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Teorie & Oggetti della Filosofia
Collana diretta da Roberto Esposito
60
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Luigina Mortari
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Un metodo a-metodico
La pratica della ricerca
in Marı́a Zambrano

Liguori Editore

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© 2006 by Liguori Editore, S.r.l.


Tutti i diritti sono riservati
Prima edizione italiana Gennaio 2006

Mortari, Luigina :
Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano/Luigina Mortari
Napoli : Liguori, 2006
ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4518 - 9

1. Pensare 2. Sentire I. Titolo.

Aggiornamenti:
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Indice
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1 Premessa

11 Capitolo primo
Direzioni di senso
1.1. Cercare la verità della vita 11; 1.2. Per un sapere dell’anima 14.

21 Capitolo secondo
Alla ricerca di un metodo
2.1.L’essenza a-metodica del metodo 22; 2.2. Entrare nella realtà 25; 2.3.
Essere fedele alle cose 31; 2.4. Pensare da un’assoluta semplicità 35.

43 Capitolo terzo
Nella semplice essenzialità
3.1 Disfare 43; 3.2. Stare passivi 55.

71 Capitolo quarto
Il metodo della ragione poetica
4.1. Stare col pensiero fra le cose 71; 4.2. Con stupore ammirato 76; 4.3. La
parola incarnata 78; 4.4. Perdersi fra le cose per guadagnare il reale 80.

85 Capitolo quinto
Coltivare sentimenti amorosi e positivi
5.1. Comprendere il sentire 88; 5.2. Saper accettare 92; 5.3. Sperare 102;
5.4. Avere fiducia 105; 5.5. Il sentire nutrimento del pensare 108; 5.6. La
ragione del cuore 111.

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viii Indioe

115 Capitolo sesto


Scrivere di formazione
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6.1. Disfare i discorsi sistematici 115; 6.2. Dare parola all’esperienza 117.

129 Capitolo settimo


La pratica dell’educare secondo la ragione poetica
7.1. Sentire la necessità di pensare 131; 7.2. L’irrinunciabile del pensare 133;
7.3. Le direzioni di senso del pensare 138; 7.4. La passività del pensare 140;
7.5 Aver cura del sentire 142.

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Premessa
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L’essere umano non nasce finito, terminato, compiuto, ma è un nucleo


vivente chiamato ad andare oltre il punto in cui viene a trovarsi; in quanto
tale ha da farsi, ha da cercare la sua forma: “Tutto ciò che nasce e il non
ancora nato è promesso ad una forma. È il significato primordiale nuziale
della vita” (B: 12). La vita umana è costitutivamente desiderio di realizzare
una forma,

ogni vita, persino la più attiva, ha bisogno di trascorrere chiusa in una


forma, e solo al suo interno si rende attiva. L’informe è ugualmente inattivo
e sterile, senza possibilità alcuna di agire. La vita, a mano a mano che sale
nella scala della perfezione, sale anche nella scala della forma (SA: 71).

Il tempo della vita è il tempo in cui il profilo unico e singolare di


ciascun essere umano prende forma. Poiché la sostanza della vita è il
tempo, dare forma alla vita è dare forma al tempo. Il tempo può essere,
però, un trascorrere puro e semplice, che non fa altro che passare. Il
tempo che si limita a passare scivola in un abisso, nell’abisso del manche-
vole di senso. Accade allora l’inabissarsi della vita in quel trascorrere che
nulla lascia dietro di sé. C’è un costitutivo perdersi quando l’essere umano
si lascia accadere nel tempo, quando si limita a passare la vita. Esserci,
non solo passare, richiede che al tempo si dedichi tempo per dare ad esso
forma. C’è bisogno di vivere il più interamente possibile il tempo della vita
e questo accade dando ad esso forma. Dare forma al tempo significa finire
di nascere. È questo il proprium dell’umano: continuare a nascere, perché
“vivere umanamente è andare nascendo” (SPPC: 41).
Ma non c’è un unico modo del prender forma.
C’è un prender forma inconsapevole, che accade quando si soggiace
inconsapevolmente alla messa in forma operata dall’ambiente; allora si
diviene quello che l’ambiente impone si divenga, senza conseguire, attra-
verso un processo autonomo e originale, l’unità della propria vita. Accade
cosı̀ che ci si perda rispetto alla chiamata etica ed estetica di dare forma
unica e singolare al proprio tempo; il vivere “che si recita ad ogni istante”
(NM: 35) sempre corre il rischio di perdersi e questo accade quando viene
a mancare il pensiero capace di vivificare il tempo.

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2 Premessa

Ma c’è anche un modo di prender forma intenzionale, ossia guidato


dall’intenzione di darsi una forma; è quel prender forma che è orientato
dalla ricerca di sé. È quel modo di essere al mondo in cui prevale la
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1
domanda orteghiana “Che fare?” ; la domanda propria di una vita spesa
alla ricerca della verità dell’esperienza, alla ricerca di un sapere che aiuti a
vivere. È dalla necessità di sapere cosa fare che ha origine l’affanno del
conoscere. Perché la vita non può essere vissuta interamente senza un
sapere che la informa, che offra un’ispirazione per dare senso al proprio
tempo.
La necessità di questa ricerca di un sapere della vita non sempre
appare chiara alla mente, e anche quando questo avviene è facile poi che
la passione per la ricerca venga meno in conseguenza di esperienze che
hanno l’effetto di annichilire l’energia necessaria al lavoro etico ed estetico
di modellare il proprio tempo. Perché quel camminare che è la vita ha
spesso un sapore amaro che pesa sul cuore.
Rispetto a tale questione etica – intendendo per etica quella pratica di
ricerca della verità che invera la vita – il compito proprio di una cultura
consiste nell’individuare quelle pratiche che consentano di far scaturire e
poi coltivare nei giovani la passione per questa ricerca; la pratica sociale
che risponde a questa necessità è definita educazione, pratica che è
all’origine della filosofia incarnata da Socrate.
L’educazione è qui concepita come pratica di persuasione ad aver
2
cura di sé, una cura di sé intesa socraticamente come cura dell’anima , che
si attualizza nell’andare alla ricerca della verità dell’esistenza. Perché
“questo è per l’essere umano il bene maggiore: ragionare ogni giorno della
virtù” e investigare tutte quelle questioni che hanno a che fare con la
ricerca dei modi di aver cura dell’anima, perché “una vita che non faccia
3
tali ricerche non è degna di essere vissuta” .
4
La pratica dell’educare si pone la stessa domanda della vita quando si

1
Ortega y Gasset, Metafisica e ragione storica, Sugarco, Milano 1989, p. 121, cit. in Marı́a
Zambrano, Note di un metodo, Filema, Napoli 2003 (ed. or. Notas de un método, Mondadori
España, Madrid 1989), p. 143, nota 5.
2
Platone, Lachete, 185e.
3
Platone, Apologia di Socrate, 38a.
4
Conviene qui precisare perché al più attuale termine ‘formazione’ preferisco ‘educazio-
ne’. Formare è nel suo significato ordinario dare una forma, mettere in forma, quel mettere
in forma che è guidato dal sapere anticipatamente la forma che si vuol realizzare. Ma
quando la relazione educativa si declina come un dare forma previene l’altro dal darsi
autonomamente la propria forma. Educare ha tutt’altro significato. Quando si lavora
sull’etimologia della parola “educare” si tende a ricondurla al latino educěre, che significa:
trarre fuori, trarre alla luce, invece sembra più corretto ricondurla ad educāre che significa:

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Premessa 3

fa problema a se stessa, ossia quando si chiede “che fare?”. Il “che fare?”


che è all’origine della teoria dell’educazione è quella domanda che guida il
processo di individuazione di quei contesti di esperienza che vanno
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coltivati affinché l’essere umano trovi in essi il nutrimento simbolico


necessario a porsi metodicamente la domanda del “che fare” e a questa
domanda metodicamente cercare risposte.
Data la natura dell’oggetto, la pratica educativa si profila come
costitutivamente problematica, al punto da far dire a Socrate che nessuno
possiede questo sapere. Convinzione questa testimoniata dal suo percorso
di vita interamente impegnato nella ricerca di un metodo da cui fare
scaturire tale sapere. È per far fronte a tale problematicità che nasce la
ricerca pedagogica, ossia quel pensare che si vorrebbe rigorosamente
dedito a cercare una risposta alla domanda: cosa fare perché gli esseri
umani, quelli nuovi venuti al mondo per incominciare un percorso unico e
singolare non smarriscano la ricerca essenziale, quella che mira ad indivi-
duare il senso dell’esistere?
Difficile dare forma a questo sapere, o meglio cosı̀ come non esiste
una risposta definitiva alla domanda esistenziale “che fare”, analogamente
non può esistere un sapere definitivo sull’educazione che cerca il metodo
per trovare a quella domanda una risposta. Il sapere dell’educazione, in
ragione della natura del suo oggetto, è destinato ad essere non finito, non
terminato, un sapere che fatica a rischiarare la pratica educativa, un
sapere fragile e incerto, cosı̀ come fragile e incerto è il sapere della vita,
una luce debole sempre sul punto di spegnersi. Eppure va cercato, essendo
un sapere che sentiamo irrinunciabile. E tale è quando, anziché ridursi a
mera alfabetizzazione, assume tutto il peso della vita alla ricerca della sua
forma. Il problema è come cercare questo sapere sull’educazione, sapendo
che deve profilarsi come sapere vivo dell’esperienza educativa, ossia
capace di rischiarare il percorso difficile e insidioso della pratica educativa.

allevare, alimentare, nutrire, curare, anche perché educatus – che indica la qualità dell’essere
educato – è il participio passato di educāre. Educare inteso come coltivare e curare è offerta
di esperienze che possono consentire all’altro di cercare la propria forma, mai dovrebbe
prefigurare forme già compiute. Educare è per Socrate aver cura che l’altro abbia cura di
sé, ossia aver cura che si metta alla ricerca della sua propria originale forma. La pratica
dell’educare è, dunque, nel suo significato originario fedele all’essenza ontologica dell’essere
umano chiamato a trovare da sé la sua originale forma dell’essere. Occorre tuttavia
precisare che non si dà la possibilità di realizzare nella sua pienezza il concetto di
educazione, poiché sempre l’agire educativo implica processi di formazione. Nessuna
azione umana può essere pura, ma sempre è mescolata ad altro. Conviene, però,
mantenere vive le idee pure, anche se si sanno non praticabili, perché necessarie a
discriminare la qualità dell’agire.

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4 Premessa

Quello di cui disponiamo è, in molti casi, un sapere pedagogico


inadeguato, perché per acquisire credibilità si è orientato a cercare stru-
menti discorsivi fra le scienze empiriche, facendosi guidare dall’illusione di
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costituirsi anch’esso come scienza sistematicamente fondata. Sotto l’in-


flusso di una certa cultura positivistica si è creduto, e in certi contesti della
ricerca in ambito educativo ancora tale convinzione permane, che al farsi
del discorso pedagogico sia necessario e sufficiente il dialogo con le
scienze. Questa credenza non tiene conto della sproporzione tra il sapere
della scienza e quella di cui ha bisogno l’esperienza umana per trovare la
sua giusta forma. Non ogni tipo di esperienza si rassegna a recintarsi nei
canoni del discorso scientifico, e tale è l’esperienza educativa, di cui la
scienza non riesce a cogliere aspetti essenziali. Ciò che la scienza non
riesce ad afferrare “sono certi stati della vita umana, certe situazioni che
l’uomo vive e di fronte alle quali la forma enunciativa della scienza non ha
forza, né valore” (SA: 65); soprattutto quando fa dipendere il valore della
conoscenza dal fondarsi su un’elaborazione quantitativa dei dati, come se
solo la quantità garantisse la verità, quando invece l’educazione ha a che
fare con questioni non trattabili quantitativamente, dal momento che la
ricerca del senso della vita non può essere oggetto di un algoritmo.
Oppure quando cerca un sapere dal valore universale, anche se l’unico
accessibile è un sapere esperienziale, ossia un sapere contestuale, legato
alla contingenza e, quindi, sempre pronto a ridefinirsi, perché solo un
sapere esperienziale, che mira a produrre non teorie generali ma local-
mente significative, ha una valenza trasformativa. Smarrita la consapevo-
lezza della natura del suo oggetto irriducibile al discorso scientifico la
pedagogia si è costituita come sapere estraneo a tale oggetto e, dunque,
come tale incapace di illuminare la pratica educativa.
Per farsi sapere vivo la pedagogia dev’essere capace di comprendere
l’esperienza educativa. A questo scopo ha da costituirsi come sapere
esperienziale che prende forma a partire da un’interrogazione radicale
dell’esperienza, della vita, attraverso l’affinamento del pensiero teoretico,
inteso come pensiero radicalmente interrogante. Poiché la vita è da
sempre l’oggetto della filosofia, dove il pensiero teoretico ha avuto origine,
allora c’è necessità che la pedagogia riallacci saldamente il dialogo con la
filosofia.
Ma quale filosofia? Quella che consente di ampliare la propria co-
scienza, che aiuta a rischiarare il problema dell’esistenza, in quanto conditio
sine qua non alla costituzione di un discorso pedagogico con senso. Una
filosofia che sia mediatrice tra la vita e il pensiero, e che proprio in quanto
tale risponde alla sua ragione d’essere, che è quella di aiutare l’essere

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Premessa 5

umano a vivere con senso la sua vita. Ad essere necessaria è quella


filosofia che va alla ricerca della verità, non per un esercizio intellettuali-
stico, ma per illuminare la vita. Una filosofia che non tradisce il suo
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originario mandato di stare alla ricerca dell’arte di vivere (τχνη το β


ου).
Nella concezione del filosofare come pratica di pensiero che va in cerca
della ε δαιμον
α, ossia di quei modi di abitare il proprio tempo che con-
5
sentono il pieno fiorire dell’umano , la filosofia non viene meno al princi-
pio di perseguire la correttezza delle argomentazioni, ma situa il senso di
questa ricerca non nella produzione di discorsi formalmente corretti, ma
nella individuazione delle direzioni di senso dell’esistere. Perché la filosofia
rimane fedele a se stessa quando si mostra nella forma di una continua
ricerca di ‘un cammino di vita’.
Molta filosofia, però, non risponde alla chiamata della ricerca di
senso, è quella filosofia autoreferenziale, che si costituisce come discorso
che riflette sui discorsi senza mantenere una relazione diretta col mondo.
Sa costruire raffinate strutture concettuali, ma poi è incapace – contraria-
mente proprio a quanto ci si attende della riflessione filosofica – di
illuminare le vicende umane. La pedagogia ha bisogno, invece, di dialo-
gare con una filosofia le cui radici sprofondano nella vita, di un pensiero
che aderisce ai suoi bisogni, una filosofia che si profili come sapere
esperienziale, come un sapere che radicalmente interroga l’esperienza,
perché è lo stare col pensiero là dove l’esperienza accade, facendo di essa
l’oggetto ossessivo delle sue riflessioni, la condizione necessaria – quan-
d’anche non sufficiente – per dare forma ad un sapere vivo che quella
esperienza sappia rischiarare. Perché la pedagogia si costituisca come
sapere irrinunciabile deve dialogare con quei saperi che hanno deciso di
confrontarsi con le questioni inaggirabili della vita, senza nulla scartare o
semplificare, costituendosi cosı̀ essi stessi come saperi irrinunciabili.
Questa filosofia non è quella dei grandi sistemi, di quelle “forme
trionfanti” che sembrano distratte rispetto alle questioni esistenziali della
vita quotidiana (SA: 55). La pedagogia potrà trovare un pensiero vitale e
necessario in forme di pensiero meno sistematiche, in certi casi più vicine
alla poesia e con essa alla vita. La forma in cui si manifesta il sapere
dell’esperienza non può essere un discorso formalistico, che pretende di
enunciare regole oggettivamente valide, ma è un sapere per cosı̀ dire
frammentario, che mette in fila – una fila che però manca di qualsiasi
ordine predato – semi di pensiero che aspettano di essere coltivati. Questi

5
Martha Nussbaum, Terapia del desiderio, Vita e Pensiero, Milano 1998 (ed. or. The
Therapy of Desire, Princeton University Press, Princeton 1996), p. 22.

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6 Premessa

semi di pensiero mancano di un ordine perché non pretendono di indicare


un cammino sicuro – si cadrebbe allora in un errore analogo a quello dei
discorsi sistematici –, ma si offrono come strumenti da ripensare a partire
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dalla propria esperienza. Il sapere da cercare non è, dunque, quello


architettonicamente strutturato in argomentazioni stringenti, ma quello
che ha l’aspetto di un pensiero frammentato, disordinato; di un disordine,
però, vitale, perché mette in movimento il pensiero dell’altro/a.
Un esempio luminoso di questo pensiero filosofico non sistematico, ma
germinale, che non pretende di decidere dove sta il vero, ma della verità
con passione tiene costantemente aperta la ricerca, lo si trova nella
filosofia di Marı́a Zambrano, pensatrice spagnola testimone di un filoso-
fare massimamente attento alla vita. Il suo pensiero, dunque, assumo a
tema d’indagine per cercare qualcosa che rischiari i problemi che incontra
chi si trova oggi ad affrontare, teoreticamente o empiricamente, il tema
dell’educazione.
Nel suo pensiero andrò cercando quei nodi di riflessione su cui
occorre fermarsi a pensare per reincorniciare la direzione della ricerca
pedagogica. Tre sono i nodi su cui si costruisce il presente discorso.
Innanzitutto Zambrano suggerisce una essenziale direzione di senso dell’edu-
care che consiste nell’andare alla ricerca della verità, che è poi cercare un
sapere dell’anima. Sentiamo qui risuonare l’antica proposta di Socrate, ma
Zambrano, che si fa interprete profonda di questa primaria direzione di
senso dell’esistenza, supera l’intellettualismo socratico attraverso la sua
originale attenzione alla sfera del sentire. Ma ancor più fondativo è il suo
discorso sul metodo. Per andare in cerca di un sapere dell’anima occorre un
metodo, ed è proprio la riflessione sul metodo che costituisce l’architrave
epistemologica del suo pensiero. È quella del metodo una questione
essenziale che riprende da Cartesio e da Husserl, ma che ridefinisce alla
luce della sapienza mistica. Nel discorso che Zambrano va tessendo
attorno al concetto di metodo si possono rintracciare quelle che definisco
pratiche di autoformazione, che valgono sia sul piano della ricerca personale,
prefigurandosi quindi come pratiche ontogenetiche, sia sul piano della
ricerca rigorosa che mira ad un sapere, e in questo senso si possono
definire pratiche epistemiche.

nota di metodo
Nel mio percorso di lettura dei testi di Zambrano il discorso si aprirà,
di tanto in tanto, sulle riflessioni di altre pensatrici, Hannah Arendt
soprattutto, ma anche Edith Stein e Simone Weil. Questo aprire finestre
di dialogo accadeva continuamente nella mente mentre ero presa dalla

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Premessa 7

lettura delle opere della filosofa spagnola e questo aprire finestre accadrà
anche nella fase della scrittura perché il riferirsi ad altro aiuta, per
analogia e per differenza, a cogliere l’originalità di Zambrano. Del resto
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ad accomunare queste pensatrici c’è, al di là dei differenti e originali


profili di ciascuna, un tratto comune che rende il loro pensiero significa-
tivo per una ricerca pedagogica che vuol essere attenta all’esperienza
vivente: il loro portare il pensiero sempre là dove la mente sente esserci
questioni vitali per l’anima.
Altri riferimenti, seppur operati in modo sintetico, saranno alcuni dei
pensatori che Zambrano ha assunto come interlocutori privilegiati, in
particolare Seneca, Agostino, Scheler, Husserl, Heidegger, Unamuno,
Ortega y Gasset, perché stare sul sentiero dei suoi riferimenti significa
trovare indizi per tessere l’ordine del suo discorso. Rispetto ai pensatori
che ha frequentato non c’è dubbio che Zambrano abbia sviluppato
prospettive originali, ed è la sua originalità che va colta, ma penso che la
sua unicità e differenza più intensamente possa delinearsi se il suo pensiero
viene messo in relazione con le fonti delle sue riflessioni. Come afferma
Bateson, il pensiero ha bisogno di scoprire differenze per far emergere il
profilo dei fenomeni. Sento che un buon metodo di lavoro per cogliere
l’originale differenza del pensiero di Zambrano è quella di leggerla te-
nendo aperto il dialogo con quei nuclei di pensiero con cui lei si è
costantemente confrontata. Il tessere questi riferimenti trova autorizza-
zione nel fatto che, come Zambrano afferma, “siamo sempre figli di
qualcuno, eredi e discendenti” (S: 1), e per questa ragione il pensiero di un
singolo/a pensatore/rice risalta nella sua essenza originale contestualiz-
zandolo nella tradizione in cui è germinato.

Leggere Zambrano non è facile, perché il suo pensiero non ha un


andamento sistematico, ossia non segue il modo tradizionale che ha la
filosofia di individuare temi e poi svilupparli analiticamente secondo un
ordine sequenziale, che tiene ogni tema distinto dall’altro. Il suo è un
modo impressionistico di procedere, punteggiato di ragioni seminali che
tali restano, nel senso che le questioni cui lei tiene vengono accennate e
non concettualmente sistematizzate, ed è in questa forma seminale che tali
questioni ricompaiono ripetutamente nel discorso senza alcuna pretesa di
sistematizzazione argomentativa. È un modo non finito, non terminato –
cosı̀ come è la ragione umana – di coltivare il pensiero, ed è proprio in
quanto tale che la filosofia di Zambrano interroga il lettore, provocando in
lui/lei un cambiamento di posizione: da semplice lettore-spettatore a
partecipante attivo nella costruzione di un ordine del pensiero, perché da

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8 Premessa

questo pensiero seminale l’altro si sente interpellato a pensare a partire da


sé. Non c’è forse migliore modo di filosofare di quello che chiama l’altro a
tessere il suo proprio ordine del discorso.
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Per stare nel dialogo con Zambrano mi è sembrato essenziale prestare


attenzione ai concetti che risultano avere operato profondamente nel suo
pensiero: la verità, il sentire, il tempo, l’epochē, il posto ontologico dell’es-
sere umano, il pensare poetico, concetti che sono parte della tradizione
filosofica, ma che lei ha riletto in modo profondamente originale. Zam-
brano insegna che delle tradizioni di pensiero con cui la nostra mente
dialoga si deve saper cogliere quei nuclei di idee seminali che più ci
interpellano, e poi su questi intensamente meditare per reinterpretarli alla
luce della nostra esperienza. È questo il metodo che dovrebbe seguire
anche il filosofo dell’educazione: delle filosofie cogliere quegli aspetti del
discorso che consentono di mettere a fuoco il quid dell’educare e di questo
contornare i suoi aspetti problematici, per poi prospettare possibili piste di
azione.

L’intenzione di mantenermi quanto più possibile prossima al linguag-


gio di Zambrano ha richiesto frequenti riferimenti diretti ai suoi scritti; per
evitare un appesantimento di note a pié di pagina ho scelto, solo per i suoi
testi, la notazione nel corpo del testo con l’utilizzo della siglatura delle
opere.

Il pensare, proprio perché è sempre pensare con altri, è anche sempre di altri. Quando,
dunque, il pensare prende forma si dovrebbe ringraziare molte e molti. Impossibile, però,
ricostruire la fitta trama di scambi in cui le nostre idee hanno preso forma, ma devo un
particolare ringraziamento ad Annarosa Buttarelli per il tempo dell’ascolto e del dialogo di
cui mi ha fatto dono.

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Premessa 9

Opere di Marı́a Zambrano citate per sigla


A L’aurora, Marietti, Genova 2000 (tit. or. De la aurora, Ediciones Turner,
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Madrid 1986).
B I beati, Feltrinelli, Milano 1992 (tit. or Los bienaventurados, Ediciones
Siruela, Madrid 1990).
CB Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano 2004 (ed. or. Claros del bosque,
Editorial Seix Barral, Barcelona 1977).
CGL La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997 (ed. or.
La Confesión: Género literario, Fundatión Marı́a Zambrano, 1943 – Edicio-
nes Siruela, Madrid 1995).
DD Delirio e destino, Raffaello Cortina, Milano 2000 (ed. or. Delirio y destino,
Mondadori, Madrid 1989).
FP (1998), Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna (ed. or. Filosofı́a y poesı́a,
Fondo de Cultura Economica, Mexico D.F. 1996).
MFTFV Il metodo in filosofia o le tre forme di visione, in “aut aut”, 1997, 279, pp. 70-78
(Del método en filosofia o de las tres formas de visión, in “Rı́o Piedras. Revista
de la Facultad de Humanidades”, San Juan de Puerto Rico, 1972).
NM Note di un metodo, Filema, Napoli 2003 (ed. or. Notas de un método,
Mondadori Espana, Madrid 1989).
PD Persona e democrazia, Bruno Mondadori, Milano 2000 (ed. or. Persona y
democrazia. La historia sacrificial, Fundatión Marı́a Zambrano, 1958 –
Ediciones Siruela, Madrid 1996).
PR Le parole del ritorno, Città Aperta, Troina 2003 (ed. or. Las palabras del
regresso, Fundatión Marı́a Zambrano, 1995).
S Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998 (ed. or. El pensamiento vivo de
Séneca, Fundatión Marı́a Zambrano, 1944 – Ediciones Siruela, Madrid
1994).
SA Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996 (ed. or. Hacia un saber sobre
el alma, Losada, Buenos Aires 1950).
SP Per una storia della pietà, in “aut aut”, 1997, 279, pp. 63-69 (ed. or. Para una
historia de la pietad, “Lyceum”, La Habana 1949, 17).
SPPC Spagna. Pensiero, poesia e una città, Città Aperta edizioni, Troina 2004.
ST I sogni e il tempo. Edizioni Pendragon, Bologna 2004 (ed. or. Los sueños y el
tempo, Siruela, Madrid, 1992).
UD L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001 (ed. or. El hombre y lo
divino, FCE, México 1973 – Siruela, Madrid 1992).

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Direzioni di senso

1.1. Cercare la verità della vita


Zambrano paragona la vita ad un fiume. Il fiume è acqua che scorre. Ma
perché ci sia un fiume è necessario che ci sia un letto in cui l’acqua si
raccoglie. Altrimenti si avrebbe un pantano, perché “la potenza si esauri-
sce in assenza di argini” (SA: 12). Come l’acqua anche il tempo della vita
scorre. E con il tempo che passa, passa anche la nostra vita. Ma perché
essa non sia semplice dispersione del tempo, perché l’angoscia di passare si
trasformi “nella gioia di essere in cammino” (SA: 13) è necessario che ci
sia un percorso, una direzione di senso orientata verso qualcosa che
illumina i nostri passi nel tempo:

Ogni vita, persino la più attiva, ha bisogno di trascorrere chiusa in una


forma, e solo al suo interno si rende attiva. L’informe è ugualmente inattivo
e sterile, senza possibilità alcuna di agire. La vita, a mano a mano che sale
nella scala della perfezione, sale anche nella scala della forma (SA: 71).

La vita ha necessità di una forma. Per Zambrano questo qualcosa è la


verità, per verità intendendo quella figura della realtà che consente di dare
un ordine alla vita, ossia di collocare nel loro posto giusto le direzioni
possibili dell’essere. Cercare la verità è cercare una luce, quella luce
lontana che si manifesta come “un chiarore che ricade sulle circostanze
immediate e le mette in ordine, dà loro un senso” (PD: 33). È questa la
“verità vivente”, quella che ha una potenza trasformatrice sul tempo della
vita. La vita ha bisogno di trasparenza e solo la verità è in grado di
fornirla; quando manca di verità procede incerta e confusa. C’è una
necessità della verità intesa questa come un orizzonte in cui sentiamo
essere raccolti gli istanti della vita. La verità è l’alimento della vita, quello
che la tiene in alto:

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12 Un metodo a-metodioo

Aggrappandoci alla verità, alla nostra, legandoci alla sua scoperta per averla
accolta dentro di noi, fissandola nel nostro essere verità, sentiamo che il
nostro tempo non passa, o almeno non invano (SA: 12).
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Cercare la verità: sarebbe questa la direzione di senso capace di


inverare il nostro tempo. Perché cercare la verità dà ordine ai nostri passi
e permette di muoversi verso una direzione precisa. “La verità trasforma
la vita” (CGL: 31). Una vita che si consegna alla ricerca della verità è una
vita trasformata, convertita. Il problema di una vita confusa e perplessa,
quella di chi si sente smarrito nell’oceano della vita, è di non avere una
verità. Quella verità che ha la forma della visione. Avere una visione è
vedere la forma possibile della propria vita. È la visione “che apre le porte
dell’anima e che innamora” (SA: 76). Offrendo una forma di vita la
visione dà senso all’esistenza ed è da questo orizzonte di senso che
scaturisce l’azione autentica. C’è necessità della verità come orizzonte cui
guardare per trovare misure di senso che inverino gli istanti della nostra
vita. La verità è l’alimento della vita, quella che la tiene in alto. La verità
accende la vita, perché porta il pensiero al centro dell’essere e fa sentire
questo centro.

Ma quale forma ha questa verità? Occorre fare chiarezza sul concetto


di verità, perché verità è una parola troppo carica di significati per
assumerla senza interrogarla e soprattutto senza capire quale significato
Zambrano assegna a questo termine.
Non può avere la forma enunciativa di un discorso compiuto, con una
struttura definitiva. Sarebbe allora come la verità platonica che, trovata
nel cielo limpido ed immobile, il filosofo pretende valga anche nella
caverna oscura e soggetta al passare del tempo; ma a questa verità, che
s’impone da un altrove, l’esperienza reagisce rifiutandola, cosı̀ come gli
abitanti della caverna rifiutarono il filosofo che si faceva portatore di un
sapere elaborato altrove. Perché tutto quello che ha una forma definita
non può illuminare la vita che è alla ricerca di una forma. La verità è tale,
cioè è parola viva, quando una volta accolta nell’anima in essa può
modificarsi: nascere e rinascere continuamente a nuove forme. Ed è in
questo suo continuo rimodellarsi nell’anima impegnata a pensare l’espe-
rienza che la verità, in cerca della sua forma, aiuta la vita a trovare la sua
forma. Perché la verità è tale quando nel suo prender forma muove
l’anima, l’accende, la mette in tensione, cosı̀ che si possa sentire il centro
del proprio essere.
Non è questo il caso delle verità scientifiche, verità chiuse dentro
discorsi troppo sistematici. Non è neppure la verità di certa filosofia, quella

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Direzioni di senso 13

che si pretende generata da un pensiero puro. A contrassegnare molta


filosofia è stata la ricerca di un sapere universale e da tale ricerca ha
escluso l’amore, i sentimenti. Platone ci aveva insegnato che è l’amore a
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mettere ordine nella vita e a condurre alla verità (CGL: 32), ma certa
filosofia ha scartato tutto il sentire e separandosi da esso si è separata dalla
vita producendo un sapere astratto. Questa verità generale e anaffettiva
non innamora la vita, la lascia indifferente o anche “insofferente”. Non
che la verità non debba essere generale, sempre una verità per essere tale
è trascendente rispetto alla vita: “ciascuna verità è la trascendenza della
vita, il suo farsi strada” (CGL: 33). Ma per essere viva deve nascere dalla
vita stessa. Cosa che non accade alla verità prodotta dalla cultura mo-
derna, dove i saperi hanno rescisso il rapporto con la vita, con le sue
passioni e le sue tenebre. E queste rimangono impenetrabili alla luce di
una ragione che ha interrotto la relazione col sentire originario.
La verità offerta da un pensiero come quello moderno che pretende,
anche quando è filosofia, di strutturarsi nella forma di una scienza esatta,
non innamora la vita, non riesce a trasformarla. La vita non si lascia
com-prendere da questo tipo di pensiero, lo sente estraneo e, quindi, lo
rifugge. E cosı̀ la vita rimane abbandonata dalla verità e svilita. Le verità
date, quelle sistematizzate entro discorsi logicamente strutturati, esigono
non un’adesione ma una sottomissione che ha la forma dell’imposizione
violenta e come tale non fa respirare la vita, ma produce l’effetto di
annichilirla. La verità è tale quando seduce la vita, quando la fa innamo-
rare.
Nessuno può “darci” questa verità, intesa come prodotto preconfezio-
nato. La verità che fa respirare la vita e la trasforma è qualcosa che va
cercata. Cercata, come insegna il pensiero della differenza femminile, a
partire da sé, da un investimento soggettivo nel pensare. Se la vita non
viene impregnata della ricerca della verità allora rimarrà senza respiro.
Date queste premesse si profila allora come questione inaggirabile il
capire “Come fare in modo che vita e verità s’intendano, la vita lasciando
spazio per la verità e la verità entrando nella vita?” (CGL: 39). Per
rispondere a questa domanda occorre capire in che cosa consiste per
Zambrano la verità, quella vitale. La filosofa chiarisce che la verità da
cercare è il “sapere dell’anima”, qualcosa che sentiamo indispensabile
perché è quella verità che alla vita apre un percorso (SA: 19).

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14 Un metodo a-metodioo

1.2. Per un sapere dell’anima


La vita è cammino e in questo cammino privo di mappe avvertiamo la
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necessità di un sapere dell’anima, ossia quel sapere che offre una visione,
una figura della realtà in cui l’esistenza prenda il suo senso. Il sapere
dell’anima è quello che serve alla vita, il sapere sperimentale della vita.
Trovare il sapere dell’anima è trovare la misura del proprio esistere: la
direzione e il ritmo del proprio camminare nel tempo. Imprimere al
cammino della vita un ritmo significa possedere la potenza indefinita di un
comportamento proprio. È questa la sola sovranità che ci è concessa, una
sovranità potente perché generatrice di libertà, ma fragile perché il ritmo
del proprio camminare non è cosa decisa una volta per tutte, ma conti-
nuamente va orchestrato.
È cosa intensamente problematica affrontare il compito di dare una
forma al tempo della vita. La cosa più tremenda del tempo è trovarsi ad
affrontarlo da soli. Il sapere dell’anima è quello che ci consente di stare in
comunità, quello che ci fa incontrare gli altri, che non sono solo i nostri
simili, ma tutti gli altri enti che abitano il reale. È quel sapere che ci fa
trovare un ordine di connessione con le altre persone cosı̀ che si possa
andare insieme nel tempo, “perché si tratta di camminare uniti, cammi-
nare con” (DD: 124).
Trovare nella vita il ritmo della condivisione con altri è essenziale per
Zambrano, che accoglie la lezione di Ortega y Gasset secondo cui “vivere
è convivere” (DD: 16); nelle sue riflessioni l’ontologia che nomina la
mancanza d’essere che segna la condizione umana si traduce in un’etica
della condivisione. Vivere da soli significa vivere a metà, ossia morire pur
rimanendo vivi. E ciò si verifica non solo quando ci si trova a sopportare
malattie che interrompono il ritmo ordinario, ma anche quando viene a
mancare la relazione con altri, quando il prossimo non c’è. Siamo soliti
avere l’immagine della nostra persona come di uno spazio recintato dai
confini della nostra pelle. Ma questa visione atomistica non corrisponde
all’essenza della condizione umana, che è fondamentalmente relazionale,
nel senso che noi siamo la forma emergente delle relazioni che strutturano
il nostro spazio vitale. “L’altro è la compagnia di cui ogni essere necessita”
(NM: 72) poiché nessuno può esistere da solo. Come scrive il poeta
Antonio Machado “un cuore solitario non è un cuore”. Nella solitudine si
possono vedere cose chiarissime, ma nessuna di queste è verità. Per
pronunciare parole, che è tuttuno col costruire lo spazio in cui manifestare
la propria essenza, si ha bisogno dell’altro. Né si può avere percezione del
proprio corpo se non c’è un altro con cui essere in relazione. Essere
consapevoli che vivere è convivere significa “sapere e sentire che la nostra

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Direzioni di senso 15

vita, seppure nella sua traiettoria personale, è aperta a quella degli altri”
(PD: 14) ed è proprio in quanto esseri plurali e non mai soli che non si
finisce mai di esistere. Quando questa consapevolezza viene meno allora si
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rischia la follia.
La stessa azione politica è nella sua essenza condivisione, perché fare
politica significa stare insieme con gli altri: quelli più grandi da cui
s’impara, i pari con cui si ha da costruire una visione condivisa della vita,
quelli che abitano altri ambienti e seguono altri ritmi. Prima di fare
progetti, prima di scrivere dichiarazioni d’intenti, prima di pianificare
interventi rivoluzionari volti a distruggere mondi divenuti inabitabili o
edificare mondi nuovi, occorre imparare la pratica della condivisione in
cui tessere insieme ritmi comuni di esistenza. La politica per Zambrano è
innanzitutto “ansia di convivenza profonda” (DD: 47), significa essere
liberi da qualsiasi ansia di realizzare utopie o di ispirare l’azione ad ideali
universali.
Il cammino della vita non è un percorso che ognuno fa da solo, ma
sempre con altri. Senza l’altro il cammino non è un reale movimento. Il
sapere sperimentale della vita che si va cercando è dunque da concepire
come quello che guida ad uscire alla ricerca dell’altro e con lui/lei
condividere la ricerca della verità. La verità, non quella delle argomenta-
zioni astratte ma quella che trasforma la vita, non è mai soggettiva, ma è
sempre qualcosa di conquistato insieme. È in quanto tale che diventa
l’orizzonte al chiarore del quale dare forma al tempo della vita.
È, quindi, irrinunciabile il sapere dell’anima quando si profila capace
di far trovare la misura per dare ritmo e direzione alla propria esperienza
nel mondo con altri. Per essere tale non può che scaturire dal pensiero
vitale, quello che sta affondato nella vita e di essa porta il peso. Il sapere
vitale è tessuto di “idee incarnate” (SA: 58), che prendono forma per
opera di un pensare che sta là dove la vita accade, perché solo in quanto si
mantiene in contatto con la vita nella sua essenza è capace di trasformarla.
La nostra epoca non riserva attenzione a coltivare tale sapere. Di-
spone di una massa crescente di conoscenze scientifiche e di tecniche, che
sempre meglio rispondono al bisogno di edificare un mondo propriamente
umano in cui abitare, ma queste non rispondono al bisogno di trascen-
denza. Né questo bisogno è soddisfatto dalla filosofia, che in molti casi
produce sistemi lontani dalla vita ed esibisce un pensiero razionalistico ed
astratto.
Per trovare un’attenzione ai bisogni dell’anima occorre andare col
pensiero alla paideia socratica. Nell’Apologia Socrate parla dell’educazione
come di quel processo di ricerca mosso dall’intenzione di provocare

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16 Un metodo a-metodioo

nell’altro la disposizione ad aver cura di sé, ossia ad aver cura dell’anima,


della virtù e della saggezza, perché sono queste le cose più importanti o
meglio le cose irrinunciabili per autenticare la vita umana, quelle che
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consentono di “diventare il più buono e il più saggio possibile” . Zam-
brano mette al centro del suo pensare il concetto socratico dell’anima e la
ricerca di saggezza nel momento in cui interpreta la condizione umana
come avente necessità di un sapere dell’anima. Ma nel suo percorso
reinterpreta il significato di questo sapere producendo una svolta radicale
rispetto all’intellettualismo socratico. Svolta determinata dalla sua atten-
zione alla sfera del sentire. Per Zambrano, infatti, il sapere dell’anima è
l’“ordine della nostra interiorità”. Aver cura dell’anima non è solo soddi-
sfare quell’ansia per il razionale che si traduce nella formula del “conosci
te stesso”, ma è anche aver cura della sfera emozionale dell’esistere.
Perché vivere è innanzitutto sentire: “L’esperienza è a partire da un essere,
questo che è l’uomo, questo che sono, che vado essendo io in virtù di ciò
che vedo e patisco e non di ciò che ragiono e penso” (B: 30).
Trovare l’ordine del cuore è trovare l’ordine delle cose. L’ordine del
cuore è quello in cui sappiamo mettere al posto giusto l’essenziale,
l’irrinunciabile. Trovare l’irrinunciabile è come trovare il centro, quel
centro senza il quale la vita scorre disordinata e confusa. La proprietà del
centro è quella di attrarre, di raccogliere ciò che tenderebbe a rimanere
senza un ordine. La sua consistenza è simile a quella dell’energia, della
luce, perché come la luce è l’essenza germinante della vita.
Per Zambrano la luce è un a priori più del tempo e dello spazio; noi
siamo chiamati a nascere dalla luce ed è sempre una luce che si va
cercando, quella che illumina il nostro cammino. È vero che l’esserci
consuma tempo e accade in uno spazio, ma innanzitutto i movimenti
dell’essere si producono perché c’è una luce che tocca l’essere e lo chiama.
È la luce che ci tiene al centro dell’essere aiutandoci ad individuare
l’ordine del cuore.

La sua proposta di coltivare un sapere dell’anima come ordine del


cuore ha il sapore di una svolta radicale perché prende forma all’interno
di una cultura che non solo ha accantonato il tema di un pensiero
sapienziale che illumini il percorso della vita, ma coltivando ipertrofica-
mente la dimensione razionalistica della filosofia platonica si è occupata
prevalentemente dell’aspetto intellettuale dell’essere umano, del suo pen-
siero, un pensiero depurato da ogni emozione e da ogni passione.

1
Platone, Apologia di Socrate, 29d-e e 36b.

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Direzioni di senso 17

È accaduto che nel tempo la filosofia ha semplificato, con l’effetto di


immiserirlo, il suo campo di riflessione: non solo ha espulso la natura
diventata oggetto esclusivo delle scienze naturali, ma dell’essere umano,
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rimasto senza legami vitali col mondo circostante della vita, ha tolto di
mezzo il corpo, divenuto oggetto della biologia e della medicina, e insieme
anche le passioni, di cui ha cominciato ad occuparsene la “psicologia
scientifica” (SA: 14), mentre l’anima è diventata concetto esoterico, da
relegare nell’ambito dei discorsi religiosi. Una tale filosofia, che ha per
oggetto una condizione umana ridotta ai minimi termini, non può certo
rispondere al suo compito di indicare un cammino di vita. Né, del resto,
pare interessarsi a tale compito, al punto da sembrare di avere perduto
memoria di questa sua intenzione originaria di costituirsi come un pensare
per la vita. Questa smemoratezza della propria ragione d’essere è ancora
più evidente nell’affermazione delle filosofie seconde, quelle che, interrotto
il rapporto con le cose, si occupano del linguaggio.
Alla fenomenologia va riconosciuto il merito di aver aperto la via per
un superamento del razionalismo verso un’attenzione alla condizione
umana nella sua interezza. Scrive Edith Stein: “Il nostro animo è per
natura pieno di sentimenti, tanto che l’uno soppianta l’altro e tiene il
nostro cuore in continuo movimento, spesso in tumulto ed inquietudi-
2
ne” . Heidegger, in Essere e tempo, parla della situazione emotiva come
3
modo costitutivo dell’esserci insieme alla comprensione . La tonalità emo-
tiva viene detta costituire un esistenziale fondamentale, perché il sentire
che impregna l’esser-ci, “l’equanimità serena e il malumore inibente del
4
prendersi cura quotidiano” , anche se passano inosservati allo sguardo
riflessivo della mente, sono ontologicamente significativi, dal momento che
è attraverso il sentire che l’esserci si situa nel mondo. Nell’effettività
dell’esserci la situazione emotiva è fondamentale in quanto è il sentirsi che
conduce l’essere umano davanti a se stesso. Prima di ogni altro atto
cognitivo l’essere umano si sente, esperimenta cioè l’“autosentimento
5
situazionale” , perché il nostro esserci “è sempre consegnato al sentimento
6
della propria situazione” .

2
Edith Stein, La mistica della croce, Città Nuova, Roma 1991 (antologia a cura di
Waltraud Herbstrith) (ed. or. In der Kraft des Kreuzes, Herder, Freiburg im Breisgau 1980), p.
47.
3
Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976 (ed. or. Sein und Zeit,
Niemeyer, Tübingen 1927), p. 172.
4
Ibid.
5
Ivi, p. 173.
6
Ibid.

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18 Un metodo a-metodioo

Questo sentirsi ha possibilità rivelatrici rispetto alle quali il conoscere,


inteso nella sua forma intellettualistica depurata dall’apporto delle emo-
zioni, è inadeguato, anche quando raggiunge le vette della speculazione
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teoretica. Invece, c’è la tendenza della nostra cultura a disconoscere il


valore del sentire e a rivolgere l’attenzione solo alla parte razionale
dell’anima, parte alla quale viene erroneamente attribuito una sorta di
primato, poiché ritenuta capace di padroneggiare le emozioni. Ma questa
celebrazione del razionale fa cadere nell’errore di screditare l’evidenza
della situazione emotiva, falsificandola come fenomeno irrazionale. Disco-
noscendo il sentire come “un modo di essere originario in cui l’esserci è
7
già aperto a se stesso prima di ogni conoscere e volere” ci priviamo di un
modo fondamentale per pervenire ad un sapere che sia vitale. Irrinuncia-
bile per la vita.
Zambrano mostra di apprezzare Heidegger, che definı̀ il filosofo più
importante del nostro secolo (B: 53), ma nel suo discorso sul sapere
dell’anima come ordine del cuore il riferimento va ad un altro fenomeno-
logo: Max Scheler, al quale riconosce il merito di aver portato all’atten-
zione di una cultura impregnata di razionalismo il concetto di “ordine del
cuore”. Di Scheler riporta la seguente affermazione:

ciò che l’espressione simbolica cuore designa non è (come ve lo immaginate


voi, filistei da un lato e romantici dall’altro) la sede di stati confusi, di impeti
oscuri e indeterminati o di forze intense che spingono l’uomo da una parte
e dall’altra (cit. in SA: 16)8.

7
Ivi, p. 174.
8
Si può ipotizzare che l’attenzione risevata a Scheler, filosofo ammirato da Ortega y
Gasset maestro della Zambrano, sia motivata, oltre che da sintonie tematiche, anche da
una consonanza dello stile di pensare che la filosofa spagnola può aver trovato in quel
modo originale del filosofo tedesco di intendere la fenomenologia; infatti, l’incollocabilità
indisciplinata del pensiero di Zambrano (Rosella Prezzo, Metafore della lettura, pp. 35-44, in
Chiara Zamboni (a cura di), Marı́a Zambrano, in fedeltà alla parola vivente, Alinea Editrice,
Firenze 2002, p. 35), il suo privilegiare la parola poetica e il ragionamento metaforico che
si concretizza in un linguaggio a tratti visionario, è legittimo ipotizzare avesse trovato un
valido ispiratore in Scheler. Nelle opere del filosofo è evidente una certa passionalità del
discorso che contrasta con l’aspirazione alla nitida chiarezza della fenomenologia husser-
liana. Nei suoi testi la tendenza all’ordine sistematico del discorso è continuamente
inquinata dall’inclinazione per le ombre e le oscurità della vita vissuta (Laura Boella, Il
paesaggio interiore e le sue profondità, pp. 11-45, in Max Scheler, Il valore della vita emotiva,
Guerini, Milano 1999 – ed. or. Die Idole der Selbsterkenntnis, in Id., Gesammelte Werke, Bd. III:
Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, hrsg. von Maria Scheler, Francke,
Bern-München 1955, pp. 213-292 –, p. 12). Analogo a questo è lo stile di Zambrano, alla
quale si possono applicare le stesse parole che lei riserva a Seneca, definendolo “un
pensatore non sistematico, non eccessivamente logico”, che non si attiene alle regole, né si

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Direzioni di senso 19

Con l’espressione ordo amoris Scheler intende un ordine del sentire che
costituisce il nucleo vitale dell’etica di un soggetto, in quanto tale ordine
performerebbe il modo di guardare il mondo e di vivere in esso. La forza
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performativa dell’ordine del cuore sarebbe come quella esercitata dalla


formula di cristallizzazione che decide la struttura di un cristallo. Ciascuno
di noi inevitabilmente sviluppa un modo di sentire, che si porta appresso
come il mollusco la sua conchiglia. Il sentire in cui siamo immersi è come
un contenitore nel quale il nostro essere resta incapsulato, e il modo di
percepire il mondo dipende dalle finestre che si dischiudono in questo
contenitore.
Il problema cui deve far fronte l’essere umano è che questo sentire
può avere ma anche mancare un ordine. Rispetto al rischio di un disordine
9
del sentire , quello che ci fa mancare la percezione del valore esatto delle
cose e conseguentemente anche delle azioni da tenere rispetto ad esse, il
soggetto dovrebbe decidersi continuamente per la ricerca dell’ordine del
cuore, quello che ci dice dove sta il valore delle cose e dunque la giustezza
del nostro agire.
Ma se in Scheler l’ordine del cuore ha una base oggettiva indipen-
dente dal soggetto, profilandosi come qualcosa che non può essere posto o
prodotto, ma che solo può essere riconosciuto, per Zambrano – che
sempre rilegge in modo originale le teorie cui dedica attenzione – esso è
una tensione dell’anima orientata a cercare quella visione della vita che
invera il tempo dell’esperienza. L’ordine del cuore costituisce l’orienta-
mento dell’anima, e l’anima dovrebbe essere considerata il nucleo dell’es-
sere umano inteso come essere spirituale, molto di più di quanto dovrebbe
10
essere considerata la capacità di conoscere e di volere . Per questa ragione
Zambrano suggerisce di intraprendere, e a sua volta percorre, la strada
suggerita da Scheler di prestare “attenzione alle realtà profonde dell’a-
nima” illuminandole con lo sguardo della ragione (SA: 18).
Ma inoltrarsi nelle profondità della vita dell’anima, per disegnarne
una conoscenza sufficientemente chiara, è cosa ardua. Di fronte a questa
materia sfuggente o si corre il rischio di assimilarla dentro un’eccessiva
architettura concettuale oppure di scivolare in un linguaggio dai contorni
fumosi:

preoccupa della costruzione di un sistema, e si fa beffe del principio vigente del rigore (S:
8).
9
Max Scheler, Gramática de los sentimientos, Crı́tica, Barcelona 2003 (ed. or. Grammatik der
Gefühle, Deutscher Taschenbuch, München 2000), p. 68.
10
Ivi, p. 65.

