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Teorie & Oggetti della Filosofia
Collana diretta da Roberto Esposito
60
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Luigina Mortari
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Un metodo a-metodico
La pratica della ricerca
in Marı́a Zambrano
Liguori Editore
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Mortari, Luigina :
Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano/Luigina Mortari
Napoli : Liguori, 2006
ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4518 - 9
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Indice
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1 Premessa
11 Capitolo primo
Direzioni di senso
1.1. Cercare la verità della vita 11; 1.2. Per un sapere dell’anima 14.
21 Capitolo secondo
Alla ricerca di un metodo
2.1.L’essenza a-metodica del metodo 22; 2.2. Entrare nella realtà 25; 2.3.
Essere fedele alle cose 31; 2.4. Pensare da un’assoluta semplicità 35.
43 Capitolo terzo
Nella semplice essenzialità
3.1 Disfare 43; 3.2. Stare passivi 55.
71 Capitolo quarto
Il metodo della ragione poetica
4.1. Stare col pensiero fra le cose 71; 4.2. Con stupore ammirato 76; 4.3. La
parola incarnata 78; 4.4. Perdersi fra le cose per guadagnare il reale 80.
85 Capitolo quinto
Coltivare sentimenti amorosi e positivi
5.1. Comprendere il sentire 88; 5.2. Saper accettare 92; 5.3. Sperare 102;
5.4. Avere fiducia 105; 5.5. Il sentire nutrimento del pensare 108; 5.6. La
ragione del cuore 111.
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viii Indioe
6.1. Disfare i discorsi sistematici 115; 6.2. Dare parola all’esperienza 117.
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Premessa
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2 Premessa
1
domanda orteghiana “Che fare?” ; la domanda propria di una vita spesa
alla ricerca della verità dell’esperienza, alla ricerca di un sapere che aiuti a
vivere. È dalla necessità di sapere cosa fare che ha origine l’affanno del
conoscere. Perché la vita non può essere vissuta interamente senza un
sapere che la informa, che offra un’ispirazione per dare senso al proprio
tempo.
La necessità di questa ricerca di un sapere della vita non sempre
appare chiara alla mente, e anche quando questo avviene è facile poi che
la passione per la ricerca venga meno in conseguenza di esperienze che
hanno l’effetto di annichilire l’energia necessaria al lavoro etico ed estetico
di modellare il proprio tempo. Perché quel camminare che è la vita ha
spesso un sapore amaro che pesa sul cuore.
Rispetto a tale questione etica – intendendo per etica quella pratica di
ricerca della verità che invera la vita – il compito proprio di una cultura
consiste nell’individuare quelle pratiche che consentano di far scaturire e
poi coltivare nei giovani la passione per questa ricerca; la pratica sociale
che risponde a questa necessità è definita educazione, pratica che è
all’origine della filosofia incarnata da Socrate.
L’educazione è qui concepita come pratica di persuasione ad aver
2
cura di sé, una cura di sé intesa socraticamente come cura dell’anima , che
si attualizza nell’andare alla ricerca della verità dell’esistenza. Perché
“questo è per l’essere umano il bene maggiore: ragionare ogni giorno della
virtù” e investigare tutte quelle questioni che hanno a che fare con la
ricerca dei modi di aver cura dell’anima, perché “una vita che non faccia
3
tali ricerche non è degna di essere vissuta” .
4
La pratica dell’educare si pone la stessa domanda della vita quando si
1
Ortega y Gasset, Metafisica e ragione storica, Sugarco, Milano 1989, p. 121, cit. in Marı́a
Zambrano, Note di un metodo, Filema, Napoli 2003 (ed. or. Notas de un método, Mondadori
España, Madrid 1989), p. 143, nota 5.
2
Platone, Lachete, 185e.
3
Platone, Apologia di Socrate, 38a.
4
Conviene qui precisare perché al più attuale termine ‘formazione’ preferisco ‘educazio-
ne’. Formare è nel suo significato ordinario dare una forma, mettere in forma, quel mettere
in forma che è guidato dal sapere anticipatamente la forma che si vuol realizzare. Ma
quando la relazione educativa si declina come un dare forma previene l’altro dal darsi
autonomamente la propria forma. Educare ha tutt’altro significato. Quando si lavora
sull’etimologia della parola “educare” si tende a ricondurla al latino educěre, che significa:
trarre fuori, trarre alla luce, invece sembra più corretto ricondurla ad educāre che significa:
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Premessa 3
allevare, alimentare, nutrire, curare, anche perché educatus – che indica la qualità dell’essere
educato – è il participio passato di educāre. Educare inteso come coltivare e curare è offerta
di esperienze che possono consentire all’altro di cercare la propria forma, mai dovrebbe
prefigurare forme già compiute. Educare è per Socrate aver cura che l’altro abbia cura di
sé, ossia aver cura che si metta alla ricerca della sua propria originale forma. La pratica
dell’educare è, dunque, nel suo significato originario fedele all’essenza ontologica dell’essere
umano chiamato a trovare da sé la sua originale forma dell’essere. Occorre tuttavia
precisare che non si dà la possibilità di realizzare nella sua pienezza il concetto di
educazione, poiché sempre l’agire educativo implica processi di formazione. Nessuna
azione umana può essere pura, ma sempre è mescolata ad altro. Conviene, però,
mantenere vive le idee pure, anche se si sanno non praticabili, perché necessarie a
discriminare la qualità dell’agire.
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4 Premessa
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Premessa 5
5
Martha Nussbaum, Terapia del desiderio, Vita e Pensiero, Milano 1998 (ed. or. The
Therapy of Desire, Princeton University Press, Princeton 1996), p. 22.
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6 Premessa
nota di metodo
Nel mio percorso di lettura dei testi di Zambrano il discorso si aprirà,
di tanto in tanto, sulle riflessioni di altre pensatrici, Hannah Arendt
soprattutto, ma anche Edith Stein e Simone Weil. Questo aprire finestre
di dialogo accadeva continuamente nella mente mentre ero presa dalla
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Premessa 7
lettura delle opere della filosofa spagnola e questo aprire finestre accadrà
anche nella fase della scrittura perché il riferirsi ad altro aiuta, per
analogia e per differenza, a cogliere l’originalità di Zambrano. Del resto
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8 Premessa
Il pensare, proprio perché è sempre pensare con altri, è anche sempre di altri. Quando,
dunque, il pensare prende forma si dovrebbe ringraziare molte e molti. Impossibile, però,
ricostruire la fitta trama di scambi in cui le nostre idee hanno preso forma, ma devo un
particolare ringraziamento ad Annarosa Buttarelli per il tempo dell’ascolto e del dialogo di
cui mi ha fatto dono.
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Premessa 9
Madrid 1986).
B I beati, Feltrinelli, Milano 1992 (tit. or Los bienaventurados, Ediciones
Siruela, Madrid 1990).
CB Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano 2004 (ed. or. Claros del bosque,
Editorial Seix Barral, Barcelona 1977).
CGL La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997 (ed. or.
La Confesión: Género literario, Fundatión Marı́a Zambrano, 1943 – Edicio-
nes Siruela, Madrid 1995).
DD Delirio e destino, Raffaello Cortina, Milano 2000 (ed. or. Delirio y destino,
Mondadori, Madrid 1989).
FP (1998), Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna (ed. or. Filosofı́a y poesı́a,
Fondo de Cultura Economica, Mexico D.F. 1996).
MFTFV Il metodo in filosofia o le tre forme di visione, in “aut aut”, 1997, 279, pp. 70-78
(Del método en filosofia o de las tres formas de visión, in “Rı́o Piedras. Revista
de la Facultad de Humanidades”, San Juan de Puerto Rico, 1972).
NM Note di un metodo, Filema, Napoli 2003 (ed. or. Notas de un método,
Mondadori Espana, Madrid 1989).
PD Persona e democrazia, Bruno Mondadori, Milano 2000 (ed. or. Persona y
democrazia. La historia sacrificial, Fundatión Marı́a Zambrano, 1958 –
Ediciones Siruela, Madrid 1996).
PR Le parole del ritorno, Città Aperta, Troina 2003 (ed. or. Las palabras del
regresso, Fundatión Marı́a Zambrano, 1995).
S Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998 (ed. or. El pensamiento vivo de
Séneca, Fundatión Marı́a Zambrano, 1944 – Ediciones Siruela, Madrid
1994).
SA Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996 (ed. or. Hacia un saber sobre
el alma, Losada, Buenos Aires 1950).
SP Per una storia della pietà, in “aut aut”, 1997, 279, pp. 63-69 (ed. or. Para una
historia de la pietad, “Lyceum”, La Habana 1949, 17).
SPPC Spagna. Pensiero, poesia e una città, Città Aperta edizioni, Troina 2004.
ST I sogni e il tempo. Edizioni Pendragon, Bologna 2004 (ed. or. Los sueños y el
tempo, Siruela, Madrid, 1992).
UD L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001 (ed. or. El hombre y lo
divino, FCE, México 1973 – Siruela, Madrid 1992).
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Direzioni di senso
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12 Un metodo a-metodioo
Aggrappandoci alla verità, alla nostra, legandoci alla sua scoperta per averla
accolta dentro di noi, fissandola nel nostro essere verità, sentiamo che il
nostro tempo non passa, o almeno non invano (SA: 12).
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Direzioni di senso 13
mettere ordine nella vita e a condurre alla verità (CGL: 32), ma certa
filosofia ha scartato tutto il sentire e separandosi da esso si è separata dalla
vita producendo un sapere astratto. Questa verità generale e anaffettiva
non innamora la vita, la lascia indifferente o anche “insofferente”. Non
che la verità non debba essere generale, sempre una verità per essere tale
è trascendente rispetto alla vita: “ciascuna verità è la trascendenza della
vita, il suo farsi strada” (CGL: 33). Ma per essere viva deve nascere dalla
vita stessa. Cosa che non accade alla verità prodotta dalla cultura mo-
derna, dove i saperi hanno rescisso il rapporto con la vita, con le sue
passioni e le sue tenebre. E queste rimangono impenetrabili alla luce di
una ragione che ha interrotto la relazione col sentire originario.
La verità offerta da un pensiero come quello moderno che pretende,
anche quando è filosofia, di strutturarsi nella forma di una scienza esatta,
non innamora la vita, non riesce a trasformarla. La vita non si lascia
com-prendere da questo tipo di pensiero, lo sente estraneo e, quindi, lo
rifugge. E cosı̀ la vita rimane abbandonata dalla verità e svilita. Le verità
date, quelle sistematizzate entro discorsi logicamente strutturati, esigono
non un’adesione ma una sottomissione che ha la forma dell’imposizione
violenta e come tale non fa respirare la vita, ma produce l’effetto di
annichilirla. La verità è tale quando seduce la vita, quando la fa innamo-
rare.
Nessuno può “darci” questa verità, intesa come prodotto preconfezio-
nato. La verità che fa respirare la vita e la trasforma è qualcosa che va
cercata. Cercata, come insegna il pensiero della differenza femminile, a
partire da sé, da un investimento soggettivo nel pensare. Se la vita non
viene impregnata della ricerca della verità allora rimarrà senza respiro.
Date queste premesse si profila allora come questione inaggirabile il
capire “Come fare in modo che vita e verità s’intendano, la vita lasciando
spazio per la verità e la verità entrando nella vita?” (CGL: 39). Per
rispondere a questa domanda occorre capire in che cosa consiste per
Zambrano la verità, quella vitale. La filosofa chiarisce che la verità da
cercare è il “sapere dell’anima”, qualcosa che sentiamo indispensabile
perché è quella verità che alla vita apre un percorso (SA: 19).
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14 Un metodo a-metodioo
necessità di un sapere dell’anima, ossia quel sapere che offre una visione,
una figura della realtà in cui l’esistenza prenda il suo senso. Il sapere
dell’anima è quello che serve alla vita, il sapere sperimentale della vita.
Trovare il sapere dell’anima è trovare la misura del proprio esistere: la
direzione e il ritmo del proprio camminare nel tempo. Imprimere al
cammino della vita un ritmo significa possedere la potenza indefinita di un
comportamento proprio. È questa la sola sovranità che ci è concessa, una
sovranità potente perché generatrice di libertà, ma fragile perché il ritmo
del proprio camminare non è cosa decisa una volta per tutte, ma conti-
nuamente va orchestrato.
È cosa intensamente problematica affrontare il compito di dare una
forma al tempo della vita. La cosa più tremenda del tempo è trovarsi ad
affrontarlo da soli. Il sapere dell’anima è quello che ci consente di stare in
comunità, quello che ci fa incontrare gli altri, che non sono solo i nostri
simili, ma tutti gli altri enti che abitano il reale. È quel sapere che ci fa
trovare un ordine di connessione con le altre persone cosı̀ che si possa
andare insieme nel tempo, “perché si tratta di camminare uniti, cammi-
nare con” (DD: 124).
Trovare nella vita il ritmo della condivisione con altri è essenziale per
Zambrano, che accoglie la lezione di Ortega y Gasset secondo cui “vivere
è convivere” (DD: 16); nelle sue riflessioni l’ontologia che nomina la
mancanza d’essere che segna la condizione umana si traduce in un’etica
della condivisione. Vivere da soli significa vivere a metà, ossia morire pur
rimanendo vivi. E ciò si verifica non solo quando ci si trova a sopportare
malattie che interrompono il ritmo ordinario, ma anche quando viene a
mancare la relazione con altri, quando il prossimo non c’è. Siamo soliti
avere l’immagine della nostra persona come di uno spazio recintato dai
confini della nostra pelle. Ma questa visione atomistica non corrisponde
all’essenza della condizione umana, che è fondamentalmente relazionale,
nel senso che noi siamo la forma emergente delle relazioni che strutturano
il nostro spazio vitale. “L’altro è la compagnia di cui ogni essere necessita”
(NM: 72) poiché nessuno può esistere da solo. Come scrive il poeta
Antonio Machado “un cuore solitario non è un cuore”. Nella solitudine si
possono vedere cose chiarissime, ma nessuna di queste è verità. Per
pronunciare parole, che è tuttuno col costruire lo spazio in cui manifestare
la propria essenza, si ha bisogno dell’altro. Né si può avere percezione del
proprio corpo se non c’è un altro con cui essere in relazione. Essere
consapevoli che vivere è convivere significa “sapere e sentire che la nostra
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Direzioni di senso 15
vita, seppure nella sua traiettoria personale, è aperta a quella degli altri”
(PD: 14) ed è proprio in quanto esseri plurali e non mai soli che non si
finisce mai di esistere. Quando questa consapevolezza viene meno allora si
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rischia la follia.
La stessa azione politica è nella sua essenza condivisione, perché fare
politica significa stare insieme con gli altri: quelli più grandi da cui
s’impara, i pari con cui si ha da costruire una visione condivisa della vita,
quelli che abitano altri ambienti e seguono altri ritmi. Prima di fare
progetti, prima di scrivere dichiarazioni d’intenti, prima di pianificare
interventi rivoluzionari volti a distruggere mondi divenuti inabitabili o
edificare mondi nuovi, occorre imparare la pratica della condivisione in
cui tessere insieme ritmi comuni di esistenza. La politica per Zambrano è
innanzitutto “ansia di convivenza profonda” (DD: 47), significa essere
liberi da qualsiasi ansia di realizzare utopie o di ispirare l’azione ad ideali
universali.
Il cammino della vita non è un percorso che ognuno fa da solo, ma
sempre con altri. Senza l’altro il cammino non è un reale movimento. Il
sapere sperimentale della vita che si va cercando è dunque da concepire
come quello che guida ad uscire alla ricerca dell’altro e con lui/lei
condividere la ricerca della verità. La verità, non quella delle argomenta-
zioni astratte ma quella che trasforma la vita, non è mai soggettiva, ma è
sempre qualcosa di conquistato insieme. È in quanto tale che diventa
l’orizzonte al chiarore del quale dare forma al tempo della vita.
È, quindi, irrinunciabile il sapere dell’anima quando si profila capace
di far trovare la misura per dare ritmo e direzione alla propria esperienza
nel mondo con altri. Per essere tale non può che scaturire dal pensiero
vitale, quello che sta affondato nella vita e di essa porta il peso. Il sapere
vitale è tessuto di “idee incarnate” (SA: 58), che prendono forma per
opera di un pensare che sta là dove la vita accade, perché solo in quanto si
mantiene in contatto con la vita nella sua essenza è capace di trasformarla.
La nostra epoca non riserva attenzione a coltivare tale sapere. Di-
spone di una massa crescente di conoscenze scientifiche e di tecniche, che
sempre meglio rispondono al bisogno di edificare un mondo propriamente
umano in cui abitare, ma queste non rispondono al bisogno di trascen-
denza. Né questo bisogno è soddisfatto dalla filosofia, che in molti casi
produce sistemi lontani dalla vita ed esibisce un pensiero razionalistico ed
astratto.
