano non siano tanto
chiaramente definite come «soluzioni» alternative alla crisi della
(nozione di) soggettività metafisica non sarà solo una insufficienza
interna al pensiero dell’uno o dell’altro filosofo, ma andrà intesa come
il manifestarsi di una condizione «destinale» (si intende, nel senso
heideggeriano di Geschick) che allude a un «invio», a un retaggio,
che ci appella come possibilità, e non come un fato deterministica-
mente fissato, pensabile solo in un orizzonte di strutture metafisiche
necessitanti). Poiché l’esperienza del Ge-Stell, o della morte di Dio
annunciata da Nietzsche, ci mette di fronte alla storico-destinalità del
Wesen, alla eventualità dell’essere, non potremo cercare fili condutto-
ri, indicazioni, legittimazioni, in strutture sovrastoriche, ma solo nel
Geschick, nell’insieme di significati che, arrischiandoci nell’interpre-
tazione (che può essere autentica solo se si progetta anticipatamente

23
Identità e differenza [1957], trad. it. U.M. Ugazio, “Aut aut”, n. 187-88 (gennaio-
aprile 1982), pp. 13-14.

84

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per la morte, se si assume nella sua radicale infondatezza), riusciremo
a riconoscere nell’accadere in cui siamo gettati. Nietzsche e Heidegger,
in modi diversi ma secondo intenzioni largamente simili, ci dicono
che questo accadere si definisce come Ge-Stell, come mondo della
scienza-tecnica, e che in questo mondo dobbiamo cercare i tratti di
una umanità post-metafisica, capace di non essere più «soggetta».
Ma il mondo della scienza-tecnica non è per l’appunto il mondo
dell’organizzazione totalitaria, il mondo della disumanizzazione, della
pianificazione che riduce ogni umanità, ogni esperienza individuale,
ogni singolarità personale, a momento di una normalità tutta prevista
dalla statistica, o quando non rientri in questa medietà, a marginalità
accidentale priva di peso? Nietzsche e Heidegger sembrano invece
scommettere, ciascuno a modo suo, su un’altra possibilità legata al
dispiegarsi della scienzatecnica moderna. Per Nietzsche, il mondo in
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cui Dio è morto perché l’organizzazione del lavoro sociale ha reso


superflua quella rassicurazione «eccessiva» che egli rappresentava, è
anche il mondo in cui la realtà si alleggerisce, in cui diventa possibile
«sognare sapendo di sognare», in cui, insomma, la vita può svolgersi
entro orizzonti meno dogmatici, meno violenti anche, più esplicita-
mente dialogici, sperimentali, rischiosi. È vero che Nietzsche riconosce
fondamentalmente questa possibilità di esistenza solo agli artisti, o
comunque solo a una parte dell’umanità, giacché la maggioranza degli
uomini, nella sua prospettiva, resta impegnata ad assicurare, con il la-
voro manuale pianificato, proprio la libertà di quei pochi. Ma questo,
probabilmente, è un tratto della sua filosofia che potrebbe definirsi
ancora «moderno», in opposizione alla più esplicita post-modernità
di Heidegger. È probabile, infatti, che la visione elitaria ed insieme
estetica dell’oltreuomo da parte di Nietzsche sia legata segretamente
a una immagine ancora fondamentalmente «macchinica» del mon-
do della scienza-tecnica; all’idea, cioè, che la tecnica sia soprattutto
invenzione di macchine per moltiplicare la forza fisica dell’uomo e
accrescerne il potere di dominio «meccanico» (cioè di movimento, di
spostamento ecc.) sulla natura. È una visione della tecnica che ha come
modello dominante il motore. Nella misura in cui le sue prestazioni
sono sempre viste nella capacità di imbrigliare e utilizzare energie per
produrre modificazioni e spostamenti fisici della materia naturale,
anche l’oltrepassamento della soggettività che tale tecnica promette
è l’oltrepassamento della soggezione al lavoro manuale; che, peraltro,
resta il modello fondamentale di ogni lavoro, e continua a determinare
il destino delle masse, in un mondo il cui sviluppo si concepisce solo
come moltiplicazione sempre crescente della capacità di «spostare»,
di utilizzare energie in senso meccanico.

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Possiamo invece ritenere che la concezione heideggeriana della tec-
nologia sia già, più o meno esplicitamente, modellata sull’informatica,
che costituisce verosimilmente l’essenza della tecnica post-moderna o
tardo-moderna24. Il Ge-Stell non dà la possibilità per l’uomo di perdere
i suoi caratteri metafisici di soggetto in quanto, nel mondo tecnologico,
egli diventa lavoratore di fabbrica, parte della macchina. Più radical-
mente, invece, la tecnologia informatica sembra rendere impensabile
la soggettività come capacità di un singolo di possedere e manipolare,
in una logica ancora metafisica di signoria-servitù, le informazioni dalla
cui coordinazione e collegamento dipende il vero «potere» nel mondo
tardo-moderno. Non si tratta dell’utopia negativa dei robot che prendono
il dominio del mondo; si tratta invece, più realisticamente, di prender
atto che l’intensificarsi della complessità sociale, non semplificata ma
resa più capillare e pervasiva con la tecnologia dell’informazione,
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rende impossibile pensare ancora l’umanità in termini di molteplici


poli «soggettivi», caratterizzati da autocoscienza e da sfere di «pote-
re» in conflitto tra loro. Solo in questi termini, forse, la meditazione
nietzscheana e heideggeriana sul destino della soggettività nell’epoca
della dissoluzione dell’essere come fondamento può contenere per noi
anche indicazioni cariche di futuro.

24
Cfr. ancora l’introduzione alla cit. Fine della modernità.

86

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7. L’ERMENEUTICA E IL MODELLO DELLA COMUNITÀ

1. Si è forse prestato troppo poca attenzione, negli studi sulla storia


dell’ermeneutica, al fatto che Schleiermacher, considerato il fondatore
dell’ermeneutica filosofica moderna, sia anche stato uno dei principali
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ispiratori della distinzione teorica di comunità (Gemeinschaft) e società


(Gesellschaft) proposta da Ferdinand Tönnies nella sua famosa opera
del 18871. Sebbene sia difficile indicare un testo di Schleiermacher
in cui i due termini siano usati secondo la distinzione di Tönnies, è
molto evidente nella sua opera la presenza di un ideale dei rapporti
interpersonali che ha tutti i caratteri «organici» (e non meccanici),
spontanei (e non convenzionali) che contraddistinguono la comunità
nel senso di Tönnies. È quanto si vede, prima e più chiaramente che
nelle opere della maturità (spesso gravate da uno stile di pensiero in-
sopportabilmente sistematico e «costruttivo»), in uno dei Monologhi
(1800) che, insieme ai Discorsi sulla religione, rappresentano l’espressione
del pensiero giovanile di Schleiermacher, all’epoca del suo sodalizio
con F. Schlegel e con il gruppo dell’«Athenäum» 2. Nel terzo di que-
sti monologhi, intitolato Il mondo, Schleiermacher contrappone due
forme di comunità: l’una, quella presente, è la comunità del lavoro
socialmente organizzato, che ha permesso all’uomo il grande progresso
compiuto fino ad ora nello sforzo di sottomettere la natura ostile e di
facilitarsi la vita materiale; l’«ingegnoso meccanismo» (p. 251) che
aumenta enormemente le forze del singolo, facendo di lui un anello
della grande catena del lavoro umano organizzato. Questa comunità
che mira solo al dominio materiale del mondo esterno è quella in cui
«la posizione occupata da ciascuno pone un limite agli altri» (p. 258),

1
Si veda la traduzione italiana, Comunità e società, a cura di G. Giordano e con
introduzione di R. Treves, Milano, Comunità, 19792.
2
Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Discorsi sulla religione e Monologhi, trad. it., prefazione
e note di G. Durante, Firenze, Sansoni, 1947; a questa ed. si riferiscono le indicazioni
delle pagine tra parentesi nel testo.

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e che di conseguenza è retta dalla «pura legalità», da «formule morte
invece di vita, soltanto regole e abitudini invece di libera attività»
(p. 259). Per contro, c’è una comunità ideale (ideale in quanto non
ancora attuata, ma realmente possibile), già presente in germe negli
uomini che vivono nello spirito: è quella che si attua nell’amicizia e
nell’amore, e che si fonda su legami profondi, essenziali, tra i singoli,
che in essa esperiscono l’unione con altre anime che sono come parti di
loro (nel senso della metà perduta di Platone). I tratti di questa comunità
ideale vengono ulteriormente elaborati da Schleiermacher con un’enfasi
romantica che ci risulta estranea (e che, è appena il caso di ricordarlo,
mostra la connessione di queste sue idee con il resto dell’ambiente del
primo romanticismo). Di là dal tono e dall’enfasi, tuttavia, si incontra
qui nel testo schleiermacheriano una tesi che percorrerà l’ontologia
sociale, per usare l’espressione di Theunissen3, fino ai nostri giorni; e
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che è chiaramente ritrovabile, per esempio, in un’opera come la Crìtica


della ragione dialettica di Sartre4, nella contrapposizione tra la serialità
del collettivo ancora dominato dal pratico-inerte e la vera integrazione
dialettica del gruppo, che culmina nel gruppo rivoluzionario «in fusio-
ne». Le analogie del discorso sartriano con quello di Schleiermacher
sono del resto anche più ampie e profonde; per esempio, proprio sul
punto in cui l’ideale della comunità tocca la problematica ermeneutica.
In Sartre, come si sa, il singolo nel collettivo seriale del pratico inerte
non è padrone della sua prassi, e dunque non è libero, perché nella
situazione di conflitto in cui vive nasce continuamente una controfi-
nalità; una sorta di fraintendimento oggettivo del significato e degli
effetti delle sue azioni, di cui altri si impadroniscono (come nel lavoro
capitalistico l’operaio è espropriato dei frutti del suo lavoro). Lo stesso
meccanismo è descritto da Schleiermacher in riferimento alla comunità
reale, puramente meccanica, nella quale, scrive «un atto, nato dall’idea
più santa, è soggetto a mille fraintendimenti» (p. 261). Schleiermacher
non parla qui di una controfinalità pratica, è vero. Ma la radice del
fraintedimento è, come nel caso di Sartre, il conflitto; che qui piuttosto
idealisticamente si configura come conflitto tra i figli del mondo e i figli
dello spirito. I figli del mondo dispongono di un linguaggio adeguato
ai loro scopi: «il linguaggio ha simboli esatti in bella abbondanza per
tutto ciò che è pensato e sentito nel senso del mondo» (p. 262), perché
rispecchia fedelmente lo stato delle cose, le strutture di connessione

3
Cfr. M. Theunissen, Der Andere, Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, Berlin,
De Gruyter, 1965.
4
J. P. Sartre, Critica della ragione dialettica cit.

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meccanica proprie del mondo del lavoro organizzato, della vitalità e
della potenza materiale; invece, per gli scopi della comunità spirituale
il linguaggio «è ancora rozzo e uniforme» (p. 262); esso a lungo «impe-
disce allo spirito di arrivare alla intuizione (Anschauung) di se stesso…
Egli deve cercare a lungo tra la profusione del linguaggio, prima di
trovare un termine che sia al di sopra di ogni sospetto, e al quale af-
fidare i suoi più interni pensieri. Ma, una volta trovato, i nemici dello
spirito si impadroniscono della frase e le impongono un significato
che le è estraneo» (p. 262). I figli dello spirito non hanno ancora un
loro linguaggio adeguato, condividono il linguaggio del mondo e sono
perciò soggetti al fraintendimento; l’ideale sarebbe un linguaggio che
aderisse ai contenuti spirituali come un abito perfettamente trasparente
e capace di manifestare senza tradirli o nasconderli tutti i movimenti
dell’interiorità (pp. 263-64).
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Benché un esame più ampio delle opere etiche di Schleiermacher


possa mostrare una mitigazione del radicalismo giovanile delle Reden
e dei Monologen (soprattutto nella direzione dell’etica dei beni, dei
valori storici – quella che Dilthey nel suo saggio sull’etica di Schleier-
macher chiama un’etica materiale)5, le linee principali della posizione
espressa in questi scritti giovanili resteranno immutate; soprattutto per
ciò che riguarda il nesso, che qui si annuncia chiaramente, fra etica
ed ermeneutica. L’etica, altrettanto e forse più degli interessi teologici
di Schleiermacher, avrà un peso determinante nello sviluppo della sua
teoria dell’interpretazione.
È questo che ci sembra si possa indicare come l’imporsi del modello
della comunità alle origini dell’ermeneutica. Dove il termine comunità,
come si capisce, ha il senso specifico che gli conferisce Tönnies nella
sua opera (come «vita reale e organica» contrapposta alla società come
«formazione ideale e meccanica»; e caratterizzata dunque da una
immediatezza di rapporti). Tale modello, che si annuncia per la prima
volta come base dell’ermeneutica in Schleiermacher, è ancora ben vivo
nel dibattito ermeneutico contemporaneo (penso ovviamente all’ideale
della comunità della comunicazione illimitata di Apel6; ma anche alle
posizioni di Habermas nella sua polemica contro Gadamer)7. Intendo

5
Cfr. W. Dilthey, L’etica di Schleiermacher [1864], trad. it. e introduzione di F. Bianco,
Napoli, Guida, 1974, pp. 93 e segg.
6
Cfr. K.O. Apel, Transformation der Philosophie, Frankfurt a/M, Suhrkamp, 1973;
trad. it. parziale, Comunità e comunicazione, a cura di G. Carchia con introduzione di
G. Vattimo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1977.
7
Cfr. in particolare J. Habermas, Logica delle scienze sociali, Bologna, il Mulino,
1970; inoltre: Aa. Vv., Ermeneutica e critica dell’ideologia, Brescia, Queriniana, 1979;

89

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qui illustrare l’ipotesi, primo: che il modello o l’ideale della comunità
non si può mantenere nell’ermeneutica senza riprendere anche gli sfondi
metafisici a cui esso è in origine collegato; secondo: che la fase attuale
dell’ermeneutica si caratterizza come esplicitazione della insostenibilità
di questo modello e ricerca di un modello alternativo.
Anzitutto, però, occorre vedere come il modello della comunità
gioca nella costituzione della stessa ermeneutica schleiermacheriana.
Benché sia più complessa e problematica di quanto non appaia in
certe interpretazioni odierne, l’ermeneutica di Schleiermacher si può
definire globalmente come una ermeneutica della ricostruzione (così
la chiama Gadamer, sulla scorta anche delle ricerche di Kimmerle,
editore del testo critico degli scritti ermeneutici di Schleiermacher)8.
La condizione di fraintendimento che, nel monologo citato almeno,
(ma in sostanza anche dopo), si fonda sulla opposizione tra figli del
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mondo e figli dello spirito, si supera solo riportando, nella espressione


e nella interpretazione di essa, il linguaggio alla sua condizione ideale
di trasparenza assoluta. Questa non sarebbe un valore, però, se non
fosse il modo di darsi di quella comunità dell’amore e dell’amicizia che
è la condizione di perfezione dell’uomo. Schleiermacher non è dunque
mosso anzitutto dall’ideale della verità come esattezza, ma da quello
della comunità perfetta dell’amore. Solo in vista di questo la trasparenza
appare come valore da perseguire. Come si è già accennato, questo
configura una fondazione etica dell’ermeneutica, che si intreccia con
l’interesse teologico di Schleiermacher: benché infatti egli sia il primo
a pensare l’ermeneutica come disciplina generale, non modellata sull’e-
segesi di particolari testi, il suo punto di riferimento principale rimane
ancora sempre la Bibbia e, subordinatamente, la tradizione classica;
dunque testi «normativi», destinati a servire di fondamento alla vita
individuale e sociale. È tanto più naturale, perciò, che i precetti della
sua ermeneutica non vadano intesi come codificazioni di metodi diretti
ad assicurare una pura «esattezza» esegetica. Per lui, si tratta di arrivare
a una ricostruzione dall’interno dei testi da interpretare, afferrandone
intuitivamente il centro ispiratore mediante una sorta di identificazione
simpatetica con l’autore. Tutto ciò non è solo un mezzo per giungere a

e P. Dottori, Ermeneutica e critica dell’ideologia tra Gadamer e Habermas, “Giornale


critico della filosofia italiana”, 1076, fasc. IV.
8
F.D.E. Schleiermacher, Hermeneutik, ed. critica a cura di H. Kimmerle, Winter,
Heidelberg 1959. Per una esposizione dei principali temi dell’ermeneutica di Schleierma-
cher mi permetto di rimandare al mio Schleiermacher filosofo dell’interpretazione, Mursia,
Milano 1968. – La «definizione» di Gadamer a cui si allude qui è in Verità e metodo
(i960), trad. it. con introduzione di G. Vattimo, Bompiani, Milano 19832, p. 204 e segg.

90

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una lettura «esatta» dei testi: è un valore in sé, in quanto ristabilisce,
o stabilisce, l’ideale comunità dello spirito, quella comunità descritta
dal terzo monologo citato prima. Il primo precetto dell’ermeneutica
schleiermacheriana, «evitare il fraintendimento», presuppone che
questo non sia solo un accidente, mentre il comprendere accadrebbe
naturalmente; invece, considera che normalmente noi viviamo in una
situazione di fraintendimento, e che la comprensione deve dunque essere
cercata di proposito9. Ma il fraintendimento è condizione «normale»
solo perché, come sappiamo dai Monologhi, i figli del mondo e i figli
dello spirito condividono lo stesso linguaggio, che viene stravolto dai
primi e dunque richiede un lavoro di ricomposizione del senso. Le
varie forme specifiche di fraintendimento che Schleiermacher analiz-
za (Herm., pp. 86 e segg.) si riportano tutte a una comune radice: la
mancanza di una comunità ideale tra autore e lettore. Questa comunità
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l’ermeneutica mira a costruire, attraverso i suoi metodi (il metodo


grammaticale e il metodo psicologico o tecnico), in modo da realizzare
una identificazione intima che permetta di ricostruire dall’interno il
testo. Se il fraintendimento è il punto di partenza, l’identificazione con
l’altro (il «trasformarsi in certo modo nell’altro») è il punto di arrivo
del processo interpretativo. Schleiermacher parla qui di «certezza
divinatoria» (Herm., p. 132), contrapponendola esplicitamente alla
certezza dimostrativa propria delle scienze; essa «sorge dal fatto che
l’interprete si colloca il più possibile nella totale costituzione dello
scrittore» (ivi). Il termine «divinatorio» ha qui anche un significato
letterale: la vera comprensione deve infatti condurre a «capire il discorso
anzitutto altrettanto bene e poi meglio di quanto non lo capisse l’autore
stesso» (Herm., p. 87). Ci introduciamo qui più specificatamente agli
sfondi metafisico-teologici, meglio: onto-teologici, dell’ermeneutica
schleiermacheriana. Il principio secondo cui l’interprete deve capire
il discorso meglio dell’autore stesso non nasce con Schleiermacher:
come mostra Gadamer10, era già noto a Kant e a Fichte, nei quali però
aveva sostanzialmente il senso di contrapporre razionalisticamente la
superiorità della critica filosofica alla coscienza degli scrittori: il filosofo
capisce i testi meglio degli autori stessi perché parla dal punto di vista
di una più autentica conoscenza del vero. In Schleiermacher, il «capire
meglio» ha invece un significato diverso, legato alla sua concezione

9
Hermeneutik, ed. Kimmerle, cit., p. 86; d’ora in avanti le indicazioni delle pagine
a cui si riferiscono le citazioni saranno date tra parentesi nel testo, con l’abbreviazione
del titolo in Herm.
10
Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. cit., pp. 236-237.