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20 Un metodo a-metodioo

La farfalla in alcuni casi muore, in altri vola via. Raramente si è verificato


quel miracolo di agilità della mente che le permette di trattare adeguata-
mente l’anima, di costruire una rete fatta apposta per catturare la realtà
sfuggente della psiche (SA: 18).
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Quel “delicato sapere intorno all’anima” (SA: 18) che avvertiamo


essere indispensabile per fare della nostra vita un tempo vero, chiede una
ragione diversa da quella razionalistica e dialettica che prevale nella nostra
cultura. A dominare è una ragione modellata su quella platonica, che
concepisce la verità strutturata in idee generali ed astratte. La ragione che
rischiara la vita è, invece, quella che rinuncia agli esercizi dialettici e
rifiuta di perseguire l’idealità, per legare il pensiero a qualcosa di concreto.
La ragione attaccata al concreto, alla vita singolare di ciascuno, che
rinuncia all’astrazione per stare sprofondata nella vita, nelle sue zone più
complesse, quelle intraducibili entro discorsi sistematici, è la “ragione
materna” (S: 34). La ragione materna è una ragione generativa che, in
analogia al logos della physis che costituirebbe l’origine seminale di tutti gli
enti, dà vita alle visioni di senso che inverano la nostra esperienza. È una
ragione “divinamente materialistica”, perché anziché praticare l’epistemo-
logia dell’ascensione alpinistica, propria della ragione dialettica che cerca
la verità in un altrove immateriale rispetto al mondo ordinario della vita,
si piega sulle cose concrete e materiali, sulla complessità della vita. Ed è da
questo materialismo che scaturisce il sapere dell’anima, che è saggezza
meticolosa e sottile sulla vita.
Ma lo scaturire della saggezza dell’anima non ha nulla di spontanei-
stico; si costruisce, invece, con meticolosità, con metodo. La questione
decisiva consiste, dunque, nell’individuare la qualità del metodo, quello
adeguato a cercare il sapere vitale e vivificante, che è per l’anima di
ognuno cosa irrinunciabile. Da cercare è quel metodo che si faccia carico
di questa vita, di tutte le sue zone per poterle rischiarare in modo
sufficientemente adeguato.

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2
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Alla ricerca di un metodo

Il sapere dell’anima è quello che si profila come guida per il cammino


della vita. La vita è cammino, δς, perché per dare forma al proprio
essere occorre un cammino. Per trovare la direzione di questo cammino, e
non smarrirsi nella dispersione vanificante, occorre un metodo: μθ-οδος,
cioè il sapere del camminare.
La vita sempre è vissuta, è il tempo puro ed ingenuo dello stare senza
riflessione. L’esperienza è la vita saputa, compresa: è il tempo patito e
agito. L’esperienza è presa di coscienza. È come se l’esperienza fosse vita
di secondo grado. “Ma la vera esperienza non può darsi senza l’intervento
di una sorta di metodo” (NM: 35). È attraverso il metodo che il tempo
prende corpo e forma. Perché il metodo mostra la qualità che deve avere
la verità, quella necessaria a respirare la vita. Quindi, cercare un metodo è
questione essenziale non solo per la ricerca della conoscenza, ma per la
vita intera. È una necessità esistenziale oltre che epistemologica.
Al tema del metodo Zambrano dedica, oltre a molte riflessioni sparse,
un testo specifico, Note sul metodo, rivelandosi cosı̀ una “pensatrice di
1
metodo” . “Metodo è la parola magica per Cartesio e ancora per Husserl”
scrive Zambrano (SA: 187), ma metodo è parola magica, o meglio
essenziale, anche per lei. Riferendosi specificatamente al metodo carte-
siano, sottolinea il suo essere stato sottoposto ad una interpretazione
semplicistica e schematica; viene, infatti, convertito in una ‘forma mentis’
accompagnata da un atteggiamento di sfiducia verso i dati resi accessibili
ai sensi. Seguendo il metodo cartesiano, che chiede di operare continue
scissioni – non solo fra sé e il mondo, ma anche dentro di sé separando la
parte razionale da quella emotiva – si arriva a quell’immiserimento della
vita dello spirito conseguente al fatto che “ci si fida solo di ciò che si
presenta come evidente, che ben presto diventerà l’ovvio, il banale, dando
luogo ad una ermetizzazione crescente della vita spontanea del soggetto”

1
Rosella Prezzo, Metafore della lettura, cit., p. 38.

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22 Un metodo a-metodioo

(NM: 41). Il metodo razionalizzato della scienza moderna cerca la chia-


rezza, ma può raggiungerla solo a patto di evitare i luoghi opachi, le zone
tenebrose. Ma tutta la vita è fatta di opacità, di lati oscuri, di zone
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stagnanti dove il pensiero inevitabilmente s’impantana. Evitare queste


zone, connesse alla nostra esperienza sensoriale ed emotiva, al nostro
essere emotivamente ingarbugliati con noi stessi e con gli altri, facilita sı̀ il
lavoro del pensiero che si compiace di poter ridurre i suoi oggetti in
espressioni matematiche, ma ha come conseguenza di lasciare senza luce
le zone più intense e problematiche della vita. “Una chiarezza che
respinge le tenebre senza penetrare in esse, senza disfarle in penombra,
senza aprire squarci di luce” (NM: 42) non aiuta a vivere la vita. Ne è di
aiuto un metodo che si presenta come qualcosa di sicuro e di certo, perché
in quanto tale impedirebbe di fare esperienza. Non è dunque questo il
metodo che si va cercando.

2.1.L’essenza a-metodica del metodo


non può essere un metodo a priori
I testi che si occupano di epistemologia della ricerca molto spazio
dedicano alla codificazione del metodo. Ma per Zambrano non esiste un
metodo come cosa oggettivamente disponibile, in quanto codificato entro
procedure predefinibili; il metodo è qualcosa che occorre tracciare, “non
c’è metodo in principio per il sapere della vita. Perché la vita è irripetibile,
le sue situazioni sono uniche e di esse si può parlare solo per analogia ...”
(NM: 111). Il metodo è qualcosa che nasce dalla vita e con questa
continuamente si commisura, in quanto tale è destinato a rinascere
continuamente, perché continuamente dalla vita si generano nuove forme
di esperienza.
Invece, il bisogno di certezze proprio dell’essere umano, fa correre il
rischio di cadere in un metodo a priori, che è quello che va a “ricadere
sulla vita stessa e sul nascere dell’esperienza, come un difetto originario,
privandola cosı̀ della sua indispensabile innocenza” (NM: 35). Un metodo
a priori chiede agli oggetti di adeguarsi ad esso, ma, proprio per questa
sua imposizione, al metodo è destinato sfuggire qualcosa di essenziale
2
dell’oggetto . Il metodo a priori è un metodo che chiude la stessa possibi-
lità di fare esperienza, perché predetermina anticipatamente contravve-

2
Roberta De Monticelli, (a cura di) (2000), La persona: apparenza e realtà, Cortina, Milano
2000, p. XVI.

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Alla rioeroa di un metodo 23

nendo all’essenza dell’esperienza umana che è costitutivamente apertura.


È un metodo astratto e, quindi, incapace di vivificare il tempo della vita.
C’è, invece, necessità di un metodo che nasca dalla vita e che ai fatti
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della vita resti legato. “Si potrebbe dire che l’esperienza è ‘a priori’ ed il
metodo è ‘a posteriori’” (NM: 35). Ma anche questa è una semplificazione,
che si limita a invertire la direzione della relazione sequenziale fra metodo
ed esperienza, cioè ribalta quella semplificazione che stabilisce la prece-
denza del metodo sull’esperienza nel suo opposto. Per questo Zambrano
precisa che dare la precedenza all’esperienza sul metodo “vale soltanto
come un’indicazione, giacché la vera esperienza non può darsi senza
l’intervento di una sorta di metodo” (NM: 35). Zambrano istituisce,
quindi, una codipendenza evolutiva fra metodo ed esperienza, nel senso
che la vera esperienza non si dà senza un metodo e un metodo è tale se
prende forma nel bel mezzo dell’esperienza; l’uno non può esserci senza
l’altra e viceversa. Perché il tempo vissuto diventi esperienza occorre un
metodo e il metodo si fa nel bel mezzo del tempo della vita. “Il metodo si
dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di
ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura” (NM: 35). Il metodo da
cercare è quello che viene dall’esperienza facendo esperienza.
In questo legame con l’esperienza ritrovo una forte assonanza col
pensiero di un’altra grande filosofa: Hannah Arendt, che fa continuamente
appello ad un pensiero che rimanga legato ai fatti della vita come il
cerchio al proprio punto focale, in quanto condizione necessaria perché la
3
realtà non resti impenetrabile alla luce del pensiero . Per guadagnare
intelligenza sul reale è necessario un pensiero contestuale, che non è un
pensiero smarrito nel particolare, ma un pensiero che cerca semi di sapere
capaci di un valore rischiarante che va oltre il campo fenomenico a partire
dal quale si sono costituiti, senza per questo smarrire il suo necessario
attaccamento all’evento. È un pensiero che rimane affondato nell’evento,
nell’esperienza puntuale cosı̀ com’è vissuta. Un pensiero che “salva le
circostanze” e le illumina (B: 62-63). “Salvare i fenomeni” è un’espressione
che troviamo anche in Simone Weil. Queste filosofe sono tutte attente alle
circostanze concrete nella loro singolarità essenziale. Da pensare è sempre
il fatto concreto singolare, pensare ad ogni evento nel suo pulsare originale
prima di assimilarlo in un concetto generalizzante che smarrisce dell’e-
vento il suo quid.
Il metodo è innanzitutto apertura, passaggio ad altro, al non cono-

3
Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1999 (ed. or. Between Past and
Future: Six Exercises in Political Thought, The Viking Press, New York 1961), p. 29.

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24 Un metodo a-metodioo

sciuto e, quindi, a ciò che non può essere anticipato prima che il cammino
abbia inizio.
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per trovare il metodo non ci sono regole


È proprio in quanto il metodo si profila come apertura che per
trovarlo non ci sono regole predefinite cui affidarsi. Non ci sono piste già
tracciate, ma solo stretti sentieri da trovare cammin facendo:

Un metodo è un cammino da percorrersi una o più volte (...) È un luogo di


arrivo più che di partenza (NM: 37).

Proprio perché è un cammino, o meglio un camminare accompagnato dal


pensare il cammino che si sta tracciando, dunque non un semplice camminare
ma un camminare pensando sui propri passi, occorre sapere smarrirsi
nell’esperienza, naufragare nel territorio che si attraversa lasciando che il
pensiero si innamori delle cose che incontra. Occorre saper perdersi nel
tempo, cosa che implica “una certa dose di avventura e persino un
perdersi nell’esperienza, un’erranza del soggetto nel quale questa si va
formando. Un perdersi che sarà libertà” (NM: 35).
Per rendere questo concetto Zambrano usa la metafora del naufragio
(NM: 38). Di fronte all’opacità del nostro essere, di fronte alla consapevo-
lezza che il senso del nostro essere ci sfugge, ci siamo dentro e non lo
vediamo, scatterebbe la tentazione di attivare quel pensare che è un
afferrare la realtà dentro la maglia dei concetti chiari e perspicui. Invece
abitare autenticamente il tempo che ci è dato significa lasciarsi naufragare.
Il naufrago è colui che arriva su una terra sconosciuta privo di tutto, non
avendo nulla con sé, è senza gli strumenti abituali; per vivere deve
costruire quegli strumenti che il posto suggerisce essere utili per la vita. La
postura del ricercatore è come quella del naufrago, nel senso che egli è
chiamato ad entrare nella realtà nuova in cui si avventura senza gli
strumenti ordinari e poi mettersi ad ascoltare le cose per capire come
vogliono essere conosciute. Naufragare col pensiero significa arrivare alla
terra del pensiero senza portarsi appresso nulla, significa morire ai propri
pensieri.
In questo senso l’essenza del metodo, quello necessario a cercare il
sapere esperienziale che rischiari il cammino – sia esso quello della vita o
quello più circoscritto della ricerca di conoscenza –, è quella di essere
a-metodico. La qualità a-metodica dice l’essenza di un metodo che si profila
nella forma di una continua morfogenesi di differenti approcci alla realtà,
senza che nessuna delle forme che via via assume venga a cristallizzarsi.
È a-metodico non solo perché non fornisce regole, ma anche perché il

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Alla rioeroa di un metodo 25

processo generativo da cui scaturisce non segue procedure formali predefi-


nite. Diversamente da quello positivistico non si viene strutturando attra-
verso un processo lineare e sequenziale, ma “salta fuori” imprevisto,
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germinato da un istante di lucidità, una lucidità differente da quella


guadagnata attraverso percorsi logicamente strutturati, una lucidità oltre
la coscienza e che questa inonda.

2.2. Entrare nella realtà


Dopo averci fornito elementi per capire cosa il metodo non è, Zambrano
enuncia il principio positivo del metodo: conoscere significa entrare nella
realtà (SA: 99), inoltrarsi nel fitto bosco della vita lasciandosi guidare
dall’anelito che spinge ad andare incontro alle cose. Dalla realtà noi siamo
circondati, ma fino a quando non la cerchiamo, noi siamo da essa
separati. Solo gli altri esseri viventi vivono sprofondati in essa, stanno
nell’aperto; noi l’accesso alla realtà dobbiamo guadagnarlo. Il metodo che
consente di entrare nella realtà è quello che rende possibile “un modo
pieno di vedere le circostanze” (B: 63).
Entrare nella realtà è essenziale per pervenire ad una verità capace di
rischiarare la vita, metterla in ordine. Una tale verità non può essere il
prodotto di un pensiero che ha rescisso il suo rapporto con le cose della
vita, non può essere il frutto di un pensiero puro che spogliato del corpo
cerca l’idea massimamente astratta, né di un pensiero che disdegna il suo
essere attratto dalle cose e cerca la verità ripiegandosi in se stesso.

La vita non può sopportare la ragione quando questa non s’è degnata di far
conto su di essa, quando non è discesa fino a essa e non ha saputo neppure
innamorarla per farla ascendere (CGL: 37).

Mancare di un contatto vivente con le cose significa privare la mente


del necessario nutrimento della realtà. È solo il contatto immediato con le
cose che feconda l’intuizione e che fornisce alla mente i criteri adeguati
per la valutazione dell’esperienza. L’atteggiamento cognitivo proprio di
una ragione fecondante è quello in cui ci si pone in relazione con la realtà
come se si fosse un ospite “che approfitta di ogni porta aperta sulle cose
4
per comprenderle e guardarle” nel loro offrirsi immediato alla coscienza .

4
Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 1997 (ed. or. Zur Idee des
Menschen (1913), in Gesammelte Werke, Bd. III, Francke, Bern 1972; Versuche einer Philosophie des
Lebens (1913), in ivi; Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928), in ivi, Bd. IX, 1975), p. 101.

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26 Un metodo a-metodioo

Stare col pensiero presso le cose è mossa essenziale non solo per il
conoscere, ma anche per l’essere. È fatica vivere senza che in un giorno
intero una goccia di piacere inondi l’anima; quando accade, e può
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accadere per più giorni, l’anima patisce e le viene a mancare il respiro.


Stare fra le cose, tenere la mente in contatto con il mondo nella sua
materialità, là dove c’è la sorgente della vita, portare lo sguardo sull’espe-
rienza che tiene fra gli altri nel mondo, aiuta a trovare quel filo di piacere
necessario a respirare, quello che consente il movimento dell’esserci.
Ma questa è la direzione contraria a quella presa dalla filosofia. Il
metodo concepito dalla tradizione filosofica poggia su un atto violento:
trarsi fuori dal mondo nel quale per nascita veniamo a trovarci e spostare
lo sguardo verso il mondo immateriale delle idee. Anziché di entrare nella
realtà chiede di “entrare nella ragione” (SA: 89). Ad interessare non sono le
cose concrete, la materia vivente, ma i prodotti interni della mente.
Proprio in quanto chiede alla mente di distrarsi dal mondo circostante
l’epistemologia classica si configura come negazione della condizione
5
umana, che non è solo essere nel mondo ma essere del mondo .
La decisione di strappare lo sguardo dal mondo concreto in cui per
nascita veniamo a trovarci si fonda sul principio ontologico secondo cui
l’apparire delle cose non è il loro essere, vale a dire che le cose mancano
di sostanza e di consistenza (NM: 105), proprio perché le cose passano noi
cessiamo di attribuire loro il privilegio di essere, ed esse diventano niente.
6
Da qui lo svanire della percezione della sacralità del tessuto della vita .
Delle cose ridotte a niente si può fare ciò che si vuole, e innanzitutto si
può pensare che possano essere sottoposte a un pensiero chiaro e distinto
che annulla ogni forma di opacità. Il pensiero della scienza, quello di
Cartesio – che sviluppa il pensare senza porre in discussione la cornice
ontologica della svalutazione del mondo sensibile operata a partire da
Parmenide – ha trasformato il reale, da qualcosa di multiplo, di ambiguo,

5
Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987 (ed. or. The Life of the Mind,
Harcourt Brace Jovanovich, New York 1978), p. 100.
6
Il pensiero antico coltivava la percezione della sacralità delle cose. Anche oggi ad uno
sguardo attento la natura continua a risvegliare la percezione di qualcosa di sacro, del suo
essere ricettacolo del divino, perché “i caratteri del sacro sono i caratteri della realtà cosı̀
come la sentiamo spontaneamente” (NM: 107), ma tendiamo a negare questa percezione, e
la neghiamo perché stiamo immersi nella visione desacralizzata della scienza, che ci
rappresenta le cose come niente e che proprio in quanto niente possono essere manipolate.
Legittimare, invece, la percezione del sacro significa ammettere che esiste nella cosa non
solo un valore, che è il valore dell’essere, ma qualcosa di irriducibile al pensiero, qualcosa
che sta nel non disvelabile, nel mistero, e questo riconoscimento costringerebbe il pensare a
riapprendere una umiltà che abbiamo pericolosamente smarrito.

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Alla rioeroa di un metodo 27

di opaco, destinato a trascendere le capacità di comprensione della


ragione umana per quella scintilla di divino che le cose si portano
appresso, in un ammasso di materia manipolabile dal pensiero.
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Altro è, invece, il realismo femminile, il suo amore per la realtà. Per
Zambrano, infatti, il cui pensiero può essere definito spiritualmente mate-
rialistico, le cose del mondo sono enti sfavillanti di essere. La conoscenza
vera, quella che sa illuminare la vita, non può non essere cercata se non
stando in relazione con le cose. Fare dell’immediato, di ciò che viene alla
presenza interpellandoci direttamente, il vero punto di partenza per la
ricerca del sapere diventa, quindi, il principio primo della ragione mater-
7
na .
In sintonia con l’amore per la realtà proprio di Zambrano, Arendt ci
ricorda che “Nulla forse è più sorprendente, in questo nostro mondo, della
verità pressoché infinita delle sue apparenze, del puro valore spettacolare
8
delle sue vedute, dei suoni, degli odori” . Ad essere problematico è che
proprio questo mondo, nella sua materialità e molteplicità di enti uguali e
differenti allo stesso tempo, è stato trascurato dalla filosofia, che ha
creduto che la verità debba essere cercata altrove rispetto al mondo degli
enti concreti. Nella concezione platonica, a lungo persistente, il vero
filosofo è quello che prende commiato dal mondo dato ai sensi per
accedere ad una realtà immateriale in cui contemplare le idee, e da queste
idee, che non conoscono l’usura del tempo e il legame riduttivo con uno
spazio definito, attingere a quei criteri a partire dai quali, e solo da quelli,
disvelare la verità del mondo ordinario. La condizione umana è, invece,
9
quella per cui “noi siamo del mondo e non semplicemente in esso” , e dal
momento in cui viviamo in un mondo che appare è plausibile ritenere che
ciò che ha da essere considerato rilevante come oggetto del pensare
debbano essere le cose che appaiono, cioè i fenomeni.
Arendt critica radicalmente la filosofia platonica proprio per il suo
essersi allontanata dalle cose, dal mondo dei sensi e degli uomini, preten-
dendo di cancellare il fatto che “il mondo delle apparenze precede
qualsiasi regione il filosofo possa scegliere come propria vera dimora,
10
dimora nella quale tuttavia non è nato” . Ogni cosa che esiste nel mondo
c’è per essere percepita da qualcuno, per essere vista, udita, toccata,
gustata e odorata ed è su questo percepire che va a saldarsi il lavoro del

7
Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 34.
8
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 100.
9
Ivi, p. 103.
10
Ivi, p. 104.

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28 Un metodo a-metodioo

pensare. Dal momento che noi viviamo in un mondo di cose che ap-
paiono, ragionando in una cornice fenomenologica è plausibile ritenere
che proprio ciò che appare è degno della massima attenzione.
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Ad accomunare Zambrano e Arendt è quel realismo femminile che


prende le distanze da tutte le operazioni che comportano una perdita del
mondo e dà voce all’amore per le cose, al rispetto e alla considerazione
per la molteplicità degli enti. Ma differenti sono i percorsi seguiti per
andare oltre i limiti di quel metodo che, con gesto violento, ha perso il
mondo della vita, e mettere a fuoco questa differenza è fondamentale per
delineare con maggiore precisione l’originalità di Zambrano: Arendt sce-
glie il metodo classico della filosofia, che consiste nell’analisi concettuale
del problema; Zambrano sceglie la poesia e si affida ad un linguaggio che
dà voce al sentire.
Arendt ritiene che il problema da affrontare consista nel superare
l’antico dualismo che la metafisica ha stabilito fra essere e apparire e con
esso l’asimmetria assiologia che si porta appresso, ossia l’idea secondo la
quale ad avere valore è solo l’essere, cioè quel fondo che starebbe nascosto
sotto le apparenze. Per superare questa scissura su cui trova fondamento la
svalutazione del mondo della vita si tratterebbe di lavorare sui concetti:
conciliare essere e apparire arrivando ad affermare la coincidenza di
essere e apparire e sulla base di questa rivoluzione ontologica smantellare
l’assunzione che postula “la supremazia del fondo che non appare sulla
11
superficie che appare” , per affermare che il fenomeno ha valore ontolo-
gico perché è ciò in cui l’essenza delle cose si rivela, e dunque va investito
anche di valore epistemologico.
Zambrano, invece, una volta riconosciuto che il problema è rappre-
sentato dal disamore per il mondo e dall’inganno di cercare una verità
astratta incapace di far innamorare la vita, lavora non a smantellare
concetti e a ricostruire altre ontologie, ma a disegnare un differente modo
di essere, che consiste nell’entrare nel mondo con uno sguardo innamorato
delle cose. Zambrano suggerisce come fondativo del metodo di entrare
nella realtà quell’orientamento d’essere che consiste nel lasciare che la mente
si innamori delle cose sfavillanti di essere, perché solo dove c’è una ragione
capace di amore per le cose là c’è la possibilità di una conoscenza vera. La
tensione epistemica ha origine da un innamoramento per la realtà nella
sua contingenza, perché solo quando è innamorata la mente è capace di
stare completamente assorbita nel processo conoscitivo (A: 88). La ragione

11
Ivi, p. 105.

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Alla rioeroa di un metodo 29

vitale, perché attenta alla realtà, è possibile solo se la mente si lascia


prendere da uno sguardo innamorato delle cose:
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Riconoscere qualcosa come oggetto significa fermarsi di fronte a esso,


rimanerne affascinati, catturati, dargli credito, in un certo modo innamorar-
sene. Non ci potrebbe essere realtà consolidata in oggetto, con quella specie
di invulnerabilità trasparente che hanno gli oggetti, se non ci fosse una sorta
di amore verso la realtà (SA: 94).

Nessun oggetto di conoscenza potrebbe esistere senza che la mente sia


capace di un certo innamoramento.
In questa centralità dell’amore come motore della conoscenza echeg-
gia Agostino, il quale afferma che l’amore per qualcosa è atto primario e
fondativo della conoscenza, non solo perché l’interesse per una cosa
precede l’attenzione che è postura cognitiva essenziale a provocare la
ricerca della conoscenza, ma anche nel senso che l’intensificazione della
pienezza di significato dipende dall’intensificazione della disposizione
12
amorosa verso la cosa . Solo quando si attiva un amoroso sguardo si apre
la possibilità di trovare le parole con le quali le cose, gli altri, vorrebbero
dirsi.
Zambrano mutua da Agostino l’idea secondo la quale lasciare germi-
nare nella mente un’amorosa disposizione verso le cose è necessario per la
ricerca della verità, perché solo l’amore salva le cose dall’ipertrofia del
soggetto conoscente. L’amore non distrugge mai l’oggetto, ma ad esso si
accosta con discrezione e lo salvaguarda, a differenza del desiderio che,
invece, mira a possedere l’oggetto fino ad annullarlo. Per Agostino “amore
13
non è altro che inclinare verso una cosa, considerandola di per se stessa”
e nella relazione d’amore la caratteristica della cosa è quella di non essere
posseduta.

L’oggetto dell’amore differisce dall’oggetto del desiderio per essere qualcosa


che il possesso non distrugge. Perciò l’amore è capace di distruggere tutto
fino a giungere ad esso, fino a ciò che mai potrà essere distrutto. Il desiderio
si dirige invece verso qualcosa che a rigore non si può chiamare oggetto,
perché non continua ad esistere dopo che è stato raggiunto. Viene total-
mente consumato: non ha trascendenza (CGL: 119-120).

12
Max Scheler, Amore e conoscenza, in L. Pesante, Scheler. Amore e conoscenza, Liviana,
Padova 1967 (in Gesammelte Werke, vol. VI), pp. 71-72.
13
Agostino, De div quaest, 83, qu, 35 1, cit. in Hannah Arendt, Il concetto d’amore in
Agostino, SE, Milano 1992 (ed. or. Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen
interpretation, Julius Sprinter, Berlin 1929), p. 23.

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30 Un metodo a-metodioo

È l’amore per le cose che genera rispetto per esse e, insieme, quell’u-
miltà necessaria ad attivare le mosse giuste del pensare. E quando si pensa
con rispetto e umiltà è come se le cose si aprissero al nostro sguardo.
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Come nella filosofia cristiana solo gli occhi di quelli che amano vedono la
14
verità , cosı̀ in Zambrano solo chi è capace di amorosa partecipazione
agli enti è capace di entrare nella realtà, che è la condizione per una
conoscenza vera.
Zambrano, dunque, riattiva la relazione tra amore e conoscenza
inaugurata da Platone, ma allo stesso tempo la rivisita in modo originale,
perché se in Platone l’amore era rivolto alle idee, enti immateriali, per
Zambrano l’amore si dirige verso le cose, quelle concrete del mondo che
15
abitiamo . Ed è dall’amore per le cose che si genera il metodo; è l’amore
che quando entra in gioco decide la direzione della conoscenza (CB: 17).
Per Zambrano l’amore è il sentire generativo della vita, che si dà nella
forma di una “morbida accoglienza” (CB: 25), quella che rende la mente
ricettiva rispetto alla realtà che viene alla presenza. Il metodo a-metodico,
che prende forma al di fuori di logiche predefinite, viene a costituire un

14
Max Scheler, Amore e conoscenza, cit., p. 55.
15
Si può ipotizzare che nella sua visione dell’amore come fonte della conoscenza abbia
giocato un ruolo significativo il pensiero di Scheler, il quale al rapporto fra amore e
conoscenza ha dedicato, oltre che riflessioni sparse, uno scritto specifico (Max Scheler,
Amore e conoscenza, cit.). In tale scritto Scheler più volte porta l’attenzione sull’aspetto
intellettualistico dell’amore platonico che, a differenza dell’amore cristiano che è sempre
rivolto a persone, ha per oggetto quelle cose immateriali che sono le idee. Scheler, per
disarticolare il pregiudizio moderno sulle emozioni, prende in considerazione il pensiero di
Pascal e di Spinoza, ma in particolare approfondisce la posizione di Agostino, che
considera l’amore l’originario movente dell’atto conoscitivo, e occorre sottolineare che
Agostino è uno degli autori più studiati da Zambrano. All’inizio di tale scritto Scheler,
dopo aver richiamato brevemente le due opposte concezioni della relazione fra amore e
conoscenza – l’una secondo la quale non c’è conoscenza se non c’è amore e l’altra che
concepisce l’amore come conseguente la conoscenza – assume una posizione critica nei
confronti del pregiudizio, che egli considera tipicamente moderno, secondo il quale l’amore
oscura la mente anziché acuire le capacità conoscitive, da cui ne consegue che la ricerca
della verità richiederebbe “la più rigorosa repressione degli atti emozionali” (ivi, pp. 22-23).
Per Scheler, invece, l’“emozione amorosa” è all’origine dell’atto cognitivo. Quando la
conoscenza è accompagnata dall’emozione amorosa si esprime nell’affermazione del valore
dell’oggetto, della cosa indagata o dell’essere altro cui la mente si rivolge. È interessante che
Scheler porti l’attenzione sulla possibilità di concepire l’amore come forza creatrice,
concezione questa diversa da quella platonica che concepisce l’amore componente di quel
conoscere che è essenzialmente reminiscenza (ivi, p. 45). Anche per Zambrano l’amore
genera conoscenza, ed è questa la prospettiva che lei sviluppa in modo originale, dando
voce all’idea secondo la quale è l’innamorarsi delle cose la condizione per accedere ad un
sapere vitale.

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Alla rioeroa di un metodo 31

centro della mente; ma quando nel processo generativo entra in gioco la


disposizione amorosa verso gli enti allora diventa anche centro dell’essere.
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2.3. Essere fedele alle cose


Una volta guadagnato l’amore per il mondo, il principio metodico fonda-
mentale da applicare consiste nell’“essere fedeli alle cose” (fieles a las cosas),
cioè prestare attenzione al modo, ma anche alle varie gradazioni, in cui le
cose si rivelano e poi trovare quelle precise parole che fedelmente dicano il
manifestarsi delle cose, parole fedeli perché è come se ad esse le cose
nominate dessero il loro assenso (B: 82). Se si assume che la casa
dell’essere è il linguaggio allora il conoscere fedele alla cosa è quello che si
attualizza in un linguaggio che della cosa nomina fedelmente la sua
essenza, cioè quel dire che adeguatamente dice la cosa “secondo il suo
essere e persino secondo la sua musica, la sua tonalità e il suo modo” (A:
137). Il principio di fedeltà alla realtà chiede di trovare “un’elementare
lealtà verso le cose quali si presentano nel loro apparire, nel loro fainome-
non” (B: 84). Concedere alle cose di disegnare nelle nostre parole i loro
profili, limpidamente e fedelmente.
Per guadagnare questo accesso al reale è necessario rendere la mente
trasparente, quella trasparenza “che permette l’oggettività” (CGL: 126). Il
pensare fedele alla cosa è come l’aria castigliana, che nella sua limpidezza
attraversata da una luce morbida e acquosa consente alle cose di tratteg-
giare i loro profili nella sostanza trasparente e liquida della mente.
Il modo di conoscere ispirato al principio di fedeltà è quello che si
adatta al profilo della cosa/dell’altro come il guanto si adatta alla mano,
consentendo alla cosa/all’altro di apparire intensamente nel suo essere
proprio. L’unicità di ciascuna persona è la fonte del suo valore ontologi-
16
co , allora proprio perché il pensare fedele è mosso dal principio del
rispetto per il valore unico e singolare dell’altro si rivela essere un pensare
dalla tonalità etica. Adattare il conoscere al profilo con cui gli enti si
rivelano significa mettere l’oggetto della conoscenza al riparo dalla ten-
denza del soggetto a vincerlo sottoponendolo alle condizioni della ragione.
Solo cosı̀, rispetto al soggetto invadente della ragione cartesiana, è possi-
bile riscattare la realtà.
Attivare il principio di fedeltà significa “lavorare <su misura> cer-

16
Roberta De Monticelli, L’allegria della mente, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 37.

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32 Un metodo a-metodioo

cando di seguire i contorni natali delle cose”17. È questo lavorare su


misura delle cose che la mente occidentale ha perso, perché costringe le
cose ad un apparire che è su misura dei nostri dispositivi epistemici.
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“L’uomo ha perduto da tempo incommensurabile la plasticità” (NM: 47),


quella dell’animale, che quando occorre sa prendere la forma della roccia
su cui si adaggia e del ramo su cui si appoggia. Riconquistare questa
plasticità della mente che si adatta al profilo dell’altro è questione di una
“laboriosa educazione” (NM: 47), attraverso la quale si dovrebbe appren-
dere una precisa tecnica: saper girare intorno all’oggetto della conoscenza.
Per dare forma ad un pensare fedele alla realtà, le cose bisogna come
vederle da ogni lato, e ciò richiede di girare ad esse intorno. “Girare
intorno a qualcosa è un movimento sacro” (B: 84) perché è quel modo
dello sguardo che manifesta rispetto per le cose. Girare loro intorno
significa fare di esse il centro del pensare, “poiché è naturale che girando
intorno a qualcosa si faccia di esso nel suo insieme un centro” (B: 63). Le
cose diventano cosı̀ non semplici strumenti di affermazione delle retoriche
linguistiche e delle tecniche epistemiche, ma quel centro cui il soggetto
dedica il suo pensare.
Il pensare che gira intorno è quasi una forma di corteggiamento
opposta all’esercizio del dominio, che invece caratterizza l’epistemologia
della modernità, che concepisce la scienza come esercizio di potere sulle
cose. Nella concezione baconiana la natura doveva essere soggiogata e
dominata. Nella epistemologia classica della conoscenza, fondamental-
mente baconiana, il soggetto sta fermo e manipola l’oggetto. Nel girare
intorno, invece, è il soggetto che si muove avendo rispetto di lasciare la
cosa, l’altro, al suo posto.
Nella mossa cognitiva del girare intorno è evidente la rivisitazione del
metodo d’indagine enunciato da Ortega, il quale parla di un approssimarsi
all’oggetto “per giri concentrici, di raggio ogni volta più corto ed intenso,
trascorrendo, in spirale, da una pura esteriorità di aspetto astratto, freddo
18
e indifferente, verso un centro di pregnante intimità” , e dunque di un
indagare che è un girare attorno lentamente. Ma il filosofo intende questo
girare intorno non come uno stare decentrati rispetto all’oggetto che in
una certa misura spossessa il soggetto della sua centralità, ma secondo una
19
metafora bellica, come un “assedio ideologico” . Il girare intorno di

17
Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 97.
18
Ortega y Gasset, Che cos’è filosofia?, Marietti, Genova 1994 (ed. or. Qué es filosofı́a,
Revista de Occidente en Alianza Editorial, Madrid 1991), p. 4.
19
Ivi, p. 5.

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Alla rioeroa di un metodo 33

Zambrano è, invece, un approssimarsi con delicatezza all’oggetto, dove si


mantiene sempre un certa distanza da esso. Se quello di Ortega è un
girare intorno che gradualmente si sposta verso il centro fino a catturare
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l’oggetto, il girare intorno di Zambrano è un muoversi sempre sulla


circonferenza esterna, quella che pur consentendo la prossimità all’oggetto
mantiene sempre la distanza necessaria a salvaguardare la trascendenza
dell’altro. Tenersi sulla circonferenza esterna evita l’incursione violenta
verso il centro; è una forma di corteggiamento di cui è capace la mente
innamorata delle cose.
E del girare intorno ci sarebbe un numero sacro di giri da rispettare
(B: 84), ossia quel numero finito che indica le volte necessarie e sufficienti
dell’accostarsi alla cosa. Rispetto a quella indagine superficiale che si
accontenta di accostarsi una sola volta all’oggetto d’indagine, il girare
intorno richiede un ritornare sulla cosa, ma l’idea che di questo ritornare
ci sia un numero sacro, ossia un numero finito di giri, salva dall’ossessione
che si rischia di avere nel cercare. Salva dall’ossessione dei ritorni interpre-
tativi, come se un incremento della quantità delle azioni epistemiche si
traducesse in un incremento della qualità. Il numero sacro indica la giusta
misura dell’agire e in esso si condenserebbe l’essenza del sapere dell’espe-
rienza.
Il principio di fedeltà alle cose richiede, dunque, un atteggiamento del
pensiero che è opposto a quello caratteristico della ‘cultura del sospetto’ di
matrice cartesiana, caratterizzato dalla sua diffidenza radicale rispetto a
ciò che si offre all’attenzione. È opposto perché ha nei confronti del
fenomeno che appare lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti di ciò
20
che è ‘donato’ o ‘offerto’ . Alla cultura del sospetto e della diffidenza, che
mette in dubbio la capacità delle cose di guidare la mente verso una
conoscenza vera, il metodo di Zambrano sostituisce la cultura del rispetto
amoroso delle cose percepite nel loro valore. Applicare il principio di fedeltà
significa avere rispetto del modo originale, quello suo proprio, in cui l’altro
viene alla presenza. Anziché imporre una griglia epistemica che costringe
l’altro dentro i dispositivi della nostra mente, che lo incernierano dentro
un apparire predefinito, tanto che alla fine del percorso epistemico la
ragione non trova altro che se stessa, il principio di fedeltà chiede alla
mente di farsi accogliente, ossia ricettiva della realtà dell’altro.
Al metodo di Zambrano si adatta, dunque, come etica epistemologica

20
Per Zambrano un buon metodo è quello che lascia che le cose si offrano allo sguardo;
da parte sua Roberta De Monticelli rileva che pensare al fenomeno come a ciò che si dona
e che si offre è proprio della fenomenologia (L’allegria della mente, cit., p. 58).

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34 Un metodo a-metodioo

quella dell’accogliere la realtà, anziché del penetrare in essa. Il conoscere è


un movimento delicato, non violento; uno stare dove l’altro si vuole
mostrare, anziché un penetrare in esso. Ed è proprio qui nel principio di
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fedeltà e in questo atteggiamento di ammirazione nei confronti della realtà


cosı̀ come ci si svela che rintraccio una forte analogia con i tratti specifici
del metodo fenomenologico. Per questa ragione, nel discorso teso a
ricostruire la sua concezione del metodo, continui saranno i riferimenti sia
in direzione analogica che contrastiva con la fenomenologia.
Può sembrare epistemologicamente illegittimo cercare analogie col me-
todo fenomenologico, dal momento che Zambrano critica radicalmente la
fenomenologia considerandola la più estrema forma di positivismo (B: 9), a
ragione del fatto che col suo eccesso di ricerca del rigore e delle argomenta-
zioni chiare e distinte ha espulso le visioni dalla zona del pensiero. Tuttavia,
oltre a non disconoscere la sua formazione filosofica di tipo fenomenologico
21
alla scuola di Ortega y Gasset , occorre tener conto del fatto che quando
Zambrano parla del metodo indica in Cartesio e Husserl i due fondamentali
cercatori di metodo. Subito, però, critica il metodo cartesiano e non penso
sia casuale che, invece, non critichi Husserl. Anzi, in Verso un sapere dell’anima
riporta una parte consistente delle Meditazioni cartesiane per sottolineare quel
22
principio epistemico dell’“iniziare dall’assoluta povertà di conoscenze” che
sarà centrale nel suo concetto di metodo.
Occorre tener conto del fatto che Zambrano mostra di apprezzare
Husserl, in quanto ritiene egli abbia fatto suo “uno dei compiti più nobili
del pensiero”, ossia soffermarsi sui modi del pensiero “per trasformare la
complessità in un ordine chiaro” (SA: 183). La fenomenologia si fa guidare
dall’amore per la chiarezza e per la trasparenza del pensiero, che è la virtù
formale di ogni filosofia. Inoltre Zambrano parla di Husserl come di un
“esemplare e geniale pensatore ... in cui si uniscono felicemente le virtù di
ogni scopritore di nuovi continenti: umiltà e audacia” (SA: 185). Virtù che
lei incarna, mettendo insieme un discorso che appare non avere alcuna
pretesa di rivelare alcunché, ma con l’audacia di spingersi oltre le zone
confortevoli dei modi di pensare accreditati e di portare all’estremo, in
questo caso, ciò che già è audace nella fenomenologia, come il principio
epistemico del conoscere a partire da un’assoluta povertà di conoscenze.

21
Sergio Sevilla, La razón poética: mirada, melodı́a y metáfora. Marı́a Zambrano y la hermenéutica,
pp. 87-108, in Teresa Rocha Barco (Ed.), Marı́a Zambrano: la razón poética o la filosofı́a, Edito-
rial Tecnos, Madrid 1997, p. 87
22
Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1989 (ed. or. Cartesianische
Meditationen und Pariser Vorträge, Nijhoff, Den Haag 1950), p. 38.

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Alla rioeroa di un metodo 35

L’originalità di Zambrano consiste, infatti, nell’interpretare radicalmente


23
l’audacia del metodo fenomenologia .
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2.4. Pensare da un’assoluta semplicità


stare nella semplicità essenziale
Il metodo fenomenologico assume come principio dei principi quello
della “fedeltà al fenomeno”. Applicare questo principio significa descrivere
il fenomeno cosı̀ come esso appare. Presupposto fondamentale della
fenomenologia è, infatti, che ogni possibile oggetto della conoscenza “ha le
sue maniere di presentarsi ad uno sguardo capace di rappresentarlo, di
24
vederlo, coglierlo nell’originale, prima di ogni pensiero predicativo” .
L’atto cognitivo capace di affermare l’essenza in carne ed ossa è la
25
“visione d’essenza” o “visione originalmente offerente” . Posto che “ogni
visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza”, si
assume che “tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per cosı̀ dire
in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei
26
limiti in cui esso si dà” .
Il fenomeno non è qualcosa di incidentale, ma è l’essere che viene alla
presenza. È a partire da questa presupposizione ontologica che la fenome-
nologia è definita la scienza dei fenomeni, cioè di “ciò che appare”. La
fenomenologia si occupa, infatti, di ogni cosa che appare nella maniera
propria del suo apparire, nel come del suo manifestarsi. Heidegger definisce
la fenomenologia come “ποφα
νεσθαι τ φαινμενα”, cioè il “lasciar
vedere da se stesso ciò che si manifesta, cosı̀ come si manifesta da se
stesso”; la parola greca φαινμενον deriva dal verbo greco φα
νεσαι che

23
Che la fenomenologia abbia avuto una parte importante nella forma presa dal
pensiero di Zambrano è attestato dai frequenti riferimenti che nei suoi testi si trovano ai
tratti costitutivi del metodo fenomenologico. In I sogni e il tempo non solo discute sulla
opportunità o meno di applicare l’epochē a quel fenomeno inusuale che sono i sogni, ma
dimostra una competenza raffinata del metodo fenomenologico. Parla, infatti, del cercare
una via di accesso al fenomeno che sia “il meno imperativa possibile, deve lasciar vedere,
lasciar apparire”, principio metodico questo in cui echeggia il primo Heidegger. Inoltre
precisa che la natura del metodo fenomenologico non consiste nello spiegare, ma nel
decifrare (ST: 10) e proprio il descrivere è tratto identificativo della fenomenologia.
24
Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi,
Torino 1965 ([1913] Ideen zu einer reiner Phänomenologie und phänomenologische Philosophie,
(Husserliana III 1/2), Nijhoff, Den Haag 1976), p. 19.
25
Ivi, p. 19.
26
Ivi, pp. 50-51.

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36 Un metodo a-metodioo

27
significa manifestarsi; il φαινμενον è ciò che “si manifesta in se stesso” .
Consentire l’automanifestarsi dei fenomeni significa lasciare che i feno-
meni si disvelino alla coscienza e poi descriverli cosı̀ come essi appaiono
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nella loro originaria datità. Data l’assunzione secondo la quale ogni cosa
ha il suo modo di apparire e, dunque, un suo modo di manifestarsi alla
coscienza, l’essenza del metodo fenomenologico consiste nel cogliere que-
sta maniera di apparire e nel trovare un modo di descriverla che a questo
28
suo apparire sia fedele .
Pratica difficile, però, quella di rimanere fedeli alle cose. Difficile
innanzitutto perché tendiamo a farci inquinare dalla sfiducia che abbiamo
nel mondo, quella sfiducia nel modo che le cose hanno di far chiaro che ci
impedisce di aderire alla generosa immediatezza della vita.
E proprio perché non abbiamo fiducia tendiamo sempre a stare in un
mondo anticipato, nel senso che sempre esperiamo il mondo, sia esterno
che interno alla mente, attraverso filtri come sono le reti di categorie, i
costrutti linguistici, le assunzioni derivate dal senso comune, gli interessi
pratici, che rendono impossibile un accesso fedele alla datità della cosa.
Tale è l’ingombro dei vissuti della mente che un evento o una persona è
impossibile “siano accolti da un’anima pulita e priva di incrostazioni. Di
ombre, di ombre” (DD: 21).
Ad essere problematico è che quando si sta in un mondo anticipato
l’altro scompare, perché viene assimilato nei nostri schemi. E venendo
meno l’altro viene meno la stessa possibilità di conoscere, di pensare, e
dunque di essere. Non c’è realtà, non c’è essere quando si sta soli senza
l’altro, senza il quale non potremmo parlare. Senza l’altro non si è capaci
di pensiero vero e neppure si sente il proprio corpo. Il pensare senza l’altro
è un pensare allucinato.

Quale pratica epistemica allora è necessario cercare per trovare una


conoscenza fedele al profilo delle cose, per andare alle cose stesse (Hus-
serl), per entrare nella realtà e stare con le cose, con l’altro, “uscire con
l’altro” (NM: 73)?
27
Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 55 e pp. 47-48.
28
L’indirizzo più recente della fenomenologia francese ha accentuato questa attenzione
al donarsi degli enti, accreditando la donazione come determinazione originaria e costitu-
tiva di ogni fenomeno, cui corrisponderebbe come postura epistemica adeguata quella
dell’accogliere. Interpretando l’imperativo fenomenologico nei termini di un “lasciare
apparire l’apparenza” (Jean-Luc Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione
SEI, Torino 2001, – ed. or. Étant donné, PUF, Paris 1997 –, p. 3), al soggetto conoscente è
richiesto di attivare quell’atteggiamento passivo che consiste nel “lasciare l’apparizione
mostrarsi nella sua apparenza secondo il suo apparire” (ibid.).