Per trovare un’attenzione ai bisogni dell’anima occorre andare col
pensiero alla paideia socratica. Nell’Apologia Socrate parla dell’educazione
come di quel processo di ricerca mosso dall’intenzione di provocare
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16 Un metodo a-metodioo
1
consentono di “diventare il più buono e il più saggio possibile” . Zam-
brano mette al centro del suo pensare il concetto socratico dell’anima e la
ricerca di saggezza nel momento in cui interpreta la condizione umana
come avente necessità di un sapere dell’anima. Ma nel suo percorso
reinterpreta il significato di questo sapere producendo una svolta radicale
rispetto all’intellettualismo socratico. Svolta determinata dalla sua atten-
zione alla sfera del sentire. Per Zambrano, infatti, il sapere dell’anima è
l’“ordine della nostra interiorità”. Aver cura dell’anima non è solo soddi-
sfare quell’ansia per il razionale che si traduce nella formula del “conosci
te stesso”, ma è anche aver cura della sfera emozionale dell’esistere.
Perché vivere è innanzitutto sentire: “L’esperienza è a partire da un essere,
questo che è l’uomo, questo che sono, che vado essendo io in virtù di ciò
che vedo e patisco e non di ciò che ragiono e penso” (B: 30).
Trovare l’ordine del cuore è trovare l’ordine delle cose. L’ordine del
cuore è quello in cui sappiamo mettere al posto giusto l’essenziale,
l’irrinunciabile. Trovare l’irrinunciabile è come trovare il centro, quel
centro senza il quale la vita scorre disordinata e confusa. La proprietà del
centro è quella di attrarre, di raccogliere ciò che tenderebbe a rimanere
senza un ordine. La sua consistenza è simile a quella dell’energia, della
luce, perché come la luce è l’essenza germinante della vita.
Per Zambrano la luce è un a priori più del tempo e dello spazio; noi
siamo chiamati a nascere dalla luce ed è sempre una luce che si va
cercando, quella che illumina il nostro cammino. È vero che l’esserci
consuma tempo e accade in uno spazio, ma innanzitutto i movimenti
dell’essere si producono perché c’è una luce che tocca l’essere e lo chiama.
È la luce che ci tiene al centro dell’essere aiutandoci ad individuare
l’ordine del cuore.
1
Platone, Apologia di Socrate, 29d-e e 36b.
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Direzioni di senso 17
rimasto senza legami vitali col mondo circostante della vita, ha tolto di
mezzo il corpo, divenuto oggetto della biologia e della medicina, e insieme
anche le passioni, di cui ha cominciato ad occuparsene la “psicologia
scientifica” (SA: 14), mentre l’anima è diventata concetto esoterico, da
relegare nell’ambito dei discorsi religiosi. Una tale filosofia, che ha per
oggetto una condizione umana ridotta ai minimi termini, non può certo
rispondere al suo compito di indicare un cammino di vita. Né, del resto,
pare interessarsi a tale compito, al punto da sembrare di avere perduto
memoria di questa sua intenzione originaria di costituirsi come un pensare
per la vita. Questa smemoratezza della propria ragione d’essere è ancora
più evidente nell’affermazione delle filosofie seconde, quelle che, interrotto
il rapporto con le cose, si occupano del linguaggio.
Alla fenomenologia va riconosciuto il merito di aver aperto la via per
un superamento del razionalismo verso un’attenzione alla condizione
umana nella sua interezza. Scrive Edith Stein: “Il nostro animo è per
natura pieno di sentimenti, tanto che l’uno soppianta l’altro e tiene il
nostro cuore in continuo movimento, spesso in tumulto ed inquietudi-
2
ne” . Heidegger, in Essere e tempo, parla della situazione emotiva come
3
modo costitutivo dell’esserci insieme alla comprensione . La tonalità emo-
tiva viene detta costituire un esistenziale fondamentale, perché il sentire
che impregna l’esser-ci, “l’equanimità serena e il malumore inibente del
4
prendersi cura quotidiano” , anche se passano inosservati allo sguardo
riflessivo della mente, sono ontologicamente significativi, dal momento che
è attraverso il sentire che l’esserci si situa nel mondo. Nell’effettività
dell’esserci la situazione emotiva è fondamentale in quanto è il sentirsi che
conduce l’essere umano davanti a se stesso. Prima di ogni altro atto
cognitivo l’essere umano si sente, esperimenta cioè l’“autosentimento
5
situazionale” , perché il nostro esserci “è sempre consegnato al sentimento
6
della propria situazione” .
2
Edith Stein, La mistica della croce, Città Nuova, Roma 1991 (antologia a cura di
Waltraud Herbstrith) (ed. or. In der Kraft des Kreuzes, Herder, Freiburg im Breisgau 1980), p.
47.
3
Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976 (ed. or. Sein und Zeit,
Niemeyer, Tübingen 1927), p. 172.
4
Ibid.
5
Ivi, p. 173.
6
Ibid.
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18 Un metodo a-metodioo
7
Ivi, p. 174.
8
Si può ipotizzare che l’attenzione risevata a Scheler, filosofo ammirato da Ortega y
Gasset maestro della Zambrano, sia motivata, oltre che da sintonie tematiche, anche da
una consonanza dello stile di pensare che la filosofa spagnola può aver trovato in quel
modo originale del filosofo tedesco di intendere la fenomenologia; infatti, l’incollocabilità
indisciplinata del pensiero di Zambrano (Rosella Prezzo, Metafore della lettura, pp. 35-44, in
Chiara Zamboni (a cura di), Marı́a Zambrano, in fedeltà alla parola vivente, Alinea Editrice,
Firenze 2002, p. 35), il suo privilegiare la parola poetica e il ragionamento metaforico che
si concretizza in un linguaggio a tratti visionario, è legittimo ipotizzare avesse trovato un
valido ispiratore in Scheler. Nelle opere del filosofo è evidente una certa passionalità del
discorso che contrasta con l’aspirazione alla nitida chiarezza della fenomenologia husser-
liana. Nei suoi testi la tendenza all’ordine sistematico del discorso è continuamente
inquinata dall’inclinazione per le ombre e le oscurità della vita vissuta (Laura Boella, Il
paesaggio interiore e le sue profondità, pp. 11-45, in Max Scheler, Il valore della vita emotiva,
Guerini, Milano 1999 – ed. or. Die Idole der Selbsterkenntnis, in Id., Gesammelte Werke, Bd. III:
Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, hrsg. von Maria Scheler, Francke,
Bern-München 1955, pp. 213-292 –, p. 12). Analogo a questo è lo stile di Zambrano, alla
quale si possono applicare le stesse parole che lei riserva a Seneca, definendolo “un
pensatore non sistematico, non eccessivamente logico”, che non si attiene alle regole, né si
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Direzioni di senso 19
Con l’espressione ordo amoris Scheler intende un ordine del sentire che
costituisce il nucleo vitale dell’etica di un soggetto, in quanto tale ordine
performerebbe il modo di guardare il mondo e di vivere in esso. La forza
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preoccupa della costruzione di un sistema, e si fa beffe del principio vigente del rigore (S:
8).
9
Max Scheler, Gramática de los sentimientos, Crı́tica, Barcelona 2003 (ed. or. Grammatik der
Gefühle, Deutscher Taschenbuch, München 2000), p. 68.
10
Ivi, p. 65.
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1
Rosella Prezzo, Metafore della lettura, cit., p. 38.
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22 Un metodo a-metodioo
2
Roberta De Monticelli, (a cura di) (2000), La persona: apparenza e realtà, Cortina, Milano
2000, p. XVI.
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Alla rioeroa di un metodo 23
della vita resti legato. “Si potrebbe dire che l’esperienza è ‘a priori’ ed il
metodo è ‘a posteriori’” (NM: 35). Ma anche questa è una semplificazione,
che si limita a invertire la direzione della relazione sequenziale fra metodo
ed esperienza, cioè ribalta quella semplificazione che stabilisce la prece-
denza del metodo sull’esperienza nel suo opposto. Per questo Zambrano
precisa che dare la precedenza all’esperienza sul metodo “vale soltanto
come un’indicazione, giacché la vera esperienza non può darsi senza
l’intervento di una sorta di metodo” (NM: 35). Zambrano istituisce,
quindi, una codipendenza evolutiva fra metodo ed esperienza, nel senso
che la vera esperienza non si dà senza un metodo e un metodo è tale se
prende forma nel bel mezzo dell’esperienza; l’uno non può esserci senza
l’altra e viceversa. Perché il tempo vissuto diventi esperienza occorre un
metodo e il metodo si fa nel bel mezzo del tempo della vita. “Il metodo si
dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di
ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura” (NM: 35). Il metodo da
cercare è quello che viene dall’esperienza facendo esperienza.
In questo legame con l’esperienza ritrovo una forte assonanza col
pensiero di un’altra grande filosofa: Hannah Arendt, che fa continuamente
appello ad un pensiero che rimanga legato ai fatti della vita come il
cerchio al proprio punto focale, in quanto condizione necessaria perché la
3
realtà non resti impenetrabile alla luce del pensiero . Per guadagnare
intelligenza sul reale è necessario un pensiero contestuale, che non è un
pensiero smarrito nel particolare, ma un pensiero che cerca semi di sapere
capaci di un valore rischiarante che va oltre il campo fenomenico a partire
dal quale si sono costituiti, senza per questo smarrire il suo necessario
attaccamento all’evento. È un pensiero che rimane affondato nell’evento,
nell’esperienza puntuale cosı̀ com’è vissuta. Un pensiero che “salva le
circostanze” e le illumina (B: 62-63). “Salvare i fenomeni” è un’espressione
che troviamo anche in Simone Weil. Queste filosofe sono tutte attente alle
circostanze concrete nella loro singolarità essenziale. Da pensare è sempre
il fatto concreto singolare, pensare ad ogni evento nel suo pulsare originale
prima di assimilarlo in un concetto generalizzante che smarrisce dell’e-
vento il suo quid.
Il metodo è innanzitutto apertura, passaggio ad altro, al non cono-
3
Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1999 (ed. or. Between Past and
Future: Six Exercises in Political Thought, The Viking Press, New York 1961), p. 29.
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24 Un metodo a-metodioo
sciuto e, quindi, a ciò che non può essere anticipato prima che il cammino
abbia inizio.
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Alla rioeroa di un metodo 25
La vita non può sopportare la ragione quando questa non s’è degnata di far
conto su di essa, quando non è discesa fino a essa e non ha saputo neppure
innamorarla per farla ascendere (CGL: 37).
4
Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 1997 (ed. or. Zur Idee des
Menschen (1913), in Gesammelte Werke, Bd. III, Francke, Bern 1972; Versuche einer Philosophie des
Lebens (1913), in ivi; Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928), in ivi, Bd. IX, 1975), p. 101.
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26 Un metodo a-metodioo
Stare col pensiero presso le cose è mossa essenziale non solo per il
conoscere, ma anche per l’essere. È fatica vivere senza che in un giorno
intero una goccia di piacere inondi l’anima; quando accade, e può
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5
Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987 (ed. or. The Life of the Mind,
Harcourt Brace Jovanovich, New York 1978), p. 100.
6
Il pensiero antico coltivava la percezione della sacralità delle cose. Anche oggi ad uno
sguardo attento la natura continua a risvegliare la percezione di qualcosa di sacro, del suo
essere ricettacolo del divino, perché “i caratteri del sacro sono i caratteri della realtà cosı̀
come la sentiamo spontaneamente” (NM: 107), ma tendiamo a negare questa percezione, e
la neghiamo perché stiamo immersi nella visione desacralizzata della scienza, che ci
rappresenta le cose come niente e che proprio in quanto niente possono essere manipolate.
Legittimare, invece, la percezione del sacro significa ammettere che esiste nella cosa non
solo un valore, che è il valore dell’essere, ma qualcosa di irriducibile al pensiero, qualcosa
che sta nel non disvelabile, nel mistero, e questo riconoscimento costringerebbe il pensare a
riapprendere una umiltà che abbiamo pericolosamente smarrito.
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Alla rioeroa di un metodo 27
Altro è, invece, il realismo femminile, il suo amore per la realtà. Per
Zambrano, infatti, il cui pensiero può essere definito spiritualmente mate-
rialistico, le cose del mondo sono enti sfavillanti di essere. La conoscenza
vera, quella che sa illuminare la vita, non può non essere cercata se non
stando in relazione con le cose. Fare dell’immediato, di ciò che viene alla
presenza interpellandoci direttamente, il vero punto di partenza per la
ricerca del sapere diventa, quindi, il principio primo della ragione mater-
7
na .
In sintonia con l’amore per la realtà proprio di Zambrano, Arendt ci
ricorda che “Nulla forse è più sorprendente, in questo nostro mondo, della
verità pressoché infinita delle sue apparenze, del puro valore spettacolare
8
delle sue vedute, dei suoni, degli odori” . Ad essere problematico è che
proprio questo mondo, nella sua materialità e molteplicità di enti uguali e
differenti allo stesso tempo, è stato trascurato dalla filosofia, che ha
creduto che la verità debba essere cercata altrove rispetto al mondo degli
enti concreti. Nella concezione platonica, a lungo persistente, il vero
filosofo è quello che prende commiato dal mondo dato ai sensi per
accedere ad una realtà immateriale in cui contemplare le idee, e da queste
idee, che non conoscono l’usura del tempo e il legame riduttivo con uno
spazio definito, attingere a quei criteri a partire dai quali, e solo da quelli,
disvelare la verità del mondo ordinario. La condizione umana è, invece,
9
quella per cui “noi siamo del mondo e non semplicemente in esso” , e dal
momento in cui viviamo in un mondo che appare è plausibile ritenere che
ciò che ha da essere considerato rilevante come oggetto del pensare
debbano essere le cose che appaiono, cioè i fenomeni.
Arendt critica radicalmente la filosofia platonica proprio per il suo
essersi allontanata dalle cose, dal mondo dei sensi e degli uomini, preten-
dendo di cancellare il fatto che “il mondo delle apparenze precede
qualsiasi regione il filosofo possa scegliere come propria vera dimora,
10
dimora nella quale tuttavia non è nato” . Ogni cosa che esiste nel mondo
c’è per essere percepita da qualcuno, per essere vista, udita, toccata,
gustata e odorata ed è su questo percepire che va a saldarsi il lavoro del
7
Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 34.
8
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 100.
9
Ivi, p. 103.
10
Ivi, p. 104.
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28 Un metodo a-metodioo
pensare. Dal momento che noi viviamo in un mondo di cose che ap-
paiono, ragionando in una cornice fenomenologica è plausibile ritenere
che proprio ciò che appare è degno della massima attenzione.
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11
Ivi, p. 105.
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Alla rioeroa di un metodo 29
12
Max Scheler, Amore e conoscenza, in L. Pesante, Scheler. Amore e conoscenza, Liviana,
Padova 1967 (in Gesammelte Werke, vol. VI), pp. 71-72.
13
Agostino, De div quaest, 83, qu, 35 1, cit. in Hannah Arendt, Il concetto d’amore in
Agostino, SE, Milano 1992 (ed. or. Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen
interpretation, Julius Sprinter, Berlin 1929), p. 23.
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30 Un metodo a-metodioo
È l’amore per le cose che genera rispetto per esse e, insieme, quell’u-
miltà necessaria ad attivare le mosse giuste del pensare. E quando si pensa
con rispetto e umiltà è come se le cose si aprissero al nostro sguardo.
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Come nella filosofia cristiana solo gli occhi di quelli che amano vedono la
14
verità , cosı̀ in Zambrano solo chi è capace di amorosa partecipazione
agli enti è capace di entrare nella realtà, che è la condizione per una
conoscenza vera.
Zambrano, dunque, riattiva la relazione tra amore e conoscenza
inaugurata da Platone, ma allo stesso tempo la rivisita in modo originale,
perché se in Platone l’amore era rivolto alle idee, enti immateriali, per
Zambrano l’amore si dirige verso le cose, quelle concrete del mondo che
15
abitiamo . Ed è dall’amore per le cose che si genera il metodo; è l’amore
che quando entra in gioco decide la direzione della conoscenza (CB: 17).
Per Zambrano l’amore è il sentire generativo della vita, che si dà nella
forma di una “morbida accoglienza” (CB: 25), quella che rende la mente
ricettiva rispetto alla realtà che viene alla presenza. Il metodo a-metodico,
che prende forma al di fuori di logiche predefinite, viene a costituire un
14
Max Scheler, Amore e conoscenza, cit., p. 55.