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della comunità ideale (nella quale le individualità si incontrano come
momenti dell’universale e dell’infinito) e alla dottrina romantica del
genio e della sua produzione inconscia. Tutta la dottrina dell’individualità
che Schleiermacher elabora nei Discorsi sulla religione conduce verso
questo esito: la personalità individuale si forma costituendosi intorno
a un momento di illuminazione decisivo, a una esperienza pregnante
che è contatto con l’infinito; questa esperienza è anche quel centro
profondo che il comprendere deve afferrare per poter ricostruire il
testo. In tal modo, però, ciò che il comprendere afferra non è solo
l’individualità dell’altro, ma l’infinito in essa, in una configurazione
particolare. Sia la possibilità dell’identificazione con l’altro, sia il risultato
finale dell’operazione interpretativa sono tutte legate a questa unione
di infinito e particolare nell’individualità. L’individualità è pensata cioè
in termini di genio: come una creatività libera la cui forza produttiva e
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la cui legittimità, e quindi anche possibilità di essere compresa, nasce


dall’esser radicata sul fondo metafisico dell’infinito stesso. Partita da
un presupposto in largo senso teologico, e cioè il conflitto tra figli del
mondo e figli dello spirito, l’ermeneutica di Schleiermacher culmina
in una tesi anch’essa profondamente teologica: quella della certezza
divinatoria che è possibile solo pensando l’individualità in termini
di genio e la comunità ideale come identificazione intima con l’altro
nell’infinito, nell’essere ecc., cioè in quel «fondo» trascendente a cui
autore e interprete appartengono.
Queste premesse schleiermacheriane condizionano in modo decisivo
lo sviluppo del concetto di Verstehen che domina l’ermeneutica, alme-
no fino a Heidegger. Non solo nel senso che, dal punto di vista della
definizione dei metodi e delle caratteristiche del lavoro interpretativo,
rimane dominante l’ideale dell’identificazione intima con l’autore; ma
anche nel senso che questa identificazione viene concepita come valore
ultimo, non solo come mezzo per realizzare un sapere adeguato; e ciò
anche in Dilthey, nel quale ci si aspetterebbe invece un prevalere di
intenti «scientifici». Anche in lui, come credo si possa mostrare, rimane
chiaramente vivo il significato «metafisico» della comunità, che fa da
sfondo a tutto il discorso di Erkenntnistheorie.
Il Verstehen pensato sul modello della comunità ha alla sua base una
concezione dell’esperienza interiore come immediatezza di sé a sé che
implica l’idea del rapporto tra l’individualità e l’infinito. Solo perché
nella sua esperienza intima il singolo incontra l’infinito, la penetrazio-
ne comprensiva di questa intimità da parte di altri ha quel valore che
l’ermeneutica di Schleiermacher le attribuisce. È questo stesso valore
che si esprime nella concezione diltheyana dell’Erlebnis, un termine che
non si ritrova in Schleiermacher, ma che esprime tesi abbondantemente

92

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derivate da lui11. Quello che Dilthey intende per Erlebnis si può capire
riferendosi a un passo del Leben Schleiermachers12 nel quale, parlando
di Schleiermacher, egli scrive: «ognuno dei suoi Erlebnisse è compiuto
in se stesso, un’immagine particolare dell’universo sottratta a ogni con-
nessione esplicativa». Mentre per Schleiermacher l’esperienza puntuale
si stagliava sullo sfondo di una totalità pensata panteisticamente, in
Dilthey questo sfondo reggente e legittimante è quello della vita, che
sostiene sia il significato dell’Erlebnis per l’individuo, sia la possibilità
della comprensione da parte degli altri. Anche in Dilthey, come in
Schleiermacher, la penetrazione dell’Erlebnis dell’altro (dunque anche
dell’opera, del documento storico, dell’espressione, insomma) non ha
tanto lo scopo di garantire una conoscenza esatta di questi «oggetti»,
ma quello di produrre una intensificazione della vita. Si tratta anche
per lui, come per Schleiermacher, di «ricostruire», cioè di ricollocare,
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mediante la comprensione, l’espressione nell’Erleben da cui essa pro-


viene. Ogni comprensione riconduce le oggettivazioni della vita nella
vitalità spirituale da cui sono emerse, cioè è un ripercorrere a ritroso
il movimento che dell’Erleben conduce all’espressione13. In questo
«riprodurre e rivivere» l’individualità altrui14, l’arte ha una funzione
decisiva, anzi si rivela come il vero e proprio «organo della compren-
sione della vita»15. Il coglimento della individualità dell’altro non è un
fatto estetico solo o principalmente perché comporta un Einfühlen
e Mitfühlen16. Questa penetrazione simpatetica dell’individualità è
possibile solo attraverso la rappresentazione «tipica» che l’espressione
artistica dà della vita17. Anche il suo fine è più estetico che conosciti-
vo: penetrare attraverso l’espressione artistica gli Erlebnisse degli altri
significa liberarsi dai limiti che resistenza di fatto sempre ci impone.
Nel Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichtlichen Welt in den
Geisteswissenschaften, Dilthey scrive: «Il corso della vita produce in

11
Come osserva giustamente Gadamer, Verità e metodo, tr. cit., pp. 90-91.
12
Cfr. W. Dilthey, Leben Schleiermachers, ed. Mulert, 2a ed., Berlin, 1922, vol. I, p. 341.
13
Cfr. su ciò H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. cit., pp. 93 e 307.
14
Cfr. W. Dilthey, Gesammelte Schriften, vol. V, a cura di G. Misch, Berlin-Stuttgart,
Vandenhoeck, 1957, p. 277. Per tutti questi riferimenti a Dilthey, mi sono largamente
giovato del capitolo che gli dedica P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo,
Torino, Einaudi, 19712.
15
Gesammelte Schriften, vol. V, cit., p. 274.
16
Gesammelte Schriften, vol. VII, a cura di B. Groethuysen, Berlin-Stuttgart, Van-
denhoeck, 19582, p. 215. Il testo è tradotto nella silloge W. Dilthey, Critica della ragione
storica, a cura di P. Rossi, Torino, Einaudi, 1954, p. 324: i termini italiani adottati da
Rossi sono rispettivamente «consentimento» e «penetrazione simpatetica».
17
Sul concetto di tipo cfr. P. Rossi, Lo storicismo cit., p. 52.

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ogni uomo una costante determinazione, in cui vengono limitate le
possibilità che vi sono contenute… L’intendere, il Verstehen, gli apre
un ampio campo di possibilità, le quali non esistevano nella determi-
nazione della vita reale». Così «il nostro orizzonte si amplia mediante
possibilità di vita che solo in tal modo ci diventano accessibili. L’uomo
può quindi vivere nell’immaginazione varie altre esistenze…»18. Per
questo, il saggio su L’essenza della filosofia (1907) potrà dire che «il
poeta è l’uomo vero»19. In questo saggio, del resto, l’esperienza delle
molteplici possibilità di esistenza a cui accediamo mediante la poesia
rimane anche forse l’unica autentica esperienza di universalità che
ci è data; mentre assai problematica appare l’universalità del sapere
filosofico concepito come psicologia o sistematica trascendentale delle
visioni del mondo. La tensione, molto sensibile nel saggio sull’Essenza
della filosofia, tra mobilità e «fedeltà alla vita» della poesia, e sistema-
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ticità della filosofia, è del resto costitutiva del discorso di Dilthey: un


sapere pensato come dialogo, fondamentalmente poetico, tra visioni
del mondo e forme di possibile esistenza sarebbe anche radicalmente
storico, ma non potrebbe mai diventare sistematico; il sapere sistematico
delle varie forme possibili di vita, riconosciute una volta per tutte sulla
base dell’esperienza storica e classificate (come Dilthey fa proprio nello
stesso saggio), finisce per pretendere per sé un assai problematico e
contraddittorio statuto di sovrastoricità.
Questa contraddizione mai superata da Dilthey è profondamente
intrecciata con il nostro problema dell’ideale del comprendere er-
meneutico. L’insistenza di Dilthey sul carattere «immaginario» delle
possibilità di esistenza che il Verstehen ci rende accessibili significa
anche che per lui non si tratta tanto di istituire un effettivo dialogo
storico con altre individualità, ma di raggiungere attraverso di esse
la totalità della vita, essenzialmente ultrastorica. Quali che siano le
difficoltà metodiche che la comprensione deve affrontare, ciò che essa
raggiunge è sempre solo l’unità della vita che regge l’interprete e il suo
interlocutore, che è presente in entrambi (e legittima lo sforzo di una
filosofia come tipologia definitiva delle forme possibili di esistenza).
Anche qui, come in Schleiermacher, siamo di fronte a una concezione
dell’esperienza ermeneutica come costruzione di una immediatezza
che rinvia all’immediatezza e autotrasparenza del soggetto, la quale a
sua volta è sostanziata e «legittimata» nel suo valore solo dal fatto di

18
Gesammelte Schriften, vol. VII, cit., pp. 215 e 216; tradotto in Critica della ragione
storica cit., pp. 325-326.
19
Tradotto in Critica della ragione storica cit., p. 462.

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manifestare la vita (o l’infinito, nei termini di Schleiermacher). L’ideale
della comprensione come trasposizione identificante, einfühlende, ha alla
sua base una concezione ontoteologica dell’individualità; non è tanto
caratterizzata dal riferimento al divino, quanto dalla presenza piena
(del soggetto a sé, dell’intimità raggiunta tra autore e interprete ecc.)
che è proprio ciò intorno a cui si costruisce il pensiero ontoteologico
della metafisica nella descrizione che ne dà Heidegger.

2. Proprio in Heidegger ha luogo la crisi, lo svelamento del carattere


ontoteologico, dell’ideale della comprensione modellato sulla comunità.
L’enfasi sulla trasparenza dell’io agli altri e a se stesso, l’ideale della
trasposizione e identificazione nell’altro si fonda su una concezione
dell’individualità che vuole eliminare la storicità: Schleiermacher aveva
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indicato come condizione ideale della comprensione il «diventare il


lettore contemporaneo». Ogni ermeneutica dello svelamento totale,
della piena identificazione con l’«oggetto» da interpretare, si giusti-
fica solo, in ultima analisi, in base a una concezione ontoteologica
dell’io – che considera come unica vera la dimensione del presente
e considera la storicità come opacità, ostacolo, da eliminare. L’analisi
heideggeriana del Dasein, in Essere e tempo, intende proprio, anzi-
tutto, respingere questa riduzione del soggetto concreto a soggetto
trascendentale. Il Dasein non è qualcuno a cui la storicità appartenga
solo come un deplorevole accidente, come un ostacolo alla sua auto
trasparenza: in quanto radicalmente storico e totalmente costituito
dalla sua gettatezza (Geworfenheit), il Dasein è costitutivamente opaco.
Anche la possibilità dell’autenticità, in Essere e tempo, non è mai de-
scritta in termini di appropriazione di sé, di autocoscienza, dunque di
autotrasparenza. Anzi, poiché è legata alla «anticipazione decisa della
morte», è semmai riportata anch’essa a una accettazione dell’opacità.
Corrispondentemente a questo riconoscimento della costitutiva storicità
e opacità dell’Esserci – il quale ha da fare con un «da dove» e un «verso
dove» che non si lasciano consumare nella sua autocoscienza – anche
la nozione di comprensione, in Heidegger, si modifica radicalmente.
Il paragrafo 26 di Sein und Zeit – senza voler con ciò esaurire il suo
significato – toglie ogni enfasi al problema della comprensione dell’altro.
Con gli altri l’Esserci è già sempre; «gli altri sono quelli dai quali per
lo più non ci si distingue, e fra i quali, quindi, anche si è… Gli altri
non sono incontrati nel corso di un conoscere fondato sulla distinzione
preliminare di sé, come soggetto semplicemente-presente, dai restanti

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soggetti, essi pure semplicemente-presenti…»20. Non occorre alcuna
Einfühlung che getti un ponte tra l’io e gli altri, come se fossero ini-
zialmente semplici-presenze separate21.
Corrispondentemente a questa de-enfatizzazione della problematica
dell’altro (che del resto consegue alla concezione della radicale finitezza
e opacità del Dasein) anche il Verstehen si definisce in modo nuovo.
Intanto, esso non è una forma specifica di conoscenza accanto ad altre
(non è il conoscere della storia opposto al conoscere della natura, per
esempio). È invece il tratto costitutivo dell’esistere dell’Esserci. L’Es-
serci ci è in quanto comprende già sempre il mondo; e comprendere il
mondo, poi, non equivale a penetrare una qualche essenza o struttura
già «presente», ma afferrare il presente in relazione a un progetto.
Fin dalle prime battute del paragrafo 31, dove Heidegger definisce
la comprensione come un esistenziale, la nozione di intendere è rife-
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rita al potere, secondo una indicazione del vocabolario che anche in


italiano possiamo ricostruire: intendersi di qualcosa vuol dire avere
determinate possibilità di fare. Solo che «ciò che nella comprensione
costituisce il «potuto» come esistenziale non è una cosa, ma l’essere in
quanto esistere»22. Tutto il seguito del paragrafo approfondisce questa
connessione fra comprensione e possibilità, cioè carattere progettua-
le, dell’Esserci. Solo a partire dal progetto che egli stesso è l’Esserci
comprende la propria situazione attuale e le sue componenti, dunque
anche la propria storia precedente. Nel suo modo di rapportarsi alle
possibilità che si trova ad avere in quanto progetto gettato, l’Esserci
può atteggiarsi sia nel modo della Tradition sia nel modo della Ueber-
lieferung23: l’assunzione non problematica, la pura e semplice prose-
cuzione, è appunto un modo di rimanere nella Tradition; e proprio
questo sembrerebbe potersi caratterizzare in quei termini di intimità e
organicità che costituiscono l’ideale del Verstehen come identificazione.
L’altra possibilità, quella che, almeno nel linguaggio di Sein und Zeit,
Heidegger considera quella autentica, è una assunzione dell’eredità
storica in termini riflessi e esplicitamente distanziati.
Né alla comprensione del mondo che in generale costituisce l’Esserci,
né alla specifica comprensione della propria eredità storica a cui l’Esserci

M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 205.


20

Ivi, p. 212.
21

22
Ivi, p. 237.
23
Sulle nozioni di Tradition e Ueberlieferung si vedano le illuminanti pagine di
M. Bonola, Verità e interpretazione nello Heidegger di «Essere e tempo» cit., pp. 81 e
segg., che ho utilizzato ampiamente per questa parte del saggio.

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si rapporta nella forma della Ueber-lieferung (o sich-selbst-Ueberliefern)24
si può attribuire i tratti del comprendere identificante, perché questo
lascerebbe fuori proprio il carattere progettuale che è invece costitutivo
della comprensione esistenziale heideggeriana.
Come all’ideale dell’auto trasparenza soggiaceva una ontoteologia
della presenza piena (elaborata poi nella forma del panteismo roman-
tico di Schleiermacher o nel vitalismo diltheyano) così la nozione di
comprensione come apertura progettuale e del Dasein come radicale
opacità rimanda a una ontologia il cui senso globale è che l’essere è
tempo25. È questa rivoluzione ontologica che mette fuori gioco l’ideale
ermeneutico della trasposizione identificante. Questo ideale ha privile-
giato l’identificazione come raggiungimento, o ricupero, di un Grund:
l’autocoscienza, l’unione con l’altro come modo di afferrare l’infinito
ecc. Ma se l’essere è tempo, ogni ideale di autotrasparenza risulta
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svuotato. Come per l’ontoteologia metafisica il tempo e la distanza


storica sono ostacoli da eliminare con appositi metodi per ricostruire
la condizione di contemporaneità e, idealmente, di identità, così per
l’ontologia di Heidegger la distanza temporale, e in genere la differenza
nel cui ambito si muove l’attività interpretativa, sono l’essere stesso. Che
l’essere dell’Esserci sia Verstehen non indica solo una proprietà, per
quanto essenziale, dell’esistenza; l’essere accade, si dà, è, soltanto come
Verstehen, inteso non come costituzione o ricostituzione di trasparenze
e di identità, ma come mantenimento e articolazione della distanza.
L’ermeneutica contemporanea, sia attraverso l’approfondimento
dell’ontologia heideggeriana, sia attraverso il confronto, a cui è stata
chiamata ripetutamente, con la ripresa di posizioni onto-teologiche (il
neokantismo di Apel e di Habermas), è venuta sempre più chiaramente
prendendo atto che l’ideale della comunità non può servire da modello
alla nozione di comprensione. L’adagio ermeneutico che prescrive di
capire il testo meglio dell’autore vale ancora, ma non può più avere
né il senso razionalistico della critica filosofica, né quello romantico
legato alla dottrina del genio.
Non è agevole indicare quale sia il modello che la nuova ontologia
ermeneutica intende sostituire a quello scheleiermacheriano-diltheyano.
La fase attuale del pensiero ermeneutico, anzi, si potrebbe legittima-
mente definire proprio come quella in cui ci si sforza, anche a livello
metodologico, di costruire un modello di comprensione che assuma

24
Cfr. tutto il paragrafo 74 di Essere e tempo.
25
È questa la tesi radicale, che condivido, di H.G. Gadamer: cfr. Verità e metodo
cit., p. 304.

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esplicitamente come base la produttività della distanza. Spunti in questo
senso non mancano in varie aree della cultura contemporanea: in psico-
analisi, per esempio, il senso della rivoluzione lacaniana può esser visto
proprio nell’aver messo fuori gioco una lettura della psicoanalisi come
via di svelamento e di riappropriazione nella trasparenza. Lo stesso si
può dire forse di molte esperienze della critica letteraria post-moderna,
per la quale la lettura e comprensione del testo diventa sempre più
una prosecuzione del lavoro dell’artista, o, sotto altri punti di vista,
una decostruzione nella quale il testo non risulta tanto «identificato»
(o «caratterizzato», come voleva la critica romantica) ma «sfondato» in
una rete di riferimenti indefinita (un po’ come nelle letture etimologiche
di Heidegger)26. Sotto un altro aspetto, il problema di abbandonare
effettivamente il modello della comunità si presenta là dove, come nei
recenti scritti di Gadamer, il compito dell’ermeneutica viene individuato
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nel mantenimento e nella ricostituzione della continuità del logos, il


linguaggio-coscienza comune che costituisce il tessuto connettivo di
una società e che deve essere continuamente reintegrato, riassorben-
do criticamente in esso le isole dei linguaggi specializzati e ogni altro
elemento di discontinuità. Questo ideale ermeneutico della continuità
richiede di essere definito più esplicitamente in alternativa a quello
modellato sulla comunità e sull’identificazione, pena il ripresentarsi
dell’impossibilità di fare davvero spazio alla storia, all’innovazione,
alle «rivoluzioni» (kuhniane o politiche che siano)27.
Tutte queste difficoltà, o comunque questi problemi aperti nell’on-
tologia ermeneutica di oggi, non credo inficino la portata della
«consumazione» che, nel corso della sua storia, ha subito la nozione
di comprensione come trasposizione identificante. Di questo, e dei
problemi che si aprono di conseguenza, una considerazione filosofica
della comunicazione non può non tenere conto.

26
Sulle varie direzioni di sviluppo dell’ontologia ermeneutica a cui qui si accenna
mi permetto di rimandare alla Postilla 1983 della mia introduzione alla citata trad. it.,
di Verità e metodo.
27
Su ermeneutica, etica, politica sono da vedere i saggi recenti di Gadamer (successivi
a Verità e metodo) raccolti in La ragione nell’età della scienza cit.

98

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8. DALL’ESSERE COME FUTURO
ALLA VERITÀ COME MONUMENTO

1. L’ermeneutica, almeno nelle sue versioni più classicamente ri-


conosciute, da Martin Heidegger a Hans-Georg Gadamer, sembra
implicare, tra i suoi contenuti più caratteristici, la tendenza a una
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definizione ‘monumentale’ della verità. Questa tendenza – nei limiti


in cui è reale, e con tutte le ambiguità del suo significato – costituisce
una possibile legittimazione della polemica che, soprattutto dal punto
di vista della teoria critica, si conduce contro di essa: anche al fondo
della polemica di Habermas con Gadamer1, che è proseguita in varie
forme negli anni recenti, sta non tanto la tesi secondo cui l’ermeneutica
non si porrebbe con adeguata chiarezza il problema della rottura della
tradizione, rottura entro la quale, in concreto, l’interpretazione sorge
e con cui deve fare i conti; quanto piuttosto, più fondamentalmente,
l’idea che l’ermeneutica, concependo troppo pacificamente e ‘organi-
camente’ la tradizione, tenda a risolversi in puro e semplice tradizio-
nalismo; in ciò, del resto, rafforzata dall’applicazione della nozione di
‘circolo ermeneutico’ alla conoscenza storica, che comporta tra l’altro
una ‘riabilitazione del pregiudizio’ 2.
Che cosa significa e come si determina, nell’ermeneutica, questa
tendenza a considerare la verità come monumento? Una tale tendenza,
tra l’altro, è tanto più sorprendente in quanto, almeno se si guarda
alle origini dell’ermeneutica filosofica in Essere e tempo, la descrizione
dell’esistenza come interpretazione sembra implicare, in origine, una

1
Iniziata, come si sa, in J. Habermas, Logica delle scienze sociali cit.; si veda poi la
risposta di H.G. Gadamer, in Kleine Schriften, vol. I, Mohr, Tübingen 1967, pp. 113-130;
e l’ulteriore intervento di J. Habermas, Der Universalitätsanspruch der Hermeneutik, nella
raccolta Hermeneutik und Dialektik, scritti in onore di Gadamer nel 700 compleanno,
Tübingen, Mohr, 1970, vol. I, pp. 73-104, trad. it. in G. Ripanti (a cura di) Ermeneutica
e critica dell’ideologia cit., pp. 131-167.
2
Si veda su ciò specialmente la sezione seconda della seconda parte di Verità e
metodo di H.G. Gadamer, cit., pp. 312 e segg.