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Alla rioeroa di un metodo 37

Per realizzare l’accesso diretto all’essenza dei fenomeni Husserl sugge-


risce la mossa epistemica dell’epochē: fare epochē significa sospendere la
validità delle conoscenze già definite e mettere in parentesi ogni assun-
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zione delle scienze obiettive, ogni presa di posizione critica intorno alla
29
verità, ogni idea di conoscenza obiettiva . Si fa epochē per trovare il punto
zero, cioè il punto del cominciamento originario dell’attività cognitiva. E il
cominciamento puro del conoscere si trova “mettendo fuori azione”,
30
“neutralizzando”, “mettendo in parentesi” ogni conoscenza alla mano ,
ogni criterio di validità operante non solo quando ci si affida al senso
comune, ma anche nell’esperire scientifico. Fare epochē significa impegnarsi
nella disciplina del disincrostare lo sguardo da tutti quei filtri che impedi-
scono l’accesso alle cose nella loro datità originaria. Svolgono la funzione
di filtro cognitivo sia le validità ingenue che quelle scientifiche, che
prestrutturano il modo di incontrare le cose.
L’epochē fenomenologica “vieta anche l’attuazione di qualsiasi giudizio,
31
di qualsiasi presa di posizione predicativa” nei confronti della realtà . Per
questa ragione l’epochē è definita il “principio senza presupposizioni”, non
però nel senso positivistico di “neutralizzazione di tutti i pregiudizi che
turbano la pura effettualità dell’indagine, né della costituzione di una
32
scienza libera da teorie” , ma nel senso della ricerca di un cominciamento
assoluto del conoscere in funzione del quale anche le conoscenze che fino
a quel momento sono risultate attendibili vengono messe in parentesi. Il
fare epochē dovrebbe consentire come un risvegliarsi al reale senza alcuna
immagine ingombrante, neppure di se stessi.
L’epochē cosı̀ formulata ha l’aspetto di una pratica cognitiva difficile da
33
applicare , perché chiedendo di interrompere l’atteggiamento naturale
costringe a stare in un paradosso, quello di considerare l’ovvio come
problematico ed enigmatico. Lo stesso Husserl non ha fornito precise
istruzioni sul modo di praticare l’epochē e dichiara di non sapere “come ci
si possa mettere nelle condizioni di compiere le operazioni metodiche che
ad essa ineriscono e che devono ancora venire chiarite nella loro stessa
34
generalità” . Tuttavia è convinto che l’impegnarsi nella disciplina men-

29
Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee, Milano: Il Saggiatore, Milano 1968 (ed.
or. Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Den Haag:
Nijhoff, 1954), p. 164
30
Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia, cit., p. 64.
31
Ivi, p. 66.
32
Ivi, p. 67.
33
Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 206.
34
Ivi, p. 176.

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38 Un metodo a-metodioo

tale richiesta da questa mossa epistemica costituisca per il ricercatore un


passaggio obbligato, inaggirabile, perché è solo il sapere sospendere l’at-
teggiamento naturale, per intraprendere il percorso epistemico a partire da
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una povertà di conoscenze, che consente alla mente di aprirsi alla datità
originaria del fenomeno.
È difficile attualizzare il metodo fenomenologico, perché l’epochē si
rivela una pratica di tipo ascetico, in quanto dovrebbe consentire alla
35
mente di ”iniziare in assoluta povertà di conoscenze” . Zambrano sembra
rimanere colpita da questo principio, che commenta definendolo un
36
“cammino stretto, aspro e luminoso di rinuncia mentale” (SA: 188) , ed è
proprio questo cammino stretto quello percorso da Zambrano, la cui
originalità consiste nel radicalizzare l’audace “lezione di rinuncia, di
ascetismo mentale” (SA: 187), che impone il voto di povertà in materia di
conoscenza, chiedendo che il metodo sia un non cercare, uno spossessare
la mente al punto da rendersi vuota cosı̀ che l’essere della cosa trovi in
essa dimora. Il metodo è, per lei, il cammino stretto dello svuotarsi, dello
spossessare l’io, del fare vuoto dentro di sé per fare posto al mondo.
Zambrano aveva definito Husserl come un pensatore audace, ma lei
stessa mostra un’audacia se non pari maggiore al filosofo, perché la sua

35
Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 38.
36
Che la pratica dell’epochē abbia un ruolo significativo nel pensiero di Zambrano è
testimoniato dai continui riferimenti a tale concetto che troviamo in Delirio e destino, dove
mostra di intendere l’epochē come strumento essenziale per vivere autenticamente. Vivere
pienamente significa “vivere il momento” (DD: 111) lasciandosi cadere nella lacuna del
presente. Affinché si verifichi questo entrare autenticamente nel tempo occorre saper
mettere tra parentesi tutto ciò che impedisce l’adesione immediata al presente, e questa è
proprio la funzione che Zambrano assegna all’epochē. Già in Scheler si trova un’interpreta-
zione analoga dell’epochē. Scheler, infatti, interpreta radicalmente la riduzione fenomenolo-
gica superando la sua funzione di strumento del lavoro logico-teoretico per concepirla
come pratica spirituale. L’epoche, l’atto cognitivo del mettere tra parentesi i saperi dati,
viene inteso da Scheler non come “un procedimento di pensiero, ma come una techne, ossia
(con) un procedimento di azione interiore” per opera del quale le procedure cognitive e i
relativi contenuti che sono all’opera nell’esercizio naturale vengono qui posti fuori gioco
(Scheler, cit. in Laura Boella, Il paesaggio interiore e le sue profondità, cit., p. 24). La riduzione
fenomenologica viene ad essere un atto ascetico di esclusione di tutto quanto in noi
impedisce l’accesso all’essenza delle cose; è una via negativa, che agisce disincrostando il
modo di andare incontro alle cose da ogni dispositivo interpretativo predato, cosı̀ che
l’attività della mente prenda la forma di un abbandono al manifestarsi delle cose (Ivi, p.
25). Epochizzare significa sospendere tutto ciò che ti impedisce di vivere qui ed ora (DD:
109). In particolare va segnalato il suo dichiarare che la principale cosa avuta da lei in
dono dalla filosofia, “quella che non avrebbe mai potuto ripagare, era che le aveva
insegnato a rifiutare, a mantenersi in sospeso” (DD: 24), a staccarsi dall’inessenziale, cosı̀
da guadagnare un’“intima povertà” e vivere adeguata ad essa.

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Alla rioeroa di un metodo 39

proposta consiste nel radicalizzare l’essenza ascetica del metodo fenome-


nologico, il suo cercare una purezza originaria come inizio del pensare, e
per disegnare l’essenza del metodo si spinge al di fuori dei percorsi
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tradizionali di concepire la conoscenza. Infatti, per definire la pratica della


ricerca della verità, compie il gesto audace che consiste nell’attingere alla
mistica. E la mistica insegna che l’anima deve diventare materia traspa-
37
rente, un “vaso vuoto” , diventare una lacuna d’essere che, proprio in
quanto mancante di ciò con cui ordinariamente tende a riempirsi, lascia
passare l’altro (SA: 22); ossia per trovare l’inizio primo del pensare occorre
trovare “la povertà di spirito, la purezza di cuore” (B: 13). Beati i poveri in
spirito, ossia beati coloro che sanno disfarsi di certezze e stare costante-
mente in cammino. Allora accettando di impoverirsi dei concetti su quali
si tende a fare affidamento e arrischiando il vuoto di certezze, la mente,
per accogliere il reale nella sua datità originaria, sarà libera di guadagnarsi
quella trasparenza che sola permette l’oggettività.
Questa ascesi, che è “rinuncia, voto di povertà”, non è cinismo, non è
rinuncia alla ricerca della conoscenza chiara “perché crede e spera sempre di
trovare la verità” (SA: 188).
Proprio perché attinge alla mistica, il voto di povertà di Zambrano è
radicalmente altro da quello formulato da Husserl: di mezzo c’è il suo
amore per la realtà per le cose realissime del mondo, e dunque anche per
le viscere dell’anima. Se la mente husserliana intende il partire da un’asso-
luta povertà di conoscenze come il liberarsi da ogni elemento strutturante
l’atteggiamento naturale, cosı̀ da venirsi a trovare a contatto solamente
con i contenuti della coscienza, contenuti “disfatti in un nulla che non si
oppone” alle acrobazie intellettualistiche del pensiero (SPPC: 33), liberi da
ogni contaminazione sensibile e da ogni inquinamento prodotto dall’a-
nima, per Zambrano, invece, il voto di povertà costituisce la via per
sbrogliare il pensiero da ogni ansia razionalistica cosı̀ da tenerlo sensibile
alla cosa e incarnato nei tessuti dell’anima.
Guadagnare la povertà di spirito non significa conquistare quel luogo
invulnerabile che consentirebbe di fondare una scienza rigorosa, incontro-
vertibile, ma semmai togliere di mezzo ogni desiderio abituale del pensiero
e arrischiare “lo spodestamento quasi totale del proprio essere” (SPPC:
37), per lasciare che la mente possa finalmente impregnarsi dell’essere
delle cose e lasciarsi toccare dall’indicibile dell’anima.

37
Edith Stein, La mistica della croce, Città Nuova, Roma 1991 (antologia a cura di
Waltraud Herbstrith) (ed. or. In der Kraft des Kreuzes, Herder, Freiburg im Breisgau 1980), p.
29.

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40 Un metodo a-metodioo

Stare nel luogo dell’inizio puro, nella semplicità essenziale, è stare


nella povertà di spirito e nella purezza di cuore, ossia spossessarsi non solo
delle conoscenze già acquisite, ma anche di ogni desiderio di produrre
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incrementi di sapere, compreso quello di attingere ad una scienza rigo-


rosa. Essere capaci di avere nulla e nulla desiderare, cosı̀ che non ci siano
resistenze ai movimenti dell’essere: solo cosı̀ si dischiude la possibilità di
attingere ad una verità trasformativa, quella che non si limita ad essere
contemplativa, ma penetra nei tessuti della mente provocando reali movi-
menti di trascendenza. Stare nella povertà, quella che ci fa mancanti di
tutto, è di fatto non mancare di nulla, perché è la condizione per respirare
l’essere.

entrare nella vita


Il voto di povertà è, però, per Zambrano, non solo via della cono-
scenza per entrare nella realtà, ma principio orientativo dell’essere, perché
stare nella povertà semplice è la condizione per entrare nella vita. Entrare
nella vita non è una questione epistemologica ma etica, intendendo per
etica la ricerca di un modo felice di muoversi nel tempo. Questa è la re-
sponsabilità che ci troviamo addosso al momento della nascita.
Per entrare nella vita non basta attraversare i giorni, è necessario
attivare un contatto con quanto ci circonda, aderire all’essere che fluisce
all’intorno. Affinché questa comunione con l’altro si realizzi occorre
acconsentire alla sete di trascendenza, ossia alla tensione all’ulteriore che
noi in quanto esseri mancanti inevitabilmente sentiamo per necessità di
realtà. Ma lasciarsi muovere dalla sete di trascendenza per entrare in
comunione con altro e condividere il tempo è un compito difficile perché
chiede di guadagnare un’intima semplicità, ossia quella povertà essenziale
che si realizza quando ci si spoglia di tutti gli involucri di essere che
impediscono di aderire ad altro.
Stare in povertà significa anche sottrarsi alla tendenza a definirsi, a
fissare il proprio divenire in un’immagine circoscritta: tenersi liberi da
ogni definizione, quelle che delimitano, che innalzano recinti al divenire
del possibile, perché fintanto che si rimane attaccati a qualcosa non si
entra nella vita. Quello che ci è richiesto è come di farci sottili, leggeri,
trovare una consistenza trasparente del proprio esserci, perché solo sgra-
vati del troppo pieno che tendiamo a portarci appresso possiamo condivi-
dere il tempo con altri, possiamo entrare in relazione con le cose,
38
possiamo sentire la vita .

38
Quello che Zambrano definisce “amore per la semplicità” (DD: 48) è principio
essenziale anche per l’agire politico, perché se agire politicamente è convivere con gli altri,

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Alla rioeroa di un metodo 41

Entrare nella vita è cosa necessaria, perché noi mancanti d’essere


abbiamo necessità della realtà, necessità di realizzarci. È da questa neces-
sità di essere, che si materializza in quell’anelito di muoversi felici nel
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tempo che ciascuno sente nella profondità dell’anima, che scaturisce una
sorta di misura che dà ordine all’agire. Questa “misura non generata”
(SA: 92) è concepita da Zambrano come un fondo incorruttibile che, per
quanto pieno di errori possa essere il cammino della vita, ci terrebbe
comunque sul sentiero della verità39. L’importante è imparare a stare in
ascolto di questa misura dell’esserci. E la condizione affinché l’anima stia
in ascolto di questa misura ontogenetica è che sappia stare in povertà di
spirito e purezza di cuore, ossia con una mente spoglia di ogni orpello e
un cuore capace di quel sentire positivo che solo predispone ad adden-
trarsi intensivamente nella vita.
È in questa prospettiva che l’epochē diventa disciplina essenziale dell’e-
sistenza. Fare epochē significa sospendere tutto quello che non ci consente
di vivere intensamente qui ed ora, di vivere interamente il presente. Vivere
una vita vera significa aderire interamente al presente, e affinché questo
modo di esserci possa prendere forma occorre saper mettere tra parentesi
tutto quello che impedisce un’adesione immediata alle cose. Per calarsi
nella lacuna del presente è necessario fare epochē dei molti rivestimenti del
tempo, dei vissuti costruiti attorno all’anima, cosı̀ da guadagnare un’in-
tima povertà. Quella povertà della vita della mente in cui c’è posto solo
per “l’ansia di verità e giustizia” (DD: 24).
L’epochē radicale di Husserl viene, dunque, radicalmente reinterpretata
da Zambrano come pratica del principio di povertà, quella povertà intima
che viene dal togliere via tutto l’inessenziale, cosı̀ che nell’anima risuoni la
“misura non generata”. Stare in povertà significa

Non pretendere che qualcosa ci copra di splendore, né apparire in un


determinato modo davanti a chicchessia, apprezzare solo il necessario senza
dargli importanza” (DD: 23).

affinché la convienza si realizzi è necessario essere animati dalla ricerca di un modo di


vivere semplice. Si può per questo affermare che in Zambrano è essenziale quella che si
può definire un’etica della semplicità (DD: 48).
39
Lo sguardo positivo che Zambrano nutre nei confronti della vita prende corpo in
intuizioni, come questa che ipotizza una misura non generata ed incorruttibile, rispetto alle
quali non è operazionalizzabile alcuna procedura logica atta a saggiarne il grado di
fondatezza; ad esse si può solo aderire o sospendere l’assenso sulla base di quell’atto
cognitivo che ha la forma dell’intuizione primaria.

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42 Un metodo a-metodioo

Questo imperativo non solo ci chiede di stare solo là dove è in gioco
l’irrinunciabile, ma anche senza attaccamento alcuno, perché anche l’irri-
nunciabile per noi, mancanti d’essere e dunque sempre distanti dalla
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verità, è qualcosa di sfuggente che sempre si ha da cercare. Il voto di


fedeltà, prima che alla cosa, al phainomenon, sarà dunque fedele al principio
di povertà, da intendersi come aver cura solo dell’irrinunciabile e con
giusta misura.

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3
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Nella semplice essenzialità

L’imperativo metodico è dunque quello di rendere l’anima trasparente per


pensare in povertà di spirito e purezza di cuore. Questo imperativo richiede che si
sviluppino due pratiche: disfare e stare passivi.

3.1 Disfare
fare vuoto
Per conoscere le cose occorre non entrare nella ragione, ma entrare
nella realtà, aderire all’essere delle cose. Come insegnano i mistici, si tratta
di rendere l’anima trasparente perché solo un’anima trasparente si dispone
a ricevere l’essere delle cose. La conoscenza vera richiede alla mente di
fare posto alla cosa nella sua datità originaria, salvaguardandola da ogni
assimilazione alle strutture performative dell’io. L’ospitalità della cosa nel
suo essere proprio si realizza nella misura in cui la mente si fa sostanza
liquida e trasparente, quella che sola si lascia attraversare dalla luce. Farsi
trasparente (CGL: 63) è l’imperativo della ragione vitale.
E per rendere l’anima trasparente, cosı̀ da fare posto alla realtà,
occorre spogliarsi di sé, svuotarsi. Fare vuoto significa disattivare i disposi-
tivi epistemici abituali: reti concettuali, cornici di teorie, grammatiche
procedurali, ma anche i propri attaccamenti; significa mettere fuori cir-
cuito non solo i saperi alla mano, ma anche i desideri e le aspettative di
cui è impregnata la vita cognitiva. È solo arrestando i nostri strumenti
cognitivi abituali e disattivando gli interessi ordinari che è possibile fare
posto a ciò che altrimenti “non avrebbe per noi esistenza piena, se non
fosse appunto per questo vuoto che produciamo annullandoci” (SA: 97).
Quando stiamo dentro il già definito si finisce col restringere la ricerca
della verità in una luminosità omogenea tale da ridurre gli esseri e le cose
solo a ciò che di loro si richiede per determinarle. Il conoscere che sta
recintato dentro saperi e logiche date, anziché accedere all’altro lo prede-
termina. Sottomettersi ad una prospettiva è dunque tutt’uno col perdere la

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44 Un metodo a-metodioo

realtà1. Quello che si ha da fare, invece, è rendere la mente materia


trasparente e liquida, quella che si adegua al profilo delle cose e le lascia
respirare nel loro essere più proprio.
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Una mente che sta in ascolto del reale può essere solo quella che fa
silenzio dentro di sé.
Questo rendere silenti i saperi già disponibili ha l’effetto di depoten-
ziare il sé epistemico; un lavorio faticoso ma essenziale per salvare gli enti,
perché solo quando lo spazio dell’incontro con l’altro non è occupato dal
troppo pieno del sé l’altro trova le condizioni per non essere assimilato nel
medesimo e, quindi, per mostrarsi nella sua differenza. Lavorare su di sé
per fare vuoto è, dunque, la mossa cognitiva essenziale per attuare il
cominciamento puro del processo d’indagine. “Amare la verità significa
2
tollerare il vuoto” .
È proprio facendo vuoto che si può trovare il puro inizio del pensiero.
Il metodo per entrare nella realtà richiede uno sforzo negativo, perché
chiede di disattivare i propri pensieri e rendere silenziosi gli abituali
strumenti epistemici. Essere attenti all’altro significa tenersi liberi dalla
presa dei dispositivi epistemici, concettuali e procedurali, abituali. Solo
facendo vuoto l’altro trova lo spazio per disvelarsi e l’anima può acco-
glierlo.
Senza questa pratica decostruttiva del fare vuoto l’oggetto non
avrebbe esistenza piena, né l’anima potrebbe innamorarsi di esso. Non c’è
possibilità di conoscenza autentica

senza spogliarsi o venire spogliati di tutto ciò che si ha indosso, senza


rimanere senza baldacchino, e perfino senza tetto, senza sentire la vita
intera come non la si è potuta sentire allorché si nacque per la prima volta;
senza protezione, senza appoggio, senza alcun punto di riferimento (CB:
48).

Solo quando la parola abituale tace e il sentire proprio dello stare


affaccendati nell’ordinario si dilegua, la mente vive quell’istante di luce
nascente in cui l’impenetrabilità dell’essere delle cose si scioglie consen-
tendo il venire alla presenza della loro essenza. Solo una mente vuota
assapora quell’istante di sovratemporalità in cui può bere la luce delle cose
sfavillanti d’essere.
Zambrano parla del “dono del vuoto” (CB: 70), per indicare quell’insi-

1
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, Adelphi, Milano 1985 (ed. or. Cahiers, I, Plon,
Paris 1970), p. 161.
2
Ivi, p. 53.

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Nella semplioe essenzialità 45

gnorirsi del volto del presente che si rende possibile solo quando la mente
conosce una pausa del troppo pieno di sé, dei suoi pensieri e dei suoi
sentimenti. È questa pausa a consentire di trovare il respiro della realtà; in
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questo sta l’essenza del dono del vuoto: rendere possibile alla mente di
lasciarsi assorbire dalla vita. Che la mente si eserciti nella disciplina del
fare vuoto è cosa necessaria perché “ci sono presenze che non possono
discendere laddove ne esistono altre” (FP: 111).
È evidente il contrasto con la concezione classica del metodo, che
chiede di acquisire conoscenze, sempre di più, fino ad ingolfare la mente.
Il metodo ascetico dello svuotarsi continuamente lavora a cercare la
trasparenza dell’anima. Sempre si cerca una conoscenza chiara, è questo
un obiettivo irrinunciabile anche per Zambrano, il cui pensiero non a caso
è ossessivamente impregnato da richiami alla luce. Già piccola amava
spingere lo sguardo nella “lontananza azzurrata”, per trattenersi a “bere la
luce, come fosse il migliore dei cibi” (DD: 20). Da filosofa concepisce il
conoscere come tessere fili luminosi, quel cercare una conoscenza chiara,
trasparente perché in essa l’essenza della cosa possa rilucere in modo
fedele. Ma questo è possibile solo lavorando su di sé, sullo strumento del
conoscere che è la mente, lavorare a renderla leggera, trasparente.
La necessità di fare vuoto per far posto all’altro non è, però, cosa di
cui si acquista immediamente la consapevolezza, ma è l’esito di una
pratica della disciplina della riflessione sulla vita della mente, la quale se
esperita radicalmente dovrebbe rendere coscienti del fatto che la mente
non solo possiede conoscenze, ma è anche da esse posseduta (NM: 38). E
fintanto che la mente resta prigioniera dei suoi pensieri non può farsi
materia trasparente.
L’effetto primario della riflessione sul proprio dire per cercare la
parola fedele alla cosa è di scoprirsi “ostacolo, scorza, resistenza”; è
proprio quando si avverte di proiettare la propria ombra su qualcosa che
si comprende la necessità di fare vuoto, di “ritrarsi perché ciò che vi è di
più prezioso possa comparire” (CB: 99).
Quello che intendo sottolineare è che le pratiche cognitive che defini-
scono il metodo cosı̀ come è concepito da Zambrano non sono regole che
possono essere apprese astrattamente, non sono insegnabili, ma sono modi
di essere che prendono forma attraverso la pratica, una pratica imbevuta
di riflessione agita alla luce dell’epistemologia mistica, in cui la mente si
pensa pensante e analizza i suoi vissuti in relazione al principio del
rendersi trasparente.
Quando si è acquisita la disciplina del fare vuoto può anche accadere
che il vuoto sorprenda la mente. Accade di fronte a domande impreviste

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46 Un metodo a-metodioo

che spiazzano ogni nostro sapere. Nulla è meno efficace dello sforzo di
uscire da questa situazione con la smania di riprendere possesso della
mente. Invece bisogna accettare di stare in questo vuoto, stare passivi a
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vivere l’istante di vuoto che si accende nella mente. “Bisogna sostenersi in


questo vuoto della mente” (NM: 114). Il valore del principio epistemico
dello stare vuoti è attestato dall’esperienza, quando si sa stare riflessiva-
3
mente attenti a ciò che accade .

spossessarsi
Fare vuoto significa attivare la pratica del disfare. Saper disfare è
essenziale per trovare quel sapere dell’anima che solo consente di rinascere
al mondo.
Si nasce non finiti non terminati, col compito di dare corpo e forma,
di dare figura all’esistenza. Dare figura all’esistenza significa nascere. Non
si nasce una sola volta e definitivamente, sempre si nasce, nel senso che
continuamente si è chiamati a ridare forma al proprio tempo. Come
afferma Arendt, noi, pur essendo mortali, siamo innanzitutto esseri natali,
nati cioè per incominciare, per dare inizio a mondi nuovi. Anche per
Zambrano nascere è concetto essenziale, quello che consente di mettere
ordine nel pensare che ha per oggetto la vita. “L’individuo, infatti, per
essere tale, ha bisogno di rinascere, di essere di nuovo generato” (CGL:
38-39). Se per Zambrano nascere significa elaborare il significato del
4
proprio esistere , allora interpretare la vita alla luce del concetto di natalità
significa rifare continuamente il lavoro di costruzione del significato dell’e-
sperienza.
Per rinascere alla vita occorre incessantemente attivare quello sforzo
negativo che consiste nel disfarsi di parti di sé, nello spogliarsi delle forme

3
Una studentessa impegnata in un laboratorio di pensiero ispirato al principio dell’atti-
vare la pratica della presenza mentale, che consiste nell’educare la mente a prestare
attenzione alla cognizione nel mentre del suo accadere, dopo essere stata più giorni
impegnata a praticare questa forma di autoindagine, si chiede se per intensificare la
presenza mentale sia proprio necessario attivare una logica di controllo: “Ma bisogna
guidare i nostri pensieri? ... Se teniamo sotto controllo i nostri pensieri non li opprimiamo
un po’? Sono forse privati della loro capacità creativa dal momento in cui sono posti sotto
controllo?” (dal suo diario di bordo). Questa riflessione è indizio del prevalere nella nostra
cultura di una concezione della cognizione efficace come di quel pensare che controlla i
flussi di pensiero e allo stesso tempo attesta come un’esperienza di pensiero (qual è quella
del laboratorio riflessivo) ispirata ad una logica differente consenta il germinare della consa-
pevolezza che esiste la possibilità di una diversa interpretazione della cognizione come
presenza distesa alla realtà.
4
Laura Boella, Cuori pensanti, Tre Lune, Mantova 1998, p. 76.

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Nella semplioe essenzialità 47

più logore del proprio essere, di quegli involucri di esistenza che si


accartocciano attorno all’anima. Perché solo dove qualcosa viene meno si
5
fa spazio a qualcosa di nuovo, ad un nuovo inizio .
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Disfare è fare da parte l’io per lasciare essere la cosa.


Farsi da parte significa spossessarsi. Lo spossessarsi, lo svuotarsi del
troppo pieno del sé, rende la mente “un po’ assente”, ma è proprio questa
assenza del sé la condizione per informarsi bene delle cose (DD: 29). La
ricerca della conoscenza fedele della cosa richiede uno spossessamento
radicale, un farsi da parte del sé. È un guardare alle cose in cui si
retrocede per vedere meglio.
La scienza moderna per indicare la qualità dell’atto cognitivo parla di
penetrare le cose per soggiogarle alla potenza del pensiero; Zambrano
indica, invece, come proprio del conoscere capace di accedere alle cose il
movimento del retrocedere, di farsi da parte. È il farsi da parte che
consente all’altro di venire alla presenza. Avere un metodo è lavorare alla
sottrazione di sé, “spogliarsi di ciò che si ritiene più certo” (NM: 104).
Questo farsi da parte del soggetto, lo “spogliarsi della sua afferma-
zione per permettere a ciò che gli sta intorno di mostrarsi” (B: 63), è allo
stesso tempo la precondizione per entrare nella realtà ma anche una
conseguenza dell’andare verso le cose, se per conoscere s’intende quel
guardare che assume le cose non come semplici strumenti per l’esercizio
dell’attività cognitiva, ma come il centro dell’essere cui occorre dedicare lo
sguardo. Quando il pensare è un dedicarsi alle cose che prende la forma
di un guardare che ad esse gira intorno, accade che il soggetto del
conoscere si trovi spiazzato rispetto alla percezione che tradizionalmente
ha di sé, come di colui cui le cose stanno d’intorno e il pensiero per
conoscerle deve penetrare in esse. Viene a trovarsi fuori luogo, decentrato,
ossia non più in quel centro circondato dalle circostanze. E l’essere
decentrato rispetto al centro delle cose è la postura epistemica da cui può
germinare la ragione vitale, la quale chiede che l’io si trovi semplicemente
enunciato come un dato da cui si parte, per entrare in quella realtà che è
la sua vita, dentro di essa (B: 63).

5
Ad aiutare a comprendere il senso della disciplina dello spossessamento come mossa
vitale perché necessaria a rinascere, all’Incipit vita nova, c’è la metafora della serpe, quel suo
gettare la pelle vecchia per cominciare un nuovo percorso. Accade, però, che la serpe in
certi casi si trascini sulla terra tenendosi la sua pelle, “E quando qualcosa di analogo accade
nell’essere che più si erge nella scala della vita – e che con la serpe tante analogie mantiene
– sarà senza il più piccolo anelito che gli valga da stimolo, senza il soccorso di quello
stimolo che proviene dalla pelle nuova” (B: 21). Senza spogliarsi del vecchio, senza
svuotarsi del troppo pieno del sé vissuto, non si trova quell’anelito necessario a realizzare
l’essenza della vita umana, che consiste nel saper rinascere a vita nuova.

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48 Un metodo a-metodioo

Lo spossessarsi del soggetto è, dunque, reso possibile anche dall’eserci-


zio di quel pensare che è un delicato dedicarsi a guardare con attenzione
le cose da ogni lato facendone il centro del pensare ammirato.
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disfare per rinascere


Lo spossessarsi, l’abbandonare ogni cosa di sé per rendersi vuoti, ha
tutta l’apparenza di un movimento contrario alla vita e contrario alla
ricerca della conoscenza. Abbandonare i paesaggi familiari per arrischiare
nuovi e inediti percorsi fa sentire di morire. E cosı̀ è di fatto. Ma il morire
ha un significato positivo perché consente di rinascere a vita nuova: “Solo
dà vita ciò che schiude il morire” (CB: 25). Si vive veramente quando
s’interpreta la vita come un nascere sempre di nuovo, e per nascere
occorre lasciar morire quelle parti di sé che fanno resistenza ad altro,
anche la nostra coscienza quando viene a costituire un involucro che non
lascia respirare la vita.
Proprio il lasciar morire parti del sé è cosa necessaria per iniziare
qualcosa di nuovo, per rinascere, perché l’impossibilità di vivere è tut-
t’uno, senza che noi ce ne rendiamo conto, con l’impossibilità di morire.
Disfare è morire, ma la morte è indispensabile al nascere, cosı̀ che la vita
si compia nel suo trascendersi. Zambrano parla dell’“innegabile aiuto della
morte alla nascita del pensare” (NM: 38). Il dio della conoscenza per
Zambrano è Dioniso, il dio della nascita sempre incompleta, interminabile
(CB: 46), quello attento che la vita sempre muoia per ritornare.
Solitamente s’immagina il lavoro del dar forma alla vita, costruendo di
essa i suoi significati, secondo la metafora dell’edificio: aggiungere mattone
su mattone per arrivare alla forma architettonica definitiva. Per Zambrano
il lavoro dell’esistere, o per dirla con Cesare Pavese il mestiere di vivere, è
come il lavoro di Penelope, fare forme e poi disfarle per rinascere a forme
nuove. Il nascere, dunque, non come atto compiuto ma come etica: l’etica
del nascere disfacendo le nascite già compiute.
La vita ha bisogno di un’etica che la guidi (CB: 48) e in questa etica il
principio del morire è fondamentale perché condizione necessaria al poter
rinascere, dando voce all’imperativo “incipit vita nova”. Zambrano parla di
un’“identificazione suprema, a stento concepibile” tra la vita e la morte,
nel senso che la morte non è fine ma principio, non è un uscire dalla vita,
ma “un addentrarsi in spazi più ampi” (CB: 48). In questa concettualizza-
zione del morire come pratica ontogenetica del rinascere si condensa il
sapere profondo che Zambrano ha della vita nelle sue più intime e
inaggirabili contraddizioni.

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Nella semplioe essenzialità 49

Morire per rinascere è movimento essenziale non solo sul piano


ontogenetico, ma anche su quello epistemologico, perché è la morte del sé
epistemico abituale “che fa nascere il pensiero e che a sua volta porta il
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soggetto all’autenticità” (NM: 38). Stare nella mancanza è essenziale al


pensiero, perché come insegna Platone nel Simposio la conoscenza ha
bisogno dell’amore e l’amore è figlio di Penia, cioè della mancanza, della
povertà, e di Poros, che fra i suoi significati ha anche quello di passaggio,
6
apertura . Ed è proprio lo stare nella mancanza, nel senso di accettarla,
7
che ci rende possibile l’apertura ad altro .
Spossessarsi del sé, lasciare morire parti del sé vissuto, è la condizione
necessaria per rendere la mente aperta al manifestarsi donativo dell’essere
dell’ente. Il trarsi fuori dal proprio sé ci consegna “per intero alla visione”
della cosa (B: 33). Per rinascere al reale si è dunque chiamati non solo a
disfare le nascite simboliche già vissute, ma anche a disfare il sapere già
saputo per trovare il cominciamento puro del pensiero.
A favorire il disfarsi delle forme simboliche cristallizzate e logore, in
cui si tende a rimanere imbozzolati impedendoci di respirare una vita
nuova, è quel lavoro su di sé la cui pratica è esemplificata nelle Confessioni
di Agostino. Leggere dentro se stessi per esporre la vita interiore alla luce
della coscienza ha l’effetto di depotenziare certe cornici simboliche e di
aprire gli spazi cognitivi ad altre visioni. Ciò accade, però, a condizione
che questa torsione autoanalitica risponda non ad un mero bisogno di
ripiegamento intimistico, ma al desiderio di trovare la verità. L’autoanalisi
ha senso quando è trasformativa, e per questo deve avere implicazioni
pratiche sull’esistenza. Ha implicazioni esistenziali quando lavora sulle
visioni della vita, sulle credenze che dal profondo dell’anima operano in
senso performativo sull’esperienza; ha implicazioni epistemiche quando
assume come oggetto gli strumenti abituali del conoscere.
Se il conoscere deve mirare ad attivare il movimento dell’entrare nella
realtà, allora da disfare è innanzitutto la logica abituale, quella che ci fa
stare in un pensare astratto. Zambrano suggerisce di prendere le distanze
dalla tendenza a far prevalere la mossa cognitiva della deduzione, cioè
l’affidarsi del pensiero ad un giudizio universale per giungere ad uno
singolare, quell’andare dall’astratto al concreto in cui proprio la singolare
unicità di ogni ente è destinata a perdersi. Si pensi al sillogismo che
predica “tutti gli uomini sono mortali – Socrate è uomo – dunque Socrate

6
Luisa Muraro, La maestra di Socrate, in Annarosa Buttarelli, Luisa Muraro e Liliana
Rampello, Duemilaeuna, Pratiche Editrice, Milano 2000, pp. 145-156, in part. pp. 151-153.
7
Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, p. 119.

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50 Un metodo a-metodioo

è mortale”; nel ragionamento sillogistico Socrate è messo fra i tanti, con la


conseguenza che si smarrisce la percezione dell’unicità esemplare del suo
morire. Il pensare che si affida alla logica classica non sa stare al concreto
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vivente, come se il singolo ente non si sostenesse da solo davanti al pensare


(CB: 45). Assimilare le cose dentro un pensare generale significa perdere di
vista la loro singolarità essenziale: perdere il reale. Per trovare la realtà
occorre disattivare tutti quei modi epistemici che ci confinano entro un
mondo anticipato e fare ritrovare alla mente la condizione dello stare
8
esposta al reale .

La conoscenza vera implica che si rinasca. Rinascere è risvegliarsi, ma


si tratta di un risveglio privilegiato, che è quel modo di tornare alla realtà
con la mente vuota, senza alcuna immagine né di se stessi né del reale. Il
risvegliarsi alla realtà senza immagini di essa, senza che il pensiero si trovi
recintato entro nominazioni già configurate, è un istante di esperienza
preziosa. Un istante, però, non di più. Dura un attimo questo risveglio,
ma quando accade lascia un’impronta indelebile perché fa esperire il
respirare “in una solitudine privilegiata sulle sponde della vita” (CB: 23).
Quando si vive l’esperienza della ricerca della conoscenza dell’altro cer-
cando quella autentica che, seguendo Zambrano, accade attraverso la

8
Rintraccio qui una profonda analogia con la pratica del “sillogismo in erba” proposta
da Gregory Bateson (Gregory Bateson, Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente,
Adelphi, Milano 1997 – ed. or. A Sacred Unity. Further Steps to an Ecology of Mind, Harper
Collins, New York 1991), il quale di fronte ai riduttivismi e alle semplificazioni innescate
dalla logica classica propone di attingere ad un differente modo di pensare per configurare
approcci logici più capaci di avvicinarsi alla complessità del mondo vivente. I sillogismi in
erba o “affermazione del conseguente” (del tipo: L’erba è mortale/Gli uomini sono
mortali/Gli uomini sono erba) costituirebbero lo strumento cognitivo più adeguato per
comprendere le tessiture ontologiche del mondo della vita. La logica poetica del sillogismo
in erba non può essere utilizzata per nessuna dimostrazione cosı̀ come è richiesta dalla
logica canonica, ma più di questa può avvicinare alla logica con cui funziona il mondo
vivente. Chi si occupa di investigare non solo il mondo vivente ma anche il mondo umano
stando nell’orizzonte epistemologico aperto dal paradigma ecologico, che impone di
cercare altri sguardi oltre a quelli autorizzati dalla logica materialistica e meccanicistica, ha
esperienza di quanto il mondo circostante della vita spesso si sottragga alla logica classica,
alle sue ferree leggi argomentative, e richieda di azzardare altri ed imprevisti modi
d’indagine, altre sintassi. Come quella della poesia; Bateson, infatti definisce il sillogismo in
erba un modo di pensare proprio del poeta (ivi, p. 370). A questo sillogismo Bateson dà
anche il nome di metafora e considera la metafora non solo uno dei mezzi del poeta, ma lo
strumento che meglio di altri consente di comprendere il mondo vivente (ivi, p. 371). La
poesia, dunque, non è più concepita come territorio di procedure alogiche, inutili per la
pratica della ricerca di una conoscenza vera, ma diventa serbatoio di altre logiche più
adatte di quelle canoniche per la comprensione del mondo umano.

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Nella semplioe essenzialità 51

pratica del disfare, succede di esperire questo istante di esperienza viva della
realtà dell’altro. Ed è vero: dura un attimo, ma questo attimo può bastare
per salvare l’incontro, ossia per lasciare che l’altro respiri secondo il suo
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ritmo.
Non si respira quando si sta dentro la densità spessa dei pensieri
abituali e del sentire già vissuto (CB: 27-28). Stare dentro il cerchio delle
proprie rappresentazioni e nello spazio già tonalizzato del proprio sentire
significa asfissiare (è questo un termine frequentemente usato da Zam-
brano) il pensiero, togliere ad esso aria; fare vuoto, spossessarsi, morire al
già dato significa aprirsi per “respirare la vita” (CB: 26).
Il metodo del disfare è quello di un pensiero che lavora continuamente
a liberarsi del troppo pieno del sé, per rendere accessibile, nella misura
possibile alla ragione umana, la condizione della povertà di spirito. Stare
in un mondo anticipato impedisce l’accesso alla realtà, nascere al reale
vuol dire disfarsi di tutto quanto ci impedisce di aderire con pienezza al
divenire delle cose del mondo. Significa dunque disfare i pensieri già
pensati, ma anche rendere fragile ogni epistemologia e ogni visione della
vita cui nel tempo abbiamo affidato la nostra trascendenza. Perché per
nascere alla realtà non basta liberarsi del sapere già saputo e con esso del
metodo abituale con cui lo si costruisce, ma di ogni misura del vivere e
con essa di ogni idea che informa l’esperienza e cosı̀ ricominciare a
cercare il metodo del nascere. “Ogni metodo è un Incipit vita nova” (CB: 15),
nel senso che ogni metodo è una nuova vita che inizia.
Disfarsi di sé, fare il vuoto è ciò che cerca il mistico. Per questo il
metodo di Zambrano è una pratica ascetica radicale, molto di più di
quanto non lo sia il metodo fenomenologico husserliano. Per la fenomeno-
logia si accede all’essenza del reale nella misura in cui si mette tra
parentesi il già saputo; per Zambrano mettere tra parentesi non basta,
occorre sapersi spogliare del già detto, dei pensieri già acquisti, farsi vuoti,
solo cosı̀ si rinasce a forma nuova. Incipit vita nova, ripete spesso Zambrano
per indicare che il lavoro del metodo è quello di disfare forme già
acquisite (disnascere) per germinare ad una nuova forma (rinascere).
A comprendere la pratica del disfare aiuta la metafora dell’esilio.
L’esiliato è colui che ha abbandonato i luoghi familiari e si trova a
percorrere il cammino in territori sconosciuti. L’essere in ricerca “è
quanto c’è di più simile ad un abbandono” (B: 88). E l’abbandono
dovrebbe essere totale, ossia lasciare tutto senza portarsi appresso nulla.
L’essenza della condizione dell’esiliato è il non avere un posto in cui
radicarsi: non avere un posto nel mondo, non essere nessuno. Cosı̀ è la
condizione della mente che applica la pratica del disfare: “fuggire da tutto

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52 Un metodo a-metodioo

ciò che è conosciuto, da tutto ciò che è stato, per ansia di nascere o
rinascere in un paese vergine, per andare, disfacendo la vita, incontro
all’altro” (DD: 73).
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Zambrano interpreta quel “tagliare i ponti” che è il disfare come uno


“strapparsi” da tutto ciò che si è ricevuto” (B: 88) cosı̀ da non avere un
9
nucleo di certezze su cui radicare il pensiero . Mettere in disuso ogni
teoria consolidata e ogni epistemologia collaudata. Smettere di pensare
cosı̀ come si pensa e adoperarsi per “mantenersi nel punto privo di
qualsiasi appoggio” (B: 36), mantenersi in sospeso. Quella in esilio da sé è
una mente che ha ridotto al minimo il suo bagaglio per stare nell’essen-
ziale, in ciò, e solo in quello, che è irrinunciabile per continuare il
cammino. “Essere soltanto ciò che non si può lasciare né perdere” (B: 36)
è il principio non solo epistemologico, ma anche etico, dello stare in una
povertà di spirito, ossia nella semplicità più radicale. Perché la semplicità è
la condizione che consente alla mente di accogliere la realtà e di esperire
una sorta di beatitudine, quella che viene dallo stare solo all’irrinunciabile.
Stare nella semplicità, perché “solo la semplicità può dar conto” (B:
13), nel senso di consentire l’accesso all’esperienza dell’altro. La semplicità
del portarsi appresso solo l’irrinunciabile non è privazione, ma intensifica-
zione dell’esperienza d’essere.
Siamo arrivati oggi ad essere massimamente complessi, armati di
tecniche e di ragioni tecniche, ma tutte le analisi raffinate rese possibili
dall’impiego dei vari dispositivi non fanno che tenere lontano la vita,
l’esperienza. Per entrare nella realtà occorre semplicità e questa si rag-
giunge attivando la pratica dello svuotamento, che consiste nel mettere
fuori uso tutti i nostri bagagli tecnicistici. Svuotarsi del troppo pieno di sé
è movimento essenziale alla vita, perché svuotarsi significa guadagnare in
presenza, cosı̀ che l’altro possa venire alla presenza in fedeltà a sé.
Una disciplina faticosa quella del disfare per stare nella semplicità più
radicale, ma che una volta che se ne è sperimentato il guadagno non cessa

9
Da sempre il conoscere che cerca la verità è concepito come un movimento possibile
attraverso la pratica del disfare di cui non si può tacere l’implicare una forma di violenza.
Il tagliare è violenza, c’è sempre qualcosa di duro, di forte quando si deve iniziare qualcosa
di nuovo. L’inizio si dà sempre nel dolore, come il nascere; non è un movimento idilliaco.
A cambiare è invece ‘la cosa’ di cui dobbiamo disfarci. Nell’epistemologia platonica è la
realtà materiale, che ingombrerebbe la mente di mere opinioni; nell’epistemologia carte-
siana sono le passioni che impedirebbero il conoscere oggettivo. Nella concezione di
Zambrano, invece, nella realtà si ha da entrare e si deve entrare tutti interi, anche col
proprio sentire; per lei da disfare è tutto ciò che ingombra la vita dell’anima; sono i
prodotti stessi dell’attività cognitiva ciò da cui occorre strapparci.

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Nella semplioe essenzialità 53

di far sentire la sua necessità. E il guadagno primo consiste nello speri-


mentare come il non possedere (tecniche, retoriche, concetti) si traduca
immediatamente nella libertà del non essere posseduti (dalle logiche dei
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saperi che tengono la cognizione recintata dentro ben delimitate aree di


praticabilità epistemica). Stare nel poco dà il guadagno del non essere
posseduti. Quindi la pratica del disfare è strettamente connessa con la
libertà; per essere libere/i occorre disfarsi da ciò che è rinunciabile cosı̀ da
10
stare solo nell’irrinunciabile .

la continuità del disfare


Occorre sottolineare che questo lavorare alla sottrazione di sé, a
spossessarsi di ogni strumento con cui abitualmente mettiamo in forma
l’esperienza, per rendere l’anima vuota, trasparente, e come tale capace di
accogliere l’essere della cosa, è una disciplina che non dovrebbe conoscere
soluzioni di continuità. Questa pratica ontogenetica dello spossessamento è
cosa che non si compie mai, ma continuamente chiede di essere messa in
atto. “Lunga è la via” (B: 19) per cercare il metodo, perché il fare vuoto è
movimento opposto a quello naturale, dal momento che la vita della
mente tende ad operare continui riempimenti.
Come l’esiliato continuamente ripete la sua partenza dal luogo d’ori-
gine, cosı̀ la mente che va in cerca di quella verità che è un dire fedele alla
cosa, all’esperienza, è un continuo sradicarsi dai luoghi simbolici acquisiti,
ossia un dismettere i propri saperi. È un procedere di sradicamento in
sradicamento cosı̀ da divenire poco, meno di meno. Solo in questa povertà
di sé si può realmente fare spazio all’esperienza dell’altro, che può essere
compresa proprio perché è stata accolta.
La “mente vuota” rappresenta dunque un’idea limite, cioè un’idea che
guida il processo di autoformazione epistemica senza che mai possa essere
realizzata pienamente. Anche la mente più disciplinata non può sfuggire
alla qualità del pensiero umano, che sempre è condizionato da qualcosa.
Zambrano sa l’impossibilità di attuare interamente questo stato cognitivo,
sa l’impossibilità del conoscere a partire da un vuoto di conoscenze, da
una mente vuota e limpida:

10
Questo amore per la libertà evidente in Zambrano lo è anche in altre donne; nella
Arendt che epistemologicamente mette in questione la tendenza a stare in un mondo
anticipato e politicamente considera la libertà la condizione stessa della politica, ma anche
nella Weil che molto lavora sul concetto di vuoto per aprire la mente al trascendente, e poi
nelle mistiche la cui scrittura è segno di un guadagno di libertà (Luisa Muraro, Il dio delle
donne, cit., p. 21).

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54 Un metodo a-metodioo

E se anche fosse possibile che, per qualche istante, nessun ricordo attraversi
la mente, ci sarebbe comunque un continuo riferimento al passato e sarebbe
impossibile che un evento, per quanto atteso, una persona, per quanto
infinitamente amata, siano accolti da un’anima pulita e priva di incrosta-
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zioni; di orme, di ombre (DD: 21).

Le ombre ingannevoli della caverna non si dileguano. Sempre la


mente è costretta a patire le sue incrostazioni simboliche. È un lavoro
sempre non terminato quello, al quale siamo chiamati, di disfare questi
vissuti incrostati sulla pelle delicata dell’anima. Ma dal momento che il
disfare sta in una relazione essenziale con la possibilità di un comincia-
mento nuovo, natale, del conoscere, tale pratica viene a costituire un
irrinunciabile esistenziale ed epistemico. Aspirare ad una mente limpida
dovrebbe essere la visione che guida il ricercatore, il suo sogno ossessivo.
Ma per non coltivare inutili illusioni, è necessario nutrire sempre questa
ricerca della consapevolezza dei limiti della cognizione umana, e dunque
dell’umiltà necessaria a cercare la giusta misura del nostro lavoro del
pensiero.
La pratica del disfare cosı̀ concepita richiede tempo, è un procedere
lento, piano. Nel tempo dell’accelerazione massima, dove il principio di
valore è l’efficienza, ed essere efficienti significa produrre conoscenza nel
minor tempo possibile, il ritmo lento del cercare la conoscenza a partire
da un lavoro su di sé risulta radicalmente atopico. Il tempo necessario al
germinare di un sapere dell’anima è un tempo dilatato. Di qui la difficoltà
di stare autenticamente e con continuità alla ricerca di questo sapere, e di
11
praticare il metodo della ragione materna disegnato da Zambrano .

11
Penso al mio lavoro di ricercatrice sul campo, quando sono impegnata a conoscere
l’esperienza dell’altro, o meglio il significato che egli/ella attribuisce alle sue esperienze. So,
per esperienza, che il metodo della ragione poetica, quello che procede a passi misurati e
lenti – perché nel bel mezzo della ricerca mi chiede di lavorare su di me per fare spazio
all’altro – è il metodo vero. Perché con la sua etica del lavorare a disfare mi consente di
fare quel vuoto che solo rende praticabile lo stare in prossimità dell’altro, solo cosı̀ si fa
spazio al dirsi della sua esperienza. Ed è questo metodo che vorrei informasse costante-
mente, senza cedimenti, la pratica del mio fare ricerca. Ma poi accade che il mondo della
ricerca mi chieda altri ritmi, mi chieda tempi che non sono quelli della ricerca vera. E a
questa richiesta di produrre saperi nei tempi canonici cerco di resistere, ma ci sono
situazioni in cui la resistenza viene meno, allora tradisco il metodo. Stare nel mondo
ordinario chiede continui tradimenti, perché il nostro agire e, dunque, il nostro pensare e
sentire si intreccia con quelli di altri, che si muovono secondo altre misure di verità; e in
questo intreccio di relazioni differenti, dove continue sono le negoziazioni richieste,
nessuno gode di quella sovranità sul proprio agire che consentirebbe di essere sempre
massimente fedeli alla propria misura.