15
Si può ipotizzare che nella sua visione dell’amore come fonte della conoscenza abbia
giocato un ruolo significativo il pensiero di Scheler, il quale al rapporto fra amore e
conoscenza ha dedicato, oltre che riflessioni sparse, uno scritto specifico (Max Scheler,
Amore e conoscenza, cit.). In tale scritto Scheler più volte porta l’attenzione sull’aspetto
intellettualistico dell’amore platonico che, a differenza dell’amore cristiano che è sempre
rivolto a persone, ha per oggetto quelle cose immateriali che sono le idee. Scheler, per
disarticolare il pregiudizio moderno sulle emozioni, prende in considerazione il pensiero di
Pascal e di Spinoza, ma in particolare approfondisce la posizione di Agostino, che
considera l’amore l’originario movente dell’atto conoscitivo, e occorre sottolineare che
Agostino è uno degli autori più studiati da Zambrano. All’inizio di tale scritto Scheler,
dopo aver richiamato brevemente le due opposte concezioni della relazione fra amore e
conoscenza – l’una secondo la quale non c’è conoscenza se non c’è amore e l’altra che
concepisce l’amore come conseguente la conoscenza – assume una posizione critica nei
confronti del pregiudizio, che egli considera tipicamente moderno, secondo il quale l’amore
oscura la mente anziché acuire le capacità conoscitive, da cui ne consegue che la ricerca
della verità richiederebbe “la più rigorosa repressione degli atti emozionali” (ivi, pp. 22-23).
Per Scheler, invece, l’“emozione amorosa” è all’origine dell’atto cognitivo. Quando la
conoscenza è accompagnata dall’emozione amorosa si esprime nell’affermazione del valore
dell’oggetto, della cosa indagata o dell’essere altro cui la mente si rivolge. È interessante che
Scheler porti l’attenzione sulla possibilità di concepire l’amore come forza creatrice,
concezione questa diversa da quella platonica che concepisce l’amore componente di quel
conoscere che è essenzialmente reminiscenza (ivi, p. 45). Anche per Zambrano l’amore
genera conoscenza, ed è questa la prospettiva che lei sviluppa in modo originale, dando
voce all’idea secondo la quale è l’innamorarsi delle cose la condizione per accedere ad un
sapere vitale.
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Alla rioeroa di un metodo 31
16
Roberta De Monticelli, L’allegria della mente, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 37.
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32 Un metodo a-metodioo
17
Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 97.
18
Ortega y Gasset, Che cos’è filosofia?, Marietti, Genova 1994 (ed. or. Qué es filosofı́a,
Revista de Occidente en Alianza Editorial, Madrid 1991), p. 4.
19
Ivi, p. 5.
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Alla rioeroa di un metodo 33
20
Per Zambrano un buon metodo è quello che lascia che le cose si offrano allo sguardo;
da parte sua Roberta De Monticelli rileva che pensare al fenomeno come a ciò che si dona
e che si offre è proprio della fenomenologia (L’allegria della mente, cit., p. 58).
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34 Un metodo a-metodioo
21
Sergio Sevilla, La razón poética: mirada, melodı́a y metáfora. Marı́a Zambrano y la hermenéutica,
pp. 87-108, in Teresa Rocha Barco (Ed.), Marı́a Zambrano: la razón poética o la filosofı́a, Edito-
rial Tecnos, Madrid 1997, p. 87
22
Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1989 (ed. or. Cartesianische
Meditationen und Pariser Vorträge, Nijhoff, Den Haag 1950), p. 38.
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Alla rioeroa di un metodo 35
23
Che la fenomenologia abbia avuto una parte importante nella forma presa dal
pensiero di Zambrano è attestato dai frequenti riferimenti che nei suoi testi si trovano ai
tratti costitutivi del metodo fenomenologico. In I sogni e il tempo non solo discute sulla
opportunità o meno di applicare l’epochē a quel fenomeno inusuale che sono i sogni, ma
dimostra una competenza raffinata del metodo fenomenologico. Parla, infatti, del cercare
una via di accesso al fenomeno che sia “il meno imperativa possibile, deve lasciar vedere,
lasciar apparire”, principio metodico questo in cui echeggia il primo Heidegger. Inoltre
precisa che la natura del metodo fenomenologico non consiste nello spiegare, ma nel
decifrare (ST: 10) e proprio il descrivere è tratto identificativo della fenomenologia.
24
Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi,
Torino 1965 ([1913] Ideen zu einer reiner Phänomenologie und phänomenologische Philosophie,
(Husserliana III 1/2), Nijhoff, Den Haag 1976), p. 19.
25
Ivi, p. 19.
26
Ivi, pp. 50-51.
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36 Un metodo a-metodioo
27
significa manifestarsi; il φαινμενον è ciò che “si manifesta in se stesso” .
Consentire l’automanifestarsi dei fenomeni significa lasciare che i feno-
meni si disvelino alla coscienza e poi descriverli cosı̀ come essi appaiono
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nella loro originaria datità. Data l’assunzione secondo la quale ogni cosa
ha il suo modo di apparire e, dunque, un suo modo di manifestarsi alla
coscienza, l’essenza del metodo fenomenologico consiste nel cogliere que-
sta maniera di apparire e nel trovare un modo di descriverla che a questo
28
suo apparire sia fedele .
Pratica difficile, però, quella di rimanere fedeli alle cose. Difficile
innanzitutto perché tendiamo a farci inquinare dalla sfiducia che abbiamo
nel mondo, quella sfiducia nel modo che le cose hanno di far chiaro che ci
impedisce di aderire alla generosa immediatezza della vita.
E proprio perché non abbiamo fiducia tendiamo sempre a stare in un
mondo anticipato, nel senso che sempre esperiamo il mondo, sia esterno
che interno alla mente, attraverso filtri come sono le reti di categorie, i
costrutti linguistici, le assunzioni derivate dal senso comune, gli interessi
pratici, che rendono impossibile un accesso fedele alla datità della cosa.
Tale è l’ingombro dei vissuti della mente che un evento o una persona è
impossibile “siano accolti da un’anima pulita e priva di incrostazioni. Di
ombre, di ombre” (DD: 21).
Ad essere problematico è che quando si sta in un mondo anticipato
l’altro scompare, perché viene assimilato nei nostri schemi. E venendo
meno l’altro viene meno la stessa possibilità di conoscere, di pensare, e
dunque di essere. Non c’è realtà, non c’è essere quando si sta soli senza
l’altro, senza il quale non potremmo parlare. Senza l’altro non si è capaci
di pensiero vero e neppure si sente il proprio corpo. Il pensare senza l’altro
è un pensare allucinato.
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Alla rioeroa di un metodo 37
zione delle scienze obiettive, ogni presa di posizione critica intorno alla
29
verità, ogni idea di conoscenza obiettiva . Si fa epochē per trovare il punto
zero, cioè il punto del cominciamento originario dell’attività cognitiva. E il
cominciamento puro del conoscere si trova “mettendo fuori azione”,
30
“neutralizzando”, “mettendo in parentesi” ogni conoscenza alla mano ,
ogni criterio di validità operante non solo quando ci si affida al senso
comune, ma anche nell’esperire scientifico. Fare epochē significa impegnarsi
nella disciplina del disincrostare lo sguardo da tutti quei filtri che impedi-
scono l’accesso alle cose nella loro datità originaria. Svolgono la funzione
di filtro cognitivo sia le validità ingenue che quelle scientifiche, che
prestrutturano il modo di incontrare le cose.
L’epochē fenomenologica “vieta anche l’attuazione di qualsiasi giudizio,
31
di qualsiasi presa di posizione predicativa” nei confronti della realtà . Per
questa ragione l’epochē è definita il “principio senza presupposizioni”, non
però nel senso positivistico di “neutralizzazione di tutti i pregiudizi che
turbano la pura effettualità dell’indagine, né della costituzione di una
32
scienza libera da teorie” , ma nel senso della ricerca di un cominciamento
assoluto del conoscere in funzione del quale anche le conoscenze che fino
a quel momento sono risultate attendibili vengono messe in parentesi. Il
fare epochē dovrebbe consentire come un risvegliarsi al reale senza alcuna
immagine ingombrante, neppure di se stessi.
L’epochē cosı̀ formulata ha l’aspetto di una pratica cognitiva difficile da
33
applicare , perché chiedendo di interrompere l’atteggiamento naturale
costringe a stare in un paradosso, quello di considerare l’ovvio come
problematico ed enigmatico. Lo stesso Husserl non ha fornito precise
istruzioni sul modo di praticare l’epochē e dichiara di non sapere “come ci
si possa mettere nelle condizioni di compiere le operazioni metodiche che
ad essa ineriscono e che devono ancora venire chiarite nella loro stessa
34
generalità” . Tuttavia è convinto che l’impegnarsi nella disciplina men-
29
Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee, Milano: Il Saggiatore, Milano 1968 (ed.
or. Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Den Haag:
Nijhoff, 1954), p. 164
30
Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia, cit., p. 64.
31
Ivi, p. 66.
32
Ivi, p. 67.
33
Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 206.
34
Ivi, p. 176.
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38 Un metodo a-metodioo
una povertà di conoscenze, che consente alla mente di aprirsi alla datità
originaria del fenomeno.
È difficile attualizzare il metodo fenomenologico, perché l’epochē si
rivela una pratica di tipo ascetico, in quanto dovrebbe consentire alla
35
mente di ”iniziare in assoluta povertà di conoscenze” . Zambrano sembra
rimanere colpita da questo principio, che commenta definendolo un
36
“cammino stretto, aspro e luminoso di rinuncia mentale” (SA: 188) , ed è
proprio questo cammino stretto quello percorso da Zambrano, la cui
originalità consiste nel radicalizzare l’audace “lezione di rinuncia, di
ascetismo mentale” (SA: 187), che impone il voto di povertà in materia di
conoscenza, chiedendo che il metodo sia un non cercare, uno spossessare
la mente al punto da rendersi vuota cosı̀ che l’essere della cosa trovi in
essa dimora. Il metodo è, per lei, il cammino stretto dello svuotarsi, dello
spossessare l’io, del fare vuoto dentro di sé per fare posto al mondo.
Zambrano aveva definito Husserl come un pensatore audace, ma lei
stessa mostra un’audacia se non pari maggiore al filosofo, perché la sua
35
Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 38.
36
Che la pratica dell’epochē abbia un ruolo significativo nel pensiero di Zambrano è
testimoniato dai continui riferimenti a tale concetto che troviamo in Delirio e destino, dove
mostra di intendere l’epochē come strumento essenziale per vivere autenticamente. Vivere
pienamente significa “vivere il momento” (DD: 111) lasciandosi cadere nella lacuna del
presente. Affinché si verifichi questo entrare autenticamente nel tempo occorre saper
mettere tra parentesi tutto ciò che impedisce l’adesione immediata al presente, e questa è
proprio la funzione che Zambrano assegna all’epochē. Già in Scheler si trova un’interpreta-
zione analoga dell’epochē. Scheler, infatti, interpreta radicalmente la riduzione fenomenolo-
gica superando la sua funzione di strumento del lavoro logico-teoretico per concepirla
come pratica spirituale. L’epoche, l’atto cognitivo del mettere tra parentesi i saperi dati,
viene inteso da Scheler non come “un procedimento di pensiero, ma come una techne, ossia
(con) un procedimento di azione interiore” per opera del quale le procedure cognitive e i
relativi contenuti che sono all’opera nell’esercizio naturale vengono qui posti fuori gioco
(Scheler, cit. in Laura Boella, Il paesaggio interiore e le sue profondità, cit., p. 24). La riduzione
fenomenologica viene ad essere un atto ascetico di esclusione di tutto quanto in noi
impedisce l’accesso all’essenza delle cose; è una via negativa, che agisce disincrostando il
modo di andare incontro alle cose da ogni dispositivo interpretativo predato, cosı̀ che
l’attività della mente prenda la forma di un abbandono al manifestarsi delle cose (Ivi, p.
25). Epochizzare significa sospendere tutto ciò che ti impedisce di vivere qui ed ora (DD:
109). In particolare va segnalato il suo dichiarare che la principale cosa avuta da lei in
dono dalla filosofia, “quella che non avrebbe mai potuto ripagare, era che le aveva
insegnato a rifiutare, a mantenersi in sospeso” (DD: 24), a staccarsi dall’inessenziale, cosı̀
da guadagnare un’“intima povertà” e vivere adeguata ad essa.
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Alla rioeroa di un metodo 39
37
Edith Stein, La mistica della croce, Città Nuova, Roma 1991 (antologia a cura di
Waltraud Herbstrith) (ed. or. In der Kraft des Kreuzes, Herder, Freiburg im Breisgau 1980), p.
29.
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40 Un metodo a-metodioo
38
Quello che Zambrano definisce “amore per la semplicità” (DD: 48) è principio
essenziale anche per l’agire politico, perché se agire politicamente è convivere con gli altri,
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Alla rioeroa di un metodo 41
tempo che ciascuno sente nella profondità dell’anima, che scaturisce una
sorta di misura che dà ordine all’agire. Questa “misura non generata”
(SA: 92) è concepita da Zambrano come un fondo incorruttibile che, per
quanto pieno di errori possa essere il cammino della vita, ci terrebbe
comunque sul sentiero della verità39. L’importante è imparare a stare in
ascolto di questa misura dell’esserci. E la condizione affinché l’anima stia
in ascolto di questa misura ontogenetica è che sappia stare in povertà di
spirito e purezza di cuore, ossia con una mente spoglia di ogni orpello e
un cuore capace di quel sentire positivo che solo predispone ad adden-
trarsi intensivamente nella vita.
È in questa prospettiva che l’epochē diventa disciplina essenziale dell’e-
sistenza. Fare epochē significa sospendere tutto quello che non ci consente
di vivere intensamente qui ed ora, di vivere interamente il presente. Vivere
una vita vera significa aderire interamente al presente, e affinché questo
modo di esserci possa prendere forma occorre saper mettere tra parentesi
tutto quello che impedisce un’adesione immediata alle cose. Per calarsi
nella lacuna del presente è necessario fare epochē dei molti rivestimenti del
tempo, dei vissuti costruiti attorno all’anima, cosı̀ da guadagnare un’in-
tima povertà. Quella povertà della vita della mente in cui c’è posto solo
per “l’ansia di verità e giustizia” (DD: 24).
L’epochē radicale di Husserl viene, dunque, radicalmente reinterpretata
da Zambrano come pratica del principio di povertà, quella povertà intima
che viene dal togliere via tutto l’inessenziale, cosı̀ che nell’anima risuoni la
“misura non generata”. Stare in povertà significa
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42 Un metodo a-metodioo
Questo imperativo non solo ci chiede di stare solo là dove è in gioco
l’irrinunciabile, ma anche senza attaccamento alcuno, perché anche l’irri-
nunciabile per noi, mancanti d’essere e dunque sempre distanti dalla
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3.1 Disfare
fare vuoto
Per conoscere le cose occorre non entrare nella ragione, ma entrare
nella realtà, aderire all’essere delle cose. Come insegnano i mistici, si tratta
di rendere l’anima trasparente perché solo un’anima trasparente si dispone
a ricevere l’essere delle cose. La conoscenza vera richiede alla mente di
fare posto alla cosa nella sua datità originaria, salvaguardandola da ogni
assimilazione alle strutture performative dell’io. L’ospitalità della cosa nel
suo essere proprio si realizza nella misura in cui la mente si fa sostanza
liquida e trasparente, quella che sola si lascia attraversare dalla luce. Farsi
trasparente (CGL: 63) è l’imperativo della ragione vitale.
E per rendere l’anima trasparente, cosı̀ da fare posto alla realtà,
occorre spogliarsi di sé, svuotarsi. Fare vuoto significa disattivare i disposi-
tivi epistemici abituali: reti concettuali, cornici di teorie, grammatiche
procedurali, ma anche i propri attaccamenti; significa mettere fuori cir-
cuito non solo i saperi alla mano, ma anche i desideri e le aspettative di
cui è impregnata la vita cognitiva. È solo arrestando i nostri strumenti
cognitivi abituali e disattivando gli interessi ordinari che è possibile fare
posto a ciò che altrimenti “non avrebbe per noi esistenza piena, se non
fosse appunto per questo vuoto che produciamo annullandoci” (SA: 97).
Quando stiamo dentro il già definito si finisce col restringere la ricerca
della verità in una luminosità omogenea tale da ridurre gli esseri e le cose
solo a ciò che di loro si richiede per determinarle. Il conoscere che sta
recintato dentro saperi e logiche date, anziché accedere all’altro lo prede-
termina. Sottomettersi ad una prospettiva è dunque tutt’uno col perdere la
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44 Un metodo a-metodioo
Una mente che sta in ascolto del reale può essere solo quella che fa
silenzio dentro di sé.
Questo rendere silenti i saperi già disponibili ha l’effetto di depoten-
ziare il sé epistemico; un lavorio faticoso ma essenziale per salvare gli enti,
perché solo quando lo spazio dell’incontro con l’altro non è occupato dal
troppo pieno del sé l’altro trova le condizioni per non essere assimilato nel
medesimo e, quindi, per mostrarsi nella sua differenza. Lavorare su di sé
per fare vuoto è, dunque, la mossa cognitiva essenziale per attuare il
cominciamento puro del processo d’indagine. “Amare la verità significa
2
tollerare il vuoto” .
È proprio facendo vuoto che si può trovare il puro inizio del pensiero.
