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STUDI SULL’IDENTITÀ
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ERETICHE ED EROTICHE
LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

a cura di Giulia Fanara e Federica Giovannelli

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Liguori Editore

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© 2004 by Liguori Editore, S.r.l.


Tutti i diritti sono riservati
Prima edizione italiana Febbraio 2004

Fanara, Giulia (a cura di) :


Eretiche ed erotiche. Le donne, le idee, il cinema/Giulia Fanara, Federica Giovannelli (a cura
di)
Studi sull’identità
Napoli : Liguori, 2004
ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5638 - 3
ISSN 1972-0807

1. Femminismo, rappresentazione, film theory 2. Spettatrice, gender, agency I. Titolo.

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INDICE

1 Introduzione
di Giulia Fanara e Federica Giovannelli

Parte prima. Erotismi/corpi


a cura di Federica Giovannelli

15 ...Imparando a demolire la casa paterna, gli strumenti di sempre


dismessi
di Federica Giovannelli

Corpi come specchi

79 Identità e misconoscimento
di Mary Ann Doane

93 Oggetti perduti e soggetti sbagliati. La mancanza strutturante della


teoria del film
di Kaja Silverman

123 Il diniego della differenza: teorie dell’identificazione filmica


di Anne Friedberg

Corpi a pezzi: il ventre, la fica, la vagina dentata

141 Il buco e lo zero: visioni della femminilità in Godard


di Laura Mulvey

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viii INDICE

165 «Di chi è questa fica?» Una critica femminista


di bell hooks
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175 Kristeva, la femminilità, l’abiezione


di Barbara Creed

Piaceri

187 Il masochismo e i piaceri perversi del cinema


di Gaylyn Studlar

213 Feticismo e pornografia. Marx. Freud e il “money shot”


di Linda Williams

Parte seconda. Eresie


a cura di Giulia Fanara

243 Traversare le differenze. Prospettive critiche, istanze episte-


mologiche, strategie di resistenza della teoria femminista del cinema
di Giulia Fanara

Riconoscere/rappresentare

355 L’immagine e la voce: approcci alla critica cinematografica


marxista-femminista
di Christine Gledhill

373 «Qualcos’altro oltre che madre»: Amore sublime e il melodramma


materno
di Linda Williams

407 Leggendo attraverso il testo: la donna nera come pubblico


di Jacqueline Bobo

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INDICE ix

Sconfinare

427 Quando la differenza è (più che) a fior di pelle


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di B. Ruby Rich

451 Cultura posterzomondista: genere, nazione e il cinema


di Ella Shohat

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INTRODUZIONE

di Giulia Fanara e Federica Giovannelli

L’idea di questo libro è nata molto tempo fa e qualche tempo dopo il


nostro incontro. Parlando di cinema – che è quello che ci accomuna –, di
libri posseduti, letti, scambiati o desiderati, di politica, dei nostri percorsi di
donne e di politica delle donne. Le letture femministe facevano parte del
nostro bagaglio, il nomadismo era un tema a cui ritornare per ritrovare la
strada di casa. A questo crocevia si incontravano femminismi che, pur
partendo dalla coscienza condivisa della differenza sessuale, erano cresciuti
su riflessioni e pratiche diverse che mettevano in gioco il problema delle
differenze. Se le femministe nordamericane avevano dovuto fare i conti con
la molteplicità delle differenze genere-classe-razza-sessualità che le donne
nere e le lesbiche avevano contrapposto a un sé indifferenziato, per le
femministe italiane “partire da sé” era privilegiare ancora i concetti di
genere e differenza sessuale, scegliere di parlare la lingua della madre.
L’essere nomade significava rientrare da soggetti in un discorso filosofico
che ci aveva poste al centro senza renderci soggetto, ma significava anche
scoprire il mondo, accorciare le distanze e, cosı̀ facendo, costruire alleanze,
spostarsi, cioè, attraverso la scoperta del mondo.
Le pagine lette sono tornate a noi. Suscitavano desideri e come la
necessità di reinserirci nel tempo. Le pagine erano molte. Le femministe
americane scrivevano di cinema e di film girati da donne che per la
maggior parte non avevamo visto. Perciò siamo partite da lontano, da
quegli anni Ottanta in cui le studiose approfondiscono le analisi iniziate nel
decennio precedente sull’opera delle cineaste ma anche sul posto della
donna nel cinema classico hollywoodiano: Laura Mulvey, per prima, con
Piacere visivo e cinema narrativo, applica a questo campo di studi la teoria
della differenza e la psicanalisi.
Abbiamo dovuto fare delle scelte: numerosi erano i materiali interes-

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2 INTRODUZIONE

santi se si voleva tenere conto delle diverse posizioni e approcci e dei


molteplici punti di riferimento che il dibattito sulle teorie del cinema in
quegli anni rendeva possibili. Dalla filosofia alla semiotica alla psicanalisi,
alle teorizzazioni sul dispositivo, dalla questione dell’ideologia al marxismo
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e a un femminismo come teoria e pratica sociale, all’analisi testuale, allo


studio della rappresentazione, da Foucault a Deleuze, Freud, Lacan, Marx,
Althusser, Metz, Bellour, Baudry, Oudart, Dayan, Wollen, Heath, il di-
scorso delle donne, confrontandosi con gli snodi più rilevanti del pensiero
moderno a partire dalla propria esperienza, ripercorre e rifonda le linee
principali di questa riflessione ponendosi a sua volta come uno dei luoghi
più produttivi di essa. Nei primi anni Settanta, e ininterrottamente nel corso
degli ultimi trenta anni, la teoria e la critica femministe non cessano di
rinnovare dal profondo la teoria e la critica cinematografica sottoponendo a
un’interrogazione costante i fondamenti ideologici sessisti dell’elaborazione
teorica maschile, rilevandone i punti ciechi e le rimozioni interne, i vuoti e
le mancanze strutturali, guardando con altri occhi i personaggi femminili
sullo schermo, riscrivendo analisi filmiche e analisi testuali, rileggendo film
e generi della storia del cinema, proponendo un nuovo modo di fare
cinema, diretto dalle donne per le donne, introducendo un piacere spettato-
riale femminile intriso di etica della differenza. In questo senso la Feminist
Film Theory non rimane estranea alla tensione che anima un femminismo
che oscilla tra la critica alle categorie universali e alle metanarrazioni della
Grande Teoria e la creazione di nuovi concetti altrettanto astorici e
generalizzanti come la differenza biologica, la dottrina delle due sfere
pubblico/privato (maschile/femminile), quella della “identità di genere”.
Proprio la critica all’essenzialismo, che opporrà le femministe colorate e le
lesbiche al femminismo bianco (e borghese) occidentale, sarà uno degli
elementi di spinta del femminismo fuori dalla modernità e incontro a quelle
dinamiche sociali che ponendo in questione il concetto di identità e
riaffermando la necessità della resistenza e del cambiamento mettono in
discussione le idee stesse di cittadinanza e nazione. Il “postmodernismo
radicale” di cui parla bel hooks ci consente di riconoscere queste identità
condivise che attraversano i confini tra razza, genere e classe al fine di
1
costruire legami in forma di empatia e di alleanza . E ci consente anche di
non opporre un netto rifiuto al postmoderno laddove la frammentazione e
la dispersione del soggetto debole si riconfigurano in una nuova mappa di

1
Cfr. bell hooks, Postmodern Blackness, in Id., Yearning: Race, Gender, and Cultural Politics,
Boston, Southern Press, 1990.

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INTRODUZIONE 3

identità differenziate e molteplici, tutt’uno con una cultura transnazionale


che è espressione di quei “mondi immaginati” a cui pensa Appadurai, di
quelle egemonie disseminate (scattered egemonies) che Grewal individua
come generate dalla mobilità del capitale e dalle soggettività multiple che
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sostituiscono il soggetto unitario eurocentrico della filosofia occidentale .
Queste nuove identità sono anche le protagoniste di una nuova fase della
teoria femminista del cinema che si sviluppa nel punto in cui convergono il
nuovo assetto globale del post Terzo Mondo e la riflessione sul postocolo-
nialismo come una delle declinazioni più produttive del pensiero della
postmodernità. Nuova fase che registra un sostanziale spostamento rispetto
alle esperienze di cinema terzomondista e internazionalista degli anni
Sessanta e Settanta, segnato dallo sviluppo di nuove cinematografie, dall’in-
cremento dei movimenti diasporici e dal declino della prospettiva eurocen-
trica, dall’ingresso massivo delle donne nel campo della produzione e della
realizzazione – vedi il ruolo fondamentale svolto da Women Make Movies
negli Stati Uniti sul piano produttivo e nel mondo su quello della distribu-
zione – e dal nuovo impulso che esso fornisce alla formulazione di originali
categorie analitiche capaci di coniugare la valorizzazione delle culture
nazionali e l’elaborazione di strategie di alleanza transnazionali che ricon-
cettualizzano le donne del Terzo Mondo come agenti piuttosto che come
3
vittime . Dal Quarto Mondo degli africaniamericani, degli asiaticiamericani,
dei latinoamericani, degli arabiamericani le donne gettano ponti di potere,
edificano nuove case dislocate in spazi qualsiasi, le cui fondamenta affon-
dano come rizomi, le cui finestre si aprono non sui giardini ben tenuti e
claustrofobici dei vicini ma su molteplici alleanze multiculturali, perché
tornare a casa significa prendere atto del proprio essere mestiza, compren-
dere che, come dice Anzaldúa, non ci sono posti sicuri che possiamo

2
Cfr. Arjun Appadurai, Disjuncture and Difference in the Global Cultural Economy, in
«Public Culture», vol. II, n. 2, 1990; [tr. it. Disgiuntura e differenza nell’economia culturale
globale, in Id., Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001, pp. 45-70, p. 53]; Inderpal Grewal,
The “Post-Colonial” Question: South Asia Studies and Feminist Research in A Multinational World,
intervento alla South Asia Conference, University of California at Berkeley, 22 febbraio 1992
e Inderpal Grewal, Caren Kaplan (a cura di), Scattered Egemonies. Postmodernity and Transna-
tional Feminist Practices, Minneapolis and London, University of Minnesota Press, 1994, in
particolare l’introduzione (Introduction: Transnational Feminist Practices and Question of Postmo-
dernity), pp. 1-33.
3
Cfr. Chandra Talpade Mohanty, Women Workers and Capitalist Scripts: Ideologies of
Domination, Common Interests, and the Politics of Solidarity, in M. Jacqui Alexander, Chandra
Talpade Mohanty, Feminist Genealogies, Colonial Legacies, Democratic Futures, New York and
London, Routledge, 1997, pp. 3-29.

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4 INTRODUZIONE

chiamare casa, che ai due lati del ponte non ci sono porte o cancelli che
4
sbarrino il passo allo straniero .
Di queste “tecnologie dell’attraversamento”, come le definisce Chela
5
Sandoval , il libro rende solo parzialmente conto, scegliendo di seguire più
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da vicino il periodo “classico” della Feminist Film Theory, che rimane a


tutt’oggi poco attraversato dalle pubblicazione italiane e che per questo
costituisce la parte preponderante della nostra. Con ciò intendiamo sol-
tanto gettare un ponte tra due aree importanti della riflessione femminista,
quella italiana e quella angloamericana, che, pur avendo alle spalle un
movimento femminista ugualmente forte, non hanno dedicato la stessa
attenzione al cinema. Mentre il femminismo italiano sviluppa un pensiero
denso e originale, i cui risultati hanno influenzato e influenzano la rifles-
sione e le pratiche di opposizione e resistenza, facendo dei testi di alcune
pensatrici i luoghi di aggregazione di diverse scuole femministe, l’elabora-
zione teorica sul cinema lascia tracce di sé più evanescenti. Se non sono
mancate in Italia, già dagli anni Settanta, rassegne di cinema delle donne ed
esperienze anche collettive di produzione di video, l’attenzione delle stu-
diose, ad eccezione di pochi testi sul lavoro delle pioniere e di alcune
cineaste e sulla rappresentazione della donna nel cinema italiano e nel
cinema classico americano, ha lasciato traccia di sé solo in alcuni cataloghi
6
e in saggi perlopiù pubblicati su riviste femministe . Diverso è il caso di
quelle italiane che, trasferitesi in America, come Teresa de Lauretis, Giu-
liana Bruno, Maria Nadotti, Angela dalle Vacche daranno un contributo
rilevante alla Feminist Film Theory.
Ripercorrere, sia pure a grandi linee, i due decenni centrali della
riflessione delle pensatrici anglofone sul cinema, ci ha consentito di com-
prendere meglio le radici del dibattito corrente, le strategie in atto, le
traiettorie di un possibile divenire. A questo dedicheremo un prossimo
volume.

4
Gloria E. Anzaldúa, (Un)natural Bridges, (Un)safe Spaces, in Gloria E. Anzaldúa, Ana-
louise Keating (a cura di), This Bridge We Call Home. Radical Visions for Transformation, New
York and London, Routledge, 2002, pp. 1-5.
5
Chela Sandoval, AfterBridge: Technologies of Crossing, in Gloria E. Anzaldúa, Analouise
Keating (a cura di), This Bridge We Call Home. Radical Visions for Transformation, cit., pp.
21-26.
6
Cfr. per esempio Annabella Miscuglio, Rony Daopoulo, Kinomata. La donna nel cinema,
Bari, Dedalo, 1980; Giovanna Grignaffini, Piera Detassis (a cura di), Sequenza segreta, Milano,
Feltrinelli, 1981; Giuliana Bruno, Maria Nadotti, Immagini allo schermo. La spettatrice e il
cinema, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991.

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INTRODUZIONE 5

Due registri ci è parso che fossero particolarmente in gioco (e da qui,


quasi per gioco, il titolo del volume): l’erotismo dei corpi e, sulla via
7
indicata per prima da Kristeva , le eresie dei sentimenti e del pensiero.
Registri che la filosofia occidentale ha tenuto separati e che il discorso sulla
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donna nelle società eurocentriche ha perpetuato facendo di questa stessa


scissione il luogo di costruzione dell’immagine femminile, un luogo in cui il
soggetto donna è depotenziato, perennemente oscillante tra una corporeità
modulata sul desiderio maschile e il diniego di una possibilità di pensare
che non sia isterica, malata, eretica. L’emergere di un soggetto femminile e
femminista ha implicato il potenziamento e l’embricatura dei corpi e delle
menti. Corpi desideranti e non solo oggetti del desiderio, generi in costru-
zione, pensatrici che interrogano a partire dai corpi e dalle loro mutazioni
lo stesso divenire donna del pensiero, identità in viaggio che sconfinando
disegnano nuove geografie.
La prima parte del libro si apre con un saggio che vuole parlare di un
corpo di donna che si riappropria della sua immagine. Non l’immagine
riflessa nello specchio, né un’immagine la cui profondità è soltanto un’illu-
sione, ma lo specchio trasparente dello sguardo di un’altra donna dove è
possibile cogliere la differenza, le differenze. Quest’immagine ha una voce
che non esita ad attraversare il silenzio, a inventare strategie, non per
parlare più forte ma per dire: è una donna che parla. Questo corpo ha dei
segni che lo scavano, tracce che il potere vi ha inciso nel tentativo di
addomesticarlo. Ed è dalla materialità del corpo spossessato che occorre
ripartire per rovesciare i modi di rappresentazione dominanti, per lasciare
emergere il desiderio e l’esperienza, una pratica d’amore che non è solo
della figlia per la madre, ma che è relazione tra donne a partire, come
scrive de Lauretis, dall’io corpo del soggetto stesso la cui perdita equivale al
non essere.
Di questo corpo spossessato dice il saggio di Christine Gledhill, nel suo
ricostruire i percorsi della teoria cinematografica marxista-femminista: la
critica alle immagini delle donne prodotte dal cinema hollywoodiano
reclama immagini di donne vere, chiamando in causa il problema del
rapporto con la realtà. Un problema affrontato dalla critica marxista, che
mette in discussione modi di produzione e pratiche filmiche, e scopre,
attraverso Althusser, la complessità del “lavoro” del film, il suo generare il
significato attraverso l’interazione dinamica di processi estetici, semiotici e
ideologici. Se il progetto del cinema classico è l’occultamento delle con-

7
Julia Kristeva, Eretica dell’amore, a cura di Edda Melon, Torino, La Rosa, 1979.

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6 INTRODUZIONE

traddizioni, quello della critica marxista è la loro messa a nudo. In questo


senso la psicanalisi lacaniana evidenzia un analogo mascheramento delle
contraddizioni al livello della formazione del soggetto. Ed è a partire dal
riconoscimento delle differenze che costituiscono il soggetto, che il femmi-
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nismo individua come differenza primaria la differenza sessuale: la donna


funziona come Altro nella strutturazione stessa del linguaggio e della
rappresentazione, la sua immagine sullo schermo produce identificazioni
masochistiche o narcisistiche che sono espressioni del sistema patriarcale.
Non a caso Mary Ann Doane dedica lo studio che qui presentiamo ai
processi dell’identificazione e del misconoscimento. Ripercorrendo il lavoro
di Metz attraverso Mulvey, che fa crollare l’opposizione tra identificazione
primaria e identificazione secondaria, Doane mette in rilievo le difficoltà
che l’uso metziano dell’analogia dello specchio comporta e l’impossibilità
di ricondurre l’identificazione della spettatrice al passaggio attraverso lo
specchio: l’effetto-specchio non è condizione per la comprensione dell’im-
magine, ma conseguenza della strutturazione fallocentrica del discorso
dominante. La teoria del film riflette la stessa difficoltà che ha il pensiero
psicanalitico a concettualizzare l’identità femminile, una donna iscritta
nell’immagine soltanto come assente. Ma è la stessa costruzione filmica a
essere organizzata intorno all’assenza, come Silverman rileva nelle rifles-
sioni di Münsterberg, Kracauer, Bazin, Metz, un’assenza che non è soltanto
quella marcata dal corpo femminile ma dagli stessi meccanismi della
visione e dell’identificazione dello spettatore. La perdita dell’oggetto, che
segna l’ingresso del bambino nel linguaggio, ossessiona sin dalle origini il
cinema tanto quanto il suo desiderio. Su questa mancanza strutturante la
teoria del cinema si è interrogata facendo propri concetti e figure del
discorso psicanalitico: castrazione, disconoscimento e feticismo vengono
spostati dall’analisi della sessualità all’analisi del cinema come strategie per
eludere la questione della differenza sessuale, l’equazione donna-mancanza
è un sintomo della condizione maschile. Questo spostamento non è conse-
guenza della situazione instaurata dallo schermo, ma effetto di un determi-
nato regime scopico e narratologico. Mentre Metz, Comolli, Oudart e
Dayan ascrivono al sistema della sutura la capacità di dissimulare le
assenze, Mulvey individua all’interno della narrazione il momento della
perdita e interpreta l’impressione di realtà come nuova messa in scena del
dramma della castrazione che rende possibile l’identificazione del soggetto
maschile con il padre simbolico, conferendogli l’autorità e il potere del
discorso.
Rispetto all’egemonia del modello freudiano-lacaniano-metziano e alla

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INTRODUZIONE 7

teorizzazione di un piacere visivo costruito su strutture sadiche il saggio di


Studlar intende offrire una prospettiva diversa, creando uno spazio per il
piacere della spettatrice, negato, secondo Mulvey, dall’economia narrativa
del cinema dominante. Il modello masochista che Studlar organizza, ispi-
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randosi a quanto Deleuze scrive sui romanzi di Masoch e di Sade, implica


la sovversione delle posizioni di potere patriarcali individuando una corri-
spondenza tra le strutture formali dell’estetica masochista (fantasia, disco-
noscimento, feticismo e suspence), radicate nella fase pregenitale piuttosto
che nella fase fallica, e le strutture primarie attraverso le quali il cinema
classico spinge all’identificazione. Un rovesciamento che Deleuze fonda
sulla figura materna come determinante primaria della fantasia masochi-
stica, prospettiva, nota Studlar, particolarmente utile a una diversa formula-
zione della risposta spettatoriale: il soggetto vi assume la posizione del
bambino che vuole essere controllato all’interno delle dinamiche della
fantasia e non quella del genitore che controlla esercitando il suo potere
sadico. Il piacere scopico maschile non si incentra necessariamente sul
controllo, ma anche sulla sottomissione o identificazione con il femminile,
attraverso le quali lo spettatore sperimenta forme infantili di investimento
dell’oggetto normalmente represse. Sia lo spettatore che la spettatrice
possono attraversare identificazioni multiple, non ultima quella con il sesso
opposto, proprio come nella fase preedipica il bambino si percepisce come
un sé indifferenziato.
Pur prendendo le mosse da una tassonomia dei processi identificatori
per ribadire ancora una volta il diniego della differenza che struttura il
cinema classico, Friedberg sceglie come momento privilegiato della sua
analisi, quasi fosse una metafora del feticismo, il rapporto dello spettatore
con la star, che situa, attraverso i punti di vista della psicanalisi e del
marxismo, in un più ampio contesto economico e sociale per dimostrare
che l’identificazione prolunga i suoi effetti al di fuori della visione: in
un’economia consumistica essa alimenta le forme di incorporazione trasfor-
mando tramite la relazione identificatoria il vedere/divorare in vedere/di-
ventare e il comprare/possedere in comprare/diventare, rafforzando cosı̀
nello spettatore l’illusione di abitare il corpo dell’io ideale. Ciò istituisce
figure normative, autenticando implicitamente le norme di genere e provo-
cando un ripiegamento del soggetto sullo status quo.
La mercificazione e la feticizzazione del piacere sessuale messe in atto
dal film pornografico svelano in modo macroscopico la funzione econo-
mica e psicosessuale del feticcio, già evidenziata dalle analisi di Marx e di
Freud. Il “money shot” (l’eiaculazione “visibile”) è il luogo in cui secondo

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8 INTRODUZIONE

Linda Williams si manifesta con maggiore chiarezza la relazione tra la


cultura della merce e il piacere sessuale. La pornografia contemporanea, nel
ridurre la rappresentazione dell’orgasmo all’esibizione dell’eiaculazione ma-
schile, mostra la sua incapacità di concepire la differenza, di parlare un
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piacere altro da quello autoriflessivo di un’economia visiva fallica. E tuttavia


riusciamo a rintracciare al suo interno contraddizioni e ambivalenze che è
possibile ricondurre al moltiplicarsi di pratiche sessuali differenziate e
all’insediamento delle perversioni di cui dice Foucault che, operando con-
tro l’economia dell’uno, contengono quel potenziale liberatorio che deriva
dal superamento dell’opposizione tra norma e devianza. Su queste contrad-
dizioni le femministe devono agire per vanificare l’obiettivo del genere
pornografico di ridurre il piacere della donna al riflesso del desiderio
dell’uomo.
Lavorando sul genere horror e su Poteri dell’orrore di Kristeva, Creed
collega il particolare rapporto che la donna ha con l’abietto alla costruzione
del film horror. Il piacere e il desiderio perverso dello spettatore rispon-
dono alle manifestazioni dell’opera dell’abiezione – immagini di abiezione,
per esempio il cadavere, lo scavalcamento del limite, la presentazione della
figura materna come mostruoso-femminino – in quanto luogo in cui il
senso precipita, in cui si verifica una scissione tra i due ordini dell’autorità
materna, che rimanda alla dimensione presimbolica, e della legge paterna.
La funzione del film horror è quella di officiare tutti i “riti della sozzura” per
attuare una purificazione che salvi l’ordine simbolico minacciato da tutto
ciò che la madre abietta rappresenta.
Ancora al corpo materno preedipico di Kristeva fa riferimento Williams
nel suo studio sul melodramma materno hollywoodiano, sottolineando le
potenzialità che la dialettica tra il corpo polimorfo ed eterogeneo della
madre e il corpo paterno fissato in un’identità rigida e stabilita schiude per
la definizione non di identità sessuali ma di differenziazioni sessuali, posi-
zioni del soggetto associate alle funzioni materna o paterna. In questa
alternanza Williams scorge una possibile soluzione al problema della rap-
presentazione della donna nel cinema e alla posizione della spettatrice,
come tenta di dimostrare con la sua analisi del film Amore sublime, dove la
spettatrice si identifica con questa stessa dialettica, assumendo una molte-
plicità di punti di vista. I concetti di voyeurismo e feticismo vengono qui
utilizzati non per iscrivere la donna come oggetto passivo dello sguardo,
ma per esaminare le contraddizioni attivate dagli sguardi reciproci delle
donne, dalle posizioni dei soggetti femminili inscritti nel testo, per parlare
di una spettatrice divisa che mentre si identifica con la vittima protagonista,

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INTRODUZIONE 9

può criticarne al tempo stesso lo sradicamento, i costi che è stata costretta


a pagare.
Dalla figura materna sacrificale del melodramma hollywoodiano all’e-
nigma del corpo femminile in Godard, la critica femminista non cessa di
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guardare al modo in cui la figura femminile abita lo spazio del cinema.


Mulvey ripercorre le diverse fasi della produzione godardiana per rintrac-
ciare come costante della sua poetica una donna dietro la cui “superficie”
feticizzata si nasconde un enigma capace di suggerire tutti gli altri fino a
divenire un’estetica in cui sesso, differenza sessuale, femminilità pervadono i
testi quali che siano gli spostamenti dell’autore. Carmen, la femme fatale,
incarnazione di magia e desiderio, si contrappone a Maria, Vergine e
vergine, spiritualità e verità – la realtà del cinema – a simboleggiare un
punto zero che è il ritorno alle origini del desiderio primario del regista per
il cinema, punto in cui si sovrappongono il rifiuto della ferita, della vagina
aperta, del buco e il mito del cerchio perfetto, lo spazio rassicurante del
grembo: il mistero femminile ancora come soglia verso più profondi
misteri.
Ma la critica femminista non si arresta qui e attraversa anche la linea
del colore. Quando bell hooks ribadisce i legami tra critica cinematografica,
politica e ideologia e l’importanza, per le femministe nere, di una critica
“pubblica”, e decide di farlo interrogando il film di un cineasta nero che ha
come protagonista la sessualità di una donna nera, non può non rilevare
come dietro l’apparente sfida alla visione sessista della passività sessuale
femminile – Lola Darling come soggetto desiderante – si nasconda la
riproposizione di stereotipi che fanno di Lola soprattutto l’oggetto che fa
procedere il discorso. La sua autonomia finale non è una scelta che le
conferisce potere, ma una condizione di isolamento e di desessualizzazione.
Allo stesso modo Jacqueline Bobo, attraverso l’analisi di Il colore viola di
Steven Spielberg, mette in evidenza le afasie di un testo filmico su una
donna nera che da protagonista della storia finisce ai margini di un
narrazione che si configura come il percorso di un uomo nero verso
l’acquisizione della propria consapevolezza. Spielberg fornisce dei ritratti
inadeguati dei tre personaggi femminili principali, riesumando un reperto-
rio di immagini umilianti di quelle donne nere che faticosamente Alice
Walker aveva invece cercato di delineare a tutto tondo in linea col lavoro
fatto dalle scrittrici nere a partire dalla metà dell’Ottocento. Se Spike Lee si
muove lungo il registro della sessualità, all’interno della razza, non riu-
scendo di fatto ad esprimere la differenza sessuale al di là di un sostanziale
atteggiamento repressivo, il film di Spielberg aggiunge a questa incapacità
quella di costruire una rappresentazione della razza.

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10 INTRODUZIONE

La differenza può essere più che a fior di pelle: la questione della razza
si pone in modo diverso per il popolo omosessuale. Gay e lesbiche, nel
saggio di Ruby Rich, erotizzano e politicizzano la razza ponendo al centro
delle loro opere l’identità omosessuale e l’identità razziale, proprio perché
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nella coppia omosessuale è la razza ad occupare il posto lasciato vuoto dal


genere rendendo possibili negoziazioni di identità diverse o conflittuali. I
film presi in esame dall’autrice ribadiscono, ciascuno a suo modo eppure
concordemente, la necessità di incroci razziali e sessuali prefigurando una
nuova mappa per il futuro della rappresentazione.
Con la presentazione del saggio di Shohat, che costituisce l’ultimo
passaggio di questo volume, abbiamo voluto indicare alcune delle coordi-
nate di questa mappa a venire, la cui stesura rende necessaria la ridefini-
zione di numerose categorie ancora cruciali che hanno acquistato un senso
differente. In questo quadro, Shohat mostra come le pratiche filmiche del
femminismo posterzomondista attuino dinamiche insieme di rottura e con-
tinuità rispetto al cinema del Terzo Mondo degli anni Sessanta e Settanta.
Mentre questo pur nella sua insurrezionalità si muoveva all’interno dei
confini maschili dell’identità nazionale, i film femministi postnazionali si
appellano alle categorie di genere, classe, etnicità, regione, migrazione,
esilio insistendo sull’ineguaglianza razziale dell’assetto geopolitico e rivendi-
cando il patrimonio storico e culturale delle comunità di provenienza.
Accanto a un cinema del “dislocamento” che racconta di diaspore e di esili,
provocando nello spettatore la stessa alienazione vissuta dall’autore, c’è un
cinema multiculturale che parla di esilio interno, che rielabora la differenza
rivisitando modelli estetici eurocentrici e al tempo stesso rivalutando speci-
ficità culturali ed estetiche legate alla propria razza, in un gioco di negozia-
zione temporale che implica una continua riscrittura del corpo esotico. In
questo senso, conclude Shohat, non è possibile restare attaccati a un
femminismo puro e a un nazionalismo puro se si voglia comprendere la
complessità delle identità stratificate dei soggetti femministi diasporici.
Provare a scrivere una storia dei primi due decenni di teoria femminista
del cinema, imbastire genealogie, come abbiamo tentato di fare nel saggio
che inaugura la seconda parte del volume, era davvero una traversata.
Traversare le differenze è il movimento necessario al divenire donna del
pensiero e per far questo ci siamo sforzate di essere più nomadi di quanto
non implichi la nostra reale condizione. Ma è impossibile parlare di un
soggetto donna, o del processo dell’in-generare, o riprendere parole d’or-
dine come “il personale è politico”, senza provare ad adottare punti di vista
molteplici, senza guardare a identità dislocate, e, soprattutto, senza aprirsi

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INTRODUZIONE 11

alle linee di fuga che consentono di sfuggire al limite. Un limite che è


sempre presente nella storia delle donne e che richiede di essere scavalcato
non solo perché al di là ci sono libertà e salvezza ma perché senza questo
atto, o senza la presenza di un ponte, nessuna narrazione sarà possibile. Il
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cinema postcoloniale, o transnazionale, ha superato i confini della prigione


hollywoodiana, restituendo alle spettatrici i loro piaceri, ma ha superato
anche quelli di uno sguardo che necessariamente deve opporsi perché ci sia
riconoscimento o alleanza. Le donne immaginano film al di là dei confini
delle nazioni, ma senza perdere la memoria. Nella pluralità di mondi
immaginati nei quali esse vivono, l’immaginazione è, come scrive Appadu-
rai, una nuova «pratica sociale» collettiva «criticamente originale nei pro-
8
cessi culturali globali» ed «essenziale a tutte le forme di azione» . Le donne
realizzano film in tutti e quattro i mondi, senza cessare di immaginarne un
altro: «le nepantleras fantasticano un tempo in cui il ponte non sarà più
9
necessario...» .

8
Cfr. Arjun Appadurai, Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale, cit., p. 50.
9
Gloria E. Anzaldúa, Now Let Us Shift... The Path of Conocimiento... Inner Work, Public Acts,
in Gloria E. Anzaldúa, Analouise Keating (a cura di), This Bridge We Call Home. Radical
Visions for Transformation, cit., pp. 540-578, p. 570.

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PARTE PRIMA

EROTISMI/CORPI

a cura di Federica Giovannelli

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA,


GLI STRUMENTI DI SEMPRE DISMESSI1
corpi, case (instabili), immagini, (mondi) immaginari

di Federica Giovannelli

Sono nata in un raggio di luce.