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Nella semplioe essenzialità 55

3.2. stare passivi


rendere quieta la mente
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Il conoscere che si attua secondo il principio di fedeltà, è quello in cui


il soggetto epistemico crea le condizioni affinché l’altro acconsenta di
venire alla presenza. Lascia all’altro la decisione su come farsi conoscere.
Questo conoscere ispirato dal principio del rispetto, che interpreta l’atto
epistemico come un girare intorno all’altro quasi nella forma di un
corteggiamento, privilegia come postura essenziale l’attenzione, quello
sguardo sostenuto sulle cose che si profila “senza cedimenti alla divaga-
zione, audace, ostinato” (A: 31). Prestare attenzione significa dedicare
l’attività cognitiva a cogliere il manifestarsi delle cose sulla base di una
profonda fiducia nell’offrirsi della realtà in modo semplice ed evidente.
Dal punto di vista della concezione classica del metodo questo modo
di conoscere è considerato non capace di fornire le necessarie garanzie di
produrre dati attendibili, perché l’attenzione è un modo dell’indagine che
non interviene sulla cosa, non la manipola, come vorrebbe invece la
ragione dell’homo faber, quella che ritiene che conoscere sia un fare. La
ragione materna, invece, ha necessità di un procedere discreto che lascia
all’altro il modo e il tempo del rivelarsi in fedeltà a sé. Il conoscere
materno accoglie l’offrirsi dell’altro allo sguardo senza alcuna avidità,
perché intende la ricerca non come un andare a caccia, ma come un
raccogliere forme e figure secondo il rivelarsi della pienezza dell’essere. Lo
sguardo attento è analogo a quel raggio di luce che, anziché colpire
l’oggetto, su di esso si piega avvolgendolo, si fa quasi cavo come a
raccogliere il manifestarsi dell’altro, cosı̀ come la luce morbida dell’aurora
consente il delinearsi gradule dei contorni delle cose.
L’attenzione funziona come la clorofilla: capta nell’intorno indizi di
realtà trasformandoli in nutrimento per la vita della mente. Quando
l’attenzione si allenta, allora anche la realtà si dilegua, nel senso che ciò
che di essa rimane a noi presente non è l’essenziale. Non solo è causa di
perdita del senso di realtà, ma la mancanza di attenzione è all’origine
12
della nostra incapacità di vedere gli errori che si radicano nell’anima .
Invece un’attenzione intensa e continuata sulla vita della mente aiuta a
salvaguardarla dai troppi errori.
Ma qui sta il nodo critico del conoscere: la difficoltà a prestare
un’attenzione continuata. L’accesso alla verità, che passa attraverso un

12
Simone Weil, La prima radice, SE-Mondadori, Milano 1996 (ed. or. L’enracinement.
Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Paris 1949), p. 200.

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56 Un metodo a-metodioo

paziente e tenace girare intorno alle cose per vederle da ogni lato e
prospettiva, richiederebbe l’insonnia dell’attenzione; invece, questa è inevi-
tabilmente discontinua. L’attivarla con un adeguato livello di continuità
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non è una questione di dover essere, ma della presenza di amore per le


cose. È l’amore per la realtà che nutre e tiene desta l’attenzione.
Il guardare veramente, quel “guardare che è la vita”, è saper prestare
attenzione alle cose, “prestare attenzione a ciò che cambia, vedere il
cambiamento e vedere mentre ci muoviamo” (DD: 26). L’attenzione, cosı̀
come è concepita da Zambrano, è quindi arte epistemica raffinata, perché
è un movimento che si distende nel tempo, quel guardare le cose nel loro
accadere e nello stesso tempo guardare noi che ci muoviamo nel tempo
guardando le cose.
Un’interpretazione analoga dell’attenzione è quella fornita da Simone
Weil, che con le sue riflessioni ci aiuta a comprendere la direzione di passi-
vità ricettiva resa possible dall’attenzione non orientata. L’attenzione orientata è
quella aggrappata ad un problema, è un’interpretazione attiva che inter-
preta la ricerca della conoscenza secondo la concezione classica dell’impresa
scientifica, ossia come l’andare a caccia di un risultato. Questa dedizione
eccessiva ad ottenere qualcosa impedisce alla mente di vedere altro rispetto a
ciò che cerca. L’attenzione non orientata, nel suo tenersi libera dalla ten-
sione a cercare qualcosa di preciso, mantiene la mente aperta al reale. Se la
prima ardisce a penetrare nei fenomeni, la seconda tende ad indietreggiare,
13
poiché sa che “non si fa nulla se prima non si è indietreggiato” .
L’indietreggiare non va, però, inteso come un allontanarsi dalle cose,
dal luogo dove si può stare in presenza del reale, ma come un tenersi
indietro rispetto alla tendenza imperativa del sé. L’indietreggiamento si
attualizza, dunque, nel disattivare i propri attaccamenti e le proprie
aspettative. Disattivare le aspettative non significa non avere uno scopo,
perché tale condizione è umanamente impossibile, ma cambiare la dire-
zione dello scopo: dal mirare ad afferrare la realtà al lavorare su di sé
affinché qualcosa accada nella nostra profondità. È arrestando il proprio
14
io che “si diventa bilancia giusta” , ossia capaci di trovare l’ordine vero in
cui mettere le cose cui dedicare attenzione. È questa stretta connessione
fra attenzione e capacità di sopprimere il proprio io che fa dell’attenzione
l’espressione della virtù dell’umiltà, virtù essenziale non solo sul piano
15
etico, ma anche nell’ordine dell’intelligenza .

13
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 65.
14
Ivi, p. 116.
15
Ivi, p. 215.

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Nella semplioe essenzialità 57

Riabilitare l’attenzione come modo d’indagine significa dare voce alla


postura contemplativa propria della ragione umana, che è propensione a
prolungare lo sguardo sulle cose facendosi assorbire dal modo della loro
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presenza. Questa postura della mente è analoga al gesto di una mano che
si presenta aperta. Lo stare di fronte alla realtà “con occhi spalancati”,
16
quello in cui la mente per cogliere le cose si abbandona al loro apparire ,
non è un modo difettivo di stare nel mondo, ma è quella postura della
mente che, proprio perché libera dai limiti che impone la circospezione
della vita pratica, consente alla mente di essere adeguatamente responsiva
rispetto al manifestarsi dei fenomeni. È proprio dall’attenzione non orien-
tata, ossia dal guardare alle cose libero da ogni tensione, che inizia il
17
filosofare come εωρεν .
Difficile oggi dare voce alla disposizione contemplativa perché a
prevalere è una concezione ‘faber’, cioè attivistica e manipolatoria, della
ragione. È la ragione dell’uomo affannato nell’azione, sempre diretto a
qualcosa e mosso da qualcosa, agitato dalla frenesia e dalla diversione.
L’attenzione aperta all’altro, quella che è espressione dell’epistemologia
dell’accoglienza, richiede, invece, una postura passiva della mente, quella
in cui il soggetto lascia all’altro il modo e il tempo del suo venire alla
presenza. Perché l’attenzione vera non è un guardare intensamente come
a voler penetrare l’oggetto; l’attenzione eccessiva, quella che pretende di
entrare nelle cose interrompe “la comunicazione spontanea che si ali-
menta nella simpatia e che è comprensione senza analisi” (DD: 32).
Prestare attenzione è tenere la mente aperta ad accogliere l’altro.
Affinché sia apertura che accoglie fedelmente l’altro nel suo modo di
apparire, la cognizione è chiamata a sviluppare una postura passiva, quel-
18
l’essere “azione non-agente” che consiste nel disattivare ogni atto volon-

16
Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998 (ed. or. Einführung in die
Philosophie. In Edith Steins Werke, vol. XIII, Herder, Freiburg 1991), p. 37.
17
Un’attenzione intensa e continuata al reale, che ha la forma della concentrazione
esterna capace di cogliere i fatti e ad essi tenere legato il pensiero, è fondamentale anche
per la dimensione politica dell’esistenza, perché costringe il pensare a misurarsi con la
realtà. Alla radice del vuoto di pensiero, che arendtianamente sta in relazione con
l’indebolimento della riflessione etica, c’è una distrazione diffusa, quella che si fa humus di
un pensare superficiale segno che manca un’adeguata intelligenza sul reale. È il valore
politico, oltre che epistemico, della capacità di attenzione che rende ragione dell’appello di
Simone Weil (Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1999 – ed. or. Attente de Dieu, Librairie
Arthème Fayard, Paris 1969 –, p. 75) a considerare come compito primario dell’educa-
zione quello di promuovere la disciplina dell’attenzione. È nel tempo lungo che la
disciplina dell’attenzione svela i guadagni cognitivi che rende possibile, primo fra tutti la
coscienza dei limiti della ragione e quindi la necessità dell’umiltà (ivi, p. 78).
18
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 199.

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58 Un metodo a-metodioo

taristico, nel sospendere ogni tensione per lasciare la mente “disponibile


19
vuota e permeabile all’oggetto” . Al suo grado più elevato l’attenzione è
20
come la preghiera , perché come il pregare anche il prestare un’atten-
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zione intensa e intensiva al reale senza attaccamento alcuno è affidarsi,


affidarsi al dirsi delle cose, al manifestarsi dei fenomeni, al possibile venirci
incontro dell’altro. E l’affidarsi implica una disposizione passiva: “l’atten-
zione è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma uno sforzo
21
negativo” .
La mente passiva è quella che si consegna senza riserve alla verità che
cerca. Avere esperienza non è solo questione di azione – come la cultura
dell’homo faber fa credere – ma anche stare nella “passività del patire”
(NM: 35). Il problema dell’epistemologia occidentale è di non aver tenuto
in conto la passività. L’imperativo di Zambrano – se ci è concesso con lei
parlare di imperativi – è: “riscattare la passività risvegliandola” (B: 11).
La passività c’è già, è parte costitutiva del nostro essere. Nella condi-
zione umana convivono, infatti, gli opposti dell’attività e della passività,
quella passività che è patire la vita fino in fondo, patire l’istante che passa
goccia a goccia senza che nulla si possa fare (UD: 179). Questo nostro
trovarci passivi non è qualcosa che va eluso esasperando il dinamismo
dell’attività, soprattutto quella della ragione. Piuttosto va riscattato risco-
prendo le possibilità epistemiche implicite nello stare passivi.
Che la passività sia tratto costitutivo della concezione che Zambrano
ha del metodo è attestato in Chiari del bosco, dove nel breve paragrafo
intitolato “Metodo” si dice che avere un metodo significa stare nella luce e
per stare nella luce il cuore deve abbandonarsi. La luce che rende possibile
la conoscenza delle cose non è un irradiare abbagliante, ma un rischiarare
accogliente; e per arrivare ad abitare questo modo del conoscere non c’è
alcuna forza da esercitare, nessuna porta da abbattere. Il metodo si trova
“senza sforzo, senza protezione” (CB: 43). La conoscenza è possibile solo a
quanti si affidano alla “passività della comprensione” (CB: 15).
La passività è, dunque, distensione, ossia uno stato di rilassatezza della
mente.
In questa interpretazione passiva della postura epistemica risalta im-
mediata l’analogia con quello che si può definire il “principio di disten-
sione” di Scheler, che il filosofo elabora dialogando con il concetto di
conoscenza come abbandono passivo al mondo delle sensazioni di Berg-

19
Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 80.
20
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 120.
21
Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 80.

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Nella semplioe essenzialità 59

son. Secondo Scheler ci sono due modi di coltivare l’anima; la prima è la


via della tensione, che chiede di esercitare la capacità di estraniazione
cosciente dalle cose secondo la logica del controllo e del dominio; la
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seconda è la via della distensione, che si attualizza nell’attegiamento


rilassato22. Scheler concepiva l’essere in ricerca come il disporsi ad una
maniera non-orientata di guardare le cose, nutrita dalla disposizione della
non-resistenza. Proprio della fenomenologia è l’andare in cerca dell’intui-
zione di essenza in cui le cose si offrono nella loro datità originaria; ma
mentre in Husserl la mente si sottopone ad un controllo metodico del suo
procedere, in Scheler, per accedere alle cose, alla mente è richiesto di
essere capace di distensione, di disattivare qualsiasi atto volontaristico. Ad
animare il pensiero non può essere la volontà di dominio, che si esprime
nel determinare e fissare la realtà in modo univoco, ma dovrebbe essere
una forma di gratitudine che sa accogliere la pienezza dell’essere che si
23
disvela . È con questa interpretazione passiva della ricerca della cono-
scenza che Zambrano si sente in piena sintonia.
La distensione della mente non è un torpore dove i confini tra sé e le
cose svaniscono in un’atmosfera nebulosa in cui dilegua ogni possibilità di
conoscenza razionale; la distensione è espressione della più attiva tensione
spirituale, quella che consente “la più intensa concentrazione dello spirito
24
sulla pura quiddità e sull’essenza delle rappresentazioni” . Solo i tradizio-
nalisti, pervicacemente attaccati all’epistemologia della scienza moderna,
possono non cogliere le potenzialità dell’“ideale conoscitivo mistico” in
quanto esclude gli atti di prensione volontaristica sulle cose e coltiva in
modo passivo la mente25. È, invece, proprio la via mistica che interessa a
Zambrano, specificatamente i “mistici della nascita”, i quali insegnano che
per nascere e rinascere non occorre lotta ma distensione (CB: 25) e,
insieme, quello sforzo negativo che consiste nell’eliminare, cancellare ciò
che ingombra la mente.
A caratterizzare l’epistemologia della modernità è la logica della
prensione. Il metodo positivistico è quello che cerca di esercitare una
forma di controllo sulle cose: sulla natura, sugli altri, e anche sull’interio-
rità. Anche la filosofia ha sempre chiesto di soggiogare il pensiero (B: 86).
Invece la ragione materna chiede di disattivare la logica della prensione
per essere capaci di distensione, che è condizione essenziale dell’attuarsi

22
Max Scheler, Il valore della vita emotiva, cit., pp. 166-167.
23
Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 96.
24
Ivi, p. 99.
25
Ivi, p. 98.

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60 Un metodo a-metodioo

della conoscenza come amore per le cose. Perché la disposizione amorosa


autentica non si appropria dell’oggetto, ma è un quieto stare presso di
26
esso . Allentare la prensione sulle cose consente il dilatarsi degli spazi e il
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differenziarsi dei tempi del conoscere, con l’effetto non solo di consentire il
germinare del luogo dell’interiorità, ma anche il rendere la mente più
recettiva verso la realtà.

In sintonia con Zambrano, nel suo appello ad attivare una forma di


abbandono, ritroviamo Simone Weil, che preferisce concepire il pensare
come un dismettere la logica della prensione sulle cose nella convinzione
che sono gli atti cognitivi caratterizzati da una forma di rilassatezza, cioè
di non attaccamento al proprio io, che possono guidare alla comprensione
27
dell’altro . Nella distensione sciolta da ogni attaccamento la mente attua
quella condizione che facilita l’incontro autentico con l’altro, perché lascia
che l’altro venga alla presenza da sé, cioè in fedeltà alla sua figura e
secondo il suo ritmo. Essere nella distensione significa “lasciarsi ricondurre
28
a ciò che non è un volere” , cioè trattenersi dall’imporre le proprie
condizioni sull’altro. Al fine di raggiungere questa condizione di quietezza
della mente, che non appartiene al dominio della volontà, non occorre
mettersi insistentemente alla ricerca di tale condizione mentale, ma solo
desiderare che accada:

Desiderarlo veramente. Semplicemente desiderarlo, non tentare di realiz-


zarlo. Pensarci solamente. Perché ogni tentativo in questo senso è vano e si
paga caro. Nel fare questo, tutto ciò che chiamo ‘io’ deve essere passivo. Mi
29
è richiesta solo l’attenzione, quella attenzione cosı̀ piena che l’‘io’ sparisce .

Seguendo la logica della passività la distensione o quietezza della


mente non è qualcosa da cercare, è piuttosto una disposizione della mente
che si deve lasciare accadere; svuotare la mente significa acconsentire lo
svuotarsi del sé. “Non si deve fare nulla, soltanto restare in attesa”:
30
attendere che l’altro si presenti da sé . Affinché della realtà sia possibile
un’intuizione d’essenza il pensiero dev’essere ‘vuoto e in attesa’, vuoto di
ogni desiderio che anticipi l’oggetto e in attesa di quanto può venire alla

26
Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 42.
27
Simone Weil, (1988), Quaderni. Volume terzo, cit., p. 131.
28
Martin Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1989 (ed. or. Gelassenheit,
Günther Neske, Pfullingen 1959), p. 49.
29
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 79.
30
Martin Heidegger, L’abbandono, cit., p. 50

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Nella semplioe essenzialità 61

presenza. Quando il pensare si manifesta nella forma dell’attesa libera


dalla tensione di volere, accade che l’altro trovi le condizioni per disvelarsi
nel suo profilo originario. Saper attendere è il tratto distintivo del pensare
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fenomenologico. Restare in attesa non è aspettare, perché l’aspettare si


prefigura già qualcosa, ossia “si pone già nell’ambito di un rappresentare e
31
del suo rappresentato” ; nell’attesa, invece, la mente si dispone a ricevere
ciò che, imprevisto, viene alla presenza. Il restare in attesa è un orienta-
mento a vuoto, un’attenzione passivamente non orientata, ed è proprio in
questa apertura senza rappresentarsi nulla che all’altro è lasciato il modo
di rivelare-sé-da-sé.
Quando sa stare in un’attesa passiva, libera da ogni desiderio di
32
prensione, significa che la mente è capace di disattivare la volontà , ossia
di “volere non volere”. È la mistica ad insegnare che la volontà buona è
non averla (DD: 32). Non è semplice comprendere il significato di questo
imperativo epistemico, perché implica un paradosso. Volere che non ci sia
volontà non è una battaglia contro se stessi, ma al contrario è quella
condizione di quietezza mentale in cui si lascia che ogni tensione abituale
verso qualcosa si sciolga e con fiducia si sta in attesa del disvelarsi
dell’altro. Sottolineo “con fiducia”, perché l’attesa del modo passivo di
stare in ricerca non ha nulla a che fare con l’ansia di afferrare qualche
risultato; si nutre invece di fiducia, fiducia nell’apparire dell’essere. E la
fiducia sta in una relazione ricorsiva con l’amore per la realtà, con la
capacità di innamorarsi delle cose.
La passività è, dunque, un modo fondamentale dell’essere in ricerca.
Essere passivi non è un segno di minor grado di presenza, piuttosto indica
un modo più discreto di situarsi nella realtà, quello che chiede di ritrarsi
per lasciare che l’altro trovi il modo di rendersi presente in fedeltà alla sua
visione e secondo il suo proprio ritmo. Nell’approccio manageriale e
tecnicistico di concepire il fare ricerca, il ricercatore ha la responsabilità di
esercitare controllo sulla cosa, perché si fonda sul principio epistemico
secondo il quale la possibilità di guadagnare una conoscenza certa sarebbe
direttamente proporzionale al grado di controllo esercitato sui fenomeni.
Nel modo passivo di stare in ricerca la responsabilità che viene richiesta è
quella di non alimentare la propria tendenza ad esercitare forme di

31
Martin Heidegger, L’abbandono, cit., p. 55.
32
Edith Stein, Natura Persona Mistica, Città Nuova, Roma 1997 (testi originali in Edith
Steins Werke, vol. VI, Welt und Person, Editions Nauwelaerts – Herder, Louvain-Freiburg
1962), p. 146.

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62 Un metodo a-metodioo

prensione, perché si tratta di lasciar-essere l’altro nel suo modo proprio di


venire alla presenza33.
Questo stare passivi non è, dunque, un mero stare indifferente fra le
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cose, una forma di non essere, perché la passività cercata è attiva. È una
passività agente (ST: 15), in questo senso ha un carattere positivo. La
passività non è mancanza di presenza attiva nel mondo, ma è un modo
più discreto di interpretare tale presenza, che si profila come l’essere
massimanente ricettivi rispetto alla realtà dell’altro. È questa la condizione
necessaria per rendere operativa quella che si può definire epistemologia
dell’accoglienza, della “morbida accoglienza” (CB: 25).
Questa epistemologia è strettamente connessa all’idea che il conoscere
abbia a che fare con l’amore per le cose, con l’innamorarsi di esse, perché
l’amore non è possesso dell’altro ma accoglienza, e per accogliere l’altro la
mente deve diventare passiva.

sospendere il domandare
Stare nella passività significa disattivare la tendenza a fare domande,
ossia a cercare qualcosa di preciso:

Sospendere la domanda che crediamo costitutiva dell’umano. La funesta


domanda alla guida, alla presenza che si dilegua se la si incalza, alla propria
anima asfissiata dal domandare della coscienza insorgente, alla propria
mente cui non si lascia il tempo di concepire silenziosamente, oscuramente
anche (CB: 12).

Ci sarebbe un’asfissia del domandare che toglie respiro alla mente ed


espelle le cose dalla possibilità di disvelarsi in fedeltà a sé. Il metodo
autentico è quello del non cercare, quello che lascia la mente in attesa
silenziosa della verità. Perché per Zambrano la verità della vita non è un
oggetto inerte da conquistare, ma è una cosa vivente che ci viene incontro
chiedendo alla mente una disposizione ricettiva, che si traduce in acco-
glienza. Il fare troppe domande impedisce alla mente di respirare con le
cose. Cercare la verità è come cercare la luce chiara nel fitto del bosco,
ma il chiaro si rivela solo se non lo cerchi, solo se stai in attesa:

33
I frequenti riferimenti che in questa parte sono stati operati al pensiero di Heidegger
trovano legittimazione nel fatto che si può rintracciare una sensibile analogia fra la postura
quieta e distesa della ragione poetica di Zambrano e quella della ragione meditante di
Heidegger, perché la ragione meditante è quella che, come la ragione poetica, disattiva la
logica dell’imposizione di rappresentazioni precostituite che costringono il conoscere dentro
direzioni stabilite in anticipo e che costantemente si nutre della riflessione (Martin
Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1989 – ed. or. Gelassenheit, Günther Neske,
Pfullingen 1959 –, p. 37).

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Nella semplioe essenzialità 63

Non bisogna cercare. È la lezione immediata dei chiari del bosco: non
bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di
determinato, di prefigurato, di risaputo. E l’analogia del chiaro con il
tempio può sviare l’attenzione (CB: 11).
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Si esce dall’ombra del fitto dei rami e si entra nella radura chiara dove
le cose si rendono visibili quando ci si lascia guidare dai chiarori di luce
che attirano il nostro sguardo; ossia, il ricercatore esce dall’ombra dei
saperi predefiniti e perviene ad una conoscenza originaria delle cose,
quella non anticipata nel registro del nostro domandare, quando si fa
guidare dai modi di conoscere che le cose stesse suggeriscono. “Non
bisogna cercare (No hay que buscarlo) (...) Se non si cerca nulla l’offerta sarà
imprevedibile, illimitata” (CB: 11 e 12). Il pensiero che non cerca è un
pensiero passivo, in attesa. L’incapacità di entrare nella realtà è in
relazione con la tendenza del pensiero a concentrarsi affrettatamente su
qualcosa. È questo prendere una direzione anticipata che impedisce
l’accesso alle cose. L’errore sta nel voler cercare, perché “i beni più
34
preziosi non devono essere cercati, ma attesi” . La verità è qualcosa che si
deve intensamente desiderare senza permettersi di cercarla. L’essenziale è
qualcosa che non va conquistato, ma atteso e ricevuto.
Mettere in questione la tendenza a fare domande non significa negare
il valore dell’interrogare la realtà, perché da sempre è la via che apre il
pensiero. Il domandare, che ha la sua matrice generativa nel percepire
problemi nel reale, è l’aspetto più umano dell’uomo (UD: 30). Nonostante
questa consustanzialità del domandare con l’umano c’è, tuttavia, un
rischio di dismisura nella tensione a sollevare domande, e quando il porre
questioni viene ad essere nell’ordine dell’eccessivo allora, anziché aprire
squarci di luce, rischia di incrementare la percezione di problematicità del
reale al punto di sentirsi da essa sovrastati. Potrebbe allora il domandare
eccessivo provocare uno strappo nell’anima, senza che si siano verificati
quei guadagni di sapere che in certi casi possono rimarginare le ferite.
Ciò che Zambrano precisamente critica è quel sollevare domande cui
segue il cercare una risposta senza essersi posti in ascolto dell’essere delle
cose. È un domandare autoreferenziale, tutto centrato sul soggetto che
pone la domanda, da cui è espulso l’altro come possibile soggetto della
risposta. Quando si sta senza ascoltare il dirsi delle cose, queste appaiono
secondo la forma che il nostro pensiero ad esse ha assegnato; il silenzio
allora viene a cadere sulle cose che rimangono senza voce propria. Il

34
Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 81.

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64 Un metodo a-metodioo

principio di fedeltà chiede che la mente attivi quello sguardo capace di


acconsentire alla cosa a farsi presente; questo non accade quando il
pensiero è ostinatamente preso nel domandare che non lascia spazio
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all’ascoltare.
C’è, però, un interrogare impregnato di passività: è l’interpellare
l’altro che non prende forma in anticipo rispetto all’esperienza viva, ma
emerge dallo stare in ascolto. Non si ha da fissare la mente su una
domanda, ma tenere il pensiero sulla strada aperta dell’ascolto della
domanda che l’altro solleva. Il tratto caratterizzante di questo interpellare
passivo consiste nel lasciarsi interrogare dall’esperienza dell’altro; l’ascolto,
il farsi ricettivi, viene prima della domanda. Poi, quando la domanda è
stata formulata, subito si dovrebbe lasciare spazio al silenzio del sé, cosı̀ da
consentire di concepire silenziosamente la conoscenza. Il domandare che
ha origine nella postura passiva è quello che formula domande che “non
35
dipendono da niente che io ho e che io so” ed è in quanto tali che si
aprono all’altro e all’altro fanno posto.
E quando riusciamo a fare posto all’altro nella nostra mente, allora si
apre la dimensione della relazionalità che è costitutiva della condizione
umana. In questo senso la pratica cognitiva della passività, che ci fa stare
in ricerca senza domande, è pratica essenziale al conoscere perché epistemolo-
gicamente fedele all’essenza ontologica della condizione umana.

saper stare nel non sapere


È all’attenzione che si affida la mente impegnata nella ricerca di un
sapere vero; ma affinché a tale sapere sia possibile attingere sarebbe
necessaria una “insonnia dell’attenzione” (NM: 50), cosı̀ da mantenere
quella presenza continuata che sola ci consentirebbe di vedere le cose da
ogni lato. Occorre, invece, fare i conti con l’intermittenza dell’attenzione,
in conseguenza della quale è inevitabile che certe zone dell’essere riman-
gano nell’invisibile.
A fronte della consapevolezza dell’opacità del nostro essere allo
sguardo della coscienza, si vorrebbe pervenire ad una visione chiara e
distinta. Invece, ci sono zone destinate a rimanere oscure. Cercare la
chiarezza a tutti i costi significa semplicemente scantonare le tenebre
senza penetrarle. È quanto Zambrano rimprovera al metodo cartesiano,
ma anche a quello fenomenologico, perché accomunati dalla pretesa di
ottenere dalla coscienza la massima chiarezza renderebbero ancora più
pericolosa la vita umana (SA: 163).

35
Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 20.

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Nella semplioe essenzialità 65

Certo Husserl sa che la realtà mantiene zone di mistero. Il fenomeno


disvela l’essere, ma in esso non tutto l’essere si rivela. Per far fronte a
questa insuperabilità del mistero Husserl concepisce il principio di fedeltà
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come strutturato in due principi metodici: il principio di evidenza e il


principio di trascendenza. Posto che ogni cosa ha un modo specifico di
darsi a conoscere, nel senso che “ha le sue maniere di presentarsi ad uno
sguardo capace di rappresentarlo, di vederlo, coglierlo nell’originale,
36
prima di ogni pensiero predicativo” , applicare il principio di evidenza
37
significa descrivere la cosa “soltanto nei limiti in cui essa si dà” . Il
principio di evidenza chiede che si faccia ricerca soltanto nelle direzioni in
cui le cose ci invitano a farlo, senza oltrepassare il limite dello stato
38
fenomenico . Essere fedeli al modo di mostrarsi delle cose, ossia attenersi
al profilo che appare, è una forma di lealtà che è condizione per quella
possibilità di rigore che è requisito essenziale per l’accesso ad una cono-
scenza vera.
Ma se il profilo della cosa rivela la sua essenza, tuttavia non tutta
l’essenza si rivela. Nell’apparire l’essere non si rende completamente
trasparente al nostro sguardo, poiché ogni cosa ha un suo modo specifico
di trascendere l’apparenza. Dal momento che ogni ente ha il suo modo di
non apparire oltre che quello di apparire, o – come dice Zambrano – il
fenomeno è ciò in cui l’essere appare e allo stesso tempo l’apparenza lo
nasconde (ST: 9), allora per cercare una conoscenza vera occorre appli-
care anche il “principio di trascendenza”, che consiste nell’andare “oltre
ciò che di volta in volta è dato in senso vero e proprio, oltre ciò che è da
39
guardare e da cogliere direttamente” . Questo andare oltre l’evidenza, per
risalire a ciò che non appare immediatamente, sembrerebbe contraddire il
principio di fedeltà al fenomeno, ma questa contraddizione rischiosa non
si verificherebbe perché il profilo nascosto della cosa è suggerito da quello
apparente.
Mentre “il principio di evidenza” chiede di attenersi a ciò che appare,
“il principio di trascendenza” chiede di seguire il profilo nascosto del
fenomeno che appare nel modo suggerito dal profilo evidente. Impostare
la ricerca in modo che l’atto cognitivo sia fedele alla cosa da indagare
significa, dunque, lasciarsi guidare oltre le apparenze rimanendo, però,
fedeli al profilo apparente.

36
Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, cit., p. 19.
37
Ivi, pp. 50-51.
38
Edith Stein, Introduzione alla filosofia, cit., p. 46.
39
Edmund Husserl, L’idea della fenomenologia, Laterza, Roma-Bari 1992 (ed. or. Die Idee der
Phänomenologie, Husserliana, II, 1950), p. 64.

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66 Un metodo a-metodioo

Per ritenere epistemologicamente legittimo seguire il profilo nascosto


delle cose occorre presupporre che la ricerca di chiarezza, cosı̀ come è
concepita per le evidenze, valga anche per le zone nascoste. Cosı̀ non è
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per Zambrano, secondo la quale ci sono parti destinate a rimanere escluse


dai discorsi chiari e distinti, vi sono cose che non possono essere dette,

c’è l’ineffabile, quello che non trova parole né forma alcuna per essere
espresso, il segno degli eventi più profondi ed intimi, che si definiscono
<fondo dell’anima>. Per essi raramente si trova la parola e se la si trova è
attraverso il cammino dell’arte e della poesia (NM: 111).

Se di esse si vuol raggiungere qualche comprensione, e ciò avviene se


si sa cambiare l’ordine del discorso, occorre innanzitutto accettare questo
nostro essere destinati sempre ad una visione parziale e frammentata della
realtà. Accettare, non mai forzare, il mistero irrisolvibile delle cose.
Accettare di sentirsi nelle tenebre, senza quei chiarori di luce cui la mente
aspira. Accettare la ferita dell’essere, quel sentirsi nella “notte del senso”
che può anche togliere il respiro.
Capita di sentirsi opachi a se stessi e ciò che più persiste nella opacità
è il proprio sentire, e specificatamente il legame fra il sentire e i pensieri.
Si vorrebbe inondare questo nostro essere opaco di luce, quella che
impregna le cose facendole vivere. Prende come una frenesia, un’ansia
non tacitabile di conoscenze chiare e distinte, ma più insistiamo più
l’opacità si fa spessa e la luce appare sporgersi solo là fuori, senza
penetrare nell’anima. Da imparare è il saper accettare il nostro essere, solo
accettando l’impossibilità di divenire trasparenti al proprio sguardo può
accadere che improvvisamente qualche chiarore si apra. Secondo Zam-
brano noi europei abbiamo perso la capacità di vivere nell’insicurezza,
invece dobbiamo imparare a stare nella mancanza di sapere fino a che
non abbiamo elementi sufficienti per ritenere che siamo in presenza di
qualcosa di vero (SA: 162).

la radicalità dello stare passivi


L’originalità della proposta di Zambrano sta in questo concepire il
metodo come una continua sottrazione della presenza che domina le cose,
per attivare una presenza discreta, passiva, in cui la postura non è quella
di penetrare la realtà ma di rimanere recettivi e responsivi alla cosa nel
suo disvelarsi. E la radicalità dello stare passivi è tale che può definirsi
elevata al quadrato.
Il modo ordinario di concepire il metodo è quello attivo, progettante,
che investiga le cose secondo una procedura prestabilita. È la concezione

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Nella semplioe essenzialità 67

positivistica del metodo. Invece il metodo qui disegnato, quello che va in


cerca della verità dell’esperienza, chiede una postura radicalmente, o meglio
doppiamente, passiva, perché non solo avere un metodo significa imparare a non
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cercare la verità dell’essere delle cose: i chiarori nel bosco non hai da cercarli,
se li cerchi tutto diventa più opaco, ma neppure il metodo è cosa che si deve cercare,
affermazione questa accettabile se s’intende il cercare nel suo significato
ordinario come processo epistemico guidato da una precisa domanda. La
ricerca del metodo dev’essere una ricerca non mirata, una ricerca passiva
che si prefigura nella forma di un’attesa vigile dei segni che l’esperienza del
conoscere ci rimanda, cosı̀ che il cammino si apra da se stesso (NM: 44).
Quando si pensa alla ricerca, si pensa sempre ad un percorso prefigurato da
una domanda, e questa domanda implica già una direzione dello sguardo,
una direzione rettilinea. Andare alla ricerca di un metodo, seguendo le orme
discorsive di Zambrano che esplicitano l’imperativo del non cercare,
significa evitare ogni postura predeterminata, per stare nella dimensione
dell’aperto che ricettivamente ascolta i segni dell’esperienza.
Ogni movimento dell’essere, e dunque ogni movimento del pensare, è
guidato da un anelito, quello che ha la forma non del cercare qualcosa di
preciso, ma dello stare in attesa di trovare quello che è essenziale per essere.
Andare alla ricerca di un metodo senza cercarlo, nel senso di evitare di
cercare qualcosa di preciso, è dunque stare radicalmente nella passività
della postura ricettiva nei confronti dell’esperienza e, insieme, operare un
continuo impoverimento del sé in modo che la mente sia quanto più
possibile aperta a cogliere gli indizi del metodo che va disegnandosi. Solo
cosı̀ il metodo diventa quel cammino attraverso il quale l’essere umano può
trovare qualcosa di ciò che gli manca per essere (NM: 47).

accettare la vulnerabilità
Il metodo del disfare per stare nella passività, dove la mente diventa
fluido trasparente all’essere, è cosa difficile non solo da mettere in atto, ma
anche da sopportare perché rende vulnerabili. La pratica del fare vuoto,
del lavorare a continui spossessamenti, fa sentire vulnerabile, “ossia nudo
dinnanzi agli elementi che mostrano tutta la loro forza” (B: 33). E questo
autosentimento è difficile da sopportare perché ci fa sentire mancanti di
presenza, mancanti di esserci.
Allora accade che ci si faccia prendere dalla “tentazione dell’esistenza”
(B: 40), ossia di uscire dalla condizione di vulnerabilità facendo posto
all’io, che con le sue azioni viene a colonizzare lo spazio intorno. Ma
questa smania di azione per agire continui riempimenti di sé non è essere,
ma solo illusione di essere.

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68 Un metodo a-metodioo

La condizione umana è paradossale: nella sua essenza è mancanza


d’essere e lo stare autenticamente nella propria condizione non è lavorare
a continui riempimenti dell’anima, ma consiste nel salvaguardare tale
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mancanza tenendoci liberi da certe smanie di impossessarsi delle cose che


solo illusoriamente danno l’essere, mentre di fatto tolgono respiro. Il
desiderio di possesso, proprio nel suo annullare l’altro, rende impossibile lo
scambio relazionale spegnendo cosı̀ la generatività dell’essere-con-altri.
“La pienezza dell’essere può essere raggiunta solo in uno stato di totale
carenza o di continua sete” (B: 66).
Lavorare a continui riempimenti non fa essere perché nel pieno di sé
la cosa, l’altro, non trova spazio per il venire alla presenza nella sua
alterità; è costretto a dileguarsi. Se si accetta il presupposto ontologico che
concepisce l’essenza dell’essere umano in termini relazionali, nel senso che
l’esistente pur nella sua singolarità è sempre plurale, allora venendo a
mancare l’altro veniamo a mancare anche noi. Stare nella mancanza è
necessario per lasciare accadere l’essere, che nella sua essenza è condivi-
sione, vivere con altri.
Ma stare in mancanza d’altro è essenziale anche alla vita del pensiero,
perché è il sentirsi mancanti che nutre la passione per la ricerca della
conoscenza.
La vera perdita, dunque, non sta nell’essere vulnerabili, ma nel
lavorare a sottrarsi a tale condizione, perché viene meno la possibilità
dell’incontro con l’altro, che chiede a me il saper patire la situazione di
vulnerabilità conseguente allo spossessamento. È cosa necessaria saper
patire “scintille di vulnerabilità estrema”, perché senza il saper stare nella
propria vulnerabilità “l’immensità non appare” (B: 39), ossia non viene a
dischiudersi quello spazio intatto, senza confini, senza percorsi predefiniti,
in cui l’altro sente di poter venire alla presenza in fedeltà a sé, nella sua
unicità e differenza.
L’altro per disvelarsi e venire incontro ha bisogno di immensità,
intendendo per immensità non uno spazio largo, eccessivo, di fronte al
quale l’anima si spaura, ma è l’aperto mancante di confini, di decisioni
predate dove l’essere si troverebbe già vincolato entro forme definite. Il
trarsi da parte dell’io, quello spossessarsi di ogni pretesa di esistenza, che
solo è possibile quando si sa accettare l’estrema vulnerabilità, si traduce in
una germinazione di immensità.
A rendere possibile questo saper stare nella vulnerabilità estrema è il
sentimento della fiducia, fiducia che il morire a se stessi, il lasciarsi essere
senza figura, in un modo “a stento accennato” (B: 42) sia apertura alla
vita; fiducia che lo stare nudo di fronte al venire in presenza delle cose,

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Nella semplioe essenzialità 69

dell’altro, non sia perdita di presenza, ma apertura ad un modo più


intensivo di esserci, quel modo in cui la presenza si dà nell’assenza di sé.
Aver fiducia, dunque, è sentimento essenziale per respirare la vita.
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Ma per avere fiducia occorre a sua volta accettare la propria vulnera-


bilità. Il saper accettare fa diventare l’anima calma e quieta. Solo quando
si entra nella quiete si compie una trasformazione decisiva: “inizia una
vita nuova” (CB: 64). Il metodo, quindi, proprio perché inteso come
apertura al nuovo, richiede una trasformazione non solo del pensare ma
anche del sentire.

diventare metodo incarnato


Questo metodo che fa respirare aria nuova è possibile solo a chi
“confida nella passività della comprensione” (CB: 15). Confidare nella
passività significa accettare l’irrimediabile discontinuità del processo cono-
scitivo in cambio dell’immediatezza della conoscenza passiva.
Il metodo che noi conosciamo è quello cartesiano; per Cartesio il
metodo è puro esercizio della mente che, esercitando il dubbio metodico,
riuscirà a far acquisire conoscenze chiare e indubitabili. Col positivismo il
metodo diventerà poi una serie di dispositivi d’indagine, la cui attendibilità
è funzione del loro essere sottoposti a procedure di collaudo. Cosı̀ conce-
pito il metodo si prefigura nella forma di una tecnica sempre oggettual-
mente disponibile quando si voglia iniziare una ricerca. Un oggetto
cognitivo di cui disporre e poi da riporre nella cassetta degli attrezzi.
Ma un metodo cosı̀ inteso non è adeguato alle necessità di quella
ricerca che mira a guadagnare un’adeguata comprensione dell’esperienza,
che ha per oggetto la vita umana quella impegnata nella domanda
irrispondibile del “che fare”, o meglio che ha per oggetto quella pratica
che è guidata dall’intenzione di offrire esperienze capaci di alimentare
nell’anima dell’altro la passione del domandarsi “che fare?”. Un tale
oggetto sfugge ad ogni formalizzazione metodologica, si sottrae ad ogni
canonizzazione.
Occorre altro. Non solo occorre cercare un altro metodo, ma soprat-
tutto che si lavori a riconcettualizzare il significato stesso di metodo.
Passare dal concepire il metodo come qualcosa di cui si dispone (qualcosa
che si ha) al pensarlo come qualcosa che si incarna (qualcosa che si è).
Apprendere un metodo richiede che si lavori su noi stessi per diventare noi
stessi metodo. Non si tratta di incorporare strumenti epistemici oggettiva-
mente disponibili, ma di lavorare nella nostra interiorità. Ciò che importa
della conoscenza è quel processo di lavoro su di sé che accade prima che

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70 Un metodo a-metodioo

la conoscenza abbia inizio. Cercare un metodo, allora, non è costruire


strumenti, ma lavorare su di sé per rendersi capaci di cercare la verità
delle cose stando in attesa passiva dell’esperienza che ci viene incontro e
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consentirle cosı̀ di aprire radure sulle quali fermarsi a pensare.


Penso al metodo come τχνη το β
ου, la tecnica di dar forma etica ed
estetica alla propria vita. Il metodo come tecnica del dar forma al proprio
essere non è un dispositivo che semplicemente si apprende con l’investi-
mento delle sole capacità intellettuali; il metodo che allarga e apre il
tempo del camminare richiede un anelito: “l’anelito non di arrivare in
qualche luogo, ma di trovare ciò che all’uomo manca per essere, affinché
raggiunga la completezza” (NM: 47). Il metodo non è allora qualcosa di
cui si dispone, ma un evento profondo, un evento che accade nell’anima,
non soltanto nella mente, qualcosa cui partecipa tutto l’essere, dunque
anche il sentire. Il cuore, infatti, è chiamato a sostenere la mente nella
ricerca della verità.

Solo quando è concepito come pratica su di sé il metodo bagna la vita


di trasparenza. La formazione della mente per l’apprendimento di questo
metodo non può essere concepita dalla ragione tradizionale, ma richiede
che la ragione si faccia poetica. La ragione poetica è espressione di una
mente che non impone dispositivi epistemici sull’essere dell’altro, metabo-
lizzandolo entro procedure già date, ma lo accoglie nel rivelarsi suo
proprio secondo il suo intimo respiro. Il gesto dell’accoglienza dell’essere
dell’altro è possibile perché la ragione poetica si fa muovere dall’amore
per le cose e dal principio del rispetto.
Non si deve, però, pensare che il farsi muovere dal sentire comporti
una perdita di intelligenza sul reale, perché la ragione che si fa poesia non
per questo rinuncia alla razionalità, piuttosto agisce un modo differente di
intenderla. Non si tratta di rinunciare al logos mathēmatikos, ma di trovare
quel linguaggio in cui numero e parola convergono in modo da riuscire a
tradurre simbolicamente il ritmo vitale delle cose, il respiro intimo dell’al-
tro.
Non sarà scienza il prodotto della ragione poetica, né pretende di
diventarlo (A: 36), poiché l’esito cui aspira è quella virtù sapienziale che si
configura come sapere dell’anima.

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4
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Il metodo della ragione poetica

4.1. Stare col pensiero fra le cose


Dove attingere per apprendere quel modo d’essere che consenta alla
mente di entrare nella realtà lasciandosi innamorare delle cose e ad esse
rimanere fedele cosı̀ da dar voce all’essere delle cose nello stesso modo in
cui esse vorrebbero dirsi? Per Zambrano maestra di questo modo di essere
1
non può essere la filosofia, ma la poesia .

La poesia nasce, come la conoscenza, dall’ammirazione, e non dalla violenza.


Coloro che furono presi da ammirazione per le cose – per le <apparenze> –
e che non vollero staccarsi da esse per andare a caccia delle essenze occulte,
furono poeti (CGL: 123)2.

Zambrano vede nella filosofia un pensiero che da subito si è allonta-


nato dalla vita, “un genere di sguardo che ha ormai cessato di vedere le
cose” (FP: 31). È quello sguardo che ha origine nella caverna platonica;
qui si racconta l’origine della filosofia, che inizia da un gesto di violenza
con cui la mente recide il rapporto col mondo delle cose che sono

1
Zambrano attribuisce ad Heidegger il merito di aver auspicato un ritorno al pensiero
poetico e sostiene che se l’attenzione alla poesia ha preso corpo in un’epoca permeata dal
pensiero calcolante ciò è dovuto alla fama di cui godeva il filosofo che ha pronunciato
questo auspicio, perché “le situazioni, per essenziali che siano, devono essere sostenute,
appurate, da un protagonista che si presenti con caratteri di credibilità” (B: 53). Ma la sua
preferenza per la poesia come luogo generativo di un pensare vero trova origine nel
pensiero di Miguel De Unamuno, il quale nel libro El sentimiento trágico de la vida mette in
questione una certa filosofia, quella intesa come ricerca di una conoscenza razionale e
oggettiva anziché coltivarla come ricerca di una luce sulla vita (SPPC: 76). Un’anima che
senta non fame di conoscenza, ma sete di vita non può non attingere alla poesia.
2
Zambrano usa qui il termine apparenze ma poi precisa che l’apparenza non esiste,
esistono le cose; c’è bisogno di usare questa parola perché di fronte a coloro che le sdegnano
una certa filosofia si è adoperata per riabilitarle; ma “nessuno vede o ama le apparenze”
(CGL: 123).

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72 Un metodo a-metodioo

dappresso, e con una torsione radicale si protende verso altri luoghi che
non siano quelli del divenire, dove le cose dal nulla vengono e al nulla
ritornano. Il filosofo platonico è quello che prende commiato dal mondo
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dato ai sensi per accedere ad un mondo di sostanza differente in cui


sarebbe possibile contemplare la verità.
La filosofia platonica, infatti, intende il pensare come un replicare il
gesto di Parmenide, che si lasciò trasportare in alto, al di là delle porte
della notte e del giorno, per intraprendere quel cammino divino del
pensare che è estraneo al sentiero ordinario della mente umana, poiché la
conduce verso la verità profonda del sapere che ha per oggetto le cose che
3
sempre sono . Il suo è un brusco distanziarsi dai fenomeni che si offrono
per stanare ciò che non si dà, in quanto la realtà vera sarebbe quella che
non ci fa dono della sua presenza. “E qui inizia l’affannoso cammino, lo
sforzo metodico per catturare qualcosa che non abbiamo e di cui siamo
talmente bisognosi da strapparci da ciò che abbiamo senza averlo cercato”
(FP: 32).
L’epistemologia platonica dell’ascensione alpinistica disegnata nel mito
della caverna chiede al filosofo di interrompere bruscamente la relazione
col mondo materiale per attingere al mondo imperituro delle idee; e da
queste idee, che non conoscono l’usura del tempo e il legame riduttivo con
uno spazio, attingere quei criteri a partire dai quali, e solo da quelli,
sarebbe possibile disvelare la verità. In questa ricerca di un pensare
apollineo la parola è presa dall’ossessione di spogliarsi della dimensione
del sensibile, del suo essere respiro della materia vivente, ma cosı̀ si separa
dalla “melodia dell’indicibile” (SPPC: 32) che il pensiero sperimenta
quando sta radicato nel reale. E mentre il pensiero si esercita nella
costruzione di un discorso generale ed astratto accade che la vita rimanga
senza luce, senza voce. Perché il pensiero che si forma dopo aver reciso il
legame con le zone più profonde dell’anima umana non ha l’energia
necessaria per rischiarare l’esperienza, produce sistemi di idee che occu-
pano spazio e assorbono energia invece di generare pensieri che la mente
4
respirerebbe .