Il metodo per entrare nella realtà richiede uno sforzo negativo, perché
chiede di disattivare i propri pensieri e rendere silenziosi gli abituali
strumenti epistemici. Essere attenti all’altro significa tenersi liberi dalla
presa dei dispositivi epistemici, concettuali e procedurali, abituali. Solo
facendo vuoto l’altro trova lo spazio per disvelarsi e l’anima può acco-
glierlo.
Senza questa pratica decostruttiva del fare vuoto l’oggetto non
avrebbe esistenza piena, né l’anima potrebbe innamorarsi di esso. Non c’è
possibilità di conoscenza autentica
1
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, Adelphi, Milano 1985 (ed. or. Cahiers, I, Plon,
Paris 1970), p. 161.
2
Ivi, p. 53.
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Nella semplioe essenzialità 45
gnorirsi del volto del presente che si rende possibile solo quando la mente
conosce una pausa del troppo pieno di sé, dei suoi pensieri e dei suoi
sentimenti. È questa pausa a consentire di trovare il respiro della realtà; in
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questo sta l’essenza del dono del vuoto: rendere possibile alla mente di
lasciarsi assorbire dalla vita. Che la mente si eserciti nella disciplina del
fare vuoto è cosa necessaria perché “ci sono presenze che non possono
discendere laddove ne esistono altre” (FP: 111).
È evidente il contrasto con la concezione classica del metodo, che
chiede di acquisire conoscenze, sempre di più, fino ad ingolfare la mente.
Il metodo ascetico dello svuotarsi continuamente lavora a cercare la
trasparenza dell’anima. Sempre si cerca una conoscenza chiara, è questo
un obiettivo irrinunciabile anche per Zambrano, il cui pensiero non a caso
è ossessivamente impregnato da richiami alla luce. Già piccola amava
spingere lo sguardo nella “lontananza azzurrata”, per trattenersi a “bere la
luce, come fosse il migliore dei cibi” (DD: 20). Da filosofa concepisce il
conoscere come tessere fili luminosi, quel cercare una conoscenza chiara,
trasparente perché in essa l’essenza della cosa possa rilucere in modo
fedele. Ma questo è possibile solo lavorando su di sé, sullo strumento del
conoscere che è la mente, lavorare a renderla leggera, trasparente.
La necessità di fare vuoto per far posto all’altro non è, però, cosa di
cui si acquista immediamente la consapevolezza, ma è l’esito di una
pratica della disciplina della riflessione sulla vita della mente, la quale se
esperita radicalmente dovrebbe rendere coscienti del fatto che la mente
non solo possiede conoscenze, ma è anche da esse posseduta (NM: 38). E
fintanto che la mente resta prigioniera dei suoi pensieri non può farsi
materia trasparente.
L’effetto primario della riflessione sul proprio dire per cercare la
parola fedele alla cosa è di scoprirsi “ostacolo, scorza, resistenza”; è
proprio quando si avverte di proiettare la propria ombra su qualcosa che
si comprende la necessità di fare vuoto, di “ritrarsi perché ciò che vi è di
più prezioso possa comparire” (CB: 99).
Quello che intendo sottolineare è che le pratiche cognitive che defini-
scono il metodo cosı̀ come è concepito da Zambrano non sono regole che
possono essere apprese astrattamente, non sono insegnabili, ma sono modi
di essere che prendono forma attraverso la pratica, una pratica imbevuta
di riflessione agita alla luce dell’epistemologia mistica, in cui la mente si
pensa pensante e analizza i suoi vissuti in relazione al principio del
rendersi trasparente.
Quando si è acquisita la disciplina del fare vuoto può anche accadere
che il vuoto sorprenda la mente. Accade di fronte a domande impreviste
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46 Un metodo a-metodioo
che spiazzano ogni nostro sapere. Nulla è meno efficace dello sforzo di
uscire da questa situazione con la smania di riprendere possesso della
mente. Invece bisogna accettare di stare in questo vuoto, stare passivi a
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spossessarsi
Fare vuoto significa attivare la pratica del disfare. Saper disfare è
essenziale per trovare quel sapere dell’anima che solo consente di rinascere
al mondo.
Si nasce non finiti non terminati, col compito di dare corpo e forma,
di dare figura all’esistenza. Dare figura all’esistenza significa nascere. Non
si nasce una sola volta e definitivamente, sempre si nasce, nel senso che
continuamente si è chiamati a ridare forma al proprio tempo. Come
afferma Arendt, noi, pur essendo mortali, siamo innanzitutto esseri natali,
nati cioè per incominciare, per dare inizio a mondi nuovi. Anche per
Zambrano nascere è concetto essenziale, quello che consente di mettere
ordine nel pensare che ha per oggetto la vita. “L’individuo, infatti, per
essere tale, ha bisogno di rinascere, di essere di nuovo generato” (CGL:
38-39). Se per Zambrano nascere significa elaborare il significato del
4
proprio esistere , allora interpretare la vita alla luce del concetto di natalità
significa rifare continuamente il lavoro di costruzione del significato dell’e-
sperienza.
Per rinascere alla vita occorre incessantemente attivare quello sforzo
negativo che consiste nel disfarsi di parti di sé, nello spogliarsi delle forme
3
Una studentessa impegnata in un laboratorio di pensiero ispirato al principio dell’atti-
vare la pratica della presenza mentale, che consiste nell’educare la mente a prestare
attenzione alla cognizione nel mentre del suo accadere, dopo essere stata più giorni
impegnata a praticare questa forma di autoindagine, si chiede se per intensificare la
presenza mentale sia proprio necessario attivare una logica di controllo: “Ma bisogna
guidare i nostri pensieri? ... Se teniamo sotto controllo i nostri pensieri non li opprimiamo
un po’? Sono forse privati della loro capacità creativa dal momento in cui sono posti sotto
controllo?” (dal suo diario di bordo). Questa riflessione è indizio del prevalere nella nostra
cultura di una concezione della cognizione efficace come di quel pensare che controlla i
flussi di pensiero e allo stesso tempo attesta come un’esperienza di pensiero (qual è quella
del laboratorio riflessivo) ispirata ad una logica differente consenta il germinare della consa-
pevolezza che esiste la possibilità di una diversa interpretazione della cognizione come
presenza distesa alla realtà.
4
Laura Boella, Cuori pensanti, Tre Lune, Mantova 1998, p. 76.
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Nella semplioe essenzialità 47
5
Ad aiutare a comprendere il senso della disciplina dello spossessamento come mossa
vitale perché necessaria a rinascere, all’Incipit vita nova, c’è la metafora della serpe, quel suo
gettare la pelle vecchia per cominciare un nuovo percorso. Accade, però, che la serpe in
certi casi si trascini sulla terra tenendosi la sua pelle, “E quando qualcosa di analogo accade
nell’essere che più si erge nella scala della vita – e che con la serpe tante analogie mantiene
– sarà senza il più piccolo anelito che gli valga da stimolo, senza il soccorso di quello
stimolo che proviene dalla pelle nuova” (B: 21). Senza spogliarsi del vecchio, senza
svuotarsi del troppo pieno del sé vissuto, non si trova quell’anelito necessario a realizzare
l’essenza della vita umana, che consiste nel saper rinascere a vita nuova.
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48 Un metodo a-metodioo
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Nella semplioe essenzialità 49
6
Luisa Muraro, La maestra di Socrate, in Annarosa Buttarelli, Luisa Muraro e Liliana
Rampello, Duemilaeuna, Pratiche Editrice, Milano 2000, pp. 145-156, in part. pp. 151-153.
7
Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, p. 119.
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50 Un metodo a-metodioo
8
Rintraccio qui una profonda analogia con la pratica del “sillogismo in erba” proposta
da Gregory Bateson (Gregory Bateson, Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente,
Adelphi, Milano 1997 – ed. or. A Sacred Unity. Further Steps to an Ecology of Mind, Harper
Collins, New York 1991), il quale di fronte ai riduttivismi e alle semplificazioni innescate
dalla logica classica propone di attingere ad un differente modo di pensare per configurare
approcci logici più capaci di avvicinarsi alla complessità del mondo vivente. I sillogismi in
erba o “affermazione del conseguente” (del tipo: L’erba è mortale/Gli uomini sono
mortali/Gli uomini sono erba) costituirebbero lo strumento cognitivo più adeguato per
comprendere le tessiture ontologiche del mondo della vita. La logica poetica del sillogismo
in erba non può essere utilizzata per nessuna dimostrazione cosı̀ come è richiesta dalla
logica canonica, ma più di questa può avvicinare alla logica con cui funziona il mondo
vivente. Chi si occupa di investigare non solo il mondo vivente ma anche il mondo umano
stando nell’orizzonte epistemologico aperto dal paradigma ecologico, che impone di
cercare altri sguardi oltre a quelli autorizzati dalla logica materialistica e meccanicistica, ha
esperienza di quanto il mondo circostante della vita spesso si sottragga alla logica classica,
alle sue ferree leggi argomentative, e richieda di azzardare altri ed imprevisti modi
d’indagine, altre sintassi. Come quella della poesia; Bateson, infatti definisce il sillogismo in
erba un modo di pensare proprio del poeta (ivi, p. 370). A questo sillogismo Bateson dà
anche il nome di metafora e considera la metafora non solo uno dei mezzi del poeta, ma lo
strumento che meglio di altri consente di comprendere il mondo vivente (ivi, p. 371). La
poesia, dunque, non è più concepita come territorio di procedure alogiche, inutili per la
pratica della ricerca di una conoscenza vera, ma diventa serbatoio di altre logiche più
adatte di quelle canoniche per la comprensione del mondo umano.
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Nella semplioe essenzialità 51
pratica del disfare, succede di esperire questo istante di esperienza viva della
realtà dell’altro. Ed è vero: dura un attimo, ma questo attimo può bastare
per salvare l’incontro, ossia per lasciare che l’altro respiri secondo il suo
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ritmo.
Non si respira quando si sta dentro la densità spessa dei pensieri
abituali e del sentire già vissuto (CB: 27-28). Stare dentro il cerchio delle
proprie rappresentazioni e nello spazio già tonalizzato del proprio sentire
significa asfissiare (è questo un termine frequentemente usato da Zam-
brano) il pensiero, togliere ad esso aria; fare vuoto, spossessarsi, morire al
già dato significa aprirsi per “respirare la vita” (CB: 26).
Il metodo del disfare è quello di un pensiero che lavora continuamente
a liberarsi del troppo pieno del sé, per rendere accessibile, nella misura
possibile alla ragione umana, la condizione della povertà di spirito. Stare
in un mondo anticipato impedisce l’accesso alla realtà, nascere al reale
vuol dire disfarsi di tutto quanto ci impedisce di aderire con pienezza al
divenire delle cose del mondo. Significa dunque disfare i pensieri già
pensati, ma anche rendere fragile ogni epistemologia e ogni visione della
vita cui nel tempo abbiamo affidato la nostra trascendenza. Perché per
nascere alla realtà non basta liberarsi del sapere già saputo e con esso del
metodo abituale con cui lo si costruisce, ma di ogni misura del vivere e
con essa di ogni idea che informa l’esperienza e cosı̀ ricominciare a
cercare il metodo del nascere. “Ogni metodo è un Incipit vita nova” (CB: 15),
nel senso che ogni metodo è una nuova vita che inizia.
Disfarsi di sé, fare il vuoto è ciò che cerca il mistico. Per questo il
metodo di Zambrano è una pratica ascetica radicale, molto di più di
quanto non lo sia il metodo fenomenologico husserliano. Per la fenomeno-
logia si accede all’essenza del reale nella misura in cui si mette tra
parentesi il già saputo; per Zambrano mettere tra parentesi non basta,
occorre sapersi spogliare del già detto, dei pensieri già acquisti, farsi vuoti,
solo cosı̀ si rinasce a forma nuova. Incipit vita nova, ripete spesso Zambrano
per indicare che il lavoro del metodo è quello di disfare forme già
acquisite (disnascere) per germinare ad una nuova forma (rinascere).
A comprendere la pratica del disfare aiuta la metafora dell’esilio.
L’esiliato è colui che ha abbandonato i luoghi familiari e si trova a
percorrere il cammino in territori sconosciuti. L’essere in ricerca “è
quanto c’è di più simile ad un abbandono” (B: 88). E l’abbandono
dovrebbe essere totale, ossia lasciare tutto senza portarsi appresso nulla.
L’essenza della condizione dell’esiliato è il non avere un posto in cui
radicarsi: non avere un posto nel mondo, non essere nessuno. Cosı̀ è la
condizione della mente che applica la pratica del disfare: “fuggire da tutto
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52 Un metodo a-metodioo
ciò che è conosciuto, da tutto ciò che è stato, per ansia di nascere o
rinascere in un paese vergine, per andare, disfacendo la vita, incontro
all’altro” (DD: 73).
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Da sempre il conoscere che cerca la verità è concepito come un movimento possibile
attraverso la pratica del disfare di cui non si può tacere l’implicare una forma di violenza.
Il tagliare è violenza, c’è sempre qualcosa di duro, di forte quando si deve iniziare qualcosa
di nuovo. L’inizio si dà sempre nel dolore, come il nascere; non è un movimento idilliaco.
A cambiare è invece ‘la cosa’ di cui dobbiamo disfarci. Nell’epistemologia platonica è la
realtà materiale, che ingombrerebbe la mente di mere opinioni; nell’epistemologia carte-
siana sono le passioni che impedirebbero il conoscere oggettivo. Nella concezione di
Zambrano, invece, nella realtà si ha da entrare e si deve entrare tutti interi, anche col
proprio sentire; per lei da disfare è tutto ciò che ingombra la vita dell’anima; sono i
prodotti stessi dell’attività cognitiva ciò da cui occorre strapparci.
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Nella semplioe essenzialità 53
10
Questo amore per la libertà evidente in Zambrano lo è anche in altre donne; nella
Arendt che epistemologicamente mette in questione la tendenza a stare in un mondo
anticipato e politicamente considera la libertà la condizione stessa della politica, ma anche
nella Weil che molto lavora sul concetto di vuoto per aprire la mente al trascendente, e poi
nelle mistiche la cui scrittura è segno di un guadagno di libertà (Luisa Muraro, Il dio delle
donne, cit., p. 21).
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54 Un metodo a-metodioo
E se anche fosse possibile che, per qualche istante, nessun ricordo attraversi
la mente, ci sarebbe comunque un continuo riferimento al passato e sarebbe
impossibile che un evento, per quanto atteso, una persona, per quanto
infinitamente amata, siano accolti da un’anima pulita e priva di incrosta-
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11
Penso al mio lavoro di ricercatrice sul campo, quando sono impegnata a conoscere
l’esperienza dell’altro, o meglio il significato che egli/ella attribuisce alle sue esperienze. So,
per esperienza, che il metodo della ragione poetica, quello che procede a passi misurati e
lenti – perché nel bel mezzo della ricerca mi chiede di lavorare su di me per fare spazio
all’altro – è il metodo vero. Perché con la sua etica del lavorare a disfare mi consente di
fare quel vuoto che solo rende praticabile lo stare in prossimità dell’altro, solo cosı̀ si fa
spazio al dirsi della sua esperienza. Ed è questo metodo che vorrei informasse costante-
mente, senza cedimenti, la pratica del mio fare ricerca. Ma poi accade che il mondo della
ricerca mi chieda altri ritmi, mi chieda tempi che non sono quelli della ricerca vera. E a
questa richiesta di produrre saperi nei tempi canonici cerco di resistere, ma ci sono
situazioni in cui la resistenza viene meno, allora tradisco il metodo. Stare nel mondo
ordinario chiede continui tradimenti, perché il nostro agire e, dunque, il nostro pensare e
sentire si intreccia con quelli di altri, che si muovono secondo altre misure di verità; e in
questo intreccio di relazioni differenti, dove continue sono le negoziazioni richieste,
nessuno gode di quella sovranità sul proprio agire che consentirebbe di essere sempre
massimente fedeli alla propria misura.
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Nella semplioe essenzialità 55
12
Simone Weil, La prima radice, SE-Mondadori, Milano 1996 (ed. or. L’enracinement.
Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Paris 1949), p. 200.
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56 Un metodo a-metodioo
paziente e tenace girare intorno alle cose per vederle da ogni lato e
prospettiva, richiederebbe l’insonnia dell’attenzione; invece, questa è inevi-
tabilmente discontinua. L’attivarla con un adeguato livello di continuità
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13
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 65.
14
Ivi, p. 116.
15
Ivi, p. 215.
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Nella semplioe essenzialità 57
presenza. Questa postura della mente è analoga al gesto di una mano che
si presenta aperta. Lo stare di fronte alla realtà “con occhi spalancati”,
16
quello in cui la mente per cogliere le cose si abbandona al loro apparire ,
non è un modo difettivo di stare nel mondo, ma è quella postura della
mente che, proprio perché libera dai limiti che impone la circospezione
della vita pratica, consente alla mente di essere adeguatamente responsiva
rispetto al manifestarsi dei fenomeni. È proprio dall’attenzione non orien-
tata, ossia dal guardare alle cose libero da ogni tensione, che inizia il
17
filosofare come εωρεν .