Mi muovo continuamente, eppure resto immobile.
Sono più vasta della vita, eppure non respiro.
Sono visibile solo nell’oscurità
Riesci a vedermi, ma mai a toccarmi.
Riesco a parlarti, ma mai a sentirti.
Mi conosci intimamente, ed io non ti conosco affatto.
Siamo estranei, eppure mi porti dentro di te.
Che cosa sono?
Il tempo stringe.
Abbiamo novanta minuti per incontrarci.
Per risolvere questo indovinello.
Sally Potter, Cercatori d’oro

Femminili speculari

Dove è lei? Attività/Passività, Sole/Luna, Cultura/Natura,


Giorno/Notte, Padre/Madre, Testa/Cuore, Intelligente/Sensibile,
Logos/Pathos, Forma, convesso, passo, avanzamento, seme,
progresso/Materia, concavo, terreno, che sostiene il passo,
ricettacolo. Uomo/Donna.
Hélène Cixous, Sorties

Song: «Non mi hai amato mai?»


Gallimard: «Sono un uomo che ha amato una donna creata da un
uomo. Qualsiasi altra cosa, non ha senso – non è niente».
Da M. Butterfly, David Cronenberg

1
Il riferimento è al titolo dello storico saggio di Audre Lorde, The Master’s Tool
will Never Dismantle the Master’s House, scritto nel 1979 e pubblicato nel 1984 in Sister

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16 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

In principio l’immagine sullo schermo era quella di una donna-oggetto


intrappolata negli stretti confini dell’inquadratura. Spazi angusti come quelli
di una gabbia in cui ogni movimento, ogni agire, ogni posa attentamente
studiata, calcolata nei minimi dettagli, era insieme un chiaro invito a
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guardare e una richiesta di farsi guardare, di mostrarsi, di apparire.


In principio l’occhio deputato a guardare era quello di un uomo, in
principio il privilegio di chiedere all’oggetto di quell’occhio di farsi semplice-
mente guardare era ancora appannaggio di un uomo. (John Berger ha
scritto: «gli uomini agiscono e le donne appaiono. Gli uomini guardano le
2
donne. Le donne si guardano essere guardate» ). Quello sguardo che creava
l’oggetto senza sporcarsi le mani, aveva inventato un femminile che le
donne non conoscevano e in cui hanno creduto a lungo di riconoscersi.
Meglio, in cui hanno finito per riconoscere i propri desideri, i propri sogni,
le attese, le speranze, confondendole con il sogno di un uomo. Sogno che
dava corpo a una donna dalle forme morbide e “arrendevoli”, o all’opposto
affilate e mascoline, o ancora delicate e virginali, o volgari e provocanti,
eppure cosı̀ sfuggenti da scomparire alla luce del giorno, cosı̀ immateriali da
dissolversi quando il buio della sala cinematografica viene bruscamente
interrotto dopo il tempo della visione. Questa, ci ricorda Teresa de Laure-
tis, è la sorte di Zobeide, una delle città invisibili di Calvino, nata dalla
volontà degli uomini di ritrovare una donna che avevano visto correre per
strade sconosciute nei loro sogni. Città trappola perché orribile groviglio di
strade dalle quali la donna del sogno è svanita per sempre. Questo, ancora,
il destino di Laura ne Il grande ritratto di Dino Buzzati, donna-macchina,
generata dal “sogno” impossibile di un uomo di far rivivere la donna amata
ricreandola sotto forma di automa, una «pietra lunga e dura» che soffre di
essere senza voce né corpo, senza più labbra e capelli, carne e sangue, senza
vera vita. Questa, infine, la sorte di occhi di cane azzurro, nel racconto
omonimo di Gabriel Garcı́a Márquez, ennesima donna formata dal sogno

Outsider: Essays and Speeches (Darlinghurst/Australia, Crossing Press, 1984), nel


tentativo di raccoglierne l’implicito appello a trovare altre strade da percorrere, altri
corpi/case da abitare, altri mondi da immaginare, altre immagini da inventare, meno
certe, meno protette, meno sicure, meno battute, ma a misura di donna. Il cammino
è iniziato da tempo, resta ancora tanta strada da fare...
2
John Berger, Ways of Seeing, London, Penguin, 1972, p. 47. Susan Bordo propone di
modificare la formula di Berger adattandola maggiormente al contesto degli anni Novanta,
laddove la rappresentazione della differenza di genere oggi si rivela con più evidenza in una
certa «divisione del lavoro» in base alla quale: «gli uomini mangiano e le donne preparano».
Cfr. Susan Bordo, Il peso del corpo, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 49.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 17

di un uomo che di giorno non sa più riconoscerla, che non «ricorda nulla
di quanto ha sognato» durante la notte.
Qui, è evidente, la donna funziona da specchio, superficie riflettente
sulla quale si proiettano i desideri dell’uomo, memoria schermo che ripete i
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meccanismi del sogno, in cui per far vivere lei basta chiudere gli occhi (lo
dice a chiare lettere il protagonista di Occhi di cane azzurro nel bel mezzo
del suo sogno: «Io vedevo, davanti a me, la parete liscia, che era come un
altro specchio cieco dove io non vedevo lei – seduta dietro di me – ma la
immaginavo lı̀ dov’era se al posto della parete ci fosse stato uno specchio.
3
“Ti vedo” le dissi» ). Qui la donna guardandosi allo specchio si identifica
con un’immagine che non le è speculare, aderisce a un femminile nato
all’interno di costruzioni maschili. L’immagine allo specchio, dunque, è il
luogo da oltrepassare per riappropriarsi di un’origine, di un destino, di un
riflesso, di una sembianza in cui ri-conoscersi, per riunificare un sé fram-
mentato, è il terreno privilegiato che ogni donna deve attraversare per
ottenere la distanza necessaria dall’immagine declinata al maschile che lo
specchio le rinvia e ridiventare padrona di un’immagine che le corrisponda
e del processo identificatorio che ad essa si accompagna. Ecco perché de
Lauretis titola Attraverso lo specchio un saggio sulle donne e il cinema,
laddove la visione cinematografica duplica i meccanismi di costruzione
dell’identità (specchio, identificazione, ansia di castrazione, complesso di
Edipo...), laddove quindi la traversata dello specchio, rimandando esplicita-
mente al viaggio di Alice nel paese delle meraviglie, coincide con il passaggio
dall’identificazione con l’immagine allo specchio al rifiuto di assimilare
quell’immagine, all’apertura di uno «spazio di contraddizione», di una
strategia di resistenza. Dentro e fuori dal cinema.
Ma la Alice di Lewis Carroll, dice bene Teresa de Lauretis, non era
4
certo una femminista. Alice semplicemente doesn’t . Alice semplicemente
non (ancora). Tanto per cominciare.
E allora non è un caso, forse, che Alice continuerà a viaggiare fino ad
arrivare agli anni Settanta del XX secolo, in quel momento di straordinaria
fioritura di una nuova forma di woman’s film, fatti dagli uomini ma rivolti ad
un pubblico femminile, che, parallelamente alle rivendicazioni e alle lotte
delle donne per la loro indipendenza, raccontano storie di donne passate

3
Gabriel Garcı́a Márquez, Occhi di cane azzurro, Milano, Oscar Mondadori, 1998, p. 68.
4
Rimandiamo al titolo del testo di Teresa de Lauretis, Alice Doesn’t. Feminism, Semiotics,
Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1984, in cui è contenuto il saggio Through
the Looking-Glass.

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18 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

attraverso una faticosa riscoperta di sé e delle proprie potenzialità fino a


diventare vincenti, autonome, realizzate, spose e madri solo per scelta,
fornendo cosı̀, a livello fantasmatico e immaginario, una soddisfazione
vicaria per quei traguardi che nella realtà costavano ben altri sforzi, implica-
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vano ben altre battaglie, comportavano ben altre perdite, ma davano ben
altri risultati. Tanto per calmare gli animi.
Eccola, dicevamo, Alice (Ellen Burstyn) nel film di Martin Scorsese del
1974, ventisette anni dopo il suo viaggio nel paese di Humpty Dumpty (il
film inizia in stile patinato, modello fiaba, e poi ci precipita nell’amara
realtà), Alice che non abita più qui (Alice Doesn’t Live Here Anymore, Usa
1974, 113’), che una casa vera e propria l’ha lasciata e viaggia cambiando
continuamente città e motel e uomo, con un figlio ipercritico ma saggio
alle calcagna, in quello che è un altro road movie verso la consapevolezza,
perché lei sa che vuole arrivare a Monterey per realizzare il suo sogno di
sempre di fare la cantante, ma le certezze, si sa, hanno vita breve, e quando
arriva a Tucson dove si mette a fare la cameriera e incontra l’amore, ci
resta, perché l’amore è amore e lei non riesce «a vivere senza un uomo» e
poi si può cantare anche a Tucson (forse). Dunque, Alice ancora non ce la
fa. Ma non ce la fa neanche l’anticonformista e coraggiosa Giulia (Vanessa
Redgrave) nel film di Fred Zinneman che prende il titolo dal suo nome
(Julia, Usa 1977, 118’), che muore nella Germania nazista senza che la sua
amica fraterna e devota, la scrittrice Lillian Hellmann (Jane Fonda), possa
ricostruire la sua verità al di là delle memorie e possa crescere sua figlia
Lilly (messa al sicuro al di là del confine tedesco), lasciando volutamente il
5
film nell’ambiguità di una mancanza di soluzione – come si sarebbe
raccontata Giulia in prima persona? Che tipo di legame c’era tra lei e
Lillian? Erano solo amiche o avevano una relazione lesbica? – (solo quattro
anni più tardi Margarethe von Trotta gira Anni di piombo in cui la scena si
sposta dalla Germania nazista alla Germania degli anni del terrorismo e il
rapporto tra due sorelle, una più sovversiva l’altra più conformista, stavolta
è giocato sul piano del conflitto, che è dissidio interno a una generazione
ma anche messa a tema delle differenze tra le donne, e in cui la perdita di
Marianne [Barbara Sukowa] – trovata morta in carcere – è per Juliane [Jutta
Lampe] non solo la perdita di un’immagine speculare in cui riconoscersi, di
un doppio con il quale confrontarsi-scontrarsi, ma anche la perdita, più
profonda, dello specchio invertito di un sé frantumato che per ri-edificarsi

5
Cfr. Annette Kuhn, Women’s Pictures. Feminism and Cinema, London, Routledge & Kegan
Paul, 1982, in particolare al settimo capitolo, Real Women, pp. 131-155.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 19

ha bisogno del contatto, di ricostruire una memoria, di una pratica che è


diversa dalla teoria, cosı̀ com’è diverso fare rivendicazioni femministe sulla
rivista che gestisce insieme a altre donne e scrivere, su quella stessa rivista,
di una sorella terrorista); neanche Mabel (Gena Rowlands) riuscirà a
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mettere insieme gli «sparsi frammenti» del suo io ipersensibile e nevrotiz-


zato nel film di John Cassavetes Una moglie (A Woman Under the Influence,
Usa 1974, 155’), e uscita dal manicomio tenterà anche il suicidio, perché è
difficile essere una madre e una moglie “normali”, perché il suo sentire “cosı̀
vicino” non si può conciliare con quello stereotipo che la società perbenista
e repressiva chiama brava moglie e buona madre; e infine c’è Erica (Jill
Clayburgh), per citarne ancora una tra le tante, che solo nel titolo del film è
una donna non sposata (An Unmarried Woman, Paul Mazursky, Usa 1977,
124’), solo apparentemente è una donna indipendente se si tiene conto del
fatto che sposata lo era finché suo marito non decide di lasciarla e che
ridiventa, cosı̀, nubile suo malgrado. Certo poi scopre il piacere della
libertà, ha dei rapporti sessuali, ma quando incontra Saul (Alan Bates) se ne
innamora perdutamente e, se è vero che alla fine preferisce l’indipendenza
alle vacanze estive con lui nel Vermont, è anche vero, come sottolinea
Charlotte Brunsdon, che l’immagine conclusiva del film registra un’im-
passe: Erica è sola sı̀, è libera, è indipendente ma appare letteralmente
6
impotente, immobilizzata, paralizzata dalla mancanza di un uomo .
A questo punto, ci troviamo a ripetere una domanda già formulata da
Teresa de Lauretis, e cioè: cosa accade invece quando una donna funziona
7
da specchio di un’altra donna ? Cosa accade quando dietro alla macchina
da presa c’è una donna che guarda un’altra donna? Cosa accade quando la
rappresentazione passa dalle mani degli uomini a quelle delle donne? È un
fatto assodato che un cinema realizzato dalle donne non sia necessaria-
mente un cinema femminista. «Le donne che hanno cominciato a modifi-
care l’immagine che hanno di loro stesse entrano necessariamente in
conflitto con le rappresentazioni che la società dà di loro. È l’inizio di un
lungo processo, perché nessuna donna, cresciuta in mezzo a immagini
opposte e propostele come esempio ideale, impara dall’oggi al domani ad
8
accettarsi per quello che è, senza riferimento a un modello ideale» .

6
Cfr. Charlotte Brunsdon, Un sujet d’actualite´ pour les anne´es 70, «CinémAction», n. 67, II
semestre 1993, pp. 59-64.
7
Teresa de Lauretis, Feminism, Semiotics, Cinema: An Introduction, in Id., Alice Doesn’t, cit.,
p. 6.
8
Gertrud Koch, La critica cinematografica femminista: che cos’e` e a che serve, «Nuova dwf», n.
8, luglio-settembre 1978, p. 69.

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20 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Siamo faccia a faccia con un’immagine già metabolizzata che deve


essere ripensata, rivista, riscritta, sezionata per rintracciarvi le contraddi-
zioni, le falle, i vuoti, le insufficienze, e poi ricomposta nel segno della
diffe´rance, decontestualizzata e poi ricontestualizzata da una prospettiva
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altra e più radicale. Poiché non basta mettere in luce le storture presenti
nelle strategie rappresentative dominanti, ma è necessario aprire un varco
attraverso il quale introdursi drasticamente nel cuore dei codici cinematogra-
fici esistenti, dei processi di produzione del significato consolidati, per
trasgredirli e sovvertirli dall’interno. «Nuovi significati devono essere creati
spaccando la struttura del cinema maschile borghese dall’interno del film...
non è sufficiente discutere l’oppressione delle donne in un film, anche il
linguaggio del cinema e la descrizione della realtà devono essere interrogati
9
cosicché si verifichi una frattura tra ideologia e testo» .
Si tratta di un’operazione di risignificazione, di cambiamento di segno
delle grandi narrazioni che la Storia, quella maschile, ci ha consegnato,
operazione che si fa continuando a narrare; si tratta, con le parole di de
10
Lauretis, di una de-ri-costruzione , vale a dire una decostruzione che ha come
rovescio una ricostruzione, ma guardando da “altrove”, incarnando quello
11
che Claire Johnston chiama «il lavoro del desiderio» . Il nostro desiderio, il
desiderio delle donne. L’“altrove”, appunto, ma assunto deliberatamente. Il
contrario del Logos ma restando dentro al discorso dominante per rove-
sciarne il segno. È il mimetismo ludico di Luce Irigaray: mimare la parola del
padrone da “altrove”. Perché l’unica parola a disposizione è quella avvolta
dai «bisogni-desideri-fantasmi» degli uomini, e allora è da lı̀ che bisogna
partire per iniziare a «parlare donna». E anche qui, come nel caso del cinema
delle donne, «parlare donna non è parlare della donna. Non si tratta di
produrre un discorso di cui la donna sarebbe l’oggetto, o il soggetto. Ciò
detto, parlando donna si può tentare di trovare un luogo all’“altro” come
12
femminile» . Ancora; si può tentare di non farsi più specchio in cui il
maschile possa riflettersi, di non farsi più ridurre al sogno di un uomo, ma di

9
Claire Johnston, Cinema delle donne come contro cinema, «Nuova dwf», n. 8, luglio-
settembre 1978, p. 64.
10
Teresa de Lauretis, The Technology of Gender, in Technologies of Gender. Essays on Theory,
Film and Fiction, Bloomington, Indiana University Press, 1987, p. 24; [tr. it. La tecnologia del
genere, in Teresa de Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista, Milano, Feltrinelli, 1996, p.
161].
11
Claire Johnston, Cinema delle donne come contro cinema, cit., p. 67.
12
Luce Irigaray, Domande, in Id., Questo sesso che non e` un sesso, Milano, Feltrinelli, 1978, p.
112; cfr. anche le pagine 109, 111.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 21

cominciare a produrre l’immagine della donna partendo dall’unica immagine


conosciuta: quella creata ai primordi dall’uomo apposta per lei.
Tra il 1977 e il 1980, Cindy Sherman realizza i suoi Untitled Film Stills,
una serie di fotografie in bianco e nero che rimandano all’America anni
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Cinquanta, evocano la cultura dell’apparenza e della superficie, dei piaceri


da consumare e dei desideri imboccati, omologati, omogeneizzati, dei
canoni di bellezza e rispettabilità a cui è bene uniformarsi, delle villette a
schiera da occupare e da curare, con amore – perché il regno di ogni donna
è la casa. Al centro di ogni singolo fotogramma l’artista stessa si mette
letteralmente e incessantemente in scena in innumerevoli guise, camuffa-
menti, travestimenti: un’attrice cinematografica in un set cinematografico,
anzi un intero campionario di attrici cinematografiche per tutte le occa-
sioni, per tutti i gusti, per tutti i generi del cinema, per tutti gli sfondi e i
13
mondi immaginati dal cinema . È una seduttrice biondo platino e un’affa-
scinante bruna dai capelli corti – vestito sollevato con noncuranza e calze
autoreggenti –, una Marilyn “notturna” col bavero del cappotto alzato e
relativa controparte solare – forme procaci, sguardo malizioso e sensuale,
grembiule e fazzoletto in testa –; ancora, è un’isterica dietro alle sbarre, il
viso solcato dalle lacrime e imbrattato dal mascara, una a cui piacciono i
tacchi alti e il trucco pesante, una donna con la sigaretta in mano, un’altra
distesa sul letto ad abbracciare un cuscino, o colta durante un’attesa o a
guardarsi allo specchio, o ad avere paura...
Sherman nel ripetere da “altrove” l’immagine di un femminile in cui il
femminile non appare, nel mettere in scena se stessa come materia dello
sguardo «forza lo spettatore a sperimentare quell’elisione dell’immagine e
14
dell’identità che le donne esperiscono sempre» . Qui il corpo dell’artista
espone, indica, presenta nella sua letteralità una femminilità a due dimen-
sioni che prima – strano a dirsi – era sembrata vera a chiunque la
guardasse. Qui la mimesi dell’immagine convenzionalmente costruita ripro-
duce una femminilità che è solo un «effetto di superficie che dà un’illusione
15
di profondità» . Qui il lavoro dell’ideologia che sta dietro all’immagine si

13
Per un’analisi approfondita del lavoro di Cindy Sherman vedi Laura Mulvey, Cosmetics
and Abjection. Cindy Sherman 1977-1987, in Id. Fetishism and Curiosity, London, BFI, 1996, pp.
65-76.
14
Judith Williamson, Images of ‘Woman’ – The Photographs of Cindy Sherman, «Screen», vol.
24, n. 6, novembre-dicembre 1983, p. 102.
15
Amelia Jones, Tracing the Subject with Cindy Sherman, in Cindy Sherman. Retrospective,
catalogo della mostra tenutasi al Museo di Arte Contemporanea di Los Angeles, 2
novembre 1997-1 febbraio 1998, London, Thames & Hudson, 1997, p. 39.

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22 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

disfa non distruggendola ma (ri)costruendola. Il fatto, poi, che sia Cindy


Sherman ad interpretare ognuna delle donne di questo improbabile cata-
logo delle femminilità (la femminilità freudiana che Irigaray preferisce
piuttosto chiamare mascherata), «è precisamente ciò che mina l’idea che
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16
ciascuna immagine sia la “sua”» . Se ogni immagine sta per una donna
diversa dalla femminilità diversa, allora lei non può rappresentarle tutte. Se
lei può rappresentare ognuna di quelle donne, se queste donne cosı̀
differenti sono intercambiabili, allora non esistono. L’attimo fuggente colto
dallo scatto fotografico, il calco della realtà che l’istantanea dovrebbe
restituire nella sua verità, integrità, pienezza è un falso. L’immagine diretta e
interpretata da Sherman, il fotogramma rimasto “senza titolo” come le
donne che vi sono impresse, non è una copia ma una maschera, non è
verosimile ma inverosimile.
A partire dall’improbabile inventario di Sherman, un glossario semplifi-
cato di parole chiave: catalogo, donna, differenza/e tra le donne.
Serge Daney attribuisce ad ogni cinefilo che si rispetti l’ossessione di
catalogare, di compilare liste, di fare classificazioni dei film visti e di quelli
da vedere, delle visioni che hanno contato e di quelle di cui sono rimaste
solo tracce, delle immagini conservate, gelosamente custodite, quasi fossero
ricordi personali, delle narrazioni che continuano le nostre storie, delle
storie che “segnano” le nostre vite – microcosmi che funzionano come
tasselli di una memoria in continua evoluzione («l’obbligo di essere sul
17
cammino delle cose» ), dalla quale si può sottrarre per poi tornare ad
aggiungere altri fotogrammi, altri visi, altri corpi, altre voci, altri gesti, altre
rivelazioni improvvise, altre emozioni, altre immagini, altri film.
Un catalogo, quello del cinefilo, che deve essere costantemente aggior-
nato, laddove è come se il catalogo delle femminilità di Cindy Sherman,
potenzialmente aperto a includere infinite tipologie di Donna, giocando
(con serietà) segnalasse invece l’avvenuta fine di un gioco durato troppo a
lungo. Ed è sempre Serge Daney a dirci che la cinefilia «è il punto di vista
di un bambino che è riuscito a riciclare i suoi giocattoli e a non mancare
18
mai troppo di compagni per il viaggio come per il gioco» . Bambino e
compagni di gioco maschi, si intende, se altrove Daney tiene a precisare
che «quando le donne cominciano a fare film sempre più di frequente»
succede che «non si gioca più», perché la donna messa dietro alla macchina

16
Judith Williamson, Images of ‘Woman’, cit., p. 105.
17
Serge Daney, Lo sguardo ostinato, Milano, Il Castoro, 1995, p. 87.
18
Serge Daney, Journal de l’an passee´, «Trafic», n. 1, inverno 1991, p. 17.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 23

da presa «non gioca, non attinge alla propria infanzia, non feticizza l’uomo,
non scherza. Certi film di Akerman, Varda e, più recenti, gli ultimi Mura-
tova, Campion e Breillat non barano e rappresentano un cinema irrimedia-
19
bilmente adulto» . Adulto, cioè, «aperto al femminile», conclude Daney.
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Allora possiamo tentare di “aprire al femminile” e all’età adulta il catalogo


del cinefilo, e appropriarci cosı̀ di un altro spazio maschile e maschilista
dall’interno, tenendolo aggiornato con film di donne, femminili e femmini-
sti, che ri-scrivono storie di donna, ri-mostrano gesti di donna, ri-guardano
corpi di donna, ri-dicono parole di donna, ri-inventano immagini di donna,
ma soprattutto si rivolgono ad un pubblico di donne, ad una spettatrice
certamente di sesso femminile, verosimilmente di coscienza femminista e lo
fanno tanto attraverso il cinema mainstream, riveduto e corretto da uno
sguardo altro, quanto attraverso quello di avanguardia, che sia nella forma
“narrativa” dei “New Talkie” alla Yvonne Rainer o nella forma più speri-
mentale e meno fagocitante auspicata da Laura Mulvey in difesa della
20
spettatrice . E ci permettono, cosı̀ facendo, di «vedere la differenza diffe-
rentemente», perché la differenza non è solo sessuale, suggerisce de Laure-
tis, «vale a dire, la differenza delle donne dagli uomini, della femmina dal
maschio, della Donna dall’Uomo. Un cambiamento radicale richiede un
abbozzo e una migliore comprensione della differenza delle donne dalla
Donna, e cioè anche, delle differenze tra le donne. Perché ci sono, dopotutto,
21
differenti storie di donne» . Perché non è vero che una donna vale l’altra.
C’è Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (Chantal
Akerman, Belgio/Francia 1975, 212’, Jeanne: Delphine Seyrig), l’esattezza
dei gesti quotidiani di una donna come non erano mai stati mostrati prima,
la verità di una parola o di un silenzio, l’intera durata di un’attesa, di
un’azione, di un desiderio: tutto il tempo che occorre per preparare un
polpettone (quegli otto estenuanti minuti), tutto l’amore possibile per le
occupazioni domestiche di una madre che è insieme casalinga e prostituta,
tutto lo sconvolgimento provocato da un orgasmo che non era previsto,
tutta l’inspiegabile banalità di un omicidio che dovrebbe forse ripristinare
l’equilibrio perduto. C’è poi la «storia senza storia» di Julie (Nuit et jour,
Chantal Akerman, Francia/Belgio/Svizzera 1991, 95’, Julie: Guilaine Lon-

19
Serge Daney, Il cinema e oltre. Diari 1988-1991, Milano, Il Castoro, 1997, pp. 262-263.
20
Cfr. Le conclusioni del fondamentale saggio di Laura Mulvey, Visual Pleasure and
Narrative Cinema, «Screen», vol. 13, n. 3, autunno 1975, [tr. it. Piacere visivo e cinema
narrativo, «Nuova dwf», n. 8, luglio-settembre 1978].
21
Teresa de Lauretis, Rethinking Women’s Cinema, in Id., Technologies of Gender, cit., p. 136.

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24 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

dez), figura dell’erranza tra due uomini, della vita ridotta alle dimensioni di
una stanza in cui fare l’amore e di un’unica strada da attraversare di corsa
per «essere-fra» Jack e Joseph, cercando di truffare il tempo e il sonno,
cercando di sfuggire alle intromissioni del mondo, di stare al riparo dallo
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squillo di un telefono, dalla fatalità di un incontro casuale. E, alla fine, c’è


ancora Julie, che ha lasciato Jack e Joseph, e percorre alla luce del sole
un’altra strada, lei che non è «un’apparizione» ma una donna, «che è
l’esatto opposto». E donna tutta terrena è anche Mona (Sans toit ni loi
[Senza tetto ne´ legge], Agnès Varda, Francia 1985, 105’, Mona: Sandrine
Bonnaire), anche se è venuta dal mare come la Venere di Botticelli, e per
terra morirà di «morte naturale» – complice l’inverno: un corpo buttato in
un fosso, corpo abbandonato, corpo rattrappito e “sbiadito” dal freddo,
chiuso nel gelo delle inquadrature iniziali e finali del film. E, a proposito di
Varda, non si può non pensare a Cléo (Cle´o de 5 à 7 [Cleo dalle 5 alle 7],
Agnès Varda, Francia 1962, 98’, Cléo: Corinne Marchand), due ore della
vita di una donna, due ore per sapere se vivere o morire, due ore per capire
e per capirsi, due ore per cominciare a guardarsi con i propri occhi e
smettere di essere l’oggetto passivo dello sguardo dell’altro. Dalle cinque
alle sette, il tempo di una passeggiata nel parco, una panchina in cui sedersi,
un incontro, l’attesa, la solidarietà, il tempo di condividere le proprie espe-
rienze e il tempo della conciliazione; infine poche, significative, apparente-
22
mente inconciliabili parole («cancro»... «mi sento felice») . E sempre parole
sono quelle di Sweetie (Sweetie, Jane Campion, Australia 1989, 97’, Sweetie:
Karen Colston), stavolta scurrili, sboccate e volgari, dette sbraitando e
gridando per non calcare discorsi già fatti, parole già dette, consumate,
espropriate, se è vero, come sostiene Irigaray, che, di fronte a un linguaggio
maschile non disponibile, le due alternative che restano alla donna sono il
mutismo o l’urlo inarticolato. E urlando Sweetie cadrà dall’albero del
sapere (dominante), quello di cui sua sorella Kay aveva paura e morirà
permettendo cosı̀ agli altri di tornare alla vita “normale”. Diverso è il caso
dell’ascetica e mistica Ruth Barron (Holy Smoke, Jane Campion, Usa 1999,
114’, Ruth: Kate Winslet), che in India ha avuto l’illuminazione e, riportata
a forza nella claustrofobica Australia e affidata alle mani di un infallibile
guaritore di anime perse, rovescerà a tal punto il gioco delle parti da

22
Per un approfondimento della questione della trasformazione di Cléo da donna-
immagine a donna che ha acquisito la capacità di costruire la propria immagine, cfr. Sandy
Flitterman-Lewis, From Déesse to Idée: Cleo From 5 to 7, in Id., To Desire Differently. Feminism
and The French Cinema, New York, Columbia University Press, 1996, pp. 268-284.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 25

renderlo schiavo delle sue voglie, che ormai di zen non hanno più niente.
Ma c’è anche Barbara (Lio) in Sale comme un ange di Catherine Breillat
(Francia 1990, 105’), la passione incontenibile, l’attrazione che corrode, il
desiderio di una donna che sente, che trasforma l’angelo anche in puttana,
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le deboli resistenze davanti a lui, sul divano, le parole farfugliate, il volto


dagli occhi abbassati, la bocca leggermente aperta a sedurre (ciò che vuole
apparire, e appare, in Sale comme un ange è la donna, secondo Serge Daney).
E a cercare inutilmente di sedurre il suo uomo che non vuole più fare
l’amore con lei è anche Marie (Caroline Ducey) – il nome della Vergine –
in un altro film di Breillat, Romance (Francia 1998, 95’), alla quale non resta
che la ricerca del sesso fine a se stesso, con chiunque possa darle un piacere
puro che colmi il vuoto lasciato dall’amore. Qui il sesso è un fatto
esclusivamente mentale che spinge Marie a sprofondare nei recessi più
oscuri della sua anima per ritrovare la propria castità, per spogliarsi del
proprio pudore, per riappropriarsi della propria sessualità. Sessualità femmi-
nile che in nessun caso per Breillat è una scoperta indolore e infatti, una
volta di più, si svela drammaticamente alle due sorelle di A` ma soeur (A mia
sorella, Catherine Breillat, Francia 2001, 93’), “racconto crudele” dell’adole-
scenza, di un’identità divisa in due, scissa tra il corpo bello e aggraziato di
Elena (Roxane Mesquida) e quello grasso e goffo di Anaı̈s (Anaı̈s Reboux),
tra la paura di perdere la verginità della prima e il peso della parola
verginità per la seconda, tra la scelta di una soluzione romantica e senti-
mentale e la provocazione di una soluzione finale violenta e brutale (sullo
sfondo del massacro di Elena e di sua madre, l’agghiacciante stupro subito
in silenzio da Anaı̈s ma in seguito fermamente negato). E indugiando sul
difficile terreno dall’adolescenza si incontra un altro racconto ribelle di due
giovani arrabbiate e «corrotte», un nome che vale per due, Marie, la
numero uno e la numero due, protagoniste di Sedmikrásky (Margherite,
Cecoslovacchia 1966, 74’) di Vera Chytilová, tutto giocato sul registro
dell’ironia e del distacco, a riprendere questi due corpi apparentemente
sicuri di sé, disubbidienti, fuori dagli schemi, indipendenti, rivoluzionari,
decisi ad attuare ad ogni costo la propria degenerazione solo per giocare i
loro giochi provocatori rispettando rigorosamente le rischiose regole della
partita, senza mai mettere da parte la maschera; eppure i sentimenti e gli
attributi fisici, le emozioni e le opinioni a cui le due Marie cercano di
sfuggire ritornano a imprigionarle quasi per dispetto, in maniera strisciante
e subdola perché i modelli e le nozioni sociali sulla donna, gli stereotipi
della femminilità si interiorizzano malgrado tutto, e ciò che è convenzio-
nale e reale riprende il sopravvento sull’immaginario, e i ruoli sessuali che si
faceva finta di dimenticare fanno riaffiorare i loro segni, e la cultura