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concezione della verità in termini di progetto. L’emergere di quella che
propongo di chiamare una visione monumentale della verità potrebbe
dunque esser intesa come un aspetto – o come l’aspetto centrale – di
quella svolta del pensiero heideggeriano annunciata per la prima volta
nello scritto sull’umanismo (1946), e che, sommariamente, consiste nel
riconoscimento che non c’è anzitutto l’uomo, ma anzitutto e principal-
mente l’essere. Come per altri aspetti della svolta, tuttavia, è probabile
che la trasformazione subita dal pensiero di Heidegger da Sein und
Zeit alle opere più tarde non sia così radicale come si tende a pensare.
È noto che Sein und Zeit aveva opposto, alla nozione metafisica di
verità come adeguazione della proposizione allo stato di cose, un’idea
di verità come progetto esistenziale: il mondo non è uno spettacolo
da registrare ‘obiettivamente’, e anche l’obiettività della scienza è un
atteggiamento che l’Esserci assume nell’ambito di un progetto, di quel
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progetto che egli stesso, nella misura in cui esiste, è. Anche la cono-
scenza come registrazione obiettiva di fatti – che si certifica in base a
criteri storicamente dati, che appartengono anch’essi al progetto get-
tato che l’Esserci è – è un’articolazione interna della precomprensione
che costituisce l’Esserci nel suo essere-nel-mondo. La conoscenza è
descritta, così, come ‘articolazione del (pre-)compreso’ ossia come
interpretazione (Auslegung) fondata su un originario Verstehen – che
del resto, anche in quanto non è pura registrazione del dato, Heidegger
chiama Entwurf, progetto. Già nel paragrafo 32 di Sein und Zeit, dove
è tematizzato il rapporto comprensione-interpretazione, Heidegger
rileva la circolarità che lega i due termini, e prevede l’obiezione che
si potrebbe avanzare: «il circolo non deve essere degradato a circulus
vitiosus, e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si
nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità
che è afferrata in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso
che il suo compito primo, durevole e ultimo è quello di non lasciarsi
mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso
o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, ga-
rantendo così la scientificità del proprio tema»3. Non ci sono, in Sein
und Zeit, ulteriori specificazioni di che cosa significhi far emergere la
precomprensione dalle cose stesse; ma c’è invece una elaborazione
di che cosa significa pensare l’Esserci in termini di costituzione esi-
stenziale irriducibile alla semplice-presenza, che è propria degli enti
intramondani (le ‘cose’), e dunque alla problematica della circolarità
(l’idea di circolo vizioso vale nell’ambito del semplicemente-presente).

3
Essere e tempo cit., p. 250.

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La via su cui Sein und Zeit cerca una elaborazione della tematica della
verità, cioè, non è quella che garantirebbe, in qualche modo, un accesso
‘alle cose stesse’ al di fuori delle opinioni ricevute o casuali; ma quella
che, invece, ricercando una ‘autenticazione’ del progetto, individua,
o almeno ritiene di individuare i modi in cui la comprensione non si
lascia assoggettare dal mondo del man, della chiacchiera e della banalità
quotidiana. Possiamo riassumere tutto questo dicendo – in termini che
chiariscono Heidegger, ma anche lo semplificano alquanto – che la
problematicità della verità è, in Sein und Zeit, chiaramente riconosciuta;
non qualunque ‘pre-comprensione’ del mondo, in cui l’Esserci si trovi
gettato, è capace, dispiegandosi in interpretazione, di condurci alla
conoscenza della verità; la distinzione tra la ‘scientificità’ e la banalità
della chiacchiera si opera tuttavia a livello del progetto, in relazione
al suo qualificarsi in un modo piuttosto che in un altro, e non a livello
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di una verificabile ‘obiettività’ come conformità o appropriatezza alla


cosa. Se la conclusione della prima sezione (della parte pubblicata) di
Sein und Zeit è che la verità «è solo in quanto e fintanto che l’Esserci
è»4, la sezione seconda si può vedere, in generale, guidata dal problema
dell’autenticità e inautenticità del progetto che l’Esserci è. Solo in quanto
l’Esserci può decidersi per la propria possibilità autentica, esso può
emergere dalla deiezione della chiacchiera, della curiosità e dell’equivoco
in cui la sua esistenza, innanzitutto e per lo più, è gettata. Il problema
della verità posto dal paragrafo 32 si riporta così, attraverso una serie
di passaggi che non si possono qui descrivere più analiticamente, a
quello dell’autenticità. L’autenticità, a sua volta, – e riprendo qui tesi
heideggeriane ampiamente note – è una possibilità legata alla decisione
anticipatrice della morte. Solo scegliendo la propria possibilità più
propria, come si ricorderà, l’Esserci può essere autentico; e la morte
è la possibilità ‘più propria’: sia perché è quella a cui nessuno può
sfuggire, sia perché è autentica possibilità, giacché mantiene aperto
quel progetto che l’Esserci è proprio in quanto rimane possibilità.
In questa sua duplice veste, di possibilità autentica (costitutivamente
mia) e di autentica possibilità (che si mantiene tale finché l’Esserci è;
come la verità, nella citazione di poco sopra), la morte apre l’esistenza
storica come tessuto di possibilità altre dalla morte, che proprio in
relazione a questa si mantengono ‘possibilità’, non irrigidendo l’Esserci
ma lasciandolo passare dall’una all’altra nel discursus che costituisce
la sua storicità. La tematica dell’autenticità e dell’essere-per-la-morte,
conformemente, del resto, all’avvio, costituisce il centro di tutta la se-

4
Ivi, p. 348.

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conda sezione dell’opera (e si può considerare la ricerca della soluzione
del problema della verità come progetto). Questa sezione, però, non
sembra offrire molti elementi per chiarire che cosa significhi ‘decidersi
anticipatamente’ per la morte, e si diffonde invece a lungo sulla storicità
dell’Esserci. Eppure, proprio questa diffusa trattazione del problema
della storicità può considerarsi l’unico possibile chiarimento di che cosa
significhi la decisione anticipatrice della morte (e dunque, anche, di che
cosa sia la conoscenza della verità). Se infatti cerchiamo contenuti più
specifici e riconoscibili per la nozione di esistenza autentica in Sein und
Zeit, ciò che troviamo è anzitutto una distinzione che concerne i modi
di rapportarsi alla propria gettatezza come proveniente dal passato5.
Il progetto che l’Esserci è, e che costituisce la sua precomprensione
del mondo, è progetto gettato: ciò significa che è, anzitutto e per lo
più, de-finito e determinato dalla appartenenza a un mondo storico
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specifico, che nella quotidianità si dà come qualcosa di ovvio e che, in


quanto eredità di passato, tende ad essere assunto inautenticamente
nella forma della prosecuzione, della Tradition. Da questa accettazione
acritica, non problematica, della Tradition, che coincide con il restare
nella gettatezza banale-quotidiana, si distingue un diverso modo di
assumere la propria Geworfenheit: intendendo il passato non come
ovvio esser-passato (vergangen), ma come essente-ci-stato (gewesen).
E questo che distingue la Ueberlieferung (il tramandamento e l’auto-
tramandamento) dalla Tradition. Ora, ciò che costituisce la differenza
essenziale tra i due modi di rapportarsi al passato non è tanto una
consapevolezza di tipo soggettivo, come se si trattasse di una ‘presa di
coscienza’. Le possibilità ereditate con la gettatezza si configurano in
modo diverso a seconda che l’Esserci le scelga o no in relazione alla
decisione anticipatrice della morte. Nella decisione anticipatrice della
morte si apre la possibilità di un autotramandamento esplicito delle
possibilità ereditate, ossia la possibilità della ripetizione6.
Senza tentare qui un’analisi più dettagliata del testo heideggeriano
(per cui rimando al già citato libro di Massimo Bonola), domandia-
moci che rapporto c’è tra anticipazione decisa della propria morte e
assunzione storica, non ‘tradizionalistica’, del passato. Semplicemente
(ma è poi così semplice?) questo: che la esplicita assunzione della fi-
nitezza dell’esistenza colloca anche l’eredità storica che la costituisce
in una luce di possibilità: non solo nel senso, centrale nella distinzione

5
Cfr. su ciò lo studio di M. Bonola, Verità e interpretazione nello Heidegger di
Essere e tempo cit.
6
Cfr. Essere e tempo cit., pp. 552-553.

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heideggeriana tra vergangen e gewesen, che il passato si presenta come
una possibilità ancora aperta; ma che, per l’appunto, si presenta come
una possibilità aperta, che dunque richiede nuove decisioni, perde
l’ovvietà opaca e monolitica con cui la gettatezza quotidiana cerca
di imporsi. Non c’è una differenziazione in termini di coscienza più
o meno acuta e ‘appropriata’ (al soggetto cosciente) della storia; ma
invece, in termini di esplicita assunzione di una finitezza in relazione
ad altre finitezze (quelle tramandate come eredità storica). Intesa così,
la seconda sezione della parte prima di Sein und Zeit (che resta anche
l’ultima della parte pubblicata), anticipa anche il lavoro successivo di
Heidegger: la distruzione, o decostruzione, rammemorante della storia
della metafisica è per l’appunto l’autotramandamento esplicito di cui
parla Sein und Zeit, che ci fa uscire dall’ovvietà obliosa (dell’essere)
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che costituisce il pensiero metafisico.


In che senso, però, per tornare al nostro tema, siamo qui di fronte
a una monumentalizzazione della verità? Il paragrafo 74 di Sein und
Zeit, a cui ci siamo fin qui riferiti, muove dalla constatazione che «le
possibilità dell’esistenza effettivamente aperte non si possono ricavare
dalla morte»7; l’Esserci le ricava invece dalla sua gettatezza; con il ter-
mine ‘destino’, dice Heidegger, «designarne lo storicizzarsi originario
dell’Esserci quale ha luogo nella decisione autentica, storicizzarsi in
cui l’Esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità
ereditata e tuttavia scelta»8. In generale, dunque, l’autenticità dell’Es-
serci è legata, nella sua possibilità, al tramandamento di una possibilità
ereditata e scelta: scelta in quanto riconosciuta nella sua natura finita
in relazione alla esplicita finitezza dell’erede-interprete.
An-denken, rammemorazione, non è dunque solo il nome del pen-
siero che, nell’epoca della fine della metafisica, cerca una via per uscire
dall’oblio dell’essere; ogni pensiero, in quanto autotramandamento di
una possibilità ereditata-scelta nella decisione anticipatrice della mor-
te, è an-denkend. La decisione anticipatrice della morte, dalla quale
dipende l’autenticità dell’esistenza e dunque anche la ‘scientificità’
della interpretazione del mondo, e la conoscenza della verità, non ha
altro modo di attuarsi che la rammemorazione. Se anche non siamo
qui di fronte a una vera e propria teoria della verità come monumento
(per la quale si potrebbero però addurre anche altri elementi, a partire

7
Ivi, p. 549.
8
Ivi, p. 550.

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dal saggio su «L’origine dell’opera d’arte» in Holzwege9), resta che la
possibilità di accesso alla verità, in quanto legata alla autenticità del
progetto, non è tanto legata al presente o al futuro ma al passato. È il
passato, ripetuto come possibilità (ancora) aperta, che ci libera dalla
opaca ovvietà del quotidiano. Questo passato ancora aperto – come un
testo classico, un’opera d’arte, un ‘eroe’ capace di fare da modello – è
quello che, per l’appunto, si può chiamare monumento; un termine
che qui è da noi scelto, certamente, anche con un intento provocatorio,
ma che si legittima in quanto capace di portare ad espressione una
quantità di elementi presenti, anche se non espliciti, nel testo heideg-
geriano: segnatamente, la nozione di traccia, di rammemorazione, di
opera d’arte, di mortalità. È solo nella cornice così definita che si dà,
per Heidegger, un’esperienza di verità.
Si può discutere se Gadamer sia un prosecutore fedele di Heideg-
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ger; ma è abbastanza certo che la sua ermeneutica realizza almeno una


delle linee possibili dello sviluppo dell’ontologia heideggeriana (l’altra
essendo quella di uno Heidegger mistico-eversivo, ‘anarchico’ nel senso
del titolo di una recente opera di R. Schürmann10), cioè la radicale
riduzione dell’essere al Ge- Schick, all’invio. Se, dopo Sein und Zeit,
non si può (più) pensare l’essere come presenza dispiegata, esso dovrà
pensarsi (rammemorarsi) solo come Ueber-lieferung, tras-missione; o,
appunto, come Ge-Schick, insieme dell’invio. Mentre Heidegger – ma
è una questione da discutere – sembra ancora avere riserve e limiti di
vario tipo nell’identificare – e dissolvere – l’essere nell’invio (giacché
per esempio la sua polemica contro la metafisica lascia ancor sempre
sussistere una possibile tensione tra l’essere e il canone della tradizione
culturale dell’Occidente, nella quale l’essere si dà e si cela nello stesso
tempo, e la cui decostruzione sembra però sempre dover puntare
verso una condizione diversa, non più obliosa), Gadamer radicalizza,
mi pare, la nozione di Ge-Schick, come si vede per esempio nel fatto
che in lui non c’è alcuna polemica contro la metafisica occidentale, ma
semmai solo contro lo scientismo empiristico-positivistico, e proprio
in quanto minaccia la tradizione umanistica che a quella metafisica si
riporta, sforzandosi di ridurre le scienze dello spirito sul piano meto-
dico delle scienze della natura. «Sein, das verstanden werden kann,
ist Sprache» – la ben nota formula ‘conclusiva’ di Verità e metodo,
significa non tanto la riduzione dell’essere a linguaggio, come pure

9
Si veda in questo il cap. su «L’infrangersi della parola poetica», nel mio La fine
della modernità cit.
10
Cfr. R. Schürmann, Le principe d’anarchie. Heidegger et la question de l’agir cit.

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è legittimo pensare; ma la sua identificazione con la lingua nella sua
vita storica, fatta di strutture linguistiche e segnata però, soprattutto,
da opere caratterizzanti, da testi eminenti. Proprio questo sottolinea la
differenza tra due possibili traduzioni del termine Sprache: traducendo
lingua, come Gadamer sembra preferire, si accentua di più sia la nozione
di lingua naturale e storica (linguaggio è anche quello della fisica, e i
simbolismi artificiali che si danno solo entro una lingua) sia l’idea di
un patrimonio di testi bestimmend per la lingua stessa. Se è così, si
può dire che anche per Gadamer, come per Heidegger (in misura e
senso diversi, almeno in parte), noi facciamo esperienza del mondo in
un orizzonte in cui le cose vengono all’essere solo nel progetto gettato
che noi sempre siamo; questo progetto è la lingua che parliamo e che
ci parla, la quale vive come insieme di regole, come patrimonio di
testi bestimmend, e come dialogo interpersonale. L’essere non è come
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l’oggetto: accade nel dialogo che ci lega agli altri, con i quali soltanto
esperiamo le cose; e questo dialogo dà luogo a un intendersi sulle cose
solo perché avviene in un medium, la lingua, che non è solo mezzo, ma
ambito reggente storicamente qualificato da testi eminenti. Torneremo
ancora su questa descrizione ermeneutica dell’esperienza da parte di
Gadamer; ma per ora sottolineiamo che il discorso dei monumenti si
fa più appropriato e stringente proprio, anzitutto, nella misura in cui
qui non c’è (o c’è assai meno che in Heidegger) una differenza tra
l’essere – come invio, destinazione, trasmissione – e i contenuti effettivi
della tradizione. La nozione gadameriana di Verwandlung ins Gebilde,
che ha un ruolo centrale in Verità e metodo proprio là dove si illustra
il carattere esemplare dell’esperienza estetica per ogni possibile espe-
rienza della verità, mi sembra confermare appunto questo elemento
monumentale: l’intendersi che accade nell’esperienza ermeneutica, o
anche la comprensione dell’opera d’arte o del testo del passato con
cui entriamo in dialogo, avviene solo per la via della ‘trasmutazione
in forma’; cioè, possiamo dire, nella misura in cui la fusione di oriz-
zonti fra gli interlocutori si ‘innalza’ al piano del monumento: sia che
gli interlocutori si intendano entro, o in riferimento a un canone di
forme tramandate; sia che dall’incontro si produca una nuova forma
capace di durare, di divenire a propria volta canone, classico. (Queste
due possibilità, in realtà, non configurano due alternative, ma forse
due aspetti sempre inscindibili, anche se presenti in gradi diversi, in
ogni dialogo ermeneutico, dall’interpretazione dell’opera d’arte alla
produzione di nuove istituzioni nel dialogo sociale). Quali che siano
le difficoltà di pensare in relazione alla ‘trasmutazione in forma’ i vari
aspetti dell’esperienza ermeneutica, un tratto rimane certo: ed è che
la trasmutazione in forma, come appare dai numerosi esempi a cui

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ricorre Gadamer in Verità e metodo11, non ultimo quello del ritratto,
significa che l’esperienza del mondo si dà per l’uomo in uno scambio
dialogico che è reso possibile da una lingua la quale non è struttura di
un medium comunicativo, ma patrimonio di forme, cioè di monumenti.
Non c’è dialogo interpersonale se non come riconoscersi in ‘forme’, che
sono tramandate o anche prodotte ex novo, ma che sono tali solo nella
misura in cui si ‘provano’ storicamente capaci di coagulare intorno a
sé l’esperienza di singoli e gruppi.
Se volessimo, provvisoriamente, riassumere questo aspetto dell’on-
tologia ermeneutica gadameriana, potremmo dire che in essa come
in Heidegger, l’essere non è (non è il darsi della cosa nella semplice-
presenza) ma accade, avviene – viene a noi in un tessuto di domande
e risposte, in una esperienza di Mit-dasein resa possibile e dotata di
senso dalla lingua che è il medium in cui si trasmettono forme – cioè
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configurazioni di valore, modelli, significati, opere o testi, che si di-


mostrano capaci di ripetizione-esecuzione. L’essere è la trasmissione,
è il trasmettersi di testi-opere capaci di ripetersi e di dar luogo così al
sorgere di altre forme. Della forma così intesa, è appena il caso di dirlo,
non fa parte solo la definitività, la configurazione stabile, riconoscibile
e quindi ripetibile; ma anche la capacità di essere il luogo di un rico-
noscimento di sé da parte degli interpreti. La forma che si trasmette
nella storia e che la costituisce come storia dell’essere, è quella che è
capace di essere riconosciuta da chi si riconosce in essa12.

2. Il termine ‘riconoscimento’, che Gadamer riprende dalla dottrina


aristotelica della tragedia, e quelli heideggeriani di ripetizione, auto-
tramandamento, destino – indicano bene, di là dal loro più specifico
significato nei singoli contesti, quella che sembra essere una Stimmung
comune dell’ermeneutica, soprattutto nella formulazione di Gadamer
e, di riflesso, nello heideggerismo come Gadamer lo interpreta. L’e-
sperienza della verità, qui, è anzitutto esperienza di integrazione, di
(ristabilimento di continuità; anche in Heidegger, dove il rapporto
con la tradizione culturale dell’Occidente sembra più problematico e
polemico, l’antitesi alla tradizione è definita proprio in termini di ramme-
morazione, che si contrappone alla metafisica in quanto oblio; dunque,

11
Sulla «Verwandlung ins Gebilde», cfr. Verità e metodo cit., p. 142 e segg.; e Kleine
Schriften, vol. I cit., p. 157.
12
Un riferimento illuminante, che qui possiamo solo accennare, è la definizione
dell’interpretazione che dà L. Pareyson, come «conoscenza di forme da parte di per-
sone»: cfr. L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività [1954], Milano, Bompiani,
19883, pp. 157 e segg.