Difficile oggi dare voce alla disposizione contemplativa perché a
prevalere è una concezione ‘faber’, cioè attivistica e manipolatoria, della
ragione. È la ragione dell’uomo affannato nell’azione, sempre diretto a
qualcosa e mosso da qualcosa, agitato dalla frenesia e dalla diversione.
L’attenzione aperta all’altro, quella che è espressione dell’epistemologia
dell’accoglienza, richiede, invece, una postura passiva della mente, quella
in cui il soggetto lascia all’altro il modo e il tempo del suo venire alla
presenza. Perché l’attenzione vera non è un guardare intensamente come
a voler penetrare l’oggetto; l’attenzione eccessiva, quella che pretende di
entrare nelle cose interrompe “la comunicazione spontanea che si ali-
menta nella simpatia e che è comprensione senza analisi” (DD: 32).
Prestare attenzione è tenere la mente aperta ad accogliere l’altro.
Affinché sia apertura che accoglie fedelmente l’altro nel suo modo di
apparire, la cognizione è chiamata a sviluppare una postura passiva, quel-
18
l’essere “azione non-agente” che consiste nel disattivare ogni atto volon-
16
Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998 (ed. or. Einführung in die
Philosophie. In Edith Steins Werke, vol. XIII, Herder, Freiburg 1991), p. 37.
17
Un’attenzione intensa e continuata al reale, che ha la forma della concentrazione
esterna capace di cogliere i fatti e ad essi tenere legato il pensiero, è fondamentale anche
per la dimensione politica dell’esistenza, perché costringe il pensare a misurarsi con la
realtà. Alla radice del vuoto di pensiero, che arendtianamente sta in relazione con
l’indebolimento della riflessione etica, c’è una distrazione diffusa, quella che si fa humus di
un pensare superficiale segno che manca un’adeguata intelligenza sul reale. È il valore
politico, oltre che epistemico, della capacità di attenzione che rende ragione dell’appello di
Simone Weil (Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1999 – ed. or. Attente de Dieu, Librairie
Arthème Fayard, Paris 1969 –, p. 75) a considerare come compito primario dell’educa-
zione quello di promuovere la disciplina dell’attenzione. È nel tempo lungo che la
disciplina dell’attenzione svela i guadagni cognitivi che rende possibile, primo fra tutti la
coscienza dei limiti della ragione e quindi la necessità dell’umiltà (ivi, p. 78).
18
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 199.
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58 Un metodo a-metodioo
19
Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 80.
20
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 120.
21
Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 80.
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Nella semplioe essenzialità 59
22
Max Scheler, Il valore della vita emotiva, cit., pp. 166-167.
23
Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 96.
24
Ivi, p. 99.
25
Ivi, p. 98.
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60 Un metodo a-metodioo
differenziarsi dei tempi del conoscere, con l’effetto non solo di consentire il
germinare del luogo dell’interiorità, ma anche il rendere la mente più
recettiva verso la realtà.
26
Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 42.
27
Simone Weil, (1988), Quaderni. Volume terzo, cit., p. 131.
28
Martin Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1989 (ed. or. Gelassenheit,
Günther Neske, Pfullingen 1959), p. 49.
29
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 79.
30
Martin Heidegger, L’abbandono, cit., p. 50
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Nella semplioe essenzialità 61
31
Martin Heidegger, L’abbandono, cit., p. 55.
32
Edith Stein, Natura Persona Mistica, Città Nuova, Roma 1997 (testi originali in Edith
Steins Werke, vol. VI, Welt und Person, Editions Nauwelaerts – Herder, Louvain-Freiburg
1962), p. 146.
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62 Un metodo a-metodioo
cose, una forma di non essere, perché la passività cercata è attiva. È una
passività agente (ST: 15), in questo senso ha un carattere positivo. La
passività non è mancanza di presenza attiva nel mondo, ma è un modo
più discreto di interpretare tale presenza, che si profila come l’essere
massimanente ricettivi rispetto alla realtà dell’altro. È questa la condizione
necessaria per rendere operativa quella che si può definire epistemologia
dell’accoglienza, della “morbida accoglienza” (CB: 25).
Questa epistemologia è strettamente connessa all’idea che il conoscere
abbia a che fare con l’amore per le cose, con l’innamorarsi di esse, perché
l’amore non è possesso dell’altro ma accoglienza, e per accogliere l’altro la
mente deve diventare passiva.
sospendere il domandare
Stare nella passività significa disattivare la tendenza a fare domande,
ossia a cercare qualcosa di preciso:
33
I frequenti riferimenti che in questa parte sono stati operati al pensiero di Heidegger
trovano legittimazione nel fatto che si può rintracciare una sensibile analogia fra la postura
quieta e distesa della ragione poetica di Zambrano e quella della ragione meditante di
Heidegger, perché la ragione meditante è quella che, come la ragione poetica, disattiva la
logica dell’imposizione di rappresentazioni precostituite che costringono il conoscere dentro
direzioni stabilite in anticipo e che costantemente si nutre della riflessione (Martin
Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1989 – ed. or. Gelassenheit, Günther Neske,
Pfullingen 1959 –, p. 37).
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Nella semplioe essenzialità 63
Non bisogna cercare. È la lezione immediata dei chiari del bosco: non
bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di
determinato, di prefigurato, di risaputo. E l’analogia del chiaro con il
tempio può sviare l’attenzione (CB: 11).
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Si esce dall’ombra del fitto dei rami e si entra nella radura chiara dove
le cose si rendono visibili quando ci si lascia guidare dai chiarori di luce
che attirano il nostro sguardo; ossia, il ricercatore esce dall’ombra dei
saperi predefiniti e perviene ad una conoscenza originaria delle cose,
quella non anticipata nel registro del nostro domandare, quando si fa
guidare dai modi di conoscere che le cose stesse suggeriscono. “Non
bisogna cercare (No hay que buscarlo) (...) Se non si cerca nulla l’offerta sarà
imprevedibile, illimitata” (CB: 11 e 12). Il pensiero che non cerca è un
pensiero passivo, in attesa. L’incapacità di entrare nella realtà è in
relazione con la tendenza del pensiero a concentrarsi affrettatamente su
qualcosa. È questo prendere una direzione anticipata che impedisce
l’accesso alle cose. L’errore sta nel voler cercare, perché “i beni più
34
preziosi non devono essere cercati, ma attesi” . La verità è qualcosa che si
deve intensamente desiderare senza permettersi di cercarla. L’essenziale è
qualcosa che non va conquistato, ma atteso e ricevuto.
Mettere in questione la tendenza a fare domande non significa negare
il valore dell’interrogare la realtà, perché da sempre è la via che apre il
pensiero. Il domandare, che ha la sua matrice generativa nel percepire
problemi nel reale, è l’aspetto più umano dell’uomo (UD: 30). Nonostante
questa consustanzialità del domandare con l’umano c’è, tuttavia, un
rischio di dismisura nella tensione a sollevare domande, e quando il porre
questioni viene ad essere nell’ordine dell’eccessivo allora, anziché aprire
squarci di luce, rischia di incrementare la percezione di problematicità del
reale al punto di sentirsi da essa sovrastati. Potrebbe allora il domandare
eccessivo provocare uno strappo nell’anima, senza che si siano verificati
quei guadagni di sapere che in certi casi possono rimarginare le ferite.
Ciò che Zambrano precisamente critica è quel sollevare domande cui
segue il cercare una risposta senza essersi posti in ascolto dell’essere delle
cose. È un domandare autoreferenziale, tutto centrato sul soggetto che
pone la domanda, da cui è espulso l’altro come possibile soggetto della
risposta. Quando si sta senza ascoltare il dirsi delle cose, queste appaiono
secondo la forma che il nostro pensiero ad esse ha assegnato; il silenzio
allora viene a cadere sulle cose che rimangono senza voce propria. Il
34
Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 81.
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64 Un metodo a-metodioo
all’ascoltare.
C’è, però, un interrogare impregnato di passività: è l’interpellare
l’altro che non prende forma in anticipo rispetto all’esperienza viva, ma
emerge dallo stare in ascolto. Non si ha da fissare la mente su una
domanda, ma tenere il pensiero sulla strada aperta dell’ascolto della
domanda che l’altro solleva. Il tratto caratterizzante di questo interpellare
passivo consiste nel lasciarsi interrogare dall’esperienza dell’altro; l’ascolto,
il farsi ricettivi, viene prima della domanda. Poi, quando la domanda è
stata formulata, subito si dovrebbe lasciare spazio al silenzio del sé, cosı̀ da
consentire di concepire silenziosamente la conoscenza. Il domandare che
ha origine nella postura passiva è quello che formula domande che “non
35
dipendono da niente che io ho e che io so” ed è in quanto tali che si
aprono all’altro e all’altro fanno posto.
E quando riusciamo a fare posto all’altro nella nostra mente, allora si
apre la dimensione della relazionalità che è costitutiva della condizione
umana. In questo senso la pratica cognitiva della passività, che ci fa stare
in ricerca senza domande, è pratica essenziale al conoscere perché epistemolo-
gicamente fedele all’essenza ontologica della condizione umana.
35
Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 20.
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Nella semplioe essenzialità 65
36
Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, cit., p. 19.
37
Ivi, pp. 50-51.
38
Edith Stein, Introduzione alla filosofia, cit., p. 46.
39
Edmund Husserl, L’idea della fenomenologia, Laterza, Roma-Bari 1992 (ed. or. Die Idee der
Phänomenologie, Husserliana, II, 1950), p. 64.
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66 Un metodo a-metodioo
c’è l’ineffabile, quello che non trova parole né forma alcuna per essere
espresso, il segno degli eventi più profondi ed intimi, che si definiscono
<fondo dell’anima>. Per essi raramente si trova la parola e se la si trova è
attraverso il cammino dell’arte e della poesia (NM: 111).
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Nella semplioe essenzialità 67
cercare la verità dell’essere delle cose: i chiarori nel bosco non hai da cercarli,
se li cerchi tutto diventa più opaco, ma neppure il metodo è cosa che si deve cercare,
affermazione questa accettabile se s’intende il cercare nel suo significato
ordinario come processo epistemico guidato da una precisa domanda. La
ricerca del metodo dev’essere una ricerca non mirata, una ricerca passiva
che si prefigura nella forma di un’attesa vigile dei segni che l’esperienza del
conoscere ci rimanda, cosı̀ che il cammino si apra da se stesso (NM: 44).
Quando si pensa alla ricerca, si pensa sempre ad un percorso prefigurato da
una domanda, e questa domanda implica già una direzione dello sguardo,
una direzione rettilinea. Andare alla ricerca di un metodo, seguendo le orme
discorsive di Zambrano che esplicitano l’imperativo del non cercare,
significa evitare ogni postura predeterminata, per stare nella dimensione
dell’aperto che ricettivamente ascolta i segni dell’esperienza.
Ogni movimento dell’essere, e dunque ogni movimento del pensare, è
guidato da un anelito, quello che ha la forma non del cercare qualcosa di
preciso, ma dello stare in attesa di trovare quello che è essenziale per essere.
Andare alla ricerca di un metodo senza cercarlo, nel senso di evitare di
cercare qualcosa di preciso, è dunque stare radicalmente nella passività
della postura ricettiva nei confronti dell’esperienza e, insieme, operare un
continuo impoverimento del sé in modo che la mente sia quanto più
possibile aperta a cogliere gli indizi del metodo che va disegnandosi. Solo
cosı̀ il metodo diventa quel cammino attraverso il quale l’essere umano può
trovare qualcosa di ciò che gli manca per essere (NM: 47).
accettare la vulnerabilità
Il metodo del disfare per stare nella passività, dove la mente diventa
fluido trasparente all’essere, è cosa difficile non solo da mettere in atto, ma
anche da sopportare perché rende vulnerabili. La pratica del fare vuoto,
del lavorare a continui spossessamenti, fa sentire vulnerabile, “ossia nudo
dinnanzi agli elementi che mostrano tutta la loro forza” (B: 33). E questo
autosentimento è difficile da sopportare perché ci fa sentire mancanti di
presenza, mancanti di esserci.
Allora accade che ci si faccia prendere dalla “tentazione dell’esistenza”
(B: 40), ossia di uscire dalla condizione di vulnerabilità facendo posto
all’io, che con le sue azioni viene a colonizzare lo spazio intorno. Ma
questa smania di azione per agire continui riempimenti di sé non è essere,
ma solo illusione di essere.
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68 Un metodo a-metodioo
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Nella semplioe essenzialità 69
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70 Un metodo a-metodioo
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1
Zambrano attribuisce ad Heidegger il merito di aver auspicato un ritorno al pensiero
poetico e sostiene che se l’attenzione alla poesia ha preso corpo in un’epoca permeata dal
pensiero calcolante ciò è dovuto alla fama di cui godeva il filosofo che ha pronunciato
questo auspicio, perché “le situazioni, per essenziali che siano, devono essere sostenute,
appurate, da un protagonista che si presenti con caratteri di credibilità” (B: 53). Ma la sua
preferenza per la poesia come luogo generativo di un pensare vero trova origine nel
pensiero di Miguel De Unamuno, il quale nel libro El sentimiento trágico de la vida mette in
questione una certa filosofia, quella intesa come ricerca di una conoscenza razionale e
oggettiva anziché coltivarla come ricerca di una luce sulla vita (SPPC: 76). Un’anima che
senta non fame di conoscenza, ma sete di vita non può non attingere alla poesia.
2
Zambrano usa qui il termine apparenze ma poi precisa che l’apparenza non esiste,
esistono le cose; c’è bisogno di usare questa parola perché di fronte a coloro che le sdegnano
una certa filosofia si è adoperata per riabilitarle; ma “nessuno vede o ama le apparenze”
(CGL: 123).
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72 Un metodo a-metodioo
dappresso, e con una torsione radicale si protende verso altri luoghi che
non siano quelli del divenire, dove le cose dal nulla vengono e al nulla
ritornano. Il filosofo platonico è quello che prende commiato dal mondo
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3
Parmenide, Poema sulla natura. Framm. 1, tr. it. Biblioteca Universale Rizzoli RCS,
Milano 1999, pp. 147-149.
4
Va precisato che non tutta la filosofia è oggetto di critica radicale da parte di
Zambrano. Se prende le distanze dalla filosofia platonica e aristotelica manifesta, invece, la
sua ammirazione per quella filosofia che, senza lasciarsi irretire nelle ambizioni di un
pensiero sistematico e che cerca il rigore a costo della rilevanza, si occupa delle questioni
della vita per offrirsi come pensiero medicinale. Perché la ragion d’essere della filosofia
sarebbe quella di coltivare pensieri che aiutano l’essere umano ad affrontare la sua
condizione costitutivamente problematica. Punto luminoso di questo modo del filosofare è,
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Il metodo della ragione poetioa 73
per Zambrano, Seneca, che ha saputo farsi mediatore tra la vita e il pensiero (S: 8). La
ricerca che si occupa di mettere a punto teorie sulla formazione troverebbe nutrimento in
questo tipo di filosofia interessata a coltivare una ragione che aiuti a trovare il proprio
cammino nella vita.
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74 Un metodo a-metodioo
5
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 104.
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Il metodo della ragione poetioa 75
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76 Un metodo a-metodioo
(FP: 35).
Che la verità possa essere cercata adottando il metodo del pensare
poetico è cosa difficile da accettare nel contesto della cultura occidentale,
perché la ricerca della verità – concepita da una filosofia che intendeva
accreditarsi nella forma discorsiva propria dell’indagine scientifica – è
sempre stata sottoposta ai criteri di certezza e di evidenza. Questi criteri,
però, sono applicabili solo a quella conoscenza che produce la ricerca
scientifica, mentre è errato pretendere di applicarli a quella verità che è il
sapere dell’anima, di cui va alla ricerca il pensare. Costringere il filosofare
entro questi criteri significa adottare una misura inadeguata all’essenza del
6
pensare .
6
Martin Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, Adelphi, Milano 1995 (ed. or. Brief über den
“Humanismus”, Klostermann, Frankfurt am Main 1976), pp. 33-34.
7
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 234.
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Il metodo della ragione poetioa 77
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78 Un metodo a-metodioo
8
Roberta De Monticelli, L’allegria della mente, cit., p. 58.
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Il metodo della ragione poetioa 79
9
Nel testo che Zambrano definisce immortale La posizione dell’uomo nel cosmo, Scheler,
commentando Bergson, parla della persistenza nella cognizione umana di differenti forme
della coscienza che – esprimendoci con un linguaggio batesoniano – manifestebbero le
molteplici forme della vita della mente che attraversa la natura vivente. Tali forme nel
tempo sarebbero divenute nascoste all’intelletto calcolante, che si è proposto come l’unica
via di accesso alla realtà (Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 111). La
possibilità di accedere ad un’intuizione viva dell’essenza delle cose richiederebbe che le
diverse facoltà della mente fossero risvegliate e riattivate.