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26 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

dominante torna a farsi sentire e di nuovo a paralizzare entro i propri


ristretti limiti e confini23. La stessa sorte tocca a Lenka, nonostante sia una
donna adulta e meno inesperta, in un film più recente di Chytilová, Pasti,
pasti pastičky (Trappole, Repubblica Ceca 1998, 115’), un identico humour
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nero, un registro insieme tragico e grottesco per raccontare la storia di uno


stupro e della vendetta che ne segue: la castrazione dei violentatori ad
opera delle mani esperte della vittima, veterinaria di professione. Eppure la
volontà stessa di scrollarsi di dosso la violenza subita ritorcendola contro i
propri carnefici non basta, non porta consolazione, la stessa fuga dai ricordi
si rivela inefficace sotto la spinta delle pressioni esterne e delle norme non
scritte che dicono che nella società ceca c’è un’ineludibile scala gerarchica
dei ruoli sessuali, la stessa lotta per trovare una giustizia uguale per tutti
ribadisce invece la scala delle differenze quando Lenka viene accusata dal
tribunale di avere un’attitudine asociale e gli stupratori dichiarati non
colpevoli24. La satira amara di Chytilová si arresta nel punto in cui il
personale si scontra con il sociale, il culturale, l’economico, il politico, in cui
la percezione individuale del genere cozza contro le stratificazioni del
potere che non cessano di riprodurre concezioni normative e repressive
della sessualità. L’armonia ancora non c’è e l’immaginazione non ha ancora
raggiunto il potere.
Ma la tendenza si può anche invertire con la storia di una donna che...
del Film About a Woman Who... (Usa 1974, 90’) di Yvonne Rainer, l’autobio-
grafia in primo piano, la narrativizzazione dell’esperienza personale, la
traiettoria dal collage alla storia e ritorno, perché ciò che conta è deco-
struire per ricostruire simultaneamente, quel passaggio necessario dalla
danza alla pratica filmica che consente di aprirsi uno spazio in cui è più
facile osservare, considerare, analizzare, scrutare, riflettere sulla natura e
sulla struttura delle emozioni, perché senza il corpo vivo del ballerino a
fagocitare lo spettatore tante sono le tecniche di distanziamento a cui fare
appello, tante le strategie per impedire al pubblico l’«ingolfamento emo-
tivo» con i personaggi del film e facilitare invece l’atteggiamento contem-
plativo, e maggiore è anche il raggio d’azione nei termini di composizione

23
Cfr. Malgorzata Radkiewicz, Angry Young Girls. Gender Representations in Vera Chytilová
Sedmikrásky and Pasti, pasti pastičky, «Kinoeye», vol. 2, n. 8, 29 aprile 2002; e Ivana
Košuličová, The Void Behind the Mask. Game-playing in the Films of Vera Chytilová, «Kinoeye»,
vol. 2, n. 8, 29 aprile 2002.
24
Cfr. Jaromı́r Blažejovský, Bones, bones, bone-eater... Vera Chytilová’s Pasti, pasti pastičky,
«Kinoeye», vol. 2, n. 8, 29 aprile 2002; e Malgorzata Radkiewicz, Angry Young Girls, cit.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 27

e uso del sonoro – giustapposizione “radicale” di documentario e fiction,


linguaggio “autentico” e personaggi storici decontestualizzati, materiale
teorico e letterario ricontestualizzato, dialoghi non sincronizzati, intertitoli,
attori differenti che interpretano lo stesso personaggio, non corrispondenza
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tra testo parlato e testo visivo. Al cinema, allora, si pensa meglio e Rainer
pensa il cinema portando alle estreme conseguenze la lunga e difficile lotta
per il significato incentrata sul corpo e sul linguaggio iniziata sulle prime
con la danza: corpo sbilanciato, linguaggio inappropriato, interrotto, sba-
gliato che al cinema sempre scavalca il corpo, in un prevalere del contenuto
25
mentale e intellettuale delle emozioni su quello fisico, corporale . La
strategia estetica di Rainer ben si presta, è evidente, ad accogliere temi e
questioni femministe, anzi è la regista stessa nei suoi primi lavori ad
anticipare e indicare le svolte principali della teoria femminista, pur non
volendo rinchiudersi nelle maglie strette delle definizioni convenzionali e
continuando a pensarsi nella prospettiva utopica della “a-donna”, che
cambia tattiche, punti di vista, opinioni, idee politiche, e a pensare al suo
cinema come a un non proprio lyotardiano “a-cinema”, uno strumento atto
a turbare invece che a rassicurare, a confondere invece che a chiarire, a
disgiungere invece che ad assemblare, a includere piuttosto che a evitare
temi quali razzismo, sessismo, colonialismo e deformazione, mistificazione,
26
manipolazione . Nel 1985 la moglie dell’uomo che invidiava le donne (The
Man Who Envied Women, Usa 1985, 125’) neanche appariva sullo schermo
perché qualcuno potesse starla a guardare e si riduceva a voce over che
riflette sul difficile passaggio ai cinquanta, personaggio invisibile sottratto a
tutte le strutture maschili di potere. Nel 1990, il racconto dell’invecchia-
mento femminile, la storia della menopausa di Jenny, intersecano il tema
della razza e quello dell’oppressione di classe, a indicare dove e come si
esercitano le varie forme di oppressione e dove si trova invece il privilegio
(Privilege, Usa 1990, 100’) – bianco, maschio e borghese – con il suo
concatenamento, i suoi inevitabili legami con la violenza sessuale (qui la
vittima è lesbica e bianca ma lo stupratore è portoricano e povero, perché

25
Cfr. Noël Carroll, Moving and Moving, «Millennium Film Journal», nn. 35/36, autunno
2000, articolo scritto dall’autore sul primo film di Rainer, Lives of Performers (1972), ma i cui
concetti chiave – riflessione sulle emozioni, distacco emotivo dello spettatore, prevalenza
della mente sul corpo, discordanza tra colonna visiva e colonna sonora – sono in larga
misura applicabili a tutta la filmografia di Rainer.
26
Ci si riferisce al saggio intitolato, Sexism, Colonialism and Misrepresentation a cui Rainer e
Bérénice Reynaud hanno lavorato insieme per una conferenza, The Collective for Living
Cinema, 25 aprile, 8 maggio, 1988.

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28 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

si sa «gli stupratori sono di tutti i colori»). In bocca ai personaggi citazioni


tratte da Frantz Fanon e Eldridge Cleaver, Judy Grahn, Joan Nestle, e
Oliver Cox, alla ricerca di un linguaggio appropriato alle voci che non si
conoscono, adottando quelle “pratiche da plagiaria” che è Rainer stessa ad
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ascriversi. Nel 1996, l’amore lesbico scoppiato tra Mildred e Doris, che
ormai hanno una certa età, affianca il tema del tumore al seno e della
mastectomia a ripercorrere ancora una volta l’autobiografia, il coming out di
Rainer come lesbica e la sua malattia (Murder and Murder, Usa 1996, 113’);
ma stavolta la narrazione è più tradizionale, i personaggi sullo schermo
sono a tutto tondo, i dialoghi subentrano ai monologhi, le tecniche filmiche
sono più convenzionali, eppure parlano sempre di donne che..., allora come
adesso, continuano a sconcertare, a disorientare, a confondere.
Nel XIV secolo invece è possibile incontrare un’altra donna, Aliénor
(Caroline Ducey), protagonista di La chambre obscure di Marie-Christine
Questerbert (Francia 2000, 107’), diversa anche lei dalle altre, e non solo
perché il suo tempo non è il nostro tempo, ma perché, emersa faticosa-
mente dalle profondità del passato, costretta a occupare suo malgrado il
posto della Donna che Rainer ha costantemente lasciato vuoto, abbando-
nerà la sua casa, “uscirà” dal suo corpo per illuminare il cammino a venire,
per indicare la strada da percorrere in futuro, per metterci davanti agli
occhi l’istantanea sfocata di un avvenire possibile.
Aliénor l’uomo che ama l’ha ottenuto in sposo dal re di Francia, la
debita ricompensa per averlo miracolosamente guarito da una fistola giudi-
cata da tutti incurabile, ma da quell’uomo tutto per sé non riesce a farsi
amare, non riesce a farsi desiderare, non riesce a farsi vedere, non riesce
neanche a farci l’amore. E qui la donna sconta il privilegio conquistato
(quello che gli uomini hanno avuto per secoli) con l’oscuramento, con il
confinamento in una camera buia, in una stanza priva di luce, dove solo a
prezzo della sua invisibilità ottiene di fare l’amore con suo marito, dove
solo facendo finta di non esserci, solo passando per un’altra, solo cancel-
lando il suo corpo riesce a farsi vedere per la prima volta. E qui la
costitutiva trasparenza della donna è messa a tema attraverso un capovolgi-
mento che va di pari passo con la dialettica buio/luce: perché solo
riattivando la propria assenza Aliénor può rovesciare la propria condizione
di perdita in strategia di resistenza, in percorso di acquisizione della
consapevolezza, può avviare il processo di trasformazione che prelude alla
definizione di un’identità rinnovata. Trasformazione anche al nucleo del
primo lungometraggio di Sally Potter, The Gold Diggers (Cercatori d’oro, Gb
1983, 89’), quello più esplicitamente femminista e per la forma avanguardi-

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 29

sta e per il contenuto simbolico e metatestuale, in cui Ruby/Julie Christie,


persa la memoria perché è sempre stata «tenuta nell’oscurità», è alla faticosa
ricerca dei «segreti» della propria trasformazione, come faranno del resto le
“eroine” di Potter a venire. Trasformazione che sta tutta nello scarto tra la
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sequenza iniziale del ballo e quella stessa sequenza posta in chiusura del
film, l’una all’insegna della festa danzante e del bel costume di una conci-
liante Ruby, scortata dal suo cavaliere perché la sua bellezza circoli come
l’oro/denaro tra gli esemplari maschili della società patriarcale e capitalista
e trascinata poi via attonita in sella a un cavallo da un’altra donna,
Celeste/Colette Laffonte, perché il processo del rimemorare abbia inizio;
l’altra con gli scavatori, cercatori, saccheggiatori d’oro stesi a terra dai
disinvolti calci di una nuova Ruby, salvata infine dall’amnesia e dalla
prigionia – in una società oppressiva e in un apparato cinematografico che
ne fa un’astrazione – proprio da quella donna nera che cavalcando un
destriero bianco la porta ancora una volta con sé verso l’orizzonte lontano.
Stavolta partecipe, sorridente e divertita. La «costruzione di una memoria»
attraverso lo sforzo concreto e risoluto del «ricordare» è ciò che prepara la
trasformazione del soggetto donna e ciò che rende inoltre possibile la
27
trasformazione di ciò che lo circonda . Le parole di Colette Laffonte a
renderlo una volta per tutte presente, a dirne l’attuabilità: «Però so che
anche solo guardando e vedendo, cambio ciò che è lı̀».
Cambiamento interiore e esteriore che come tutti i processi è lungo e
difficile da concretizzare e a cui le donne di L’albero di Antonia (Antonia’s
Line, Marleen Gorris, Olanda/Belgio/Gb 1995, 102’) – che sta per la
discendenza di Antonia (Willike van Ammelrooy) – riservano da un pezzo
tutta la propria dedizione e tutte le proprie energie, servendosi dell’acquisita
capacità di trasformare e di plasmare e di una certa dose di autocoscienza
per vivere in un villaggio che hanno convertito, forse con qualche schema-
tismo di troppo, da luogo di violenza dominato dalla legge patriarcale a
luogo di solidarietà e di accoglienza retto da principi matriarcali. Una sorta
di valle delle donne di memoria boccaccesca, dove il tempo della narrazione
è un tempo condiviso, dove il sottotesto della storia è il recupero di
un’origine, una genealogia, di un’appartenenza. Anche a Ibo Landing, nel
sud Carolina, c’è un’altra valle delle donne, c’è un altro territorio che significa

27
Cfr. Mary Ann Doane, Remembering Women: Psychical and Historical Constructions in Film
Theory, «Continuum: The Australian Journal of Media & Culture», vol 1, n. 2, 1987; per un
esame del lavoro di Potter vedi anche Anne Jerslev, Sally Potter’s “ecrands seconds”. A reading
of Sally Potter’s Work, «Nordicom Review», vol. 21, n. 2, 2000, pp. 275-291.

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30 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

appartenenza, identità, memoria, spazi condivisi, legame tra Africa e Ame-


rica, passato e presente, culto degli antenati che non hanno resistito al
middle passage e adeguamento alle “tradizioni” del Nuovo Mondo28, e
questo territorio appartiene alle donne nere, le figlie della polvere di
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Daughters of the Dust (Julie Dash, Usa 1991, 112’), loro che erano state
schiave, loro che erano state violentate dai propri padroni, a cui era stato
tolto il diritto di amare e di essere madri ora sono la fonte della cultura, del
valore, della resistenza, della differenza, le produttrici del significato29. Le
donne di colore fiere e coraggiose di Daughters of the Dust dicono qui la
loro oppressione ma con parole inevitabilmente diverse da quelle delle
donne bianche e con accenti sensibilmente discordanti anche da quelli
degli uomini neri. Perché per loro il genere sessuale e l’appartenenza
razziale non sono termini separati ma categorie che si interrogano a

28
All’epoca della tratta degli schiavi, le isole costiere della Georgia e della Carolina erano
il luogo in cui sbarcavano le navi che trasportavano gli africani. Julie Dash le considera la
Ellis Island degli africani, il «centro di smistamento» di milioni di schiavi emigrati forzata-
mente. Afferma Toni Cade Bambara: «Giù nelle isole della Georgia e della Carolina
raccontano ancora la storia degli Ibo. Dicono che quando la barca scaricò a terra gli africani
dalle grandi navi di schiavi, gli Ibo scesero sulla riva con le loro catene, si diedero
un’occhiata intorno, e, vedendo ciò che gli europei avevano ancora in serbo per loro,
tornarono immediatamente sui propri passi e camminarono per tutta la strada verso la
Madre Terra» (Toni Cade Bambara, Preface, in Julie Dash, Daughters of the Dust. The Making
of an African American Woman’s Film, New York, The New Press, 1992, p. xi). In un’intervista
con bell hooks, Dash torna ad aggiungere particolari al mito di Ibo Landing che è
fondamentale non solo per comprendere la genesi di Daughters of the Dust, ma anche perché
inaugura tutta la tradizione della resistenza nera. «I prigionieri Ibo, i prigionieri africani della
tribù degli Ibo, quando furono portati nel Nuovo Mondo rifiutarono di vivere in schiavitù.
Secondo alcuni resoconti essi camminarono nell’acqua, e poi sull’acqua fino all’Africa,
capisci, piuttosto che vivere in schiavitù, in catene. Ci sono anche miti di loro che sono stati
trascinati dalla corrente, trascinati per tutta la strada verso l’Africa. E poi c’è la storia – la
verità o il mito – di loro che camminano nell’acqua e si annegano davanti ai negrieri»
(Dialogue Between bell hooks and Julie Dash, 26 Aprile 1992, in Julie Dash, Daughters of the
Dust, cit., p. 27).
29
All’inizio di Daughters of the Dust, dopo aver visto Nana Peazant uscire dall’acqua
completamente vestita, sentiamo una voce off di donna che dice: «Io sono la prima e
l’ultima./ Io sono l’onorata e la disprezzata./ Io sono la puttana e la santa./Io sono la moglie
e la vergine./ Io sono la sterile, e molte sono le mie figlie./Io sono il silenzio che tu non
puoi capire. Io sono l’espressione del mio nome. Nelle sue affermazioni Julie Dash tiene a
specificare che le donne afroamericane non si sono mai potute permettere di essere
semplicemente donne, ma hanno dovuto essere più cose inconciliabili contemporanea-
mente, hanno dovuto sopportare, ad esempio, di essere allo stesso tempo le fonti del
nutrimento e le bestie da soma.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 31

vicenda e che influiscono l’una sull’altra nell’individuare la specifica condi-


30
zione delle donne nere .
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30
Cfr. il saggio di Valerie Smith, Black Feminist Theory and the Representation of the ‘Other’,
in Cheryl A. Wall (a cura di) Changing Our Own Words, New Brunswick, Rutgers University
Press, 1989, pp. 38-57, [tr. it. La teoria femminista nera e la rappresentazione dell’altro/a, in
Raffaella Baccolini, M. Giulia Fabi, Vita Fortunati, Rita Ponticelli (a cura di), Critiche
femministe e teorie letterarie, Bologna, Clueb, 1997, pp. 321-336]. Smith argomenta che non è
sufficiente affermare che le donne nere siano contemporaneamente vittime di razzismo e
sessismo perché – e qui cita Elizabeth V. Spelman – «dire soltanto questo fa pensare che le
donne nere subiscano una forma di oppressione in quanto nere – la stessa che subiscono gli
uomini neri – e un’altra forma di oppressione in quanto donne – ovvero la stessa che
subiscono le donne bianche». E continua Smith: «Una formulazione di questo tipo nega la
specificità dell’esperienza della donna nera, in quanto la presenta come punto di intersezione
tra le esperienze degli uomini neri e delle donne bianche. In alternativa a questa posizione...
le teoriche femministe nere sostengono che il significato dell’essere neri/e negli Stati Uniti
influenza profondamente l’esperienza del genere sessuale, cosı̀ come le condizioni dell’essere
donna influiscono ineluttabilmente sull’esperienza della razza», pp. 330-331. Gli scritti, le
politiche e le elaborazioni teoriche delle donne di colore avevano preso forma e consistenza
ed avevano in breve acquisito grande visibilità nel 1981 con la pubblicazione della prima
antologia di scritti curata da “radicali” femministe di colore intitolata This Bridge Called My
Back. Writings by Radical Women of Color, Cherrı́e Moraga e Gloria Anzaldúa (a cura di),
(Watertown-MA, Persephone Press, 1981; seconda edizione, New York, Kitchen
Table/Women of Color Press, 1983), autodefinitesi, la prima, femminista/lesbica/scrittrice
chicana, la seconda, poetessa chicana. Segue, nel 1982, a ridosso di This Bridge Called My
Back, una seconda antologia dei Black Women’s Studies dall’eloquente titolo All the Women
Are White, All the Blacks Are Men, But Some of Us Are Brave, Gloria T. Hull, Patricia Bell
Scott e Barbara Smith (a cura di), (New York, The Feminist Press, 1982). Cfr. in particolare
l’ormai ben noto saggio di Barbara Smith, Toward a Black Feminist Criticism, pp. 157-175. Nel
1983, sempre a cura di Barbara Smith, esce una terza antologia di scritti di femministe nere
dal titolo Home Girls: a Black Feminist Anthology (New York, Kitchen Table/Women of
Color Press, 1983; seconda edizione, New Brunswick, Rutgers University Press, 2000). In
tutte e tre le raccolte di saggi viene significativamente pubblicata l’importante dichiarazione
A Black Feminist Statement, datata 1977, del collettivo femminista nero Combahee River (vedi
alle pp. 210-218 di This Bridge Called My Back, seconda edizione), che già allora individuava
la specifica situazione delle donne nere in questi termini: «Noi crediamo che, sotto il
patriarcato, le politiche sessuali siano tanto pervasive nelle vite delle donne nere quanto lo
sono le politiche della classe e della razza. Troviamo spesso difficile anche separare
l’oppressione razziale da quella di classe e di sesso perché nelle nostre vite esse sono di
frequente vissute simultaneamente. Sappiamo che esiste una cosa come l’oppressione
razziale-sessuale che non è né unicamente razziale, né unicamente sessuale...» (p. 213).
Queste antologie aprono ad un’autentica metamorfosi nell’orientamento della teoria femmi-
nista, bianca, occidentale e dominante, e costituiscono uno spartiacque verso una nuova e
composita fase del pensiero femminista durante la quale quest’ultimo si “etnicizza” e cerca di
de-colonializzarsi, durante la quale alla teoria smithiana della contemporaneità e reciprocità
delle oppressioni si salda, a farle da controparte, quella della contemporaneità e reciprocità
delle differenze.

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32 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

E le lesbiche di Go Fish (Go Fish – Segui il pesce, Rose Troche, Usa 1994,
83’), dicono sempre qui la loro oppressione (diversa tanto da quella subita
dalle donne eterosessuali quanto da quella sperimentata dagli uomini omo-
sessuali), ma lo fanno rintracciando la propria specificità nel punto esatto in
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cui l’orientamento sessuale «influenza l’esperienza» del genere sessuale, allo


stesso modo in cui l’esperienza del genere sessuale influenza il proprio
orientamento sessuale.
Ne viene fuori un nuovo soggetto femminista, che pur non prescin-
31
dendo mai dal genere in quanto componente fondante la soggettività ,
«occupa posizioni molteplici, distribuite su vari assi di differenza», un
soggetto che de Lauretis definisce eccentrico perché implica una dissocia-
zione, una dis-locazione, un «punto di vista eccentrico» all’intero sistema
sociale, politico, economico e concettuale oppressivo, che è «altresı̀ un
dislocamento del proprio modo di pensare», che è uno spostarsi da «un
posto che è sicuro» per andare in un «altro posto, sconosciuto, in cui si è
32
non solo affettivamente ma anche concettualmente a rischio» . Un sog-
getto che programmaticamente va altrove, direbbe bell hooks, che instanca-
bilmente «si allontana dalla propria posizione», che «è tante posizioni», che
abita uno «spazio che rende possibili e favorisce prospettive diverse e in
continuo cambiamento, uno spazio in cui si scoprono nuovi modi di vedere
33
la realtà, le frontiere della differenza» . Differenza da cui bisogna partire e
che non si deve e non si può dimenticare strada facendo – quando la
diversità non è più solo di genere ma è più profondamente «differenza
sessuale» intesa come «asimmetria femminile nell’ordine simbolico fallocen-
34
trico» , quando la differenza sessuale continua instancabilmente a viaggiare
attraverso i mutevoli e accidentati territori delle differenze tra le donne – se la
meta a cui tendere è una soggettività femminile che possa manifestarsi in
tutta la sua complessità, in tutti gli snodi che la attraversano, nell’insieme
delle sue contraddizioni, nella rete delle sue molteplici relazioni storiche e
sociali.

31
Cfr. quanto afferma Ida Dominijanni in Il desiderio di politica: «Nessuna politica delle
donne può fare a meno del radicamento nel genere, perché è come genere oggettivato, e
non come soggetti singolari pensanti e attivi, che le donne sono previste nell’ordine
simbolico: la rivoluzione femminile non può non partire da qui»; in Luisa Muraro e Liliana
Rampello (a cura di), Lia Cigarini. La politica del desiderio, Parma, Pratiche, 1995, p. 24.
32
Teresa de Lauretis, Soggetti eccentrici, in Id., Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli, 1999, in
particolare alle pp. 46-55.
33
bell hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Milano, Feltrinelli 1998, p.
66.
34
Ida Dominijanni, Il desiderio di politica, cit., p. 26.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 33

È su questa soggettività riscoperta che deve costruirsi il cinema delle


donne; suoi sono i desideri che ne costituiscono le declinazioni, sue sono le
discordanti caratteristiche che per la prima volta vi trovano visibilità, ed è
per questo che
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la pratica cinematografica femminista non può più venire intesa semplice-


mente in base all’efficacia di un sistema di rappresentazione, ma piuttosto
come una produzione di soggetti che si muovono all’interno di pratiche
sociali, le quali implicano sempre posizioni ideologiche eterogenee e
spesso contraddittorie. In altri termini, la pratica cinematografica femmini-
sta è determinata dalla congiuntura di pratiche discorsive, economiche e
politiche che producono soggetti storici35.

Orlando nel film omonimo di Sally Potter (Orlando, Gb 1992, 92’,


Orlando: Tilda Swinton), dopo aver viaggiato per circa due secoli nelle
vesti di uomo, arriva nel XVIII secolo trasformato in donna, senza che – lo
dice lei stessa – nient’altro, a parte il sesso, sia mutato e senza che nulla di
ciò che possedeva le sia stato tolto, nonostante il cambiamento di genere.
Eppure da donna Orlando, nel XIX secolo, subirà la confisca delle sue
legittime proprietà per aver partorito una figlia femmina: e qui lo stato
sociale della donna e i rapporti economici si intrecciano alla differenza di
genere a dire che l’oppressione si gioca su «vari assi di differenza». Ap-
punto. E che insieme al genere qualcosa è mutato. Eccome.
Eppure, inaspettatamente, per Orlando l’espropriazione delle proprietà
si configura come una liberazione sostanziale: quella dall’eredità, ovvero dal
patrimonio culturale maschile, per raggiungere la posizione di soggetto
eccentrico a quel sistema che la voleva non solo oppressa ma anche bendi-
sposta ad esserlo.
Nell’ultima sequenza del film dietro la macchina da presa a filmare
Orlando c’è sua figlia. Una bambina che corre su un prato tenendo in mano
una videocamera, dall’altra parte un viso che sorride, un viso di donna che
non sarà mai più oggetto dello sguardo di un uomo... un viso di donna
finalmente guardato da un’altra donna. Un viso di una madre guardato da
sua figlia.
Ma siamo solo all’inizio. La lista è aperta: non resta che continuare ad
aggiungere.

35
Claire Johnston, The Subject of Feminist Film. Theory/Practice, «Screen», vol. 21, n. 2,
estate 1980, p. 30, citato in Teresa de Lauretis, Sui generis, cit., p. 89 n 63.

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34 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

La voce di lei

Fuori dal volume già circoscritto dal significato articolato nel


discorso (del padre) nulla è: l’adonna. Zona di silenzio.
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Luce Irigaray, Questo sesso che non e` un sesso

Madre slega la mia lingua o ornami


di un fardello più leggero.

Audre Lorde, Call, (da Our Dead Behind Us, 1986)

Nel gennaio del 1973 al Royal Court Theatre di Londra viene messa in
scena per la prima volta una pie`ce teatrale di Samuel Beckett significativa-
mente intitolata Non io. Davanti agli occhi degli spettatori, su un palcosce-
nico buio e spoglio, c’è soltanto una bocca, bocca di donna monologante in
terza persona, labbra che liberano un flusso interminabile di parole rimaste
a lungo impigliate e che ora suonano irriconoscibili, dolorose e sconnesse.
E Bocca, appunto, è il nome anonimo della protagonista senza corpo e
senza volto, una lei che non è una donna specifica ma una donna qualsiasi
«che cerca di uscire fuori» con la sua voce, «lei che solo un attimo prima...
ma solo un attimo!... non poteva emettere un suono... nessun suono di
36
nessun genere... ora non può fermarsi...» . «Bocca residua, degna dei ritratti
37
gommosi e distorti di Francis Bacon», la definisce Angelo Maria Ripellino
dopo la prima rappresentazione italiana, il cui corpo «ridotto al solo orifizio
boccale» non è più nient’altro che fessura, apertura, ferita, taglio, nient’altro
che un sesso femminile che rantola frenetiche parole inudibili, impronun-
ciabili, indicibili. E non ci sembra un caso, dunque, che il sesso femminile di
cui parla Luce Irigaray – questo sesso che non è un sesso – queste labbra
della vagina che si toccano in continuazione «senza che peraltro glielo si
38
possa proibire» , che non possono separarsi neanche per «dire una sola
39
parola» , abbiano le stesse specificità della bocca, perché «anche nel suo
dire molteplice – almeno quando osa – la donna si ri-tocca in continuazio-
40
ne» . Impossibile parlare bene a queste condizioni, impossibile parlare

36
Samuel Beckett, Non io, in Id., Teatro completo, Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, p. 435.
37
Angelo Maria Ripellino, «Espresso», I aprile 1973.
38
Luce Irigaray, Questo sesso che non e` un sesso, in Id., Questo sesso che non e` un sesso, cit., p.
18.
39
Luce Irigaray, Quando le nostre labbra si parlano, ivi, p. 173.
40
Luce Irigaray, Questo sesso che non e` un sesso, cit., p. 22.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 35

giusto, impossibile parlare vero: le uniche parole possibili sono «parole


contraddittorie, un po’ folli per la logica della ragione, inudibili da chi le
ascolta con degli schemi già fatti, un codice tutto pronto». Come quelle di
Bocca.
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Oggi quella bocca che aveva sconvolto i teatri riempie uno schermo
cinematografico per quattordici “sgradevoli” minuti nella versione filmica di
Non io (Not I, Irlanda/Regno Unito 2000, 13’ 54’’, 35 mm, colore) diretta da
Neil Jordan (c’è stata anche una celebre versione televisiva di Not I diretta
nel 1977 da Anthony Page e interpretata da Billie Whitelaw), e Bocca
(Julianne Moore) si ostina ancora a parlare di se stessa in terza persona, con
voce disincarnata eppure aggressiva e dissonante, le cui modulazioni toc-
cano tutte le sfumature della rabbia, della disperazione, del riso isterico e
volgare, dell’atto d’accusa, della maledizione, della follia; e le labbra sono
sempre imbambolate in uno scioglilingua ininterrotto di cui si possono solo
intuire brandelli di senso e le frasi dette senza riprendere fiato suonano più
stranianti che mai, e la macchina da presa si incolla a una bocca che
diventa sempre più sottile e lascia scoperti i denti e poi la lingua, e la saliva
si impasta insieme alle parole cariche di incertezze, di amnesie, di dubbi,
dello sgomento di sentire un «ronzio» che è la sua voce, dello smarrimento
di sentire «le sue labbra muoversi». «Cosa?... chi?... no!... lei!... si rese conto...
che le parole stavano... figurarsi!... le parole stavano arrivando... una voce
che lei non riconobbe... lı̀ per lı̀... era tanto tempo che non la sentiva... poi
alla fine dovette ammettere... che non poteva essere... che la sua stessa
voce... (...) e ora questo fiume... fiume continuo... lei che non aveva mai... al
41
contrario... praticamente muta...» .
Qui l’immagine di una «bocca residua» che si vuole unita a forza ad un
suono che non sa riconoscere, l’immagine di una voce “rotta” associata ad
un corpo-in-frammenti – che in Beckett è radicale messa in questione del
linguaggio come strumento del comunicare e definitiva raffigurazione del
disfacimento del corpo come veicolo di un’esistenza umana assurda e priva
di senso (e qui si pensi ancora a Francis Bacon e ai suoi corpi deformi e
violentati) – dice la sorte della voce della donna nel cinema dominante.
Qui, ancora, il senso di estraneità della donna alla propria voce, l’insistenza
sull’immagine della bocca femminile che emette quel suono dissonante e
dolente, la sincronizzazione di quella voce su quell’unico “pezzo” di corpo
alienato e alterato, dice la completa illusione di una “unità perfetta” tra voce
femminile e corpo femminile che il cinema dominante ha ottenuto a

41
Samuel Beckett, Non io, cit., p. 434.

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36 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

scapito dell’impotenza discorsiva della donna. Ancora di più, la voce


femminile è terreno di esplicitazione di un’alienazione dal significato, di una
mancanza discorsiva che spinge inevitabilmente in direzione di una man-
canza sessuale (eccoci di nuovo a stabilire un’equazione tra la voce della
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42
donna e la sua vagina), quindi, in ultima istanza, della differenza sessuale .
Perché questa estrema separazione della parola dal suo significato,
questa radicale scissione tra quella che Roland Barthes chiama la «grana
della voce» e il suo senso, rimanda immediatamente a un’altra divisione
definitiva nella storia del soggetto: la differenziazione tra i sessi. Ancora, e
più specificamente, è la rappresentazione letterale della scena infantile della
perdita – scena della castrazione, indotta nel soggetto dallo stadio dello
specchio, che spinge il maschio a proteggere il suo preziosissimo pene
messo in pericolo dalla scoperta che lei non ce l’ha e sicuramente vuole
rubarglielo. Allora, in quella bocca femminile divenuta irrimediabilmente un
feticcio sul quale dislocare l’intollerabile idea della perdita – del suono dal
significato, del pene dal suo legittimo proprietario – si può leggere in
controluce la storia dell’esclusione di tutte le Bocche – che è come dire
Donne – dall’unica «scena inventata per chi ascolta», scena del linguaggio,
dell’ordine simbolico, del discorso, della rappresentazione maschili; meglio,
l’impossibilità di accedere allo stadio dello specchio, all’identificazione con
la propria immagine speculare e alla conseguente rappresentazione di
un’autonoma immagine speculare, che è precondizione essenziale di ogni
futura identificazione con gli altri e, dunque, come vuole Jacques Lacan,
43
della formazione della funzione dell’io .
La Storia a questo proposito è nota e non lascia spazio ad equivoci. La

42
Cfr. Kaja Silverman, The Acoustic Mirror. The Female Voice in Psichoanalysis and Cinema,
Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 1988, in particolare al secondo ca-
pitolo, Body Talk, pp. 42-71. Silverman partendo da un paragone istituito da Michel Chion
(La voce nel cinema, Parma, Pratiche, 1991, p. 44) tra la rivelazione dell’immagine cinemato-
grafica della bocca che emette la voce e lo strip-tease – il «limite estremo» dello spogliarello
essendo il sesso femminile e il «limite estremo» dell’unificazione di un suono e della sua
fonte essendo «la bocca da cui esce la voce» – sostiene che Chion implicitamente suggerisca
che installare la voce filmica all’interno di un corpo filmico significa femminilizzarla. A
dimostrazione di ciò, Silverman fa notare che nel cinema dominante il soggetto femminile è
molto più strettamente connesso di quello maschile all’unità di suono e immagine, e
«conseguentemente alla rappresentazione della mancanza». Al contrario, il soggetto ma-
schile parla sempre e comunque da un «inaccessibile punto d’osservazione» che gli allontana
indefinitamente lo spettro della mancanza.
43
Cfr. Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io, in Id.,
Scritti (volume primo), Torino, Einaudi, 1974, pp. 87-94.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 37

bambina che si guarda allo specchio scopre che lo specchio «non presenta
niente alla vista», solo un buco, un vuoto, una mancanza di, un’assenza di.