3
Parmenide, Poema sulla natura. Framm. 1, tr. it. Biblioteca Universale Rizzoli RCS,
Milano 1999, pp. 147-149.
4
Va precisato che non tutta la filosofia è oggetto di critica radicale da parte di
Zambrano. Se prende le distanze dalla filosofia platonica e aristotelica manifesta, invece, la
sua ammirazione per quella filosofia che, senza lasciarsi irretire nelle ambizioni di un
pensiero sistematico e che cerca il rigore a costo della rilevanza, si occupa delle questioni
della vita per offrirsi come pensiero medicinale. Perché la ragion d’essere della filosofia
sarebbe quella di coltivare pensieri che aiutano l’essere umano ad affrontare la sua
condizione costitutivamente problematica. Punto luminoso di questo modo del filosofare è,

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Il metodo della ragione poetioa 73

Il metodo cartesiano non fa che sviluppare l’essenza violenta dell’epi-


stemologia platonica della distrazione dal mondo materiale, poiché “in
obbedienza ad un oscuro mandato” (A: 28) chiede di tacitare i sensi e
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lavorare nell’isolamento con la propria mente, o meglio con i simboli


algebrici e geometrici che la mente elabora. L’epistemologia che si ispira
alla filosofia cartesiana si fonda sul presupposto che la conoscenza scaturi-
sca da una ragione purificata da ogni emozione, “incapace di patire ...
separata e libera dalle proprie viscere” (CGL: 71). L’annichilimento del
sentire, e con esso la perdita della vita ricettiva, è concepito essere la
condizione necessaria per l’accesso ad una conoscenza oggettiva.
Ma la ragione che rinuncia ai sensi non può che provocare nella
cognizione un vuoto di realtà. Un vuoto che non viene affatto colmato
dalla matematizzazione del reale, soprattutto quando questa si profila
ermetica ed inaccessibile. Soggetta ad una ragione geometrizzante e
desensibilizzata, la natura non è più physis, ossia materia vivente, cosa
sacra che non può essere alterata nella sua più intima matrice generativa
della vita, ma degenera in materialità manipolabile da una ragione che
non conosce altra tensione che quella di esercitare dominio sul reale (A:
34).

“Perché la violenza, la fretta, il desiderio furioso del distacco?” (FP:


31), si chiede Zambrano; che cosa c’è alla radice della pretesa di sposses-
sarsi del mondo e con esso della totalità dell’essere del soggetto cono-
scente? Sembra plausibile rispondere che ciò accade in conseguenza del
fatto che il filosofo, che ha ingolfato il pensiero nell’ontologia della
svalorizzazione del mondo della materia, vuol dimenticare il nostro appar-
tenere al mondo della natura, al mondo del divenire, dove l’esistere è cosa
fragile ed incerta, e si affida completamente al suo desiderio di trascen-
denza. L’essere umano è costitutivamente chiamato alla trascendenza, ma
il rispondere a questa chiamata consente di pervenire alla realizzazione del
proprio essere solo se viene agita a partire da un’accettazione dei limiti in
cui sta la condizione umana, che è quella di essere soggetta al tempo che
passa e condizionata dai legami con le cose. Nella prospettiva platonica,
invece, questo desiderio diventa smisurato e smisurante, proprio perché

per Zambrano, Seneca, che ha saputo farsi mediatore tra la vita e il pensiero (S: 8). La
ricerca che si occupa di mettere a punto teorie sulla formazione troverebbe nutrimento in
questo tipo di filosofia interessata a coltivare una ragione che aiuti a trovare il proprio
cammino nella vita.

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74 Un metodo a-metodioo

volendo sottrarsi alla corrente del tempo il filosofo lavora a recidere il


rapporto primigenio con le cose, per poter situare il pensiero in un luogo
non reale.
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All’origine di questo desiderio di un esclusivismo ontologico, che


consisterebbe nell’essere enti dall’essenza spirituale, c’è l’angoscia conse-
guente al non saper accettare la qualità della condizione umana; è per
rendere sopportabile l’angoscia che si finge un mondo altro. Ma l’inganno
non funziona. Accade, infatti, che colui che ha ideato l’iperuranio incor-
ruttibile risulti avere la mente massimanente imprigionata nelle catene
della condizione terrestre, fatta di carne e di tempo (DD: 31), proprio per
non sapere accettare tale condizione, cioè il nostro appartenere alla terra.
Se la condizione umana è quella di trovarsi a camminare alla continua
ricerca di sé essendo destinati a non trovare mai il luogo in cui la ricerca
sia compiuta, ossia a non trovare quella verità in cui ci si senta accolti
definitivamente nel proprio essere, il sentiero tracciato da Platone dà
invece l’illusione che il sapere certo, incontrovertibile, cioè l’πιστ μη nel
senso di un sapere che sta saldo sopra le cose, quello al di là del tempo
contingente della vita, sia accessibile alla mente. Ma la condizione umana
è quella di appartenere al mondo delle cose visibili e tangibili; negare
questo nostro appartenere al mondo della concreta materialità e ipotizzare
che si possa noi accedere ad un mondo incorporeo rientra tra gli inganni
della metafisica, che non vuol tenere conto del fatto che “il mondo delle
apparenze precede qualsiasi regione il filosofo possa scegliere come pro-
5
pria ‘vera’ dimora” della vita della mente . Proprio perché nell’epistemolo-
gia dell’ascensione alpinistica il desiderio di trascendenza è privato del
rapporto con l’immanenza, il pensare non diventa un aprirsi all’ulteriore,
ma uno spericolato sporgersi sull’abisso senza fondo del pensiero astratto.

Ma la violenza è doppia, perché poi il filosofo, dopo aver interrotto il


legame con la realtà e aver cercato la verità altrove, ritorna ad occuparsi
del mondo ordinario pretendendo di applicare questa verità unica, atem-
porale e acontestuale al mondo molteplice e mutevole della vita, dove gli
enti sono molti, differenti gli uni dagli altri, legati ad un luogo preciso e
con una loro storia singolare. Questa epistemologia è doppiamente vio-
lenta proprio in quanto, oltre a provocare la derealizzazione del mondo
della vita nel pensiero astratto, operando la negazione della singolarità
nell’universale, pretende di sottoporre la realtà a un principio d’ordine ad
essa estraneo.

5
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 104.

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Il metodo della ragione poetioa 75

A sottolineare questa doppia violenza sono sia Zambrano che Arendt.


Per Arendt il fallimento della politica avrebbe le sue origini proprio in
questa distorsione cognitiva che pretende di mettere ordine nella realtà
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mutevole ed imprevedibile, dove sempre ha inizio qualcosa di nuovo che


in nessun modo può essere anticipato secondo una causalità di tipo
lineare, imponendo ad essa i criteri universali desunti dalle idee pure. Per
Zambrano, attenta alla vita, col rimuovere il mondo finito e opaco delle
apparenze per il cielo limpido e immobile delle idee eterne, il pensiero
platonico rimuove le cose nella loro singolarità e unicità, la cui distinzione
scompare nell’Essere: solo l’Essere è. E insieme alle cose scompare l’es-
senza stessa della vita, cioè la temporalità, perché il pensiero che si occupa
della verità atemporale non sopporta la finitezza, il breve durare delle
cose, che sono concepite strette nella morsa nullificante del venire dal
nulla e al nulla ritornare, annichilite in quel divenire che non è essere. La
pretesa di illuminare il tempo della vita con verità astratte e decorporeiz-
zate è di una tale violenza che non farebbe altro che mettere in fuga la
vita.
Nell’opporsi con radicalità alla visione platonica, Arendt e Zambrano
rivelano un pensiero contrassegnato dall’amore femminile per la realtà,
per il mondo, che si esprime nel saper accettare il finito e nel saper
ammirare il molteplice. È la saggezza dello stare con lo sguardo affondato
nella realtà, cosı̀ come insegna la ragazza tracia, che di fronte allo sguardo
di Talete perso nel cielo sorride ironica, ricordando che solo il guardare a
terra, fra le cose, fa trovare un cammino sicuro.
Quando Zambrano istituisce una distinzione fra la filosofia che “si
dirige verso l’essere che si cela dietro l’apparenza” e il poetare che “resta
immerso nelle apparenze stesse” (FP: 34) in essa sento echeggiare la
distinzione – questa interna allo stesso pensiero filosofico ma per questo
non meno significativa – fra le filosofie oggettivanti e la fenomenologia,
ossia fra una filosofia che, presa dentro il dualismo ontologico fra essere e
apparire e la svalutazione axiologica del secondo rispetto al primo, sceglie
di scantonare l’apparire per rivolgere la sua attenzione all’essere, e la
fenomenologia che, smantellato l’antico dualismo ontologico, sceglie come
il poeta di prestare attenzione al mondo delle apparenze, di aderire al
mondo delle cose. Il fenomenologo, cosı̀ come il poeta, “aderisce alle
apparenze seduttrici” (FP: 35).
Ma l’operazione simbolica di Zambrano va oltre quella operata dalla
fenomenologia, poiché distinguendo filosofia e poesia, chiede un supera-
mento di tutta la filosofia che vede comunque irretita nella logica di
costringere la conoscenza nelle ferree leggi del concetto. Solo un abban-

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76 Un metodo a-metodioo

dono radicale del linguaggio filosofico consentirebbe di aderire alle cose


stesse mettendo in parola il rapporto poetico con le cose che si stabilisce
quando si rimane attaccati “in modo errante” alla molteplicità apparente
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(FP: 35).
Che la verità possa essere cercata adottando il metodo del pensare
poetico è cosa difficile da accettare nel contesto della cultura occidentale,
perché la ricerca della verità – concepita da una filosofia che intendeva
accreditarsi nella forma discorsiva propria dell’indagine scientifica – è
sempre stata sottoposta ai criteri di certezza e di evidenza. Questi criteri,
però, sono applicabili solo a quella conoscenza che produce la ricerca
scientifica, mentre è errato pretendere di applicarli a quella verità che è il
sapere dell’anima, di cui va alla ricerca il pensare. Costringere il filosofare
entro questi criteri significa adottare una misura inadeguata all’essenza del
6
pensare .

4.2. Con stupore ammirato


La svolta epistemologica che ci è richiesta consiste secondo Zambrano nel
recuperare l’atto originario del pensiero, la capacità di uno stupore
ammirato delle cose. Secondo Zambrano all’inizio filosofia e poesia erano
accomunate dalla stessa postura di fronte alla realtà, cioè la capacità di
stupore:

E cosı̀ vediamo già più chiaramente la condizione della filosofia: meraviglia,


sı̀, stupore di fronte all’immediatezza delle cose cui fa improvvisamente
seguito uno strappo (FP: 32).

Sembra, però, una misinterpretazione quella che individua una stessa


postura cognitiva all’origine sia del filosofare sia del poetare, perché lo
stupore del filosofo platonico non si sorprende affatto della singolarità di
ogni evento e della peculiarità di ogni cosa. Rimanendo in continuità con
la prospettiva parmenidea, lo stupore del filosofo è ammirazione del
cosmo, ossia dell’armonia invisibile che trascende ogni evento singolare:
“Lo stupore di cui gode il filosofo non può mai concernere qualcosa di
particolare, ma è sempre suscitato da una totalità che diversamente dalla
7
somma degli enti non è mai manifesta” .

6
Martin Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, Adelphi, Milano 1995 (ed. or. Brief über den
“Humanismus”, Klostermann, Frankfurt am Main 1976), pp. 33-34.
7
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 234.

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Il metodo della ragione poetioa 77

Forse ad accomunare filosofia e poesia è uno sbalordimento iniziale di


fronte alle cose, quella condizione della mente che Zambrano definisce “lo
strato più profondo e intimo dello stupore” (NM: 104). E quando si prova
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lo sbalordimento si può reagire in due modi diversi: o cercando di ridurre


l’insolito a ciò che si conosce, e quindi immediatamente facendo agire il
pensiero operativo, con l’effetto di cancellare lo sbalordimento e stare in
una condizione di prensione sulle cose, oppure “accettando quel momento
nel quale si è vinti e portandolo all’estremo” (NM: 105), passivamente
viverlo fino in fondo. Mentre la filosofia si riprende subito da questo
sbalordimento e, presa dall’ποριν, ossia sentendosi perplessa, inizia quel
percorso caratterizzato da un interrogare continuo la realtà per cercare di
comprendere quel fondo che non è immediatamente apparente, il poeta è
colui che sa trasformare lo sbalordimento nello αυμζειν, cioè nello
stupore ammirato. Il poeta è quello che si lascia prendere dallo stupore di
fronte alle cose, e lascia il suo sguardo rimanere irretito dalla foglia mentre
cade e dall’acqua mentre scorre, senza sentire il desiderio di chiudere gli
occhi del corpo per aprire quelli della mente cosı̀ da vedere l’idea della
foglia e quella dell’acqua (FP: 32). La poesia è il pensare “fedele alla cosa”
(FP: 32), fedele “a ciò che offre la propria presenza e dona la propria
figura”. Il poeta è “innamorato delle cose” (FP: 34), ad esse aderisce

e le segue attraverso il labirinto del tempo, del mutamento, senza poter


rinunciare a nulla: né a una creatura, né a un istante della creatura stessa,
né a una particella dell’atmosfera che l’avvolge, né a una sfumatura
dell’ombra che getta o del profumo che emana, né al fantasma che già in
assenza suscita” (FP: 34).

Il poeta non penetra nella realtà (espressione ricorrente sia nella


filosofia che nella scienza), ma accoglie le cose nel loro offrirsi.
Il problema che si profila a questo punto del discorso consiste nel
capire come agire epistemologicamente l’etica dell’accoglienza. Per acco-
gliere occorre lavorare non sugli strumenti del pensiero, concettualizza-
zioni e procedure, ma lavorare su di sé per rendere la mente capace di
fare spazio al dato offerente. In questo la filosofia non sarebbe in grado di
aiutarci, perché, essendo caratterizzata dall’atteggiamento del “domandare
perenne” (FP: 33), patirebbe un’asfissia del domandare. Il poeta, invece,
non avvicina la cosa interrogandola, ma guardando ed ascoltando.
Si potrebbe parlare di opposizione fra il metodo interrogante, che
penetra le cose, e il metodo ascoltante dell’avvicinarsi alle cose facendosi
guidare dal modo in cui esse si danno a conoscere. Accogliere è anche il

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78 Un metodo a-metodioo

gesto epistemico della fenomenologia, o meglio l’etica dell’epistemologia


fenomenologica, perché per il fenomenologo l’apparenza è qualcosa di
8
donato e di offerto, e “un dono non ci si limita a riceverlo, lo si accoglie” .
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Ma le analogie finiscono qui. Husserl, rimanendo nel solco della


filosofia, è interessato a cercare qualcosa di stabile, su cui rifondare tutto il
sapere; mira ad una filosofia rigorosa, e per questo non rinuncia ai canoni
del discorso filosofico, invece la poesia non pretende di fondare nulla,
semplicemente di dire il dirsi delle cose. Zambrano afferma addirittura che
il poeta è colui che non ha metodo, né etica (FP: 39). Non ha metodo se
s’intende per metodo il cercare qualcosa, ma un metodo l’ha: è il metodo
a-metodico del non cercare.
Non ha un metodo fatto di regole; non è interessato a cercare qualcosa
di preciso, sta in una posizione ricettiva: “senza progettare tragitti, senza
inciampi, né contorsioni”, in questo senso il poeta non ha metodo (FP: 39).
Il poeta ha il metodo del non cercare, dello stare in attesa.

4.3. La parola incarnata


Proprio perché è fedele alle cose, la poesia è capace di insegnare la parola
incarnata. “La legge della corporeità, in questo pianeta, in questo modo di
essere uomini, è ciò che governa tutto. Tutto ha da farsi corpo, e la parola
prima di tutto” (B: 50).
La filosofia non ha obbedito a questo principio di realtà, perché ha
cercato un linguaggio incorporeo, dematerializzato. Alla poesia, invece, è
stato assegnato il compito di “darci il corpo della parola” (B: 51). Affasci-
nati dal pensiero astratto ci si lascia prendere da giochi linguistici che
portano lontano dalle cose e non ci si avvede che, quando pretendiamo di
misurare l’ombra col compasso, non facciamo che stendere un velo
d’ombra sulle cose:

Mentre l’ape costruisce,


con essenza di campo e sole,
io vado seminando verità
che nulla sono, vanità
al fondo del mio crogiuolo.
Dal mare alla percezione,
dalla percezione al concetto,
dal concetto all’idea

8
Roberta De Monticelli, L’allegria della mente, cit., p. 58.

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Il metodo della ragione poetioa 79

– oh, che bella fatica –


dall’idea al mare.
E cominciare daccapo (Antonio Machado, Parabole)
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Il pensiero poetante non ha nulla a che fare con l’astrazione, poiché


gli è proprio il cercare quelle parole che aderiscano al profilo essenziale di
ciascuna cosa, al profilo dell’altro nella sua unicità. L’adesione al pensare
poetico si attualizza anche come disponibilità a frequentare un dire che
non sia quello concettuale, ma un dire evocativo, che procede per meta-
fore ed immagini, animato dall’intenzione non di definire, ma di mostrare
la realtà. Tutta l’opera di Zambrano è percorsa dalla diffidenza nei
confronti del concetto, perché la complessità della vita sfugge e trascende
le forme del pensiero concettuale. È la vita stessa, nella ricchezza delle sue
forme sempre cangianti in una processualità non facilmente discernibile, a
richiedere un processo cognitivo più fluido, e quindi più congeniale alla
9
qualità del divenire dei fenomeni, di quello concettuale . Quando ci si
affida al processo di concettualizzazione del reale si rischia di “riempirsi di
sicurezze”, perché il concetto genera l’illusione di avere afferrato la realtà,
autorizzando la mente a distrarsi da essa per operare solo con i prodotti
cognitivi da essa elaborati. “Ci sentiamo liberi e padroni, e continuando
cosı̀ a sostituire i concetti con la realtà possiamo impadronirci di tutto, ma
questo tutto mancherà di ... realtà” (DD: 171). Quando la parola si
materializza nella sola produzione di concetti è come se costringesse la
realtà dentro un recinto spesso e stretto. I concetti “funzionano come
materia materiale: spessore, impenetrabilità, sordità” (B: 67).
La parola che ha corpo, nel senso che ha realtà, è quella che sa dire il
palpito nel volo discontinuo della farfalla che taglia la compattezza dell’a-
ria, è quella che coglie l’essenza degli assolati voli di campo dell’ape (B:
51-52). È quella che, attenta alla soggettività di ciascuno, ne dice fedel-
mente la sua unicità e singolarità, senza pretendere di riportare tutto ad
un sapere generale e astratto. Decisiva è a questo scopo l’arte della
descrizione, che è l’arte del prestare attenzione al singolo ente nella sua

9
Nel testo che Zambrano definisce immortale La posizione dell’uomo nel cosmo, Scheler,
commentando Bergson, parla della persistenza nella cognizione umana di differenti forme
della coscienza che – esprimendoci con un linguaggio batesoniano – manifestebbero le
molteplici forme della vita della mente che attraversa la natura vivente. Tali forme nel
tempo sarebbero divenute nascoste all’intelletto calcolante, che si è proposto come l’unica
via di accesso alla realtà (Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 111). La
possibilità di accedere ad un’intuizione viva dell’essenza delle cose richiederebbe che le
diverse facoltà della mente fossero risvegliate e riattivate.

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80 Un metodo a-metodioo

individualità essenziale, senza ricondurre il suo essere a cause necessitanti


o spinte teleologiche. La descrizione fedele alla cosa è ispirata dall’etica del
rispetto per il reale.
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Per essere capace di una parola incarnata occorre pensare con inte-
rezza senza lasciarsi prendere dalla ricerca di un’oggettività che pretende
che noi si diventi soggetti senza corpo e senza emozioni. Cosı̀ di fatto ha
preteso la filosofia che vorrebbe il soggetto non avesse un essere determi-
nato come condizione per cercare la verità dell’Essere. L’Essere senza
soggetto (B: 56) non si rivelerebbe ad un ente denso della sua soggettività.
Per questo il pensatore “Non può essere sacerdote, poeta, saggio, legisla-
tore, perché non può essere né questo né quello” (B: 54).
Ma se la verità che si va cercando non è quella razionale e oggettiva
nutrita dalla fame di conoscenza, ma la verità che illumina la vita, ossia
quella che nasce dalla sete di vivere, e dunque deve rischiarare il mio
cammino qui ed ora, non può essere cercata altrove da un soggetto che
pretende di aver perso il radicamento nell’esperienza cosı̀ come si dà alla
coscienza quando è attenta al divenire alle cose. La ricerca del sapere
dell’anima non chiede al soggetto di cancellare la sua presenza, occultando
la sua unicità e singolarità, ma di pensare a partire da sé. Il sapere vero
non è un sapere diafano e neutro, ma un sapere che si porta appresso
tutto il sapore dell’esperienza soggettiva, è dunque un pensare che si nutre
di contingenza.
Il pensare a partire da sé è il pensare che muove dall’esperienza, cioè
dal vissuto portato sotto la luce del pensiero. Questo pensare intensiva-
mente la contingenza, che è attenzione a ciò che si vive concretamente, ai
sentimenti e alle contraddizioni vissute in prima persona, ha una ripercus-
sione materiale sul senso dell’essere poiché apre l’orizzonte del rinascere.
È la pratica del partire da sé che consente di rinnovare la propria
10
nascita .

4.4. Perdersi fra


le cose per guadagnare il reale
Mentre leggo le pagine dove Zambrano parla dell’innamorarsi delle cose
mi accade di pensare al concetto di “distrazione” scandagliato da Agostino

10
Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare, e Chiara Zamboni, Il materialismo dell’anima,
entrambi in Diotima, La sapienza a partire da sé, Liguori, Napoli 1996, rispettivamente alle
pp. 5-21 e pp. 154-170.

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Il metodo della ragione poetioa 81

nelle Confessioni. La curiosità, che si ammanta del nome di conoscenza e


scienza, è definita da Agostino una tentazione avida e vana:
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Siccome fa parte dell’impulso alla conoscenza e gli occhi sono fra i sensi lo
strumento principale della conoscenza, la parola divina la definisce ‘pas-
sione degli occhi’11.

Facile essere d’accordo con Agostino quando mette in evidenza il


pericolo rappresentato dalla tendenza alla distrazione, che consiste nel
lasciare la mente farsi catturare da “innumerevoli minuzie irrilevanti che
12
solleticano la nostra curiosità ogni giorno” . Distrarsi è allontanarsi dalla
ricerca della verità, tacitare l’anelito al sapere dell’anima. Ma poi è
difficile essere con lui d’accordo quando considera distrazione la spinta a
“esplorare i fenomeni della natura fuori di noi”, atteggiamento conoscitivo
da lui valutato negativamente perché ritiene che “a nulla giova conosce-
re”. Per noi, moderni o postmoderni che vogliamo definirci, il conoscere
13
non può certo essere uno dei rami della mente da tagliare .
Ma non meno problematico è considerare una forma della tentazione
distraente – quella che smarrisce la mente tra la folla di minuzie e di
dettagli vacui di cui il cuore tende a farsi ricettacolo – anche quell’atten-
zione alle cose che lega il pensiero ai fatti circostanti della vita. Per questo
non si può non rimanere sorpresi quando Agostino considera un distrarsi
vano prestare attenzione ai fenomeni della vita circostante, quel “guardare
una lucertola intenta a catturare mosche, o un ragno che avvolge nelle sue
14
reti quelle che vi siano incappate” . Questo stato della mente che definisce
dispersione nel molteplice è per Agostino sintomo del desiderio di scanto-
nare quel pensare meditante che, portandosi nel profondo dell’anima,
continuamente attizza la consapevolezza della fragilità della condizione
umana. Si tende a disperdere l’attenzione sulla molteplicità delle appa-
renze che animano il mondo esterno per non stare col pensiero presso
quelle cose di fronte alle quali il cuore si spaura.
Ma sono davvero “pensieri futilissimi” quelli che si generano dall’in-
contro appassionato con le cose? Allora quel perdersi dello sguardo fra le
cose proprio del poeta è da considerarsi uno smarrirsi dell’anima? Stare
per un tempo indefinito ad osservare un limone che languido lascia

11
Agostino, Confessioni, Libro X, 35.54.
12
Ivi, 35.56.
13
Ivi, 35.56.
14
Ivi, 35.57.

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82 Un metodo a-metodioo

sospeso un ramo scolorito o polveroso (Machado) è davvero uno smarrirsi


della mente?
Non si può non essere interessati alla conoscenza del mondo, non
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impegnarsi ad affinare le proprie competenze tecniche; è una questione di


sopravvivenza, ma anche di piacere, il piacere del reale. Il problema
consiste piuttosto nel trovare una misura che orienti nel coltivare le varie
facoltà della mente. Zambrano aiuta a fare luce. La curiosità che allontana
la mente dalla ricerca della verità non è il pensiero legato alle cose, ma
piuttosto un rapportarsi alle cose stando in superficie, in cui si lascia
inondare la mente da conoscenze non essenziali. È una sorta di pattinag-
gio mentale. Quando, invece, il pensare che si lascia catturare dal mondo
circostante non è un mero divagare, bensı̀ attenzione all’essere delle cose,
allora il pensiero che si innamora di una forma di vita, della foglia mentre
trema o dell’acqua mentre scorre, è nutrimento di realtà per la mente.
La tendenza ad abbandonare il mondo per cercare altrove la verità è
una tentazione costante nella nostra cultura. Se Platone va in cerca del
cielo limpido delle idee eterne, e quindi concepisce il conoscere come un
uscire da sé e ascendere verticalmente verso l’altrove, la tradizione della
formazione spirituale di ispirazione cristiana pensa alla cura dell’anima
come ad un movimento del soggetto che rivolto verso di sé penetra nelle
più intime profondità di se stesso; conoscere è andare verso il centro
trasparente dell’anima in cui trovare la vera vita. Edith Stein parla di un
conoscere che sboccia verso l’interno, verso quella profondità che è
l’anima. Solo quando il soggetto accede a questo profondo interno arriva
al “fondamento del suo essere, dove è veramente di casa e dove deve stare
(...) E se vive a partire da questa profondità, vive una vita piena e
15
raggiunge l’apice del proprio essere” .
Per Zambrano questo profondo interno ove trovare il proprio essere è
nel mondo, fra le cose, ed è entrando nella realtà con la mente e con il
cuore che troviamo noi stessi (CGL: 54). La sua è un’anima cosmica, che
si nutre della materia del mondo (SA: cap. 1). Si può parlare di “materiali-
16
smo dell’anima” per indicare il bisogno vitale dell’anima, di quell’invisi-
bile che noi siamo, di nutrirsi di forme e figure. Se per Agostino la
passione degli occhi di guardare le cose è una tentazione distraente, per

15
Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 35.
16
A coniare l’espressione “materialismo dell’anima” è stata Chiara Zamboni per indi-
care la ricerca di senso che avviene nella concretezza della vita (Id., Il materialismo dell’anima,
in Diotima, La sapienza del partire da sé, cit., pp. 155-170, in part. p. 159), perché quella cosa
immateriale che è l’anima, di cui non sappiamo forma e figura, si nutre di cose concrete e
visibili.

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Il metodo della ragione poetioa 83

Zambrano è una tentazione la vita interiore intesa come un sentire e


pensare chiuso nei confini dell’io.
Lasciare che la propria attenzione s’innamori delle cose non vuol dire
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smarrire la cognizione nella molteplicità degli enti, ma attivare quell’atten-


zione concentrata sull’altro che è come lo stupore che accende lo sguardo del
bambino, quella meraviglia ammirata che è matrice originaria del pensare
che va in cerca di verità capaci di illuminare l’esperienza. È l’attenzione
allocentrica, ossia quel guardare radicalmente delocalizzato sull’altro di cui
è capace solo chi sa spogliarsi del proprio sé, liberarsi di certi pensieri
futilissimi, e che sa tenere l’anima preservata dal rischio che penetri in essa
qualcosa che leda la sua vita, che ostacoli il suo libero respirare.
Il metodo cartesiano, invece, “trovato il punto d’innesto della ragione
nella vita”, ha subito liberato di questo legame la ragione. Il soggetto
cartesiano trova l’evidenza su cui fondare la conoscenza nella sua solitu-
dine metafisica “lontano da tutte le cose” (CGL: 81), scisso dal mondo e
dunque anche dalla pienezza dell’essere nel mondo. Per Zambrano la via
del pensare si dà inevitabilmente nel fitto bosco della vita; è solo là, fra le
cose che divengono, fra la molteplicità che fiorisce nella temporalità, che
all’essere umano è possibile esercitare la ragione vitale necessaria alla
ricerca della verità. Solo accettando di mischiare la mente e il cuore al
divenire delle cose si può sperare in qualche radura chiara dove le cose,
accarezzate da una luce aurorale, parlano all’anima. Cosı̀ com’è perico-
loso aspirare a soggiornare nel cielo limpido delle idee eterne, altrettanto
rischioso è cercare la conoscenza vera nell’isolamento del proprio io,
quando ci si lascia prendere “dall’ansia sempre più frenetica di cercare
l’originalità del mondo interiore” dove si rischiano gli “abissi allucinatori”
(CGL: 83).
Come insegnano i mistici l’anima in solitudine non dev’essere altro
che una fase transitoria del cammino verso la luce, una fase in cui
continua il lavoro su di sé fatto di pratiche di continuo e radicale
svuotamento da ogni attaccamento:

La solitudine, come tutte le dimore dei mistici, era una tappa del cammino.
La sua differenza con gli ‘stati’ – quegli stati d’animo abusati dal post-
romanticismo – consiste nel fatto che sono reali, che trasformano realmente
l’anima. Le tappe intermedie di questo cammino non consistono in un mero
attraversamento, ma in successive e violentissime trasformazioni (CGL: 80).

La via mistica di Zambrano è la via di un’anima materiale, un’anima


di carne trasparente che anche quando raggiunge la conoscenza chiara lo
fa portandosi appresso il sapore delle cose della terra:

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84 Un metodo a-metodioo

Come un passero che si fa nido nell’aria ma che è uscito dalla terra bruna e
che è bruno come essa, fatto, infine, della sua stessa sostanza. E cosı̀,
quando canta, per quanto liberamente lo faccia, è come se la terra stessa
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cantasse; come se la terra stessa fosse riuscita a disfarsi del suo peso e della
gravità che lo trattiene (CGL: 110).

Il compito epistemico, dunque, per chi intraprende il cammino della


ricerca di un sapere vitale non è quello di recidere il legame con le cose,
ma piuttosto di trovare quel sentiero che porta all’incontro con le cose
stesse. Un incontro che genera vita e nutre l’anima, ma solo, e solo se,
prima si è lavorato sull’anima per spogliarla di ogni attaccamento, di ogni
tensione all’atto volontaristico. Solo allora “si gusta la più recondita realtà
delle cose” (CGL: 118). La mente convertita alla ricerca della verità non è
quella che intraprende il lavoro del conoscere con un metodo prestabilito,
sapendo già a cosa mira, come accade nel metodo sperimentale, ma è
l’anima che ha saputo attraversare la fatica che comporta il farsi trovare
svuotata tra le cose nella loro intensa presenza:

le montagne, le valli solitarie e boscose, le isole strane, i fiumi sonori, il


soffio delle aure amorose. La quieta notte apertasi al levarsi dell’aurora, la
musica taciuta, la solitudine sonora (CGL: 118-119).

L’anima svuotata del troppo pieno di sé è quella che sola può
accogliere la cosa. E nell’accogliere la realtà si offre alla conoscenza. Il
problema, dunque, non è quello di sospendere il rapporto con le cose, ma
di trovare un accesso vero, cosa che non succede al filosofo quando si
allontana dal mondo alleggerendosi delle cose ingombranti, come sono le
passioni e le preoccupazioni del quotidiano. Allora, arendtianamente, non
trova il mondo, ma incontra solo se stesso. La fame di verità è “fame di
presenza di figure reali, letteralmente <materiali>”, è questo desiderio di
realtà che la distingue dalla semplice fame di sapere scientifico (CGL:
121). Non si tratta di attrezzarsi di teorie, ma di lavorare nella nostra
mente affinché la conoscenza si realizzi.

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5
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi

Il nostro è un tempo contrassegnato da un aumento esponenziale del sapere


scientifico e del progresso tecnologico. È un tempo pieno di conoscenze e di
tecniche, ma povero, troppo povero, delle altre forme di conoscenza, quelle
forme attive di conoscenza che nascono dal desiderio di un sapere adeguato
della vita del cuore (SA: 55). La nostra condizione di esseri mancanti di
essere, dal momento che l’essere è presente solo come esigenza, come
anelito a realizzarsi, rende necessario andare in cerca di un sapere del
cuore, che si occupi di comprendere il sentire originario da cui dipende
ritmo e direzione dell’esperienza. È questa, suggerita da Zambrano, una
direzione di senso fondamentale: mettere al centro il sentire “perché vivere
umanamente dev’essere un trarre alla luce il sentire, principio oscuro e
confuso, un portare alla luce l’intelligenza” (DD: 95).
La vita del cuore è essenziale per condurre un’esistenza pienamente
umana. Se, infatti, il cuore cessa di far sentire la sua voce anche un solo
minuto, la persona patisce quel vuoto di capacità di percezione del valore
delle cose che è all’origine delle azioni non buone, non giuste, quelle
contrarie alla vita. Quando si avverte il silenzio del cuore è necessario
essere capaci della passività più radicale, quella in cui ci si ritira dall’a-
zione e, disattivando ogni tensione alla presenza operativa, si attende che
il cuore torni ad ispirare l’agire. Una cultura che s’interpreta nella forma
del coltivare la vita in vista del suo massimo fiorire non può allora evitare
di coltivare la vita del cuore affinché con continuità ispiri le scelte della
mente.
Il sentire non è la parte irrazionale dell’anima; il sentire genera un
ordine del cuore che è parte essenziale del sapere di cui l’essere umano ha
bisogno per fare della sua vita un cammino. “Il sentire risveglia, ravviva,
1
ed è fuoco rianimato dal capire” (B: 94) .

1
Nel suo assegnare una primarietà al sentire si può ipotizzare aver giocato un ruolo
importante il pensiero heideggeriano, ma basilare è stata l’influenza esercitata dal pensiero
di Miguel de Unamuno. Per il filosofo spagnolo l’essere umano, anziché “essere razionale”,

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86 Un metodo a-metodioo

È fenomenologicamente evidente che l’essere umano sempre si trova


in una situazione emotiva; questo trovarsi sempre in una tonalizzazione
emotiva è heideggerianamente inteso come un modo cooriginariamente
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costitutivo dell’esserci. Mentre le altre funzioni psichiche sono qualcosa


che si può dire di possedere, il sentire è qualcosa che noi siamo. Proprio
perché il sentire è la condizione esistenziale fondamentale, quella cioè che
ci costituisce nel nostro essere, esso rappresenta il segno di veridicità, la
fonte di una “verità viva: la fonte ultima di legittimità di quanto l’uomo
dice, fa, pensa” (SP: 65).
Se si assume che l’altro esistenziale fondamentale consiste nella ricerca
2
della comprensione dell’esserci , allora ciò che deve innanzitutto divenire
oggetto di comprensione è il sentire. Avere comprensione del sentire
acquisisce, quindi, la qualità di un imperativo etico fondamentale. Se si
arrivasse al punto in cui attraverso la riflessione si attuasse una compren-
sione del sentire allora secondo Zambrano si realizzerebbe la condizione
ontologica, aristotelicamente intesa, in cui il pensare è vita. Il modo della
conoscenza cui aspira Zambrano è quella della ragione poetica, e la
ragione poetica è quella in cui pensare e sentire stanno insieme. Perché la
comprensione non è possibile che accada se il sentire non accompagna il
capire; “colui che cerca la conoscenza, [che] semplicemente è colui che
non abbandona, che non sospende, il sentire originario” (B: 64).
Sul sentire per molto tempo ha pesato, invece, una concezione nega-
tiva. Sotto il peso del razionalismo, che ha confinato il sentire a mera
soggettività, il pensiero occidentale ha perseguito la ricerca di una scis-
sione tra conoscere e sentire, perché, cartesianamente, il sentire inquine-
rebbe le procedure razionali della mente, ossia impedirebbe il verificarsi di
quel rigore necessario alla costruzione di un sapere ‘oggettivamente’
fondato. Ciò si è verificato senza che ci si rendesse conto che forse “per un
pensiero che vuol essere rigoroso è il peggiore degli inganni credere di
3
potersi, o addirittura dovere, separare dall’umano sentire” . La ricerca

dovrebbe essere definito come “animale affettivo o sentimentale”, poiché nell’esistenza il


sentire gioca un ruolo ancora più fondamentale del conoscere (Miguel de Unamuno, Il
sentimento tragico della vita, Piemme, Casale Monferrato 2004 – ed. or. Del sentimento trágico de
la vida en los hombres y en los pueblos, [1913], Alianza Editorial, Madrid 1986 – p. 48). Sarebbe
dal sentire che nascono le idee, e non viceversa, anche se non si può negare che poi le idee
agiscono di riflesso sul sentire (ivi, p. 60). Di Unamuno Zambrano coglie in particolare la
tesi secondo la quale ci sarebbero due modi differenti di pensare: uno intellettualistico,
ossia “unicamente col cervello”, e un altro “con tutto il corpo e tutta l’anima, ..., col
cuore”, e sarebbe il secondo il solo pensare capace di comprensione della vita (ivi, p. 58).
2
Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 171.
3
Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 146.

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 87

della impassibilità, concepita come condizione indispensabile all’esercizio


della conoscenza razionale, impedisce che la ragione sia avvertita dai
sentimenti. Invece la gioia o il dolore che si avverte nel vivere certe
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circostanze sono avvenimenti che aiutano a trovare la giusta direzione dei


movimenti dell’essere. Quando, invece, il cuore si chiude in un impenetra-
bile silenzio, lasciando sole le operazioni della mente, queste, abbandonate
a se stesse, senza il sostegno del sentire, facilmente perdono la giusta
direzione, poiché tendono ad assumere una forma imperativa e giudi-
cante.
Ogni impresa conoscitiva richiede una conversione del cuore (CGL:
53). Quando ad esempio la mente affronta l’esperienza del fare vuoto, del
disfare e stare passiva, esperisce quel momento del cominciamento asso-
luto che accade quando tra la domanda e la risposta interviene il niente di
sé, in quel momento solo un “cuore fermo” può sostenere lo sforzo:
“Senza l’assistenza del cuore la persona non è mai del tutto presente”
(NM: 114). L’unità della mente e del cuore sta alla base di tutti quei
movimenti del pensiero che attingono alla conoscenza vera, quella che è
condizione della scoperta del metodo. Sentire e pensare dovrebbero
andare insieme. E il rapporto tra sentire e capire è quello in cui il sentire
precede il capire e poi prosegue illuminato dal capire. È, dunque, la
ragione poetica un pensare emozionato o un sentire pensoso.
Per autorizzare il sentire nel bel mezzo della ricerca della conoscenza
occorre, però, operare una torsione concettuale radicale rispetto alla
modernità, che aveva svalutato la parte affettiva della mente consideran-
dola fattore inquinante il processo cognitivo. E il riunirli richiede che
l’anima sia capace di percepire la “fiducia nella non irrazionalità del
sentire” (B: 94).
Una parte consistente delle riflessioni più recenti nel campo della
filosofia morale individua nei sentimenti una componente razionale, quella
che aiuta a rischiarare la situazione opaca facendo sentire alla mente la
giusta direzione da prendere. Questa valutazione positiva del sentire,
come implicante una direzione di intelligenza sul reale, era già parte della
sapienza antica. L’apostolo Paolo parla degli “occhi del cuore” (Efesini, 1,
1-18) ed è ad un sentimento, quello dell’amore, che attribuisce la capacità
di comprendere la profondità delle cose (Efesini, 1, 3-18). La sapienza
ebraica, in cui il cuore riceve grande attenzione, per dire l’atto cognitivo
del riflettere usa l’espressione: “pensare in cuor mio”. Segno che nella
Bibbia non c’è opposizione tra le ragioni della mente e le ragioni del
cuore, Qohelet dice di consacrare il suo cuore alla ricerca della sapienza
(Il Libro dell’Ecclesiaste).

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88 Un metodo a-metodioo

Percorrere una nuova via, come quella richiesta dalla ragione poetica,
che chiede di camminare al di fuori dei sentieri abituali, significa avventu-
rarsi in territori sconosciuti senza sicuri e collaudati appoggi concettuali;
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significa arrischiare. E per arrischiare l’inedito occorre saper nutrire il


sentimento della fiducia, quello che fa sı̀ che un presupposto inverificabile
– come quello che considera le emozioni fenomeni non irrazionali dell’a-
nima, ma ragionamenti del cuore – sia assunto come punto di partenza
cui si rimette il proprio pensare.

5.1. Comprendere il sentire


Sede del sentire è il cuore, e la prima cosa che ha da fare il cuore è
conoscersi. Il cuore “non potrà essere libero senza conoscersi” (CB: 83) e
nessuna quiete interiore è possibile se non si impara a comprendere la vita
del cuore. Poiché il cuore è pieno di sentimenti che lo tengono in continuo
movimento, per non diventare schiavi del tumulto interiore occorre impa-
4
rare la disciplina del dedicare tempo all’analisi della propria vita . La vera
riflessione è quella del cuore che dialoga con se stesso per conoscere le
acque del sentire che lo inondano. Non c’è vita che si trasformi in
cammino se, oltre ad inoltrarsi nel mondo, il cuore non si avventura anche
lungo i sentieri della vita interiore. Solo conoscendosi il cuore può dare
frequenza e ritmo alla vita che lo attraversa. Il dialogo silenzioso dell’a-
nima con se stessa diventa, dunque, comprensione del sentire, e la
comprensione trasforma la condizione dell’essere portati dai sentimenti in
un andare nel tempo vivificato da un sentire che illumina la vita.
Il difficile della comprensione che ha per oggetto i vissuti emotivi
consiste nell’arrivare a “capire ciò che si sente senza annullarlo, senza
cessare di sentirlo” (DD: 96). Rischio questo facile da correre, quando si
pretende di circoscriverli in un concetto, perché la vita dell’anima, di cui i
sentimenti sono l’essenza, sono quanto di più ribelle alla definizione.
Affinché una cosa possa essere definita, di essa occorre poter vedere
distintamente i confini; mentre i sentimenti, proprio in quanto avvolgono e
inondano la nostra anima, non possono essere chiaramente delimitati.
L’intelligenza capace della comprensione della vita emozionale, che
non non dev’essere inibente ma vivificante, non può essere allora la
ragione analitica, bensı̀ l’intelligenza del cuore.
La questione che, pertanto, si profila come decisiva consiste nel capire

4
Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 47.

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 89

come si attualizza questo tipo di intelligenza. Provo ad entrare nella


questione a partire dalla fenomenologia, secondo la quale avere intelli-
genza di una cosa è cogliere di essa l’essenza, fatto questo che accadrebbe
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praticando l’esercizio cognitivo della descrizione. La descrizione, ossia il


nominare l’accadere del fenomeno cosı̀ come appare, è un modo discreto
di accostarsi al reale; quando poi, fenomenologicamente, è mosso dal
principio di fedeltà all’apparire del fenomeno, che impone di attenersi a
quelle parole e solo a quelle che dicono il quid dell’esperienza, allora si
può ipotizzare che la descrizione consenta di cogliere, se non l’essenza,
almeno qualche frammento dell’esperienza del sentire senza snaturarlo.
Che la descrizione del sentire sia una disciplina difficile da praticare
costituisce una evidenza innegabile, perché il sentire è materia sfuggente,
che di fronte alla riflessione tende a sciogliersi come neve al sole. I
sentimenti “sono la cosa più viva della nostra vita, sono anche la più
inafferrabile, la più pronta a sfumare e a lasciarci una specie di vuoto
palpitante quando pretendiamo di catturarli“ (SP: 65). Proprio per questo
secondo Arendt i vissuti emotivi sono inconoscibili. Tutto ciò che verrebbe
alla luce attraverso la riflessione non sarebbe l’esperienza emozionale nel
suo quid, ma solo ciò che di essa pensiamo: “A differenza dei pensieri e
delle idee, sentimenti, passioni ed emozioni non possono divenire parte in-
5
tegrante del mondo delle apparenze” perché non possiedono quei tratti di
6
permanenza che caratterizzano l’apparire individuale .
Certo non si può non tener conto della cautela che Arendt suggerisce
di adottare quando il pensiero si trova alle prese con quella materia
delicata che è il sentire, né si deve dimenticare che l’attenzione, richiesta
dal metodo della descrizione, è inevitabilmente frammentaria e disconti-

5
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 113.
6
Non si può, a questo punto, non risalire all’origine fenomenologica delle riflessioni
arendtiane, che si rintraccia nel pensiero husserliano. Nelle Idee, Husserl spiega che nella
riflessione, o intuizione essenziale riflessa, l’Erlebnis nel momento in cui viene fatto oggetto
di considerazione diventa ciò che si offre al pensiero, mentre quando lo sguardo riflessivo si
distoglie, questo diventa altra cosa. “L’essenza afferrata è soltanto essenza dell’Erlebnis
riflesso” (Husserl, Idee, cit., p. 173). Consideriamo il vissuto della gioia: quando lo sguardo
riflettente si dirige su di esso, la gioia diventa qualcosa di osservato. Questo produce una
modificazione del vissuto, poiché quando si attiva il pensare s’interrompe l’adesione
immediata al sentire e questo nel suo venire presentificato cambia di qualità. È del resto
intuitiva la differenza fra il sentire e il pensarsi sentire. Il sentire semplicemente vissuto è
altro dal sentire consaputo, perché il riflettere interrompe il fluire spontaneo del vissuto. Se,
però, si presta un’attenzione intensiva al vissuto per rendere di esso possibile una descri-
zione dettagliata si può ipotizzare l’accesso all’essenza del sentire consaputo, ed è questo
l’obiettivo proprio della riflessione.

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90 Un metodo a-metodioo

nua, con la conseguenza che tutto quello che perviene alla luce della
coscienza riflessiva è sempre mancante di altro, che è destinato a rimanere
opaco. Tuttavia tali cautele non impediscono che si esplori la possibilità di
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una conoscenza adeguata per quanto imperfetta possa essere.


E l’esperienza conferma la possibilità che tale conoscenza sia possibile.
Se si adotta come pratica cognitiva da perseguire quella della autopre-
senza, ossia del tenere il pensiero riflessivamente attento a quello che
accade nella mente, da attivare con la massima continuità possibile, allora
il fenomeno del sentire, da vissuto evanescente e senza confini, prende
forma nella sua individualità, in quanto acquisisce un suo profilo, tanto
più riconoscibile e identificabile quanto più a lungo e intensivamente si è
protratta l’autopresenza. Il sentire viene a costituire allora un fenomeno
che può essere descritto e come tale divenire oggetto di comprensione. Lo
stesso Heidegger autorizza la pratica fenomenologica come modo attra-
7
verso il quale la persona può interpretarsi da sé , portando cosı̀ l’atten-
zione sulla valenza autoformativa del metodo fenomenologico.
Chi ha fatto esperienza della pratica della descrizione del sentire
impegnandosi nella disciplina dell’autopresenza intensa e intensiva ha
conosciuto i guadagni di questa pratica, dei quali forse il più significativo
consiste nell’acquisire conoscenza del proprio profilo emotivo, profilo che
spesso si scopre differente da quello che si supponeva essere. Sapere cosa si
sente e poi cosa si pensa mentre si sente può forse aiutare a dissipare, almeno in
parte, la nostra opacità. Avere anche solo qualche barlume di conoscenza
della propria vita emotiva può aiutare a trovare il centro di se stessi, e
trovare il centro significa raccogliere il tempo della vita, evitare la disper-
8
sione che inutilmente consuma il tempo .

Ma avere un metodo che si costituisce cercando un ordine del cuore


non significa solo portare l’attenzione sul sentire originario per compren-
derlo, ma anche coltivare i sentimenti che aiutano a vivere e che, quindi, aiutano
anche la ricerca della verità. Il pensare che è vita non si limita al piano
della comprensione dell’esistente, ma coltiva altro, rendendo possibile il

7
Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 178.
8
Di fronte al dilagare di teorie che pretendono di proporre metodiche per la gestione
intelligente delle emozioni è necessario precisare che i discorsi qui sviluppati si pongono su
un piano radicalmente differente. Qui si parla di comprensione del proprio vissuto per vivere
sapendosi, senza per questo pretendere alcuna postura di controllo, perché “non è possibile
possedersi da sé. Si dovrebbe essere più di se stessi, possedersi a partire da qualche altra
cosa che si situa al di là, da qualcosa che possa effettivamente contenerci.” (FP: 112), ma
nessuna mente può trovare un punto d’appoggio all’esterno da cui padroneggarsi.