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benché una rottura con la tradizione sia contemplata, essa è motivata
dall’esigenza, ontologicamente ‘fondata’, di ristabilire una continuità,
di rammemorare qualcosa che la metafisica tradizionale ha obliato13.
Se si aggiunge a tutto questo il fatto che, in Heidegger, il compito del
pensare, così come lui stesso lo ha inteso e praticato, sembra essere
essenzialmente quello della ripetizione, del risalimento nella storia della
metafisica, e che uno dei motivi-guida di tutto il discorso di Gadamer
è anche, e anzitutto, la rivendicazione della centralità del sapere uma-
nistico contro le pretese egemoniche delle scienze della natura – si
accentua l’impressione che l’esperienza della verità, per l’ermeneutica,
sia essenzialmente un’esperienza di ripetizione. La trasformazione che
si opera nell’incontro ermeneutico con l’altro è una trasmutazione in
forma, il mediare l’estraneità dell’altro con sé nell’ambito di una forma
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che ha una consistenza storica ‘oggettiva’, sostanziale – che ha qualcosa


della sostanzialità dello spirito hegeliano: solo a questo prezzo si evita
che il dialogo ermeneutico sia uno sforzo di reciproca sopraffazione,
il cui esito potrebbe essere solo la prevalenza dell’uno o dell’altro
interlocutore, secondo uno schema dialettico di relazione padrone-
schiavo. Questo ‘terzo’, il medium entro cui l’intendersi è possibile,
trascende gli interlocutori ma anche li porta, li sorregge e li mette fin
da principio in relazione tra loro; è la loro storicità, quell’insieme di
possibilità ereditate, in relazione a cui, soltanto, la decisione anticipatrice
della morte, l’assunzione esplicita della finitezza, acquista un contenuto
storico riconoscibile, di destino. Naturalmente, come appare chiaro
dall’enfasi posta da Heidegger, in Sein und Zeit, sulla decisione, l’au-
totramandamento è sempre una ‘costituzione’ critica della tradizione,
contro ogni tradizionalismo: le possibilità ereditate sono riconosciute
nella loro finitezza (storicità, contingenza, molteplicità) e fatte oggetto
di una decisione, di una scelta; anche se non ci si può illudere che ciò
che guida e muove la decisione, in quanto anch’essa intrastorica, sia
del tutto estraneo alla storicità foggiata proprio da quella eredità, c’è
in questo movimento di finitizzazione di sé e della storia una portata
critica che fa della ripetizione heideggeriana tutto il contrario che la
passiva accettazione della tradizione. Anche in Gadamer, come del resto
egli stesso sottolinea in un bel saggio compreso nelle Kleine Schriften,
il rapporto con la tradizione non ha affatto ‘l’innocenza della vita or-

13
Si veda ancora, su ciò, il citato lavoro di M. Bonola, Verità e interpretazione nello
Heidegger di Essere e tempo, spec. p. 207 e segg.

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ganica’14, ma può comportare rotture rivoluzionarie, prese di distanza,
o anche il ristabilimento dell’autentica immagine del passato contro i
travisamenti presenti.
Tutto questo non ha da fare solo con i possibili ‘contenuti’ della
decisione, con i diversi possibili significati dell’evento che è l’interpre-
tazione, l’accadimento ermeneutico, e che, in quanto accadimento, è
sempre un novum, anche quando sia mosso dal proposito di ripetere
il passato (come nella esecuzione ‘fedele’ di un capolavoro artistico).
La storia dell’Occidente è piena, del resto, di rinascenze, che innova-
no appunto proprio nella misura in cui si propongono di ristabilire,
di ritrovare e rimettere in vigore, momenti originari, passati canonici
(indebitamente) dimenticati.
Riconoscendo il carattere di accadimento proprio dell’atto inter-
pretativo, tuttavia, l’ermeneutica non teorizza la sua necessaria novità.
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L’evento interpretativo può configurarsi sì come una rottura esplicita


con il passato, ma anche presentarsi come prosecuzione e ripetizione del
tramandato. In qualche modo, parlare di carattere ermeneutico dell’e-
vento storico, e in fondo di ogni evento storico (come ogni enunciazione
di verità è articolazione di un [già] compreso), significa sia sottolinearne
il mai cancellabile legame con il passato, sia escludere che esso possa
attuarsi come pura e semplice ripetizione, poiché interpretare è anche
sempre formulare in modo diverso e nuovo. Tuttavia, non è il valore del
nuovo che l’ermeneutica intende enfatizzare; perché lo potrebbe fare
solo alla luce di una filosofia della storia di tipo provvidenzialistico e
metafisico, che giustificasse il volere del novum come dispiegamento, o
ricupero, del Grund, dell’essenza autentica, del telos scritto già-sempre
nella garantita struttura emancipativa del tempo. Inutile dire che una tale
enfatizzazione metafisica del valore del nuovo, che si può considerare
caratteristica della modernità15, è anche profondamente contraddit-
toria, giacché il nuovo vale solo in quanto legittimato dal riferimento
a un originario Grund o aspettativa essenziale. Il delinearsi filosofico
del ‘monumentalismo’ della concezione ermeneutica della verità, del
resto, è molto probabilmente da mettere in relazione con lo svuota-
mento del valore del nuovo che si è verificato con quella che Gehlen
ha chiamato la ‘secolarizzazione del progresso’16, con il dissolversi di
ogni riferimento del nuovo alla salvezza ultraterrena, dapprima, e poi

14
Cfr. Kleine Schriften, vol. I cit., p. 160; il saggio, intitolato significativamente «Die
Kontinuität der Geschichte und der Augenblick der Existenz», è alle pp. 149-160.
15
Cfr. ancora il già citato La fine della modernità, spec. l’introduzione e il cap. vi..
16
Cfr. A. Gehlen, Die Säkularisierung des Fortschritts cit.

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al rinnovamento storico, alla rivoluzione ecc. Allorché il nuovo vale
solo come tale, o il progresso vale solo in quanto conduce a situazioni
in cui ulteriore progresso è possibile, senza più alcuna definizione di
un ideale punto di arrivo, il valore del nuovo ha percorso tutta la sua
parabola, e si può forse parlare, proprio in relazione a questo, di una
fine della modernità.
È questa la prospettiva in cui bisogna guardare alla ‘monumentaliz-
zazione’ ermeneutica della verità. Certamente essa comporta una presa
di distanza dal ‘futurismo’ (in senso letterale) della metafisica moderna
della storia, a favore dell’ideale della continuità. Tuttavia, la crisi del
valore del nuovo si consuma anche indipendentemente dalle conclu-
sioni dell’ontologia ermeneutica. La quale invece, dal canto suo: (a) si
mantiene fedele a una concezione non metafisico-fondativa della storia;
che, come dice Heidegger in Sein und Zeit, «l’esserci si scelga i propri
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eroi»17 è possibile solo perché la storia non ha un corso determinato


in termini di una razionalità essenziale e l’unica forma di sostanzialità
che essa realizza è quella del concatenarsi e cristallizzarsi di formazioni
di significato ‘umane, troppo umane’; i monumenti hanno un senso
tanto più determinante quanto più sono l’unica ‘sostanza storica’ di cui
disponiamo, l’unica possibile ‘fondazione’ per l’esistenza nel quadro
dell’essere inteso non come Grund ma come evento. (b) L’esserci, però,
sceglie i propri eroi; il carattere di evento dell’atto interpretativo, se non
può non implicare una monumentalizzazione della verità, e dunque
una deenfatizzazione del novum, lascia però intatto il carattere di scelta
che l’interpretazione sempre comporta. (c) Infine, anche rispetto a una
possibile ripresa del significato ontologico della novità – che certo, in
qualche misura, non è estraneo anche alla visione ermeneutica della
verità: penso alla ‘fusione di orizzonti’ di Gadamer, dove l’esito del
dialogo ermeneutico tra gli interlocutori non è il prevalere della pro-
spettiva dell’uno o dell’altro, ma la formazione di un orizzonte comune
che disloca entrambi dalle loro posizioni precedenti – il non fare di
essa un termine interno alla teoria, lasciandola come un momento
radicalmente altro, non richiesto, previsto, deducibile, rimane forse
l’unica via percorribile. Monumento è forse, allora, anche ciò che ci
parla da una alterità non riducibile, della quale non possiamo disporre
in un sistema di Begründung, e che ci colloca (in quanto ci trascende
e ci regge) ma anche ci disloca (in quanto non ne disponiamo), come
un messaggio, un invio, radicalmente storico-finito.

17
Cfr. Essere e tempo cit., p. 552.

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9. IL DISINCANTO E IL DILEGUARSI

1. Quel che manca alla politica, e specificamente alla politica della


sinistra, è una teoria fondata, capace di dare forza e coerenza logica ai
programmi d’azione progressisti? In un saggio sul Disincanto tradito1,
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Paolo Flores d’Arcais sembra muovere da una, almeno implicita, con-


vinzione di questo tipo. Eppure, nella vicenda del disincanto, tradito o
no, che caratterizza la modernità, anche il rapporto fra teoria e prassi
ha subito un processo di trasformazione, che è legata all’erosione della
nozione stessa di un «progetto» teorico e della nozione di fondazione.
Certo, Flores ne prende atto quando ammette che non si può rifare il
discorso giusnaturalista, e che si tratta invece di scegliere (di trovare
ragioni per scegliere) la fedeltà al progetto moderno, indipendente-
mente da ogni possibilità di fondare questa scelta su argomenti di tipo
apodittico. Flores propone, anziché una fondazione, un «appello» alla
fedeltà; ma questo è forse già un modo di ragionare che implica, tra i
suoi presupposti o tra i suoi corollari, anche una diversa considerazione
del rapporto teoria-prassi e, nel caso specifico, del rapporto tra filosofia
e politica. Fa parte di quello stesso progetto moderno, segnato dal disin-
canto, da un lato il fatto che l’appello alla fedeltà che gli «dobbiamo»
non possa fondarsi su una dimostrazione cogente; e dall’altro il fatto
che, proprio perché non siamo più nell’orizzonte della dimostrazione
logicamente cogente, anche la portata «politica» della filosofia è meno
diretta. Anzi, ciò che talvolta sembra stridere nel discorso di Flores sul
disincanto è proprio il residuo di una pretesa fondativa della teoria,
almeno rispetto alla pratica: gran parte delle indicazioni concrete, sia
in termini di proposta programmatica, sia in termini di critica dell’e-
sistente, che Flores avanza nel suo saggio sono naturalmente del tutto
condivisibili; quel che sembra poco fedele al significato del disincanto
è lo sforzo di farle derivare dall’impostazione teorica generale. Non che

1
Cfr. P. Flores d’Arcais, Il disincanto tradito, “Micromega”, 1986, n. 2.

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manchi una coerenza logica nel discorso; manca invece nel lettore (non
solo in uno specifico lettore, il sottoscritto) la disponibilità a pensare
i problemi politici come «risolvibili» alla luce di una teoria giusta, o
almeno, principalmente alla luce di una teoria. Fa parte di quel disin-
canto del mondo a cui dovremmo essere fedeli anche una certa dose
di scetticismo, o comunque l’esperienza della inevitabile obliquità
del rapporto fra teoria e pratica. Né il tradimento del disincanto e il
fallimento del progetto moderno nascono principalmente da «difetti»
della teoria; né la ripresa del progetto e la più radicale fedeltà al di-
sincanto si potranno realizzare come «conseguenze» o «applicazioni»
di una teoria giusta.
Potremmo però adottare una visione della teoria che, proprio in una
prospettiva disincantata, la vedesse piuttosto come un «accompagna-
mento retorico», una specie di «supplemento d’anima», indispensabile
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apparato discorsivo diretto a preparare e sostenere una politica e, anzi-


tutto, una moralità vissuta capace di mantenersi radicalmente fedele al
disincanto. Una tale concezione della teoria non ci esime dall’obbligo
di argomentare – retoricamente, se non «scientificamente» – sulla
preferibilità di certi valori; ci libera semplicemente da uno dei retaggi
caratteristici della sinistra, la pretesa di legittimare le scelte politiche,
anche le più contingenti e «tecniche» (pensiamo a certe scelte dei piani
quinquennali sovietici dell’epoca staliniana), in riferimento a precise
coordinate teoriche. Anche solo provvisoriamente, riservandoci di
ritornarci sopra, possiamo intanto prender nota che uno degli aspetti
del disincanto con cui dovremo fare i conti è anche la trasformazione
del rapporto teoria-prassi: il che sembra un tratto essenziale per il
funzionamento della democrazia; senza la consapevolezza radicale
di questa trasformazione, la democrazia sembrerà sempre solo un
«meno peggio», che affida alla decisione della maggioranza scelte che,
«a rigore», cioè secondo una concezione fondativa della razionalità,
dovrebbero esser risultato di un argomentare logicamente cogente; con
tutte le conseguenze che un simile modo di pensare può avere, per
esempio, sul modo di concepire il potere degli scienziati e dei tecnici
nella società… Disincanto è anche, e inseparabilmente, una presenza
meno forte della teoria e delle sue regole di costruzione logica, nella
società e nella politica. Questa è una considerazione che una teorizza-
zione del disincanto deve aver presente anzitutto per quanto riguarda
il proprio stesso modo di presentarsi e formularsi.

2. Il contenuto del disincanto del mondo è proprio, e soltanto,


quello che si delinea nella frase di Karl Löwith (che del resto si ri-
chiama a Max Weber), secondo cui l’uomo moderno è disincantato

111

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in quanto sa che il mondo non ha un senso «oggettivo», e che tocca
invece all’uomo «creare anzitutto il senso oggettivo e la connessione
di senso, la relazione alla realtà, in quanto la sua relazione è di creare
teoricamente e praticamente il senso»2? Concepito soprattutto sotto
questa luce, il progetto moderno caratterizzato dal disincanto appare
definito in termini di prassismo o, si potrebbe anche dire con Hei-
degger, di «umanismo». Il mondo non solo non è popolato di dèi (e
può dunque esser concepito come la grande macchina nella quale si
installano la scienza-tecnica e la razionalizzazione capitalistica); ma:
non è neanche coglibile come un ordine obiettivo, dato; e comunque,
quali che siano le differenze tra la «necessità» obiettivamente cogente
del mussen «naturale» e l’autonomia della sfera morale, è certo che
almeno il mondo umano, l’etica e la politica, non è riportabile a leggi
«date», ma solo a ciò che l’uomo, come essere libero, fa di sé. L’altra
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citazione di Löwith che opportunamente Flores richiama («Se debba


esservi questa o quella scienza speciale, se debba esservi la scienza in
quanto tale, non è la scienza che può deciderlo, ma è solo il singolo
che decide pro o contro questa»)3 riporta la responsabilità di creare e
decidere al singolo. Il disincanto del mondo è insieme il riconoscimento
della (esclusiva) responsabilità umana nella creazione del senso, e del
fatto che tale responsabilità è diritto-dovere del singolo. Il passaggio dal
disincanto all’uguaglianza non è tuttavia, secondo Flores, un passaggio
lineare o logicamente necessario. «Esiliato Dio, sotto qualsiasi forma,
la situazione si presenta allora sotto questo dilemma: poiché c’è solo
l’individuo, Uno è padrone della norma, ad annientamento di tutti gli
altri (che figurano quali nemici o quali sudditi). Oppure: poiché l’in-
dividuo è meramente individuo, ciascuno è padrone della norma nel
senso che tutti lo sono egualmente. Se l’individuo debba essere inteso
nell’una o nell’altra accezione resta, sotto il profilo razionale, indecidi-
bile» 4. Sebbene l’alternativa sia a rigore indecidibile, sembra evidente
a Flores che la prima accezione, quella «egocratica», dell’individuo,
è «regressiva», perché il mondo moderno ha scelto esplicitamente,
attraverso la storia delle sue rivoluzioni, l’accezione egualitaria. La
preferibilità di questa alternativa storicamente progressiva è affermata
qui in nome di un dovere di «fedeltà» alla tradizione moderna che non
si argomenta ulteriormente.

2
K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Napoli, Morano, 1966,
p. 181. Riprendo le citazioni contenute nel saggio cit. di P. Flores d’Arcais.
3
K. Löwith, Dio, uomo e mondo cit., p. 175.
4
P. Flores d’Arcais, Il disincanto cit., p. 91.

112

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Non fa scandalo che una fondazione ultima non ci sia. Si potrebbe
forse, proprio per capire più radicalmente il significato del disincanto
e le sue «implicazioni», analizzare meglio ciò che si contiene nella
raccomandazione della fedeltà alla scelta compiuta dalla modernità.
Si vedrà subito che, se si tratta di raccomandare una fedeltà e non di
dimostrare una inevitabile conseguenza logica, solo la seconda alter-
nativa, quella egualitaria, può essere oggetto della raccomandazione.
Avrebbe senso, posto che la modernità avesse fatto l’altra scelta, quella
«egocratica», affermare che bisogna seguirla non per ragioni logiche
ma per «fedeltà»? Parlare di fedeltà piuttosto che di necessità logica è
un modo di praticare il disincanto; ma si può predicare l’autoritarismo
in nome del disincanto? Una visione della razionalità che prenda atto
della impossibilità di una «fondazione ultima», e che si proponga invece
come appello di una «vocazione» o di un «invio» storico, sembra non
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poter orientarsi altro che verso l’alternativa egualitaria. Alla alternativa


egocratica, nell’accezione violenta e sopraffattoria della responsabilità
dell’uomo nella creazione dei significati, non si può essere «fedeli»
in una logica disincantata. Questa logica non si limita a prender atto
formalmente che non c’è un ordine obiettivo della realtà, e che tocca
all’uomo creare i significati; una tale presa d’atto mette anche fuori
gioco, immediatamente, ogni pretesa autoritaria, si orienta, non solo
formalmente ma contenutisticamente, verso il consenso paritario, e
mette da parte la «possibile» accezione sopraffattoria.
Questo, se vale, è significativo perché aggiunge al disincanto – e non
dall’esterno, o in maniera più o meno arbitraria e accidentale – una
connotazione che gli risulta essenziale: nella misura in cui prende su di
sé la responsabilità della creazione del senso, il disincanto si configura
anche come un’opzione per la non-violenza. Non c’è un fondamento
per sottomettersi a un ordine obiettivo dato, che ci trascenda; e nem-
meno per sottomettersi a qualcuno, che potrebbe domandare la nostra
obbedienza solo in nome di quell’ordine. Nel mondo senza fondamenti
tutti sono uguali, ogni imposizione di un sistema di senso sopra agli
altri è violenza e sopraffazione, perché non può mai legittimarsi in
riferimento a un ordine obiettivo. Il solo fondamento del prevalere di
un ordine di senso potrebbe essere la forza.
Proprio qui, però, il disincanto sembra incontrare un limite, che
difficilmente si può mettere da parte – come sembra accadere nel
testo di Flores – ammettendo prima l’indecidibilità dell’alternativa
tra «egocrazia» ed egualitarismo, e poi accettando che l’eguaglianza
si deve preferire solo per fedeltà alle scelte già fatte dalla modernità.
Il disincanto, pensato radicalmente, esclude con qualche ragione l’al-
ternativa della sopraffazione e dell’egocrazia; ma proprio facendo ciò

113

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mette anche in luce – credo – che la pura e semplice rivendicazione
dell’uguaglianza, se è davvero disincantata, non ha argomenti razio-
nali da far valere contro la riduzione della realtà, almeno del mondo
umano, dell’etica e della politica, a puro gioco di forze. I vari modi
in cui, soprattutto da parte dei «deboli», si è cercato di esorcizzare
questa consapevolezza, sono stati spazzati via dal disincanto: le teorie
metafisiche sull’uomo, il mondo, Dio, il fondamento, l’essenza ecc., sono
tutte forme di mascheramento della insensatezza del reale. Una volta
venuto in chiaro questo, che cosa resta? Appunto l’uguaglianza come
perfetta reciprocità formale: ma nulla prescrive che tale reciprocità,
in cui ciascuno fa valere le proprie «ragioni», non debba prevedere
anche che ciascuno faccia valere i propri muscoli.
Il solo modo di evitare queste conseguenze paradossali, ma non
tanto, del disincanto – un tema che, sotto il nome di nichilismo, soprat-
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tutto Nietzsche ha introdotto nella consapevolezza dell’Occidente – è


ripensare ancora più radicalmente (di quanto faccia Flores d’Arcais
nel suo saggio) le sue motivazioni e il suo significato. Se l’illuminismo,
che è un altro nome del disincanto come programma della modernità,
è ispirato solo da motivi «di conoscenza», difficilmente evita quella
perversa dialettica descritta in modo definitivo da Horkheimer e
Adorno. Ma: l’illuminismo, il disincanto, non è antiautoritario, egua-
litario, libertario, perché ha «scoperto» il vero fondo metafisico delle
cose; bensì: intraprende lo smascheramento della metafisica proprio
perché è antiautoritario e libertario. Questo spostamento di accento
nella concezione del disincanto ha importanti conseguenze. Esse si
riassumono forse in ciò, che il disincanto, una volta smascherata anche
la superficialità e non-ultimità dei suoi motivi di conoscenza, si sco-
pre mosso principalmente dall’esigenza etica di uscire dalla violenza
e dalla sopraffazione; ma questa esigenza non può essere soddisfatta
dalla pura instaurazione dell’eguaglianza e della reciprocità, fondata
esclusivamente su una sorta di formalismo della ragione5.
Nella misura in cui la reciprocità comunicativa è davvero disincantata,
non si vedono «ragioni» perché essa non debba sboccare nella situazione
del nichilismo estremo descritta da Nietzsche, per esempio nel lungo

5
In questa direzione «formalistica» mi sembra si muovano sia K.O. Apel (si veda
Comunità e comunicazione cit.) sia J. Habermas, da ultimo nella Teoria dell’agire co-
municativo, trad. it. a cura di G.E. Rusconi, Bologna, il Mulino, 1986. Ho discusso
più ampiamente le posizioni di Apel e di Habermas nel quarto capitolo di Al di là
del soggetto cit.