...Nel caso di lei si tratta semplicemente (si fa per dire) di costatare un fatto
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o un “destino biologico”: la sua castrazione è “un fatto compiuto”. Tale


“castrazione realizzata”, che Freud attribuisce alla “natura”, all’“anatomia”,
può essere interpretata anche, anzi meglio, come il divieto fatto alla donna
– almeno in questa storia – d’immaginare, figurar(si), rappresentar(si),
simbolizzare ecc. (nessuno di questi termini è appropriato perché ci
vengono da un discorso che c’entra con quella impossibilità e quel divieto)
il rapporto con la sua origine. La castrazione femminile equivale all’impos-
sibilità e al divieto di costituire un’economia del desiderio (d’)origine
proprio della donna44.

Niente specchio quindi, niente specularizzazione, niente identificazione,


nessuna rappresentazione del desiderio, e, se si vogliano trarre le estreme
conseguenze, stando a quanto dice Lacan, niente formazione dell’io. A
meno che lei non si faccia, per dirlo con Irigaray, (u)omosessualizzare,
tra(n)vestire, cioè convertire «ad un discorso che rinnega la specificità del
suo piacere, che lo iscrive, magari censurato, in negativo, al rovescio delle
45
manifestazioni falliche» . E si accontenti cosı̀ di interpretare il ruolo che le
è stato assegnato da sempre: quello di una castrata che “doppia” il linguag-
gio dell’uomo e nel farlo si consegna ai pensieri e alle «interpretazioni di
46
altri», quello di una «esperienza umana» segnata dalla mancanza che
ripete il «discorso del medesimo» e nel ripeterlo lo rafforza e nel rafforzarlo
accresce la propria condizione di subordinazione sociale.
Eppure se, come sostiene Foucault, il discorso non solo traduce il

44
Luce Irigaray, I postumi della castrazione, in Id., Speculum. L’altra donna, Milano, Feltri-
nelli, 1975, terza edizione Universale Economica Feltrinelli, 1998, p. 78. Nel caso di lui,
invece, i postumi della castrazione della madre hanno ben altre conseguenze. «Si tratta
semplicemente (si fa per dire)» di rifiutarsi di credere ai propri occhi, in modo che,
rinnegando la mancanza del pene nella donna, ci si possa sottrarre all’angoscia della propria
castrazione. Ma, in alcuni casi, il bambino, nel disconoscere l’evirazione della madre, mette
«qualcosa d’altro» al posto del pene della donna. Questo «sostituto del fallo della donna
(della madre)» (Freud) è il feticcio. «Il feticcio è il segno di una vittoria trionfante sulla
minaccia di evirazione e una protezione contro quella minaccia», cfr. Sigmund Freud,
Feticismo (1927), in Stefano Mistura (a cura di), Figure del feticismo, Torino, Einaudi, 2001, pp.
24-25.
45
Luce Irigaray, Ogni teoria del “soggetto”, in Id., Speculum, cit., p. 136.
46
Cfr. Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Torino, Rosenberg &
Sellier, 1987, p. 49.

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38 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

potere ma e` il potere che si cerca di acquistare ad ogni costo, allora la


donna non semplicemente si trova in una situazione di impotenza coatta
ma forse, più profondamente, organizza la propria “sopravvivenza” e gesti-
sce la sua sfera di autonomia e la sua soggettività al di fuori delle “forme” di
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sviluppo eminentemente maschili di «affermazione, potere, competizio-


47
ne» . Cioè, non si pensa e non si pone in termini maschili ma si posiziona
in un luogo altro, in un altro luogo, in cui coltiva e «raccoglie le doti
femminili di sempre: attenzione all’altro, sensibilità al dialogo, tattilità,
48
custodia dell’amore» . Da qui traccia percorsi di significazione differenti e
inventa soluzioni alternative. Da qui, si apre brecce all’interno del discorso
dominante e getta le basi per un rovesciamento di segno che significa
rendere disponibile e positivo uno spazio che è sempre stato indisponibile e
negativo. Significa ri-attraversare la propria impotenza discorsiva e trasfor-
marla in capacità discorsiva. Significa muovere dalle anomalie, dalle incri-
nature, dalle rotture, dagli spazi vuoti, dalle pause, dal silenzio, dal muti-
smo, dal grido inarticolato, dagli sfasamenti del senso, dalle parole
inascoltabili e incoerenti, dalle contraddizioni, dalle antinomie, dal non-
detto... e farli parlare donna, parlare altro, parlare da “altrove”. Si tratta, con
Luce Irigaray, di «...mettere ogni significato sotto sopra, dietro davanti, alto
basso. Scuoterlo radicalmente, riportandovi, reintroducendovi quelle convul-
sioni che il suo “corpo” patisce impotente com’è a dire ciò che lo agita.
Insistere inoltre e deliberatamente su quei vuoti del discorso che ricordano i
luoghi della sua esclusione... Riscriverli come scarti altrimenti e altrove dalle
aspettative, in ellissi ed eclissi che disfano gli schemi logici del lettore-
49
scrittore... Sconvolgere la sintassi...» .

47
Lea Melandri, L’infamia originaria, in Id., L’infamia originaria. Facciamola finita col cuore e
la politica, Roma, manifestolibri, 1997, p. 22 (pubblicato per la prima volta in «L’Erba
Voglio», n. 20, marzo-aprile 1975). Melandri insiste sul fatto che «la sopravvivenza continua
a porsi per la donna, anche nell’età adulta, nella sua forma originaria: bisogno di essere
nutrita-bisogno di nutrire, bisogno di essere amata-bisogno di dare amore... La sopravvi-
venza, come si presenta nell’esperienza quotidiana delle donne, è come se non avesse tempo
né storia. Punto di arrivo e di partenza resta quello di origine, una fissità e immobilità che
provocano la paralisi o la mutilazione del “fare”», pp. 22-23.
48
Lea Melandri, Le passioni del corpo. Le vicenda dei sessi tra origine e storia, Torino, Bollati
Boringhieri, 2001, p. 115.
49
Luce Irigaray, Ogni teoria del “soggetto”, cit., p. 137. E le fa eco Hélène Cixous nell’ormai
storico saggio Le rire de la Me´duse, «L’Arc», n. 6, 1975, pp. 39-54, tr. it. Il riso della Medusa, in
Raffaella Baccolini, M. Giulia Fabi, Vita Fortunati, Rita Monticelli (a cura di), Critiche
femministe e teorie letterarie, cit., pp. 221-245, quando afferma: «Un testo femminile non può
che essere più che sovversivo: se si scrive, lo fa sollevando, vulcanico, la vecchia crosta
immobiliare, portatrice degli investimenti maschili, e non altrimenti; non c’è posto per lei se

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 39

E partire da questa decolonizzazione della lingua dominante per co-


minciare a farsi ascoltare. E muovere dai luoghi del potere solo per
evidenziare quello spazio che è stato usurpato, che resta ai margini, che è
tagliato fuori, che non è visibile a occhio nudo, ma in cui si parla già donna.
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Allora, anche al cinema si può partire dalla voce femminilizzata, una


voce che di donna non è ma che è installata sull’immagine di un corpo di
donna, una voce creata di proposito per suggerire l’unità fittizia della voce e
del corpo filmico femminili e che proprio per questo incontra invece la loro
divisione, la loro separazione. Una voce che ricalca l’unità fittizia del suono
e del senso, che si vorrebbero omogenei, armoniosi, integra(ti), e che
proprio per questo risultano invece incoerenti, disarmonici, non integra(ti).
Definitivamente scissi.
Bisogna partire da questa voce, dicevamo, e de-femminilizzarla, e
sottolinearne le disomogeneità, le insufficienze e indicare le divisioni, le
rotture che la abitano.
In un saggio del 1975 intitolato I silenzi della voce, Pascal Bonitzer già
indicava la strada da percorrere dando per acquisite quelle ardite sperimen-
tazioni sul sonoro (Godard, Bresson, Straub, Duras...), quelle «lacerazioni»
dell’«effetto di dominio della voce» (soprattutto quella off ) ottenute sle-
gando la voce dall’immagine, il suono dal senso, che erano state il segno
della “ribellione” del cinema moderno contro il cinema “classico”. «Comin-
ciare a definire un’altra politica (o erotica) della voce», vuol dire ripartire
proprio dalla scissione tra suono e significato non per rafforzarla ma per
decolonizzare la voce, vuol dire abitare il silenzio e il mutismo tanto
familiari alle donne – come nel caso di Nathalie Granger (Marguerite Duras,
Francia 1972, 83’) –, non per accrescere «il potere della parola che appar-
tiene agli uomini» ma per congelarlo, immobilizzarlo, sospenderlo e «rendere
la voce al lapsus, al disordine, alla libertà dell’inconscio – rendere la voce alle
50
donne...» .
E non ci sembra un caso, a questo punto, verificare una coincidenza tra
quanto scriveva Bonitzer nel 1975 e quanto asseriva poi Daney nel 1991: un
cinema moderno, “adulto”, postcoloniale, finalmente libero da un oppri-
mente regime di dominio, è necessariamente e inevitabilmente un cinema
«aperto al femminile», un cinema che ha restituito «la voce alle donne».

lei non è un lui? Se lei è lei-lei, l’unica cosa da fare è rompere tutto, fare a pezzi gli edifici
delle istituzioni, far saltare in aria la legge, torcere la ‘verità’ dalle risa», pp. 237-238.
50
Pascal Bonitzer, Les silences de la voix, «Cahiers du Cinéma», n. 256, febbraio-marzo
1975, pp. 22, 33, in particolare alle pagine 31-32.

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40 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Quella voce filmica che, con Silverman, associata per troppo tempo a una
bocca che funzionava da porta d’accesso alla soggettività della donna
(ovviamente insieme alla vagina), era relegata a designare non solo l’interio-
rità psicologica ma diegetica e, dunque, era confinata all’interno della
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51
storia , mentre la sua essenza restava ai margini della storia, mentre
bisognava cercarla all’esterno, nel fuori campo dell’inquadratura, in «ciò che
52
la rappresentazione esclude, o meglio rende irrappresentabile» .
Allora un cinema delle donne deve insistere sullo spazio invisibile
nell’inquadratura, deve rivelare ciò che l’inquadratura “piena” e “centrata”
nasconde, ciò che la eccede, ciò che non resta imprigionato nei suoi stretti
limiti, deve rendere «visibile, sottolineandone l’assenza nell’inquadratura o
nel succedersi delle inquadrature», quel fuori campo che «esiste simultanea-
53
mente e parallelamente allo spazio rappresentato» , deve rendere palpabile,
udibile, riconoscibile, sottolineandone l’estromissione dalla posizione del
potere discorsivo nella diegesi filmica tradizionale, quella voce esclusa,
marginale che esiste contemporaneamente e simmetricamente alla voce
assicurata all’interno della narrazione. E restituire cosı̀ la voce alle donne.
Ancora, e soprattutto, le cineaste femministe devono operare un disloca-
mento della voce femminile dall’immagine del corpo femminile, devono
mostrare che stabilire strette connessioni tra il suono e l’immagine non è
che una trappola, «uno dei mezzi attraverso i quali il soggetto femminile
può essere fatto emergere all’interno di un discorso contrario ai suoi
54
desideri, e sottomesso almeno temporaneamente a un’identità fissata» –
uno dei mezzi del cinema dominante per ridurre al silenzio la donna. E qui,
come fa notare Kaja Silverman, la nozione di linguaggio proposta da Luce
Irigaray risulta largamente inapplicabile al cinema delle donne, laddove la
rappresentazione di una voce e di un corpo femminili cosı̀ inevitabilmente
vicini come le due labbra della vagina, ancora più stretti in un abbraccio di
quelli raccontati dal cinema dominante, nel cinema femminista determine-
rebbe il rafforzamento del discorso maschile e l’ulteriore depotenziamento
di quello femminile. Ed è per questo che molte cineaste «hanno escogitato
modi di frantumare la diegesi cosı̀ da rendere impossibile dire se una
specifica voce sia “dentro” o “fuori”, o hanno talmente moltiplicato e reso
dissonanti le voci da rendere problematica la loro assegnazione corporea.

51
Kaja Silverman, The Acoustic Mirror, cit., p. 67.
52
Teresa de Lauretis, La tecnologia del genere, cit., p. 163.
53
Ivi, p. 162.
54
Kaja Silverman, Disembodying the Female Voice, in The Acoustic Mirror, cit., p. 167.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 41

Altre hanno assegnato alla voce femminile un posto invisibile all’interno


55
della fiction, o l’hanno distaccata completamente dalla diegesi» .
Eccole le strategie eretiche di un «nuovo linguaggio del desiderio»,
ecco, parafrasando Johnston, il desiderio al lavoro, detto a chiare note con
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parole di donna. Con un linguaggio che si può elaborare solo se si occupa


quella posizione «liminale» – Trinh T. Minh-ha, donna asiatico-americana,
la chiama «esistenza intermedia» – che consente di conoscere a fondo sia il
dentro che il fuori, sia il centro che il margine, che rende un fatto vitale e
creativo non cessare mai di oltrepassare i confini che li separano «introdu-
cendo», cosı̀, «la differenza nella ripetizione», «dissipando quello che è
56
diventato cliche´ e partecipando al cambiamento di luoghi comuni» . Ne
viene fuori un «contro-linguaggio» – il termine è di bell hooks, donna
afroamericana – che è anche un linguaggio contro (perché continua hooks
«il linguaggio è anche un luogo di lotta», «la lingua è anche un luogo di
scontro»), che si può inventare solo quando il margine in cui si era rinchiusi
per imposizione si percorre per calcolata scelta, si converte in «luogo di
radicale possibilità», «spazio di resistenza», «luogo di creatività e potere»
(«Voglio affermare che questi margini sono stati luoghi di repressione, ma
anche di resistenza»57).

55
Ivi, p. 165.
56
Trinh T. Minh-ha, Horizontal Vertigo: The Politics of Identity and Difference, intervento al
convegno internazionale Teorie del femminismo made in USA, tenutosi a Bologna nel 1992; [tr.
it. Vertigine orizzontale: la politica dell’identità e della differenza, in Raffaella Baccolini, M.
Giulia Fabi, Vita Fortunati, Rita Monticelli (a cura di), Critiche femministe e teorie letterarie, cit.,
p. 190]. Min-ha argomenta che, oggi, l’«esperienza di dislocamento» che accomuna gli
stranieri della diaspora (in particolar modo le donne), sempre in «bilico tra due mondi»,
sempre alle prese con la difficoltà di «parlare da un luogo chiaramente definito», è
condizione essenziale della lotta. Perché «le persone dominate e marginalizzate sono state
educate a vedere sempre oltre il loro punto di vista. Nella realtà complessa del femminismo,
del postcolonialismo, e delle realtà liminali è quindi vitale affermare la propria radicale
‘impurità’, e riconoscere... la necessità di parlare da un luogo ibrido per dire sempre almeno
due o tre cose contemporaneamente», p. 201.
57
bell hooks, Elogio del margine, cit., pp. 68-72. hooks elabora la sua originale concezione
della marginalità proprio a partire dagli stessi presupposti di Trinh Minh-ha (entrambe nella
stessa condizione di straniere naturalizzate in America): la compenetrazione tra margine e
centro, la cognizione esatta, da parte di chi sia stato colonizzato, sia del margine che del
centro. «Essere nel margine significa appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale.
Per noi, americani neri, abitanti di una piccola città del Kentucky, i binari della ferrovia sono
stati il segno tangibile e quotidiano della nostra marginalità. Al di là di quei binari c’erano
strade asfaltate, negozi in cui non potevamo entrare, ristoranti in cui non potevamo
mangiare e persone che non potevamo guardare dritto in faccia.... Ci era concesso di
accedere a quel mondo, ma non di viverci. Ogni sera dovevamo fare ritorno al margine... Vi-
vendo in questo modo – all’estremità –, abbiamo sviluppato uno sguardo particolare sul

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42 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

“Ricalcare” i margini per farsi strategicamente spazio nell’inquadratura,


per far arrivare la voce dove è finalmente possibile sentirla. Elaborare nuovi
codici e nuove tecniche “su” quelli presi a prestito. Decostruire il linguaggio
dell’oppressione e rovesciarlo in voce di opposizione: la voce incarnata si
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disincarna, scivola di corpo femminile in corpo femminile, cambia voce,


cambia intonazione, cambia testura, cambia “grana”, la voce off non “torna”
immediatamente alla sua fonte, l’onnisciente e trascendente voce over passa
sulla bocca invisibile (stavolta) di una donna...
La differenza che passa, ad esempio, tra Julia e Romance.
La storia di Julia (Giulia nella versione italiana del film) non appartiene
a Julia stessa ma è affidata alla memoria di Lillian, che, ormai vecchia, cerca
di ricostruire, attraverso il ricordo dell’amica, la propria storia, i «ripensa-
menti» che l’hanno portata ad essere quello che è ora, nel presente della
visione. Memoria strettamente soggettiva, dunque, che strappa le parole di
bocca a Julia e si appropria dei suoi ricordi, e che, sul piano dell’enuncia-
zione, si manifesta tramite la voce over di Lillian che apre, come suggerisce
Kuhn, a una memoria nella memoria che costituisce il passato del film, i
flashback che ritornano al tempo in cui Julia era ancora viva e Lillian era
ancora giovane. Il tempo del nazismo e della lotta contro il nazismo, il
tempo delle persecuzioni degli ebrei e della militanza nella Resistenza, il
tempo del terrore e del coraggio, il tempo dell’amicizia, della solidarietà,
del sostegno, dell’amore.
Ma qui, in un film sulle donne, apparentemente dominato dalle parole
delle donne, dai sentimenti e dagli affetti delle donne, l’usurpazione della
voce femminile si gioca invece su un duplice livello, perché non solo Julia
viene privata delle parole con le quali descriversi in prima persona (persino
in alcune sequenze in cui vediamo insieme sullo schermo Julia e Lillian – la
notte di capodanno allo chalet davanti al camino, la visita di Lillian al
college di Oxford dove studia Julia... –, la voce over di quest’ultima continua
a parlare per Julia, descrivendola e raccontandola cosı̀ come la vede lei e
come dovremmo vederla noi), ma alla voce over di Lillian stessa vengono
sottratti tutti gli attributi del potere discorsivo e della superiore conoscenza
normalmente concessi a una voce over maschile, non separandola mai
completamente dalla sua immagine corporea, che è sempre lı̀ ad incarnare

mondo. Guardando dall’esterno verso l’interno e viceversa, abbiamo concentrato la nostra


attenzione tanto sul centro quanto sul margine. Li capivamo entrambi. Questo modo di
osservare ci impediva di dimenticare che l’universo è una cosa sola, un corpo unico fatto di
margine e centro...», pp. 67-68.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 43

il sito di quella voce, a ricordare che la voce dall’alto proviene da quel


corpo da femme fatale che ancora attraversa gli schermi trenta anni dopo la
sua età dell’oro nella vecchia Hollywood. La Nuova Hollywood si limita a
rielaborare le operazioni testuali del cinema dominante ma senza cambiarle
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di segno, tanto che la voce over femminile, sebbene sia diventata meno
rara, continua ad essere di carattere strettamente «autobiografico» e a
suggerire sottilmente che il soggetto che parla è presenza corporea centrale
58
e imprescindibile all’interno del film .
E poi c’è il gioco di Julia e di Lillian, passatempo di bambine e poi di
adolescenti e poi di donne, non a caso gioco di parole, di costruzione di
parole, come un lego, un incastro di pezzi che da soli non si bastano; la
frase mutila di una completa, ma solo per un attimo, quella dell’altra, e poi
è subito pronta un’altra “piccola” frase, e poi un’altra e un’altra ancora... E
qui il gioco è solo superficialmente “innocente”, perché sta a dire, ci
sembra, che senza le parole di Julia Lillian è incompleta, e che senza le
parole di Lillian Julia non può terminare una frase. Dice che dove finisce
l’insufficienza delle parole dell’una comincia l’incompiutezza delle parole
dell’altra, dice che tutte queste parole di donna non ce la fanno a costruire
una storia, e soprattutto non ce la fanno a esaurirla, a concluderla. Restano
frasi spezzate, che lasciano il discorso aperto, frammentario, irrisolto. Re-
stano frasi ambigue che ri-gettano nell’impotenza quella voce femminile
proveniente dall’alto che forse “sapeva troppo”.
Diversa la voce over di Romance, lucida voce di donna, che sı̀ – è vero – ha
un’immagine corporea che le corrisponde all’interno del film, ma che è luogo
marcatamente altro rispetto a quello della diegesi, che si spinge ben oltre i
dialoghi convenzionali tra i personaggi, oltre le parole stesse di Marie, che
appartengono a un altro mondo, quello in cui non si può che parlare con
quelle parole, ma in cui quelle parole non bastano a dire quello che succede
dentro, quello che scuote, quello che fa soffrire, quello che turba, quello che
emoziona. Non bastano a Marie per spiegare a Paul (Sagamore Stévenin), il
suo uomo, il dolore del rifiuto che la disonora («Di un uomo che scopa una
donna si dice che l’onora. È un’espressione da tenere in considerazione
perché è proprio cosı̀. Paul mi disonora»), la «truffa occulta» di cui si sente
vittima; non le bastano per dire a Paolo (Rocco Siffredi), il primo amante
occasionale con cui tradirà Paul, di voler essere solo «un buco, una voragine»
che è a tal punto «tutt’uno con la sua intimità» che annulla la fisicità in «pura
metafisica»; e ancora sono impotenti e inutili di fronte a quella rigorosa e

58
Cfr. Kaja Silverman, Disembodying the Female Voice, cit., p. 165.

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44 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

accurata messa in scena delle fantasie sessuali, a quel rito di iniziazione al


piacere puro che è il rapporto sadomasochistico con Robert (François
Berléand), il grande maestro delle cerimonie.
Ecco allora che la voce interiore, quella voce over che sa tutto ciò che
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Marie vorrebbe dire, supplisce al vuoto delle parole, alla loro intrinseca
mancanza e si fa «luogo senza legge dove tutto si ridistribuisce e dove si
pongono le questioni fondamentali del film: che legame c’è tra la testa e il
sesso, tra il volto e il buco, tra l’animale e lo spirituale? E come rappresentare,
all’interno stesso di questa apertura, ciò che, per essenza, sfugge alla
59
rappresentazione?» .
E qui questa voce interiore che traduce i movimenti della mente
impossibili a dirsi si incontra con l’aspetto pornografico del film – Romance
nasce per essere un film pornografico –, più precisamente con il tentativo di
ogni film pornografico di mostrare ciò che, per essenza, si sottrae alla
rappresentazione: il climax del piacere femminile, l’orgasmo della donna.
Ma poi questo aspetto pornografico Romance lo nega apertamente proprio
attraverso la voce over. Perché a ben vedere, l’orgasmo di Marie qui
scompare in maniera direttamente proporzionale all’intensificazione dei
suoi rapporti sessuali («Io scompaio proporzionalmente all’uccello che
vuole penetrarmi»), perché in Romance il sesso è un fatto solo interiore
(come la voce) e più Marie si lascia andare alla pura meccanica del sesso
fine a se stesso, più comincia a staccarsi da sé, a guardarsi dall’esterno, a
osservarsi mentre fa l’amore, a perdere contatto con il suo corpo. La sua
voce over, durante i preliminari in macchina con Paolo, dice: «è come se
fossi un’altra e mi guardassi mentre mi abbandono...». Dunque niente
romance – il titolo non è che un iniziale de´tournement –, perché Marie non
ha tempo per i sentimenti, non ha tempo per la tenerezza, non ha tempo
per l’amore cortese, quello incentrato sulla retorica della parola parlata.
Eppure Marie nell’esplorare i limiti del suo essere, nel cercare di superare i
confini del suo corpo, di misurarsi con la propria vergogna, di confrontarsi
con tutto ciò che è considerato basso, sporco, sudicio, sconcio, osceno,
indecente, ritrova la sua purezza, la sua verginità, si trasforma da puttana in
“santa”. Ecco perché Catherine Breillat parla di Romance come di un film su
un «rapimento mistico», sul raggiungimento dell’estasi, di un’illuminazione
60
interiore che è una nuova nascita, una rinascita «a se stessa» .

59
Thierry Jousse, Les myste`res de l’organisme, «Cahiers du Cinéma», n. 534, aprile 1999, pp.
40-41.
60
Cfr. Le ravissement de Marie, dialogo tra Catherine Breillat e Claire Denis, «Cahiers du
Cinéma», n. 534, aprile 1999, in particolare alla pagina 43.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 45

Non a caso, questa rinascita avrà come tappa fondamentale il rapporto


sadomasochistico tra Marie e Robert, Marie che è maestra elementare ma è
dislessica, Robert, che solo incidentalmente è il preside della scuola dove
insegna Marie, perché l’unica cosa che insegnerà a Marie è una raffinata
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tecnica del piacere, lui che ha avuto migliaia di donne e le ha rispettosamente


e metodicamente edotte alle infinite pratiche amorose. Con Robert Marie
scoprirà che «il piacere, se esiste» non le può venire «dall’organo preposto a
procurarglielo». Scoprirà che il piacere nasce a partire da se´. Più profonda-
mente imparerà a «gioire del suo corpo immaginario, corpo scolpito
fisicamente ma che rimanda a un insieme di punti di focalizzazione mentale.
È la verità stessa del sadomasochismo che Breillat mette a nudo, il suo
antinaturalismo fondamentale, la sua capacità di inventare un altro corpo, o
61
mucchi di altri corpi, letteralmente senza organi» . Un corpo che trova il
piacere in un oltre rispetto al sesso e rispetto al dolore, ed è lı̀ che, raggiunta
l’estasi, il sesso diventa metafisica pura, pura immaterialità. Ancora. Un corpo
che non ha più nulla di quotidiano perché è stato fatto «passare attraverso una
cerimonia» che lo ha reso «grottesco», meglio, ne ha fatto un «corpo
cerimoniale» che non si affida più agli atteggiamenti ma si riduce alla loro
teatralizzazione, a quello che Deleuze chiama «gestus», «per giungere infine
62
alla scomparsa del corpo visibile» , l’unico che potesse essere profanato.
Solo ora che Marie è ri-generata («a se stessa») può generare: solo ora che
non è più in gabbia riuscirà ad avere un unico amplesso con Paul e rimarrà
incinta. Ma la gravidanza non sarà un’altra trappola per Marie, non la
rinchiuderà per sempre nel ruolo di moglie e di madre che altri hanno
previsto per lei. Prima di andare all’ospedale a partorire Marie telefona a
Robert perché le faccia da officiante nel momento della cerimonia più
importante. Poi apre i rubinetti del gas dell’appartamento di Paul ed esce.
Quando è già lontana Paul salta in aria insieme alla casa (viene in mente Il
matrimonio di Maria Braun di Rainer Werner Fassbinder [Germania, 1978,
120’], le mani di Maria che aprono i rubinetti del gas dopo aver scoperto il
“complotto” di suo marito e del suo amante ai “danni” di lei, che sapeva
gestire la sua vita da sola, che voleva essere l’unica artefice del proprio
avvenire. Poi la morte di Maria e di suo marito nell’esplosione, nella casa che
aveva pensato apposta per loro, che aveva costruito con il suo lavoro, nella
quale avrebbero dovuto vivere finalmente insieme e che, dopo il crollo del

61
Thierry Jousse, Les myste`res de l’organisme, cit., p. 41.
62
Gilles Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989, pp. 211-213. Per la
distinzione deleuziana tra «corpo quotidiano» e «corpo cerimoniale» cfr. le pp. 210-226.

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46 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

suo sogno di felicità coniugale, non aveva più motivo di esistere. Maria, come
tutte le eroine fassbinderiane, viene privata del suo potere di autodetermina-
zione, ma piuttosto che “rafforzare” involontariamente «l’ordine esistente»,
come faceva Effi Briest [Germania, 1974, 141’], preferisce distruggersi, di sua
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volontà, insieme al suo sogno). Adesso il bambino di Marie può nascere: «la
gravidanza fa sı̀ che tutto quello che è successo prima non esista più», dice la
voce over. Il bambino ri-genera la madre63. Il corpo senza organi finalmente
rincontra il corpo reale, la testa non è poi cosı̀ distante dal buco.

Quei segni che arano il corpo di lei

Il mio io interiore è cosı̀ strettamente legato al mio corpo che


entrambi formano un’unità e insieme costituiscono il mio io,
illogico, nervoso, individualistico io.
Ellen West, citato in Ludwig Binswanger, Il caso Ellen West

Corpus meum e interior intimo meo, i due insieme per dire


esattamente, in una configurazione completa della morte di dio,
che la verità del soggetto è la sua esteriorità e la sua eccessività: la
sua esposizione infinita.
Jean-Luc Nancy, L’intruso

Dalla mia carne che è affamata


e dalla mia bocca che sa
proviene la forma che sto cercando
a ragione.
Audre Lorde, On a Night of the Full Moon (da Coal, 1976)

A proposito del corpo senza organi, sulla scorta dei pensieri “disorganici”

63
Cfr. quanto afferma Breillat in Le ravissement de Marie, cit., pp. 43-44. A proposito degli
effetti della maternità sulla donna in Maglia o uncinetto, Roma, manifestolibri, 1998, pp. 148-9
(la prima edizione era del 1981 per Feltrinelli), Luisa Muraro si pone e ci pone una domanda
che qui sembra ineludibile ed essenziale: «Non potrebbe essere che la maternità richiami per
una donna livelli di realtà mai praticati prima e che cambi il suo modo di essere – con una
prepotenza a volte sbalorditiva – perché è quella la situazione in cui lei è socialmente
autorizzata e culturalmente aiutata ad attivare il suo corpo, le sue pulsioni e può esercitare una
parte attiva nei rapporti sociali?». Considerazione, questa, ripresa e ampliata da Muraro dieci
anni dopo in L’ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991 – l’ordine simbolico
femminile da contrapporre a quello maschile, la lingua materna che sovverte l’unico ordine
simbolico operante. In questi due testi, è evidente, Muraro è in costante dialogo con Irigaray e
con la sua teoria di un simbolico femminile alternativo radicato nel rapporto madre-figlia e nel
concetto di «genealogia femminile». Cfr. Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, Milano,
Feltrinelli, 1984.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 47

ma coerenti di Antonin Artaud in perenne lotta con il disgusto per quel


cuore, quel fegato, quello stomaco, quei polmoni... che gli apparivano
davvero troppo, troppo inutili, Deleuze e Guattari scrivono: «il Corpo
senza Organi è il campo d’immanenza del desiderio, il piano di consistenza
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proprio del desiderio (là dove il desiderio si definisce come processo di


produzione, senza referenza a nessuna istanza esterna, mancanza che
64
verrebbe a scavarlo, piacere che verrebbe a colmarlo)» . Dunque sul Corpo
senza Organi si inscrive, si «registra», si imprime «il processo di produzione
del desiderio», desiderio che, a prima vista però, sembrerebbe irraggiungi-
bile, se nel tematizzare questo corpo che nulla ha «a che vedere con il
65
corpo proprio, o con un’immagine del corpo» , sono sempre Deleuze e
Guattari a dirci che «il Corpo senza Organi non lo si raggiunge, non si può
66
raggiungere, non si finisce mai di accedervi, è un limite» . E cosı̀ sia. Del
resto in Romance Marie, l’abbiamo visto, messo da parte quell’organo di
inestimabile valore che avrebbe dovuto procurarle il piacere, il godimento
vero lo ricava solo dal suo corpo immaginario, che qui significa però un
ritorno a sé stessa, per riappropriarsi di una jouissance che non passi sempre
e necessariamente per il corpo di quell’Altro che il piacere lo prova e lo
inventa solo a sua immagine e somiglianza. Per parlare finalmente a nome
del suo desiderio. Per far parlare finalmente il suo desiderio.
Dicevamo di un corpo che parla la lingua del desiderio, degli affetti,
delle intensità ma che resta apparentemente inaccessibile. Esperienza que-
sta, – per inciso – non estranea alla donna che di irraggiungibilità, per non
dire di espropriazione, del proprio desiderio e del proprio corpo, ne sa
qualcosa. Ma qui il discorso vale per tutti: uomini e donne.
Eppure, a ben vedere, questo Corpo senza Organi lo si può raggiungere
a patto che ci si svincoli da quella stratificazione di poteri, da quella
organizzazione gerarchica di sistemi, da quella accumulazione sistematica
di saperi, da quella sedimentazione di forze «sedentarie» che non è nient’al-
tro che l’organismo. Allora «ci rendiamo conto, a poco a poco, che il CsO
non è per nulla il contrario degli organi. I suoi nemici non sono gli organi.
Il nemico è l’organismo. Il CsO non si oppone agli organi ma a questa
67
organizzazione degli organi che si chiama organismo» . Che annienta il

64
Gilles Deleuze, Félix Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, Millepiani, sez. II, Roma,
Castelvecchi, 1996, p. 12.
65
Gilles Deleuze, Félix Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e Schizofrenia, Torino, Einaudi,
1975, p. 10.
66
Gilles Deleuze, Félix Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, cit., p. 5.
67
Ivi, p. 19.