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 91

movimento della trascendenza che si sporge sull’altrimenti. Quello che ci è


richiesto, a noi mancanti d’essere, è di entrare nella vita, ossia di trovare
un modo felice di muoverci nel tempo, e nella vita si entra non solo con la
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mente, ma anche col cuore. Quale sentire fa entrare nella vita e si


costituisce come nutrimento della ricerca del sapere dell’anima? Zam-
brano invita a prendere in considerazione i “sentimenti amorosi e positivi”
(SP: 65).
Guardare concettualmente a questi (farli cioè oggetto della riflessione
teoretica) e questi coltivare (per fare della pratica un’amorosa pratica) non
è distrarsi dalla realtà nel suo essere impregnata di sofferenza; è che si
nasce per vivere, per incominciare, e la sofferenza, gli stati di dolore che
attanagliano l’anima, inibiscono il movimento, arrestano il cammino del
9
vivere. “I sentimenti bassi (invidia, risentimento) sono energia degradata” .
Si dice che dalla sofferenza s’impara, è vero o almeno può essere, ma
può esserlo solo a patto che dalla sofferenza ci si tragga fuori, e per trarsi
fuori occorre saper trovare nel centro dell’anima un sentire positivo, quello
che solo dà la forza di nascere, quello che solo nutre l’anelito alla
trascendenza. Quando la sofferenza è insostenibile, tanto da dilagare
nell’anima rendendola sorda ad ogni altro sentire, può accadere che le
energie vengano riservate unicamente ad anestetizzare il dolore, un modo
questo non meno drammatico del non uscirne.
Chi non esce dal dolore, chi si trascina nella sofferenza è perché non
sa trovare quella leva vitale che è il sentire amoroso e positivo, quello che
penso ci venga dall’impronta che lascia nell’anima la prima relazione che
ci apre al mondo, cioè la relazione materna. È la qualità del primo
sguardo che ci accoglie quello che semina nel nostro cuore la qualità del
sentire originario. “La prima cosa nell’essere umano non è guardare
quanto sentirsi guardato” (NM: 63). Zambrano, però, aggiunge anche
“senza sapere da chi né come”; invece da subito penso che si è guardati da
un ‘chi’ in carne ed ossa, e il come del suo guardare penetra la nostra
carne e la impregna di una tonalità emotiva originaria.
Per chi si occupa di educazione la tensione verso il sentire positivo è
cosa essenziale. Volere la vita, volere che l’altro trovi il suo cammino, e con
esso l’anelito che spinge a cercare la forma eccellente del suo tempo, chiede
di coltivare sentimenti positivi. Portare l’attenzione sul sentire positivo non è
negare la vita nella sua inaggirabile sofferenza. Si sa che c’è, si deve
accettarla. Non ci si può tirare indietro, il soffrire va patito fino in fondo.
Perché è la realtà e nella realtà occorre saperci stare. Ma tenere lo sguardo

9
Simone Weil, Quaderni. Voume secondo, cit., p. 74.

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92 Un metodo a-metodioo

sulla sofferenza non aiuta a trovare respiro. Occorre trovare altri modi di
sentire la realtà e questa possibilità si apre non combattendo la sofferenza,
ma coltivando sentimenti differenti, perché “non si padroneggia una tona-
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10
lità emotiva liberandosi da essa, ma in virtù della tonalità opposta” .

5.2. Saper accettare


Noi siamo esseri non finiti, non terminati con il compito di dar forma alla
nostra esistenza cercando quel cammino capace di illuminare il tempo
della vita. Una ricerca difficile perché ci scopriamo sempre opachi a noi
stessi. Scopriamo che il nostro essere ha le radici in “un fondo oscuro, che,
inespugnabile resiste” (DD), resiste al pensiero che cerca una compren-
sione del nostro essere. Chiamati a dare forma al proprio tempo si scopre
questo compito come non pienamente realizzabile. In questo senso la
condizione umana è drammatica.
Non meno drammatico è percepire che si può morire alla vita pur
rimanendo vivi. Si sente di essere vivi ma non di stare nella vita, come se il
nostro esserci non aderisse pienamente all’essere. È la ferita dell’essere: non essere
mai pienamente là dove si è, non essere aperti immediatamente alle cose,
essere mancanti, mancanti d’essere. Proprio in quanto esseri solo “per
metà compiuti” (B: 12), e quindi inaggirabilmente consegnati alla ricerca
della propria forma, siamo destinati alla solitudine.
È la costitutiva mancanza d’essere che obbliga gli esseri umani alla
cura, a prendersi cura della vita affinché da questo essere per metà
compiuti si pervenga alla forma del proprio poter essere. Ma quando si sta
in un rapporto riflessivo col proprio esserci accade facilmente che l’anima
sia presa dal timore che il proprio aver cura non produca nulla di
essenziale. Ci si sente invasi, allora, da una forma di inquietudine.
La vita tutta è impregnata di inquietudine; nessuna vita può essere
assolutamente calma e tranquilla. Ma ci sono momenti in cui l’inquietu-
dine è eccessiva, “oltre il limite della sopportazione” (SA: 80). Si è inquieti
sia a causa di eventi esterni, che irrompono imprevisti a scompigliare il
debole ordine dei nostri passi quotidiani, ma anche per eventi interni
all’anima. Ci si sente inquieti quando ci si rende conto di non avere
orizzonti di senso, quando mancano le ragioni necessarie che giustificano
il ritmo e la direzione del nostro camminare. E questo in conseguenza del
fatto che ci manca la visione, l’idea giusta della vita. Ci può mancare

10
Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 174.

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 93

perché all’improvviso ci rendiamo conto di non averla dal momento che


mai l’abbiamo cercata, oppure ci manca perché quella cui ci affidavamo
ha perso la sua verità, in quanto non più capace di farsi misura ontogene-
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tica del nostro camminare. Allora l’inquietudine si addensa nell’anima,


acquisisce un profilo spesso e pesante.
L’errore in cui si cade in questi momenti è quello di lasciarsi prendere
dall’ansia di colmare le nostre mancanze. Si innesca allora un lavorio
affannoso che nulla di vero produce, solo rumore, cha aumenta il disor-
dine. La cura si trasforma in “cupiditas”, in quel disordine dell’anima che
disaggrega la ricerca della propria forma nel disperdersi in una moltepli-
cità disparata di azioni all’inseguimento di cose che semplicemente riem-
piono il tempo. Cosı̀, anziché stare nella semplicità essenziale che viene
dal mettersi alla ricerca di ciò che è irrinunciabile, l’agire si disordina in
una pluralità inessenziale di direzioni.
Questo disordine dell’anima, che mina il processo di donazione di
senso dell’esistenza, si manifesta a livello di vita cognitiva come “dissipatio
11
mentis” , ossia come dispersione mentale, che consiste nel perseguire una
molteplicità di interessi, nell’ingombrare inutilmente la memoria di cose
non sempre essenziali, nell’inseguire ogni stimolo alla ricerca di cono-
scenze che solo riempiono la mente, nella vana illusione che l’accumulo
delle informazioni colmi il vuoto di verità. Nel vagare frenetico alla ricerca
di riempimenti il desiderio di conoscenza si polverizza in una molteplicità
di direzioni. Alla radice di questa dispersione della mente, cosı̀ come della
dispersione dell’anima, c’è il dilagare dell’inquietudine conseguente al non
saper accettare quella mancanza d’essere che è proprio della condizione
12
umana. Per contrastare il rischio del disordine occorre saper accettare .
Un sentimento fondamentale per poter respirare la vita è saper accettare
l’essenza della condizione umana, il suo essere costitutivamente mancante
d’essere. Accettare la vita cosı̀ come è data significa accettare di essere ben
poca cosa, senza farsi prendere da alcuna brama di essere altro. Accettare

11
Roberta De Monticelli, L’allegria della mente, cit., p. 169.
12
Il saper accettare non implica la pretesa di annullare l’inquietudine. L’inquietudine è
un sentimento costitutivo dell’esistenza umana proprio in quanto mancante, ed è alimento
necessario della vita cognitiva; funziona da propellente alla ricerca. Ma quando l’inquietu-
dine eccede la sua misura sostenibile si cade nel disordine esistenziale e/o cognitivo. Allora
per trovare un sentire positivo che aiuti la nostra ricerca d’essere non si dovrebbe agire
sull’oggetto che costituisce la causa del problema, ma si dovrebbe spostare lo sguardo sul
sentimento opposto e quello si cerca di coltivare. È questa delocalizzazione oppositiva
dell’attenzione, che fa germinare l’altro differente polo del sentire, la condizione necessaria
per trovare quell’equilibrio emotivo essenziale sia al cuore che alla mente.

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94 Un metodo a-metodioo

di sentirsi niente di più che “una pagliuzza d’essere, un po’ di polvere


smaniosa di entrare nella luce” (DD: 23).
Accettare la condizione umana significa accettare la fatica di conti-
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nuare a nascere senza che ci sia dato sapere in anticipo qual è il giusto
ritmo da dare al proprio tempo, la buona direzione da seguire nel proprio
cammino. Accettare di arrischiare il nuovo senza paracaduti. Ma ancor
più difficile da accettare è il compito di continuare a nascere sapendo che
da subito s’inizia a morire; e tale compito diventa ancora più arduo col
passare del tempo, quando l’anima ha avuto esperienza della sofferenza e
con essa della difficoltà di tenere il cuore aperto al desiderio d’altro. Il
difficile è accettare di sentirsi nelle tenebre, senza i chiari di luce cui la
mente aspira: accettare la ferita dell’esserci (DD: 19).
Sentire che il tempo è inabitabile e consumabile non può non provo-
care angoscia. Quando ci si sente arpionati dall’angoscia, la reazione
subitanea è quella di cercare di evitarla. Ma l’evitamento di questo
sentimento, che è rivelatore del nostro essere, è un’azione pericolosa. Ciò
che occorre fare è accettarla, ossia non sottrarsi al soffrire, ma patirlo.
Accettare è stare nella passività e l’essere passivi richiede di disattivare
ogni attaccamento alla brama di essere altro, di poter attingere un altrove
differente dalla condizione terrestre. Accettare “significa non voler alterare
in nessun modo l’ordine del mondo, per strano che possa sembrare;
guardarsi senza rancore, avere smesso di vedersi e sentirsi finalmente
come qualcosa che è” (S: 47).
È questo l’insegnamento che Zambrano matura attraverso Seneca e
Agostino: accettare la realtà, accettarla senza condizioni (CGL: 53) e senza
cercare consolazione alcuna (DD: 57), perché la consolazione è frutto
dell’immaginazione e l’immaginazione ci sradica dalla realtà. Il cercare
consolazioni è da evitare perché contrario al movimento dell’entrare nella
13
vita, che è possibile solo se si sta nell’ordine della verità . Il saper accettare
è sentimento essenziale alla vita perché libera l’anima dal rancore, dal
risentimento che prende al sapersi non compiuti, non terminati, e addos-
sati del compito mai terminabile di trovare la forma del proprio esserci. Il

13
Sulla necessità di imparare ad accettare la sofferenza molto ha riflettuto Simone Weil,
che sostiene si debba accettare la vita cosı̀ com’è, alludendo quindi alla valenza positiva
della disposizione passiva dell’anima. Dà da pensare la sua riflessione secondo la quale non
si deve mai cercare una consolazione al dolore, perché la felicità che si va cercando è di un
ordine del sentire differente da quello della sofferenza e della consolazione. Lei dice che “è
percepita con un altro senso”, un senso che si forma attraverso uno spostamento dell’atten-
zione che sarebbe possibile attraverso un coinvolgimento della persona intera, nella sua
anima e nel suo corpo (Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 165).

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 95

saper accettare riconcilia con la vita e quando l’anima è distesa, quando è


in pace col tempo, evita pericolosi azzardi simbolici, cioè quelli che
14
portano a fuggire la condizione umana .
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Lasciarsi prendere dalla tentazione di fuggire la condizione umana è


un sentimento negativo che si manifesta alle origini della cultura occiden-
tale. È la matrice generativa che innesca la περια̌γωγ τ#ς ψυχ#ς, ossia la
torsione radicale operata dal filosofo protagonista del “mito della caver-
na”. Nell’ontologia platonica il mondo della vita è considerato un mondo
fatto di ombre ingannevoli; pertanto se il filosofo vuol arrivare a cogliere
la verità deve recidere i suoi legami col mondo vissuto per ascendere al
cielo limpido e puro delle idee, dove nulla diviene ma tutto è. Si produce
cosı̀ la derealizzazione del mondo della vita.
Cosa origina questa violenza, questo strappo? È l’incapacità di accet-
tare la vita nella sua incerta fragilità, incapacità che prende la forma del
risentimento conseguente al sentire insostenibile il peso dell’esistenza. Un
sentimento, il risentimento, che produce la chiusura alla vita e sul piano
del pensiero innesca la tensione che spinge alla ricerca di un altrove. Da
qui si genera l’invenzione dell’ontologia della scissura fra i due mondi,
quello imperituro dell’essere e quello illusorio del divenire, ontologia che
nutre quella visione che ci vorrebbe altro dalle cose che divengono e affini
alla realtà immateriale del mondo delle idee. Tale è la brama d’altro,
come reazione alla percezione della finitudine, che l’ontologia platonica
non fatica ad acquisire credibilità, e su questa viene a fondarsi l’epistemo-
logia dell’ascensione alpinistica. Di fronte ad un ordine del mondo difficile
da accettare, dove l’esistenza si trova esposta al dolore nudo, quello che
lacera i tessuti dell’anima, si inventa un altrove, quell’altrove con cui si
vorrebbe placare il rancore che è uno dei sentimenti primari della vita (S:
31).
L’incapacità di accettare l’essenza della condizione umana è quel
sentimento tragico che, dopo aver contrassegnato la modernità, non solo
risulta tuttora operante, ma è divenuto drammatico nel momento in cui

14
Figura esemplare della capacità di elaborazione di questo sentimento è Agostino, il
quale, partendo da un’inimicizia tra sé e la divinità, un’inimicizia che gli fa sentire estranea
la sua stessa vita, arriva ad accettare la realtà senza condizioni; un’accettazione che
comporta il disinteressarsi di sé, al punto da nemmeno pretendere risposte sul proprio
essere come, invece, fa Giobbe. Ed è accettando la propria condizione che arriva a trovare
se stesso. A questo sentimento è difficile che pervenga la ragione moderna, perché dal suo
inizio si qualifica come esercizio del dubbio. Invece, proprio il metodo del non cercare
aiuta la mente a trovare la postura essenziale per sviluppare la capacità di accettare.

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96 Un metodo a-metodioo

per soddisfarlo non è più bastata la metafisica, ma si è cominciato a far


ricorso alla tecnologia. Ora per sfuggire ai limiti della vita terrestre non
solo abbiamo portato l’energia del sole sulla terra, ma attraverso l’ingegne-
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ria genetica interveniamo nelle zone più intime e nascoste del processo
vitale. Inoltre, più semplicemente ma non meno drammaticamente, non
sappiamo accettare il nostro corpo e azzardiamo interventi che mettono a
rischio la vita. Anche nell’uso di sostanze chimiche mirate ad ottimizzare
le prestazioni atletiche, la tecnologia è posta al servizio di un progetto di
vita fuori dall’ordine, smisurato.
La smania ingegneristica che ci vorrebbe soggetti capaci di esercitare
una piena sovranità sui processi naturali, sulle dinamiche sociali, sulla vita
del corpo, nonché sull’esperienza interiore, è mossa da quel desiderio di
sfuggire la condizione umana che ha origine nell’incapacità di accettare la
sua qualità fragile ed incerta. Non si vorrebbe cioè che il processo di
costituzione della forma del nostro esserci incontrasse limiti fisici e tempo-
rali, e neppure che fosse cosı̀ poco autosufficiente rispetto al contesto
biologico e a quello sociale. Si vorrebbe guadagnare una condizione di
assoluta padronanza dell’esistenza, che consisterebbe nel poter controllare
le reti di relazioni eco-socio-mentali in cui ci si trova implicati. Da qui la
messa in atto di approcci manageriali sia rispetto alla propria vita interiore
che al tessuto di relazioni in cui viviamo. Ma l’andare alla ricerca di una
condizione di sovranità che consenta di dominare il tempo della vita non
può costituire quella giusta misura ontogenetica di cui abbiamo necessità
per imprimere un principio d’ordine al processo di auto-eco-composizione
dell’esistenza, perché tale condizione non appartiene alla vita umana e
quando ci si lascia guidare da desideri che non tengono conto della qualità
del reale la vita precipita nel disordine. È l’incapacità di accettare certi
limiti che è alla radice di un modo smisurato di abitare il proprio tempo,
cioè un modo che manca della giusta misura dell’esistere, quella che può
essere cercata solo a partire da una disposizione di fedeltà, per quanto
sofferta, alla qualità fragile ed incerta della condizione umana, a quell’es-
sere vacillante e inerme che noi siamo.
Per uscire dal disordine provocato da questo agire smisurato occorre
imparare ad accettare la vita umana cosı̀ come ci è data. Cosı̀ come “le
radici che si sono rifiutate di sostenere un peso perdono la condizione di
fondamento” (B: 17), cosı̀ quel pensare che si rifiuta di sostenere il peso
della realtà non può essere un pensiero efficace, capace di costituirsi come
misura misurante del vivere. La mente è chiamata a lavorare non per
fuggire il reale ma per entrare nella realtà.
È vero che la tensione a oltrepassare i limiti è propria dell’essere

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 97

umano e che senza questa tensione alla trascendenza non sarebbe fiorita
alcuna civiltà. La trascendenza è costitutiva della condizione umana ed è
la capacità che hanno gli esseri umani di protendersi verso l’ulteriore,
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agendo oltre l’ordine dato. Ma la tensione alla trascendenza, proprio


perché implica il protendersi oltre, comporta un rischio, quello della
dismisura. Il problema, allora, dell’essere umano consiste nel rispondere a
questa tensione sapendo però accettare certi limiti, nel senso che la ricerca
di una buona forma della vita, quella cioè che consente di attualizzare
l’eccellenza che costitutivamente l’essere umano va cercando, va concepita
come un divenire perfettamente quello che si può essere stando dentro i
vincoli che costitutivamente strutturano la condizione umana.
Da un’idea del trascendere come un oltrepassare ogni limite, mossi da
una misura non umana dell’esistere, si tratta di transitare ad un’idea di
trascendenza come ricerca dei modi di attualizzare le possibilità di realiz-
zazione esistenziale senza rischiare che l’andare oltre l’esistente scivoli
nella dismisura. Da cercare è quella che Nussbaum definisce “trascen-
15
denza immanente o interna” , per indicare quel principio di visione della
miglior forma di vita possibile che innerva la ricerca dell’ulteriore coniu-
gandola con la disposizione a sorvegliare la tentazione a forzare ogni
limite. Il principio della trascendenza immanente concilia l’anelito all’ulte-
riore con la capacità di accettare la vita cosı̀ come ci è data, che però non
significa rinunciare ad andare oltre l’ordine esistente venendo cosı̀ meno
alla possibilità di realizzare ciò che si intuisce aprirsi nel tempo, quanto
rispondere alla chiamata di attualizzare il possibile del proprio essere
secondo quel principio di equilibrio che consente di prendere le distanze
sia dalle azioni che mirano ad oltrepassare i limiti, cercando una vita del
tutto differente da quella che ci è data, sia da ogni atteggiamento
rinunciatario, per coltivare invece quelle visioni che invitano a divenire
tutto il possibile del proprio poter essere più proprio.
Se la vita acquista la sua qualità in relazione al che cosa del suo
16
desiderare , allora una vita mossa dal principio della trascendenza imma-
nente, quello che direziona il desiderio verso le cose che stanno nell’ordine
del possibile immanente, è una vita conciliata con l’essenza della condizione
umana.
Occorre, però, intendersi sul significato di ‘possibilità’. In analogia con
la distinzione istituita dal biologo Adolf Portmann fra “apparenze autenti-

15
Martha Nussbaum, Love’s Knowledge, Oxford University Press, New York 1990, p. 379.
16
Agostino cit. in Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 30.

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98 Un metodo a-metodioo

che”, quelle che vengono alla luce spontaneamente, e “apparenze inauten-


17
tiche”, che diventano visibili allorché s’interviene a manipolare il reale , si
può operare la distinzione fra possibilità autentiche, quelle che si aprono
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spontaneamente dentro i vincoli che definiscono la condizione umana, e


possibilità inautentiche, che vengono prodotte quando si lavora a disoccultare
ciò che spontaneamente non appare. La manipolazione del DNA, la
produzione di energia nucleare, la ‘creazione’ di nuove forme di vita
attraverso la manipolazione biotecnologica, sono possibilità non apparenti,
che divengono tali in conseguenza di un intervento che penetra nell’inti-
mità più recondita dell’essere. Arrischiare possibilità non apparenti, anzi-
ché dilatare il ‘qui’, dischiude un ‘altrove’. E quando si aprono le
possibilità di un altrove allora ci si sporge su un abisso, un rischio
pericoloso perché dell’altrove manca ogni saggezza a gestire le azioni che
si rendono praticabili.
Questo modo della trascendenza che si spinge verso possibilità non
apparenti intensifica il senso di inquietudine connesso in questo caso al
percepire la mancanza di padronanza sull’imprevedibile che l’altrove
porta con sé. È vero che proprio della condizione umana è un modo
dissidente di abitare la terra, che aspira a liberarsi dai vincoli che la
condizione terrestre pone per cercare una legge propria (A: 62); ma per
trovare un modo felice di muoversi nel tempo occorre la massima cautela
rispetto alla decisione di inseguire visioni che spingono a perseguire una
differente qualità della condizione umana, che si esprime nel cercare il
completo controllo della natura esterna e di quella interna nonché dei
processi relazionali di cui ogni vita è tessuta; da perseguire è, invece, la
miglior forma possibile che questa condizione fragile e arrischiata consente.
18
Noi non siamo “piante celesti” , ma piante che guardano il cielo stando
radicate nella terra, quindi esseri viventi che, destinati a vivere in un
frammezzo, siamo chiamati a trovare la giusta misura dell’esistere fra la
remissione incondizionata all’immanenza e la tensione sradicante della
trascendenza. Respirare la vita significa realizzare la pienezza di ciò che si
può essere senza soccombere ai vincoli che strutturano l’esistenza, ma
anche senza impantanarsi in derealizzanti fughe dalla finitezza umana. In
questo senso la questione chiave sta nel promuovere la ricerca di una
forma della vita che sia guidata da una misura misurata del progetto esi-
stenziale. Una ricerca questa che non può non situarsi nell’orizzonte di un
sapere dell’anima che assume come criterio di misura il principio della

17
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 111.
18
Platone, Timeo, 90 d.

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 99

“trascendenza immanente”, poiché orienta il processo del dar forma alla


propria umanità secondo il criterio del restare fedeli alle proprie radici
terrestri senza per questo rimanere assenti di cielo.
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La tensione costitutiva dell’essere umano ad attualizzare una forma


eccellente del tempo della vita non va declinata come tensione ad oltrepas-
sare ogni limite, quanto piuttosto a dare compimento perfetto al possibile
stando alla qualità propria della condizione terrestre. Questo sentimento
di realtà trova espressione nell’Ulisse omerico, il quale posto di fronte
all’offerta di Calipso di una vita sciolta dai vincoli della condizione
terrestre, sceglie di ricominciare il suo viaggio; questa decisione può essere
assunta come metafora della consapevolezza che il meglio per l’essere
umano non sta in un altrove che non ci appartiene, ma nell’accettare di
star esposti al divenire incerto e difficilmente governabile dell’esperienza
cosı̀ come ci è data.
Il saper accettare è una sorta di conversione (NM: 80), convertirsi ad
accogliere il passare di tutte le cose, il passare di se stesso, e che in questo
passare ogni forma dell’essere è sempre troppo fragile.
Va detto che la capacità di accettare non può essere concepita come
un apprendimento che si può realizzare pienamente e in forma definitiva.
Impossibile, infatti, essere capaci di un’accettazione completa. Se cosı̀ fosse
si potrebbe raggiungere quella quiete totale dell’anima che è beatitudine.
Ma questa condizione non ci è data, perché il profilarsi della morte come
esito inevitabile della vita genera un’angoscia che, impossibile da evitare,
impedisce la quiete chiara cui si aspira. Per questa ragione imparare ad
accettare è un apprendimento mai finito, mai terminato, come la vita. Un
apprendimento che ha da esercitarsi proprio rispetto alla materia di cui la
vita è fatta, cioè il tempo.
In questa prospettiva acquista primarietà ontologica il saper accettare
il tempo, ossia di essere nel tempo e che il tempo è ciò che passa. Il tempo
è l’elemento della vita, la vita è fatta di tempo. Ma proprio dal tempo
l’essere umano inferisce una profonda minaccia, perché difficile è accet-
tare la finitudine della condizione umana. A pensarla nella sua essenza la
vita risulta essere consumo incessante di tempo, e mentre consuma il
19
tempo appare dal tempo consumata . La riflessione sul tempo della vita
porta a vedere in esso niente altro che un progressivo venir meno
dell’essere. E questo pensare la vita come tempo dal tempo consumata può
generare nella mente “il risentimento dell’essere qui” (DD: 22), del nostro
stare nudi, senza difese, esposti all’accadere imprevedibile delle cose.

19
Agostino, Confessioni, IX, 10.

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100 Un metodo a-metodioo

Il risentimento fa precipitare l’anima nel disordine, quel disordine


evidente quando ci si lascia prendere dal desiderio di andare oltre le porte
del tempo, che si manifesta epistemologicamente nella ricerca di un sapere
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la cui validità non conosca la corrosione operata dal tempo, è “un anelito
che giace, spesso inavvertito, nel più profondo di ogni persona” (B: 111).
Si crea cosı̀ quel paradosso per cui il tempo, oltre a costituire la sostanza
della vita si rivela l’ostacolo che si oppone all’anelito di sottrarsi al tempo
che passa. “Il fluire del tempo fa venire fuori, fa risvegliare, l’ansia di
eternità della vita” (B: 111). Quando non si sa accettare il proprio essere
finiti si rischia che l’anima venga invasa da quell’ansia corrosiva che
finisce per costituire una solida resistenza a quelle forme di realizzazione
esistenziale che richiederebbero, invece, il piacere dell’esserci. La vita per
essere vissuta intensamente richiede una forma di quietudine dell’anima, il
saper accettare il tempo, che è tutt’uno col saper accettare la vita:

Dato che non siamo nulla o siamo appena qualcosa, perché non sorridere
all’universo, al giorno che avanza, perché non accettare il tempo come un
regalo splendido? (DD: 22).

Questa conversione, quando accade, fa della vita uno “spazio vivente


dove il presente germina” (NM: 81), nel senso che un’anima convertita
all’accettazione della sua condizione ontologica è quella che si lascia
distendere nel presente. Un presente dilatato, germinante, perché non più
schiacciato fra il passato e il futuro, ma respirato nell’istante del suo
accadere.
Accettare il passare di tutte le cose, sciogliendo ogni attaccamento e
sgravando l’anima dall’ansia di utopie atemporali, è una sorta di conver-
sione (NM: 80). Quando accade, tale conversione rende la vita uno spazio
arborescente, nel senso che un’anima convertita all’accettazione della sua
condizione ontologica è capace di lasciarsi fecondare dalle differenti possi-
bilità del presente. Un presente germinante, perché non più schiacciato fra
il passato e il futuro, ma respirato nell’istante stesso del suo accadere.
L’accettare la vita si modula secondo differenti tonalità a seconda
della fase o del momento della vita che stiamo vivendo. Nella giovinezza si
accetta il tempo come dono da godere, poi quando il tempo si è portato
appresso sofferenze il saper accettare diventa remissione al proprio essere.
Abbiamo, infatti, sufficiente essere perché si aprano ferite; accettare di-
venta allora quel sentire che matura dal lasciarsi vivere fino in fondo nella
nostra debolezza ontologica. È perciò il sentimento primigenio, condizione
essenziale perché si possa nascere al mondo.
Il rapportarsi serenamente al tempo è, però, il compito più difficile da

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 101

affrontare. Risulta con particolare evidenza in quei momenti in cui ci si


sente senza via d’uscita, come immobilizzati. Questo percepirsi senza
possibilità accade quando il tempo della vita ha smarrito il suo ordine,
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perché il passato viene a sovrapporsi al presente e cosı̀ chiude il futuro. Il


tempo si avviluppa su se stesso, nel senso che il passato invade il presente
cosı̀ che dal presente non si vede il futuro, quando non si sta conciliati con
la vita. Quando il passato non è passato e sta lı̀ ad occupare lo sguardo, ci
tiene voltati, rigirati all’indietro, quindi bloccati. Ma il passato non si può
modificare, neppure nelle conseguenze che ha sul presente. Va accettato
20
cosı̀ com’è, perché “il mio passato è sempre nelle mani degli altri” , nelle
interpretazioni che essi costruiscono e da cui dipende il loro re-agire
rispetto al nostro agire. La nostra sostanza relazionale è evidente nel suo
lato problematico proprio quando ci si rapporta al passato, perché sono le
mosse degli altri che spesso decidono il suo senso. Non sempre ci è
concesso di lavorare ad una ermeneutica collaborativa del passato, attra-
verso cui pervenire a significazioni condivise. Quando ciò non è possibile
non resta altro che accettare le interpretazioni in cui ci troviamo situati.
Questa azione non agente, con cui si accetta di stare consegnati ad altro
rispetto al proprio desiderio, chiede di lavorare nella profondità di sé per
disattivare alla radice i desideri impossibili. E il desiderio si disattiva solo
dopo che siamo arrivati ad accettare la sua impossibilità, il non-senso.
Solo accettando ci si riconcilia col tempo. Il saper accettare mette le cose
al loro posto, mette il passato al passato e sgombra della sua ombra il
presente.
Il saper accettare non va inteso come rassegnazione, come rinuncia, ma
come quel conciliarsi con la realtà che è condizione necessaria ad ogni
movimento dell’essere. Accettare quieta l’anima e la quiete fa trovare il
proprio centro. E lı̀, nella distensione, la speranza può respirare. Non c’è
speranza, infatti, se non c’è accettazione della realtà. Nessun sentimento se
ne sta da solo e perciò non si dà una comprensione atomistica e disgiuntiva
del sentire. Il saper accettare per accadere ha necessità di stare intrecciato
con un altro sentimento, il sentimento della speranza, ma a sua volta la
speranza ha necessità di nutrirsi della capacità di accettare (B: 111).
Quando si adotta una logica relazionale, quella più adatta a spiegare i
fenomeni del mondo vivente, permane tuttavia il rischio di gravarla di un
approccio sequenziale e gerarchico, come quello che stabilisce che l’accet-
tazione della realtà costituisce una precondizione per l’emergere della
speranza; in questo caso si verifica una interpretazione semplicistica,

20
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 85.

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102 Un metodo a-metodioo

perché è difficile stabilire precedenze, soprattutto nel mondo oscuro del


sentire, di cui abbiamo scarsa e frammentaria conoscenza. Ci è possibile
parlare solo di intreccio di sentimenti, o meglio di codipendenza evolutiva,
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nel senso che si può accettare la propria condizione se si ha speranza che


in essa comunque ci si realizzi e si ha speranza se si accetta la realtà cosı̀
come ci è data senza lasciarsi prendere dalla tentazione di fuggire ad essa.

5.3. Sperare
Nell’essere umano, mancante di una forma precisa dell’essere, è presente
come esigenza ineludibile quella di esserci, di realizzare le proprie possibi-
lità. Ma proprio il sapersi nel tempo mostra la difficoltà di divenire
pienamente il proprio poter essere, perché all’opera di trovare la propria
forma sembra che il tempo non basti mai. A noi, fatti di tempo e mancanti
di essere, è chiesto di divenire il nostro essere in un tempo che ci sembra
non sufficiente alla tessitura dell’esserci. Cosı̀ accade che il mancare
d’essere e il mancare di tempo siano la stessa cosa. Saperlo genera
quell’angoscia che può paralizzare ogni movimento vitale, ogni respiro nel
presente. Per poter esserci occorre allora saper accettare, saper accettare
di stare in questa strettoia ontologica.
Accettare di essere nel tempo, sapendo che il tempo finisce significa
nutrire la speranza che il proprio realizzarsi possa accadere comunque.
Perché la speranza “è fame di nascere del tutto, di portare a compimento
ciò che portiamo dentro di noi solo in modo abbozzato. In questo senso la
speranza è la sostanza della nostra vita; grazie ad essa siamo figli dei nostri
sogni” (SA: 90). Per divenire il proprio poter essere ciascuno ha necessità
di una visione. A nessuno però è data la possibilità di afferrare una visione
chiara del proprio divenire. Se si avesse una conoscenza esatta della forma
cui tendere allora il nostro camminare sarebbe rischiarato da una luce
tanto chiara da non rendere necessario più nulla. Invece è inevitabile
trovarsi ad attraversare zone oscure, dove a sostenere la fatica del cercare
la giusta direzione del proprio camminare può essere solo la speranza. In
questo senso “la speranza è il vuoto attivo di un essere insufficiente a se
stesso, di un essere che non è ancora” (NM: 51).
Vivere è anelare, afferma Zambrano richiamando Ortega, ma anelare
è il segno minimo dell’essere presenti nel tempo. La vita è vissuta quando
si respira il tempo, e per respirare a pieni polmoni occorre sperare, sperare
che nel tempo noi possiamo essere, che possiamo realizzarci. Perché
l’essere umano è colui che ha necessità di realizzarsi. “Deve crearsi il

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 103

proprio essere, che non ha ricevuto già compiuto” (SA: 91). Ma per dare
forma al proprio essere occorre energia e questa energia viene dalla
speranza. “La verità è la speranza” scrive Machado nel testo poetico
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Parabole. La speranza è l’aria che consente all’anima di respirare la vita.


Essere senza speranza è essere senz’aria. La speranza è il motore che
alimenta il movimento ascensionale della propria realizzazione:

è il fondo ultimo della vita, la vita stessa ... che nell’essere umano si dirige
inesorabilemnte verso una finalità, verso un oltre ... La speranza è la
trascendenza stessa della vita che incessantemente rampolla, mantenendo
aperto l’essere individuale (B: 106)

Ci sono due tipi di speranza. C’è la speranza ‘di’ qualcosa di preciso, è


attesa di qualcosa di concreto e si concentra sul suo oggetto (B: 103). E c’è
la speranza che non è legata a qualcosa di definito, che nulla spera di
immediato (B: 104): è la speranza pura, quella consegnata all’immensità. È
questa la speranza che nutre la vita e ci fa entrare nella realtà. È per opera
della speranza pura che “l’uomo può realizzare quella cosa impossibile che
è camminare sopra il proprio tumulto interiore, sopra il tempo che gli
passa, e può in un certo senso elevarsi e sostenersi sopra la propria
21
profondità” (B: 114) .
Di questa speranza Zambrano dice due cose: si produce di rado e
quando si manifesta lo fa in persone che hanno perso tutto e che proprio
in quanto tali nulla sperano di concreto, inoltre sarebbe un sentimento che
viene dal nulla “non si nutre, si direbbe, di nulla. E può sostenere la vita di
chi cosı̀ la sente” (B: 104).
Difficile dirlo con certezza, ma forse questo tipo di speranza non si
manifesta cosı̀ raramente; se si presta attenzione la si sente incarnata in
molte delle persone che incontriamo, quelle che sembrano capaci di
galleggiare sopra gli avvenimenti non per incuranza ma per un guadagno
di sapiente leggerezza, quelle che ti raccontano la sofferenza senza farsi
artigliare da questa, quasi fosse una cosa di altri. E non necessariamente

21
Per Zambrano lo stoicismo, respirato soprattutto sui testi di Seneca, è una visione
significativa, perché è una di quelle che risponde alla ragione d’essere della filosofia di
aiutare a vivere. Lo stoicismo insegna che per raggiungere la quiete dell’anima occorre non
sperare nulla, né sperare né temere nulla. Solo quando non spera e non teme l’anima
diventa libera e capace di intensa ricettività (A: 63). Questa etica dell’evitamento della
speranza non contraddice il discorso qui sviluppato che tende a mostrare la centralità di
questo sentimento per la filosofa spagnola, perché per lei da evitare è la speranza che
esprime un attaccamento a qualcosa, non certo la speranza pura.

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104 Un metodo a-metodioo

sono persone che hanno perso tutto. Se pensi al loro modo di essere
sembra che la speranza li accompagni da sempre, sia la sostanza della loro
vita.
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Occorre poi intendersi su questo venire dal nulla della speranza. Si


può accettare questa affermazione se si pensa alla speranza come ad un
sentimento primigenio, che appartiene al nostro essere in quanto possibi-
lità. Ma non sempre le possibilità si attualizzano, quando la speranza
accade è perchè l’anima ha potuto nutrirsi di speranza. La speranza si
nutre di speranza, cosı̀ come la fiducia si nutre di fiducia. Il depositarsi
nell’anima di questi sentimenti basilari della vita al suo inizio dipende dal
verificarsi di certe condizioni, ossia dalla qualità dei primi sguardi in cui
siamo guardati, perché questi primi sguardi, quelli che ci accolgono alla
vita, diventano poi nostri.
La teoria dello sviluppo di matrice vygotszkjana sostiene che lo
sviluppo delle funzioni superiori del pensiero è il risultato di un processo di
interiorizzazione di processi di pensiero socialmente situati cui l’individuo
partecipa; ossia, le capacità intrasoggettive sarebbero funzione di quelle
intersoggettive. Lo stesso principio di spiegazione dello sviluppo cognitivo
si può ipotizzare valere anche per la sfera del sentire, nel senso che
l’anima all’inizio si strutturerebbe interiorizzando il clima emotivo in cui
viene a trovarsi situata: la speranza nutre la vita del cuore quando questo
respira in un ambiente impregnato di speranza.
Ci sono vari tipi di indigenza di cui può capitare di soffrire nel corso
della vita. C’è l’indigenza materiale di chi non ha nulla o troppo poco per
soddisfare le esigenze primarie, si vive allora in una tale povertà in cui la
speranza è sentimento assente; ciò di cui si ha necessità in questi casi è di
quelle azioni sociali capaci di far sentire il futuro, ossia di vedere la
possibilità di un futuro differente. Ma c’è un altro tipo di indigenza, quella
affettiva, che consiste nel mancare di affetti primari, che si verifica quando
all’inizio della vita vengono a mancare quelle relazioni in cui ci si sente
accolti e protetti. La chiamano “deprivazione di cure primarie”, un
fenomeno che segnerebbe l’anima di un’indigenza difficile da colmare.
Questa indigenza primaria dell’anima ha origine nella mancanza di cure
affettive che si traduce in deprivazione dell’energia che sostiene la spinta
alla trascendenza. L’indigenza affettiva si qualifica essenzialmente come
mancanza di quello spazio relazionale in cui respirare sentimenti amorosi
e positivi, come la speranza e la fiducia. Quando all’inizio della vita si è
patita questa indigenza il mestiere di vivere diventa un compito arduo.
La forma dei sentimenti che permeano l’anima ci viene dalla qualità
delle relazioni primarie che strutturano il nostro essere, quelle relazioni

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 105

attraverso le quali abbiamo aperto il nostro sguardo sul mondo. Prima di


tutte la relazione materna. La speranza, la fiducia, il saper accettare, non
sono sentimenti che vengono dal nulla, ma si apprendono vivendo rela-
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zioni primarie permeate da questi sentimenti, solo allora questi diventano


carne della nostra carne.

5.4. Avere fiducia


Cosı̀ come non si dovrebbe considerarli disgiuntamente dalle relazioni in
cui prendono forma, là dove essi hanno le loro radici, allo stesso modo i
sentimenti non andrebbero considerati separatamente l’uno dall’altro,
secondo quella procedura atomistica propria del metodo cartesiano che
aveva tolto di mezzo il sentire. I sentimenti sono sempre intrecciati l’uno
con l’altro, avviluppati come le viscere, dice Zambrano. E il sentimento
con il quale sta assieme la speranza è la fiducia, la fiducia nella vita.
Perché nel fondo della speranza pura, “assoluta, possiamo distinguere
qualcosa che la sostiene: la fiducia. La speranza sostiene ogni atto della
vita; la fiducia sostiene la speranza” (B: 107). Quello che Zambrano più di
ogni altra cosa considera essenziale per dare forma all’esistenza è di
riconciliarsi con la vita, e poiché la vita è qualcosa che supera ogni
possibilità di comprensione, solo il “nutrire completa fiducia” (DD: 36) ci
riconcilia con ciò che è situato oltre la comprensione umana.
La fiducia sta in una relazione ricorsiva con la capacità di accettare la
vita, quella che sola ci consente di vedere (piano epistemologico) e di
vivere (piano esistenziale) la vita nella sua pienezza. Perché avere fiducia e
saper accettare genera nell’anima quella quiete – ben conosciuta dai
mistici – che rappresenta la condizione necessaria affinché la realtà si
disveli e si possa cosı̀ entrare in essa:

... l’attitudine della vita umana che denominiamo fiducia rappresenta il


luogo in cui la realtà appare. Tanto più ampia è la fiducia, tanto più grande
la realtà di cui godiamo (SA: 87).

La fiducia è sentimento della passività perché è apertura, apertura alla


vita, è “fiducia in tutto e in niente, fiducia pura la cui ricchezza illimitata
ci lascia supporre che sia inesauribile” (SA: 86).
Riprendendo Ortega y Gasset, Zambrano concepisce la fiducia, quella
assoluta, quella in tutto e in niente, la fiducia pura (SA: 86), come quel
sentire che ci apparterrebbe naturalmente, perché l’essere umano sarebbe
costitutivamente fiducioso. Questa fiducia originaria sarebbe nata con noi

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106 Un metodo a-metodioo

configurandosi come il sostrato primigenio del nostro essere. È perché la


fiducia radicale si annida nel profondo del cuore che l’essere umano riesce
a proferire la parola. Senza fiducia non parlerebbe. “Si direbbe persino
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che la fiducia radicale e la radice della parola si confondano tra loro o si


diano in un’unione che permetterebbe alla condizione umana di emer-
gere” (CB: 28). Qualunque tipo di sfiducia o di dubbio può prodursi solo
perché esiste una fiducia originaria già presente nell’anima.
Ma neppure la fiducia, come anche la speranza, viene dal nulla; essa
prende forma nelle relazioni primarie che strutturano il nostro essere.
Zambrano afferma che speranza e fiducia risiedono nelle viscere (SA: 90);
liberamente interpreto le viscere come la matrice generativa del nostro
essere, che è matrice relazionale.
Stare in relazione è essenziale alla vita. È stando con altri che la
responsabilità del dar forma al tempo, quella che ci chiama a venire nella
luce del senso che vivifica la vita, risulta sostenibile. Non c’è vita vera se
non tenendosi per mano con altri. Sentirsi per mano con altri rassicura; il
respiro allora si quieta, e respirando il cuore può sciogliersi dal rischio di
vivere la vita con rancore, con risentimento (CGL: 65). Da qui la
centralità della carità, che è sentimento essenziale per dar vita all’azione
generativa di realtà. Proprio per questo nostro essere i pensieri che
pensiamo e i sentimenti che sentiamo, l’essere in relazione è condizione
della vita della mente, perché non c’è possibilità di essere, e dunque di
pensare e di sentire, se non nella condivisione. La relazione di cui ciascuno
ha necessità per esistere è quella capace di alimentare il cuore di fiducia:

È difficile abbandonarsi alla vita con fiducia, ..., se non siamo cresciuti cosı̀,
sentendoci guidati da una mano forte e delicata che sa misurare (SA: 119).

La fiducia mette radici nell’anima quando si ha esperienza di relazioni


primarie con persone che ci guardano e guardano il mondo con fiducia;
persone che senza nascondere il peso dell’esistenza sono capaci di offrire
un appoggio tenero e incondizionato. “È questa l’educazione fondamen-
tale” (SA: 119). Quando l’anima ha ricevuto il dono di questa educazione
allora vengono poste le basi necessarie per affrontare con misura il
mestiere di vivere e niente potrà sradicare dall’anima questa fiducia
originaria. È nelle relazioni primarie che va cercato “il fondamento
22
dell’esperienza dell’essere” .
Zambrano individua la matrice generativa di questa fiducia originaria

22
Donald Winnicott, cit. in Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 164, nota 131.

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 107

nella relazione paterna (SA: 120); sapendo l’importanza della relazione


materna preferisco parlare di relazioni primarie, che diventano positiva-
mente significative sul piano della costituzione dell’essere quando nutrono
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l’anima di sentimenti amorosi. Chi manca dell’esperienza di queste rela-


zioni primarie, infuse di tenera fiducia e animate da una speranza pura, è
come lasciato senza protezione. E l’anima, quando non si sente custodita, si
riempie di paura; non quella ordinaria, intenzionale, che cioè sta in
relazione con un oggetto ben preciso, ma una paura smisurata perché è
paura di vivere. Quando è eccessivo, il sentimento della paura toglie il
respiro e innesca un agire che manca della giusta misura. Chi, invece, cresce
in uno spazio relazionale permeato di fiducia è come se accumulasse
nell’anima riserve di quell’energia positiva che è necessaria per interpretare
la vita come aperta sempre ad ulteriori possibilità di ricominciare a nascere.
Se si ragiona pedagogicamente a partire dall’idea che esperienze
relazionali primarie permeate da un sentire positivo verso la vita costitui-
scano l’educazione fondamentale, allora è necessario che dei primi tempi
della vita di ogni nuovo venuto al mondo si abbia la massima cura,
predisponendo quelle condizioni che facilitano il prender forma di questo
tipo di relazioni.
Dà le vertigini pensare, come suggerisce Zambrano, che questa educa-
zione primaria sia insostituibile (SA: 119), quasi non ci fosse scampo per
chi non ha goduto di tale dono. È legittimo, però, ipotizzare la possibilità,
purtroppo non remota, che non a tutti sia dato questo dono e ad alcuni
non in misura sufficiente. Allora, sospendendo la tesi vertiginosa della
insostituibilità di tale educazione e ipotizzando – sulla base del principio di
speranza – che margini di recupero siano sempre possibili anche se
aprirebbero modi dell’esserci differenti, è necessario che l’agire formativo
assuma come direzione di senso fondamentale quella di offrire esperienze
relazionali capaci di nutrire un sentire positivo verso la vita. Forse la fiducia
secondaria alimentata da queste relazioni educative non sarà come quella
originaria, la cui forza è tale che nessuna catastrofe potrà mai cancellare,
ma nondimeno aiuterà a trovare quella energia necessaria a vivere il
proprio tempo senza rischiare di farsi paralizzare dalla paura di essere e
cadere cosı̀ nel panico. Chi si è nutrito di fiducia originaria, chi ha
respirato dall’inizio quella speranza pura che tiene la mente aperta sul
futuro non è che sia immune dalla paura, ma quello che non rischia è di
provare quel sentimento paralizzante che è l’aver paura della paura. È
forse questo il sentimento più terribile, perché tiene l’anima contratta,
incapace di distendersi nel tempo. Fiducia e speranza, invece, fanno da
contenitore alla paura consentendo all’anima di respirare la vita.

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108 Un metodo a-metodioo

5.5. Il sentire nutrimento del pensare


Ci sono sentimenti e sentimenti, ci sono quelli non essenziali alla vita, che
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possono esserci o non esserci, e ci sono quelli basilari, sono i sentimenti


tensionali, quelli che tengono la vita tesa verso la trascendenza. Speranza e
fiducia sono sentimenti tensionali. Si depositano nell’anima all’inizio della
vita con una qualità e una intensità che dipende dallo sguardo di fiducia e
di speranza con cui siamo stati accolti nel mondo; e lı̀ nell’anima restano,
come radici, e al momento opportuno fioriscono.
Questi sentimenti amorosi e positivi sono essenziali per respirare il
tempo della vita e in quanto tali sono essenziali anche alla vita cognitiva.
La semplice curiosità non mette in moto la ragione vitale, c’è necessità
della speranza. La ricerca della verità ha bisogno di essere nutrita dalla
speranza. Il camminare alla ricerca del sapere dell’anima che illumini i
nostri passi è una fatica che chiede molta energia. Può accadere facilmente
che la spinta a stare in ricerca venga meno, perché si deve continuamente
fare i conti con la fatica del vivere, cioè di non avere soste nel camminare
essendo noi obbligati a respirare senza un attimo di respiro. La speranza
di arrivare alla verità è, dunque, sentimento irrinunciabile della vita della
mente.
Ma la speranza è parte essenziale della vita cognitiva non solo perché
la nutre di energia, la tiene in tensione, ma anche perché fa trovare al
pensiero la giusta direzione. Capita nella vita di sentirsi come in un
labirinto, o peggio in una stanza murata, senza vie d’uscita. In questi casi
la speranza non solo ci fa sentire che ogni situazione, per quanto difficile
possa essere, può trovare la sua soluzione, ma “nutre l’intelligenza, la
comprensione, fino a farci scoprire l’uscita dove non si presenta” (B: 108).
La mente ha necessità del sentire positivo per vedere vie d’uscita laddove il
pensiero da solo non riesce a vederle. La speranza, come tutti i sentimenti
positivi, non è componente irrazionale dell’anima, ma “è fattore di cono-
scenza” (B: 110), perché “segnala la strada indicando l’altra sponda” (B:
109). E per essere fattore di conoscenza essa richiede conoscenza delle
dinamiche che governano la realtà. C’è, quindi, una dialogica ricorsiva tra
il sentire e il conoscere, che chiede di essere costantemente nutrita dalla
pratica della meditazione, quel meditare che è un addentrarsi nei fatti
della vita per averne conoscenza adeguta.
Anche la fiducia è sentimento fondamentale al conoscere. Perché la
realtà appaia occorre aver fiducia nelle cose, nella capacità dell’essere di
farsi presente. Tanto più grande è la fiducia, tanto più grande è la realtà
di cui può godere la mente. Si tende ad interpretare la vita della mente
come un processo essenzialmente razionale, invece il decidersi per la

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 109

ricerca della verità ha necessità di quel sentire vitale che è la fiducia. La


conoscenza diventa trasformativa, capace cioè di un’azione operante sul
reale, perché nutrita dalla fiducia, che si esprime nel sentire possibile il
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guadagno di un sapere vero. La fiducia è essenziale alla vita epistemica.