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frammento di Lenzer Heide del giugno 1887 6. In quell’appunto, che
fa parte dei testi inediti dell’ultimo periodo del pensiero nietzscheano
destinati in origine alla mai scritta Volontà di potenza, Nietzsche de-
scrive il nichilismo proprio in termini di disincanto: l’uomo europeo,
mediante la razionalizzazione dell’esistenza sociale resa possibile da
morale, metafisica e religione – cioè dalla credenza in Dio, nell’ordine
obiettivo del mondo ecc. – è diventato capace di vedere il carattere
di finzione proprio della morale, della religione, della metafisica: Dio
è un’ipotesi troppo estrema che, nelle condizioni di sicurezza sia pur
relativa in cui oggi viviamo, non ci è più necessaria, e ciò proprio in
virtù delle modificazioni della vita sociale che l’«ipotesi» Dio ha reso
possibili; lo stesso vale per la morale fondata in pretese leggi di natu-
ra, e per la metafisica. Il disincanto è la presa d’atto che non ci sono
strutture, valori, leggi obiettive; che tutto è posto, creato dall’uomo
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(almeno nel dominio del senso). Con ciò, però, non si può più evitare
(come invece ha sempre fatto la metafisica nelle sue varie forme, con
le sue pretese di cogliere strutture obiettive) il riconoscimento che non
si dà se non il gioco delle forze. E tuttavia, in questa situazione nella
quale i deboli non possono che perire, alla fine non sono destinati ad
avere la meglio i più violenti, ma invece «i più moderati, quelli che non
hanno bisogno di principi di fede estremi,… quelli che sanno pensare,
riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore, senza
diventare perciò piccoli e deboli…». Se si leggono attentamente gli
appunti dell’ultimo Nietzsche, appare possibile spiegarsi questo salto
verso un ideale di moderazione, certo poco conforme all’immagine
corrente del suo pensiero. Si tratta7 di una specie di ritorno a Schopen-
hauer, che tanta importanza aveva avuto nella formazione del pensiero
giovanile di Nietzsche. Lo smascheramento della volontà di potenza
che si cela in ogni pretesa di cogliere un ordine obiettivo, e dunque
della insussistenza di un tale ordine – ciò che Löwith descrive come
presa d’atto che il senso non è dato, ma deve essere creato dall’uo-
mo – non dà luogo, in Nietzsche, alla pura e semplice esaltazione della
forza (come vogliono i suoi interpreti nazisti e fascisti), ma dà luogo
allo spostamento dello sguardo verso l’uomo «più moderato». In una
prima approssimazione, questo spostamento sembra giustificato dal
fatto che, come del resto testimonia tutta la tradizione occidentale,
il gioco delle forze ha sempre funzionato solo mascherandosi dietro

6
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-87, vol. VIII, tomo 1, delle Opere cit.,
pp. 199-206.
7
Su ciò, si veda la mia Introduzione a Nietzsche cit., pp. 94 e segg.

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legittimazioni metafisiche. Sembra che, una volta scoperta come
pura violenza, la violenza non ottenga più i suoi scopi; come, in una
situazione in cui tutti scopertamente mentono, la menzogna diventa
inutile e impossibile. Possiamo però chiederci perché lo svelamento e
l’estremizzazione della violenza – o: il disincanto – debba condurre a
un tale rovesciamento dialettico, non poi tanto diverso da quello che
Marx prevede come svolta rivoluzionaria «necessaria» una volta che
tutti, tranne uno o pochi, siano ridotti alla condizione di proletari. Nulla
sembra giustificare la necessità che una condizione «estrema» si rovesci
nel suo opposto. In Marx, certo, tutto dipende dalla intollerabilità
della condizione di sfruttamento e dal fatto che, al punto estremo, il
proletariato non ha più da perdere altro che le sue catene. Ma, forse,
il discredito della teoria marxiana della inevitabilità della rivoluzione
(legato certo anche alla constatazione che la proletarizzazione universale
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non si è verificata in modo così lineare, anch’essa ha subito i détours


dei processi di simbolizzazione) dipende proprio dal fatto che non si
riesce a pensare il rovesciamento in termini così meccanici. Ciò che si
scopre nello svelarsi della violenza che caratterizza i processi storici è
la potenza della simbolizzazione. Non solo, cioè, che tutto è puro gioco
di forze; ma che questo gioco funziona solo se «si presenta» nella forma
del «conflitto di interpretazioni» cioè producendo senso. La produzione
di senso, però – seguiamo ancora Nietzsche – è possibile solo perché
l’uomo è un animale «capace di rivolgersi contro se stesso»8. Non solo
nell’ascesi, ma anche e soprattutto nel disinteresse estetico, e in genere
in ogni produzione di simboli (senza dei quali la forza non «funziona»),
si manifesta una capacità di trascendere l’interesse per la sopravvivenza,
capacità che è caratteristica dell’uomo e che ne fa un evento cosmico
«colmo di avvenire» (come scrive Nietzsche nella stessa pagina della
Genealogia della morale). Questo nesso tra disincanto, potenza dei
simboli e capacità di trascendere l’impulso alla sopravvivenza è il senso
della conclusione di un altro bel testo nietzscheano, che ridescrive, sotto
il profilo della conoscenza, il disincanto e il nichilismo. Nel Crepuscolo
degli idoli Nietzsche mostra «Come il ‘mondo vero’ finì per diventare
favola»; cioè come, dal mondo delle idee platoniche alla vita eterna
del cristianesimo all’a priori kantiano e all’inconoscibile di Spencer, si
consumi, fino a dissolversi, l’idea che al fondo della realtà ci sia una
struttura vera, fonte di certezza sul piano conoscitivo e di norme sul
piano morale. Il «mondo vero» si rivela come una favola. Ma, è questa
la conclusione, «con il mondo vero abbiamo eliminato anche quello

8
F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, ed. cit., vol. VI, tomo 2, p. 285.

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apparente»: se non c’è più un mondo vero che faccia da criterio, an-
che il mondo apparente non potrà più chiamarsi tale. Il disincanto,
insomma, non si può pensare come l’afferramento di una struttura vera
del reale; né, il che è importante, come il «trasferirsi» nel mondo delle
relazioni non mascherate, cioè dei puri rapporti di forza. Nietzsche
pensa piuttosto – anche se l’oscurità di questa soluzione costituisce
la vera difficoltà, forse non risolvibile, del suo pensiero tardo – a una
capacità di produrre simboli non «ideologici», cioè non inconsapevol-
mente funzionalizzati allo stabilimento o al mantenimento di rapporti
di dominio. Quel che è chiaro dai suoi testi, però, è che la possibilità
di una tale attività simbolizzatrice «libera» è direttamente legata al fatto
che l’uomo può trascendere l’interesse per la sopravvivenza, sottrarsi
ai limiti imposti dalla lotta per l’esistenza, alla cieca volontà di vivere
di cui aveva parlato Schopenhauer.
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Qui, tuttavia, non si tratta di accertare in modo storiograficamente


corretto che cosa davvero intendesse Nietzsche; bensì di chiarirci che
cosa egli significa per noi, che cosa ci suggerisce per il problema di
pensare in maniera radicale il disincanto. Ebbene, guardato in questa
luce, il pensiero di Nietzsche suggerisce che il disincanto va inteso
come qualcosa di diverso dalla scoperta della uguaglianza, o reciprocità
comunicativa, come conseguenza dello smascheramento della metafisica. Di
per sé, un tale smascheramento potrebbe bensì condurre alla scoperta
dell’uguaglianza; ma non escluderebbe la conseguenza, che del resto
Nietzsche ha tratto per suo conto in molte pagine che contrastano con
l’ideale della «moderazione» prima richiamato, di una pura e sempli-
ce liberazione del gioco delle forze – dunque anche della volontà di
violenza e di sopraffazione.
Se lo smascheramento dell’ideologia non va oltre questo punto,
rimane non risolto il problema di fondare un qualcosa che non sia la
pura forza il diritto di proporre nuovi ordini di senso. In Marx, per
esempio, il diritto del proletariato ad assumere la guida della storia
risiede nel fatto che il proletariato incarna l’essenza generica dell’uomo,
e insieme rappresenta la maggioranza dell’umanità. Anche in Marx,
forse, si può scoprire qualcosa di analogo allo «schopenhauerismo» che
intravvediamo (tra molti segnali contrastanti) nel tardo Nietzsche, e che
diventa esplicito, però, in pensatori come Horkheimer e Adorno. Si
può infatti pensare che in ultima analisi il buon diritto del proletariato
non sia garantito né dal fatto di costituire la stragrande maggioranza
dell’umanità (questo sarebbe solo un altro modo di riconoscere la
forza); né dal fatto, che a causa della sua condizione di espropriazio-
ne, il proletariato sarebbe capace, per ciò stesso, di incarnare la vera
essenza dell’umano, non guastata (Rousseau) dai meccanismi sociali,

117

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dalla proprietà, dalla falsa coscienza dell’ideologia. Potremmo invece
pensare che il buon diritto del proletariato sia razionalmente sostenibile
proprio in base al fatto che, nell’essere espropriato, esso «si riduce»
all’essenziale – a quel «presque rien» di cui parla Adorno nel capitolo
conclusivo della Dialettica negativa come dell’ultimo possibile nome
dell’essere metafisico9; un essenziale che ha qualcosa della «quintes-
senza» evaporante, una sorta di minimalità.
Non tradire il disincanto significa anche prender atto che esso non
può arrestarsi alla pura e semplice instaurazione della reciprocità co-
municativa, dell’uguaglianza tra gli individui; cioè, al liberalismo. Le
remore che si provano nel riproporre alla sinistra la pura e semplice
ripresa dei valori «liberali», con tutto il rispetto per tali valori – i quali,
come in fondo pensa Habermas, avrebbero solo il difetto di non potersi
realizzare nelle strutture della società liberale borghese – nascondono
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in fondo la consapevolezza che, ritrovando alla fine del disincanto i


«pari diritti» dei singoli, non si faccia altro che canonizzare il mondo
come «volontà di potenza». L’attenzione che, da sinistra, si presta
oggi a un pensatore come Lévinas sembra fornire una testimonianza
proprio in questo senso. Lévinas non parla dell’«altro» in termini di
reciprocità e di uguaglianza; lo pensa come una traccia dell’Infinito, il
cui rispetto ci è comandato solo dalla sua capacità di rivolgersi verso
un «Altro» che ci trascende tutti.
La critica dell’ideologia, la dissoluzione della metafisica, nella ac-
cezione «prassistica» esemplificata dal testo di Löwith da cui siamo
mossi, non basta alla «rifondazione» della sinistra, potremmo dire.
Si ha qui una sorta di parallelo, sul piano teorico, di ciò che abbia-
mo visto accadere tante volte sul piano politico: la sinistra crede di
rifondarsi «ereditando» teorie e programmi liberali, magari rimessi
con i piedi sulla terra. Non intendo qui discutere della legittimità
«generale» di questo modo di procedere; giacché sicuramente è anche
vero che un pensiero e una prassi politica «di sinistra» – per ciò che
tale espressione può ancora significare – si configurano come ripresa
«secolarizzante» della eredità del pensiero borghese. Ma forse proprio
una maggiore attenzione a che cosa può significare un tale processo
di secolarizzazione ci dovrebbe indurre a seguire le indicazioni «scho-
penhaueriane» di Nietzsche. Non solo, come accennavo, la peraltro
«strana» popolarità di un pensatore religioso e «ortodosso» come
Lévinas presso la cultura di sinistra, ma anche le innegabili difficoltà

9
Cfr. Th.W. Adorno, Dialettiva negativa [1966], trad. it. C. Donolo, Torino, Einaudi,
1970, p. 368.

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interne di un pensiero come quello di Foucault (l’archeologia del
sapere è solo smascheramento delle epistemai come effetti di giochi
di forze, e niente di più?); o fenomeni come l’attenzione che, sempre
da sinistra, si è rivolta al decisionismo di Cari Schmitt (la riduzione
della politica al rapporto «elementare» amico-nemico è sicuramente
una forma di disincanto; ma basta?) – tutto ciò sembra indicare che
la sinistra ha bisogno di una iniezione di nichilismo, o di etica. Non
sono elementi che provengano dall’esterno, introdotti arbitrariamente,
credo. Si può raccomandare la fedeltà ad essi nello stesso modo in
cui si raccomanda di esser fedeli alle scelte della modernità; anzi, con
una maggiore «cogenza» razionale; almeno nel senso che, se la scelta
della modernità è stata per l’accezione egualitaria del disincanto, come
giustamente sostiene Flores, questa scelta include, implicitamente ma
inequivocabilmente, un rifiuto della violenza e della sopraffazione; ma
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tale rifiuto richiede che all’uguaglianza, come senso del disincanto, si


accompagni anche una esplicita scelta per l’«indebolimento» dell’es-
sere, cioè per un pensiero che cerchi esplicitamente di collocarsi fuori
dalla logica della lotta per la sopravvivenza o, comunque, della visione
liberale dei diritti che si affermano in concorrenza fra loro. E difficile
vedere quali siano le implicazioni; ma è abbastanza evidente che in
un mondo disincantato – da cui è stato esiliato Dio, almeno nella sua
accezione di garante dell’ordine oggettivo dato – o il disincanto si spinge
fino a «ironizzare» anche «su noi stessi» (sono ancora espressioni di
Nietzsche), e cioè prende le distanze anche dalla «volontà di vivere»,
oppure non ha alcun argomento da proporre contro la riduzione della
vita sociale alla pura e semplice lotta di tutti contro tutti.
Non si tratta, spero non occorra chiarirlo, della predicazione di
una morale nichilistica nel senso negativo del termine, quello che
Nietzsche rifiutava come il nichilismo passivo o «reattivo»; neanche
Schopenhauer, del resto, predicava, per esempio, il suicidio, bensì una
pietà e una solidarietà per il vivente che non possiamo però fondare
sul suo «diritto» – sempre legato all’affermazione di una volontà di
vivere che, prima o poi, si scopre fatalmente concorrenziale – bensì
su una specie di vocazione al «dileguarsi» che emerge proprio come
tratto del disincanto da cui nasce la modernità.
Forse non ci sono conseguenze rilevanti, immediatamente, per ciò
che concerne i programmi politici concreti; sebbene si potrebbe soste-
nere che non è di poco conto introdurre nella cultura della sinistra la
nozione di «pietà», e in generale sostituire la critica dell’ideologia con
una esplicita opzione per l’etica come capacità di trascendere la logica
della lotta per la vita. Il disincanto moderno, del resto, sembra aprirsi
necessariamente alla dimensione «debole» del dileguarsi proprio nella

119

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misura in cui l’ideale dello sviluppo si rivela sempre meno sostenibile
come unico orizzonte di una filosofia della storia. Proprio per esser
fedeli all’eredità moderna del disincanto, è probabile che dobbiamo
fare più consapevolmente i conti con questa dimensione.
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10. ETICA DELLA COMUNICAZIONE
O ETICA DELL’INTERPRETAZIONE?

I motivi per cui si può dire che l’ermeneutica ha una spiccata


vocazione a risolversi in etica sembrano anche essere quelli che, poi,
impediscono che questa vocazione si dispieghi in modo risolutivo. Di
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fatto, è soprattutto dopo Verità e metodo che Gadamer ha cominciato


ad accentuare il significato dell’ermeneutica come filosofia pratica;
ma è abbastanza evidente, a chi conosce quell’opera, che l’etica è già
uno dei temi essenziali nella sua formazione. Forse, anzi, la centralità
che l’ermeneutica è venuta assumendo sempre più marcatamente nel
panorama filosofico attuale dipende proprio dal suo essere una filosofia
decisamente orientata in senso etico, che cioè fa valere, come elemento
decisivo della sua critica alla metafisica tradizionale, e dello scientismo
che ne è l’ultima incarnazione, l’istanza etica. Etica è termine che qui
si può usare nel significato più specifico, per cui si distingue anche
da morale: l’orizzonte entro cui, infatti, Verità e metodo rivendicava
la portata di verità di campi di esperienza irriducibili a quelli coperti
dal metodo scientifico-positivo, e anzi tali da «includere» le stesse
scienze come proprio momento o parte, era proprio quello di una vita
sociale pensata come «ragione in atto», come logos che si dà anzitutto
nella lingua naturale di una determinata comunità storica. E l’etica in
quanto ethos, costume, cultura condivisa da un’epoca e da una società,
quella che, in ultima analisi, «smentisce» lo scientismo e la sua pretesa
di ridurre la verità ai soli enunciati sperimentalmente accertati dal
procedere metodico delle scienze matematiche della natura. Su questa
linea di critica dello scientismo, che Verità e metodo riassume e formula
in modo divenuto emblematico per tutta la filosofia contemporanea,
si ritrovano molti indirizzi del pensiero attuale: non solo le posizioni
«critiche» che, riprendendo Hegel e Marx, collocano la verità della
scienza entro un orizzonte storico-dialettico orientato ad un telos eman-
cipativo; ma anche tutti gli sviluppi della dottrina wittgensteiniana dei
giochi linguistici come espressioni di «forme di vita»; o l’archeologia
del sapere foucaultiana, con la sua nozione delle epistemai come eventi

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storici determinati non da ragioni teoretiche, ma da giochi di forze e
da decisioni di disciplinamento; e infine la concezione del corso della
scienza nel quadro di paradigmi anch’essi non anzitutto determinati
«teoreticamente», che è il nocciolo della teoria di Thomas Kuhn.
Esprimendo e interpretando, nel modo filosoficamente più conse-
guente e ricco, questi fermenti antiscientistici presenti in larga parte
del pensiero contemporaneo, l’ermeneutica si costituisce come filosofia
guidata fin dall’inizio da una vocazione etica, nel senso specifico che
si è detto, e contribuisce potentemente a quella che è stata chiamata
la «riabilitazione della filosofia pratica»; ma poi, i contenuti di questa
riabilitazione non sembrano soddisfare alle esigenze più propriamente
morali che pure l’etica implica, al suo bisogno di render giustizia anche
all’aspettativa di imperativi e norme. L’etica che l’ermeneutica rende
possibile sembra essere principalmente un’etica dei beni, per usare
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un’espressione di Schleiermacher, più che un’etica degli imperativi.