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48 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

desiderio, che toglie al corpo la sua fisicità, la sua vitalità, la sua affettività,
che è lo strumento senza il quale Dio non «potrebbe esercitare il suo
giudizio... Farsi un Corpo senza Organi, trovare un Corpo senza Organi è la
68
maniera di sfuggire al giudizio» . Allora ben venga questo corpo primitivo,
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anarchico, autentico se può servire a liberare le donne da quel giudizio


tessuto a maglia stretta che impedisce loro i movimenti impedendogli cosı̀
di restare a contatto con il proprio corpo (fanno eccezione come sempre le
labbra della vagina), di stabilire un contatto con il corpo delle altre donne.
Ben venga, almeno per ora. Ma come si “trova” questo Corpo senza Organi
che serve per «farla finita» una volta per tutte con la dottrina del giudizio?
Risposta: «è il sistema della crudeltà che dappertutto si oppone alla dottrina
69
del giudizio» .
E qui il sistema della crudeltà ci riporta ad Artaud e al suo teatro della
crudeltà, teatro inteso come peste – un contagio che sta per la necessità di
riprendere quel contatto con la vita che il teatro ha perso da tempo (e
siamo negli anni Trenta) – che parli con il «corpo vissuto» (la definizione è
di Merleau-Ponty) dell’attore, che proponga immagini fisiche violente in
grado di mandare in pezzi la sensibilità dello spettatore. Sono gli stessi
70
«segni terribili che arano i corpi» di cui parla Deleuze, la crudeltà scritta
sulla superficie, sulla carne, perché «ogni cosa mi importa solo in quanto
assale la mia carne, coincide con essa in quel punto in cui la sconquassa, e
non oltre. Niente mi tocca, niente m’interessa se non si rivolge direttamente
71
alla mia carne» . Di corpi solcati da «segni terribili» che non si sono voluti
interpretare correttamente (Freud con le isteriche come Dora ci ha perso la
testa) e che in troppi non hanno voluto vedere e continuano a non voler
vedere è piena la storia delle donne. Dal corpo frigido, quello di cui ci
racconta Lia Cigarini riattraversando le lettere scritte nel Settecento da
72
Madame du Deffand , che privo di una sessualità sollecitabile dal desiderio
maschile affermava cosı̀ la sua autonomia da un piacere le cui forme erano
già state prescritte, al corpo isterico – tanto importante per le femministe
negli anni Settanta – che, a partire da un’epoca particolarmente repressiva

68
Gilles Deleuze, Per farla finita con il giudizio, in Id., Critica e clinica, Milano, Raffaello
Cortina Editore, 1996, p. 171.
69
Ivi, p. 168.
70
Ivi, p. 167.
71
Antonin Artaud, Frammenti di un diario d’inferno, in Id., Al paese dei Tarahumara, Milano,
Adelphi, 1996, p. 58.
72
Cfr. Luisa Muraro e Liliana Rampello (a cura di), Lia Cigarini, cit., in particolare al
saggio Una signora del gioco, pp. 65-70.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 49

come quella vittoriana, si spinge fino all’afasia per “dire” con “parole”
diverse la sua protesta contro il sistema maschile normativo che lo circonda
e lo schiaccia; e all’ultimo, ma solo in ordine di tempo, il corpo femminile
anoressico (come quello “famoso” di Ellen West), quello più trasparente,
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più incorporeo, ma anche più dolorosamente letterale, che arriva fino a


73
morire per sfuggire al «peso del corpo» , per provare l’ebbrezza di un
potere che gli è sconosciuto, anzi, di un tale illusorio e ingannevole
dominio di sé, da arrivare a costruirsi da solo l’unica «rappresentazione
74
appropriata» dell’io che gli sembra possibile, quella che fa somigliare
l’anoressica a un maschio ma senza i privilegi annessi e connessi.
E qui, questi corpi di donne soggetti da sempre a scontare sulla propria
carne le disfunzioni della cultura, questi Corpi senza Organi che dovreb-
bero farla finita con il giudizio non sono, come voleva Deleuze, superfici su
ci si inscrive il «processo di produzione del desiderio» ma sono, come vuole
Susan Bordo, testi impegnati in un «processo di produzione di significato»,
nel lavoro di creazione di «un corpo che parlerà per il sé in modo efficace e
75
denso di significato» . E non potrà che parlare di dolore, di sofferenza, di
violenza, di sopraffazione e anche di una debole e controproducente e, il
più delle volte, inconsapevole pratica di resistenza alle regole che impon-
gono la normalizzazione. E qui, ancora, la crudeltà non è tanto operazione
metaforica che sta per una strategia conscia di scardinamento dei poteri
costituiti, ma al contrario è condizione letterale di un corpo femminile sul
quale i segni non solo fanno veramente male ma spesso finiscono per
76
assecondare piuttosto che trasformare l’ordine sociale oppressivo . E qui,
lo ribadiamo, una cosa è la crudeltà che libera il desiderio dell’uomo
liberandolo dalla gabbia dell’organismo, altra è la crudeltà che si può
leggere oggi sul corpo ineludibile dell’anoressica con la sua «somma capa-
77
cità di annullare se stessa e reprimere il desiderio» ingabbiandolo nell’or-
ganismo. È proprio il caso di dirlo, il potere qui logora, anzi sarebbe meglio

73
Il rimando è al titolo dell’interessante testo di Susan Bordo, Il peso del corpo, cit.
74
Ivi, in particolare al saggio Il corpo e la riproduzione della femminilità, p. 104.
75
Ivi, in particolare al saggio Di chi e` questo corpo?, p. 26.
76
Ivi, cfr. in particolare il saggio Il corpo e la riproduzione della femminilità, alle pp. 110-111,
laddove Bordo argomenta che il mutismo dell’isterica se da una parte si può considerare una
forma di protesta, dall’altra è «al tempo stesso, com’è ovvio, ... la condizione della donna
silenziosa, che non si lamenta: un ideale della cultura patriarcale». Lo stesso dicasi dell’ano-
ressica che se da un lato sperimenta il potere che gli viene dal dare al proprio corpo una
forma maschile, dall’altro è evidente che non acquisisce nessuno dei poteri del maschio.
77
Ivi, in particolare al saggio Leggere il corpo snello, pp. 135-136.

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50 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

dire consuma, chi crede di averlo e mai l’aveva avuto. Mentre l’uomo ha
fatto presto a scrollarselo di dosso quando si è accorto, complice in prima
istanza il femminismo («il personale è politico») e subito dopo Michel
Foucault, che «il corpo è anche direttamente immerso in un campo
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politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata,


l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a
78
certi lavori, l’obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni» . E
allora ci viene in mente, sempre restando in tema di teatro della crudeltà, di
corpi e di potere, il Giulio Cesare di Shakespeare messo in scena dalla
«Socı̀etas Raffaello Sanzio», in cui Bruto e Cassio logorati, com’è noto, dalla
sete di potere, sono interpretati non a caso da due anoressiche, due donne
che fingono di essere uomini quando questi ultimi un posto che è diventato
assai scomodo non vogliono occuparlo più.
A questo punto (dopo aver scoperto quella che ha tutta l’aria di una
falla iniziale ma evidente in un discorso che ancora una volta pretendeva di
parlare per tutti) viene da chiedersi: ma di chi è questo Corpo senza Organi
di cui parlano Deleuze e Guattari? E per chi rappresenta una forma di
liberazione? In poche parole, a chi serve? Nuova risposta: serve a chi vuole
uscire dalla logica ristretta e restrittiva dell’identità, a chi vuole ridefinire gli
angusti confini della soggettività umana, a chi vuole superare l’antinomia
tra maggioranza e minoranza, a chi vuole sottrarsi ad una contrapposizione
di identità e alterità pensata in termini gerarchici e fallocentrici. Fin qui alle
donne potrebbe andare bene, laddove entra chiaramente in gioco la que-
stione di una differenza che, si sa, è tema cruciale per il pensiero femmini-
sta. Ma c’è di più. Argomenta Rosi Braidotti: «Deleuze presenta il divenire-
donna, il “divenire-minoranza”, come modalità per muovere al di là dell’an-
tagonismo dialettico tra maggioranza e minoranza, cosı̀ da arrivare ad una
definizione della coscienza umana, dal momento che, egli dice, le donne
costituiscono un gruppo culturale minoritario, un sotto-insieme del sistema
79
patriarcale» . Dunque, il divenire-donna corrisponde, per restare alla termi-
nologia di Deleuze, a una «linea di fuga» o di «deterritorializzazione»
attraverso la quale «un termine (il soggetto) si sottrae alla maggioranza»
80
mentre l’altro termine «(il tramite o l’agente) esce dalla minoranza» ,
attraverso la quale, cioè, è possibile uno spostamento sostanziale dalle

78
Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1993, p. 29.
79
Rosi Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea, Milano, La Tartaruga,
1994, p. 70.
80
Gilles Deleuze, Félix Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, cit., pp. 231-232.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 51

proprie posizioni di partenza che significa non cessare mai di «varcare una
81
soglia distruggendo l’unità artificiale» del proprio io. Messo in questi
termini il divenire-donna, ancora una volta, non riguarda solo gli uomini
ma anche le donne, ovvero ci si sposta “tutti insieme appassionatamente”
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(verso un «divenire-minoranza universale»), tanto più che senza la donna


l’uomo non andrebbe da nessuna parte. Infatti le donne, in virtù del loro
essere minoritarie, designano una modalità di pensiero nomade (che ri-
manda ad una posizione di instabilità, a una rottura di schemi fissi e
immobilizzanti, ad un’identità frammentaria e continuamente in fieri) che si
oppone a quella sedentaria e statica di tutte le maggioranze che – è fin
troppo ovvio – stanno bene nella situazione in cui si trovano (basti pensare
al carattere monolitico e inamovibile del pensiero fallologocentrico).

Nella misura in cui l’Uomo è il principale punto di riferimento in una


opposizione binaria centenaria, che ha trasformato la donna nell’altro, nel
sistema di Deleuze non è possibile l’“uomo in divenire”. Le linee di fuga o
di deterritorialità puntano piuttosto al divenire-donna come cammino di
liberazione. La ‘donna’ qui in questione, tuttavia, non si riferisce alle donne
empiriche, ma piuttosto ad una posizione e ad un modo di relazione
all’attività di pensiero: la donna è una modalità nomade82.

Qui una donna «metaforizzata», che per l’ennesima volta niente ha a


che vedere con la donna reale, diventa agente della trasformazione dell’in-
tero genere umano solo grazie, o meglio, a causa del connaturato nomadi-
smo del suo pensiero, solo a causa di un pensiero da intendersi come un
«viaggio» interno, che è soprattutto un divenire, uno spostamento psichico,
un viaggio «in intensità» – viaggio stanziale che si compie restando sempre
fermi nello stesso posto, sur place. Il soggetto nomade, quest’essenza fatta di
continui attraversamenti, non è più al centro della scena ma ai margini,
senza identità fissa, con quel Corpo senza Organi che è un teatro della
crudeltà attraverso cui passano a tutta velocità nient’altro che affetti puri.
«Si passa da un campo all’altro varcando delle soglie: non si cessa di
migrare, si cambia d’individuo come di sesso, e partire diventa semplice
83
come nascere e morire» . Ecco, è qui il punto, il presupposto di una nuova
concezione del soggetto è la fuga dalla logica del medesimo, è la fuga da
una sessualità imprigionata nelle categorie di genere, è la volontà di

81
Gilles Deleuze, Félix Guattari, L’Anti-Edipo, cit., p. 95.
82
Rosi Braidotti, Dissonanze, cit., p. 77.
83
Gilles Deleuze, Félix Guattari, L’Anti-Edipo, cit., p. 94.

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52 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

liberarsi dell’ormai superata questione della differenza sessuale (“superata”


dagli uomini ovviamente, la cui sessualità non è mai stata messa in dubbio).
E la donna diventa tramite del passaggio da un soggetto unitario e centrato
a un soggetto scisso e decentrato (altrimenti detto soggetto postmoderno)
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– passaggio che molti associano a un cambiamento epocale, intendendo


con ciò la postmodernità come una fase temporale successiva e disgiunta
dalla modernità, che noi tuttavia preferiamo considerare non tanto come
un momento di rottura con il passato ma piuttosto come una “congiuntura”
in cui l’esacerbarsi delle contraddizioni politiche, economiche e sociali della
modernità ha provocato un mutamento del sentire, a cui spesso non è
andata di pari passo un’elaborazione teorica o una produzione estetica o un
uso del linguaggio in grado di rendere pienamente conto proprio delle
condizioni storiche insorgenti, dei mondi che si trasformano, delle nuove
84
soggettività che emergono – solo e soltanto a patto di negare la propria
differenza sessuale e di pensarsi come indifferenziata nel genere o «polises-
85
suata», che poi è la stessa cosa . E qui si leva un coro unanime di critiche.
Perché la donna finora la sua sessualità non l’ha espressa, il suo desiderio

84
Cfr. Inderpal Grewal e Caren Kaplan, Introduction: Transnational Feminist Practices and
Questions of Postmodernity (pp. 1-33), e Inderpal Grewal, Autobiographic Subjects and Diasporic
Locations: Meatless Day and Borderlands (pp. 231-254), entrambi in Inderpal Grewal e
Caren Kaplan (a cura di), Scattered Hegemonies: Postmodernity and Transnational Feminist
Practices, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1994. Nel saggio che introduce il testo
che hanno curato, Grewal e Kaplan partono dalla distinzione tra postmodernismo e
postmodernità – l’uno «movimento estetico opposto a quello moderno», l’altra «formazione
sociale temporale e storicamente specifica», per affermare che mentre il primo può essere ed
è messo in discussione da numerose femministe in quanto continuatore del modello
moderno di opposizioni binarie sui cui si basa il soggetto unitario occidentale, la seconda
può rivelarsi una «concezione immensamente potente e utile» per l’affermazione di quelle
soggettività multiple che sono il risultato di «pratiche femministe transnazionali». Sebbene ci
risulti difficile individuare una netta demarcazione temporale tra modernità e postmodernità
come fanno Kaplan e Grewal, non possiamo non concordare sul fatto che la teoria e
l’estetica postmoderne non abbiano prestato attenzione al cosiddetto Terzo Mondo, ab-
biano fallito nel rendere conto dei «flussi culturali transnazionali», siano state incapaci «di
capire le condizioni materiali che strutturano le vite delle donne in luoghi diversi» e di
vedere che i soggetti del femminismo variano col variare dei luoghi in cui sono apparsi, e
che proprio in queste aporie risiede, se c’è, il potenziale sovversivo di una riappropriazione
femminista della teoria postmoderna.
85
Cfr, Teresa de Lauretis, La tecnologia del genere, in Id., Sui generis, cit., p. 160. «...Solo
negando che la differenza sessuale (e il genere) siano componenti della soggettività delle
donne reali, e negando quindi la storia dell’oppressione e della resistenza politica delle
donne, oltreché il contributo epistemologico del femminismo alla ridefinizione della sogget-
tività e della socialità, i filosofi possono vedere nelle “donne” il ricettacolo privilegiato del
“futuro dell’umanità”».

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 53

non l’ha raccontato, il suo corpo non l’ha fatto parlare (e, caso strano,
proprio adesso che comincia a parlare c’è qualcuno che sa quello che è
meglio per lei). La sua storia è stata rappresentata su un’altra scena, lontano
da “casa”. Altrove. La sua storia è un’altra storia. E non può metterla
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nuovamente a tacere, non può continuare a conformarsi a un desiderio che


non le appartiene e che, ciò che è peggio, cancella il suo desiderio. Osserva
con il consueto acume Luce Irigaray: «...Il corpo senza organi non è per
loro [le donne] una condizione storica? E non si rischia, ancora una volta,
di prendere alla donna questi (suoi) spazi non ancora colonizzati, dove
potrebbe avere luogo il suo desiderio?... Per fare del “corpo senza organi”
una “causa” di godimento, non bisogna aver avuto con il linguaggio e il
sesso – con gli organi? – un rapporto che le donne non hanno mai
86
avuto?» .
Allora, sembra fargli eco Rosi Braidotti, «predichino pure i sommi
sacerdoti del postmodernismo la decostruzione e frammentazione del sog-
getto, il fluire di tutte le identità basate su premesse fallologocentriche... La
verità è che non si può decostruire una soggettività che non è mai stata
concessa appieno; non si può diffondere una sessualità che storicamente è
87
stata definita come oscura e misteriosa» .
Neanche, o forse soprattutto, in tempi di perdita di unità dell’io, di
definizione dell’ontologia di un io privo di confini, di un soggetto scisso,
alla deriva, fuori dal tempo, in definitiva post-umano. Neanche, o forse
soprattutto, in tempi in cui il corpo è «unisex», in cui le biotecnologie fanno
degli organi dei pezzi interscambiabili che non appartengono più a nessuno
e che sono di tutti, «organi senza corpo» li chiama Braidotti, in cui il
trapianto «si introduce di forza... in ogni caso senza permesso e senza essere
stato invitato» (Jean-Luc Nancy lo definisce «intruso» quel corpo estraneo
ospitato dal proprio organismo che rende stranieri a se stessi, che allontana
«l’“io” più assolutamente proprio... a una distanza infinita [dove va a finire?
in quale punto inafferrabile dal quale continuare a proferire che questo è il
mio corpo?]». E conclude conseguentemente Nancy: «L’intruso mi espone
eccessivamente. Mi estrude, mi esporta, mi espropria... Divento come un
88
androide della fantascienza o piuttosto come un morto-vivente...» ). E
infine neanche, o forse soprattutto, in tempi in cui il cyborg – fatto di innesti

86
Luce Irigaray, Domande, in Id., Questo sesso che non e` un sesso, cit., p. 117.
87
Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli, 1995,
p. 101.
88
Jean-Luc Nancy, L’intruso, Napoli, Cronopio, 2000, in particolare alle pp. 11 e 34-35.

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54 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

tra uomini, donne, apparecchi elettronici e privo di identità sessuata ma in


compenso con l’identità «fratturata» – può essere considerato figurazione di
una soggettività femminista socialista, materialista, multipla, frammentaria,
89
parziale, comodamente adattabile alle proprie esigenze .
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In questi tempi – il nostro tempo – piuttosto, è indispensabile che il


femminismo ritorni alla materia e alla materialità di cui sono fatti i corpi
delle donne, al corpo sessuato al femminile, all’essere-avere un corpo di
donna, al fatto che l’identità di genere non può essere neutra e che non è
mai priva di conseguenze, all’evidenza che ogni discorso è sempre sessuato
e porta con sé il peso del pensiero patriarcale. La soggettività ha le sue
origini nel corpo e allora bisogna riappropriarsi di un corpo di cui a lungo
siamo state spossessate, bisogna, dice Braidotti, «parlare del/dal corpo»,
90
bisogna che la donna, come vuole Hélène Cixous, «si scriva» con il
proprio corpo, che scriva un’altra storia, un’altra memoria, un altro deside-
rio, un altro vissuto diviso e condiviso con le donne, tutta una pratica della
relazione, perché la riscrittura dell’io passa necessariamente attraverso i
rapporti con le altre donne, prima di tutte la madre. Ancora; a partire da
questo materialismo del corpo bisogna tornare a rivendicare con forza la
nozione di differenza sessuale, laddove si intrecciano sesso e genere, lad-
dove la sessualità, come struttura insieme materiale e simbolica, diventa
luogo privilegiato in cui si esercita l’oppressione sulla donna. Afferma Ida

89
Cfr. Donna Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano,
Feltrinelli, 1995. Elisabetta Donini è fortemente critica nei confronti della figura del cyborg e
dei presunti benefici che apporterebbe nella vita delle donne. Certamente, non si può non
essere d’accordo con lei quando afferma che: «piuttosto che guardare ai cyborgs come a un
felice annuncio di identità aperte al mutamento e preludio di una imprevista libertà di
contaminazioni e meticciati – secondo la prospettiva che ha tracciato Donna Haraway nel
suo Manifesto – » sarebbe «opportuno che ci interroghiamo su chi sta guidando il processo e
sulle soggettività e le intenzioni che vi sono incluse. Non ritengo infatti che il nuovo corso
riguardi donne e uomini in modo indifferenziato; sono anzi convinta che in questa crescente
volontà di affermare il predominio dell’artificiale sul naturale stia agendo ancora più
profondamente quello squilibrio di genere per cui la capacità delle donne di mettere al
mondo nuovi esseri viventi anziché risultare un elemento di forza costituisce da millenni la
prima ragione della inferiorità sociale femminile». Elisabetta Donini, Scienza e corpi, in Rosa
Gallelli (a cura di), Corpo e identità. Educare alle differenze, Bari, Progedit, 1999, pp. 5-18.
90
Cfr. quanto scrive Hélène Cixous in Il riso della Medusa, cit., p. 221: «Parlerò della
scrittura delle donne, di ciò che farà. Bisogna che la donna scriva se stessa: che la donna
scriva della donna e che avvicini le donne alla scrittura, da cui sono state allontanate con la
stessa violenza con la quale sono state allontanate dal loro corpo; per gli stessi motivi, dalla
stessa legge e con lo stesso scopo mortale. La donna deve mettersi nel testo – come nel
mondo e nella storia – di sua iniziativa.».

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 55

Dominijanni: «la differenza sessuale infatti – questo è il passaggio da


acquisire – è sempre in gioco: perché è sempre in gioco la collocazione
delle donne e degli uomini rispetto all’ordine simbolico, ed è sempre in
91
gioco la possibilità di interpretarla, modificarla, spostarla» . Questa colloca-
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zione o, con le parole di Adrienne Rich, questo «posizionamento» è


dichiarazione del luogo da cui si parla, perché si è sempre «da qualche
parte» e dunque non si può essere ovunque come vorrebbero le «coreogra-
fie della molteplicità» postmoderne (Susan Bordo definisce il postmoderno
92
come «il sogno di essere ovunque») . All’inizio il luogo da cui si parla è il
corpo, corpo come posizionamento originario e primitivo (corpo, lo ribadi-
sce ripetutamente Rosi Braidotti, che è anch’esso punto di intersezione tra
dimensione fisica e dimensione simbolica), l’incarnazione come punto di
partenza che dice perciò senza ombra di dubbio che il corpo è sessuato,
che il genere o è maschile o è femminile e che tra l’uno e l’altro c’è una
bella differenza. E a proposito di punti di partenza non si può non pensare
alla pratica del «partire da sé» elaborata dal movimento delle donne e fatta
propria dal femminismo della differenza sessuale, una «filosofia pratica,
impegnata nella modificazione» del rapporto delle donne con il mondo,
coinvolta in una modificazione di sé che ti fa lasciare casa, «ti fa allontanare
dai luoghi familiari», conosciuti, consueti, quotidiani e «non ti fa trovare
dove gli altri ti aspettano, senza che, per questo, tu debba isolarti in
93
solitudine» . Una pratica, poi, che resta strettamente ancorata al corpo
(inteso come corpo-linguaggio) e all’esperienza, anzi che «fa la spola –
metonimicamente – con il corpo e l’esperienza», una pratica che resti a
contatto con il corpo e che faccia sı̀ che i corpi «possano restare in contatto
94
tra loro» . La pratica del «partire da sé» è informata da quel «taglio
metonimico» del corpo femminile di cui parla Luisa Muraro in Maglia o
uncinetto, che «taglia di traverso» l’ordine simbolico patriarcale e «si fa
strada nell’esperienza vissuta», nella contingenza, che è basato «sulla conti-
guità e sulle concatenazioni particolari concrete», che si diffonde «per
contagio», attraverso un corpo a corpo fra donne, attraverso la forma della
relazione, quella con la madre innanzitutto, che consente alla donna di

91
Ida Dominijanni, Il desiderio di politica, cit., p. 34.
92
Cfr. Susan Bordo, Feminism, Postmodernism, and Gender-Scepticism, in Linda J. Nicholson
(a cura di), Feminism/Postmodernism, New York and London, Routledge, 1990, pp. 133-156.
93
Cfr. alla p. 8 il saggio di Luisa Muraro, Partire da se´ e non farsi trovare, pubblicato nel
libro della comunità filosofica femminile Diotima dedicato interamente alla pratica del
partire da sé, dal titolo La sapienza di partire da se´, Napoli, Liguori, 1996.
94
Ida Dominijanni, Corpo politico, «Sofia», n. 3, luglio-dicembre 1997, p. 43 e p. 48.

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56 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

accedere a un simbolico metonimico95. Sintetizza cosı̀ Dominijanni: «la


pratica della relazione “fa” simbolico; di più, “è” il simbolico femminile. È il
taglio metonimico che interrompe la deriva metaforica del simbolico ma-
96
schile» . Perché c’è sempre qualcosa che resta fuori dal regime di ipermeta-
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foricità, e questo qualcosa è un’intera «pratica di corpo», laddove «il corpo


con i suoi impulsi, i suoi piaceri, le sue particolarità, le sue contingenze», i
97
suoi processi inconsci, i suoi desideri, «ha cessato di parlare per se stesso»
e deve ricominciare a farlo a «partire da sé». Eccolo allora il punto di
partenza di cui dicevamo, nella misura in cui «partire da sé infatti non è un
restare narcisisticamente attaccate a sé, alla propria specificità e al proprio
punto di vista, ma viceversa un sapersene separare», un sapersene allonta-
nare per andare oltre la logica dell’identità, per attraversare la contingenza
98
in cui si manifesta la differenza sessuale .
E qui si verifica uno scollamento significativo tra il femminismo italiano
della differenza sessuale e certo femminismo “apolide” delle differenze di
sesso, di razza, di classe sociale, di etnia, di età..., il primo alle prese con una
differenza che è «una apertura di senso in cui non la fissazione identitaria di
genere, ma la molteplicità dei significati dell’esistenza femminile può final-
99
mente dispiegarsi» , il secondo alle prese con la comparazione di molte-
plici differenze e di molteplici forme di oppressione a cui sono sottoposte le
donne di tutto il mondo, che definiscono una soggettività dai confini mobili
(ma non priva di confini come quella postmoderna) che attraversa diverse
posizioni in tempi diversi, o è tante posizioni simultaneamente, e punta al
riconoscimento delle differenze tra le donne, delle differenze nelle vite delle
donne e punta al “ritrovamento” di un terreno comune in cui è possibile
100
riconoscersi nell’altra per riconoscere se stessa . Il «soggetto nomade» di
Rosi Braidotti ne è un esempio, un altro è quello «eccentrico» di de
Lauretis, poi c’è la «lesbica» di Monique Wittig, «l’altra inappropriata» di
101
Trinh T. Minh-ha, la «nuova mestiza» e le «nepantleras», «in-betweeners»

95
Cfr. Luisa Muraro, Maglia o uncinetto, cit., in particolare i primi due capitoli: Maglia e
uncinetto e Un corpo di qua, un corpo di là.
96
Ida Dominijanni, Il desiderio di politica, cit., p. 25.
97
Luisa Muraro, Maglia o uncinetto, cit., p. 90.
98
Ida Dominijanni, La parola del contatto, in Luisa Muraro, Maglia o uncinetto, cit., p. 32.
99
Ivi, p. 33.
100
Cfr. Inderpal Grewal e Caren Kaplan, Introduction: Transnational Feminist Practices..., cit.
101
Cfr. l’importante testo di Gloria Anzaldúa, Borderlands/La Frontera. The New Mestiza;
San Francisco, Aunt Lute Books, 1987, seconda edizione 1999; in particolare al capitolo 7,
La conciencia de la mestiza. Towards a New Consciousness, pp. 99-120 (tr. it. Terre di confine/La
frontera, Bari, Palomar, 2000; cap. 7 La conciencia de la mestiza/Verso una nuova coscienza, pp.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 57

o «boundary-crossers»102 di Gloria Anzaldúa, che restano sui ponti, che


fanno dei ponti le proprie case, e, ancora, il soggetto “marginale” di bell
103
hooks, la Malintzin tradduttora/traditora di Norma Alarcón ...
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119-137). Nel capitolo in questione, Anzaldúa prende le mosse dalla teoria del filosofo
messicano José Vasconcelos che prefigura una razza mestiza, cioè una razza cosmica, la
prima razza a rappresentare una «sintesi del globo», una mescolanza di razze, di culture, di
ideologie, di lingue... È evidente che questa teoria, basata sul principio dell’inclusività e sulla
promessa di una progenie ibrida, è in aperto dissenso con quella ariana e quella dell’America
bianca che predicano la purezza razziale. Da questi presupposti si sviluppa, secondo
Anzaldúa, una nuova consapevolezza, una nuova coscienza “aliena”, mestiza, una coscienza
di donna, «una conciencia de mujer», esattamente quella che abita le «terre di confine» (p.
119).
102
Cfr. This Bridge We Call Home. Radical Visions for Transformation, Gloria E. Anzaldúa e
AnaLouise Keating (a cura di), New York and London, Routledge, 2002, testo antologico
che, a ventuno anni di distanza dall’ormai storico This Bridge Called My Back, testimonia già
a partire dal titolo la sua filiazione diretta dal quel libro chiave del movimento femminista e
la sua volontà di portare avanti il dialogo, di fare nuove domande e di cercare nuove
risposte, di riscrivere le vecchie teorie femministe e elaborarne di nuove, stavolta abbrac-
ciando la sfida di includere tra le voci del testo non solo quelle delle women of color ma
anche quelle delle donne bianche, asiatiche, arabe... (un tentativo di abbattere la linea del
colore), e, infine, quelle degli uomini (un tentativo di abbattere i confini di genere); vedi a
questo proposito la prefazione di Anzaldúa intitolata (Un)natural bridges, (Un)safe spaces, pp.
1-5. Nel saggio con il quale si conclude il testo Anzaldúa, nel definire il sentiero della
conoscenza, pone l’accento su quello spazio transizionale, – «spazio di possibilità» –
chiamato dagli aztechi nepantla, ovvero «tierra entre medio», in cui si vive tra «differenti
percezioni e sistemi di credenze», in cui le convenzionali etichette di genere, razza, sesso
diventano intercambiabili, in cui ci si scontra con altre e diverse prospettive, altre e diverse
posizioni, altri e diversi punti di vista, in cui si riconfigura la propria identità, senza sapere
dove si sta andando. Las nepantleras, in questo contesto, sono coloro che aiutano ad
attraversare il ponte, che consentono agli altri di aggrapparsi ai propri corpi per compiere la
traversata, e che «sanno che il loro lavoro sta nel posizionarsi... nella crepa tra questi mondi
e nel rivelare l’inadeguatezza delle categorie correnti»; cfr. Now let us shift... the path of
conocimiento... inner work, public acts, pp. 540-576. Per un ulteriore approfondimento del
concetto di nepantla, che non è altro che un allargamento del concetto anzalduano di
frontiera, vedi l’intervista fatta da Debbie Blake e Carmen Abrego a Gloria Anzaldúa,
intitolata Doing Gigs e contenuta in Gloria Anzaldúa: Interviews, Entrevistas, AnaLouise
Keating (a cura di), New York and London, Routledge, 2000, alle pp. 211-235. È superfluo
rilevare le affinità tra la nepantlera e i soggetti femminili teorizzati da Minh-ha e hooks.
103
Cfr. Norma Alarcón, Traddutora/Traditora: A Paradigmatic Figure of Chicana Feminism,
in Inderpal Grewal e Caren Kaplan (a cura di), Scattered Hegemonies, cit., alle pp. 110-133.
Malintzin è la schiava chicana descritta, da una parte, con l’epiteto la lengua a significare
metaforicamente la sua funzione di traduttrice per il conquistatore spagnolo Hernán Cortés
e i suoi uomini e dall’altra, con l’appellativo la chingada, la madre violentata, abusata, che
porta in grembo i figli del colonizzatore. Per questo Malintzin è traditrice, per aver scelto di
attraversare i confini etnici, razziali e culturali, senza che questo l’abbia tuttavia salvata «dalla
violenza contro se stessa», come tanti altri attraversamenti non hanno salvato la gran parte