Ma proprio per quella circolarità ricorsiva che caratterizza ogni fenomeno
vitale, va sottolineato che se la fiducia è nutrimento essenziale del processo
generativo della conoscenza, a sua volta la conoscenza che produce
evidenze ha l’effetto di aprire l’anima alla fiducia (CGL: 77).
È la fiducia che fa germogliare la quiete della mente, e quando la
mente è quieta si apre al reale. La fiducia, intesa appunto come senti-
mento tensionale che è segno di apertura della mente al reale, è la
condizione generativa della disposizione alla distensione, indicata come
fondamentale postura della mente nella concezione epistemologica di
Zambrano. Solo chi nutre fiducia nelle cose avverte come un’insensatezza
il voler controllare ogni fenomeno del reale. Aver fiducia non significa non
vedere ciò che nel reale non funziona, ma sottrarsi alla tendenza a riporre
nel proprio io ogni possibilità di ricostituzione dell’ordine dell’essere. C’è,
dunque, una stretta connessione tra fiducia e umiltà.
Non meno essenziale al conoscere è il saper accettare. La realtà nella
sua pienezza può essere accolta solo se si sa accettare il modo in cui le
cose si manifestano, il modo in cui gli altri vengono alla presenza. E
questo saper accettare si dovrebbe declinare in modo tanto radicale da
tessere una relazione di “vera e propria schiavitù nei confronti della
realtà” (SA: 87), perché sono le cose a doverci dire come vorrebbero essere
conosciute e noi si dovrebbe stare in una relazione di ubbidienza. L’esatto
contrario, dunque, del metodo come dominio. Nel metodo della ragione
poetica e amorosa è la realtà che s’impone alla mente, perchè solo cosı̀ si
consente alle cose di mostrarsi nella loro datità originaria, nella loro
pienezza. Si può, dunque, affermare che un certo sentire, e precisamente
quello positivo implicante una disposizione passiva, è condizione del
conoscere che cerca un sapere vero.
Anche l’elaborazione del metodo, che sembrerebbe l’esito di una
procedura altamente razionalistica, è accompagnata da un sentire, quello
positivo dell’allegria.

Ogni metodo salta fuori come un Incipit vita nova che si tende verso di noi
con la sua inalienabile allegria (CB: 14-15).

Un sentire positivo qual è l’allegria non emerge solo al termine di un


processo conoscitivo, ma sostiene il lavoro del pensare nel suo accadere.
Husserl parla della gioia che la coscienza esperisce quando ha percezione

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110 Un metodo a-metodioo

dello scorrere “libero e fruttuoso” di un atto cognitivo23. Questa tesi del


valore epistemico dei sentimenti non si dà come presupposto inverificabile,
ma è un’evidenza di cui ciascuno può fare esperienza attraverso quella
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pratica riflessiva che assume come oggetto la vita della mente nel suo
accadere presente.
Senza quelli che Weil definisce “sentimenti benevoli” (amicizia, ammi-
razione, simpatia) la mente è incapace di trovare le energie richieste dalla
24
ricerca della verità dell’esperienza . È nella gioia che la mente sviluppa il
25
sentimento della realtà , quello che tiene la mente aperta alle cose, mentre
la tristezza e il dolore indeboliscono tale sentimento perché portano la
26
mente a ripiegarsi su se stessa . Senza l’energia che viene da un sentire
positivamente orientato nessuno sforzo cognitivo mette in grado da solo di
approssimarsi alla verità. Non è sufficiente che si faccia vuoto, facendo
silenzio dentro di sè e disattivando ogni desiderio e ogni opinione, occorre
27
anche che “si pensi con amore” .
E il sentimento che, secondo Zambrano, più di ogni altro è compo-
nente essenziale di quel pensare che cerca una comprensione profonda
dell’esperienza è la pietà, che considera il sentimento originario, il più
ampio e profondo (SP: 65). La pietà, che non va confusa né con la carità
né con la compassione, è “il saper trattare adeguatamente l’altro” (UD:
185), cioè saper sentire l’altro nella sua alterità senza schematizzarlo in
un’dea astratta in cui va perduta la sua originale differenza. È quindi
sentimento di comunione, poiché ci tiene in relazione con altri facendosi
risposta al bisogno ontogenetico di convivere con gli altri, essendo l’essere
umano fondamentalmente plurale pur nella singolarità della sua vita.
Proprio perché ci fa sentire e accettare l’alterità degli altri piani
dell’essere, la pietà è quel sentimento che ci mette in comunione con tutti
gli esseri, non solo con il prossimo, ma anche con gli animali e con le
piante; è, infatti, quel modo del sentire che ci “situa in modo adeguato tra
tutti i piani dell’essere” ed è in quanto tale che ci consente una compren-
sione larga e profonda del reale, compreso di esso quanto è più radical-
mente differente da noi (SP: 67). La qualità ontologica dell’essere umano è
quella di sentirsi allo stesso tempo parte della realtà ed eterogeneo ad essa,
e mentre ha coscienza della sua solitudine allo stesso tempo percepisce che

23
Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, cit., p. 165.
24
Simone Weil, La prima radice, cit., p. 188.
25
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 144.
26
Ivi, pp. 204 e 234.
27
Ivi, p. 159.

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 111

la qualità etica dell’esserci consiste nel trovare la comunione col resto degli
enti. La pietà è il sentimento che dà voce a questa tensione etica, poiché è
“aspirazione a trovare i tratti e il modo di intendersi con ognuna di queste
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molteplici maniere di realtà” (SP: 68) consentendo all’anima di riconci-


28
liarsi con la vita .

5.6. La ragione del cuore


L’attenzione al sentire occupa buona parte del pensiero di Zambrano, la
quale mette in questione la filosofia occidentale proprio per la scarsa
considerazione che riserva a questa parte oscura e palpitante dell’essere. In
particolare sottolinea le risorse che la filosofia ha dedicato alla costruzione
del metodo per la ricerca scientifica, senza che si sia preoccupata dei
sentimenti che stanno al fondo e dirigono l’essere di ciascuno. L’iperrazio-
nalismo della nostra cultura ha tagliato fuori l’essenziale, per questo ci
manca quella comprensione della vita cui tutti aspiriamo.
La valorizzazione della sfera del sentire è un tratto che accomuna
Zambrano ad altre pensatrici a lei contemporanee.
Anche se raramente Arendt prende in esame i sentimenti, concettua-
lizza, però, l’idea di un “cuore che comprende”. Come Zambrano preferi-
sce portare l’attenzione sui sentimenti positivi, come la gioia, che consi-
29
dera elemento essenziale al venire in essere di una relazione dialogica ;
ma affronta anche il tema non facile dei sentimenti nobili come l’amicizia.

28
In questa primarietà assegnata alla pietà in virtù del suo metterci in comunione con
tutti gli enti si rintraccerebbe un afflato cosmico in cui Zambrano, anche se a livello di
ragione germinale, anticipa temi della più attuale filosofia ecologica. In questo può aver
agito il suo vivo interesso per i temi sviluppati da Scheler, in particolare il suo indicare
l’essere umano come quello che, diversamente dagli altri esseri non si adatta mai a nessun
ambiente. Mentre gli altri enti sono completamente situati dentro l’ordine delle cose,
l’essere umano conosce “il sussulto dell’uscir fuori” (DD: 120). Ma quando percepisce di sé
solo il suo essere estraniato dalla natura e su questo sentire si concentra il suo meditare,
allora finisce per smarrire il radicamento nell’essere. L’intuizione di Zambrano è di aver
stabilito una connessione fra la possibilità di un sentire che ci tenga in comunione con
l’essere e la necessità di un modo interconnesso di pensare l’essere, oggi si direbbe
un’ontologia della relazionalità. Se, però, in una certa filosofia ecologica contemporanea la
tensione ad evidenziare l’interconnessione fra tutte le forme di vita rischia di annullare la
posizione originale dell’essere umano, Zambrano, invece, sottolinea la compresenza in noi
di partecipazione e di solitudine rispetto al mondo circostante della vita e accenna alla
ricerca di “un modo adeguato” di situarci nelle varie zone dell’essere.
29
Hannah Arendt, L’umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, in “La società degli
individui”, 2001, n. 7, p. 16.

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112 Un metodo a-metodioo

Da raffinata fenomenologa quale è, Arendt fornisce riflessioni interessanti


sulle emozioni, che invita a considerare sempre incarnate:
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Ogni emozione è un’esperienza somatica: il cuore mi duole quando sono


addolorata, si scalda con la simpatia, si apre nei vari momenti in cui
l’amore o la gioia mi colmano, e sensazioni fisiche consimili si impadroni-
scono di me con la rabbia, la collera o altri affetti30.

Un’altra fenomenologa, Edith Stein, che attraverso l’analisi dell’empa-


tia ci offre un metodo per la descrizione rigorosa della sfera del sentire,
31
parla di “pensieri del cuore” e del cuore come del “vero e proprio centro
32
della vita” . Per lei il cuore va pensato come il profondo dell’anima, ed è
vivendo da questa profondità che si può vivere una vita piena e raggiun-
33
gere l’intensità del proprio essere . Non c’è vita che si trasformi in
cammino se oltre ad inoltrarsi nel mondo non si frequentano anche i
sentieri della vita interiore. Weil, che dedica ad un‘analisi puntuale dei
sentimenti molte delle sue riflessioni contenute nei Quaderni, sostiene che i
sentimenti giocano un ruolo fondamentale non solo nella vita privata, ma
34
anche nel determinare la direzione di molti degli avvenimenti politici .
In queste pensatrici l’attenzione al sentire non è una semplice riabilita-
35
zione della sfera emozionale rispetto a quella razionale , ma risponde al-
l’intenzione di pervenire ad un’interpretazione ‘più intera’ della vita della
mente e insieme al desiderio di dare la giusta attenzione alla dimensione
affettiva della vita. Perché il sentire è il fondo invisibile dell’esperienza,
nella vita quotidiana come nei contesti pubblici: è il nocciolo di ogni
evento, la sua direzione più intima e mai interamente disvelabile. Solo
l’attenzione ai sentimenti mette il pensiero nelle condizioni di cogliere
l’esperienza vivente, l’intensità della vita.

Le pensatrici qui citate hanno fornito un notevole contributo alla


messa a tema della sfera emotiva, che però non va confuso col mero
interesse per la vita interiore. Ciò che le accomuna è la diffidenza per il
ripiegamento intimistico, mentre ad orientarle è l’attenzione al nucleo

30
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 114.
31
Edith Stein, Scientia crucis. Studio su S. Giovanni della Croce, Postulazione Generale dei
Carmelitani Scalzi, Roma 1982.
32
Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 35.
33
Ivi, p. 35.
34
Simone Weil, La prima radice, cit., p. 188.
35
Laura Boella, Cuori pensanti, cit., p. 93.

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 113

vitale dell’esperienza, alla “soggettività vivente e concreta”36. Può sembrare


strano che un’attenta e interessata lettrice di Agostino come è Zambrano
e, insieme a lei, anche Arendt prendano le distanze dal pensare ripiegato
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sull’interiorità, l’una concependo il pensare come un entrare nella realtà


innamorandosi delle cose e l’altra concependolo in senso socratico come
indagine mai conclusa sulle questioni irrispondibili che è condizione
essenziale all’esercizio del giudizio. Ma l’introspezione da cui prendono le
distanze non è quella di Agostino, perché il suo “se quaerere: quaestio
37
mihi factus sum” non è uno sprofondare negli abissi dell’intimità dove si
rischia di perdere il mondo, ma un interrogare sé per trovare Dio. La
diffidenza di queste pensatrici è rivolta a quel ripiegamento intimistico che
in periodi ricorrenti torna di moda e che rischia spesso di tradursi in una
forma di emigrazione interiore.
Ad accomunare queste donne è non solo l’aver riabilitato il sentire
come ambito di riflessione, ma di essere riuscite a parlare con equilibrio e
sobrietà dei sentimenti, evitando di scivolare nel sentimentalismo e nello
psicologismo. Zambrano, però, azzarda un passo ulteriore, perché non si
limita a riabilitare il sentire, ma va oltre i tradizionali dualismi che
costituiscono i nodi strutturanti del pensiero occidentale. Primo fra tutti il
separare l’organo del sentire (il cuore) dall’organo del pensare (la mente).
È quanto, invece, continua a fare anche Arendt, che colloca il sentire
nell’anima tenendo questa ben separata dalla mente:

L’anima da cui sgorgano le nostre passioni, i nostri sentimenti e le nostre


emozioni, è un vortice più o meno caotico di eventi che noi non mettiamo
in atto, ma patiamo (pathein) e che in circostanze di forte intensità possono
travolgerci, come avviene con il dolore o il piacere ... La vita della mente, al
contrario, è pura attività, un’attività che, alla stregua delle altre, può essere
38
avviata e interrotta a volontà .

Arendt, che rigorosamente e con finezza di pensiero ha messo in


questione i dualismi che hanno strutturato l’impianto della filosofia occi-
dentale, conserva tuttavia la distinzione fra anima e mente, e parla della
mente come pura attività, quasi che la cognizione fosse disgiunta dal
sentire. Invece, sentire e pensare stanno insieme, intricati, ingarbugliati.
Zambrano, adottando lo stile poetico del pensare, non cade nella trappola
dei dualismi: parla dell’anima e del sentire dell’anima, senza postulare una

36
Ivi, p. 94.
37
Agostino, Confessioni, X, 25. 50.
38
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., pp. 154-155.

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114 Un metodo a-metodioo

possibile distinzione dalla mente. E cosı̀ ci aiuta a tenere la riflessione


raccolta sull’unità dell’essere, dove i pensieri sono sempre emozionati,
densi di affettività, e le emozioni sono sempre in relazione con precise
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concettualizzazioni.
È sulla base di questo stile cognitivo che Zambrano struttura la sua
originale concezione dell’intelligenza come “intelligenza del cuore”. Si
tratta di una forma differente di intelligenza rispetto a quella che presiede
la ricerca scientifica, ma è altrettanto reale e certamente non di minor
valore. È l’intelligenza necessaria alla vita, necesssaria per convivere con
altri trovando un modo felice di camminare insieme nel tempo. A diffe-
39
renza dell’intelligenza scientifica non dà potere , ma è essenziale per
tessere relazioni che fanno lavoro di civiltà.
Il problema è che come tutte le cose essenziali per la vita anche questa
non è padroneggiabile, nel senso che non è una tecnica di cui disporre e
che può essere trasmessa da una persona all’altra per mezzo di un atto
volontaristico. È di quelle cose che si apprendono per contagio, abitando
luoghi dove di questa intelligenza altre e altri danno testimonianza diretta
nel loro modo di guardare gli altri e di sentire la vita.

39
Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 97.

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6
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Scrivere di formazione

6.1. Disfare i discorsi sistematici


Il mestiere dell’educare ha molto da imparare dalla pratica del disfare che
Zambrano insegna, perché il suo rischio è quello di fare troppo, di
riempire ogni istante del tempo senza lasciare istanti vuoti.
Quando prende forma la paideia socratica il processo educativo
diventa il dialogare con altri per cercare insieme di aver cura dell’anima,
cercando la virtù e la saggezza (Platone, Apologia di Socrate). Con Dewey
l’educare viene a qualificarsi come offerta di esperienze significative,
significative nel presente.
Recentemente la cultura manageriale, che ormai pervade ogni campo
della vita, ha prodotto l’interpretazione dell’educare come esecuzione di
una serie lineare di azioni di insegnamento anticipatamente definite da
una progettazione, ossia da una pianificazione dettagliata di ogni mo-
mento e spazio dell’azione formativa. Rispetto a questo fare frenetico
senza pause, che non lascia respiro, la cui legittimazione va cercata in
quella logica utilitaristica che afferma il bene stare nello sfruttare intensa-
mente ogni spazio del tempo, la formazione dell’educatore è intesa come
un lavorare ad attrezzarsi di competenze, a riempire la mente di concetti e
strumenti da cui ci si attende l’agire efficace. E cosı̀ ci si dimentica che
l’arte dell’educare è innanzitutto un lavoro di relazione, quella relazione
magistrale che funziona se la maestra sa creare lo spazio dell’incontro, se
sa accogliere l’allieva.
La possibilità che prenda forma un’autentica pratica educativa, intesa
qui come il coltivare il respiro libero dell’anima, si gioca tutta in questo
atto aurorale, che consiste nel saper accogliere l’altro, fare posto al suo
essere in quanto condizione per il germinare della relazione. La relazione
è possibile se c’è posto per entrambi. Si tratta di coltivare e salvaguardare
nella relazione una zona vuota. Poiché la relazione educativa è fortemente
asimmetrica questa azione è responsabilità dell’educatore. Significa creare
le condizioni del proprio non-agire, del proprio esser-ci-passivamente cosı̀

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116 Un metodo a-metodioo

da lasciare all’altro sufficienti spazi di decisione sul come muoversi nella


relazione, sul come venire alla presenza in fedeltà a sé.
Il rischio è, invece, che il docente riempia troppo di sé lo spazio
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relazionale, che lo riempia dei suoi saperi – concettuali e procedurali –,


delle sue precomprensioni non sapute, delle sue aspettative spesso ossessi-
vamente coltivate, dunque che ingombri tutto lo spazio col suo esserci. E
diremmo arendtianamente del suo “che cosa”, cioè di quel che sa fare, e
non del suo “chi”, che invece per apparire ha bisogno della pluralità.
È rispetto a questo rischio del troppo pieno di sé che si rivela il valore
– innanzitutto in termini autoformativi per l’educatore – della pratica del
disfare: “disfare quanto visto, vissuto, accumulato” (DD: 21). Disfarsi di
quanto si è appreso, disattivare quei dispositivi che, quando messi in
azione, recintano l’altro in uno spazio delimitato impedendo che possa
venirci incontro a partire da sé. Troppe teorizzazioni, troppe aspettative,
troppi dover essere, troppe pianificazioni ingombrano lo spazio dell’edu-
care fino a togliere ogni respiro.
Si tratta allora di disapprendere, di disfarsi del troppo pieno dell’io,
per consentire un incontro aurorale con l’altro. Disfarsi non solo del
sapere accumulato, ma anche delle aspettative che l’educatore tende a
mettere in gioco, spesso senza misure, senza attenzione ai desideri dell’al-
tro. Spogliarsi del troppo pieno di sé per fare dentro di sé il deserto, inteso
come quello spazio aperto e intatto dove solo può accadere l’incontro con
l’altro.
Per fare posto all’altro occorre “svuotarsi di tutto” (DD: 59), praticare
azioni di disapprendimento. Solo cosı̀ può germinare una reale relazione
educativa, dove l’altro può respirare a pieni polmoni il suo poter essere
possibile.
Questo disfare non va però limitato ad una pratica professionale, ma
agito in tutta la sua portata di pratica del vivere, che rende possibile il
mestiere del divenire che è cercare la propria forma. Disfare è fare posto
alla vita, al suo fondamento.
Disfare non è negazione dell’essere, ma è un devitalizzare, non privo
di sofferenze, le costruzioni in cui recintiamo e deformiamo il nostro
divenire: “l’appropriazione dell’essere, il dominio dell’io, le ossessioni
1
chiamate abitudini, l’incedere della violenza della libertà” . È devitalizzare
le certezze alle quali ci attacchiamo e che ci impediscono di vivere a pieni

1
Annarosa Buttarelli, Poesia madre della filosofia. Per una filosofia della passività efficace, in
Chiara Zamboni (a cura di), Marı́a Zambrano, in fedeltà alla parola vivente, Alinea Editrice,
Firenze 2002, pp. 13-34, in part. p. 16.

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Sorivere di ormazione 117

polmoni la vita nel suo apparire di forme e fenomeni imprevisti. Avere


certezze significa sapere mettere in forma le cose. Ma cosı̀ le cose non
sono pienamente vissute.
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Il disfare, dunque, si profila come primaria pratica di autoformazione,


di lavoro su di sé. E non si tratta di disfare ciò che sta all’esterno: teorie,
sistemi, procedure, logiche organizzazionali; ma di lavorare all’interno
disattivando tutti i nostri attaccamenti agli artefatti di cui è possibile
disporre e nei quali spesso corriamo l’errore di identificarci. È attraverso
questa operazione di spossessamento dell’io, di devitalizzazione dei nostri
attaccamenti, che si crea nell’anima quello spazio libero che fa scoprire
“altri modi di stare nel tempo, altri modi di stare in presenza di tutto ciò
2
che c’è, che è e non è” : “restare al meno, con il meno” (DD: 86).
Desiderare non di essere, inteso qui quell’essere che realizza un’idea, ma
lasciarsi divenire “pagliuzze d’essere” (DD: 23).
Quello che non si insegna agli educatori, maestri ed insegnanti, è che
la formazione è innanzitutto un lavoro su di sé. Solo agendo su se stessi si
può diventare strumento per la formazione dell’altro, nel senso di generare
nell’altro la passione per la propria autoformazione.

6.2. Dare parola all’esperienza


Compito dell’educatore impegnato a costruire una teoria della pratica
educativa è quello di trovare un discorso che sta al proprio dell’esperienza
educativa, che consiste nell’individuare quali esperienze sono da promuo-
vere per facilitare nell’altro la ricerca del suo divenire più proprio, compito
questo che sempre rivela la nostra mancanza di strumenti culturali ade-
guati.
Certa pedagogia parla pretendendo di sapere troppo rispetto a quella
domanda iperbolica che sta all’origine della ricerca di un sapere dell’edu-
care: “che fare” affinché l’altro si ponga la domanda del “che fare” e trovi
il metodo per stare alla ricerca di una risposta? A questa domanda Socrate
non aveva risposte, dichiarando essere cosa ardua impadronirsi dell’arte
3
che ha per fine la cura dell’anima dei giovani , perché di essa non esiste
4
dottrina alcuna che possa essere insegnata . Per tale ragione non si può
5
essere maestro di nessuno . Socrate insegna che si può solo stare alla

2
Ivi, p. 19.
3
Platone, Lachete, 185d-186e.
4
Platone, Apologia di Socrate, 33b.
5
Platone, Apologia di Socrate, 33a.

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118 Un metodo a-metodioo

continua ricerca di una risposta. Ne consegue che i discorsi che sono


chiamati a render conto della ricerca di una teoria dell’educare non
possono essere troppo sistematici. La pedagogia, invece, in molti casi
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costruisce discorsi compiuti, ingegneristici. Mira a verità generali, quelle


6
che non illuminano il particolare . Quando dialoga con la filosofia, di
questa tende ad apprendere il suo lato sistematico, non quello problema-
tico. Presa dal fascino del metodo cartesiano cerca una chiarezza omoge-
nea e estesa. E per trovarla scantona le zone opache dell’educare.
Ma la realtà dell’educare è cosa densamente problematica, complessa;
una zona paludosa, rispetto alla quale non è possibile costruire discorsi
sistematici e definitivi, e quando le cose appaiono chiare e distinte allora
significa che qualcosa di essenziale non abbiamo messo nel conto. L’edu-
cazione ha a che fare col problema della vita, che è il divenire il proprio
poter essere nella mancanza di essere in cui ciascuno si trova. Un compito
arduo, perchè è un problema troppo opaco per sperare di tradurlo in
discorsi chiari e distinti. Occorre saper stare nell’opacità, sapendo che
quello che ci è dato trovare è solo qualche “filo di luminosità” (NM: 25).
Al pensiero pedagogico autentico, cioè quello che accetta la natura del suo
oggetto, che sa quindi essere fedele al profilo densamente problematico
dell’esperienza educativa, che nella sua essenza è relazione con l’altro,
sono accessibili solo pagliuzze sparse di discorso.
Zambrano suggerisce di scartare ogni tentazione per i discorsi formali-
stici per mettersi alla ricerca di una conoscenza capace di un valore
7
trasformativo . Per essere trasformativa una scrittura deve agglutinare il
senso vivo dell’esperienza in cui il discorso è radicato. Da mettere in
parole è, dunque, un sapere dell’esperienza, cioè un sapere che con la
realtà si misura, e tale è quello che si traduce in un discorso dove i pensieri
portano ancora traccia viva del pensare, quei pensieri che non sono
strutturati in modo da dare l’impressione che il lavoro del pensare abbia
finalmente trovato una sua conclusione, ma mantengono vivo il travaglio
riflessivo da cui hanno preso forma. Il problema primario consiste nel
fuggire la tentazione dell’astrazione e ammettere solo quelle parole che
vanno incontro all’esperienza, senza cercare appoggi entro percorsi costi-
tuiti. Evitare il già detto non equivale ad evitare la frequentazione di quei

6
Nel contesto di un laboratorio di formazione alla pratica della riflessione una maestra
di scuola dell’infanzia è intervenuta nel gruppo di discussione con queste parole: “Sı̀ le
teorie servono, possono servire, però ti dicono delle cose generali e il caso che hai davanti è
sempre un’altra cosa, ti serve altro” (settembre 2004).
7
Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, cit., p. 14.

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Sorivere di ormazione 119

discorsi che si ritengono autorevoli, che invece debbono costituire delle


linee guida per continuamente problematizzare le interpretazioni che
andiamo costruendo dell’esperienza. Da evitare sono quelle forme di
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discorso in cui le direzioni esplicative sono già definite.


Per cercare un discorso che sappia tenersi aderente all’esperienza
senza chiudere il pensiero in asfissianti forme dottrinali, Zambrano sugge-
risce di chiedere aiuto alla parola poetica. La filosofia, dice Zambrano, ha
bisogno della poesia. La pedagogia anche, diciamo qui, ha bisogno della
poesia, di un discorso che abbia della poesia la sua densa leggerezza. Cosı̀
come può salvare la filosofia dal suo costituirsi come discorso lontano dalla
vita e chiuso in discorsi troppo sistematici, cosı̀ la poesia può aiutare la
pedagogia a liberarsi da quel linguaggio tecnicistico che, sotto l’apparenza
di competenza, nasconde spesso l’inaccessibilità alle zone oscure dell’edu-
care, con l’effetto di produrre quelle semplificazioni ermeneutiche che
sono all’origine di discorsi incapaci di farsi misura misurante dell’agire
educativo.
Per disegnare un discorso pedagogico capace di costituirsi come
discorso con senso, per pensare e dare ordine alla pratica educativa, è
necessario che lo scrivere si mantenga fedele al principio enunciato da
Zambrano: “Salvare le parole dalla loro vanità, dalla loro vacuità, dando
loro consistenza, forgiandole durevolmente” (SA: 25). È questo lo scopo
che dovrebbe perseguire chi intende scrivere davvero.

disfare la tendenza alla formalizzazione stringente


Per cercare la parola poetica dell’educazione occorre innanzitutto
disfare. Anche la pedagogia ha il suo linguaggio dell’ovvietà, linguaggio
pronto all’uso, dove le parole si combinano secondo regole estranee
all’essere delle cose. Spogliarsi di questo linguaggio logorato che non ha
rimandi con l’esperienza e cercare parole dove il loro essere risuona è
l’imperativo epistemologico che qualifica la ragione poetica.
E poi disfare la tendenza ai discorsi sistematici, che tutto pretendono
di portare all’evidenza in concetti chiari e distinti. Un pensiero che sta
vicino alla vita non può pretendere di ridurre il senso vivo e problematico
dell’esperienza in un discorso declinato solo sulla ricerca di concatenazioni
logiche. Poiché le direzioni di senso dell’educare è cosa che si fatica ad
individuare e che anche quando prendono forma nella mente hanno
sempre l’aspetto di pensieri provvisori, mai definitivamente compiuti, la
teoria pedagogica non può pretendere la forma del discorso architettonica-
mente sistematizzato.
L’educazione ha luogo tra persone; ogni persona è un ente vivo

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120 Un metodo a-metodioo

avvolto nel concreto, le cui direzioni di realizzazione non sono facilmente


decifrabili. Per questa ragione nella relazione educativa l’altro o, meglio,
gli altri (perché il lavoro dell’educare si dà nella pluralità delle relazioni)
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sfuggono alla possibilità di una comprensione chiara, cosı̀ che il senso di


quello che accade fatica ad essere messo in parola. Proprio perché nella
relazione educativa c’è l’altro che è destinato, fortunatamente, a rimanere
trascendente, ci sono zone dell’esperienza educativa insolubili, che non si
riesce a sciogliere nella parola. La mia stessa coscienza di persona impe-
gnata nel mestiere artistico dell’educare in molti punti mi rimane opaca,
soprattutto rispetto al sentire che impregna la mente. Avvertire di non
avere accesso ad una comprensione adeguata dell’altro, e allo stesso tempo
di non riuscire ad avere di sé quella chiarezza che si vorrebbe, costituisce
una strettoia per il pensiero, una strettoia nella quale occorre imparare a
stare, a patirla senza cercare scorciatoie, pena il cadere in pseudo-
soluzioni che mancano una presa trasformativa sul reale.
È difficile stare nella strettoia senza ansie di soluzioni veloci, perché il
difficile dell’agire educativo o di chi è preso dal costruire teorie sull’edu-
care è che deve trovare criteri di decisione per l’azione e l’azione ha i suoi
tempi che difficilmente si piegano ai ritmi lenti di cui ha necessità la mente
quando è impegnata a cercare una comprensione adeguata degli eventi.
Educare non è il lavoro disinteressato del filosofare, che può essere sospeso
ogniqualvolta la mente ne senta la necessità, educare è un lavoro impe-
gnato, preso dentro i ritmi non sempre governabili della vita.
Proprio la pressione a decidere quale azione intraprendere, e quindi a
definire discorsi capaci di orientare l’agire, possono spingere alla fretta di
guadagnare quanto più velocemente possibile un pensiero chiaro e lineare.
È proprio in questi casi che occorre attivare la pratica del disfare e
accettare momenti di passività: disfare la tendenza a cercare discorsi
apollinei, disfare l’ansia che spinge affannosamente a risolvere ogni zona
opaca, ogni contraddizione, e accettare la propria mancanza di compren-
sione, l’inadeguatezza della ragione rispetto alla complessità dell’espe-
rienza. Accettarsi mancanti di sapere e saper patire la sofferenza che
genera il sapere di non sapere.
Come direbbe Hannah Arendt si tratta di fermarsi e pensare, quel
pensare che innanzitutto si declina nel saper accettare l’eccedenza dell’e-
sperienza educativa rispetto alla parola. Solo dopo che si è accettato la
mancanza del sapere che tutto rischiara ci si può decidere in modo
autentico ad obbedire al principio di cercare quella parola che sappia
trattare adeguatamente l’esperienza.
Zambrano suggerisce di cercare una parola incarnata. Dare corpo alla

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Sorivere di ormazione 121

parola non significa cadere in un linguaggio materialistico, ma cercare una


parola che si porta appresso la pesantezza dell’esperienza. Cercare una
parola incarnata vuol dire dar voce ad un pensiero che sta nel vivo
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dell’esperienza, che è uno stare in carne ed ossa. Il Verbo della religione


cristiana è parola di verità perché si è fatto carne, ossia ha accettato di
patire l’esperienza viva. Solo allora la parola si fa vera ed in essa può
accadere il germogliare della luce. Il sapere dell’esperienza non può essere
un discorso apollineo, depurato da ogni incertezza, un discorso neutro da
cui è bandita ogni sofferenza, che invece è cosa inevitabile dell’umana
esperienza; l’esperienza del vivere, ma anche quella dell’educare e quella
del fare ricerca.
Una parola che si fa corpo è quella che, incarnando il principio della
lealtà e della fedeltà al reale, restituisce all’attenzione del pensiero il sapore
dell’esperienza, senza tagliar via nulla, compreso ciò che non risulta
comprensibile, il troppo opaco, compresa la sofferenza, quella che toglie il
respiro necessario a stare nella ricerca della verità. Per questo la parola
incarnata è quella che non solo dice l’amore per le cose ma anche il nostro
non sapere fino in fondo le cose, una parola che dice gli scarti del pensiero
oltre che gli approdi. Paradossalmente è proprio in questo suo stare
nell’opacità dell’esperienza, nel patirla fino in fondo, che la parola incar-
nata apre spazi al germogliare della luce.
L’epistemologia del lavoro poetico suggerisce uno sguardo aperto, che
“lavora perché tutto ciò che esiste e ciò che non esiste arrivi ad essere”
(FP: 28). Da sviluppare è quell’atteggiamento poetico che non investe
l’altro, perché sta in ascolto del suo dirsi e lavora a trovare le parole vere.
La ragione poetica chiede di arrischiare l’abbandono del pensiero
argomentativo astratto, che racchiude l’oggetto del discorso nella forma-
zione di concetti, costruendo di essi relazioni causali e finali, in cui il reale
sembra essere stato portato alla massima chiarezza, mentre cosı̀ non è.
Interessata non alla questione dell’essere in generale, ma ai singoli esseri
nella loro individualità essenziale, Zambrano indica la necessità di un
discorso che sappia rendere conto di ogni forma esperienziale nella sua
unicità. Ciò che è concreto e vivente può essere compreso solo se si
rimane fedeli al suo profilo originale senza pretendere di sussumerlo entro
discorsi generali. Per muoversi in questa direzione occorre sperimentare
8
pratiche che aiutino ad interrompere l’attività abituale del pensiero per
riuscire a trovare la via di accesso a quella parola che fedelmente dica
l’esperienza. La parola capace di dire il senso che si va tessendo nella

8
Annarosa Buttarelli, Poesia madre della filosofia, cit., p. 23.

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122 Un metodo a-metodioo

relazione educativa, o meglio i sensi differenti, molteplici: quello dell’edu-


catore e quello di ogni altra persona che sta nella rete delle relazioni che
strutturano il contesto dell’educare. La via è quella della passività attenta
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al dirsi dell’altro nel suo divenire. Stare ascoltanti, con uno sguardo inna-
morato dell’esperienza, con uno sguardo amoroso.

cercare parole che fanno passare l’esperienza


La parola vera è quella leale, fedele all’esperienza, perché per dire
parole vere occorre ubbidire al principio di fedeltà alle cose. Il principio di
fedeltà si può dire fondato su una ragione necessaria, poiché è una risposta
metodica alla constatazione che se l’apparire delle cose è sempre manife-
stazione della loro essenza, tuttavia l’apparenza mai completamente di-
svela l’essenza.
Ma l’esperienza eccede il potere della parola. Ogni cosa contempora-
neamente si annuncia e si nasconde. Cosa questa evidente quando si vuol
avere conoscenza delle persone, come è proprio della pratica educativa.
Ogni persona si offre alla conoscenza, ma allo stesso tempo sempre
qualcosa rimane nascosto. La conoscenza che possiamo raccogliere e
mettere insieme è, dunque, sempre radicalmente inadeguata. Ogni volta
che si riprendesse la ricerca della conoscenza dell’altro, questi non fini-
rebbe mai di sorprendere. Sempre e inevitabilmente l’accesso alla realtà
deve fare i conti col suo serbare una zona di mistero.
Proprio perché molte sono le zone opache nella pratica educativa,
allora il discorso fedele all’esperienza dell’educare può avere l’aspetto di
un parlare non terminato, dove molti sono i momenti di silenzio. Dal
momento che non tutto riesce a tradursi in parole, da cercare è una parola
porosa, un discorso punteggiato di fessure dove si accenni al mistero
irrisolvibile dell’altro. Perché col pensiero si arriva in presenza della realtà
quando si fa posto, nel senso di lasciar essere al suo posto, ciò che
necessariamente rimane nascosto.
Far posto al profilo nascosto dell’esperienza significa chiedere alla
parola di far trapelare il suo contrario: il silenzio. Perché la parola vera e
attiva è quella intessuta di silenzio. Una parola che sappia trattare con
delicatezza la materia della vita con cui ha a che fare l’agire educativo è
quella che “vorrà unirsi a esso (il silenzio) invece di distruggerlo: ‘musica
silenziosa’, ‘solitudine sonora’ ...” (SA: 36). Per trovare parole intessute di
silenzio è necessario che innanzitutto si sappia stare nel silenzio, nel senso
di tacitare i discorsi già compiuti, perché solo nel silenzio accade il
germinare lento della parola viva. È nel connubio tra parola e silenzio che
il discorso può trovare il ritmo del dirsi dell’esperienza. La questione del

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Sorivere di ormazione 123

ritmo, del discorso che deve trovare un ritmo, è fondamentale in Zam-


brano, poiché “il ritmo è uno dei fenomeni più profondi e decisivi della
vita” (SA: 38).
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Il pensare poetico diventa allora una necessità. La capacità della


poesia è quella di dire l’evidenza delle cose e, allo stesso tempo, attingere a
quella parola intessuta di silenzio che delle cose accenna al loro lato
nascosto, al mistero che sempre traluce tra le poche isole delle evidenze sperdute nel
mare dell’indicibile. È attenzione al non visibile, al residuale.

e se fosse la metafora
E se fosse la metafora il nucleo del discorso che si va cercando? La
parola enunciativa, che ordina il discorso in lucide architetture concettuali
non sempre è adeguata, anzi può ingannare, perché dà l’impressione di
aver raggiunto una chiarezza di fatto irraggiungibile. La metafora è quel
modo del discorso che dice e non dice allo stesso tempo. Può essere lo
strumento essenziale della ragione poetica.

Una delle mancanze più tristi del tempo attuale è quella di metafore vive e
attive, che s’imprimono nell’animo delle genti e lasciano un segno nella loro
vita (SA: 43).

Da cercare sono quelle metafore che riescono ad avvicinare in modo


indiretto la realtà cosı̀ da riuscire ad accennare quei nodi dell’esperienza
che, irriducibili al linguaggio ordinario, rimarrebbero altrimenti indicibili.
Cercare metafore non significa semplicemente cercare immagini poetiche,
lasciandosi affascinare dal gusto estetico di pervenire ad una creazione
artistica, ma cercare quelle forme del dire che meglio accennano all’es-
senza dell’esperienza, al sentire originario in essa attivo e spesso impene-
trabile.
Per evitare etichettature di irrazionalismo al pensiero di Zambrano,
etichettature che si riferiscono proprio al concetto di ragione poetica e
all’uso metaforico del linguaggio da lei praticato, è necessario precisare
che la metafora non è una forma imprecisa del pensiero, ma svolge “la
funzione di definire una realtà che la ragione non può comprendere ma
che può essere captata in altro modo” (SA: 44). La metafora è un modo di
presentare una realtà che non può rendersi accessibile nel discorso ordina-
rio e che, se fosse costretta a dirsi in tale linguaggio, diverrebbe ineffabile.
Anche la scienza usa il linguaggio metaforico e suggerisce di ricorrere
all’uso di metafore ogni volta che le parole mancano. Dunque ne ricono-
sce il valore, ma le assume come strumento transitorio, cioè ne accetta
l’uso fino a quando non prenderà forma un paradigma linguistico capace

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124 Un metodo a-metodioo

di sciogliere ogni zona opaca. Quello che, invece, suggerisce Zambrano è


di privilegiare sempre l’uso di metafore, perché sempre qualcosa sfugge e
la metafora è il modo proprio di un linguaggio che sa trattare adeguata-
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mente la realtà, perché capace di una risignificazione creativa .
La metafora è quello strumento cognitivo che accenna ad una realtà
che non riesce a dirsi attraverso i modi consueti del linguaggio. Ci sono
intuizioni che non riescono a trovare espressione; se la mente trattasse
queste intuizioni col linguaggio ordinario, allora la realtà che l’intuizione
coglie si ribellerebbe, si sottrarrebbe, diverrebbe ineffabile. La metafora è
l’unica forma in cui certe intuizioni si rendono visibili.
Le parole vere non hanno mai l’aspetto di un discorso compiuto,
finito; piuttosto hanno l’apparenza di un nucleo che attende di svilupparsi.
Non perimetrano con sicurezza isole di significato, perché non sono niente
di più che “il batter d’ali del senso” (CB: 90). Nelle parole vere non c’è
ansia di dominare le cose. Non lasciano trapelare alcun desiderio di
affermazione della verità. Il dire della parola vera ha la forma dell’accen-
nare; un accennare che mentre evoca il senso che si assegna all’esperienza

9
Molte sono le metafore ricorrenti nel pensiero di Zambrano: quelle della luce, del
risveglio, del riscatto, del cuore (Rosella Prezzo, Metafore della lettura, cit., 41), ma anche
quella del naufragio e dell’esilio. Come per molti altri temi anche rispetto a quello dell’uso
delle metafore Zambrano è stata profetica. Rispetto ad una cultura che svalutava la
metafora come espressione di un pensiero non logico Zambrano sottolinea tutta la sua
potenza comunicativa anticipando riflessioni che della metafora portano alla luce la sua
capacità di sollecitare la mente a trovare nuove connessioni tra idee differenti, che hanno
l’effetto di generare nuove intuizioni (George Lakoff, Mark Johnson, Philosophy in the Flesh.
The Embodied Mind and its Challenge to Western Thought, Basic Books, New York 1999, pp.
118-129). La metafora è il mezzo attraverso il quale noi elaboriamo il senso dell’esperienza.
Questo strumento cognitivo sarebbe cosı̀ intimamente pervasivo delle varie forme di
pensiero che se si eliminassero le metafore ciò che rimarrebbe del pensiero sarebbe cosı̀
impoverito di significato da non essere di alcuna ultilità per attivare processi di compren-
sione dell’esperienza. Lakoff e Johnson sostengono che “eliminando la metafora si elimine-
rebbe anche la filosofia” e con essa gran parte delle strutture basilari del discorso scientifico
che di metafore si nutre ampiamente (ivi, p. 129). In genere il ricercatore ricorre
all’invenzione di immagini metaforiche quando non dispone degli strumenti linguistici
capaci di esprimere la nuova visione delle cose che sta emergendo. Ciò accade più
frequentemente nei momenti di crisi, quando è in atto un cambiamento di paradigma. In
questo senso la produzione di metafore e con essa l’esercizio dell’immaginazione, che va
oltre ciò che appare evidente per prefigurare altre rappresentazioni, svolge un ruolo
insostituibile non solo nella ricerca scientifica, ma per la vita di una cultura. Il ricorso alla
metafora favorisce, generalmente, l’emergere di un approccio conoscitivo al quale il
pensiero concettuale tradizionale difficilmente consente di accedere. Anche se si preferisce
presentare il discorso scientifico sotto forma di proposizioni protocollari esenti da influenze
estetiche ed emotive, in realtà il ricorso all’analogia è frequente nella scienza, perché
laddove la logica si arresta il ricorso a processi analogici svolge un ruolo essenziale.

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Sorivere di ormazione 125

allo stesso tempo lascia percepire lo spazio dell’indicibile che contorna i


frammenti di senso. Il dire misurato, che accenna senza pretendere di
esaurire il senso del discorso che si va tessendo, è manifestazione di una
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“ragione fecondante”, quella che non si occupa di dispiegare argomenta-


zioni stringenti – che la libertà di pensiero deve temere ancor più dell’or-
todossia –, ma si preoccupa di favorire l’emergere di “ragioni seminali”
(CB: 112), quelle che, a differenza delle ragioni sistematiche, tengono
aperto il pensiero all’ulteriore.

il tempo dello scrivere


Chi è impegnato nell’arte dell’educare – proprio per la responsabilità
che questa pratica comporta – si lascia assorbire dall’azione, quella di
progettare, attuare, valutare, e questo essere assorbiti lascia poco tempo, se
non nulla, alla scrittura.
Invece scrivere salva l’azione. Perché scrivere disegna lo spazio e il
tempo della riflessione, crea quel luogo della temporalità dilatata in cui
“proprio la lontananza da tutte le cose concrete rende possibile una
scoperta di rapporti tra di esse” (SA: 23). Scrivere è diverso dal parlare:

Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una


trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie
alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza asse-
diante e istantanea (SA: 23).

Ma la parola orale non ci mette al riparo dalla tendenza alla disper-


sione; un uso eccessivo del parlare, senza gli spazi meditativi aperti dalla
pratica della scrittura, rischia di produrre una disgregazione del pensiero.
Scrivere, invece, aiuta il pensiero a raccogliersi, aiuta a pensare “partendo
dal centro del nostro essere raccolto in se stesso” (SA: 24). Aiuta a pensare
partendo sa sé. Lo spazio del pensare aperto dallo scrivere favorisce
l’addensarsi di significato nelle parole, che cosı̀ diventano capaci di far
risuonare il senso dell’esperienza. Lavorare sulle parole scrivendo aiuta a
ritrovare l’amicizia con le cose.
Scrivere non è mettere sulla carta una verità già trovata; scrivere è
parte costitutiva e consistente del lavoro di ricerca della verità dell’espe-
rienza. È scrivendo che trova compimento la ricerca della conoscenza,
perché “le grandi verità non si è soliti dirle parlando” (SA: 25).
Lo scrivere che accompagna la ricerca della verità è un lavorare a
trattenere le parole, scavarle dentro per spogliarle del troppo ingombro dei
significati consunti che si portano appresso, ridurle all’essenziale, e poi di
ogni parola trovare quella posizione nell’ordine del discorso e quel legame

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126 Un metodo a-metodioo

con le altre parole che consente ad esse di condensare il potere espressivo.


Lavorare per renderle adatte alla verità che si sta trovando, capaci di far
passare il senso vivo dell’esperienza.
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Questo scrivere, per essere luogo di ricerca della verità, dev’essere


mosso dallo stesso principio che guida la ricerca della conoscenza: il
principio di fedeltà. Essere fedeli alle cose nel loro dirsi fa della scrittura
un lavoro di trascrizione reso possibile dal disporsi della mente in uno
stato di passività. Lo scrivere con fedeltà è nella sua essenza lavoro di
trascrizione, non di interpretazione, dove il protagonismo dell’autore
10
impedirebbe all’esperienza di dirsi nella sua essenziale evidenza . Trascri-
vere è descrivere, nel senso assunto in fenomenologia dalla descrizione che
è concepita come quella pratica cognitiva che risponde al principio di non
oltrepassare il limite con cui il fenomeno si offre alla coscienza.

Lo scrivere richiede fedeltà prima di ogni altra cosa: essere fedeli a ciò che
chiede di essere tratto fuori dal silenzio (SA: 28).

Per questo nello scrivere non s’interrompe il lavoro del fare vuoto, di
purificare la mente dagli ingombri dell’io; di far tacere lo schiamazzo delle
passioni, innanzitutto della passione della vanità. Far agire la tentazione
della vanità significa cercare nelle parole di esprimere se stessi, di fare
posto al proprio sé. Ma accade cosı̀ che la verità non trovi modo di venire
alla luce, perché non trova nella nostra parola la trasparenza necessaria.
Invece, far agire il principio di fedeltà richiede di fare dentro di sé quel
vuoto necessario a rendere la mente un luogo sufficientemente sgombro e
trasparente da consentire alla verità dell’esperienza di venire alla parola.
Anziché esporre sé nelle parole gonfie di vanità, divenire strumento,
semplice strumento, del dirsi dell’esperienza. Questo divenire strumento
trasparente richiede che si lavori a fare della mente “un luogo di calma e
di quiete” (SA: 36).

La parola fedele all’esperienza è per Zambrano una parola sacra,


sacra perché in essa si dice la verità del vissuto. La parola sacra è azione;
agisce nel senso di aprire uno “spazio vitale” in cui “le differenti classi di
essere e cose entrano in contatto con noi, rendendoci accessibili differenti
modalità di realtà” (SA: 34).
Ciò che preoccupa Zambrano è il ricorso alla parola violenta, quella
di chi, preoccupato di attingere alla verità unica ed universale, annichilisce

10
Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, cit., p. 6.