O meglio: se un imperativo si delinea in essa, è quello che prescrive
di ricondurre (intendendo l’interpretazione come atto di traduzione;
anche Habermas ha parlato della funzione di Dolmetscher della filo-
sofia) i vari logoi – discorsi dei linguaggi specializzati; ma anche sfere
di interesse, ambiti di razionalità «autonomi» al logos-coscienza co-
mune, al sostrato reggente di valori condivisi da una comunità storica
vivente, che si esprime nella sua lingua. (E questo, detto di passaggio,
il senso che un autore di formazione «analitica» ma aperto alle ragioni
dell’ermeneutica, come Donald Davidson, ritiene si debba ancora rico-
noscere alla metafisica, l’unico senso possibile: quello di far emergere,
attraverso l’analisi del linguaggio che parliamo, le strutture reggenti
su cui si articola la nostra esperienza del mondo1). Certo, l’apparenza
statica (o addirittura reazionaria, o almeno tradizionalista) di una
tale visione dell’etica è tanto più accentuata e motivata quanto più si
dimentica – cosa che Gadamer non fa – che i conflitti del logos, della
lingua-coscienza comune entro cui siamo gettati e che deve far da criterio
per la «razionalizzazione» delle nostre scelte, non si possono definire
rigidamente: anzi è probabile – ed è solo un altro aspetto del significato
dell’ermeneutica come koiné – che si possa giungere a riconoscere la
ragione come il logos-coscienza comune che si esprime nella lingua
proprio solo oggi che le lingue naturali, e le comunità storiche che le
parlano e ne sono parlate, tendono a perdere ogni confine stabile e ogni
identità fissa. Dunque, si dovrà riconoscere che, se Gadamer (come fa

1
Cfr. Inquiries into Truth and Interpretation, Oxford, Clarendon Press, 1984,
pp. 199-200.

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variamente, soprattutto nei saggi di La ragione nell’età della scienza)
pensa il socratico «salto nei logoi» come passaggio dai linguaggi spe-
cialistici e dalle sfere di interesse particolari (che diventano eticamente
riprovevoli quando tendono a valere in modo isolato) al logos-coscienza
comune, questo lo può pensare solo in quanto l’orizzonte di riferimento,
il logos inteso come ragione in atto nella lingua, diventa sempre più
solo un’idea limite, l’ideale regolativo di una comunità di vita sempre
in via di farsi, e mai identificabile come una fattuale società storica, i
cui valori stabiliti dovrebbero essere accettati e assunti come canoni.
L’apparenza conservatrice e reazionaria dell’etica ispirata all’erme-
neutica si svela così solo un’apparenza. Tuttavia, e proprio per queste
stesse ragioni, il passaggio al logos-coscienza comune, come ideale
morale normativo, sembra ridursi a troppo poco. Proprio nella misura
in cui non è pensato come un patrimonio di valori definiti una volta
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per tutte, questo logos finisce per identificarsi con la pura e semplice
esigenza di universalizzazione che la filosofia fa valere formalmente,
ma verso i cui contenuti, significati, effettivi criteri di preferibilità,
sembra non volersi impegnare. Apparentemente ciò corrisponde alla
consapevolezza che i valori, in base ai quali di volta in volta si fa valere
nel dialogo sociale la preferibilità di una certa scelta, sono radicalmente
storici. Il che, ovviamente, è giusto. Ma la filosofia che si pensa in tal
modo come una specie di metateoria o di metaetica, si rappresenta a
se stessa come a propria volta non storica, collocandosi illusoriamente
in un punto di vista esterno (una «view from nowhere», secondo il
titolo di una recente opera di Thomas Nagel), un punto di vista che
non si dà, o almeno non si dà se vale l’ipotesi della radicale storicità
che caratterizza il logos e i valori che lo costituiscono.
Quel che qui propongo di chiamare «etica della comunicazione», in
contrasto con l’etica dell’interpretazione, rientra totalmente in questa
prospettiva ancora largamente dominata da un pregiudizio metafisico-
trascendentale, che assume la storicità in modo troppo poco radicale,
almeno dal punto di vista dell’ermeneutica. Nonostante le innegabili
differenze, esplicitatesi anche in discussioni e polemiche, che separano
l’ermeneutica nella sua configurazione canonica gadameriana dall’etica
della comunicazione di autori come Apel e Habermas, queste posizioni
non sono poi così lontane fra loro; o meglio, Apel e Habermas espli-
citano un atteggiamento trascendentale che in Gadamer è respinto,
ma tuttavia è presente come un rischio quasi inevitabile, almeno nella
misura in cui egli sembra rifiutarsi ad un radicale riconoscimento della
storicità dell’ermeneutica stessa. Intendo dire che l’etica di ispirazione
ermeneutica, almeno nella formulazione gadameriana, ha davanti a sé
solo due vie: o si irrigidisce, e determina in maniera molto netta la

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fisionomia del logos come insieme di valori condivisi da una comunità
storica effettiva (magari dispiegandosi come «metafisica semantica» alla
maniera di Davidson), e allora diventa fatalmente un’etica conservatrice,
che assume come criterio i valori accettati e l’ordine esistente; o invece,
come tende sostanzialmente a fare è consapevole del carattere di idea-
limite che appartiene al logos-lingua proprio nelle condizioni attuali, e
allora finisce però per presentarsi come una pura esigenza formale di
universalizzazione attraverso la comunicazione, non dissimile da quella
che risuona, nella luce di una esplicita ripresa del trascendentalismo
kantiano, in posizioni come quelle di Apel e di Habermas. Il limite
di queste posizioni, come si è accennato, consiste dal punto di vista
dell’ermeneutica nel proporre, implicitamente almeno, una restau-
razione metafisica: non solo o non tanto perché il soggetto di cui si
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tratta di promuovere la trasparenza (contro le opacità di un’esistenza


condizionata dalla divisione del lavoro, dalle nevrosi, dalle varie forme
di violenza istituzionale ecc.) è pensato sul modello del soggetto della
metafisica e dello scientismo moderno, tendenzialmente risolto nella
piena autocoscienza; ma soprattutto perché l’ideale normativo della
comunicazione illimitata si mostra nella sua categoricità sulla base del
riconoscimento di una struttura essenziale, reggente ogni esperienza
storica ma sottratta, essa stessa, al divenire. Nonostante differenze non
marginali di prospettiva, Apel e Habermas concordano nel riconoscere
che l’esperienza è resa possibile, in ultima analisi, da un a priori che
è la comunicazione illimitata o l’agire comunicativo; che questa sia la
condizione di possibilità dell’esperienza ne fa anche, immediatamente
e secondo il classico rovesciamento metafisico dell’essere (permanen-
te, strutturale) in valore, la norma dell’agire. In Habermas, questo
rovesciamento è meno evidente che in Apel, perché passa attraverso
una più esplicita affermazione dell’essenza «intersoggettiva» dell’io, e
attraverso una articolazione delle forme di agire in livelli diversi che
sembra delineare piuttosto come norma il rispetto delle regole pro-
prie di ogni livello (sono al limite i distinti crociani, e anche i giochi
di Wittgenstein), contro gli indebiti tentativi di «colonizzazione»; ma
in realtà l’imperativo che regola tutto è quello della comunicatività;
non c’è una illegittima colonizzazione dell’agire comunicativo verso
gli altri livelli, solo l’opposto è pensabile. L’essenza «intersoggettiva»
dell’io, poi, non ha il senso di legare l’io a concreti condizionamenti
storici, ma è affermata solo in funzione della specifica normatività del
«collettivo» come luogo della comunicazione-universalizzazione. Come

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ha osservato Dieter Henrich2 si rispecchia in questo aspetto costitutivo
della teoria di Habermas la persuasione, tipicamente moderna, «che una
vita umana raggiunge la quiete e la perfezione solo quando nella sua
prassi ritrova il cammino verso quella comunità degli uomini che viene
prima di lei» (p. 504); mentre per esempio il giovane Hegel, e molte
teorie più recenti, pensano questo processo di ritrovamento di sé nella
comunità in termini più intimistici, come amore, Habermas lo pensa in
termini di esistenza politica e di discussione razionale. Ma, possiamo
aggiungere noi andando oltre le intenzioni di Henrich, anche questo
conferma, se ce ne fosse bisogno (il che Habermas certo non nega),
il profondo legame dell’etica della comunicazione con la metafisica
moderna, orientata al dispiegamento pieno della soggettività; questo
dispiegamento non cessa di esser pensato cartesianamente in termini
di autotrasparenza, anche quando si associa all’idea della comunità;
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quest’ultima, anzi, è (anche come mito della comunità organica) l’auto-


trasparenza del soggetto tradotta sul piano sociale.
Habermas ritiene di far giustizia alla finitezza del soggetto, e di
sottrarsi all’idealismo inteso soprattutto come tendenziale solipsismo
(si vedano le sue obiezioni a Adorno, nella Teoria dell’agire comunica-
tivo), in quanto afferma la costituzione intersoggettiva dell’io. In realtà,
però, la sua preoccupazione è soprattutto quella di corrispondere a
quella specifica finitizzazione del soggetto che è stata determinata dal
suo divenire oggetto di sapere positivo. La finitezza che Habermas
garantisce al soggetto è così solo quella degli oggetti delle scienze3,
non quella dell’esistenza storica. Qui ha radice il peso determinante
che, per la costruzione della teoria dell’agire comunicativo, egli assegna
alle ricerche positive della linguistica, della psicologia e della sociologia
(Mead, Piaget). Anche dal punto di vista della teoria critica, ci sarebbe
da domandarsi fino a che punto Habermas resti qui fedele ai propri
presupposti, visto che ai risultati di queste scienze umane egli si ap-
pella senza darsi alcun pensiero della loro storicità – per esempio del
loro appartenere a una determinata episteme (nel senso di Foucault)
o a una configurazione dei rapporti sociali di dominio (nel senso del
marxismo classico).
Una tale risoluzione «scientistica» della rivendicazione della finitezza
contro la metafisica idealistica, comunque, non può invece corrispondere

2
Cfr. Was ist Metaphysik? – Was ist Moderne?, “Merkur”, 1986, pp. 495-508 (spec.
pp. 503-504).
3
Cfr. di Habermas, Ruckkehr zur Metaphysik. Eine Tendenz der deutschen Philoso-
phie?, “Merkur”, 1985, pp. 898-905.

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alle intenzioni autentiche dell’ermeneutica, che così si trova a dover
prender atto della propria distanza dall’etica della comunicazione.
L’ermeneutica «esautora» bensì il soggetto idealistico, ma non per
renderlo disponibile all’indagine scientifico-positiva. Per Habermas,
il fatto che l’io sia «assegnato» alle sue relazioni con gli altri significa
che esso è finito in quanto può così divenire l’oggetto delle scienze
umane; per l’ermeneutica, che l’io sia assegnato alla sua costituzione
intersoggettiva (o, con Heidegger, «gettato» in un mondo) significa
che tutto ciò che lo concerne non può essere oggetto di descrizione
strutturale, ma si dà solo come destino. Di questo destino possono
certo far parte anche le scienze umane, ma in tal caso si presentano
sotto una ben diversa luce. Si può concordare con il presupposto,
più o meno sottinteso, di Habermas, che sia l’affermarsi della scienza
anche sul terreno della conoscenza dell’uomo, ciò che caratterizza la
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situazione della modernità e che obbliga la filosofia a una svolta. Ciò,


però, non può essere inteso come il venire finalmente in luce, attraverso
i metodi della scienza, della vera costituzione dell’esistenza umana (così,
per Habermas le scienze umane in qualche modo «provano» l’essenza
intersoggettiva dell’io); proprio se si vuole compiere la svolta a cui la
modernità chiama il pensiero, bisogna rinunciare all’ideale metafisico
della conoscenza come descrizione di strutture obiettivamente date. L’io
intersoggettivo di Habermas è totalmente l’io della scienza-metafisica
moderna: è l’oggetto delle scienze umane e il soggetto, altrettanto
astorico, del laboratorio.
Questi tratti di astoricità fanno sì che l’etica della comunicazione
non possa considerarsi un esito appropriato per la vocazione morale
dell’ermeneutica. Quest’ultima, infatti, ha inteso far valere, e proprio
per motivi etici, l’istanza della storicità come appartenenza: l’esperienza
della verità non accade nel rispecchiamento dell’oggetto da parte di
un soggetto che deve farsi trasparente, bensì come articolazione – o
interpretazione – di una tradizione (una lingua, una cultura) a cui
l’esistenza appartiene, e che riformula inviando nuovi messaggi ad
altri interlocutori. Eticità e storicità, qui, coincidono. L’ermeneutica
può corrispondere in modo appropriato alla sua vocazione etica solo
rimanendo fedele all’istanza della storicità. Ma questo, come? Anzitutto
non pensando se stessa come teoria descrittiva, in fondo metafisica, della
costituzione ermeneutica dell’esistenza; bensì come evento di destino.
L’ermeneutica deve riconoscersi come il pensiero dell’epoca della fine
della metafisica, e solo di questa. L’ermeneutica non è la descrizione
adeguata della condizione umana che si faccia strada finalmente a un
certo punto della storia, per il merito di un pensatore o per una serie
di circostanze fortunate. È invece il pensiero filosofico dell’Europa

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secolarizzata; le è essenziale, molto più di quanto si riconosca in ge-
nere, la sua provenienza dal mondo della riforma protestante, delle
guerre di religione, del sogno classicistico di ricuperare la tradizione
della letteratura e dell’arte dell’antichità. In termini «habermasiani»,
potremmo tradurre: l’ermeneutica è la filosofia della società dell’o-
pinione pubblica, oggi della comunicazione di massa. In linguaggio
heideggeriano: essa è la filosofia dell’epoca delle immagini del mondo
e del loro inevitabile conflitto. Queste varie caratterizzazioni – che si
potrebbero ampliare; che anzi si devono ampliare – rispondono a una
domanda che proviene direttamente dal nocciolo originario dell’erme-
neutica. Se essa teorizza che l’esperienza della verità è appartenenza e
non rispecchiamento, infatti, dovrà anche dire a quale epoca, a quale
mondo, o provenienza, essa stessa, come teoria, appartiene. Non può
stare tranquilla ritenendo di aver finalmente presentato una descrizione
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adeguata dell’esistenza, della sua costituzione interpretativa; in questi


limiti, l’ermeneutica appare come una teoria metafisica banalissima, la
più banale e futile: dice infatti che non c’è una verità come struttura
stabile dell’essere rispecchiata in proposizioni, ma ci sono solo i molti
orizzonti, i vari universi culturali entro cui accadono esperienze di
verità, come articolazioni e interpretazioni interne. Anche se andiamo
oltre questo punto, individuando l’ideale regolativo nel promuovere
il dialogo tra orizzonti e universi culturali diversi, non procediamo di
molto: che cosa avrà da dire l’ermeneuta una volta che il dialogo si sia
instaurato?
Se però la «futile» e debole tesi ermeneutica si riconosce essa stessa
come appartenente, e non si traveste da descrizione metafisica, allora si
riconoscerà un destino (una provenienza) e diventerà capace di scelte,
cioè di moralità. Il destino che le appartiene, l’ermeneutica lo riconosce
se si comprende nella sua costituzione nichilistica. Anche per l’erme-
neutica stessa come teoria, la verità non consiste nel rispecchiare un
dato di fatto, ma nel rispondere a un destino. Questo destino è quello
dell’epoca della fine della metafisica nella quale, come dice Heidegger,
si illumina un primo lampeggiare dell’evento dell’essere in quanto in
questo momento uomo ed essere perdono le caratteristiche che la
metafisica (il pensiero della presenza, dell’oggettività, della volontà di
potenza) aveva loro assegnato. L’ermeneutica – e ciò andrebbe discusso
esaminando il modo di argomentare, ricco e denso, ma anche molto rusé
e sfuggente, di Gadamer in Verità e metodo – non può che legittimarsi
come corrispondenza a un destino che è quello della modernità; certo
non può provarsi come descrizione adeguata di una qualche struttura
dell’esistenza. In termini più semplici, si può dire che se c’è qualche
ragione per ascoltare il discorso dell’ermeneutica, essa può risiedere

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solo nel fatto che l’ermeneutica si mostra come appartenente all’età
in cui viviamo, come sua teoria, solo in un certo senso «adeguata»4. È
nel mondo dell’opinione pubblica, dei mass media, del «politeismo»
weberiano, della organizzazione tecnica tendenzialmente totale dell’e-
sistenza, che può darsi una teoria della verità non come conformità
ma come interpretazione. La più esplicita articolazione di questo nesso
destinale, del fatto che essa stessa appartiene alla modernità (anche
definita nei termini di oblio dell’essere e di nichilismo), è un lavoro
che l’ermeneutica deve ancora compiere. Gadamer non ha ritenuto di
dare questo senso al suo discorso, e in ultima analisi ciò significa che
egli si è preclusa la considerazione dell’ermeneutica come destino, con
le conseguenze sul piano etico che abbiamo sopra indicato. Gadamer
sembra aver pensato piuttosto che si trattava di rivendicare la possibi-
lità di esperienze extrametodiche della verità, contro le pretese dello
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scientismo moderno divenute esclusive solo dopo Kant, facendo valere


un’idea di verità come appartenenza che già era stata nota ai Greci e
che si rintraccia ancora, come tendenza minoritaria, nella modernità.
Di qui, anche, proviene la maggiore amichevolezza che, in confronto a
Heidegger, Gadamer mostra per la metafisica, che non gli appare affatto
segnata da un irrimediabile e nichilistico oblio dell’essere. In una pro-
spettiva rigorosamente heideggeriana, e cioè anche radicalmente fedele
all’istanza della storicità che sta alle origini dell’ermeneutica, questa
non può pensarsi davvero come alternativa alla modernità – giacché in
tal modo dovrebbe legittimarsi come fondata su una qualche evidenza
che la modernità ha trascurato o dimenticato; ma deve presentarsi
come il pensiero dell’epoca della fine della metafisica, cioè come il
pensiero della modernità e del suo compimento, e nient’altro. Ora, il
compimento della modernità, ci insegna Heidegger, è il nichilismo, il
Ge-Stell, il mondo della razionalizzazione scientifica e tecnologica, il
mondo del conflitto tra i Weltbilder. E in questo mondo che «lampeg-
gia» l’Ereignis che c’è una chance di oltrepassare la metafisica e la sua
mentalità oggettivante5, proprio perché uomo ed essere perdono le loro
qualifiche metafisiche, di soggetto e di oggetto anzitutto.
In che senso, però, si può dire più precisamente che l’ermeneutica,
come pensiero che si pone fuori dalla metafisica, è resa possibile proprio
dalla modernità nei suoi tratti di dominio universale della tecnologia
e di compimento del nichilismo? Una tale tesi sembra anzitutto in

4
Su questi temi, si vedano i saggi raccolti in Filosofia ’86 cit.
5
Mi permetto di rimandare ancora, su questo tema, al mio saggio su «Metafisica,
violenza, secolarizzazione», in Filosofia ’86 cit.

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conflitto con le dichiarazioni esplicite di Heidegger, che solo in alcuni
momenti della sua opera ha lasciato intravvedere (come nel testo sul
lampeggiare del che è in Identität und Differenz) la possibilità che proprio
nei tratti nichilistici della modernità si annunci un nuovo pensiero non
più metafisico. Questa possibilità, che Heidegger intrav- vede soltanto,
diventa probabilmente esplicita e riconoscibile solo con la modifica-
zione profonda che il Ge-Stell, il mondo della tecnica, subisce con il
passaggio dalla tecnologia meccanica alla tecnologia informatica. Oggi,
come è noto, la differenza tra società sviluppate e società sottosviluppate
non si fa più tanto in termini di possesso di tecnologie meccaniche, di
macchine capaci di piegare, concentrare, superare le forze della natura,
spostando, scomponendo e ricomponendo. Non è più questione di
motori, ma di computer e di reti che li collegano, permettendo anche di
dirigere le macchine più «brute», quelle meccaniche. Non è nel mondo
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delle macchine e dei motori che uomo ed essere possono perdere le


qualifiche di soggetto e di oggetto, ma nel mondo della comunicazione
generalizzata: in esso, l’ente si dissolve nelle immagini distribuite dai
mezzi di informazione, nell’astrattezza degli oggetti scientifici (la cui
corrispondenza con «cose» reali, esperibili, non si lascia più vedere)
o dei prodotti tecnici (che non hanno un aggancio nel reale attraverso
il loro valore d’uso, giacché le esigenze a cui soddisfano sono sempre
più artificiali); mentre il soggetto, a sua volta, è sempre meno centro di
autocoscienza e di decisioni, ridotto com’è a portatore di ruoli sociali
molteplici che non si lasciano ridurre a unità, e ad autore di scelte
statisticamente previste. Nel Ge-Stell informatico, nel mondo delle
immagini del mondo, il mondo vero, come diceva Nietzsche, diventa
favola; o anche, con il termine heideggeriano, Sage. L’ermeneutica è
la filosofia di questo mondo in cui l’essere si dà nella forma dell’inde-
bolimento e del dileguamento; c’è un senso «riduttivo» della tesi che
«non ci sono fatti, solo interpretazioni», e questo senso riduttivo, di
perdita di realtà, è essenziale anche per l’ermeneutica.
Sul piano etico, tutto ciò ha la conseguenza di sostituire, all’etica
della comunicazione, un’etica dell’interpretazione. La prima, come
abbiamo visto, individua la norma della comunicazione illimitata, o
dell’agire comunicativo, solo a prezzo di collocarsi in una posizione di
sostanziale a-storicità; e paga questa scelta con uno sbocco che oscilla
tra il formalismo e il relativismo culturale, da un lato, e la dipendenza
dall’ideale moderno del soggetto, il soggetto della scienza (nei due
sensi del genitivo), dall’altro. Per contro, interpretazione significa,
secondo la classica definizione heideggeriana, «articolazione del com-
preso» – dispiego di un sapere in cui già sempre l’esistenza è gettata,
corrispondere a un invio; dunque, anzitutto, cercare i criteri direttivi