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58 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Eppure, ci sembra, la nozione di differenza muove, in Italia non meno


che in questo pensiero femminista geograficamente e culturalmente (e non
solo) senza confini, dal corpo sessuato e dalla differenza sessuale come
questioni che non possono essere accantonate, neanche durante la traver-
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sata delle differenze. Eppure, la necessità di uno spostamento da sé per


andare altrove portandosi dietro tutto il corpo sessuato e tutta la differenza
sessuale, è necessità comune, perché bisogna comunque «essere collocati da
104
qualche parte per poter fare delle affermazioni di carattere generale» .
Eppure un’identità fatta di inevitabili e progressivi posizionamenti non sta
per un’identità frantumata e indebolita dalle differenze, ma casomai per
un’identità che va «contro ogni idea di unitarietà essenziale», cioè quella
modello patriarcale; ciononostante «il soggetto nomade non è tuttavia
privo di unità. Si muove secondo modelli di spostamento definiti, stagio-
105
nali, su percorsi comunque fissati» . Cosı̀ la donna che ha lasciato casa e
certezze e si è messa a viaggiare mettendo tutta se stessa nella pratica del
partire da sé che, secondo Muraro, «porta al disfarsi del soggetto senza
disfarlo in una miriade di istanze scoordinate: mi disfa nelle relazioni che
mi fanno essere quella che sono e diventare quella che desidero, senza che
io possa mai accamparmi al centro di questo essere e diventare. Questa è la
porta stretta, questo è il passaggio che mi “smarca” dal nichilismo del
106
pensiero postmoderno» . E che smarca ogni femminismo dal postmo-
derno azzeramento delle politiche identitarie ma accomuna tutti i femmini-
107
smi . Una pratica di relazione. Una pratica di mediazione. Una pratica di
108
coalizione. Una pratica di solidarietà. Una pratica d’amore .

delle donne di colore. Per questi stessi motivi Malintzin è figura paradigmatica del femmini-
smo chicano, perché ricorda che i «confini esistono e continuano ad esistere», perché
«introduce la nozione di mediazione storica, sessuale e linguistica», che pure non le è
immediatamente accessibile.
104
Rosi Braidotti, Soggetto nomade, cit., p. 42.
105
Ivi, p. 28.
106
Luisa Muraro, Partire da se´ e non farsi trovare, cit., p. 21. Come si vede la presa di
distanza dal nichilismo postmoderno e dalla frammentazione del soggetto che esso pro-
clama è tratto che mette d’accordo tanta parte del femminismo contemporaneo.
107
Una possibile riappropriazione del postmodernismo in senso sovversivo è quella offerta
da Grewal e Kaplan (Inderpal Grewal e Caren Kaplan, Introduction: Transnational Feminist
Practices, cit., pp. 5-6) che fanno l’esempio di Postmodern Blackness (Yearning: Race, Gender,
and Cultural Politics, Boston, South End Press, 1990) di bell hooks la quale, nella sua costante
ricerca di possibili strategie di resistenza, fa appello a quello che chiama «postmodernismo
radicale» che si sostituirebbe al postmodernismo convenzionale richiamando l’attenzione
«su quelle sensibilità condivise che attraversano i confini di classe, genere, razza, ecc.» per
costruire l’empatia tra le donne.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 59

Nella «rete di interconnessioni», nelle saldature, nelle alleanze che i


soggetti femminili dai confini fluidi tessono incessantemente, infatti, ci
sembra di poter riscontrare la stessa volontà politica di «creare un nuovo
tipo di legame inclusivo (cioè non escludente) per il riconoscimento delle
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109
differenze» che è presente nella riflessione di Muraro e che è in atto sia
nella pratica dell’autocoscienza tra donne che in quella dell’inconscio,
laddove il confronto con le altre «suggerisce strumenti preziosi per sconge-
lare il corpo e la parola, costruire la relazione fra donne, guardare in faccia
110
il fantasma della madre» .
Certo, è vero, la madre simbolica nel femminismo italiano è figura di
una primitiva pratica di relazione, la prima figura della mediazione senza la
quale non sarebbe possibile sperimentare una qualsiasi libertà femminile,
mentre le nuove soggettività dalle molteplici collocazioni percorrono le
differenze in una pratica di relazione che si serve esclusivamente della
«mediazione simbolica di altre donne, molte delle quali non sono, non
111
sono state, e non saranno mai madri» . Altre donne, dunque, non altre
madri, con tutto che le madri «autonome» messe a tema dal femminismo
milanese possono essere indifferentemente quelle reali «come una donna
112
qualsiasi o il gruppo delle donne o anche l’intera società» . È tuttavia
innegabile che l’accento delle femministe autoctone (ma anche quello di un
113
ampio filone del femminismo americano ), in questo fedeli ad Irigaray, va
tutto, anche linguisticamente, sull’esperienza della maternità e della ripro-
duzione, infatti la generazione del simbolico femminile ha come condizione
necessaria il lavoro di una madre-ostetrica la cui «assistenza» sola permette
alle donne una seconda nascita con la quale si riapre una storia che

108
Pratica d’amore è il titolo di un libro di Teresa de Lauretis; cfr. Pratica d’amore. Percorsi
del desiderio perverso, Milano, La Tartaruga, 1997.
109
Rosi Braidotti, Soggetto nomade, cit., p. 42.
110
Ida Dominijanni, Il desiderio di politica, cit., p. 9.
111
Teresa de Lauretis, Salve Regina. Immaginario maternale e sessualità, in Sui generis, cit., p.
183.
112
Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere diritti, cit., p. 52.
113
Ci si riferisce a femministe quali Nancy Chodorow (cfr. La funzione materna, Milano,
La Tartaruga, 1991), Carol Gilligan (cfr. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità,
Milano, Feltrinelli, 1987), Adrienne Rich (cfr. Nato di donna, Milano, Garzanti, 1977),
Dorothy Dinnerstein (cfr. The Mermaid and the Minotaur: Sexual Arrangements and Human
Malaise, New York, Harper and Row, 1977), Nancy Friday (cfr. Mia madre, me stessa, Milano,
Mondadori, 1980), Jacqueline Rose (cfr. Sexuality in the Field of Vision, London and New
York, Verso, 1986), Kaja Silverman (cfr. The Acoustic Mirror, cit.), Jane Gallop (cfr. The
Daughter’s Seduction: Feminism and Psychoanalysis, Ithaca, Cornell University Press, 1982), e
numerose altre.

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60 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sembrava chiusa. Si apre cioè una genealogia femminile che discende da


una «metafora materna (la frase è di Domna Stanton) nella quale la madre...
rappresenta sempre la figura di un potenziamento individuale e collettivo
delle donne», la mediatrice di un desiderio femminile muto che si esprime
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finalmente in parole, in sintesi, l’«origine e causa della soggettività femmini-


114
le» . Ma questo desiderio e questa soggettività femminili che si realizzano
esclusivamente tramite la maternità e l’identificazione narcisistica con la
madre non tengono conto, come osserva de Lauretis, della «componente
115
immaginaria, pulsionale ed erotico-sessuale del simbolico femminile» e
finiscono cosı̀ per «elidere quel particolare rapporto tra donne che è il
rapporto lesbico, un rapporto che non è solo socio-politico ma anche
sessuale, e che implica tanto una diversa configurazione del desiderio
116
quanto un diverso modo di vivere i rapporti sociali» . Più precisamente,
finiscono per ridurre il lesbismo al desiderio per la madre e per individuare,
di conseguenza, un «fattore omosessuale» che sarebbe costitutivo della
sessualità femminile nel suo complesso. In un contesto simile, continua de
Lauretis,

quest’omosessualità latente o potenziale può essere invocata dalle donne


eterosessuali quando sia necessaria per sfuggire o resistere all’immaginario
del simbolico fallocentrico-paterno, vale a dire, non tanto al simbolico
maschile quanto al suo immaginario egemonico, l’immaginario omoses-
suale. Ma tale resistenza rimane definita... dai parametri di quel medesimo
immaginario, per cui rimane entro i limiti di un’oscillazione, una bisessua-
lità, un binarismo in cui il termine simbolico forte è sempre il fallo
paterno117.

Ben diverso è invece, secondo Teresa de Lauretis, il caso del desiderio


lesbico il cui significante non è e non può essere il fallo paterno, bensı̀ «un
corpo femminile negato, perduto o espropriato; ma quel corpo perduto o
negato non è il corpo della madre bensı̀ l’Io-corpo del soggetto stesso, la
118
cui perdita equivale al non-essere» o ad una mancanza di essere. Attra-

114
Teresa de Lauretis, La seduzione. Femminismo e immaginario materno, in Id., Pratica
d’amore, cit., p. 169.
115
Teresa de Lauretis, Salve Regina, cit., p. 169.
116
Ivi, p. 182.
117
Ivi, p. 174.
118
Ivi, p. 180 e cfr. della stessa autrice, Il fantasma della castrazione (e il significante del
desiderio), in Pratica d’amore, cit., in particolare alle pp. 205-224 in cui de Lauretis sostiene
che l’oggetto perduto del desiderio lesbico è un «oggetto interamente fantasmatico», cioè
qualcosa di cui non si ha memoria. Specificamente, «nel desiderio lesbico... l’oggetto

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 61

verso il desiderio sessuale per un’altra donna (che de Lauretis definisce


«perverso» perché devia dal percorso stabilito dell’«eterosessualità obbliga-
119
toria» e della sessualità riproduttiva), attraverso cioè una concreta pratica
d’amore che niente ha a che vedere con l’identificazione/desiderio per la
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madre, «il soggetto nega o supera quella perdita e ritrova l’Io-corpo insieme
120
con quello dell’altra» .
Ancora diverso è il caso – approfondito da Hortense J. Spillers nel
saggio Figli/e di madre, del padre forse: una grammatica americana – di un
altro corpo femminile spossessato; il corpo nero della madre schiava, della
donna africana tratta a forza in America che, avendo subito il «furto del
corpo», non è più nient’altro che «carne femminile privata del genere»,
121
distaccata «dalla sua volontà, dal suo desiderio attivo» . In un contesto di
schiavitù, nel quale «la prole della donna non ‘‘appartiene’’ alla Madre, né è
‘‘in relazione di parentela’’ con il ‘‘padrone’’, sebbene quest’ultimo la ‘‘pos-
sieda’’ e, nel caso degli afroamericani, spesso ne sia il padre», è evidente che
122
la «‘‘Famiglia’’, cosı̀ come prende corpo e viene intesa ‘‘in Occidente’’»
non esiste e non può esistere perché i rapporti di proprietà ne risultereb-
bero fortemente minacciati. Allo stesso modo, in un sistema schiavista, l’i-
stituzione della maternità, con tutto quello che ne consegue in termini di
valore sociale, perde tutta l’inviolabilità di cui è ammantata in Occidente e
finisce per essere «un modo di rafforzare, attraverso il processo del dare alla
123
luce, “la riproduzione delle relazioni di produzione”» , un modo, cioè, di
tramandare ai posteri la condizione inumana della schiavitù. Dunque, in
«una situazione culturale di mancanza del padre», l’unica eredità che questa

fantasmatico è il corpo femminile stesso, la cui perdita originaria corrisponde, in un soggetto


donna, alla ferita narcisistica che la perdita del pene rappresenta per un soggetto maschio»,
p. 211.
119
Il riferimento è all’importante saggio di Adrienne Rich, Eterossessualità obbligatoria e
esistenza lesbica, «Nuova dwf», n. 23-24, 1985, pp. 5-40.
120
Teresa de Lauretis, Salve Regina, cit., p. 180.
121
Hortense J. Spillers, Mama’s Baby, Papa’s Maybe: An American Grammar Book, «Diacri-
tics. A Review of Contemporary Criticism», vol. 17, n. 2, 1987, pp. 65-81; tr. it. Figli/e di
madre, del padre forse: una grammatica americana, in Raffaella Baccolini, M. Giulia Fabi, Vita
Fortunati, Rita Ponticelli (a cura di), Critiche femministe e teorie letterarie, cit., pp. 259 e 261. A
questo saggio rimanda brevemente ma incisivamente Teresa de Lauretis alle pp. 177-179 del
già citato Salve Regina, portando avanti la sua critica al discorso sulla madre cosı̀ com’è
impostato dalle femministe italiane e da alcune di quelle americane, e dimostrando, in
questo modo, come l’immaginario materno non sia cosı̀ omogeneo e monolitico come si è
soliti pensare.
122
Ivi, pp. 264 e 266.
123
Ivi, p. 274.

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62 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

madre schiava lascia ai suoi figli sono le sue stesse catene. Questo è ciò che
la cultura dominante, «con un fraintendimento fatale», implicitamente ci
racconta tralasciando di notare, però, che qui il termine maternità è usato
“impropriamente” perché, in schiavitù, «la maternità... è oltraggiata, negata,
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proprio nel momento in cui diventa il termine fondante di una organizzazione


124
umana e sociale» . La donna afroamericana, che è stata carne senza corpo,
che è stata spogliata del genere, che non è stata madre, si pone al di «fuori
dal tradizionale simbolico del genere femminile, ed è nostro compito
125
trovare uno spazio per questo diverso soggetto sociale» . Cosı̀ come era
nostro compito trovarlo per il soggetto lesbico. E non possiamo riuscirci se
non smettiamo la tendenza, comune al femminismo italiano e a certo
femminismo americano, «a produrre un soggetto femminile solamente
simbolico, compatto, indiviso, e che quindi si presenta come la controparte
del soggetto cartesiano o di quello neutro-maschile della tradizione filoso-
126
fica prenovecentesca» .
Non possiamo riuscirci soprattutto oggi, nel momento in cui la sistema-
tica decostruzione dei principi illuministici che postulavano «l’esistenza di
un sé stabile e coerente»127 è un dato di fatto a cui fa da corollario una «crisi
128
complessiva che ha investito la nozione di autorità culturale» . La «condi-

124
Ivi, pp. 275-277.
125
Ivi, p. 277; È proprio questo il compito che si assume Toni Morrison nel romanzo
Amatissima (Milano, Frassinelli, 1988), pubblicato negli Stati Uniti nel 1987 con il titolo
Beloved, quello appunto di restituire a Seth – la protagonista – la condizione di individuo,
quello di ridare la soggettività a chi è stato solo oggetto, cosa, animale, “Io senza Io”, quello
di ricostruire una storia e una memoria afroamericane e di indagare i legami complessi tra
maternità, identità e schiavitù, anche dopo l’avvenuta libertà dalle catene quando il coloniali-
smo è stato ormai interiorizzato, quando l’oppressione è stata assorbita ed ha annullato la
capacità di agire del sé, ha impedito ogni forma di auto-realizzazione. Dopo soli ventotto
giorni di libertà la “dura”, crudele, difficile, amara scelta di Seth – l’assassinio di sua figlia,
impossibile da approvare o condannare, le sue mani a tagliarle la gola perché l’uomo bianco
venuto per renderla nuovamente schiava non potesse avere anche lei, non potesse mai farle
del male –, è il risultato della reificazione, della feticizzazione operata dalla schiavitù e delle
profonde lacerazioni emotive e psicologiche che hanno lasciato il marchio sullo schiavo,
negando alla madre di essere tale, di dare un corso naturale al profondo e “spesso” legame
madre-figlio, di amare liberamente e palesemente chi non «era mio da amare».
126
Teresa de Lauretis, Salve Regina, cit., p. 169.
127
Jane Flax, Postmodernism and Gender Relations in Feminist Theory, in Linda J. Nicholson
(a cura di), Feminism/Postmodernism, cit.; [tr. it. Il postmodernismo e i rapporti di genere nella
teoria femminista, in Maria Teresa Chialant ed Eleonora Rao (a cura di), Letteratura e
femminismi. Teorie della critica in area inglese e americana, Napoli, Liguori, 2000, p. 275].
128
Linda Hutcheon, Postmodernism and Feminisms, in Id., The Politics of Postmodernism; New
York and London, Routledge, 1989; tr. it. Postmodernismo e femminismi, in Maria Teresa
Chialant ed Eleonora Rao (a cura di), Letteratura e femminismi, cit., p. 250.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 63

zione postmoderna», per usare una definizione di Jean-François Lyotard


che allude più ad uno stato della sensibilità che ad una fase storico-
temporale, ci rimanda l’immagine di un sapere parcellizzato e instabile, in
cui le grandi narrazioni hanno perso credibilità lasciando il posto alla
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consapevolezza dell’impossibilità di rifondare un sapere universalmente


129
valido, centralizzato, unitario . Lo spostamento epistemologico operato
dalla filosofia postmoderna consiste di «un passaggio dalla coscienza al
linguaggio», passaggio in cui ad un «soggetto epistemico caratterizzato in
termini di esperienza storica, interiorità e coscienza» si sostituisce un
«soggetto decentrato», la cui «“identità” è semplicemente l’illusione pro-
dotta mediante la manipolazione di giochi linguistici irriconciliabili e con-
130
traddittori» . Se il sapere forte, trascendente e assoluto dell’umanesimo
elideva la donna dal suo discorso in quanto non gli era né funzionale né
necessaria, il “pensiero debole” dell’antiumanesimo attuale, in clima di
instabilità e di incertezza, si è appropriato del suo corpo testuale per farsi
traghettare verso le sponde di una nuova coscienza che dovrebbe impedire
l’apocalissi del genere umano. Ma, in realtà, questo pensiero l’unico princi-
pio della differenza che conosce è il principio derridiano della diffe´rance che
smentisce ogni pretesa di omogeneità della scrittura dando forma a ciò che
la eccede, indicando la molteplicità che la sottende.
Forse di fronte a un sentire che è cambiato, che è schizofrenico,
frammentario, discontinuo, fragile, ma che continua, in un modo o nell’al-
131
tro, a trasformare le donne reali in «costruzioni testuali» , sono cambiate le
forme della lotta, le dinamiche della resistenza; forse un sapere (che non
nega però il piacere) femminil femminista deve ricominciare da qui, o forse
è proprio per questo che ha ricominciato da qui. Forse, di fronte a un
terreno di scontro ormai mutato ma non meno discriminante, anche la
posizione delle donne si è trasformata, e allora è più giusto ripartire da
questa consapevolezza per aprirsi nuovi canali, nuove opportunità, nuove
strategie, nuove strade da percorrere insieme.
Sostiene Rosi Braidotti: «il femminismo postmoderno si trova di fronte
a una contraddizione storica: proprio quelle condizioni che sono ritenute

129
Cfr. Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano,
Feltrinelli, 1981.
130
Patricia Waugh, Postmodernism and Feminism: Where Have All the Women Gone?, in Id.,
Feminine Fiction. Revisiting the Postmodern, New York and London, Routledge, 1989; tr. it.
Postmodernismo e femminismo: dove sono andate tutte le donne?, in Maria Teresa Chialant ed
Eleonora Rao (a cura di), Letteratura e femminismi, cit., p. 261.
131
Ibid.

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64 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

dai soggetti dominanti fattori di una “crisi” dei valori rappresentano per il
femminismo l’apertura di un campo di nuove possibilità. Mors tua vita
132
mea» .
Eravamo partiti dal corpo, Corpo senza Organi asessuato (o plurises-
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suato) e privo di limiti, attraverso cui il soggetto si faceva nomade e


continuava a viaggiare senza sosta per sfuggire al giudizio, e siamo arrivati a
un altro soggetto nomade (o a tanti soggetti nomadi) dal corpo sessuato al
femminile e dai limiti “spostabili”, che più che viaggiare rovescia, ribalta,
resiste agli schemi dominanti di figurazione dell’io. E allora prendiamo le
mosse da questo scarto per pensare il corpo della donna al cinema, anzi per
pensare una pratica filmica femminista «il cui scopo non è necessariamente
quello di vedere il corpo femminile in modo differente, ma di mettere in
evidenza gli abituali significati/valori connessi alla femminilità come costru-
133
zioni culturali» . Tutta un’attività di demistificazione, decodificazione, de-
costruzione per togliere di dosso al corpo le cifre che vi sono inscritte. E
resistere cosı̀ alle modalità dominanti di rappresentazione del corpo della
donna e della differenza sessuale e arrivare infine, forse, a «restituire il corpo
134
femminile reale alla donna come sua legittima proprietà» , a inventare, una
volta per tutte, una nuova codificazione. Prendiamo le mosse da questa
apertura, dicevamo, e installiamoci qui, nel punto in cui la donna diventa, o
cerca di diventare, da corpo testuale un corpo reale (o un corpo “de-
testualizzato”).
Dice Deleuze a proposito del cinema femminile – che non deve però (o
proprio per questo) la sua «importanza a un femminismo militante» –: «Sul
posto o nello spazio, il corpo di una donna conquista uno strano nomadi-
smo che le fa attraversare età, situazioni, luoghi (era il segreto di Virginia
Woolf in letteratura). Gli stati del corpo rivelano la lenta cerimonia che
collega gli atteggiamenti corrispondenti, e sviluppano un gestus femminile
135
che capta la storia degli uomini e la crisi del mondo» .
Niente di nuovo neanche sul fronte del cinema, dunque. E niente di
strano visto che la donna è rimasta una «modalità nomade» e solo per
questo continua a fare da tampone alla crisi del mondo e dell’umanità.
Niente di insolito, quindi, se gli «stati» del suo corpo in divenire continuano

132
Rosi Braidotti, Soggetto nomade, cit., p. 5.
133
Mary Ann Doane, Woman’s Stake: Filming the Female Body, in Constance Penley (a cura
di), Feminism and Film Theory, New York and London, Routledge/BFI, 1988, p. 217.
134
Ivi, p. 225.
135
Gilles Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, cit., pp. 217-218.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 65

a rivelare una volta di più che qui abbiamo a che fare con una donna
«metaforizzata» e che solo per questo le è concesso di «tentare una nuova
esplorazione del corpo», di riconquistare «l’origine dei propri atteggiamen-
136
ti», delle proprie posture .
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Ma, senza perderci d’animo, nel percorso dalla donna messa a tema
come metafora nel discorso dell’uomo alla donna che appartiene a se
stessa, quella di cui siamo alla ricerca nel cinema delle donne sulle donne,
c’è in gioco il divenire chiamato in causa da Deleuze stesso nella forma di
quel nomadismo che era «il segreto di Virginia Woolf», che donna era e
che di donne scriveva. Tra l’uno e l’altra la differenza che passa tra il
divenire-donna e «l’avvenire-donna femminile», per appropriarci di un’e-
spressione di Luce-Irigaray. Tra l’uno e l’altra la storia esemplare e paradig-
137
matica di Orlando presa da una parte a esempio di divenire da Deleuze e
dall’altra a esempio di una donna a venire da Woolf e (forse) di una donna
“avvenuta” da Sally Potter nel suo adattamento cinematografico di Orlando.
Nel film di Potter il ruolo di Orlando è affidato a Tilda Swinton, fragile
corpo femminile, caratterizzato però da una bellezza androgina. Orlando,
che all’inizio del film e del romanzo è un uomo, viaggia attraverso i secoli,
dal milleseicento ai giorni nostri, rimanendo sempre giovane. Nel XVII
secolo, periodo in cui è il cavaliere prediletto della regina Elisabetta I
(interpretata però da un uomo, Quentin Crisp), Orlando si innamora di
Sasha, una principessa russa, che all’inizio mostra di amarlo e alla fine lo
rifiuta. Respinto in amore, Orlando inizia a coltivare velleità letterarie che il
poeta Nick Greene stronca sul nascere, per di più deridendo l’inesperto
scrittore. Nel millesettecento, nominato ambasciatore di Costantinopoli dal
re Guglielmo I d’Orange, invece di andare a combattere, fare la guerra e
uccidere, Orlando cambia sesso. Da donna Orlando torna nei salotti
letterari della Londra del XIX secolo, una mascherata della femminilità con
indosso un abito azzurro di ampiezza smisurata e dai drappeggi talmente
ingombranti da impedirle quasi di muoversi e, significativamente, di entrare
nella sala in cui gli uomini sono riuniti per discutere. Ma in questo stesso
secolo Orlando incontra l’amore e scopre il sesso, e facendo l’amore resta
incinta. E, a questo punto, “giunta” ormai nel XX secolo, Potter si allontana
sintomaticamente dall’Orlando di Virginia Woolf: nel film, infatti, Orlando è

136
Ivi, pp. 217-218.
137
Cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, cit., p. 235. Gli
autori scrivono: «Già Orlando non procedeva per ricordi, ma per blocchi, blocchi d’età,
blocchi di epoche, blocchi di regni, blocchi di sessi, formando altrettanti divenire tra le cose,
o linee di deterritorializzazione».

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66 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

costretta rinunciare a tutta la sua eredità per aver partorito una figlia
femmina, mentre nel romanzo, grazie alla nascita di un figlio maschio,
Orlando manteneva i suoi beni intatti.
Segue, nonostante tutto, il lieto fine, suggerito dal potenziale editore a
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cui si rivolge Orlando – che evidentemente non aveva abbandonato la sua


aspirazione alla scrittura – per la pubblicazione del suo romanzo che vanta
ben cinquecento anni d’età (potrebbe aggiustarlo insistendo sulla storia
d’amore e dandogli un bel lieto fine, dice lui), e siglato dalla presenza di
Jimmy Sommerville che si libra in cielo nelle vesti di un angelo dalle ali
dorate. Un angelo che, come l’Angelus Novus prima apparso in un quadro di
Klee e poi messo a tema nelle Tesi di filosofia della storia di Walter
Benjamin, è l’immagine della storia che non riesce più a rivolgere il suo viso
al passato e che, al contrario, «spinge irresistibilmente» l’angelo nel futu-
138
ro . Verso un’altra e differente storia, raccontata con altre parole, mostrata
attraverso altre immagini.
Il sottotesto più evidente dell’intero film è il motivo dell’identità di
genere, ma qui l’accento sulla discontinuità del gender non va in direzione di
una rivendicazione della struttura multisessuale dell’essere umano – se-
condo lo schema del divenire-donna – non va in direzione dell’afferma-
zione di un’identità sessuale del tutto indipendente da quella sociale (la
scena dell’espropriazione di Orlando dimostra chiaramente che «il perso-
nale è politico»), al contrario Orlando sfida «le narrazioni di genere allo
139
scopo di sfidare le costruzioni di genere dominanti e stereotipate» , dice a
chiare note che la differenza sessuale cambia lo stato delle cose, e che
l’identità di genere – nel caso della donna – ha sempre e comunque gravi e
“sgradevoli” conseguenze. Dall’inizio alla fine del film Orlando sfugge ai
convenzionali significati di genere e ai compiti ad essi associati, deco-
struendo cosı̀, epoca dopo epoca, i ruoli in cui la società cerca di fissarla, di
congelarla; di più, nel corso del tempo, spinge sempre più il maschile verso
il femminile (o verso una femminilizzazione del pensiero rovesciata), fino
all’estremo rifiuto, quello di fare la guerra, di lasciar morire un uomo, e in
nome di un antimilitarismo che si concilia male con l’essere uomo Orlando
si trasforma in donna rinunciando, insieme al sesso, ai significati patriarcali
della Storia (è come se dicesse «preferisco di no», aggiungendo un ampio

138
Cfr. Maggie Humm, Postmodernism and Orlando, in Id. Feminism and Film, Edin-
burgh/Edinburgh University Press, Bloomington/Indiana University Press, 1997, p. 170, e
cfr. inoltre Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus, Torino,
Einaudi, 1962, in particolare alla p. 80.
139
Maggie Humm, Postmodernism and Orlando, cit., p. 143.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 67

margine di certezza a quel reiterato «preferirei di no» che Bartleby pronun-


ciava di fronte alle richieste del suo padrone nel racconto di Melville). Ma il
peso delle costruzioni sociali di genere diventa assai più gravoso quando
Orlando è donna, tanto che il rapporto sessuale con il suo primo amante
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Shelmerdine (Billy Zane) è possibile solo a patto di stabilire che si può


scegliere di «non essere un vero uomo», o al contrario di essere «una vera
donna». Dove queste frasi, che stanno per qualcosa che in realtà non esiste
e che denaturalizza quello che esiste, sottolineano che il genere porta
inevitabilmente con sé, come insegna Foucault, l’assoggettamento dell’iden-
140
tità e del corpo ad «una tecnologia politica» capillare e complessa .

Orlando: Se io fossi un uomo, forse non sceglierei di rischiare la mia vita


per una causa incerta, potrei pensare che la libertà conquistata con la
morte non sia meritevole.
Shelmerdine: Voi potreste scegliere di non essere un vero uomo... Se io
fossi una donna, potrei scegliere di non sacrificare la mia vita alla cura dei
miei figli, o dei figli dei miei figli, né di annegare anonimo nel latte della
bontà femminile, invece, diciamo, potrei andare all’estero. In quel caso
sarei...
Orlando: Una vera donna.

Ma qui, se le leggi prescritte dalla società non contemplano una donna


che non si sottometta al destino di un ruolo subalterno, ancora meno
tollerano che l’uomo si esponga al rischio di un’eventuale femminilizza-
zione, «che è al tempo stesso l’angoscia di una virilità incerta». Ed è per
questo che «quanto più il rischio è sentito come incalzante, tanto più la
cittadella politica, in cui l’identità maschile si fonda, deve essere rinvigorita
141
dall’essenziale alimento della sua linfa misogina» . Ed è per questo che
Orlando verrà cacciata dalla polis, perderà la sua casa e le sue proprietà,
proprio nel momento in cui la società è stata doppiamente esposta al
pericolo di una femminilizzazione dall’ipotetica trasformazione di Shelmer-
dine in donna e dall’arrivo nella polis di un’altra donna, la figlia di Orlando.

140
Michel Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 29.
141
Adriana Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, Milano, Feltrinelli,
1995, p. 52. Cavarero analizza in dettaglio la vicenda di Antigone nell’omonima tragedia di
Sofocle e prende il suo agire ad esempio di opposizione alla tradizionale condizione
femminile di inferiorità. Non solo, Cavarero argomenta in modo convincente che il corpo di
Antigone viene cacciato dalle mura della città messa in allarme dal «presentito rischio di una
deriva muliebre». A noi sembra che qui il “destino” di Orlando non sia poi cosı̀ dissimile da
quello di Antigone.