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80 Un metodo a-metodioo
Per essere capace di una parola incarnata occorre pensare con inte-
rezza senza lasciarsi prendere dalla ricerca di un’oggettività che pretende
che noi si diventi soggetti senza corpo e senza emozioni. Cosı̀ di fatto ha
preteso la filosofia che vorrebbe il soggetto non avesse un essere determi-
nato come condizione per cercare la verità dell’Essere. L’Essere senza
soggetto (B: 56) non si rivelerebbe ad un ente denso della sua soggettività.
Per questo il pensatore “Non può essere sacerdote, poeta, saggio, legisla-
tore, perché non può essere né questo né quello” (B: 54).
Ma se la verità che si va cercando non è quella razionale e oggettiva
nutrita dalla fame di conoscenza, ma la verità che illumina la vita, ossia
quella che nasce dalla sete di vivere, e dunque deve rischiarare il mio
cammino qui ed ora, non può essere cercata altrove da un soggetto che
pretende di aver perso il radicamento nell’esperienza cosı̀ come si dà alla
coscienza quando è attenta al divenire alle cose. La ricerca del sapere
dell’anima non chiede al soggetto di cancellare la sua presenza, occultando
la sua unicità e singolarità, ma di pensare a partire da sé. Il sapere vero
non è un sapere diafano e neutro, ma un sapere che si porta appresso
tutto il sapore dell’esperienza soggettiva, è dunque un pensare che si nutre
di contingenza.
Il pensare a partire da sé è il pensare che muove dall’esperienza, cioè
dal vissuto portato sotto la luce del pensiero. Questo pensare intensiva-
mente la contingenza, che è attenzione a ciò che si vive concretamente, ai
sentimenti e alle contraddizioni vissute in prima persona, ha una ripercus-
sione materiale sul senso dell’essere poiché apre l’orizzonte del rinascere.
È la pratica del partire da sé che consente di rinnovare la propria
10
nascita .
10
Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare, e Chiara Zamboni, Il materialismo dell’anima,
entrambi in Diotima, La sapienza a partire da sé, Liguori, Napoli 1996, rispettivamente alle
pp. 5-21 e pp. 154-170.
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Il metodo della ragione poetioa 81
Siccome fa parte dell’impulso alla conoscenza e gli occhi sono fra i sensi lo
strumento principale della conoscenza, la parola divina la definisce ‘pas-
sione degli occhi’11.
11
Agostino, Confessioni, Libro X, 35.54.
12
Ivi, 35.56.
13
Ivi, 35.56.
14
Ivi, 35.57.
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82 Un metodo a-metodioo
15
Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 35.
16
A coniare l’espressione “materialismo dell’anima” è stata Chiara Zamboni per indi-
care la ricerca di senso che avviene nella concretezza della vita (Id., Il materialismo dell’anima,
in Diotima, La sapienza del partire da sé, cit., pp. 155-170, in part. p. 159), perché quella cosa
immateriale che è l’anima, di cui non sappiamo forma e figura, si nutre di cose concrete e
visibili.
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Il metodo della ragione poetioa 83
La solitudine, come tutte le dimore dei mistici, era una tappa del cammino.
La sua differenza con gli ‘stati’ – quegli stati d’animo abusati dal post-
romanticismo – consiste nel fatto che sono reali, che trasformano realmente
l’anima. Le tappe intermedie di questo cammino non consistono in un mero
attraversamento, ma in successive e violentissime trasformazioni (CGL: 80).
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84 Un metodo a-metodioo
Come un passero che si fa nido nell’aria ma che è uscito dalla terra bruna e
che è bruno come essa, fatto, infine, della sua stessa sostanza. E cosı̀,
quando canta, per quanto liberamente lo faccia, è come se la terra stessa
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cantasse; come se la terra stessa fosse riuscita a disfarsi del suo peso e della
gravità che lo trattiene (CGL: 110).
L’anima svuotata del troppo pieno di sé è quella che sola può
accogliere la cosa. E nell’accogliere la realtà si offre alla conoscenza. Il
problema, dunque, non è quello di sospendere il rapporto con le cose, ma
di trovare un accesso vero, cosa che non succede al filosofo quando si
allontana dal mondo alleggerendosi delle cose ingombranti, come sono le
passioni e le preoccupazioni del quotidiano. Allora, arendtianamente, non
trova il mondo, ma incontra solo se stesso. La fame di verità è “fame di
presenza di figure reali, letteralmente <materiali>”, è questo desiderio di
realtà che la distingue dalla semplice fame di sapere scientifico (CGL:
121). Non si tratta di attrezzarsi di teorie, ma di lavorare nella nostra
mente affinché la conoscenza si realizzi.
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5
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1
Nel suo assegnare una primarietà al sentire si può ipotizzare aver giocato un ruolo
importante il pensiero heideggeriano, ma basilare è stata l’influenza esercitata dal pensiero
di Miguel de Unamuno. Per il filosofo spagnolo l’essere umano, anziché “essere razionale”,
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86 Un metodo a-metodioo
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 87
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88 Un metodo a-metodioo
Percorrere una nuova via, come quella richiesta dalla ragione poetica,
che chiede di camminare al di fuori dei sentieri abituali, significa avventu-
rarsi in territori sconosciuti senza sicuri e collaudati appoggi concettuali;
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4
Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 47.
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 89
5
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 113.
6
Non si può, a questo punto, non risalire all’origine fenomenologica delle riflessioni
arendtiane, che si rintraccia nel pensiero husserliano. Nelle Idee, Husserl spiega che nella
riflessione, o intuizione essenziale riflessa, l’Erlebnis nel momento in cui viene fatto oggetto
di considerazione diventa ciò che si offre al pensiero, mentre quando lo sguardo riflessivo si
distoglie, questo diventa altra cosa. “L’essenza afferrata è soltanto essenza dell’Erlebnis
riflesso” (Husserl, Idee, cit., p. 173). Consideriamo il vissuto della gioia: quando lo sguardo
riflettente si dirige su di esso, la gioia diventa qualcosa di osservato. Questo produce una
modificazione del vissuto, poiché quando si attiva il pensare s’interrompe l’adesione
immediata al sentire e questo nel suo venire presentificato cambia di qualità. È del resto
intuitiva la differenza fra il sentire e il pensarsi sentire. Il sentire semplicemente vissuto è
altro dal sentire consaputo, perché il riflettere interrompe il fluire spontaneo del vissuto. Se,
però, si presta un’attenzione intensiva al vissuto per rendere di esso possibile una descri-
zione dettagliata si può ipotizzare l’accesso all’essenza del sentire consaputo, ed è questo
l’obiettivo proprio della riflessione.
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90 Un metodo a-metodioo
nua, con la conseguenza che tutto quello che perviene alla luce della
coscienza riflessiva è sempre mancante di altro, che è destinato a rimanere
opaco. Tuttavia tali cautele non impediscono che si esplori la possibilità di
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7
Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 178.
8
Di fronte al dilagare di teorie che pretendono di proporre metodiche per la gestione
intelligente delle emozioni è necessario precisare che i discorsi qui sviluppati si pongono su
un piano radicalmente differente. Qui si parla di comprensione del proprio vissuto per vivere
sapendosi, senza per questo pretendere alcuna postura di controllo, perché “non è possibile
possedersi da sé. Si dovrebbe essere più di se stessi, possedersi a partire da qualche altra
cosa che si situa al di là, da qualcosa che possa effettivamente contenerci.” (FP: 112), ma
nessuna mente può trovare un punto d’appoggio all’esterno da cui padroneggarsi.
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 91
9
Simone Weil, Quaderni. Voume secondo, cit., p. 74.
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92 Un metodo a-metodioo
sulla sofferenza non aiuta a trovare respiro. Occorre trovare altri modi di
sentire la realtà e questa possibilità si apre non combattendo la sofferenza,
ma coltivando sentimenti differenti, perché “non si padroneggia una tona-
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10
lità emotiva liberandosi da essa, ma in virtù della tonalità opposta” .
10
Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 174.
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 93
11
Roberta De Monticelli, L’allegria della mente, cit., p. 169.
12
Il saper accettare non implica la pretesa di annullare l’inquietudine. L’inquietudine è
un sentimento costitutivo dell’esistenza umana proprio in quanto mancante, ed è alimento
necessario della vita cognitiva; funziona da propellente alla ricerca. Ma quando l’inquietu-
dine eccede la sua misura sostenibile si cade nel disordine esistenziale e/o cognitivo. Allora
per trovare un sentire positivo che aiuti la nostra ricerca d’essere non si dovrebbe agire
sull’oggetto che costituisce la causa del problema, ma si dovrebbe spostare lo sguardo sul
sentimento opposto e quello si cerca di coltivare. È questa delocalizzazione oppositiva
dell’attenzione, che fa germinare l’altro differente polo del sentire, la condizione necessaria
per trovare quell’equilibrio emotivo essenziale sia al cuore che alla mente.
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94 Un metodo a-metodioo
nuare a nascere senza che ci sia dato sapere in anticipo qual è il giusto
ritmo da dare al proprio tempo, la buona direzione da seguire nel proprio
cammino. Accettare di arrischiare il nuovo senza paracaduti. Ma ancor
più difficile da accettare è il compito di continuare a nascere sapendo che
da subito s’inizia a morire; e tale compito diventa ancora più arduo col
passare del tempo, quando l’anima ha avuto esperienza della sofferenza e
con essa della difficoltà di tenere il cuore aperto al desiderio d’altro. Il
difficile è accettare di sentirsi nelle tenebre, senza i chiari di luce cui la
mente aspira: accettare la ferita dell’esserci (DD: 19).
Sentire che il tempo è inabitabile e consumabile non può non provo-
care angoscia. Quando ci si sente arpionati dall’angoscia, la reazione
subitanea è quella di cercare di evitarla. Ma l’evitamento di questo
sentimento, che è rivelatore del nostro essere, è un’azione pericolosa. Ciò
che occorre fare è accettarla, ossia non sottrarsi al soffrire, ma patirlo.
Accettare è stare nella passività e l’essere passivi richiede di disattivare
ogni attaccamento alla brama di essere altro, di poter attingere un altrove
differente dalla condizione terrestre. Accettare “significa non voler alterare
in nessun modo l’ordine del mondo, per strano che possa sembrare;
guardarsi senza rancore, avere smesso di vedersi e sentirsi finalmente
come qualcosa che è” (S: 47).
È questo l’insegnamento che Zambrano matura attraverso Seneca e
Agostino: accettare la realtà, accettarla senza condizioni (CGL: 53) e senza
cercare consolazione alcuna (DD: 57), perché la consolazione è frutto
dell’immaginazione e l’immaginazione ci sradica dalla realtà. Il cercare
consolazioni è da evitare perché contrario al movimento dell’entrare nella
13
vita, che è possibile solo se si sta nell’ordine della verità . Il saper accettare
è sentimento essenziale alla vita perché libera l’anima dal rancore, dal
risentimento che prende al sapersi non compiuti, non terminati, e addos-
sati del compito mai terminabile di trovare la forma del proprio esserci. Il
13
Sulla necessità di imparare ad accettare la sofferenza molto ha riflettuto Simone Weil,
che sostiene si debba accettare la vita cosı̀ com’è, alludendo quindi alla valenza positiva
della disposizione passiva dell’anima. Dà da pensare la sua riflessione secondo la quale non
si deve mai cercare una consolazione al dolore, perché la felicità che si va cercando è di un
ordine del sentire differente da quello della sofferenza e della consolazione. Lei dice che “è
percepita con un altro senso”, un senso che si forma attraverso uno spostamento dell’atten-
zione che sarebbe possibile attraverso un coinvolgimento della persona intera, nella sua
anima e nel suo corpo (Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 165).
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 95
14
Figura esemplare della capacità di elaborazione di questo sentimento è Agostino, il
quale, partendo da un’inimicizia tra sé e la divinità, un’inimicizia che gli fa sentire estranea
la sua stessa vita, arriva ad accettare la realtà senza condizioni; un’accettazione che
comporta il disinteressarsi di sé, al punto da nemmeno pretendere risposte sul proprio
essere come, invece, fa Giobbe. Ed è accettando la propria condizione che arriva a trovare
se stesso. A questo sentimento è difficile che pervenga la ragione moderna, perché dal suo
inizio si qualifica come esercizio del dubbio. Invece, proprio il metodo del non cercare
aiuta la mente a trovare la postura essenziale per sviluppare la capacità di accettare.
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96 Un metodo a-metodioo
ria genetica interveniamo nelle zone più intime e nascoste del processo
vitale. Inoltre, più semplicemente ma non meno drammaticamente, non
sappiamo accettare il nostro corpo e azzardiamo interventi che mettono a
rischio la vita. Anche nell’uso di sostanze chimiche mirate ad ottimizzare
le prestazioni atletiche, la tecnologia è posta al servizio di un progetto di
vita fuori dall’ordine, smisurato.
La smania ingegneristica che ci vorrebbe soggetti capaci di esercitare
una piena sovranità sui processi naturali, sulle dinamiche sociali, sulla vita
del corpo, nonché sull’esperienza interiore, è mossa da quel desiderio di
sfuggire la condizione umana che ha origine nell’incapacità di accettare la
sua qualità fragile ed incerta. Non si vorrebbe cioè che il processo di
costituzione della forma del nostro esserci incontrasse limiti fisici e tempo-
rali, e neppure che fosse cosı̀ poco autosufficiente rispetto al contesto
biologico e a quello sociale. Si vorrebbe guadagnare una condizione di
assoluta padronanza dell’esistenza, che consisterebbe nel poter controllare
le reti di relazioni eco-socio-mentali in cui ci si trova implicati. Da qui la
messa in atto di approcci manageriali sia rispetto alla propria vita interiore
che al tessuto di relazioni in cui viviamo. Ma l’andare alla ricerca di una
condizione di sovranità che consenta di dominare il tempo della vita non
può costituire quella giusta misura ontogenetica di cui abbiamo necessità
per imprimere un principio d’ordine al processo di auto-eco-composizione
dell’esistenza, perché tale condizione non appartiene alla vita umana e
quando ci si lascia guidare da desideri che non tengono conto della qualità
del reale la vita precipita nel disordine. È l’incapacità di accettare certi
limiti che è alla radice di un modo smisurato di abitare il proprio tempo,
cioè un modo che manca della giusta misura dell’esistere, quella che può
essere cercata solo a partire da una disposizione di fedeltà, per quanto
sofferta, alla qualità fragile ed incerta della condizione umana, a quell’es-
sere vacillante e inerme che noi siamo.
Per uscire dal disordine provocato da questo agire smisurato occorre
imparare ad accettare la vita umana cosı̀ come ci è data. Cosı̀ come “le
radici che si sono rifiutate di sostenere un peso perdono la condizione di
fondamento” (B: 17), cosı̀ quel pensare che si rifiuta di sostenere il peso
della realtà non può essere un pensiero efficace, capace di costituirsi come
misura misurante del vivere. La mente è chiamata a lavorare non per
fuggire il reale ma per entrare nella realtà.
È vero che la tensione a oltrepassare i limiti è propria dell’essere
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 97
umano e che senza questa tensione alla trascendenza non sarebbe fiorita
alcuna civiltà. La trascendenza è costitutiva della condizione umana ed è
la capacità che hanno gli esseri umani di protendersi verso l’ulteriore,
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15
Martha Nussbaum, Love’s Knowledge, Oxford University Press, New York 1990, p. 379.
16
Agostino cit. in Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 30.
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98 Un metodo a-metodioo
17
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 111.
18
Platone, Timeo, 90 d.
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 99
19
Agostino, Confessioni, IX, 10.
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100 Un metodo a-metodioo
la cui validità non conosca la corrosione operata dal tempo, è “un anelito
che giace, spesso inavvertito, nel più profondo di ogni persona” (B: 111).
Si crea cosı̀ quel paradosso per cui il tempo, oltre a costituire la sostanza
della vita si rivela l’ostacolo che si oppone all’anelito di sottrarsi al tempo
che passa. “Il fluire del tempo fa venire fuori, fa risvegliare, l’ansia di
eternità della vita” (B: 111). Quando non si sa accettare il proprio essere
finiti si rischia che l’anima venga invasa da quell’ansia corrosiva che
finisce per costituire una solida resistenza a quelle forme di realizzazione
esistenziale che richiederebbero, invece, il piacere dell’esserci. La vita per
essere vissuta intensamente richiede una forma di quietudine dell’anima, il
saper accettare il tempo, che è tutt’uno col saper accettare la vita:
Dato che non siamo nulla o siamo appena qualcosa, perché non sorridere
all’universo, al giorno che avanza, perché non accettare il tempo come un
regalo splendido? (DD: 22).
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 101
20
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 85.