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Sorivere di ormazione 127

le singole cose nella loro originaria differenza. Rispetto ad una parola che
uniforma tutto dentro una monologica, la parola sacra salva le differenze
in cui l’essere delle cose accade. Ed è in obbedienza al principio di dar
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voce alle differenze che occorre prestare attenzione ad ogni dettaglio


dell’esperienza, specialmente a quelli che tendono a stare nel silenzio.
Zambrano parla di attenzione ai diritti di quella realtà minuta che nessuno
coglie (DD: 62). Non solo nella vita quotidiana, ma anche nella pratica
educativa ci sono isole di esperienza destinate a rimanere senza voce,
compresi certi saperi dell’educazione, quelli che costruiti dai pratici a
partire dalla loro esperienza costituiscono una misura viva dell’agire
educativo, senza che però trovino una consistenza simbolica, perché non
percepiti essenziali dai discorsi dominanti.
La parola fedele alla realtà è allora quella attenta ad ogni minimo
dettaglio, alle differenze. È, dunque, una parola etica perché salva l’espe-
rienza dal silenzio, dalla non esistenza simbolica. Ha per questo i tratti di
uno scrivere mosso dal sentimento della pietà. Perché la pietà è quel
sentire capace di cogliere l’eterogeneità dell’essere, di cogliere i singoli enti
nella loro individualità essenziale, che si attualizza nell’“aspirazione a
trovare i tratti e il modo di intendersi con ognuna di queste molteplici
maniere di realtà” (SP: 68).
Ma soprattutto la pietà è quel sentire capace di trattare col mistero. La
realtà non è interamente conoscibile, né tantomeno si può pretendere di
tradurre tutto il conoscibile in idee chiare e distinte. Questa è l’illusione
del razionalismo, ma la realtà resta estranea a questa teoria. Proprio in
quanto tessuta di mistero, la realtà non può essere trattata solo da una
ragione calcolante, che pretende di tradurre tutto in algoritmi, ma chiede
un linguaggio adeguato a trattare con le zone di mistero che si porta
appresso. La parola fedele all’esperienza non può essere, dunque, che
quella nutrita dalla pietà (SP: 69).
Avere pietà è sentire e fare luogo alle differenze. E poiché la parola è
la dimora dell’essere umano, è nella parola che si chiede di rendere attivo
il principio di rispetto delle differenze creando quello spazio simbolico in
cui esse vengono a dirsi in fedeltà a sé. Avere rispetto per le differenze è
amore per la realtà.
Per Zambrano la parola dovrebbe essere una preghiera che chiama la
realtà a dirsi. Dunque, una parola che ringrazia la realtà per il suo donarsi
al pensiero. La ragione capace di questa intelligenza che si nutre del
sentire non può essere quella calcolante, ma quella che lei definisce
“ragione fecondante” (CB: 112), che è un altro modo per nominare la
ragione materna. La ragione fecondante non si lascia prendere dal deside-

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128 Un metodo a-metodioo

rio di piegare la realtà all’ordine del discorso, pronunciando parole che


materializzano il desiderio di potere. Ma, fedele alla qualità ontologica
della condizione umana per cui il vivere è convivere, è innanzitutto alla
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ricerca di “parole di comunione” (CB: 88).


Proprio perché l’essere umano è nella sua essenza plurale e come tale
è chiamato a realizzare il suo essere unico e singolare con gli altri, le
parole di comunione sono parole irrinunciabili per la vita. Non può certo
essere l’intelligenza che si vorrebbe impassibile a pronunciare tali parole;
la sua matrice generativa è l’intelligenza dell’anima, quella che in primis
ha cura dell’essere con gli altri. Ed è proprio quando si fa muovere da
questa cura, che è premura di vivere-con, che l’intelligenza va in cerca
della parola pura e attiva, la parola creatrice di spazi di dicibilità fedeli
all’essere.

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La pratica dell’educare secondo


la ragione poetica

La vita può srotolarsi dispersa e confusa. Può scivolare nel silenzio di


giorni sempre uguali. È la vita che manca di un’idea che la illumini, che la
informi, come un viaggio acquistato in agenzia, dove tutto è stato stabilito
da altri.
Ciascuno sente nell’anima la necessità di una vita vera, “quella che sa
attraversare il tempo, essere innanzitutto un modo felice di muoversi nel
tempo” (SA: 70), perché è proprio di ciascuno cercare di realizzare una
buona qualità della vita. Proprio il sentire questa necessità dovrebbe
muovere l’anima alla ricerca della verità, del sapere necessario alla vita.
Perché il sapere della vita è qualcosa che va cercato, dove per cercare
s’intende il lavorare a dare forma a questo sapere. Questo lavoro faticoso è
compito di ciascuno, ad esso nessun essere umano può sottrarsi, perché
sembra che “il più profondo sapere, quello delle cose della vita, non possa
trasmettersi” (NM: 112). Sembra che non esistano modi per rendere
trasmissibile tale sapere da una vita all’altra. Si può dire che l’essere uomo
consista proprio nel cercare questo sapere. È stando alla ricerca di questo
sapere che si risponde alla chiamata dell’essere.
Ma ciò non sempre accade. Per una forma di economia del pensiero si
preferisce la chiarezza che si trova disponibile nelle certezze correnti
piuttosto che andarle a cercare da sé. La vita della mente si riduce allora
ad un masticare vertità trite, opinioni ripetute, teorie standardizzate.
1
Anche se “il bisogno di verità è il più sacro di tutti” , non sempre la vita si
converte alla ricerca della verità dell’esperienza; è allora che procede
confusa e dispersa.

Come fare in modo che vita e verità s’intendano, la vita lasciando spazio
alla verità e la verità entrando nella vita? (CGL: 39).

1
Simone Weil, La prima radice, cit., p. 42.

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130 Un metodo a-metodioo

Faccio mia questa domanda di Zambrano e la ripropongo a partire


dal mio punto di osservazione che è quello di chi si occupa della possibilità
di educare e mi chiedo: Come si converte la persona a questa ricerca?
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Come si converte a cercare il metodo che guidi alla ricerca del sapere
dell’anima? Perché se una vita che si è affidata alla ricerca della verità è
una vita convertita, occorre che innanzitutto la vita si converta alla ricerca
della verità. Cosa questa che non necessariamente accade nella vita delle
persone, dal momento che per una sorta di economia della mente e del
cuore l’essere umano ”preferisce la chiarezza che trova già pronta a quella
che deve andarsi a cercare” (S: 6).
Quello di attivare la passione per la ricerca della verità può essere il
compito proprio e primario dell’educazione? Se si segue il magistero
socratico sembra proprio di sı̀, per Socrate educare è persuadere l’altro
alla ricerca della verità, coltivando quella passione che obbliga a cercare la
miglior forma possibile del proprio essere.
Il problema è capire come. Non ci sono dispositivi tecnici, non c’è una
didattica della ricerca della verità, lo dice bene Socrate quando afferma
che non ha nulla da insegnare (διδσκειν). Si può solo aver cura
(πιμελεσαι) che l’altro possa convertirsi a tale ricerca, cosı̀ come Socrate
fece con Alcibiade, se s’intende l’educazione come apprendistato di una
pratica. Ogni esperienza irrinunciabile, e tale è la ricerca della verità, “si
trasmette unicamente se viene rivissuta” (SA: 66). L’esperienza di Socrate
insegna che l’educatore converte l’altro alla ricerca della verità solo nella
misura in cui si fa testimone della passione per tale ricerca e consente
all’altro di condividere tale passione. La ricerca della verità non è un
esercizio intellettuale, è una pratica, e come tutte le pratiche la si apprende
sperimentandola in un contesto dove c’è un apprendista, più esperto di noi
in questa ricerca, che ci contagia della sua passione. È quanto accadde a
Zambrano, che imparò ad amare la verità dal padre che “da sempre le
aveva insegnato ad amarla, ad abbandonare tutto di fronte ad essa, a
cercarla pur sapendola invisibile” (DD: 26).
Educare alla ricerca della verità della vita è, dunque, testimoniare
nell’esperienza l’essere presi dentro questa ricerca, la ricerca di un’idea
che consenta alla vita di uscire dalla sua confusione. Perché la vita ha
bisogno di un’idea che aiuti a dare forma al tempo, di una visione del
proprio poter essere possibile che metta l’anima in tensione verso la
trascendenza accendendo il tempo di senso. Per essere tale un’idea non
può essere astratta, cioè un’idea che si apprende già sistematizzata, ma
deve essere guadagnata a partire dall’esperienza. La verità è quell’idea che
ha il sapore vivo dell’esperienza, qualcosa dunque che si apprende pen-
sando a partire da sé.

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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa 131

.1. Sentire la necessità di pensare


Pratica educativa essenziale è, dunque, educare a pensare. Il pensare è
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modo essenziale dell’esserci perché è quella forma di agire in cui l’essere


viene alla parola. In questo senso il pensare è la forma di azione più
semplice e anche più elevata2.
L’essere umano è chiamato alla responsabilità del pensare perché la
sua condizione è quella di dover subire la trascendenza, ossia di nascere
già gravato dalla responsabilità di muoversi oltre ciò che è dato per
protendersi verso l’ulteriore. Solo pensando l’essere umano lotta contro la
dissoluzione costante della vita per obbedire all’imperativo di essere.
Proprio in quanto mancanti di essere, mancanti di una forma del proprio
tempo e di un luogo definito in cui essere, l’essere umano ha necessità di
pensare; è il pensare che “rende la vita più viva” (SPPC: 94). Il pensare è
irrinunciabile perché:

non potrei morire senza aver vissuto la verità, ..., (perché) mi tocca vivere
umanamente, ..., dal momento che devo imparare a vivere nel tempo, devo
essere persona, vivere la condizione umana” (DD: 193).

Pensare è cosa necessaria come l’aria che respiriamo, perché per


“finire di nascere interamente e creare il proprio mondo” (SA: 90) occorre
concepire una forma di vita. Quando il pensare si lascia reclamare dalla
vita per dire la sua verità risponde al suo compito primario. È, dunque,
attraverso il pensare che l’essere umano si prende a cuore il suo essere
chiamato all’esistenza. Rispetto a tutti gli altri enti l’essenza dell’essere
umano consiste nell’essere chiamato ad esistere, e per esistere è necessario
pensare il senso dell’esserci.
Invece, c’è il rischio di vivere senza pensiero, di morire anzitempo alla
vita. Questo succede quando si sta nel mondo addormentati perché ci si
lascia portare dal pensiero di altri. Quando ciò accade è come passare
sopra la nostra vita. E questo passare sopra, questo vivere la vita irriflessi-
vamente senza addentrasi in essa per sentirla e pensarla, è ciò che di più
grave possa accaderci. La cosa più umiliante per un essere umano è quella
di sentirsi portato, trascinato, senza prendere alcuna decisione perché
qualcun altro la sta già prendendo al suo posto. Quando non si è educati
alla disciplina del pensare si vive a metà, perché si vive in un mondo da
altri anticipato. Zambrano definisce una “sconfitta” (DD: 66) esistenziale
l’incapacità di problematizzare la realtà a partire da sé.

2
Martin Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit., p. 32.

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132 Un metodo a-metodioo

Ma la tendenza è proprio questa, di stare in una forma di economia


del pensiero, quella di vivere senza meditare sull’esperienza. “Certamente
non tutti gli uomini si sentono sradicati dal loro vivere quotidiano, dal loro
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vivere indifferente, per pensare anche solo per un istante, senza aiuto,
senza nulla” (NM: 35). Per questa ragione ciascuno di noi ha necessità di
una torpedine che lo risvegli alla ricerca della verità.
Per conseguire questo esito, cioè convertire alla ricerca della verità,
l’educatore deve saper spiazzare l’altro dall’ovvio in cui tende a stare
affinché senta l’urgenza di pensare. Quando non si pensa, il deserto
s’impadronisce dell’anima. Il deserto non è mancanza di pensiero, ma
usare pensieri già pensati, stare nello stordimento dei discorsi reclamizzati.
E niente può svilire e umiliare l’essere umano più che il trovarsi mossi da
un pensare che non gli appartiene, da qualcosa al di fuori di sé (PD: 7-8).
Il metodo dell’educare consiste nello sradicare dal vivere indifferente
cosı̀ da far esperire l’urgenza di pensare. Un pensare però non astratto,
ma quello che aiuta a vivere, ossia quello che sta radicato nell’esperienza
cercando fili di luce che la rischiarino. Il pensare è quell’azione più attiva
di tutte, che rivela all’uomo il suo essere e lo fa nascere. Pensare è andare
nascendo, perché pensare è aprire possibilità di essere, è dar corpo a
quelle visioni che fanno da orizzonte al nostro camminare nel tempo.
Pensare è essenziale alla vita come l’aria che si respira, perché pensare
è trascendere, cioè farsi creatore di un tempo nuovo. Quando dedichiamo
tempo a pensare e non agiamo, abbiamo la percezione che il tempo passi
invano; invece, dedicando tempo al pensare creiamo le possibilità per
vivere un tempo vivo. È pensando che si disfa la nascita per rinascere ad
un’altra figura dell’esistenza. Il pensare è la più attiva di tutte le azioni,
perché è quella che fa nascere. È in questo senso che il pensare è vita,
ossia il vivere e il pensare sono la stessa cosa. Chi non pensa, chi evita di
addentrarsi nella vita “emette una sentenza di morte” (DD: 16). Pensando
si diventa presenti all’accadere del proprio esserci. Significa “fuoriuscire da
un mero esserci per arrivare ad essere” (ST: 26), ossia essere qualcuno, un
‘chi’, con la sua forma propria.
Perché la mia vita da un semplice passare si trasformi in presenza al
tempo non basta stare nel tempo, occorre pensarlo. L’atto di presenza
ontologica è manifestazione attiva. Mentre il nascere biologico è qualcosa
che si subisce, il nascere simbolico, quello in cui si dà forma al proprio
essere, richiede un atto di decisione alla presenza attiva. Educare a
pensare è, dunque, pratica essenziale dell’arte dell’educare.
Come attuare questa pratica? Sperimentando insieme il pensare. Per
dirla in termini pedagogici, il contesto dell’educare deve divenire comunità

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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa 133

di pratiche di pensiero, dove l’educatore è l’apprendista esperto della ricerca della


verità ed è in quanto tale che può far sentire la necessità di pensare.
Si tratta ora di individuare cosa è essenziale fare oggetto del pensare e
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secondo quali direzioni di senso per attualizzare “un pensare vivificante e


vivente” (NM: 40). È questo uno dei concetti fondamentali che ci offre
Zambrano, cui noi siamo chiamati a dare corpo e figura.

.2. L’irrinunciabile del pensare


pensare questioni essenziali
Fra le qualità essenziali del “pensare vivificante e evivente” c’è quello
di disegnare una forma di vita, una figura di realtà in cui l’esistenza
prenda il suo senso. Ma per trovare la visione che illumina il nostro
cammino, è necessario porre le domande giuste.
Il pensare è un domandare. Quello da cercare è il domandare vitale,
cioè quello che si mette in ascolto delle questioni essenziali, essenziali sono
quelle che hanno a che fare con il nostro esserci, quelle questioni che
sentiamo necessario frequentare perché ci aiutano a trovare la giusta
3
misura per abitare la condizione umana .
Arendt distingue fra conoscere e pensare: il primo procura strumenti
utili a padroneggiare l’ambiente in cui si vive, il secondo affronta le
questioni di significato per rispondere al desiderio originario di un oriz-
zonte di senso. Operando all’interno di una distinzione analoga, Zam-
brano parla di un sapere che ci consente di muoverci in un mondo di
strumenti utili e di un sapere che ci aiuta a disnascere per nascere di
nuovo (SA: 58). Questo secondo sapere sapienziale, capace di una energia
trasformativa sulla vita, è quello generato da un pensare che si mantiene
alle radici dell’essere. Questo tenersi presso i bisogni della vita si attualizza
laddove la mente si pone in ascolto delle questioni radicali. Quando il
pensare si tiene radicato nelle domande essenziali, allora arriva a generare
idee vivificanti e vitali, quelle che sanno trasformare la vita.
La vita ha necessità di “verità operanti e trasformatrici” (SA: 58),
perché l’essere umano è chiamato a rinascere di nuovo. Ma per rinascere

3
Per Zambrano essenziali sono le domande che Scheler solleva nel testo La posizione
dell’uomo nel cosmo, perché invitano l’essere umano a riflettere sul suo posto fra gli altri enti,
sull’ordine della natura di cui sentirsi parte, sulla sua condizione creaturale, concetto
questo particolarmente caro alla filosofa. Seguire la pista riflessiva aperta da Zambrano
significa autorizzare le domande metafisiche come nucleo problematico generativo di un
pensare vitale.

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134 Un metodo a-metodioo

occorre innanzitutto disnascere, ossia disfare i mondi ordinari per trovare


quelle direzioni di senso che sentiamo essere un modo felice di muoverci
nel tempo. Questo disfare le visioni della vita ormai logore e devitalizzare
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le idee non più capaci di fare ordine nell’esperienza è l’effetto prodotto


proprio dal pensare che interroga le questioni essenziali, perché quando si
esercita il domandare che chiamo radicale per il suo porre le questioni
metafisiche, cioè quelle per le quali non esiste una risposta certa e univo-
camente definibile, l’effetto che produce è spesso quello di lasciare chi
domanda “più ignorante dell’ultimo degli ignoranti” (NM: 104). Questa
ignoranza è vitalmente necessaria, perché è questa ignoranza non solo
saputa, ma poi anche accettata, che consente al pensiero di rinascere, di
iniziare, per “essere creatore di un tempo nuovo” (NM: 103). È cosı̀ che il
pensiero è fedele alla vita.

riflettere sull’esperienza
E per mantenersi fedele ad essa deve restare massimamente legato
all’esperienza facendosi guidare dal principio di trovare il “logos del
quotidiano” (SA: 62). Perché il pensare rimanga fedele alla sua ragione
generativa, che consiste nel cercare un sapere capace di valenza trasforma-
tiva della vita, non può, infatti, lasciarsi distrarre da preoccupazioni
secondarie e inessenziali, quali ad esempio la tensione a produrre forme di
sapere sistematico, ma deve stare in ascolto del desiderio irrinunciabile di
trovare un senso al proprio camminare. Tutto il vissuto sarebbe un
semplice passare, dove niente è del tutto vivo, se non divenisse oggetto di
quel pensare che degli eventi cerca comprensione. Riflettere sul vissuto
significa presentificarlo, portarlo alla presenza della coscienza. Il presentifi-
care salva i vissuti dando loro corpo e figura. Quando questo atto
cognitivo viene meno allora “gli eventi passano al passato senza essere stati
presenti” (NM: 91). In questo obliarsi del vissuto viene meno la consi-
stenza stessa della vita. Per questa ragione il pensare vivificante prende
innanzitutto la forma del meditare l’esperienza.
Riflettere sull’esperienza è sapersi, e solo sapendosi ci si muove
liberamente nel tempo. Sapersi è pensare l’esperienza nel suo accadere,
cosı̀ da arrivare a sapere dove si è nel mentre in cui sentiamo e pensiamo.
Questo atto riflessivo è quello più vitale di ogni altro perché, “se sapessi
dove sono esattamente, saprei quello che devo fare” (DD: 28).
Di fatto è impossibile guadagnare una completa conoscenza situazio-
nale, dal momento che il nostro pensare è imbricato nella situazione
oggetto del pensiero, si muove all’interno. Il nostro pensare è sempre
vincolato al luogo a partire dal quale si pensa, è per questa ragione che “il

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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa 135

sapere dove si è esattamente” implica il sapere dove si è quando si pensa. Una


domanda metariflessiva che, se ha l’effetto di produrre un guadagno di
consapevolezza nella forma dell’autopresenza, allo stesso tempo mostra i
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limiti della nostra attività cognitiva destinata ad accadere dentro un mare


di opacità.
Nonostante i limiti del pensare non ci si può astenere da questa
pratica cognitiva, perché solo pensando l’accadere delle cose, solo dedi-
cando il pensare alla comprensione del tempo che arriva, il vissuto diventa
esperienza, l’esperienza essendo presa di coscienza, autognosi (ST: 20). È
nella riflessione che il soggetto risponde alla necessità di vivere il più
intensamente possibile. La riflessione riscatta la vita, poiché apre uno
spazio esperienziale di secondo grado.
Tuttavia, pur riconoscendo la funzione ontologica del pensare che
riflettendo sul vissuto lo trasforma in esperienza, occorre sapersi sottrarre
dalla tentazione di pensare che nella riflessione l’esperienza diventi qual-
cosa di padroneggiabile, perché sempre delle cose rimangono lati in
ombra, aspetti oscuri, impossibili da penetrare. Il vissuto sfugge al pen-
siero. Qui sta il negativo, sta nel lato non conoscibile della vita, perché
rispetto ad esso noi si è costretti a subire, subire questi aspetti opachi. Lı̀
non c’è possibilità di decisione, di decidersi per la passività, cioè di patirli,
semplicemente li si subisce.
Il sapere dell’anima, che è il sapere della vita, non è qualcosa che si
acquisisce attraverso argomentazioni rigorosamente strutturate. È un sa-
pere che viene dall’esperienza, ossia dal vivere intensamente il proprio
tempo accettando ogni suo lato, patendolo fino in fondo. E patire non è
subire, è accettare di starci pienamente nella ferita dell’essere. Per starci
pienamente occorre pensare il proprio esserci, per questo non c’è patire
senza pensare, di conseguenza il sapere della vita viene da quell’esperienza
che si è patita attraverso un pensiero che sta nelle cose, “è frutto di lunghi
patimenti, di lunga osservazione, che ad un tratto si condensa in un istante
di lucida visione” (NM: 111).
L’educazione della mente alla riflessione sul vissuto cosı̀ che si tra-
sformi in esperienza rischia, nella nostra cultura, un approccio incorporeo,
ossia il mancare la consapevolezza che la vita del pensiero accade in un
corpo. Quando si pensa, infatti, si è portati a ritenere che la mente stia in
compagnia di pensieri che abiterebbero uno spazio immateriale, lontano
dal mondo. Proprio quando ascende alla sua massima attività pensante,
cioè la riflessione, che poi può diventare oggetto di un atto cognitivo
ancora più immateriale come la metariflessione, il soggetto può dimenti-
care di avere un corpo. Dal momento che ha tutta l’apparenza di

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136 Un metodo a-metodioo

un’attività incorporea, il dedicarsi a pensare può mancare della consape-


volezza del radicamento corporeo della vita della mente, ossia del nostro
essere materia vivente.
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In questo oblio c’è tutto il peso della nostra cultura filosofica incorpo-
rea, quella che voleva dimenticare che noi siamo innanzitutto soggetti
biologici. Il nostro pensare accade sempre in un corpo materiale. E in ogni
attività, anche quella apparentemente più immateriale come la riflessione,
l’essere umano si porta appresso la sua materia. Quella materia grazie alla
quale esiste e partecipa della vita (ST: 24). L’errore in cui si cade è quello
di dimenticare la nostra costitutiva materialità per il semplice fatto di
essere vivi, quando invece il pensare che ci fa entrare nella realtà richiede
che si attivino i sensi. Non si può entrare nella realtà senza attivare la
capacità della nostra materia di aprirsi alla materia di cui sono fatte le
cose. Allora per esserci veramente nel tempo non basta pensare, ma
risignificare il pensare a partire dal riconoscimento delle sue radici mate-
riali. Riconoscere che il pensare che entra nella realtà è quello che si nutre
dell’esperienza sensoriale.
Per sentire amore per le cose occorre saper entrare nella realtà con
tutto se stessi, dunque anche con i sensi, cosı̀ come fa il poeta. Zambrano
parla di un “ordine sacro che riguarda i sensi” (B: 11), perché sono i sensi
che ci mettono in contatto con le cose. La realtà non è fatta di mere
apparenze; parlare di apparenze equivale a smaterializzare e dunque
togliere vita alle cose, perché la vita sta solo laddove c’è la materia. La
realtà è fatta di cose che chiedono di essere percepite col corpo o, meglio,
con una mente incarnata.
Che la riflessione sul vissuto promuova la consapevolezza del pensare
come attività incarnata è quindi mossa formativa essenziale, non solo su
un piano ontologico, quello che ci fa scoprire di essere corpo vivo inserito
nell’ordine cosmico, ma anche sul piano epistemologico, poiché il sapersi
pensiero che accade in un corpo e, quindi, nutrito dai sensi porterebbe ad
una più attenta cura della dimensione sensoriale dell’esperienza.

pensare il tempo
Per essere fedeli alla vita occorre innanzitutto pensare la vita, ma
poiché la vita è tempo, allora il tempo è cosa primaria da pensare. È dal
saper patire ogni attimo del tempo pensandolo radicalmente che può venire
“quel grano di sapere che feconderebbe tutta una vita” (NM: 112). Pensare
il tempo significa pensare la forma che ad esso si vorrebbe dare, ma è anche
descrivere le forme che esso prende realmente, e quindi il rapporto che nel
reale si viene ad istituire tra la nostra visione e l’accadere delle cose.

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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa 137

In questa attenzione al tempo che Zambrano ci suggerisce è evidente


il peso che ha avuto la lettura di Seneca, altro filosofo spagnolo, che del
tempo fece l’oggetto primario delle sue riflessioni. Seneca sosteneva che la
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cosa fondamentale da fare è pensare il tempo affinché questo non passi


invano, perché il tempo che si limita a passare senza che con esso noi
abbiamo istituito un rapporto intenzionale e riflessivo “scivola nell’abisso,
nell’abisso del non vissuto del tutto” (ST: 19). Pensarlo, il tempo, è
salvarlo, sia perché ad esso si dà forma sia perché diventa memorabile.
Il tempo non pensato divora tutto ciò che pretende di essere, impedi-
sce l’esserci. Solo pensando il tempo ci si trae fuori da quel perdersi che si
verifica quando ci si lascia accadere, come trascinati dal fluire delle cose.
“Avendo coscienza del tempo, il soggetto passa dal patirlo al muoversi con
esso e persino sopra di esso, allo stesso modo in cui si nuota nell’acqua
respirando nell’aria” (NM: 106-107).
Il tempo è cosa essenziale da pensare perché è la materia di cui è fatta
la vita. Di conseguenza nessuna esperienza può essere più rilevante per la
formazione dell’anima della scoperta del tempo (S: 37).
Anche se la vita è tempo, non è, però, automatico che la mente rifletta
su questa cosa, per la ragione che nel tempo noi ci siamo immersi, come i
pesci nell’acqua. Del tempo come materia della vita acquistiamo coscienza
in momenti particolari, in genere i momenti di crisi, quelli in cui si avverte
all’improvviso il poco tempo che rimane, quelli in cui la sofferenza ci fa
avvertire la questione del tempo, oppure quando l’anima patisce la malin-
conia del fluire incessante delle cose, quel fluire che non lascia scampo. Di
solito la scoperta del tempo è legata ad un momento negativo della vita,
quando la paura arpiona l’anima, o quando il venir meno di ciò che
consideriamo importante ci fa scoprire in tutta la nostra fragilità.
Quando la coscienza, a lungo disattenta al tempo, si trova improvvisa-
mente interpellata dalla domanda divina: <Dove sei nel tuo mondo? Dei
giorni e degli anni a te assegnati che ne hai fatto?>4, non può che
precipitare nello sgomento, perché non c’è nulla di più drammatico del
trovarsi d’un tratto a dover rendere conto del proprio tempo senza che
prima lo si avesse tenuto in conto. L’educazione che mira a far germinare
il sapere dell’anima non può allora non portare l’attenzione riflessiva sul
tempo come essenza della vita, cosı̀ che del tempo si impari ad aver cura.
Il tempo ha da essere raccolto e conservato, perché “lo spreco più
vergognoso è quello provocato dall’incuria”5.

4
Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, Magnano 1990 (tr. it. da Der Weg
des Menschen nach der chassidischen Lehre, Pulvis Viarum, L’Aia 1947), p. 18.
5
Seneca, Lettere morali a Lucilio, Mondadori, Milano 2005, I, 1, 1.

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138 Un metodo a-metodioo

Guida della pratica educativa potrebbe essere in questo caso le Lettere


che Seneca scrive a Lucilio, che portano l’attenzione del discepolo sulla
temporalità dell’esistenza, per far germinare la consapevolezza che del
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tempo, la cosa che noi siamo, non ne disponiamo ma ne abbiamo la re-


sponsabilità, la quale consiste nell’essere chiamati ad aver cura che il
tempo non passi invano. E questo richiede che l’essere presenti alla
propria vita si costituisca come continua donazione di senso.

.3. Le direzioni di senso del pensare


Lo snodo critico delle riflessioni di Zambrano sul pensare va individuato
nel rilievo dato al cercare un pensiero che si fa vita. Tale è il pensiero che
sgorga dalla vita ed evita l’astrazione. Solo questo pensiero risponde alla
funzione di rendere respirabile l’ambiente. Ma affinché si possa dare
forma a questo pensare è necessario trovare la giusta direzione di senso
della vita della mente, direzione che consisterebbe nel pensare con sobrietà e
con umiltà.
Si pensa con sobrietà quando si sanno scantonare le domande inessen-
ziali, quelle frequentate da chi pratica il lusso dell’astrazione, e ci si lascia
invece interrogare dalle domande irrinunciabili, quelle che inquietano la
coscienza. Pensare con sobrietà significa attivare il pensiero solo in rela-
zione a domande vitali, perché è ascoltando queste che il pensiero si fa
“azione vitale” (DD: 50). Dedicare il pensare alle domande vitali, quelle che
s’impongono alla ragione secondo un principio di necessità, è cosa difficile
perché la fatica dell’esaminare queste radicalmente non è compensata dal
poter pervenire a risposte definitive. Anche se all’apparenza questa fatica
del pensare sembra inutile è, invece, fondamentale. Fondamentale perché
se non si sta in ascolto delle domande vitali allora si dicono parole non
essenziali, meramente ornamentali, che funzionano come vano riempitivo.
Sobrietà è anche temperanza nell’uso delle parole, dedicando la propria
cura a pronunciare solo quelle relative a ciò cui si tiene profondamente. Se
il linguaggio è la casa dell’essere, le energie del pensare e del dire vanno
spese laddove si sente essere in gioco l’essenziale, il senso del proprio esserci.
L’energia di cui innanzitutto l’anima ha necessità è quella richiesta per
adottare un comportamento coerente con le proprie convinzioni; poiché
questa coerenza richiede molta energia interiore occorre saper evitare
dissipazioni inutili, come quando ci si consuma nella chiacchiera, nel dire
non essenziale. Se essere e pensare sono lo stesso, allora scartando le
questioni vitali e discutendo nella forma della chiacchiera si finisce per non

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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa 139

pensare e, quindi, per non essere veramente. Il pensare è vita, afferma


Aristotele; ne consegue che per entrare nella vita occorre pensare e farlo
radicalmente, ossia pensare quello che chiede di essere pensato.
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Proprio perché concepisce il pensare non disgiunto dal sentire, e la sua


preferenza va decisamente all’intelligenza del cuore, Zambrano suggerisce
– e di più non fa, lasciando a noi il compito di coltivare le sue riflessioni –
di considerare vitali quei pensieri che non solo sgorgano dalla vita, ma che
si muovono nell’amore per la realtà: “volere la realtà di qualcosa nell’a-
more, ossia nel volere l’esistenza di qualcosa con allegria” (DD: 51).
L’amore di cui parla Zambrano è il desiderare l’esistenza dell’altro,
6
spogliati di ogni illusione di possesso (DD: 57) .
Se da una parte ci è richiesto di praticare la sobrietà dell’interrogare
come condizione per trovare la visione che guidi il nostro cammino,
dall’altra la mente sente l’esigenza di valutare, di soppesare, di misurare. E
fra le cose che la mente sente essenziale valutare è il grado di autenticità
del nostro esistere, quanto cioè il modo del nostro esserci è congruente con
la visione che vorremmo perseguire, quanto è fedele alle credenze nelle
quali ci sembra di individuare le direzioni assiologiche (DD: 60). Ma
pensare che sia possibile soddisfare questa ricerca è una forma di arro-
ganza, perché significa presupporre che noi siamo capaci di osservarci
dall’esterno, di essere spettatori del nostro accadere, come se la mente
fosse capace di un pensare che nascendo da fuori penetri poi nell’interno.
Perché il pensare aiuti a vivere occorre praticarlo con umiltà, tenendosi
fedeli ai limiti inaggirabili della ragione umana.
Pensare con umiltà significa sapere che il nostro potere di afferrare
conoscenze vere è poca cosa perché non afferra alcuna realtà, semplice-
7
mente la mente costruisce qualcosa che funziona , e poi accettare che ciò che

6
Raccontando della sua giovinezza Zambrano si descrive situata in un ambiente
connotato da un’intimità intensa e senza oppressione, dove “respirava avvolta nell’amore
della sua famiglia” (DD: 59). Questo dato del suo vissuto, nella sua sobrietà espressiva,
potrebbe condensare il nucleo di una ipotesi pedagogica: forse che l’intelligenza amorosa
per prendere corpo necessita non di una didattica, ma che la mente viva in un ambiente in
cui il modo di stare insieme è permeato da questa intelligenza? Se cosı̀ fosse, allora
l’educazione per essere fondamentale, cioè capace di nutrire la ragione materna, non
andrebbe concepita, come invece sempre più accade di constatare, solo come attivazione di
procedure mirate a provocare l’emergenza di certe abilità cognitive, bensı̀ anche come
tessitura di un ambiente di relazioni in cui si pratica un modo amorevole di stare con gli
altri. Specificatamente l’intelligenza amorosa potrebbe avere come matrice generativa un
ambiente di pensiero contrassegnato da un clima emozionale positivo. Viene qui da
pensare all’allegria, una tonalità emotiva spesso nominata da Zambrano.
7
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 142.

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140 Un metodo a-metodioo

l’intelligenza non afferra è più reale di quello che riesce a comprendere8.


L’umiltà è una virtù ricorrente nelle riflessioni di Zambrano – come anche in
quelle di Weil – per indicare un modo d’essere attraverso il quale opporre
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resistenza al razionalismo, allora come ora imperante, secondo il quale la


mente sarebbe padrona dei suoi pensieri (SA: 108). Umiltà e sobrietà sono
quei modi dell’essere che tengono la persona fedele alla sua condizione
creaturale, che è innanzitutto fragilità e provvisorietà di ogni conquista.

.4. La passività del pensare


Durante l’esperienza di un laboratorio di pensiero, che avevo attivato
nell’ambito di un corso universitario finalizzato a provocare una riflessione
sul concetto di ‘buona qualità della vita’, al termine di una discussione di
gruppo molto intensa, nel corso della quale molte delle convinzioni
correnti erano state sottoposte ad una radicale problematizzazione, una
studentessa mi chiese: “Ma perché pensare se il pensare genera dubbi?
Non si vive meglio accettando le idee correnti? Da quando è iniziato il
laboratorio spesso mi trovo a pensare e il pensare mi genera sofferenza”.
Sollevare domande significa mettersi in discussione e scoprire la fragilità
delle proprie certezze, con la conseguenza di sentire la necessità di doversi
spogliare di molte convinzioni. Si tende a non pensare proprio perché
pensare significa scoprire la nostra inaggirabile finitezza, la nostra mancanza
d’essere, significa sapere la povertà delle cose umane. Significa scoprire
l’impossibilità di divenire pienamente il proprio poter essere e dunque
trovarsi di fronte allo scarto fra la chiamata alla trascendenza e l’impossibi-
lità di attualizzarla pienamente. Il pensare ci porta di fronte all’innegabile
realtà della fragilità della condizione umana, cioè di fronte al fatto che il
nostro essere non è qualcosa di durevole, è drammaticamente “prorogato di
momento in momento, e sempre esposto alla possibilità del nulla”9.
Pensando si scopre di stare in “quella condizione dell’essere in movi-
mento, senza cambiare luogo” (NM: 103). Si sente di essere chiamati a
fare un cammino, a farsi viandanti pellegrini, senza che questo camminare
cambi il luogo dove si è, che rimane inesorabilmente quello della finitezza,
della fragilità che è innegabilmente fonte di angoscia. Pensare “mostra e
rivela il nostro affanno” (NM: 103). Per questo a stento si può pensare

8
Ivi, p. 172.
9
Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 33.

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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa 141

senza tremare di fronte alla percezione vivida della consistenza problema-


tica dell’esserci. Pensando si ha un’immagine fin troppo nitida della dram-
maticità della condizione umana, del fatto che si può morire alla vita pur
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rimanendo vivi. Si sente di essere vivi, ma non di stare dentro la vita. Si


sente il dondolarsi delle foglie al vento ma non si riesce a toccare il loro
movimento, si vede la luce spandersi là fuori, ma è là, lontano, non bagna
la nostra pelle. Si sente che la realtà non è a noi presente del tutto, e
anche quella parte di realtà che ci appare ci si rivela in modo discontinuo,
altalenante. Si sta dentro la realtà, ma come da essa divorziati. Il percepire
questo continuo scarto ontologico fa sentire di morire vivendo.
Si muore quando l’anima è troppo piena, quando ci sono troppi
attaccamenti. Per pensare occorre saper stare in povertà, povertà di
sapere, povertà di spirito. Respirare la vita richiede di rendere l’anima il
più trasparente possibile, “ridurre l’ombra al minimo, assottigliarla” (DD:
16). Il lavoro vitale del pensiero è il lavoro del disfare. Disfare è lasciar
morire quelle parti di sé che fanno resistenza all’altro, fanno resistenza
all’aria.
Il pensare gradualmente costruisce un involucro, qualcosa di invisibile,
di incorporeo, ma di cosı̀ spesso da interporsi fra noi e l’aria d’intorno.
Nascere è lavorare a sgretolare questo involucro. Un lavoro destinato a
non essere mai terminato. È il paradosso radicale della vita: si nasce non
terminati, senza forma, e per trovare la propria forma si è chiamati ad un
lavoro mai terminato di disfare le forme già compiute. Si è chiamati ad un
nascere continuo. Dunque, affinché si possa pensare, occorre disfare i
prodotti del pensiero. Il pensare non si dà là dove ci sono certezze cui
aggrapparsi, perché aggrappandosi alle certezze il pensiero si ferma, non si
muove, non si mette in cammino.

Il domandare radicale, che ci spossessa di tutte le certezze, quello che


fa scoprire il niente del proprio pensare di fonte alle domande della vita,
non può che generare quell’angoscia che fa tremare l’anima. Ma perché
questa angoscia anziché annichilire il movimento dell’essere sia genera-
trice di cammino verso l’ulteriore, occorre che si sappia stare fino in fondo
in questa sofferenza del non sapere, “giacché la legge umana è di non
potersi elevare se non dal fondo” (NM: 104). Solo accettando di stare nel fondo
del sentirsi mancanti d’essere si può trovare il cammino giusto del pensare, il
metodo del pensare. Solo “accettando quel momento nel quale si è vinti e
portandolo all’estremo” (NM: 105) si può ascendere a nuova nascita.
Accettare significa innanzitutto non opporre resistenza all’angoscia
che prende l’anima quando scopre che la visione del proprio giusto

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142 Un metodo a-metodioo

divenire può mancare, e manca perché è difficile afferrare una compren-


sione chiara ed intera del nostro essere. Per stare nella verità è indispensa-
bile imparare ad accettare di essere radicati in un sentire originario che
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resiste nella sua opacità. Il sapere dell’anima non può chiedere troppa luce
al pensare. Da cercare è solo qualche debole chiarore, quella luce che si
mostra come un raggio che con delicatezza si curva sulle cose fragili della
vita umana. Presi dal desiderio di verità, si rischia di alimentare illusioni
smisuranti circa la nostra capacità di comprensione. Il saper accettare i
limiti del nostro essere e, quindi, anche i limiti della ragione mette al
riparo da certe dismisure che disordinano il pensare e il sentire, e con esso
l’essere.

Questo accettare è cosa difficile, perché non si tratta solo di accettare


che non si sa, che non si hanno risposte alle domande che premono alla
coscienza, ma anche di accettare che manchiamo della capacità di capire
ciò che non si è saputo pensando (NM: 109). L’essere umano è destinato a
mancare di capire ciò che inevitabilmente si sottrae al pensiero. E che ci
siano zone di mistero deve imparare ad accettarlo.
Ma c’è un accettare ancor più radicale: è il saper accettare la
sofferenza che questo sapere produce. Pensare provoca sofferenza, ma in
questa sofferenza bisogna sapere starci. Accettare di sapersi ignorante, di
stare in povertà di spirito di fronte alle cose avvolte nel mistero, sembra
nell’ordine del possibile, ma stare fino in fondo nella sofferenza prodotta
dalla consapevolezza della propria mancanza è come cosa fuori dall’or-
dine. Accettare la sofferenza, fino ad esserne vinti; non opporre resistenze,
lasciare che impregni l’anima, la carne, la carne dell’anima. Solo allora,
solo dopo essersi lasciati vincere, si apre la strada del rinascere ad uno
sguardo nuovo. Sapere stare nella passività è già trascendenza. Accettare
la verità del nostro essere trasforma il nostro atteggiamento nei confronti
della vita (SA: 58).

.5 Aver cura del sentire


In una cultura come è la nostra, dove la fatica psichica che richiede il far
fronte alla responsabilità di esistere sembra aumentare giorno per giorno,
dove il benessere coesiste con l’angoscia, dove per le tante occupazioni si
finisce col vivere con l’anima disoccupata, dove di frequente assistiamo
allo “sport intellettuale della disperazione estetizzante” (B: 105) mentre
con indifferenza si passa accanto a forme di vero dolore, si tende sempre
più a fare affidamento su una intelligenza efficientistica, alla quale si

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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa 143

chiede di controllare ogni angolo dell’esperienza, senza che ci si fermi a


meditare la radice della sofferenza. Di fronte a questa distorsione l’educa-
zione della mente non può più concepire il pensare disgiunto dal sentire,
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perché quel pensare che, nella sua essenza, è meditare sull’esperienza “è
anche riconquistare il sentire originario delle cose, del paesaggio, della
gente, degli uomini e dei popoli, il sentire della realtà immediata che ci
apre alla realtà del mondo” (DD: 86).
Anche se da tempo si sa che il sentire è ciò che ci tiene aperti al reale,
a dominare è la tendenza a separare l’attività cognitiva dalla vita emotiva,
nell’illusione che la prima guadagnerebbe in efficacia se fosse svincolata
dalla seconda. Siamo vittime di una concezione intellettualistica, devitaliz-
zata e devitalizzante dell’educazione, che riduce tutto a strategie che
pretendono di razionalizzare il processo di formazione. Si dimentica il
ruolo decisivo che il sentire ricopre nella vita umana. Invece la funzione di
chi ha acquisito un qualche seme di sapere della vita è quella di allenare il
giovane a “sostenersi con il cuore, da solo con il suo cuore, ..., davanti alle
situazioni enigmatiche che la vita gli presenterà” (NM: 114).
E non c’è altro modo di allenare a sostenersi con il cuore che quello di
coltivare nell’ambiente sentimenti amorosi e positivi. Un’educazione che si
muova in questa direzione non può che essere concepita nella cornice di
una ragione materna, quella che, senza rinunciare a pronunciare parole
dure e severe ogni volta che la realtà lo richiede, non abbandona né la
gioia né la fiducia (DD: 90). Perché il pensare si nutre di gioia.
È vero che la vita della mente può subire come una specie di
accelerazione dal trovarsi a vivere un “evento estremo, un fatto assoluto,
come la morte di qualcuno, la malattia, la perdita di un amore o lo
sradicamento forzato dalla propria patria” (NM: 111). Non bisogna, però,
pensare che sia solo l’essere sottoposti ad un evento estremo generatore di
sofferenza la molla che fa germogliare il sapere della vita. Il pensiero
primariamente sgorga da una mente che si trova in una tonalità emotiva
positiva. Zambrano sostiene che nasce dall’allegria e dalla felicità (NM:
112). Lei conosceva bene il pensiero di Agostino e proprio nell’ultimo libro
delle Confessioni troviamo scritto: “Nutre la mente solo ciò che la ralle-
10
gra” .
La ragione che ha cura di coltivare i sentimenti positivi è quella
materna, quella che ama la vita, nutrendo per essa uno sguardo di “fede,
speranza e goia” (DD: 90).
Siamo cosı̀ portati a portare il pensiero a meditare su ciò che è

10
Agostino, Confessioni, libro XIII, 27.42.

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144 Un metodo a-metodioo

problematico, su ciò che non funziona, sulla sofferenza, che parlare in


positivo è vissuto come straniante, fuori luogo. “Parlare bene del bene”
11
risulta imperdonabile . Chi, però, ha esperienza della sofferenza, quella
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più radicale, dilaniante l’anima perché perdurante nel tempo senza che si
possa nutrire la minima speranza di scrollarsela di dosso, e proprio a
partire da questa sua esperienza ha sperimentato direttamente su di sé e su
chi condivide il suo spazio vitale gli effetti di azioni nutrite da una ragione
materna, trova il coraggio di dire anche l’imperdonabile, mettendosi dalla
parte del sentire amoroso e positivo di cui parla Zambrano. Anche
Arendt, che pur non esprime un’adesione teoretica cosı̀ appassionata al
sentire, considera “fede e speranza” le due essenziali caratteristiche dell’e-
sperienza umana e insieme ad esse “la gioia di abitare insieme con gli altri
12
un mondo” .
Quello che si deve chiedere all’educazione è di uscire dai limiti di
un’interpretazione intellettualistica per pensare che educare significa an-
che offrire ai giovani esperienze in cui imparare a pensare e a coltivare la
sfera del sentire. Un’adeguata teoria dell’educazione è quella che si nutre
di una logica che sa riconciliare l’idea razionale dell’essere umano (penso
dunque sono) con l’idea che tiene conto della dimensione emotiva (sento
dunque sono), e che proprio su queste basi concepisce la formazione come
un processo che intreccia insieme l’educazione al pensare rigoroso, che si
nutre della più ampia alfabetizzazione culturale, con “la gioia di vivere e
13
di amare” . L’educazione ha il compito di guidare il soggetto educativo
non solo a comprendere la sua geografia emozionale, individuando i
sentimenti che sono alla radice della sua postura esistenziale, ma anche a
coltivare altri territori del sentire, quelli dei sentimenti positivi che aiutano
il mestiere di vivere nella direzione della trascendenza.

11
Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano 2000, p. 175.
12
Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, pp. 182 e 180.
13
Gregory Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano 1989 (ed. or. Angels Fear.
Towards an Epistemology of the Sacred, Macmillan, New York 1987), pp. 272-273.

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Teorie & Oggetti della Letteratura
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A. Helbo (a cura di), Semiologia della rappresentazione


J.-C. Gardin, Le analisi dei discorsi
U. Carpi, Bolscevico immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni venti
F.P. Botti, G. Mazzacurati, M. Palumbo, Il secondo Svevo
P. Getrevi, Nel prisma di Tozzi
R. Genovese, Teoria di Lulu
M. Jeanneret, La scrittura romantica della follia. Il caso Nerval
R. Luperini, Montale o l’identità negata
P. Fasano, L’utile e il bello
C. Benedetti, La soggettività nel racconto. Proust e Svevo
U.M. Olivieri (a cura di), «Change»: un laboratorio del ’900
N. Ordine, La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno
F. Curi, Parodia e Utopia
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G. Frasca, Cascando. Tre studi su Samuel Beckett
M. Sechi, La figura del corvo. Percorsi letterari degli anni cinquanta
P. Voza, Tra continuità e diversità: Pasolini e la critica. Storia e antologia
M.A. Grignani, Retoriche pirandelliane
M.C. Cabani, Gli amici amanti. Coppie eroiche e sortite notturne nell’epica italiana
E. Mattioda, L’ordine del mondo. Saggio su Primo Levi
E. de Pasquale, Il segreto del giullare. La dimensione testuale nel teatro di Dario Fo
M. D’Ambrosio, Le “Commemorazioni in avanti” di F. T. Marinetti. Futurismo e critica letteraria
F. Moliterni, R. Ciccarelli, A. Lattanzio, Primo Levi. L’a-topia letteraria. Il pensiero narrativo. La
scrittura e l’assurdo
F. Pozzo, Emilio Salgari e dintorni
F. Montesperelli, Flussi e scintille. L’immaginario elettromagnetico nella letteratura dell’Ottocento
C. Bordoni, Stephen King. La paura e l’onore nella narrativa di genere
N. Ordine (a cura di), La letteratura comparata: questioni di metodo
M.I. Macioti, Giallo e dintorni
F. Montesperelli (a cura di), Tra Frankenstein e Prometeo. Miti della scienza nell’immaginario del
’900
G. Amoroso, Raccontare l’assenza. Annotazioni sulla narrativa italiana del 2005
D. Trotta, La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura. Con antologia di
scritti rari e immagini
N. Novello (a cura di), Apocalisse. Modernità e fine del mondo

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F. Rastier, Ulisse ad Auschwitz. Primo Levi, il superstite
F. Giuntoli Liverani, Elsa Morante. L’ultimo romanzo possibile
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