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delle scelte nella provenienza, e non in una qualche struttura, fosse pure
la struttura ermeneutica, dell’esistenza. L’ermeneutica, come consapevo-
lezza che la verità non è rispecchiamento ma appartenenza, non nasce
come la correzione di un errore, la rettifica di una visione; proviene
dalla modernità come epoca della metafisica e del suo compimento nel
nichilismo del Ge-Stell. Riconoscendo il proprio destino nichilistico,
l’ermeneutica dà luogo a un’etica che ha alla sua base una ontologia
della riduzione e dell’alleggerimento; o, se si vuole, del dileguarsi. In
quest’etica convergono, e trovano una formulazione rigorosa, molteplici
elementi schopenhaueriani presenti nelle più avvertite morali del nostro
secolo: sia lo sperimentalismo dell’ultimo Nietzsche – per il quale il
superuomo è in fondo l’uomo «più moderato», o anche l’artista, che
ama l’esperimento anche al di là degli interessi dell’autoconservazione;
sia gli esiti della dialettica negativa di Adorno (il presque rien, la riso-
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luzione della metafisica promesse de honheur nell’apparenza estetica,


pensata in termini di irrealtà e disinteresse kantiani); ma echeggia qui
anche il vecchio insegnamento socratico, del demone che parla solo
per trattenere e dire no.
Assumendo il proprio destino nichilistico, e ispirandosi a un’onto-
logia della riduzione – che svolge fino in fondo l’idea heideggeriana
di un essere che non può mai darsi in presenza, ma solo come traccia
e ricordo (e dunque non può fungere da fondamento, da autorità, da
sovrano) – l’ermeneutica sfugge anche a un ulteriore rischio che non
sembra del tutto escluso dall’etica della comunicazione.
Questa, infatti, può cercar di sfuggire all’accusa di essere ancora
una metafisica trascendentalistica (che pone a fondamento normativo
della morale il fatto che l’esperienza è resa possibile dall’a priori della
comunicazione illimitata) accentuando il carattere puramente formale
del suo principio: esso esclude ogni rigidezza metafisica nella misura
in cui pensa la morale come stipulazione, persuasione attraverso l’argo-
mentazione razionale, non limitata da alcuna struttura metafisica neces-
saria. Sotto questo profilo, l’etica della comunicazione si presenta come
un’etica rigorosamente egualitaria. Ma anche, come un’etica incapace
di escludere davvero la possibilità che l’egualitarismo e la stipulazione
vengano intesi nel senso di un puro scatenamento del conflitto sociale.
Perché, in definitiva, se non ci sono principi metafisici, dovremmo
preferire l’argomentazione razionale allo scontro fisico? (L’ipotesi qui
avanzata non è così assurda: in certe sue pagine, Foucault ha pensato
la verità come evento di disciplinamento, effetto del gioco di forze).
Habermas risponderebbe che il metodo dell’argomentare razionale
è quello più favorevole alla vita e al suo sviluppo (ma è pur sempre
un imperativo ipotetico: se vogliamo vivere…); o, con una leggera

130

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variazione dell’argomento, teorizzando che l’uomo è «per natura» un
io intersoggettivo, comunicante (ma questa tesi egli la prova solo in
base al sapere delle scienze umane, che come scienze appartengono a
un orizzonte storico che andrebbe tematizzato criticamente in modo
più esplicito, come faceva l’originaria teoria critica). Nell’etica della
comunicazione, per quanto ciò possa apparire paradossale, non c’è
una sufficiente « fondazione» della moralità. Paradossalmente ancora,
è l’etica dell’interpretazione che fornisce alla morale motivazioni più
solide – se non, certo, fondamenti. Nella misura in cui l’ermeneutica
si riconosce come provenienza e destino, come pensiero dell’epoca
finale della metafisica e cioè del nichilismo, essa può trovare nella «ne-
gatività», nel dileguarsi come «destino dell’essere» – il quale si dà non
come presenza dell’arché ma solo come provenienza – quel principio
orientativo che le permette di realizzare la propria originaria vocazione
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etica senza restaurare la metafisica né abbandonarsi alla futilità di una


relativistica filosofia della cultura.

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ETICA COME ORIENTAMENTO
Emilio Carlo Corriero

Verità come caritas ed essere come Ereignis […]


sono due aspetti che si richiamano in maniera stretta.
Gianni Vattimo, Dopo la cristianità

Nella lunga e articolata parabola filosofica di Gianni Vattimo, Etica


dell’interpretazione occupa certamente una posizione centrale, e non
solo cronologicamente. Pubblicato nell’autunno del 1989 all’interno
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della storica collana “Ermeneutica” di Rosenberg & Sellier, da lui stesso


fondata e diretta, il libro racchiude e presenta, con la consueta chiarezza
espositiva dell’autore, tutti i temi cardine della riflessione filosofica di
Vattimo e del suo ‘pensiero debole’1, rilanciandoli nella direzione di
una riflessione sulla portata etica del suo pensiero e per l’appunto sulla
legittimità e plausibilità di un modello di ‘etica dell’interpretazione’.
L’ermeneutica di Vattimo, che si era costituita attorno all’originale
lettura dell’asse teorico Nietzsche-Heidegger e che avrebbe accom-
pagnato il filosofo nel suo intero arco speculativo, mostrava sin da
subito una decisiva carica etica: basti pensare all’abbandono di ogni
forma di fondazionalismo basantesi sul nesso, messo bene in luce da
Nietzsche (ma per certi versi anche da Marx), tra l’evidenza metafisica
e i rapporti di dominio, o al ruolo decisivo assegnato da Vattimo alla
pietas quale accesso all’essere (e alla sua storia), finalmente privo di
un rivestimento metafisico e accolto nella sua “finitezza e caducità”2.
Temi, questi, che già di per sé convergevano nel rifiuto di una ragione

1
Le cui basi teoriche, a ben vedere già presenti dagli inizi degli anni Settanta, erano
state esplicitate qualche anno prima nell’omonimo volume che raccoglieva contributi
di autori che riconoscevano, a diverso titolo, le ‘ragioni’ storiche di un’ontologica
‘debole’; cfr. Il pensiero debole [1983], a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti, Milano,
Feltrinelli, 2010.
2
Per Vattimo, tolta la pretesa metafisica dell’essere, per la quale sarebbe possibile
accedere a un qualche ontos on, per le sue categorie metafisiche nonché per i suoi
momenti ‘storici’ non rimane che la pietas che è dovuta alle tracce di ciò che ha vissuto:
«Pietas è un termine che evoca anzitutto la mortalità, la finitezza e la caducità […].
Il trascendentale, quello che rende possibile ogni esperienza del mondo, è la caducità:
l’essere non è ma ac-cade; forse anche nel senso che cade-presso, che accompagna in
quanto caducità ogni nostra rappresentazione», ivi, p. 23.

133

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impositiva e violenta – perché forte di una verità assoluta – e nella
conseguente apertura a un modello di razionalità inclusiva e accogliente.
Tuttavia, l’evidente pondus etico, già presente nelle stesse premesse
dell’ermeneutica di Vattimo e che avrebbe poi contraddistinto i suoi
sviluppi teorici degli anni a venire, non era stato ancora opportunamente
chiarito e correva il rischio di tradursi in un generico messaggio ecume-
nico e accogliente di apertura all’essere e alle sue molteplici espressioni.
Si può certamente affermare che proprio in Etica dell’interpretazione,
Vattimo si riproponesse, per la prima volta esplicitamente, di mettere
in luce la valenza etica dell’ermeneutica in generale e, in particolare, le
peculiari risorse della sua proposta rispetto a progetti analoghi ricon-
ducibili a quella grande e variegata ‘famiglia’ – che in quel contesto
storico si presentava come una nuova koiné filosofica –, ponendo le
basi teoriche per un discorso più ampio dedicato ai fondamenti della
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filosofia pratica e alle sue varie ramificazioni, come la filosofia politica


o la filosofia sociale, o ancora la filosofia della religione: tutti filoni che
il filosofo avrebbe poi sviluppato nei decenni a venire contrassegnan-
do in modo decisivo il suo pensiero e il suo impegno – nel senso più
vasto dell’espressione. Ciò che Vattimo avvertiva negli anni in cui gli
scritti qui raccolti vedevano la luce era anzitutto l’esigenza di chiarire
i ‘fondamenti’ teorici di quella radicalità etica dell’ermeneutica che gli
appariva (ma non solo a lui) come una chiara evidenza, che proprio
per tale ragione richiedeva però un opportuno approfondimento con-
cettuale, senza il quale l’attitudine etica dell’ermeneutica avrebbe corso
il rischio – peraltro tutt’altro che remoto – di sfumare in un generico
relativismo, ovvero di offrirsi, più o meno intenzionalmente, quale
rivestimento epistemico di modelli ancora radicalmente metafisico-
trascendentali. Cosa che accade, secondo Vattimo, per l’etica della
comunicazione di autori come Karl Otto Apel e Jürgen Habermas,
in cui la storicità non viene assunta in modo radicale e l’esperienza
sembra essere resa possibile «da un a priori che è la comunicazione
illimitata o l’agire comunicativo»3 e finisce per ‘valere’ come norma
(ancora metafisica) della prassi. D’altra parte, invece, insistendo sulla
coincidenza di “eticità e storicità”, nonché sull’istanza della storicità
come appartenenza che impedisce il riconoscimento di strutture asto-
riche permanenti, Vattimo mostra come «l’esperienza della verità non
accade nel rispecchiamento dell’oggetto da parte di un soggetto che
deve farsi trasparente, bensì come articolazione – o interpretazione – di

3
Supra, p. 124.

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una tradizione (una lingua, una cultura) a cui l’esistenza appartiene, e
che riformula inviando nuovi messaggi ad altri interlocutori»4.
La centralità di Etica dell’interpretazione all’interno del percorso
filosofico di Vattimo risiede dunque, da un alto, nell’esplicito tentativo
di fornire le basi per una più ampia riflessione sull’etica in un quadro
filosofico in cui, caduti i presupposti ultimi del sapere nonché la fiducia
in una ragione capace di risolvere l’essere nei suoi concetti, si era im-
posta una riflessione sulla ‘filosofia pratica’, sui suoi fondamenti e sulla
sua legittimità e, dall’altro, di mettere alla prova – consapevolmente o
meno poco importa – la tenuta, la coerenza e la fertilità del suo pensiero
dinanzi alla sfida rappresentata dal problema etico.
Nel caso di questo libro, che a ben vedere si inserisce in un dibattito
più ampio che riguarda le sorti dell’etica come disciplina filosofica – basti
pensare al dibattito sulla riabilitazione della filosofia pratica5 degli anni
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Sessanta e Settanta e al ruolo lì giocato dall’ermeneutica di Gadamer6


col recupero della phrónesis –, si trattava infatti di porre le basi per
una ‘fondazione ermeneutica’ dell’etica: un’espressione certamente
ossimorica, in particolare se riferita all’ermeneutica di Vattimo, ma
che può essere accolta e compresa se si legge come la necessità per la
riflessione etica di un ‘orientamento’ capace di intenzionare moralmente
l’azione nelle sue più varie espressioni e di soppesarne gli effetti. Dalla
fondazione di un’etica alla necessità, quindi, di un’etica come orienta-
mento in un contesto consapevolmente privo di punti saldi.
Si può probabilmente affermare, infatti, che date le premesse della
filosofia di Vattimo, una ‘fondazione ermeneutica’ dell’etica non può
darsi che nella forma di un ‘orientamento’, ossia nella forma di una
‘fondazione debole’ che, a mio avviso, può ricavare preziose risorse per
la comprensione di un passaggio cruciale del pensiero di Vattimo proprio
dall’accostamento al concetto di Orientierung utilizzato da Rosenstock,
e ripreso da Rosenzweig nella Urzelle della Stella della redenzione7, per
descrivere il ruolo della ‘rivelazione’ in relazione al pensiero filosofi-
co. Sebbene nel contesto teorico qui richiamato l’espressione finisse

4
Supra, p. 126.
5
Cfr. Riedel, M. (a cura di), Rehabilitierung der praktischen Philosophie, 2 voll.,
Freiburg i.B., Rombach, 1972-74.
6
Pensatore che fu fondamentale nel percorso di Vattimo, il quale peraltro realizzò
la traduzione italiana del capolavoro Verità e metodo nel 1983. Per uno sguardo sulla
riflessione etica di Gadamer si veda A. Da Re, L’ermeneutica di Gadamer e la filosofia
pratica, Rimini, Maggioli, 1982
7
Nella lettera a Rudolf Ehrenberg del 18 novembre 1917; cfr. F. Rosenzweig, Il
nuovo pensiero, a cura di G. Bonola, Arsenale, Venezia, 1983.

135

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maldestramente per agevolare un’ulteriore forma di fondazionalismo,
risultando allo stesso Rosenzweig ancora “insufficiente” a chiarire ade-
guatamente il rapporto della rivelazione con la filosofia, il concetto di
‘orientamento’ mi pare adatto a descrivere adeguatamente quel passo
in là compiuto dal ‘pensiero debole’ di Vattimo rispetto alle filosofie
del fondamento: un passo in là che non consiste in un abbandono
all’irrazionalismo, ma intende anzi proporre una razionalità capace di
‘orientarsi’ nell’assenza del fondamento; un passo che segue Heidegger
nella tensione a superare ogni forma di ontoteologia8, proponendo un
pensiero capace di ‘orientarsi’ nella storia da cui proviene e verso cui
dirige. Orientare non è certamente fondare e al contempo, tuttavia,
non significa abdicare al compito che occorre sempre riservare alla
riflessione filosofica, in particolare quando questa, oltre che operare un
lavoro negativo di demistificazione, intende porsi sul piano positivo della
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proposta teorica. L’ermeneutica di Vattimo non si traduce infatti in un


relativismo assoluto né in uno scetticismo disperato: posto dinanzi alla
prova dell’etica, che non può evidentemente accontentarsi di una mera
operazione di smascheramento, il pensiero debole risponde facendo
emergere con forza quelle premesse teoriche che ne stanno alla base e
lasciando che queste agiscano nella direzione di una ‘fondazione debole’,
ovvero di un ‘orientamento’ che, accogliendo la diagnosi nichilistica,
la converte in positivo nella direzione dell’emancipazione dai vincoli
imposti dalle visioni metafisiche.
Nel pensiero debole non siamo propriamente alle prese con una
‘rivelazione’, nel senso che si mostri davanti a noi una verità più vera
di quella in cui abbiamo creduto, nondimeno l’evidenza storica che
avanza e che caratterizza un’epoca filosofica (e non solo) ha i tratti di
uno spartiacque che, dopo il generale disorientamento che compor-
ta – e che Nietzsche ben descrive e riassume con la ‘morte di Dio’ –,
‘orienta’, senza fondare, accogliendo l’essere nel suo accadere. E il suo
‘oriente’ altro non è che la sua provenienza9 (storica) che si sedimenta

8
Il superamento auspicato da Heidegger poggia sull’evidenza per la quale «ogni
filosofia è teologia nel senso originario ed essenziale che la comprensione concettuale
(λόγος, lógos) dell’ente nella sua totalità pone la questione del fondamento dell’Essere,
e questo fondamento viene chiamato θεός [theós], dio», in M. Heidegger, Schellings
Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit, a cura di H. Feick, Tübingen,
Niemeyer, 1971, p. 61.
9
Vattimo fa esplicito riferimento a un’etica della provenienza nell’omonimo saggio
contenuto nel suo Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto (Milano, Garzanti,
2003, pp. 49-58), in cui precisa che se si accetta che nella questione etica è implicito
il convincimento che in essa si possano individuare principi vincolanti, impegnativi,
si deve ammettere che «anche cor-rispondere all’epoca [in cui si vive] è una forma di

136

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e si stratifica e offre le risorse per rammemorare il passato e volgere
al futuro, accogliendo l’essere come libero evento, nel suo accadere e
nel suo manifestarsi, senza mai imporsi come legge o vincolo10: un tale
orientamento dipende in fondo dalla funzione attribuita da Vattimo alla
pietas (o alle pietates) che si determina storicamente in un determinato
contesto, in modo non dissimile dal senso comune di cui parla Kant
nella Critica del giudizio a proposito del giudizio estetico.
Come detto, la Orientierung evocata da Rosenstock per descrivere la
‘rivelazione’ presentava certamente un carattere fortemente ‘teologico’
per il quale la rivelazione storica assumeva i tratti del fondamento a
partire dal quale organizzare la riflessione filosofica, la quale perdeva così
quella autonomia a cui lo stesso Rosenzweig non intendeva rinunciare,
e dunque l’accostamento proposto può sembrare errato o fuorviante.
Nondimeno, se accogliamo l’idea di una ‘rivelazione’ scevra da residui
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metafisici, anche l’orientamento che essa può produrre perde quei


connotati teologici che impediscono il libero esercizio della filosofia.
Mi pare legittimo, e per certi versi fruttuoso, utilizzare l’espressione
‘orientamento’ a proposito della filosofia di Vattimo e in particolare
delle sue risorse etiche, proprio a condizione di leggere il suo pensiero
debole come l’esito di una ‘rivelazione’ post-metafisica, pienamente
secolarizzata, di un evento storico, ossia di un evento che accade in
un’epoca precisa e ne caratterizza il destino, ‘orientandone’ la riflessione
filosofica nonché i presupposti etici. D’altra parte, il connotato religioso
che la ‘rivelazione’ come orientamento ricordata da Rosenzweig porta
con sé non è affatto assente negli esiti della filosofia di Vattimo, in
cui il messaggio cristiano si salda alla dissoluzione della metafisica11 e
la caritas finisce per giocare un ruolo fondamentale nel tradurre quel
fondamento impossibile che può (e deve) orientare la libera azione.
In quanto «senso ‘ultimo’ della rivelazione»12, la caritas non ha per

impegno responsabile» e che anche in ciò «rimane una qualche specie di obbligatorietà,
che autorizza a parlare di una razionalità e di un’eticità, cioè l’impegno a derivare da
certi “principi” (qui solo nel senso di punti di partenza) conseguenze logiche e impe-
rativi pratici», ivi, pp. 50-51.
10
Ché ciò significherebbe incorrere nel noto is-ought problem: «L’etica metafisica
[…] cade fatalmente sotto la critica conosciuta come la “legge di Hume”, secondo cui
non è lecito, come fa la metafisica, passare senza esplicite ragioni dalla descrizione di
uno stato di fatto alla formulazione di un principio morale», ivi, p. 51.
11
«Verità come caritas ed essere come Ereignis, evento, sono due aspetti che si
richiamano in maniera stretta», G. Vattimo, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo
non religioso, Milano, Garzanti, 2002, p. 118.
12
G. Vattimo, Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?,
Milano, Garzanti, 1998, p. 63.

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Vattimo «alcuna vera ultimità», «né la perentorietà di un principio
metafisico», e dunque orienta ma senza poter/voler fondare alcunché.
Nel pensiero di Vattimo, la diagnosi epistemologica post-metafisica si
intreccia indistricabilmente al destino di secolarizzazione che percorre
il cristianesimo nel cui ‘amore’ evangelico risiede il senso profondo e
‘ultimo’ della rivelazione vetero e neo-testamentaria: da questa sintesi
storica e costantemente aperta al futuro non può derivare alcuna fon-
dazione, ma semmai per l’appunto un orientamento che assume quella
storia come destino di liberazione e accoglie l’essere nel suo accadere.
Se si accetta questa ipotesi interpretativa, occorre però immediatamente
comprendere che l’‘orientamento’ di cui si sta parlando, e su cui può
‘fondarsi’ (ermeneuticamente) un’etica, non può mai intendersi come la
premessa forte per un qualche ‘sistema dell’etica’, ma coincide semmai
con un sapere che è anche pratico, ossia con la ‘pratica’ ermeneutica
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stessa. L’apparente contraddizione che sembra accompagnare il progetto


filosofico di una ‘fondazione ermeneutica’ dell’etica sotteso ai saggi di
questo libro e poi agli sviluppi del suo pensiero si risolve, a mio modo
di vedere, semplicemente accogliendo l’invito dello stesso Vattimo a
pensare l’etica dell’interpretazione come indissolubilmente legata al
nichilismo. Non solo, intendo, alla diagnosi nichilistica che mette in
chiaro l’infondatezza di valori e principi di riferimento e può trovare
una sintesi efficace nella nietzscheana ‘morte di Dio’, ma piuttosto ad
una forma di nichilismo attivo che, preso atto dell’assenza di qualsivoglia
fondamento saldo e inconcusso, vale come re-azione pragmatica all’as-
senza di imperturbabili quadri assiologici o di persuasive Weltanschau-
ungen a sfondo metafisico. Una tale proposta si ‘fonda’ per l’appunto
sull’“ontologia nichilistica nietzscheano-heideggeriana” la quale, non
ritenendo possibile la ricerca di strutture stabili e fondamenti eterni,
accoglie l’essere come evento, ossia «come il configurarsi della realtà
peculiarmente legato alla situazione dell’epoca»13. In quest’ottica, l’azio-
ne, la prassi, si fa carico di una responsabilità di ordine etico per l’essere
a venire e per la sua storia che assume non più come fondamento ma
appunto come provenienza da cui dedurre un possibile orientamento.
In questo si può già riconoscere la proposta di Vattimo come un’etica
della responsabilità – e non evidentemente come un’etica dei principi14
che richiede altri presupposti –, che ricava le sue risorse dalla storia

13
Supra, p. 10.
14
Secondo la classica distinzione proposta da Max Weber nella famosa conferenza
del 1919 Politik als Beruf; cfr. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, ed. it.
a cura di M. Cacciari, Milano, Mondadori, 2018.