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102 Un metodo a-metodioo
5.3. Sperare
Nell’essere umano, mancante di una forma precisa dell’essere, è presente
come esigenza ineludibile quella di esserci, di realizzare le proprie possibi-
lità. Ma proprio il sapersi nel tempo mostra la difficoltà di divenire
pienamente il proprio poter essere, perché all’opera di trovare la propria
forma sembra che il tempo non basti mai. A noi, fatti di tempo e mancanti
di essere, è chiesto di divenire il nostro essere in un tempo che ci sembra
non sufficiente alla tessitura dell’esserci. Cosı̀ accade che il mancare
d’essere e il mancare di tempo siano la stessa cosa. Saperlo genera
quell’angoscia che può paralizzare ogni movimento vitale, ogni respiro nel
presente. Per poter esserci occorre allora saper accettare, saper accettare
di stare in questa strettoia ontologica.
Accettare di essere nel tempo, sapendo che il tempo finisce significa
nutrire la speranza che il proprio realizzarsi possa accadere comunque.
Perché la speranza “è fame di nascere del tutto, di portare a compimento
ciò che portiamo dentro di noi solo in modo abbozzato. In questo senso la
speranza è la sostanza della nostra vita; grazie ad essa siamo figli dei nostri
sogni” (SA: 90). Per divenire il proprio poter essere ciascuno ha necessità
di una visione. A nessuno però è data la possibilità di afferrare una visione
chiara del proprio divenire. Se si avesse una conoscenza esatta della forma
cui tendere allora il nostro camminare sarebbe rischiarato da una luce
tanto chiara da non rendere necessario più nulla. Invece è inevitabile
trovarsi ad attraversare zone oscure, dove a sostenere la fatica del cercare
la giusta direzione del proprio camminare può essere solo la speranza. In
questo senso “la speranza è il vuoto attivo di un essere insufficiente a se
stesso, di un essere che non è ancora” (NM: 51).
Vivere è anelare, afferma Zambrano richiamando Ortega, ma anelare
è il segno minimo dell’essere presenti nel tempo. La vita è vissuta quando
si respira il tempo, e per respirare a pieni polmoni occorre sperare, sperare
che nel tempo noi possiamo essere, che possiamo realizzarci. Perché
l’essere umano è colui che ha necessità di realizzarsi. “Deve crearsi il
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 103
proprio essere, che non ha ricevuto già compiuto” (SA: 91). Ma per dare
forma al proprio essere occorre energia e questa energia viene dalla
speranza. “La verità è la speranza” scrive Machado nel testo poetico
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è il fondo ultimo della vita, la vita stessa ... che nell’essere umano si dirige
inesorabilemnte verso una finalità, verso un oltre ... La speranza è la
trascendenza stessa della vita che incessantemente rampolla, mantenendo
aperto l’essere individuale (B: 106)
21
Per Zambrano lo stoicismo, respirato soprattutto sui testi di Seneca, è una visione
significativa, perché è una di quelle che risponde alla ragione d’essere della filosofia di
aiutare a vivere. Lo stoicismo insegna che per raggiungere la quiete dell’anima occorre non
sperare nulla, né sperare né temere nulla. Solo quando non spera e non teme l’anima
diventa libera e capace di intensa ricettività (A: 63). Questa etica dell’evitamento della
speranza non contraddice il discorso qui sviluppato che tende a mostrare la centralità di
questo sentimento per la filosofa spagnola, perché per lei da evitare è la speranza che
esprime un attaccamento a qualcosa, non certo la speranza pura.
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104 Un metodo a-metodioo
sono persone che hanno perso tutto. Se pensi al loro modo di essere
sembra che la speranza li accompagni da sempre, sia la sostanza della loro
vita.
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 105
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106 Un metodo a-metodioo
È difficile abbandonarsi alla vita con fiducia, ..., se non siamo cresciuti cosı̀,
sentendoci guidati da una mano forte e delicata che sa misurare (SA: 119).
22
Donald Winnicott, cit. in Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 164, nota 131.
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 107
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108 Un metodo a-metodioo
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 109
Ogni metodo salta fuori come un Incipit vita nova che si tende verso di noi
con la sua inalienabile allegria (CB: 14-15).
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110 Un metodo a-metodioo
pratica riflessiva che assume come oggetto la vita della mente nel suo
accadere presente.
Senza quelli che Weil definisce “sentimenti benevoli” (amicizia, ammi-
razione, simpatia) la mente è incapace di trovare le energie richieste dalla
24
ricerca della verità dell’esperienza . È nella gioia che la mente sviluppa il
25
sentimento della realtà , quello che tiene la mente aperta alle cose, mentre
la tristezza e il dolore indeboliscono tale sentimento perché portano la
26
mente a ripiegarsi su se stessa . Senza l’energia che viene da un sentire
positivamente orientato nessuno sforzo cognitivo mette in grado da solo di
approssimarsi alla verità. Non è sufficiente che si faccia vuoto, facendo
silenzio dentro di sè e disattivando ogni desiderio e ogni opinione, occorre
27
anche che “si pensi con amore” .
E il sentimento che, secondo Zambrano, più di ogni altro è compo-
nente essenziale di quel pensare che cerca una comprensione profonda
dell’esperienza è la pietà, che considera il sentimento originario, il più
ampio e profondo (SP: 65). La pietà, che non va confusa né con la carità
né con la compassione, è “il saper trattare adeguatamente l’altro” (UD:
185), cioè saper sentire l’altro nella sua alterità senza schematizzarlo in
un’dea astratta in cui va perduta la sua originale differenza. È quindi
sentimento di comunione, poiché ci tiene in relazione con altri facendosi
risposta al bisogno ontogenetico di convivere con gli altri, essendo l’essere
umano fondamentalmente plurale pur nella singolarità della sua vita.
Proprio perché ci fa sentire e accettare l’alterità degli altri piani
dell’essere, la pietà è quel sentimento che ci mette in comunione con tutti
gli esseri, non solo con il prossimo, ma anche con gli animali e con le
piante; è, infatti, quel modo del sentire che ci “situa in modo adeguato tra
tutti i piani dell’essere” ed è in quanto tale che ci consente una compren-
sione larga e profonda del reale, compreso di esso quanto è più radical-
mente differente da noi (SP: 67). La qualità ontologica dell’essere umano è
quella di sentirsi allo stesso tempo parte della realtà ed eterogeneo ad essa,
e mentre ha coscienza della sua solitudine allo stesso tempo percepisce che
23
Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, cit., p. 165.
24
Simone Weil, La prima radice, cit., p. 188.
25
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 144.
26
Ivi, pp. 204 e 234.
27
Ivi, p. 159.
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 111
la qualità etica dell’esserci consiste nel trovare la comunione col resto degli
enti. La pietà è il sentimento che dà voce a questa tensione etica, poiché è
“aspirazione a trovare i tratti e il modo di intendersi con ognuna di queste
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28
In questa primarietà assegnata alla pietà in virtù del suo metterci in comunione con
tutti gli enti si rintraccerebbe un afflato cosmico in cui Zambrano, anche se a livello di
ragione germinale, anticipa temi della più attuale filosofia ecologica. In questo può aver
agito il suo vivo interesso per i temi sviluppati da Scheler, in particolare il suo indicare
l’essere umano come quello che, diversamente dagli altri esseri non si adatta mai a nessun
ambiente. Mentre gli altri enti sono completamente situati dentro l’ordine delle cose,
l’essere umano conosce “il sussulto dell’uscir fuori” (DD: 120). Ma quando percepisce di sé
solo il suo essere estraniato dalla natura e su questo sentire si concentra il suo meditare,
allora finisce per smarrire il radicamento nell’essere. L’intuizione di Zambrano è di aver
stabilito una connessione fra la possibilità di un sentire che ci tenga in comunione con
l’essere e la necessità di un modo interconnesso di pensare l’essere, oggi si direbbe
un’ontologia della relazionalità. Se, però, in una certa filosofia ecologica contemporanea la
tensione ad evidenziare l’interconnessione fra tutte le forme di vita rischia di annullare la
posizione originale dell’essere umano, Zambrano, invece, sottolinea la compresenza in noi
di partecipazione e di solitudine rispetto al mondo circostante della vita e accenna alla
ricerca di “un modo adeguato” di situarci nelle varie zone dell’essere.
29
Hannah Arendt, L’umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, in “La società degli
individui”, 2001, n. 7, p. 16.
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112 Un metodo a-metodioo
30
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 114.
31
Edith Stein, Scientia crucis. Studio su S. Giovanni della Croce, Postulazione Generale dei
Carmelitani Scalzi, Roma 1982.
32
Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 35.
33
Ivi, p. 35.
34
Simone Weil, La prima radice, cit., p. 188.
35
Laura Boella, Cuori pensanti, cit., p. 93.
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Coltivare sentimenti amorosi e positivi 113
36
Ivi, p. 94.
37
Agostino, Confessioni, X, 25. 50.
38
Hannah Arendt, La vita della mente, cit., pp. 154-155.
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114 Un metodo a-metodioo
concettualizzazioni.
È sulla base di questo stile cognitivo che Zambrano struttura la sua
originale concezione dell’intelligenza come “intelligenza del cuore”. Si
tratta di una forma differente di intelligenza rispetto a quella che presiede
la ricerca scientifica, ma è altrettanto reale e certamente non di minor
valore. È l’intelligenza necessaria alla vita, necesssaria per convivere con
altri trovando un modo felice di camminare insieme nel tempo. A diffe-
39
renza dell’intelligenza scientifica non dà potere , ma è essenziale per
tessere relazioni che fanno lavoro di civiltà.
Il problema è che come tutte le cose essenziali per la vita anche questa
non è padroneggiabile, nel senso che non è una tecnica di cui disporre e
che può essere trasmessa da una persona all’altra per mezzo di un atto
volontaristico. È di quelle cose che si apprendono per contagio, abitando
luoghi dove di questa intelligenza altre e altri danno testimonianza diretta
nel loro modo di guardare gli altri e di sentire la vita.
39
Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 97.
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6
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Scrivere di formazione
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116 Un metodo a-metodioo
1
Annarosa Buttarelli, Poesia madre della filosofia. Per una filosofia della passività efficace, in
Chiara Zamboni (a cura di), Marı́a Zambrano, in fedeltà alla parola vivente, Alinea Editrice,
Firenze 2002, pp. 13-34, in part. p. 16.
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Sorivere di ormazione 117
2
Ivi, p. 19.
3
Platone, Lachete, 185d-186e.
4
Platone, Apologia di Socrate, 33b.
5
Platone, Apologia di Socrate, 33a.
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118 Un metodo a-metodioo
6
Nel contesto di un laboratorio di formazione alla pratica della riflessione una maestra
di scuola dell’infanzia è intervenuta nel gruppo di discussione con queste parole: “Sı̀ le
teorie servono, possono servire, però ti dicono delle cose generali e il caso che hai davanti è
sempre un’altra cosa, ti serve altro” (settembre 2004).
7
Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, cit., p. 14.
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Sorivere di ormazione 119
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120 Un metodo a-metodioo
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Sorivere di ormazione 121
8
Annarosa Buttarelli, Poesia madre della filosofia, cit., p. 23.
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122 Un metodo a-metodioo
al dirsi dell’altro nel suo divenire. Stare ascoltanti, con uno sguardo inna-
morato dell’esperienza, con uno sguardo amoroso.
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Sorivere di ormazione 123
e se fosse la metafora
E se fosse la metafora il nucleo del discorso che si va cercando? La
parola enunciativa, che ordina il discorso in lucide architetture concettuali
non sempre è adeguata, anzi può ingannare, perché dà l’impressione di
aver raggiunto una chiarezza di fatto irraggiungibile. La metafora è quel
modo del discorso che dice e non dice allo stesso tempo. Può essere lo
strumento essenziale della ragione poetica.
Una delle mancanze più tristi del tempo attuale è quella di metafore vive e
attive, che s’imprimono nell’animo delle genti e lasciano un segno nella loro
vita (SA: 43).
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124 Un metodo a-metodioo
9
mente la realtà, perché capace di una risignificazione creativa .
La metafora è quello strumento cognitivo che accenna ad una realtà
che non riesce a dirsi attraverso i modi consueti del linguaggio. Ci sono
intuizioni che non riescono a trovare espressione; se la mente trattasse
queste intuizioni col linguaggio ordinario, allora la realtà che l’intuizione
coglie si ribellerebbe, si sottrarrebbe, diverrebbe ineffabile. La metafora è
l’unica forma in cui certe intuizioni si rendono visibili.
Le parole vere non hanno mai l’aspetto di un discorso compiuto,
finito; piuttosto hanno l’apparenza di un nucleo che attende di svilupparsi.
Non perimetrano con sicurezza isole di significato, perché non sono niente
di più che “il batter d’ali del senso” (CB: 90). Nelle parole vere non c’è
ansia di dominare le cose. Non lasciano trapelare alcun desiderio di
affermazione della verità. Il dire della parola vera ha la forma dell’accen-
nare; un accennare che mentre evoca il senso che si assegna all’esperienza
9
Molte sono le metafore ricorrenti nel pensiero di Zambrano: quelle della luce, del
risveglio, del riscatto, del cuore (Rosella Prezzo, Metafore della lettura, cit., 41), ma anche
quella del naufragio e dell’esilio. Come per molti altri temi anche rispetto a quello dell’uso
delle metafore Zambrano è stata profetica. Rispetto ad una cultura che svalutava la
metafora come espressione di un pensiero non logico Zambrano sottolinea tutta la sua
potenza comunicativa anticipando riflessioni che della metafora portano alla luce la sua
capacità di sollecitare la mente a trovare nuove connessioni tra idee differenti, che hanno
l’effetto di generare nuove intuizioni (George Lakoff, Mark Johnson, Philosophy in the Flesh.
The Embodied Mind and its Challenge to Western Thought, Basic Books, New York 1999, pp.
118-129). La metafora è il mezzo attraverso il quale noi elaboriamo il senso dell’esperienza.
Questo strumento cognitivo sarebbe cosı̀ intimamente pervasivo delle varie forme di
pensiero che se si eliminassero le metafore ciò che rimarrebbe del pensiero sarebbe cosı̀
impoverito di significato da non essere di alcuna ultilità per attivare processi di compren-
sione dell’esperienza. Lakoff e Johnson sostengono che “eliminando la metafora si elimine-
rebbe anche la filosofia” e con essa gran parte delle strutture basilari del discorso scientifico
che di metafore si nutre ampiamente (ivi, p. 129). In genere il ricercatore ricorre
all’invenzione di immagini metaforiche quando non dispone degli strumenti linguistici
capaci di esprimere la nuova visione delle cose che sta emergendo. Ciò accade più
frequentemente nei momenti di crisi, quando è in atto un cambiamento di paradigma. In
questo senso la produzione di metafore e con essa l’esercizio dell’immaginazione, che va
oltre ciò che appare evidente per prefigurare altre rappresentazioni, svolge un ruolo
insostituibile non solo nella ricerca scientifica, ma per la vita di una cultura. Il ricorso alla
metafora favorisce, generalmente, l’emergere di un approccio conoscitivo al quale il
pensiero concettuale tradizionale difficilmente consente di accedere. Anche se si preferisce
presentare il discorso scientifico sotto forma di proposizioni protocollari esenti da influenze
estetiche ed emotive, in realtà il ricorso all’analogia è frequente nella scienza, perché
laddove la logica si arresta il ricorso a processi analogici svolge un ruolo essenziale.
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Sorivere di ormazione 125
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126 Un metodo a-metodioo
Lo scrivere richiede fedeltà prima di ogni altra cosa: essere fedeli a ciò che
chiede di essere tratto fuori dal silenzio (SA: 28).
Per questo nello scrivere non s’interrompe il lavoro del fare vuoto, di
purificare la mente dagli ingombri dell’io; di far tacere lo schiamazzo delle
passioni, innanzitutto della passione della vanità. Far agire la tentazione
della vanità significa cercare nelle parole di esprimere se stessi, di fare
posto al proprio sé. Ma accade cosı̀ che la verità non trovi modo di venire
alla luce, perché non trova nella nostra parola la trasparenza necessaria.
Invece, far agire il principio di fedeltà richiede di fare dentro di sé quel
vuoto necessario a rendere la mente un luogo sufficientemente sgombro e
trasparente da consentire alla verità dell’esperienza di venire alla parola.
Anziché esporre sé nelle parole gonfie di vanità, divenire strumento,
semplice strumento, del dirsi dell’esperienza. Questo divenire strumento
trasparente richiede che si lavori a fare della mente “un luogo di calma e
di quiete” (SA: 36).
10
Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, cit., p. 6.
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Sorivere di ormazione 127
le singole cose nella loro originaria differenza. Rispetto ad una parola che
uniforma tutto dentro una monologica, la parola sacra salva le differenze
in cui l’essere delle cose accade. Ed è in obbedienza al principio di dar
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128 Un metodo a-metodioo
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Come fare in modo che vita e verità s’intendano, la vita lasciando spazio
alla verità e la verità entrando nella vita? (CGL: 39).
1
Simone Weil, La prima radice, cit., p. 42.
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130 Un metodo a-metodioo
Come si converte a cercare il metodo che guidi alla ricerca del sapere
dell’anima? Perché se una vita che si è affidata alla ricerca della verità è
una vita convertita, occorre che innanzitutto la vita si converta alla ricerca
della verità. Cosa questa che non necessariamente accade nella vita delle
persone, dal momento che per una sorta di economia della mente e del
cuore l’essere umano ”preferisce la chiarezza che trova già pronta a quella
che deve andarsi a cercare” (S: 6).