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68 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

A questo punto, esclusa dalla Storia maschile, Orlando entra nell’ultima


parte del film scrivendo la sua storia in base a parametri tutti femminili,
finalmente alleggerita dal carico dell’eredità patriarcale. La sua voce over
afferma: «ma Orlando è cambiata, non è più travolta dal destino, e da
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quando ha rinunciato a ricercare il passato, ha scoperto che la sua vita


cominciava». L’angelo, dicevamo, non guarda al passato ma si rivolge al
futuro. E qui lo sguardo maschile è definitivamente usurpato da una
videocamera che è passata dalle mani dell’uomo a quelle, ancora piccole,
della donna, della figlia di Orlando – lei che gestisce l’inquadratura, lei che
si è riappropriata dello sguardo, lei che non fa del corpo di sua madre il
feticcio della visione, ma un corpo restituito a se stesso.
Ora non è più necessaria l’esibita artificialità dei procedimenti cinema-
tografici di cui Sally Potter si è servita nel corso del film per impedire
l’identificazione dello spettatore e consentirgli di dare un contributo attivo
al processo narrativo; ora non è necessaria l’interpellazione diretta dello
spettatore che finora era esplicito rifiuto da parte di Orlando di farsi
142
assegnare lo statuto di oggetto . Ora lo sguardo di Orlando in macchina è
il segno di una donna “avvenuta” anche attraverso gli occhi di sua figlia.
Ora, finite le grandi narrazioni patriarcali, una bambina che sarà una donna
può girare quello che sarà sicuramente, a detta di Orlando, «proprio un
buon film». Un film in cui Orlando invece di essere un soggetto in divenire
diventa, prima di tutto, una donna. Un film in cui Orlando non tanto
viaggia attraverso i secoli ma piuttosto ne smonta le false credenze, ne
rovescia i luoghi comuni, le convinzioni preconcette; ancora, non tanto
sfugge ad ogni collocazione (come il soggetto postmoderno) ma si sposta
dal luogo in cui altri l’avevano collocata. E si posiziona altrove.
E altrove si colloca anche Mona nel film Senza tetto ne´ legge di Varda,
un altro corpo femminile in viaggio, corpo vagabondo preso in un voyage
au bout de l’envers, un viaggio che inizia in un desolato paesaggio invernale
con il ritrovamento di un corpo anonimo congelato in un fosso e finito ben
presto nella fossa comune, e prosegue con un paziente collage di testimo-
nianze di coloro che quel corpo (che poi sapremo essere di donna)
l’avevano incontrato mentre era ancora in vita. Ma questo percorso non
porterà da nessuna parte, questo lento road movie non sarà per Mona un
viaggio verso la consapevolezza, non arriverà a cogliere la sua verità,
perché, con le parole di Varda, non si può «rendere il silenzio né catturare

142
Cfr. Maggie Humm, Postmodernism and Orlando, cit., pp. 164-165.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 69

la libertà»143. E allora questa inversione di tendenza, o meglio, questo


rovesciamento di percorsi già troppo battuti – quelli che hanno messo gli
uomini sulle tracce di una presunta essenza della femminilità e che hanno
fatto dei viaggi dei loro eroi un momento sicuro di crescita interiore –
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Varda la rende anche a livello tecnico, attraverso una serie di carrellate in


cui Mona e la macchina da presa si muovono da destra verso sinistra, in un
viaggio all’indietro che appena emersa dalle acque del mare la sospinge
senza sentimentalismi verso una destinazione che sembra inevitabile: la
144
morte . Ma c’è di più: per incoraggiare gli spettatori a mettere in discus-
sione la propria posizione Varda ne frustra le aspettative manipolando le
strategie narrative in modo da portare a un punto morto ognuno degli
“episodi dimostrativi” che compongono il film, in modo da risolvere in
nulla tutti quegli incontri che sembravano aprire a rapporti significativi, in
modo da evitare che “l’effetto Mona” – cosı̀ lo chiama la regista –, oltre che
fare effetto su quelli che sono entrati in contatto con lei, produca un di più
di conoscenza sulla sua storia. E qui nel moltiplicare gli sguardi, nell’offrire
una pluralità di testimonianze incomplete e limitate, di «visioni parziali»,
Varda «disperde lo sguardo di genere», sfugge alle gerarchie sessuali che
strutturano la visione e si dissocia dall’onnipotenza dello sguardo maschi-
145
le . Qui il potere del pubblico sul corpo femminile non si esplica nella
sensazione del possesso ma nella produzione di significato, nell’elabora-
146
zione di uno (o più) interrogativi (peraltro senza risposta) . Qui, come
vuole Mulvey, lo sguardo degli spettatori è liberato «nella dialettica e nel
147
distacco appassionato» e con esso, almeno stavolta, il corpo femminile è
lasciato a una morte “tranquilla”.
Ma di sguardi spettatoriali appassionatamente distaccati e di morte,
sebbene molto meno tranquilla, ci parla anche Sweetie, lei che non si fa
ridurre al silenzio, che non si fa dimenticare, che grida parole incontenibili,
sciatte, volgari, che sparge intorno a sé il suo desiderio di cibo, la sua fame
di sesso, che dà libero sfogo alle sue funzioni corporali. Corpo debordante
quello di Sweetie, grasso, eccessivo, pieno di orpelli – un bracciale di
borchie, tanti anelli, smalto per unghie nero, calze a rete, trucco pesante.
Corpo che Jane Campion riprende di sovente attraverso inquadrature

143
Citato in Sandy Flitterman-Lewis, Vagabond, in Id., To Desire Differently, cit., p. 285.
144
Cfr. Guy Austin, Contemporary French Cinema, Manchester, Manchester University
Press, 1996, pp. 85-87.
145
Cfr. Sandy Flitterman-Lewis, Vagabond, cit., p. 307.
146
Cfr. ivi, p. 313.
147
Ibid., e cfr. Laura Mulvey, Piacere visivo e cinema narrativo, cit., p. 41.

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70 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

dall’alto, schiacciato a terra – quella inospitale e soffocante dei sobborghi


dell’Australia del sud – da una vita troppo normale di gente troppo comune
che non può vivere tranquilla finché Sweetie non sarà ben radicata sotto-
terra. E sottoterra finirà Sweetie cadendo dall’albero con la casa tra i rami
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che era stato costruito apposta per lei, quello stesso albero di cui sua sorella
Kay (Karen Colston) aveva paura, «come nascondesse un potere occulto».
L’albero e le sue radici, strutture di significazione verticali e prescrittive,
non sono nient’altro che il «calco di qualcosa di precostituito», la riprodu-
148
zione e il mantenimento dell’ordine del mondo , quello retto dalla Legge
del Padre, quella a cui Sweetie non voleva uniformarsi rifiutando di crescere
nel modo in cui crescono gli alberi (si è detto che Sweetie è la versione
punk di Peter Pan). E infatti le radici non lasceranno in pace Sweetie
nemmeno nella tomba, tanto da rendere difficile a Kay e ai suoi genitori di
«mettere la bara nella terra per le radici che spuntavano ai lati della fossa».
Con la morte di Sweetie la minaccia che incombeva sulla “città” è stata
sedata. Con essa un desiderio che si rifiutava di schiacciare e assoggettare il
sé. Desiderio di cui l’obesità di Sweetie è la testimonianza letterale se è
vero, come sostiene Susan Bordo, che «l’obesità è la somma capacità di
cedere al desiderio», ma anche la capacità di mettere in atto «una strenua
149
difesa» contro chi quel desiderio vorrebbe reprimerlo .
In poche parole, l’esatto opposto dell’anoressia. Perché, l’abbiamo
detto, l’anoressica invece il desiderio vuole solo cancellarlo, portando cosı̀
alle estreme conseguenze le norme culturali dominanti che ne impongono
la normalizzazione. Ma nel farsi «corpo docile», cosı̀ Foucault chiama i
corpi che si autonormalizzano, l’anoressica urta lo sguardo, fa del suo
corpo un campo di battaglia (Your body is a battleground è la scritta posta da
Barbara Kruger su un volto di donna in un manifesto a sostegno dell’aborto
e del controllo delle nascite) rivelando cosı̀ «il prezzo nascosto da paga-
150
re» , fa del suo essere pelle e ossa un «luogo di resistenza», fa della sua
“trasparenza” – è un paradosso – un modo per farsi vedere meglio, per
uscire dall’ombra, dall’oscurità.
E allora, per concludere, vorremmo azzardare un paragone ardito,
quello tra l’anoressia in quanto «sintomo del nostro tempo», sintomo di «un
desiderio che rischia di non nascere di fronte alla domanda ingozzante
dell’Altro», raffigurazione letterale della mancanza, del buco, dell’assenza,

148
Cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Rizoma, Parma, Pratiche, 1977, p. 39.
149
Susan Bordo, Leggere il corpo snello, cit., p. 136.
150
Ivi, p. 137.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 71

“calco” doloroso di una mancanza “imposta” come destino151, e un altro


luogo del nostro tempo, che ci è particolarmente caro, in cui con macro-
scopica evidenza «il lavoro del desiderio» femminile è stato messo a tacere
dall’invadenza dell’Altro, in cui la mancanza di corpo, oltre che essere
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caratteristica costitutiva dell’apparato, è la sorte della donna, l’ulteriore


sottolineatura di una trasparenza che gli viene dalla sua castrazione (il suo
destino, appunto), che porta alla sua scomparsa dalla scena anche se – è un
altro paradosso – è sempre sotto gli occhi di tutti.
Questo luogo è il cinema. Di cui la descrizione appena fornita riguarda
la versione maschile, cosı̀ come la descrizione testuale dell’anoressica è
quella di un corpo femminile da cui è scomparsa ogni traccia di femminili-
152
tà . Ma c’è un cinema in versione femminile che il corpo-oggetto della
donna lo trasforma in soggetto, che le strappa di dosso il sovrappiù di
sapere maschile che le è rimasto impresso sulla carne, cosı̀ come c’è il
153
«corpoimmagine» dell’anoressica che deve ridiventare soggetto, deve
ricominciare a produrre un suo specifico desiderio e liberarsi dell’assenza di
desiderio che ha stampata addosso.
Ed è qui che diventa operativo il parallelismo che abbiamo azzardato,
nella misura in cui descrive una parabola, la parabola della donna nel
cinema femminil femminista: dalla scomparsa del corpo femminile nella
scena maschil maschilista al suo avvento su una nuova scena in cui si
«formulano le condizioni della rappresentabilità di un altro soggetto socia-
154
le» .
Questa parabola la descriviamo con due ultimi film: La chambre obscure
di Marie-Christine Questerbert, che, lo abbiamo già detto, si allontana dalla
nostra epoca per fare un salto nel passato, e Born in Flames di Lizzie Borden
(Usa 1983, 90’), che la nostra età la abbandona per “viaggiare” invece nel
futuro. Davanti agli occhi donne di altri tempi e donne dei tempi che
verranno, un cerchio immaginario che si chiude a includere tutte le storie
possibili, che traccia una utopica «mappa cognitiva» globale leggibile ovun-
que e da chiunque abbia occhi per vedere, trasmettibile in ogni luogo,
fruibile da tutte le donne con tutte le loro differenze, che serva ad orientarsi
a posizionarsi in un mondo «dominato oggi da categorie di spazio piuttosto

151
Cfr. Gabriella Ripa di Meana, Figure della leggerezza. Anoressia – Bulimia – Psicanalisi,
Roma, Astrolabio, 1995, in particolare al saggio Anoressia e bulimia: patologie postmoderne, pp.
24-25.
152
Ivi, p. 32.
153
Ivi, pp. 32-33.
154
Teresa de Lauretis, Rethinking Women’s Cinema, cit., p. 135.

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72 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

che da categorie di tempo»155, che sia in grado di individuare i ponti che


uniscono, su cui si costruiscono alleanze, in cui ci si sente temporanea-
mente a casa e poi si va ancora oltre ad attraversare altri ponti e ad abitare
156
altre case .
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Una politica di unione nella differenza, perché l’unione fa la forza.


Questo il principio ispiratore di Born in Flames, film femminista di fanta-
scienza, girato da Borden in cinque anni con un budget minuscolo, ambien-
tato in una New York del futuro, dieci anni dopo una pacifica Guerra di
Liberazione Sociale Democratica, che di fatto ha cambiato ben poco nella
vita delle donne se quattro gruppi di attiviste decidono di far seguire alla
rivoluzione un’altra rivoluzione, ma guidata da loro, sotto il loro controllo –
ogni gruppo a incarnare le contrastanti posizioni ideologiche e strategiche
interne al movimento delle donne. Il film mette in scena una vera e propria
molteplicità discorsiva, diversi linguaggi, il modo di appropriarsene e di
definirsi attraverso di essi, ogni gruppo con il suo, nere, bianche, lesbiche,
intellettuali di sinistra, giovani e vecchie, ragazze madri... perché «a New
York avevo visto che le donne nere e quelle bianche vivevano vite separate
e che le femministe bianche cercavano di imporre un’ideologia alle donne
nere, a cui non piaceva il termine “femminista” e spesso non erano
intellettuali nello stesso modo. Ho pensato solo “devo creare un universo in
157
cui questi diversi gruppi siano uniti”» . Quest’universo governato da voci
disparate è esattamente quello di Born in Flames: c’è l’Esercito delle donne,
guidato dalla lesbica nera Adelaide Norris, un gruppo che mescola tante
razze e organizza proteste e azioni di vigilanza per impedire che si
commettano stupri e violenze; Phoenix Radio è una stazione radio pirata
tutta nera e femminile, la musica è ovviamente quella soul, reggae e gospel,
la voce che attraversa l’etere quella di Honey con le sue esortazioni ad
opporsi, i suoi incoraggiamenti a lottare, le sue parole per cambiare il
mondo; Radio Regazza è anch’essa una radio underground ma stavolta
all’insegna del bianco, della musica punk rock e del rap di Isabel, che con i
suoi testi poetici richiama alla resistenza attiva; infine, le curatrici della

155
Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano,
Garzanti, 1989, p. 34.
156
Cfr. Gloria Anzaldúa, Bridge, Drawbridge, Sandbar or Island. Lesbians-of-Color Hacienda
Alianzas, in Lisa Albrecht e Rose M. Brewer (a cura di), Bridges of Power. Women’s Multicul-
tural Alliances, Philadelphia, New Society Publishers, 1990, pp. 216-231.
157
Le parole sono di Lizzie Borden stessa e sono tratte da un’intervista rilasciata dalla
regista a Marjorie Baumgarten per l’Austin Chronicle, Light It Up. Feminist Revolution Fuels
Lizze Borden’s Born in Flames, «Austin Chronicle», 22 giugno 2001.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 73

«Socialist Youth Review» sono intellettuali interne al partito, alla strenua


ricerca di politiche più attente, responsabili e sensibili alle questioni femmi-
nili. Le alleanze le più svariate, le revisioni dei propri metodi sempre
benaccette, le strategie quelle da smontare e ricostruire insieme su altre e
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più solide basi. Questo mondo libero, di linguaggi che circolano indistur-
bati, fluidi, di parole radicalmente democratiche Borden l’ha inventato
modellandolo sull’esperienza delle stazioni radio pirata italiane degli anni
Settanta, la stagione breve ma eccezionale delle radio strappate al monopo-
lio di stato sull’etere, una su tutte Radio Alice a Bologna, con le sue
sperimentazioni linguistiche, la sua controinformazione, la “guerriglia” fatta
158
attraverso l’informazione . L’Alice da cui prende il nome la radio è –
singolare coincidenza – quella di Lewis Carroll, quella dell’identità perduta
e fratturata, quella dell’identità di cui ci si riappropria riconquistando il
linguaggio, riprendendosi la parola, ridando fiato alla voce come fanno
Adelaide, Honey, Isabel..., che uniscono i propri sforzi, che agiscono
collettivamente perché la trasformazione sia possibile non solo immagina-
bile, lasciando che il flusso verbale, il sovrapporsi delle voci che si toccano,
che si influenzano, che si contaminano non smetta di convogliare la
ricchezza delle reciproche differenze. I flussi di parole qui si ricongiungono
virtualmente agli odierni flussi globali, laddove il linguaggio in libera
circolazione nello spazio non era che l’anticipazione dell’attuale viaggio in
rete, la navigazione non essendo più quella solitaria, lunga e necessaria al
ritorno a casa ma quella istantanea e immediata che serve per andare da
159
home page a home page , lo spazio nel mezzo azzerato dalla connessione
di tutti con tutti in una sorta di euforica cittadinanza globale. La New York
di Born in Flames disegna il profilo di una cittadinanza femminile globale,
un microcosmo che allude a un macrocosmo, a indicare un futuro immagi-
nato ma mai realizzato in cui «la trasformazione delle soggettività quoti-
diane attraverso la mediazione elettronica... è intimamente connessa alla
politica», politica che parla di «identità di gruppo» che lottano e agiscono
160
per rendere fertili le differenze, le contraddizioni, i conflitti . Se, come
vuole Jameson, l’invenzione di una «mappa cognitiva globale» è l’unica

158
Per una breve storia di Radio Alice vedi l’intervista di Alessandro Marucci a Klemens
Gruber, in «Il Manifesto/Alias», 9 marzo 2002.
159
Cfr. Susan Leigh Star, From Hestia to Home Page. Feminism and the Concept of Home in
Cyberspace, in Morag Shiach (a cura di), Feminism & Cultural Studies, New York, Oxford
University Press, 1999, pp. 565-582.
160
Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001, in particolare alle pp.
25-29.

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74 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

«forma politica del postmoderno», a patto che si presenti però sotto «forme
161
radicalmente nuove» , allora ci piace essere d’accordo con Vivian Sob-
chack quando individua proprio in questo “piccolo” film femminista di
fantascienza la risposta alle preghiere del filosofo americano (e alle nostre):
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«Questa è un nuova forma di rappresentazione per il film di fantascienza:


una forma che non regredisce al passato, non è nostalgica, e non accetta
con compiacenza il presente come unico luogo in cui vivere. Immagina
infatti un futuro – ma uno contiguo al presente, e in rapporto temporale e
162
spaziale con esso. È politico e fa acquisire potere...» ... alle donne.
Dall’altra parte, ma solo in apparenza quella opposta, il passato di La
chambre obscure, uno ieri che guarda al domani delle donne e che sempre a
loro vuole dare potere, la forza del cambiamento, la certezza della trasfor-
mazione.
Il passato del film di Questerbert è il Medioevo e per filmare quell’età di
“tenebre”, quell’epoca oscurantista – sarà un caso? – la regista si discosta dai
codici tradizionali della rappresentazione, come aveva fatto Bresson in
Lancillotto e Ginevra (Lancelot du lac, Francia 1974, 85’), adotta uno stile
ispirato alle miniature medievali e caratterizzato da una certa astrazione, in
cui si moltiplicano le ellissi a cui seguono le dilatazioni, in cui i colori accesi
determinano forti contrasti, in cui la recitazione è stilizzata, in cui la musica,
che si serve delle sonorità degli strumenti medievali, non è utilizzata come
accompagnamento dell’azione ma come componente strutturale mai subor-
dinata all’immagine. La chambre oscure è un adattamento dalla nona novella
della terza giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio, una delle più
marcatamente femministe di tutta la raccolta, che ha come protagonista
una donna – Giletta in Boccaccio e Aliénor nella versione di Questerbert –
che fa parlare il suo desiderio e lo porta in giro per il mondo affinché suo
marito Beltramo di Rossiglione/Bertrand la “tenga” per moglie, pur aven-
dola sposata contro la sua volontà. Ma per farsi portatrice di un desiderio
attivo, per arrivare a rappresentarsi il suo piacere e sentirlo sul suo corpo
Aliénor deve ripercorrere tutte le tappe della sua mancanza, della sua
trasparenza, della sua invisibilità. Aliénor deve riattraversare il suo essere
Donna per oltrepassarlo.
Ed è per questo allora che, relegata da Bertrand nel suo contado
mentre lui è in Toscana a spasimare per un’altra donna, Aliénor non

161
Fredric Jameson, Il postmoderno, cit.
162
Vivian Sobchack, Screening Space. The American Science Fiction Film, New Brunswick and
London, Rutgers University Press, 1998 (seconda ristampa, la prima è del 1987), p. 305.

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...IMPARANDO A DEMOLIRE LA CASA PATERNA 75

aspetta a casa, Aliénor va alla ricerca del suo uomo per dare corpo (è
proprio il caso di dirlo) al suo desiderio. E trovato Bertrand a Firenze
perdutamente innamorato di una gentildonna, Aliénor potrà significativa-
mente conquistarne l’amore solo grazie alla mediazione di un’altra donna.
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Solo accordandosi con la madre della “giovane” amata da suo marito


Aliénor otterrà di dormire ogni notte con il suo Bertrand facendosi passare
per l’altra donna, complice – appunto – una camera immersa nell’oscurità.
Notte dopo notte Aliénor entrerà in quella camera oscura e farà l’amore
con Bertrand fino a rimanere incinta e a costringerlo a riconoscere per la
prima volta sua moglie, lui che non l’ha mai vista, lui che non ha voluto
vederla, lui che ha potuto amarla solo spingendola nel buio. Per uscire
dall’oscurità e darsi un corpo Aliénor ha dovuto attraversare il buio, il
luogo metaforico della sua scomparsa. Ora è passata oltre. Ora si trova
altrove (ma Bertrand, inutile dirlo, ancora non lo sa).
Oggi un corpo femminile che era stato invisibile ha il ventre ingrossato
da un bambino che sta per nascere e che è frutto del suo desiderio. Oggi un
corpo femminile che era stato trasparente ha conquistato carne ed ossa e
con essi un linguaggio del desiderio che parla in prima persona, che non è
più “parlato” dall’Altro.
Non è più tempo di “scomparse”. È ormai tempo che «noi morte ci
163
destiamo» . È tempo di risurrezioni, di rivelazioni, di (ri)apparizioni, di
ritorni. Dal passato e dal futuro, per vivere senza compiacenza il nostro
presente.
Lo diciamo con due versi rubati a una poesia di Patrizia Cavalli:
164
«Ritornerò a dire/la mia luminosa scomparsa» .
La metterò in luce. Io, soggetto, donna. La metteremo in luce. Noi,
soggetti, donne.

163
La citazione è tratta dal titolo del pionieristico saggio del 1971 di Adrienne Rich, When
We Dead Awaken: Writing as Revision, in Id., On Lies, Secrets, Silence: Selected Prose 1966-1978,
New York, Norton, 1979; [tr. it. Quando noi morte ci destiamo: la scrittura come re-visione, in
Segreti, Silenzi, Bugie, Milano, La Tartaruga, 1989]. Il saggio in questione è menzionato in
Maria Teresa Chialant ed Eleonora Rao (a cura di), Letteratura e femminismi, cit., p. 11.
164
Patrizia Cavalli, Poco di me ricordo, in Id., Poesie (1974-1992), Torino, Einaudi, 1992, p.
58.

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CORPI COME SPECCHI

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IDENTITÀ E MISCONOSCIMENTO

di Mary Ann Doane

Nell’elaborazione teorica sul cinema, il termine “identificazione” è stato


uniformemente impiegato per indicare il blocco di ogni processo attivo di
decifrazione da parte dello spettatore. L’identificazione in quanto meccani-
smo è concettualizzata come una riduzione del divario tra film e spettatore,
mascherando l’assenza sulla quale si fonda la rappresentazione cinemato-
grafica. Immagine e suono, riconfermando ciascuno l’intensità dell’altro,
offrono allo spettatore uno spazio vissuto, abitato da corpi simili al suo.
Tuttavia, sebbene possa sembrare che l’intento del film sia quello di
coinvolgere lo spettatore, di cancellare una distanza, è bene che tale
obiettivo non sia raggiunto fino in fondo, come dimostra la preoccupazione
suscitata da episodi che sembrano testimoniare una completa identifica-
zione. James Naremore descrive un tale caso: «Nel novembre 1960, un
diciannovenne di Milwaukee uccise una ragazza a coltellate. Egli si dichiarò
non colpevole per infermità mentale; i suoi legali spiegarono che proprio
1
prima dell’aggressione egli aveva visto Psycho (Id.)» . A prescindere dalla
validità della teoria difensiva degli avvocati, la descrizione dell’episodio fa
emergere l’orrore di una rappresentazione che non riesce a “conservare le
distanze”, una rappresentazione che sembra crollare e fondersi con la realtà.
Pretendendo in un certo senso di diventare Norman Bates, il ragazzo
compie una perversione del meccanismo di identificazione; il film è reso
troppo presente. L’identificazione cinematografica può operare “corretta-
mente” solo a condizione che si riconosca un limite e si conservi una
distanza. Più che realizzare il completo ripiegamento dello spettatore in un

Misrecognition and Identity, «Ciné-Tracts», vol. 3, n. 3, autunno 1980, pp. 25-32.


1
James Naremore, Filmguide to Psycho, Bloomington, Indiana University Press, 1973, p. 72.

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80 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

personaggio (o film), l’identificazione presuppone la sicurezza della moda-


lità “come se”.
Tuttavia, il vago riferimento a una certa vicinanza o aderenza dello
spettatore al film sembra essere l’unica caratteristica che accomuna i diversi
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impieghi del termine identificazione. Il concetto si disperde attraverso una


quantità di registri differenti ed è stato usato per indicare una varietà di
rapporti, che vanno dal legame emotivo al dominio epistemologico. Si
possono facilmente individuare almeno tre casi diversi di identificazione nel
cinema: 1) l’identificazione con la rappresentazione di una persona – lo
spettatore riceve un doppio accesso alla persona rappresentata attraverso i
concetti di personaggio e star; 2) l’identificazione di particolari oggetti,
persone o azioni come oggetti, persone o azioni particolari. In questo caso
l’identificazione è una forma di classificazione o di categorizzazione e
implica la ripetizione di ciò che è già noto; 3) il tipo di identificazione che
Metz indica come «primaria» – «primaria» perché è la «condizione di
2
possibilità del percepito» . Qui, lo spettatore si identifica con «se stesso»
come «sguardo», come pura capacità di vedere. È la stessa istituzione del
cinema che, posizionando lo spettatore come sorgente puntuale di un’im-
magine unificata, propone al contempo anche la coerenza di soggetto e
scena. Lo spettatore diventa lo sfondo unificato della conoscenza, del
conoscibile. Pertanto, secondo Metz è questa la forma fondamentale di
identificazione nel cinema, la forma che rende possibile tutti gli altri tipi di
identificazione e che proietta il cinema ineluttabilmente sul versante del-
l’immaginario. I tre tipi di identificazione appena evidenziati possono
sembrare tratti da problematiche completamente diverse e aliene, ma sono
legati in modo indissolubile.
La prima forma di identificazione – quella che coinvolge il personaggio
e la star – probabilmente non è solo quella più familiare ma anche quella
definita in modo meno chiaro. Poiché dipende dalla nozione di persona
filmata nella sua interezza, questo modo di identificazione “secondario”
(secondo la classificazione di Metz) presuppone un disconoscimento della
bidimensionalità dell’immagine e un investimento nello status di realtà della
diegesi. Infatti, il rapporto stabilito tra lo spettatore e il personaggio è
vagamente un legame di empatia, di simpatia o, se l’identificazione è
veramente riuscita, persino di sostituibilità – non “io sono simile al perso-
naggio” ma “io sono come il personaggio... almeno a questo riguardo”.

2
Christian Metz, The Imaginary Signifier, «Screen», vol. 16, n. 2, estate 1975, p. 51; [tr. it. Il
significante immaginario, in Id. Cinema e psicanalisi, Venezia, Marsilio, 1980, p. 52].

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IDENTITÀ E MISCONOSCIMENTO 81

Volendo essere più precisi, è la posizione rispetto alle azioni della narrativa
e alle esperienze rappresentate che diventa intercambiabile ed è proprio
questa intercambiabilità che tende ad abbattere i confini tra spettatore e
scena.
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Nel cinema il meccanismo di identificazione con un personaggio è


imperniato sulla rappresentazione del corpo. La narrazione è una messa in
scena di corpi e, sebbene le immagini senza corpi siano perfettamente
accettabili entro i suoi limiti, è il corpo del personaggio ad agire come
richiamo percettivo e ancora dell’identificazione. Nella teoria psicanalitica
l’Io è il luogo dell’identità, concepibile solo in termini di forma o limite
offerti dall’involucro corporeo. La tendenza all’unificazione che è caratteri-
stica dell’Io è fortemente legata a un’immagine: quella del corpo. È questo il
caso non solo nella descrizione lacaniana della fase dello specchio, ma
anche nella formula in qualche modo enigmatica di Freud in L’Io e l’Es:
«l’Io è anzitutto un’entità corporea; non è soltanto un’entità superficiale, ma
3
anche la proiezione di una superficie» . In questo senso, non è solo il
protagonista di un film a mettere in moto i meccanismi dell’identificazione,
ma ogni corpo rappresentato sullo schermo che offra, esclusivamente per
mezzo della sua forma riconoscibile, una riconferma della posizione e
dell’identità dello spettatore.
Sovrapposta e inscindibile dall’identificazione col personaggio è l’iden-
tificazione di e con la star, dove la codificazione che mette in rapporto
corpo e identità è particolarmente forte. Fondato sul piacere della tautolo-
gia, questo tipo di identificazione fa assegnamento sul semplice riconosci-
mento della star come star. Nelle parole di Stephen Heath, «la star è
esattamente la conversione del corpo, della persona, nel senso luminoso
4 5
della sua immagine filmica» . La star, in quanto «pezzo di “puro cinema”» ,
riafferma il potere di questo cinema, la sua presa sull’immaginario dello
spettatore. La presenza della star assicura che io non mi identifichi con il
personaggio in quanto “persona reale” ma in quanto super-persona, in
quanto “più grande del vero”, in quanto parte di uno spettacolo rappresen-
tato per me. Ciò che avviene qui non è tanto un’identificazione con una
persona quanto un’identificazione con un momento di cinema. L’entrata in
scena di Rita Hayworth in Gilda (Id.) di Charles Vidor è, a questo riguardo,

3
Sigmund Freud, The Ego and the Id, New York, Norton, p. 16; [tr. it. L’Io e l’Es (1922), in
Opere, vol. IX, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 476-520, p. 488].
4
Stephen Heath, Film and System. Terms of Analysis, Part II, «Screen», vol. 16, n. 2, estate
1975, p. 105.
5
Ivi, p. 104.

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82 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

esemplare. L’inquadratura in cui Ballen/George MacReady chiede alla sua


nuova moglie «sei presentabile?» è immediatamente seguita da un quadro
vuoto che ha la sola funzione di creare e mantenere uno spazio. Gilda/Rita
Hayworth, gettando indietro i capelli con un gesto quasi violento, emerge
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nel quadro e risponde: «io?» (aggiungendo poi, dopo un controcampo di


Johnny/Glenn Ford e mentre si tira su la spallina del vestito, «certo, che
sono presentabile»). Il valore affettivo di questo momento, rafforzato dall’il-
luminazione e dal movimento per entrare nel quadro, è legato allo spetta-
colo del volto riconoscibile, ossia alla capacità stessa del cinema di fabbri-
care il piacere del riconoscimento. Il film stesso prepara il vuoto che Rita
Hayworth colma. E il fatto che sembra esserci sempre maggior spettacolo,
e quindi più cinema, nella rappresentazione della donna non è senza
implicazioni ideologiche. Gilda si sposta nell’immobilità: la donna viene
resa in modo improvviso nella totalizzazione del feticcio.
L’identificazione di e con la star si riversa nel secondo tipo di identifica-
zione indicato sopra, ovvero l’identificazione di oggetti o il riconoscimento
di ciò che viene rappresentato. Questo tipo di identificazione è dato per
scontato, visto il potenziale di iconicità che il film narrativo inevitabilmente
sfrutta. Di fatto, si può affermare con la massima precisione che è proprio
questo tipo di identificazione che colloca il cinema nel regno dell’immagi-
nario, poiché perpetua l’idea di una corrispondenza a tu per tu tra segno e
referente. Metz, in Le perçu e le nomme´, arriva perfino a suggerire che anche
nel caso del film astratto o di avanguardia c’è, da parte dello spettatore, una
sorta di pulsione a riconoscere, a trasferire forme visive e suoni sul piano di
ciò che è familiare. Riconoscere significa risalire a un qualcosa già noto e il
cinema sfrutta continuamente ciò che Freud ha identificato come coazione
a ripetere. La condizione di riconoscibilità non è l’accrescimento di dettagli
metonimici che abbiano come somma il realismo ma, come sottolinea
6
Metz, il riferimento ai “tratti pertinenti” che sono codificati come definenti
l’oggetto, cosı̀ come nella caricatura, per esempio, un particolare tratto di
penna è capace di suscitare il riconoscimento di un naso famoso. Il cinema
narrativo si basa molto sull’economia offerta da un tale sistema, nonché sul
fascino potenziale contenuto nella sua dialettica del nascondere e rivelare.
Per Bazin, è questo il fascino del piano sequenza in Citizen Kane (Quarto
potere) in cui Susan Kane tenta il suicidio. La cinepresa è piazzata dietro un
comodino sul quale è in mostra un grande bicchiere (che occupa almeno
un quarto dell’immagine, come nota Bazin) con un cucchiaio e un flacone

6
Christian Metz, Essais Se´miotiques, Paris, Éditions Klincksieck, 1977, pp. 141-143.

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IDENTITÀ E MISCONOSCIMENTO 83

di medicinali aperto. Il letto di Susan è in una zona d’ombra ma si può


sentire il suo respiro affannoso. In lontananza, sullo sfondo, si vede la porta
della stanza da letto e si sente bussare. Bazin sottolinea il fatto che qui il
riconoscimento da parte dello spettatore è collegato più allo spazio audi-
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tivo che a quello visivo:

Senza aver visto nient’altro che un bicchiere e udito due rumori su due
piani sonori diversi, abbiamo capito di colpo la situazione: Susan si è
chiusa in camera per avvelenarsi; Kane cerca di entrare. La struttura
drammatica della scena è essenzialmente basata sulla distinzione di due
piani sonori: il vicino rantolo di Susan, i colpi di suo marito alla porta. Tra
questi due poli, tenuti a distanza dalla profondità di campo, si stabilisce
una tensione7.