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dell’essere, certamente dal suo passato ma anche dal suo futuro e anzi
dalla salvaguardia di quel futuro come garanzia della continuità della
sua provenienza. Si potrebbe dire che nell’ottica di Vattimo è proprio
la mancanza di un quadro assiologico di riferimento a rendere possibile
l’azione etica nel farsi dell’essere, nel suo accadere entro una storia di
cui ha (o può avere) memoria; in questo senso, per Vattimo, l’etica
ermeneutica ha necessità di un’ontologia nichilistica che si esercita in
quella che Vattimo definisce come un’‘ontologia dell’attualità’, «per la
quale è decisivo il riferimento a una certa immagine della modernità, del
suo destino di secolarizzazione, della sua eventuale “fine”»15: non v’è
però in ciò – va ribadito – il tentativo di proporre una nuova visione del
mondo, né la volontà di suggerire un’etica che si fondi su una generica
interpretazione dell’essere come evento; v’è piuttosto l’idea che l’etica
dell’interpretazione si esplichi precisamente in questa attività continua
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e quindi nel farsi dell’essere come evento, in cui la prassi ermeneutica


si realizza responsabilmente, ovvero tenendo conto degli effetti che
produce entro un quadro (storico) a cui l’azione appartiene e da cui
inevitabilmente prende avvio.
Di questa impostazione teoretica risente probabilmente anche lo
stesso stile in cui il libro è pensato e realizzato. Come per altre fon-
damentali pubblicazioni di Vattimo – penso a opere come Fine della
modernità, Dopo la cristianità, Nichilismo ed emancipazione o ancora
il più recente Essere e dintorni –, anche Etica dell’interpretazione si
presenta, infatti, come una selezione di saggi, conferenze e interventi
a convegni raccolti dall’autore a sottolineare, per un verso, come le
premesse teoriche impediscano di fatto una struttura sistematica e,
per l’altro, a evidenziare come un’ontologia dell’attualità si esprima
adeguatamente proprio nella forma del saggio breve, o della confe-
renza, che successivamente trova composizione e articolazione in una
raccolta. Sul piano del metodo, anche in riferimento a questo libro,
è sicuramente rivelatrice la premessa al suo ultimo libro, Essere e
dintorni, in cui Vattimo dando conto della struttura dell’opera (anche
questa come detto una raccolta di saggi di ‘occasione’), ribadisce che
essa deriva dal fatto che il suo pensiero «è piuttosto retto da una logica
della conversazione che da una logica argomentativa serrata» e in esso
«non si “arriva” da nessuna parte, ci si aggira sempre nei dintorni, si
permane dentro un orizzonte»16, poiché questo è per Vattimo il nostro

15
Supra, p. 10.
16
G. Vattimo, Essere e dintorni, Milano, La nave di Teseo, 2018, pp. 9-10.

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rapporto con l’essere, l’apertura entro cui siamo e entro cui ci orien-
tiamo senza poter rinvenire una qualche struttura sistematica stabile.
Ciò non significa affatto che il programma filosofico di Vattimo non
offra una articolazione organica in cui ontologia, epistemologia, filosofia
pratica, estetica e filosofia della religione si compongano in una forma
coerente e per certi versi sistematica, significa semplicemente che se
è possibile riconoscere un tale ‘sistema’, esso non si fonda in nessun
caso su di un Grund-satz, un principio fondamentale, da cui derivare
le singole proposizioni (Sätze), sul modello di un sistema razionalisti-
co moderno che ha probabilmente il suo esemplare più significativo
nell’idealismo post-kantiano, ma piuttosto su di una complessiva
assunzione ontologica fondamentale (ma non fondativa) che ‘orienta’
il discorso filosofico nel suo complesso, riflessione etica inclusa, ov-
viamente. A testimonianza della coerenza sistematica del pensiero di
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Vattimo, che ha un’evidente ricaduta anche sul modello di etica che


propone, v’è innanzitutto la convergenza della storia della modernità
come indebolimento delle strutture impositive della metafisica con il
destino di secolarizzazione del cristianesimo. Tale convergenza viene
descritta da Vattimo già in Etica dell’interpretazione nella prima parte
del volume al fine di esplicitare le premesse per la riflessione etica che
viene affrontata nella seconda, in particolare nel saggio Ermeneutica
e secolarizzazione, ma verrà ulteriormente chiarita e sviluppata in una
lunga e appassionata indagine sulla religione – anche sulla scorta delle
importanti riflessioni di René Girard – da Credere di credere in avanti.
La struttura sistematica che pare profilarsi e confermarsi con forza nel
comune destino della metafisica e del cristianesimo esercita su Vattimo
un effetto ambivalente: per un verso, si profila da parte dello stesso
Vattimo un certo ‘sospetto’ circa un esito che lusinga per la lungimi-
ranza e correttezza delle sue prime intuizioni17 e al contempo appare
in forte contraddizione con le premesse anti-fondazionalistiche da cui
quel pensiero scaturisce, e, per l’altro, è lo stesso filosofo torinese a
ribadire a più riprese negli ultimi anni la sua volontà (o necessità?)
di redigere un vero e proprio ‘trattato teologico-filosofico’, che forse
a questo punto non vedrà la luce in questa forma18, ma che sarebbe
sicuramente realizzabile data la coerenza interna al pensiero debole.
La coerenza del ‘pensiero debole’ mostra altresì come la questione

17
«Mi sono detto spesso, e me lo ripeto continuamente, che questo “ricomporsi” dei
pezzi del mio puzzle filosofico-religioso è troppo bello per essere vero»: G. Vattimo,
Credere di credere cit., p. 33.
18
Poiché il libro più recente, Essere e dintorni, in fondo si presenta nella sua com-
posizione come un “breviario” che rimpiazza propria la forma del “trattato”.

140

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dell’etica non possa che essere affrontata sulla base di una chiara
concezione ontologica. Riprendendo un titolo di Hilary Putnam, non
si dà qui un’etica senza ontologia; tuttavia, la proposta di Vattimo
non incorre in una fallacia naturalistica, poiché il quadro ontologico
descritto dal pensiero debole offre semplicemente le coordinate per
un’etica che in prima istanza si ‘orienta’ proprio a partire da quelle
coordinate, ma nella sua prassi (che, come detto, è anzitutto ‘pratica
ermeneutica’) contribuisce a rideterminare le coordinate suddette e
dunque ‘orienta’ attivamente il quadro ontologico, modificandolo e
arricchendolo: in questo duplice significato abbiamo in Vattimo un’e-
tica come orientamento, ossia ci troviamo in presenza di un’azione
‘orientata’ entro un quadro ontologico, quale risultato transeunte di
un continuo (storico) processo ermeneutico, capace altresì di agire al
fine rideterminare sempre ancora il quadro di riferimento, ‘orientando’
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(attivamente) così la prassi a venire. Ciò che va sempre tenuto presente


è che una tale etica non può ovviamente fondarsi su di una qualche
verità, né su di una serie di valori convergenti, né tantomeno può am-
bire a quello sguardo di Dio, a quel “view from nowhere” evocato da
Thomas Nagel, come punto di Archimede per organizzare un sistema
dell’etica fatto di assiomi, dimostrazioni e corollari.
Se la filosofia può ancora parlare di etica razionalmente, e cioè in modo
responsabile di fronte ai soli riferimenti che si possa concedere – l’epoca,
l’eredità, la provenienza – potrà farlo unicamente assumendo come suo
esplicito punto di partenza – e non come fondamento – la condizione di
non-fondatività in cui si trova gettata oggi. Il tratto della provenienza e
dell’eredità che si impone come dominante […] è per l’appunto la disso-
luzione dei primi principi, l’affermarsi di una pluralità non unificabile.19
Come si conferma in questo passaggio pubblicato in Nichilismo ed
emancipazione, l’etica ermeneutica di Vattimo è un’etica, ‘radicata’
nella storia, che accoglie fino in fondo la nietzscheana ‘morte di Dio’
e il disorientamento che tale consapevolezza comporta. «Esiste ancora
un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un
infinito nulla?»20, dispera l’uomo folle nel suo annuncio: ora che l’o-
rizzonte è stato cancellato, si è aperto un nuovo infinito in cui occorre
nuovamente orientarsi, ma senza poter far ricorso a un nuovo orizzon-
te stabile, a un nuovo più saldo e duraturo fondamento: ciò che ora è
possibile (e necessario, allo stesso tempo), in questo destino di inde-
bolimento che caratterizza la ‘nostra’ epoca, è semmai ricavare da

19
G. Vattimo, Nichilismo ed emancipazione cit., p. 51.
20
F. Nietzsche, La gaia scienza, af. 125.

141

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quella storia che giunge al suo esaurimento una provenienza e (forse)
una destinazione che coincide per Vattimo con un orizzonte di eman-
cipazione. In questo baratro aperto dalla ‘morte di Dio’ non si profila
mai per Vattimo l’accesso a una verità ulteriore sulla quale imbastire
le proprie reti concettuali, ma solo l’evidenza di una storia che giunge
alla sua fine, una lunga fine che lascia nel suo strascico le risorse per
orientarsi nell’essere e nel suo accadere. Di qui deriva la piena respon-
sabilità per l’essere umano di un posizionamento nella storia e nella
natura, un posizionamento che non è arbitrario proprio in quanto si
conforma a una storia (di indebolimento), a una provenienza che ri-
conosce e per la quale prova quel sentimento di pietas necessario a
riconoscere la caducità della propria finitezza. Parlo di ‘responsabilità’
a proposito di questo posizionamento nella storia e nella natura, poiché
l’etica come orientamento che l’accompagna ha sempre in vista gli
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effetti che l’azione produce, poiché si inserisce in una storia che acco-
glie e a cui intende dar seguito. Nel summenzionato saggio Ermeneu-
tica e secolarizzazione, Vattimo è piuttosto esplicito nel chiarire come
la direzione che quell’orientamento ha da prendere dipenda dalla ca-
ritas e dal destino di emancipazione che si implicano vicendevolmen-
te. Riprendendo in parte la filosofia della libertà del suo maestro Pa-
reyson, Vattimo mostra come il nichilismo della sua ermeneutica sia
di fatto riconducibile all’ontologia della libertà di ascendenza schellin-
ghiana e come, rispetto a qualsivoglia filosofia del fondamento neces-
sario, offra «una concezione dell’essere che, nel suo prendere congedo
dalla necessità metafisica, si mostra come avviato verso un’emancipa-
zione dalle strutture forti in cui la metafisica l’aveva imprigionato
(imprigionando con esso anche l’uomo)»21. Tuttavia, secondo Vattimo,
Pareyson avrebbe dovuto “far reagire” di più l’ontologia della libertà
dell’ultima fase del suo pensiero con la sua più antica filosofia dell’in-
terpretazione22, perché ciò avrebbe confermato come la sua visione di
una inesauribile eventualità della verità si lascia conciliare con i con-
cetti fondamentali della filosofia di Schelling – in particolare l’idea di
Ungrund (non-fondamento) come ‘assoluto considerato a sé’, prima di
qualsivoglia manifestazione dell’essere – solo a condizione di pensare
questi ultimi in un quadro di secolarizzazione e di indebolimento
dell’essere; se si rifiutano questi esiti, afferma risolutamente Vattimo,
«l’idea di essere, o di Dio, come non-fondamento, ma dono, libertà,
evento […] finisce per irrigidirsi nuovamente entro prospettive fon-

21
Supra, p. 56.
22
Qui Vattimo si riferisce in particolare alle tesi di Verità e interpretazione del 1971.

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dazionali-metafisiche»23. Dunque, leggere Schelling e la sua filosofia
della libertà all’interno della prospettiva debolista segnata da Nietzsche
e Heidegger, è quanto suggerisce di fare Vattimo che, però, proprio
mentre riprende il percorso del maestro24 per ripensarlo nella sua
prospettiva, di fatto rileva ed evidenzia involontariamente una carenza
interna al suo stesso pensiero. Se è vero, infatti, che l’ontologia della
libertà di Pareyson corre il rischio di istituire nuovi fondamenti meta-
fisici fuori da una prospettiva di indebolimento dell’essere, altrettanto
vero è il fatto che il pensiero debole, definito entro i confini segnati
da Nietzsche e Heidegger, è privo, in quegli autori, di un esplicito
contenuto ‘religioso’25, quantunque evidentemente in Nietzsche il
cristianesimo sia presente come oggetto di condanna e sfida. Il ruolo
decisivo che progressivamente assume nel pensiero di Vattimo la cari-
tas, quale significato ultimo della rivelazione giudaico-cristiana, rica-
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verebbe importanti risorse per il destino di libertà ed emancipazione


dell’essere proprio dalla filosofia di Schelling, in cui amore e libertà si
saldano a partire da una ‘storia’ ancestrale che ha le sue radici nella
natura, il suo seguito nella storia e il suo esito proprio nella rivelazio-
ne cristiana. Non è da escludere che lo Schelling del maestro Pareyson
sia in fondo presente sullo sfondo delle riflessioni di Vattimo e il
saggio qui richiamato ne è peraltro significativa testimonianza. Insisto
su Schelling non solo perché negli anni ho approfondito proprio il
confronto di questo filosofo con Nietzsche e Heidegger 26 avvertendo-
ne l’esigenza per una ricomposizione della fine della modernità e per
la comprensione dei suoi possibili esiti, ma perché ritengo che la ca-
rica etica presente nell’ermeneutica di Vattimo ricaverebbe proprio dal
confronto con Schelling filosofo della religione e della rivelazione ul-
teriore linfa e ulteriori conferme sul piano teorico e in vista di quell’o-

23
Supra, p. 57.
24
L’occasione è offerta dalla pubblicazione della nuova edizione di Esistenza e persona
di Pareyson (Genova, il melangolo, 1985); cfr. supra, p. 46.
25
È quanto lamenta lo stesso Pareyson a proposito di Heidegger. Auspicando che
l’heideggeriano essere come niente e la libertà schellinghiana come facoltà del bene e del
male si fecondino a vicenda, realizza che ciò in Heidegger non pare possibile proprio
per la sua impostazione anticristiana: «Solo il cristianesimo – scrive Pareyson – avrebbe
potuto suggerire a Heidegger la centralità della libertà come facoltà del bene e del
male», in L. Pareyson, Heidegger: la libertà e il nulla, “Annuario Filosofico”, 1989; ho
sviluppato il tema in E.C. Corriero, Libertà e conflitto. Da Heidegger a Schelling, per
un’ontologia dinamica [2012], Torino, Rosenberg & Sellier, nuova ed. 2020, pp. 143 e segg.
26
Cfr. E.C. Corriero, Vertigini della ragione. Schelling e Nietzsche [2008], nuova ed.,
Torino, Rosenberg & Sellier, 2018; cfr. anche Id., The Absolute and the Event. Schelling
after Heidegger, London - New York, Bloomsbury, 2020.

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rientamento che è alla base della sua etica dell’interpretazione. Pensa-
re all’essere come dono (di grazia) e libertà, come accade in Schelling,
può sicuramente lasciar pensare a nuove strutture ancora metafisiche,
ma l’introduzione dell’Ungrund, del non-fondamento, proprio in uno
scritto dedicato al tema della libertà27 consente di cogliere la portata
postmetafisica (e postheideggeriana) del pensiero schellinghiano. Qui
si compie un passaggio fondamentale nella storia che dalla Charis
conduce alla caritas28: l’originario e infondato dono dell’essere che
precede Dio stesso, si ripete nella volontà kenotica del cristianesimo,
nel dono che Dio fa del Figlio suo agli uomini. A guidare il doppio
dono è il medesimo amore, ma assistiamo a un suo progressivo abbas-
samento che si traduce nella storia e nelle relazioni fra gli uomini. Se
il non-dove da cui deriva il primo libero dono (ancestrale) dell’essere
impedisce una risposta adeguata e si traduce sempre in ipostasi meta-
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fisiche a cui si immagina di dover la propria esistenza, il dono (storico)


che Dio fa del Cristo agli uomini ripetendo la ‘legge’ infondata di quel
primo dono non può, non deve, tradursi in una risposta da parte degli
uomini all’entità metafisica che quel dono ha fatto. Non può tradursi
nel cor-rispondere all’Altro certamente perché la risposta sarebbe
sempre incapace di ‘ripagare’ adeguatamente, ma soprattutto perché
non sarebbe capace di corrispondere adeguatamente all’assoluta liber-
tà che accompagna e ‘comanda’ quel dono impossibile: a esso si può
rispondere soltanto emulando quella libertà e quell’amore nella storia,
ossia agendo concretamente e orizzontalmente nel vincolo di relazione
che il dono d’amore istituisce. Dall’Altro agli altri, quindi: è questa
l’unica risposta possibile al dono dell’essere che si conferma nella
‘ricreazione’ (recreatio, in quanto perfeziona il dono originario), vale
a dire nella rivelazione di Cristo e nell’amore quale significato ultimo
della rivelazione. L’unico modo di (cor-)rispondere alla Charis che ci
giunge come dono d’amore perfettamente libero è conformarsi libe-
ramente a quella caritas, ossia continuare quella ‘storia’ orientando
liberamente il nostro agire e il nostro relazionarci agli altri con amore
e amicizia. Temi questi su cui Vattimo si sofferma già in Etica dell’in-
terpretazione a proposito delle risorse dell’ermeneutica per un plausi-
bile modello di comunità riprendendo la filosofia di Schleiermacher29,

27
In cui peraltro proprio alla Liebe è assegnato il compito di ricucire la frattura
originaria dell’essere e di accompagnare ogni creazione dell’essere.
28
Ho ripercorso il passaggio in E.C. Corriero, Il Nietzsche italiano. La morte di Dio
e la filosofia italiana della seconda metà del Novecento, Torino, Nino Aragno Editore,
2016, pp. 308 e segg.
29
Supra, p. 90.

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autore a cui Vattimo aveva dedicato una monografia nel 1968 e costi-
tuisce assieme a Schelling (implicitamente) e poi a Gioacchino da
Fiore30 un’importante fonte per la meditazione sul ‘religioso’ e sulla
sua ricaduta etica. Già, perché l’orientamento di cui necessita il pen-
siero debole per la sua proposta etica non può arrestarsi al disincanto,
ossia al riconoscimento della mancanza di un senso oggettivo dell’esi-
stere e alla conseguente responsabilizzazione dei singoli nella creazio-
ne del senso, che vengono così riconosciuti nella loro pari dignità. Per
Vattimo, tale esito si tradurrebbe semplicemente nella conflittualità del
liberalismo poiché «ritrovando alla fine del disincanto i “pari diritti”
dei singoli, non si fa altro che canonizzare il mondo come volontà di
potenza»31, ossia un mondo in cui il singolo è mosso dalla volontà di
proporre e imporre la propria visione assumendo su di sé le medesime
istanze metafisiche che non ritrova fuori di sé. Ma ciò è impedito
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dalle premesse del pensiero debole in cui anche il soggetto è coinvol-


to e non può rimanere come baluardo di residui metifisici. D’altra
parte, se al fondo del disincanto si rinviene la mera libertà del singolo,
come facoltà di disporre di sé e degli altri, non v’è spazio per una
proposta etica, ma soltanto per un continuo conflitto che sul piano
politico finisce per mettere a rischio la stessa tenuta democratica del-
le società liberali32. L’emancipazione a cui fa riferimento Vattimo non
può coincidere con questo tipo di libertà, ma dipende direttamente
dal nichilismo che vieta ogni ap-propriazione metafisica della libertà
e la inserisce in una storia dalla cui appartenenza la stessa libertà di-
pende. In questo senso, la libertà contribuisce a ‘fondare ermeneuti-
camente’ un’etica della provenienza che riconosce nella caritas (in
quanto significato ultimo della rivelazione e della secolarizzazione) quel
bilanciamento (storico) che ‘responsabilizza’ la libertà e la orienta in
un’azione che è etica nella misura in cui conserva, nei fatti e nelle cose
che produce, così come nelle relazioni che instaura, la libera eventua-
lità dell’essere a venire.

30
Si veda in particolare G. Vattimo, Dopo la cristianità cit., in particolare pp. 29-43.
31
Supra, p. 118.
32
Come paventato peraltro dalla tesi di Böckenförde, formulata nel 1964 nello
scritto La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, per la quale lo Stato
liberale si basa su presupposti, tra cui la piena libertà del singolo, che esso stesso non
è in grado garantire fino in fondo.

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