Quello di attivare la passione per la ricerca della verità può essere il
compito proprio e primario dell’educazione? Se si segue il magistero
socratico sembra proprio di sı̀, per Socrate educare è persuadere l’altro
alla ricerca della verità, coltivando quella passione che obbliga a cercare la
miglior forma possibile del proprio essere.
Il problema è capire come. Non ci sono dispositivi tecnici, non c’è una
didattica della ricerca della verità, lo dice bene Socrate quando afferma
che non ha nulla da insegnare (διδσκειν). Si può solo aver cura
(πιμελεσαι) che l’altro possa convertirsi a tale ricerca, cosı̀ come Socrate
fece con Alcibiade, se s’intende l’educazione come apprendistato di una
pratica. Ogni esperienza irrinunciabile, e tale è la ricerca della verità, “si
trasmette unicamente se viene rivissuta” (SA: 66). L’esperienza di Socrate
insegna che l’educatore converte l’altro alla ricerca della verità solo nella
misura in cui si fa testimone della passione per tale ricerca e consente
all’altro di condividere tale passione. La ricerca della verità non è un
esercizio intellettuale, è una pratica, e come tutte le pratiche la si apprende
sperimentandola in un contesto dove c’è un apprendista, più esperto di noi
in questa ricerca, che ci contagia della sua passione. È quanto accadde a
Zambrano, che imparò ad amare la verità dal padre che “da sempre le
aveva insegnato ad amarla, ad abbandonare tutto di fronte ad essa, a
cercarla pur sapendola invisibile” (DD: 26).
Educare alla ricerca della verità della vita è, dunque, testimoniare
nell’esperienza l’essere presi dentro questa ricerca, la ricerca di un’idea
che consenta alla vita di uscire dalla sua confusione. Perché la vita ha
bisogno di un’idea che aiuti a dare forma al tempo, di una visione del
proprio poter essere possibile che metta l’anima in tensione verso la
trascendenza accendendo il tempo di senso. Per essere tale un’idea non
può essere astratta, cioè un’idea che si apprende già sistematizzata, ma
deve essere guadagnata a partire dall’esperienza. La verità è quell’idea che
ha il sapore vivo dell’esperienza, qualcosa dunque che si apprende pen-
sando a partire da sé.
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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa 131
non potrei morire senza aver vissuto la verità, ..., (perché) mi tocca vivere
umanamente, ..., dal momento che devo imparare a vivere nel tempo, devo
essere persona, vivere la condizione umana” (DD: 193).
2
Martin Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit., p. 32.
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132 Un metodo a-metodioo
vivere indifferente, per pensare anche solo per un istante, senza aiuto,
senza nulla” (NM: 35). Per questa ragione ciascuno di noi ha necessità di
una torpedine che lo risvegli alla ricerca della verità.
Per conseguire questo esito, cioè convertire alla ricerca della verità,
l’educatore deve saper spiazzare l’altro dall’ovvio in cui tende a stare
affinché senta l’urgenza di pensare. Quando non si pensa, il deserto
s’impadronisce dell’anima. Il deserto non è mancanza di pensiero, ma
usare pensieri già pensati, stare nello stordimento dei discorsi reclamizzati.
E niente può svilire e umiliare l’essere umano più che il trovarsi mossi da
un pensare che non gli appartiene, da qualcosa al di fuori di sé (PD: 7-8).
Il metodo dell’educare consiste nello sradicare dal vivere indifferente
cosı̀ da far esperire l’urgenza di pensare. Un pensare però non astratto,
ma quello che aiuta a vivere, ossia quello che sta radicato nell’esperienza
cercando fili di luce che la rischiarino. Il pensare è quell’azione più attiva
di tutte, che rivela all’uomo il suo essere e lo fa nascere. Pensare è andare
nascendo, perché pensare è aprire possibilità di essere, è dar corpo a
quelle visioni che fanno da orizzonte al nostro camminare nel tempo.
Pensare è essenziale alla vita come l’aria che si respira, perché pensare
è trascendere, cioè farsi creatore di un tempo nuovo. Quando dedichiamo
tempo a pensare e non agiamo, abbiamo la percezione che il tempo passi
invano; invece, dedicando tempo al pensare creiamo le possibilità per
vivere un tempo vivo. È pensando che si disfa la nascita per rinascere ad
un’altra figura dell’esistenza. Il pensare è la più attiva di tutte le azioni,
perché è quella che fa nascere. È in questo senso che il pensare è vita,
ossia il vivere e il pensare sono la stessa cosa. Chi non pensa, chi evita di
addentrarsi nella vita “emette una sentenza di morte” (DD: 16). Pensando
si diventa presenti all’accadere del proprio esserci. Significa “fuoriuscire da
un mero esserci per arrivare ad essere” (ST: 26), ossia essere qualcuno, un
‘chi’, con la sua forma propria.
Perché la mia vita da un semplice passare si trasformi in presenza al
tempo non basta stare nel tempo, occorre pensarlo. L’atto di presenza
ontologica è manifestazione attiva. Mentre il nascere biologico è qualcosa
che si subisce, il nascere simbolico, quello in cui si dà forma al proprio
essere, richiede un atto di decisione alla presenza attiva. Educare a
pensare è, dunque, pratica essenziale dell’arte dell’educare.
Come attuare questa pratica? Sperimentando insieme il pensare. Per
dirla in termini pedagogici, il contesto dell’educare deve divenire comunità
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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa 133
3
Per Zambrano essenziali sono le domande che Scheler solleva nel testo La posizione
dell’uomo nel cosmo, perché invitano l’essere umano a riflettere sul suo posto fra gli altri enti,
sull’ordine della natura di cui sentirsi parte, sulla sua condizione creaturale, concetto
questo particolarmente caro alla filosofa. Seguire la pista riflessiva aperta da Zambrano
significa autorizzare le domande metafisiche come nucleo problematico generativo di un
pensare vitale.
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134 Un metodo a-metodioo
riflettere sull’esperienza
E per mantenersi fedele ad essa deve restare massimamente legato
all’esperienza facendosi guidare dal principio di trovare il “logos del
quotidiano” (SA: 62). Perché il pensare rimanga fedele alla sua ragione
generativa, che consiste nel cercare un sapere capace di valenza trasforma-
tiva della vita, non può, infatti, lasciarsi distrarre da preoccupazioni
secondarie e inessenziali, quali ad esempio la tensione a produrre forme di
sapere sistematico, ma deve stare in ascolto del desiderio irrinunciabile di
trovare un senso al proprio camminare. Tutto il vissuto sarebbe un
semplice passare, dove niente è del tutto vivo, se non divenisse oggetto di
quel pensare che degli eventi cerca comprensione. Riflettere sul vissuto
significa presentificarlo, portarlo alla presenza della coscienza. Il presentifi-
care salva i vissuti dando loro corpo e figura. Quando questo atto
cognitivo viene meno allora “gli eventi passano al passato senza essere stati
presenti” (NM: 91). In questo obliarsi del vissuto viene meno la consi-
stenza stessa della vita. Per questa ragione il pensare vivificante prende
innanzitutto la forma del meditare l’esperienza.
Riflettere sull’esperienza è sapersi, e solo sapendosi ci si muove
liberamente nel tempo. Sapersi è pensare l’esperienza nel suo accadere,
cosı̀ da arrivare a sapere dove si è nel mentre in cui sentiamo e pensiamo.
Questo atto riflessivo è quello più vitale di ogni altro perché, “se sapessi
dove sono esattamente, saprei quello che devo fare” (DD: 28).
Di fatto è impossibile guadagnare una completa conoscenza situazio-
nale, dal momento che il nostro pensare è imbricato nella situazione
oggetto del pensiero, si muove all’interno. Il nostro pensare è sempre
vincolato al luogo a partire dal quale si pensa, è per questa ragione che “il
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In questo oblio c’è tutto il peso della nostra cultura filosofica incorpo-
rea, quella che voleva dimenticare che noi siamo innanzitutto soggetti
biologici. Il nostro pensare accade sempre in un corpo materiale. E in ogni
attività, anche quella apparentemente più immateriale come la riflessione,
l’essere umano si porta appresso la sua materia. Quella materia grazie alla
quale esiste e partecipa della vita (ST: 24). L’errore in cui si cade è quello
di dimenticare la nostra costitutiva materialità per il semplice fatto di
essere vivi, quando invece il pensare che ci fa entrare nella realtà richiede
che si attivino i sensi. Non si può entrare nella realtà senza attivare la
capacità della nostra materia di aprirsi alla materia di cui sono fatte le
cose. Allora per esserci veramente nel tempo non basta pensare, ma
risignificare il pensare a partire dal riconoscimento delle sue radici mate-
riali. Riconoscere che il pensare che entra nella realtà è quello che si nutre
dell’esperienza sensoriale.
Per sentire amore per le cose occorre saper entrare nella realtà con
tutto se stessi, dunque anche con i sensi, cosı̀ come fa il poeta. Zambrano
parla di un “ordine sacro che riguarda i sensi” (B: 11), perché sono i sensi
che ci mettono in contatto con le cose. La realtà non è fatta di mere
apparenze; parlare di apparenze equivale a smaterializzare e dunque
togliere vita alle cose, perché la vita sta solo laddove c’è la materia. La
realtà è fatta di cose che chiedono di essere percepite col corpo o, meglio,
con una mente incarnata.
Che la riflessione sul vissuto promuova la consapevolezza del pensare
come attività incarnata è quindi mossa formativa essenziale, non solo su
un piano ontologico, quello che ci fa scoprire di essere corpo vivo inserito
nell’ordine cosmico, ma anche sul piano epistemologico, poiché il sapersi
pensiero che accade in un corpo e, quindi, nutrito dai sensi porterebbe ad
una più attenta cura della dimensione sensoriale dell’esperienza.
pensare il tempo
Per essere fedeli alla vita occorre innanzitutto pensare la vita, ma
poiché la vita è tempo, allora il tempo è cosa primaria da pensare. È dal
saper patire ogni attimo del tempo pensandolo radicalmente che può venire
“quel grano di sapere che feconderebbe tutta una vita” (NM: 112). Pensare
il tempo significa pensare la forma che ad esso si vorrebbe dare, ma è anche
descrivere le forme che esso prende realmente, e quindi il rapporto che nel
reale si viene ad istituire tra la nostra visione e l’accadere delle cose.
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4
Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, Magnano 1990 (tr. it. da Der Weg
des Menschen nach der chassidischen Lehre, Pulvis Viarum, L’Aia 1947), p. 18.
5
Seneca, Lettere morali a Lucilio, Mondadori, Milano 2005, I, 1, 1.
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6
Raccontando della sua giovinezza Zambrano si descrive situata in un ambiente
connotato da un’intimità intensa e senza oppressione, dove “respirava avvolta nell’amore
della sua famiglia” (DD: 59). Questo dato del suo vissuto, nella sua sobrietà espressiva,
potrebbe condensare il nucleo di una ipotesi pedagogica: forse che l’intelligenza amorosa
per prendere corpo necessita non di una didattica, ma che la mente viva in un ambiente in
cui il modo di stare insieme è permeato da questa intelligenza? Se cosı̀ fosse, allora
l’educazione per essere fondamentale, cioè capace di nutrire la ragione materna, non
andrebbe concepita, come invece sempre più accade di constatare, solo come attivazione di
procedure mirate a provocare l’emergenza di certe abilità cognitive, bensı̀ anche come
tessitura di un ambiente di relazioni in cui si pratica un modo amorevole di stare con gli
altri. Specificatamente l’intelligenza amorosa potrebbe avere come matrice generativa un
ambiente di pensiero contrassegnato da un clima emozionale positivo. Viene qui da
pensare all’allegria, una tonalità emotiva spesso nominata da Zambrano.
7
Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 142.
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8
Ivi, p. 172.
9
Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 33.
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resiste nella sua opacità. Il sapere dell’anima non può chiedere troppa luce
al pensare. Da cercare è solo qualche debole chiarore, quella luce che si
mostra come un raggio che con delicatezza si curva sulle cose fragili della
vita umana. Presi dal desiderio di verità, si rischia di alimentare illusioni
smisuranti circa la nostra capacità di comprensione. Il saper accettare i
limiti del nostro essere e, quindi, anche i limiti della ragione mette al
riparo da certe dismisure che disordinano il pensare e il sentire, e con esso
l’essere.
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perché quel pensare che, nella sua essenza, è meditare sull’esperienza “è
anche riconquistare il sentire originario delle cose, del paesaggio, della
gente, degli uomini e dei popoli, il sentire della realtà immediata che ci
apre alla realtà del mondo” (DD: 86).
Anche se da tempo si sa che il sentire è ciò che ci tiene aperti al reale,
a dominare è la tendenza a separare l’attività cognitiva dalla vita emotiva,
nell’illusione che la prima guadagnerebbe in efficacia se fosse svincolata
dalla seconda. Siamo vittime di una concezione intellettualistica, devitaliz-
zata e devitalizzante dell’educazione, che riduce tutto a strategie che
pretendono di razionalizzare il processo di formazione. Si dimentica il
ruolo decisivo che il sentire ricopre nella vita umana. Invece la funzione di
chi ha acquisito un qualche seme di sapere della vita è quella di allenare il
giovane a “sostenersi con il cuore, da solo con il suo cuore, ..., davanti alle
situazioni enigmatiche che la vita gli presenterà” (NM: 114).
E non c’è altro modo di allenare a sostenersi con il cuore che quello di
coltivare nell’ambiente sentimenti amorosi e positivi. Un’educazione che si
muova in questa direzione non può che essere concepita nella cornice di
una ragione materna, quella che, senza rinunciare a pronunciare parole
dure e severe ogni volta che la realtà lo richiede, non abbandona né la
gioia né la fiducia (DD: 90). Perché il pensare si nutre di gioia.
È vero che la vita della mente può subire come una specie di
accelerazione dal trovarsi a vivere un “evento estremo, un fatto assoluto,
come la morte di qualcuno, la malattia, la perdita di un amore o lo
sradicamento forzato dalla propria patria” (NM: 111). Non bisogna, però,
pensare che sia solo l’essere sottoposti ad un evento estremo generatore di
sofferenza la molla che fa germogliare il sapere della vita. Il pensiero
primariamente sgorga da una mente che si trova in una tonalità emotiva
positiva. Zambrano sostiene che nasce dall’allegria e dalla felicità (NM:
112). Lei conosceva bene il pensiero di Agostino e proprio nell’ultimo libro
delle Confessioni troviamo scritto: “Nutre la mente solo ciò che la ralle-
10
gra” .
La ragione che ha cura di coltivare i sentimenti positivi è quella
materna, quella che ama la vita, nutrendo per essa uno sguardo di “fede,
speranza e goia” (DD: 90).
Siamo cosı̀ portati a portare il pensiero a meditare su ciò che è
10
Agostino, Confessioni, libro XIII, 27.42.
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più radicale, dilaniante l’anima perché perdurante nel tempo senza che si
possa nutrire la minima speranza di scrollarsela di dosso, e proprio a
partire da questa sua esperienza ha sperimentato direttamente su di sé e su
chi condivide il suo spazio vitale gli effetti di azioni nutrite da una ragione
materna, trova il coraggio di dire anche l’imperdonabile, mettendosi dalla
parte del sentire amoroso e positivo di cui parla Zambrano. Anche
Arendt, che pur non esprime un’adesione teoretica cosı̀ appassionata al
sentire, considera “fede e speranza” le due essenziali caratteristiche dell’e-
sperienza umana e insieme ad esse “la gioia di abitare insieme con gli altri
12
un mondo” .
Quello che si deve chiedere all’educazione è di uscire dai limiti di
un’interpretazione intellettualistica per pensare che educare significa an-
che offrire ai giovani esperienze in cui imparare a pensare e a coltivare la
sfera del sentire. Un’adeguata teoria dell’educazione è quella che si nutre
di una logica che sa riconciliare l’idea razionale dell’essere umano (penso
dunque sono) con l’idea che tiene conto della dimensione emotiva (sento
dunque sono), e che proprio su queste basi concepisce la formazione come
un processo che intreccia insieme l’educazione al pensare rigoroso, che si
nutre della più ampia alfabetizzazione culturale, con “la gioia di vivere e
13
di amare” . L’educazione ha il compito di guidare il soggetto educativo
non solo a comprendere la sua geografia emozionale, individuando i
sentimenti che sono alla radice della sua postura esistenziale, ma anche a
coltivare altri territori del sentire, quelli dei sentimenti positivi che aiutano
il mestiere di vivere nella direzione della trascendenza.
11
Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano 2000, p. 175.
12
Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, pp. 182 e 180.
13
Gregory Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano 1989 (ed. or. Angels Fear.
Towards an Epistemology of the Sacred, Macmillan, New York 1987), pp. 272-273.
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