In questa analisi, secondo Bazin riconoscere significa rendere l’imma-


gine leggibile in quanto scena. Nella sua descrizione della scena è implicito
il concetto che la sua “arte” consiste nella riduzione del numero e dei tipi di
significanti necessari al riconoscimento. E questa particolare scena è esem-
plare nella misura in cui è il suono piuttosto che l’immagine a costituirne la
leggibilità, la riconoscibilità.
Tuttavia, malgrado il grande contributo che il suono dà al cinema come
noi lo conosciamo, il terzo tipo di identificazione indicato sopra si fonda su
un’analogia visiva, ovvero quella dello specchio. Metz la definisce “prima-
ria”. Egli tenta di dimostrare come la posizione dello spettatore nel cinema
sia analoga alla posizione determinata dallo specchio nel sistema lacaniano.
La fase dello specchio dell’ordine immaginario rivela che vi è una fonda-
mentale mancanza di realtà nell’immagine che costituisce la prima identifi-
cazione del bambino. Questa immagine è solo un riflesso (per di più
virtuale) e, sebbene rassicuri il soggetto sul suo essere veramente unificato,
tale rassicurazione è fuorviante e non ha valore conoscitivo. Similmente, il
cinema ci offre di più da percepire (se paragonato alle altre arti), ma è
caratterizzato da un’assenza fondante – ciò che c’è da vedere non c’è
veramente.

La specificità del cinema risiede in questa doppia modalità del suo


significante: un’insolita ricchezza percettiva, ma insolitamente segnata

7
André Bazin, Orson Welles: A Critical View, tr. ingl. Jonathan Rosenbaum, New York,
Harper & Row, 1979, p. 78; [tr. it. Orson Welles, a cura di Elena Dagrada, Vercelli, GS
Editrice di Grafica Santhiatese, 2000, pp. 75-76].

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84 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

dall’irrealtà, fin nel profondo, a partire dal suo stesso principio. Più delle
altre arti, o in maniera più singolare, il cinema ci coinvolge nell’immagina-
rio: la percezione viene sollecitata massicciamente, ma per essere imme-
diatamente capovolta nella sua assenza, che tuttavia rimane il solo signifi-
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cante presente8.

Poiché la fase dello specchio può essere considerata come l’identifica-


zione primaria del soggetto, si potrebbe considerarla utile come modello
per comprendere l’identificazione cinematografica. E questo è esattamente
ciò che fa Metz. Tuttavia c’è una differenza sostanziale tra la fase dello
specchio e la situazione del cinema. Tutto può essere “riflesso” sullo
schermo tranne il corpo dello spettatore. Dal momento che lo spettatore
non può identificarsi con la propria immagine, Metz si domanda «con che
cosa si identifica lo spettatore?»
Metz prende brevemente in considerazione la possibilità di identifica-
zione con un personaggio, ma la respinge perché tale genere di identifica-
zione può aver luogo solo nel caso di film narrativi di rappresentazione.
Essendo Metz interessato alla «costituzione psicanalitica del significante del
cinema in quanto tale», queste identificazioni, quando si verificano, devono
per forza essere secondarie. Ma nella visione di qualsiasi tipo di film, lo
spettatore comprende che gli basta chiudere gli occhi perché il film
scompaia, ossia che, in un certo senso, egli è la condizione di possibilità del
film. Anche il proiettore dietro di lui e la macchina da presa davanti a lui
sono riconosciuti come condizioni di possibilità del film e gli “sguardi” di
tutti e tre coincidono (vanno tutti nella stessa direzione). Metz ne conclude
che l’identificazione cinematografica primaria è l’identificazione dello spet-
tatore con il proprio sguardo e, di conseguenza, un’identificazione con la
macchina da presa. È, cosa più importante, un’identificazione del soggetto
9
vedente come «puro atto di percezione» . Qui la descrizione metziana
dell’identificazione cinematografica primaria si ricongiunge con l’ossessione
dell’attuale teoria filmica di assegnare una posizione allo spettatore, pro-
getto che porta a riferire al suo oggetto concetti freudiani come scopofi-
lia/esibizionismo, feticismo e la metapsicologia del sogno. La posizione
dello spettatore descritta dai teorici del film non è geografica ma epistemo-
logica, una posizione che impone un rapporto particolare tra soggetto e
oggetto. La coerenza della visione assicura una conoscenza controllante
che, a sua volta, è garanzia dell’imperturbata centralità e unità del soggetto.

8
Christian Metz, The Imaginary Signifier, cit., p. 48; [tr. it. p. 49].
9
Ivi, p. 51, [tr. it. p. 52].

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IDENTITÀ E MISCONOSCIMENTO 85

Tutti i concetti utilizzati nel trattare la questione del posizionamento


nella teoria del film si fondano sull’assunto che l’investimento dello spetta-
tore nel film sia basato sull’attività di misconoscimento. Lo spettatore identi-
fica erroneamente il discorso come storia, la rappresentazione come perce-
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10
zione, la finzione come realtà . E il film è descritto come teso a
promuovere questo misconoscimento, sfruttandone gli effetti piacevoli.
Perché in definitiva il piacere del misconoscimento risiede nella conferma
della padronanza del soggetto sul significante, nella garanzia di un Io
unificato e coerente capace di controllare gli effetti dell’inconscio. Si tratta,
essenzialmente, di una garanzia dell’identità del soggetto. Pertanto esiste un
senso in cui i concetti di scopofilia/esibizionismo, feticismo e spettato-
re/sognatore sono classificati sotto quello di identificazione cinematogra-
fica primaria. L’identificazione cinematografica primaria comporta non solo
l’identificazione dello spettatore con la cinepresa ma la sua identificazione di
se stesso come condizione di possibilità di ciò che è percepito sullo
schermo. Secondo Metz l’intero apparato cinematografico posiziona lo
spettatore come sito di un’organizzazione: lo spettatore dà coerenza all’im-
magine e al contempo viene posizionato come entità coerente.
11
Ho già sostenuto altrove che vi sono difficoltà con l’uso metziano
dell’analogia dello specchio, difficoltà che si fanno più acute nella sua
ossessione di volere individuare una scena primaria per il cinema, un evento
elementare originario che definisca o delinei con accuratezza l’essere spetta-
tore. Un corollario di tale difficoltà concerne la concettualizzazione dell’i-
dentificazione come istantanea – una concettualizzazione che presuppone
una nozione non dialettica di temporalità nel processo di visione del film.
Metz afferma la priorità di una distinzione prima-dopo: nel suo sistema lo
sguardo dello spettatore rappresenta il momento originario. Infine, l’identifi-
cazione non può essere collocata soltanto sull’asse dello sguardo. Tuttavia,
l’enfasi che Metz pone sull’identificazione primaria indica l’immagine come
unità cinematografica determinante e conferisce alla percezione la qualità
dell’immediatezza. È questa immediatezza attribuita al processo di identifica-
zione che occorre mettere in discussione, unitamente alla separazione
rigorosa realizzata tra identificazione primaria e secondaria.

10
Cfr., insieme a Il significante immaginario, Jean-Louis Baudry, The Apparatus, «Camera
Obscura», n. 1, autunno 1976, pp. 104-126, e Christian Metz.
11
The Film’s Time and the Spectator’s “Space”, relazione presentata alla Fifth International
Film Theory Conference, Center for 20th Century Studies, University of Wisconsin-
Milwaukee, 26-30 marzo, 1979, in corso di pubblicazione in Cinema and Language (MacMil-
lan).

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86 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Tuttavia mi sembra che la forza dell’analogia metziana tra cinema e


fase dello specchio la renda in qualche modo resistente a queste obiezioni;
le dà una verità la cui forma può essere paragonata a quella accordata da
Freud all’ossessione nevrotica. Il modello dello schermo come specchio,
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infatti, mantiene un certo fascino non solo “fuori” dal cinema, nella sua
teorizzazione, ma anche al suo interno. Basti pensare a Madame de... (I
gioielli di Madame de...), The Lady From Shanghai (La signora di Shanghai),
All That Heaven Allows (Secondo amore). L’uso di uno specchio in una scena
ci appare come se costituisse quasi automaticamente un “discernimento” sul
cinema stesso. Esso allinea, infatti, il cinema con l’identificazione speculare
che, pur non essendo necessariamente legata in modo meccanico e formale
alla struttura di uno “sguardo” fondante, è nondimeno una forte compo-
nente del cinema classico. L’idea dello specchio e la sua forza nell’immagi-
nario della teoria del film – nonostante privilegi il significante visivo su
quello auditivo, il momento sulla temporalità – può essere collegata alla
nozione di seduzione visiva per mezzo di un’immagine, facilitata nel
cinema dall’oscurità della sala circostante e dall’immobilità dello spettatore.
La luminosità stessa dello schermo attira l’occhio.
Da questa prospettiva, l’identificazione non può essere scissa dal narci-
sismo o dal dramma dell’Io che lo specchio comporta. Nella sua forma
primaria l’identificazione è molto semplicemente il processo di assumere
un’immagine, come sottolinea Lacan: «basta comprendere lo stadio dello
specchio come una identificazione nel pieno senso che l’analisi dà a questo
termine: cioè come la trasformazione prodotta nel soggetto quando assume
un’immagine, – la cui predestinazione a questo effetto di fase è già indicata
12
dall’uso, nella teoria, dell’antico termine imago» .
La trasformazione compiuta nella fase dello specchio è quella da
un’immagine-corpo frammentata a un’immagine di totalità, unità, coerenza.
Pertanto, essa non è legata tanto all’eventualità empirica di vedersi riflessi in
uno specchio quanto alla possibilità di concettualizzare il corpo come
forma limitata. Come sottolinea Laplanche, la prima identificazione è
«un’identificazione con una forma concepita come limite, come involucro:
13
l’involucro della pelle» . La descrizione freudiana del narcisismo si basa sul
riferimento al trattamento del proprio corpo come oggetto sessuale. Inoltre,

12
Jacques Lacan, Écrits: A Selection, New York, Norton, 1977, p. 2; [tr. it. Scritti (volume I),
Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, Torino, Einaudi, 1974, p. 88].
13
Jean Laplanche, Life and Death in Psychoanalysis, Baltimore and London, Johns Hopkins
University Press, 1976, p. 81; [tr. it. L’io e il narcisismo, in Vita e morte nella psicoanalisi, Bari,
Laterza, 1972, p. 123].

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IDENTITÀ E MISCONOSCIMENTO 87

incorporazione e introiezione sono visti da Freud come prototipi dell’iden-


tificazione quando «il processo mentale è vissuto e simbolizzato come
14
un’operazione somatica (ingerire, divorare, conservare dentro di sé, ecc.)» .
Un’immagine del corpo, ancora l’Io che a sua volta è il punto di articola-
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zione dell’identificazione. Ogni “corpo” può essere usato come uno spec-
chio, ma nella teoria psicanalitica questo corpo è molto spesso, e significati-
vamente, quello della madre. Nell’identificazione, l’altro – personaggio o
immagine – è usato come una staffetta, una sorta di sostituto per dissimu-
lare il fatto che il soggetto non può mai coincidere del tutto con se stesso.
La funzione dell’identificazione primaria è, dunque, stabilire un con-
torno, un confine tra dentro e fuori, ossia tracciare la forma di un’unità
capace di operare come soggetto desiderante (Laplanche parla dell’Io come
«un oggetto, sı̀, ma una specie di oggetto-staffetta, che è in grado di porsi,
più o meno ingannevolmente e arbitrariamente, come un soggetto che
15
vuole e che desidera») . L’identificazione primaria, pertanto, coinvolge la
costituzione stessa dell’Io e dunque agisce come precondizione per il
collegamento tra soggetto e oggetto che consideriamo come identificazione
secondaria. La storia delle identificazioni secondarie del soggetto è la storia
del posizionamento dello stesso in un’economia intersoggettiva che, in
Freud, è dominata dal complesso di Edipo. L’identificazione con il padre, il
supporto del Super-io, diventa il modello per tutte le identificazioni secon-
darie. (Cosı̀, nello schema classico, il Super-io della donna è necessaria-
mente più debole di quello dell’uomo).
Metz segue le linee di questa discussione distinguendo tra identifica-
zione cinematografica primaria e secondaria e perciò presume una rigida
divisione tra l’identificazione primaria, che è fondante, e l’identificazione
secondaria con i personaggi. Laura Mulvey, d’altro canto, nel suo scritto sul
Piacere visivo ammette la possibilità di articolare uno spazio comune nel
quale operano sia l’identificazione primaria sia quella secondaria. Di fatto,
nella sua esposizione l’identificazione primaria sin dall’inizio è modulata,
coperta, dall’identificazione secondaria. Invece di indicare il misconosci-
mento della fase dello specchio come misconoscimento di un’immagine
come realtà, un’assenza come presenza, Mulvey lo collega alla supposta
superiorità dell’Io ideale.

14
Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The Language of Psycho-Analysis, New York,
Norton, 1973, p. 207; [tr. it. Enciclopedia della psicoanalisi, Tomo primo, Roma e Bari,
Laterza, 1993, p. 232].
15
Jean Laplanche, Life and Death in Psychoanalysis, cit., p. 66, [tr. it. p. 101].

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88 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

La fase dello specchio avviene in un momento in cui le ambizioni fisiche


del bambino superano le sue capacità motorie, con il risultato che il
riconoscimento di se stesso procura gioia in quanto egli crede che la sua
immagine riflessa nello specchio sia più completa e perfetta dell’esperienza
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del proprio corpo. Il riconoscimento quindi implica un falso riconosci-


mento: l’immagine riconosciuta è concepita come il corpo riflesso del sé,
ma la superiorità del falso riconoscimento proietta il corpo fuori di sé
come io ideale, soggetto alienato che, reintroiettato come ideale dell’io, dà
origine alla serie di future identificazioni con altri16.

In questa descrizione, la prima identificazione secondaria può essere


fatta risalire all’identificazione “primaria” della fase dello specchio e crolla
cosı̀ l’opposizione tra primario e secondario. Inoltre, in tutte le discussioni
che aboliscono la necessità dello specchio (empiricamente verificabile) e lo
sostituiscono con l’esistenza di una forma umana riconoscibile (per esem-
pio la madre), l’identificazione primaria e secondaria sembrano fondersi.
L’identificazione secondaria, infatti, dipende dalla collocazione dell’esi-
stenza di un oggetto “fuori” dal soggetto – un oggetto con una forma
riconoscibile, più perfetta e completa – un oggetto che può essere incorpo-
rato, introiettato, imitato.
Ma la critica sollevata dall’esposizione di Mulvey è che, nella società
patriarcale, questo tipo di misconoscimento e questo tipo di identità
semplicemente non sono accessibili alla donna. La sua discussione tratta
soltanto dello spettatore maschio (com’è evidente dall’uso del pronome
“egli”) e, implicitamente, situa la spettatorialità femminile come luogo di
un’impossibilità. La divisione di Mulvey del testo classico in due compo-
nenti, spettacolo e narrazione, e il suo correlare queste tendenze con i
meccanismi psichici di scopofilia e identificazione con un Io ideale, suppor-
tano la sua analisi della rappresentazione cinematografica della donna come
forma di rassicurazione del dominio maschile. Incassata nel modo di vedere
legalizzato dal testo classico vi è l’esclusione del femminile. Occorre corre-
lare la problematica dell’identificazione indicata sopra con quella della
differenza sessuale e della sua iscrizione nel cinema nei termini dei suoi
destinatari.
L’identificazione secondaria, nella sua descrizione classica è chiara-
mente compatibile con i meccanismi della società patriarcale e pienamente

16
Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», vol. 16, n. 3, autunno
1975, pp. 9-10; [tr. it. Piacere visivo e cinema narrativo, «Nuova dwf», n. 8, luglio-settembre
1978, p. 30].

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IDENTITÀ E MISCONOSCIMENTO 89

implicata in essi. In termini freudiani è articolata con il padre, il Super-io e


il complesso di Edipo e nella disamina di Mulvey rappresenta un legame
stabilito tra lo spettatore e il protagonista maschile, un legame che auto-
rizza un potere condiviso sull’immagine della donna. L’identificazione
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primaria, d’altra parte, è più difficile essendo situata, nella maggior parte
delle trattazioni, sul versante inferiore della differenza sessuale, prima del
linguaggio, dell’ordine simbolico, della Legge del Padre. Essa definisce
realmente un momento neutro, che antidata lo stabilirsi della differenza
sessuale? Chiunque può guardare in uno specchio? La risposta a questa
domanda ha inevitabilmente delle gravi ripercussioni sull’intero dibattito
relativo allo spettatore e alla differenza sessuale nel cinema.
Il lavoro di Luce Irigaray suggerisce che la donna non ha lo stesso
accesso dell’uomo alla definizione dello specchio. Secondo Irigaray, la
donna è relegata sul versante della negatività. Poiché è posta come man-
canza, non maschile, non uno; poiché la sua sessualità è stata concettualiz-
zata solo entro parametri maschili (la clitoride intesa come il “piccolo
pene”), essa non ha un’unità separata su cui fondare un’identità. In altre
17
parole, non ha una rappresentazione simbolica autonoma . Ma, cosa più
importante e collegata a questo fallimento riguardo all’identificazione, essa
non può condividere il rapporto dell’uomo con lo specchio. Solo il ma-
schio ha accesso al processo speculare privilegiato dell’identificazione dello
specchio. Ed è la conferma del sé offerta dallo specchio piano che, secondo
Irigaray, è «il più adeguato al dominio dell’immagine, della rappresenta-
18
zione, dell’autorappresentazione» . Il termine “identificazione” può descri-
vere le relazioni oggettuali della donna solo in modo provvisorio, poiché
19
nel caso della donna «non può trattarsi d’identità o di non identità» .

17
Cfr. Luce Irigaray, Ce sexe qui n’est pas un, Paris, Les Éditions de Minuit, 1977, pp. 23-32;
[tr. it. Questo sesso che non e` un sesso, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 17-25]. Sono pienamente
consapevole del pericolo dell’essenzialismo nel lavoro di Irigaray – della sua tendenza a
riferirsi alla femminilità come a un’entità essenziale definita da caratteristiche innate.
Tuttavia, il suo lavoro, diversamente da molte teorie femministe che non rischiano l’essen-
zialismo, evita la semplice ri-articolazione delle definizioni patriarcali della donna (anche se
esse sono ri-articolate solo allo scopo di funzionare come oggetto di una critica, processo
che può essere considerato come un ciclo infinito di recupero). La domanda – troppo
complessa per essere affrontata nel contesto di questo articolo – è se il tentativo di fornire
alla donna una rappresentazione simbolica autonoma sia sinonimo di essenzialismo.
18
Luce Irigaray, Speculum de l’autre femme, Paris, Les Éditions de Minuit, 1974, p. 93; [tr. it.
Speculum. L’altra donna, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 71-72].
19
Ibidem. Questa concettualizzazione del rapporto/non rapporto della donna con l’iden-
tità e quindi con il processo di identificazione rende necessariamente problematiche certe
richieste femministe di “personaggi femminili più forti” o di ruoli modello.

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90 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Perché dunque, nei film citati prima – La signora di Shanghai, I gioielli di


Madame de..., Secondo amore – è la donna ad essere legata allo specchio? Il
fatto che il narcisismo e lo specchio siano violentemente accoppiati alla
figura della donna (nel cinema, in psicoanalisi, e nelle codificazioni del
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senso comune) non può che essere un’esca, esca che nasconde che la
donna e` lo specchio per l’uomo e quindi non ha accesso all’identità che
esso offre.
Tuttavia, una tale analisi, che forza l’aderenza del cinema all’apparato
dello specchio, potrebbe sembrare totalizzante, non ammettendo alcuna
possibilità di sviluppo di una pratica filmica alternativa. Proprio per questo
occorre mettere in evidenza che l’effetto-specchio non è presente come
precondizione per la comprensione dell’immagine, come implica Metz
nella sua descrizione dell’identificazione cinematografica primaria, ma
come effetto postumo di un particolare modo del discorso che è stato
storicamente dominante ma che non lo sarà per sempre. Come osserva
Silvia Bovenschen, sotto il profilo delle pratiche estetiche che comunque
dobbiamo affrontare i modelli di rappresentazione tradizionali hanno la-
sciato alla donna due opzioni, egualmente restrittive: «... l’identificazione da
parte della donna può avvenire attraverso un complicato processo di
trasferimento. La donna può o tradire il proprio sesso e identificarsi con il
punto di vista maschile, oppure, in uno stato di passività accettata, può
essere masochista/narcisista e identificarsi con l’oggetto della rappresenta-
20
zione maschile» .
Nel regno della pratica artistica, l’identificazione da parte della lettrice o
della spettatrice non può essere, come per l’uomo, un meccanismo per
mezzo del quale assicurare il controllo. Al contrario, se l’identificazione è
legata anche solo “provvisoriamente” alla donna (come nel caso di Iriga-
ray), può essere vista soltanto come consolidamento della sua sottomis-
sione.
Da questa prospettiva, è solo un caso che la descrizione freudiana
dell’identificazione riguardo alla donna sia imperniata sull’esempio specifico
del dolore, la sofferenza, l’aggressione contro la propria persona, in breve, il
masochismo? In L’interpretazione dei sogni è il sintomo isterico a fungere da
punto di articolazione dell’identificazione. A proposito della discussione di
un sogno in cui una donna identifica l’amica con se stessa per poi
procedere a sognare di un desiderio insoddisfatto, Freud afferma: «l’identifi-

20
Silvia Bovenschen, Is There a Feminine Aesthetic?, «New German Critique», n. 10,
inverno 1977, p. 127.

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IDENTITÀ E MISCONOSCIMENTO 91

cazione è un momento estremamente importante nel meccanismo dei


sintomi isterici; per mezzo suo gli ammalati riescono a esprimere nei loro
sintomi non soltanto le esperienze proprie ma quelle di molte persone; a
soffrire, in un certo senso, per un’intera moltitudine e a rappresentare,
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21
senz’altrui concorso, tutte le parti di una commedia» .
Nel riferimento successivo al contagio di uno spasmo isterico a tutti i
membri di un reparto ospedaliero, diviene ancora più chiaro che per Freud
il segno scritto sul corpo della donna isterica è un perno per lo scambio di
identificazioni masochistiche.
Mentre questa è una spiegazione relativamente primordiale dell’identifi-
cazione, in linea con la prima topografia della psicoanalisi e precedente la
descrizione dell’Io come autentica sedimentazione o storia delle scelte
oggettuali, i tentativi successivi di rielaborare l’identificazione nel contesto
della seconda topografia e dell’economia intersoggettiva del complesso di
Edipo mantengono questo nesso tra la donna e il masochismo. Il capitolo
intitolato Identificazione in Psicologia delle masse e analisi dell’Io comincia con
il delineare l’identificazione del bambino con il padre in quanto ideale – un
processo “squisitamente maschile” – e il suo rapporto con il complesso di
Edipo. Il caso della bambina, però, è esposto in modo diverso. Come
osserva Freud, il meccanismo di identificazione sembra resistere in modo
peculiare a una definizione metapsicologica ed è come se il testo freudiano
possa soltanto attraversare e riattraversare diversi scenari. Il primo riguarda
l’identificazione della bambina con la madre, articolata dal fatto che essa
affetta il sintomo nevrotico esibito dalla madre, una tosse dolorosa. Il
sintomo, secondo Freud, esprime il desiderio colpevole della bambina di
usurpare il posto della madre rispetto al padre. E il dialogo immaginario
che Freud attribuisce al sintomo ne sottolinea gli effetti masochistici: «hai
22
voluto essere tua madre, e ora lo sei – se non altro nelle sofferenze» . Il
secondo scenario in cui Freud drammatizza il rapporto tra la bambina e
l’identificazione è una semplice riscrittura della scena descritta in prece-
denza in L’interpretazione dei sogni. Cambia solo l’ambientazione: da una
corsia d’ospedale a un collegio femminile. Mentre nel caso del bambino il
Super-io è il sostituto dell’identificazione, nella situazione della bambina è il

21
Sigmund Freud, The Interpretation of Dreams, New York, Avon Books, 1965, p. 183; [tr.
it. L’interpretazione dei sogni, in Opere, cit., vol. III, pp. 131-155, alla p. 144].
22
Sigmund Freud, Group Psychology and the Analysis of the Ego, New York, Avon Books,
1965, p. 48; [tr. it. Psicologia delle masse e analisi dell’io, in Opere, cit., vol. IX, pp. 257-330, alla
p. 294].

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92 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sintomo a divenire il «marchio di un luogo di coincidenza tra i due Io che


23
va tenuto in stato di rimozione» .
Se questi esempi non esauriscono la concettualizzazione freudiana
dell’identificazione, indicano però una difficoltà nella teorizzazione dell’i-
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dentificazione femminile che è nuovamente articolata nella teoria del film.


La teoria del film contemporanea delinea certe strutture del vedere –
scopofilia o voyeurismo, feticismo, identificazione primaria – che si alli-
neano alla psicanalisi del maschio. La donna non è mai spettatrice nel vero
senso della parola. A questo riguardo, sarebbe interessante osservare i
contorni, i diversi registri che definiscono la specificità di questi discorsi che
significativamente assumono come destinataria la donna. In quale modo,
per esempio, il «woman’s film» degli anni Quaranta e Cinquanta rivendica
di essere proprietà della donna e di collocarla come punto focale del suo
discorso? Film come Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred ), The Reckless
Moment (Sgomento), Possessed (Anime in delirio), Stella Dallas (Amore sublime),
Suspicion (Il sospetto) e Rebecca (Rebecca, la prima moglie), avendo a che fare
con l’alienazione, gli eccessi del materno, la paranoia e la sofferenza, sem-
brerebbero consolidare la tesi che l’identificazione per la spettatrice non
può che essere concomitante con una posizione masochista. Questo genere
di testo definisce il piacere della donna come non distinguibile dal suo
dolore. Tuttavia, questa descrizione può soltanto definire la specificità della
posizione della spettatrice nel patriarcato. Vi sono anche le inevitabili con-
traddizioni di un discorso che ricorre al voyeurismo, al feticismo e all’iden-
tificazione primaria rivendicando al tempo stesso come destinatario la
donna. È essenziale la mappatura di queste contraddizioni.
Parlare di identificazione e cinema, quindi, non significa individuare un
meccanismo ideologicamente neutrale, che esuli dalle definizioni sessuali.
Significa piuttosto scoprire un altro modo in cui la donna è iscritta come
assente, mancante, vuoto, sul piano sia della rappresentazione cinematogra-
fica sia della sua teorizzazione. Fintanto che si tratta di una questione di
controllo dell’immagine, di rappresentazione e di autorappresentazione,
l’identificazione deve essere considerata in rapporto al posto che occupa
nella problematica della differenza sessuale.

23
Ivi, p. 49; [tr. it. p. 295].

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI.


LA MANCANZA STRUTTURANTE DELLA
TEORIA DEL FILM

di Kaja Silverman

Gli oggetti perduti sono i soli che si ha paura di perdere...

Christian Metz

La teoria del film è stata perseguitata fin dall’inizio dallo spettro di una
perdita o assenza al centro della produzione filmica, una perdita che
minaccia e al tempo stesso rassicura il soggetto della visione. Quando
Jean-Louis Comolli osserva che «l’intero edificio della rappresentazione
1
filmica [...] si trova affetto da una mancanza fondamentale» , fa riferimento
a Münsterberg e Bazin, ma anche a Metz, Oudart, Dayan e a Mulvey.
Questa mancanza fondamentale rivela una notevole propensione allo
spostamento. Talvolta l’assenza che struttura il cinema sembra essere il reale
precluso. Altre volte è identificata con il luogo di produzione nascosto. In
altre occasioni ancora la mancanza parrebbe iscritta nel cinema attraverso il
corpo femminile. Per quanto possano apparire casuali, questi spostamenti
seguono una traiettoria molto precisa. L’identificazione della donna con la
mancanza adempie la funzione di coprire il reale assente e il luogo di
produzione precluso – perdite che sono incompatibili con la “funzione
fallica” in rapporto alla quale viene definito lo spettatore maschio2.
Ciò che sto suggerendo è che la preoccupazione della teoria del film

Lost Objects & Mistaken Subjects. Film Theory’s Structuring Lack, «Wide Angle», vol. 8,
nn. 1 e 2, 1985, pp. 14-29.
1
Jean-Louis Comolli, Machines of the Visible, in Teresa de Lauretis, Stephen Heath (a cura
di), The Cinematic Apparatus, New York, St. Martin’s, 1980, p. 141.

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94 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

per la mancanza è in realtà una preoccupazione per la soggettività maschile


e per ciò che, nel cinema, minaccia costantemente di minarne la stabilità.
Questa ossessione della coerenza del soggetto maschile guida tanto i
dibattiti sul realismo e la sutura quanto quelli sulla rappresentazione e la
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differenza sessuale. Inoltre, già in Münsterberg e Bazin disconoscimento e


feticismo sono schierati a proteggere questa coerenza.
Sebbene il principale interesse di Hugo Münsterberg sia stabilire le
affinità tra la psicologia umana e l’articolazione filmica, egli dedica molto
tempo alla questione del realismo. Lungi però dal privilegiare il rapporto
tra immagine filmica e mondo fenomenico, il suo Film li colloca in
opposizione binaria. Per Münsterberg la condizione essenziale del cinema è
che lo spettatore sia «precisamente cosciente dell’illusorietà della produ-
zione artistica e cioè che deve essere assolutamente separata dalla realtà
delle cose e degli uomini, isolata e mantenuta nel suo ambito»3. Il film, in
altre parole, è definito dalla distanza che lo separa dall’ordine fenomenico,
dall’assenza dell’oggetto o referente. Le relazioni che lo riguardano sono
discorsive, non esistenziali. Münsterberg scrive entusiasticamente di inserti,
dissolvenze incrociate e altri accorgimenti che attirano l’attenzione sui film
come entità costruite.
André Bazin assume indubbiamente una posizione molto diversa sia sul
referente sia sulla sintassi filmica. Egli sostiene che la cinepresa non
soltanto registra, ma traccia anche l’oggetto profilmico, ossia che un legame
esistenziale unisce l’immagine filmica al mondo fenomenico. La transizione
da un’inquadratura all’altra minaccia di infrangere questo rapporto privile-
giato, di sostituirlo con uno arbitrario e artificiale. Il montaggio trasforma
«la realtà nella sua rappresentazione immaginaria»; sostituisce l’assenza alla
presenza4.
Nonostante Bazin affermi che l’immagine fotografica «è l’oggetto stes-
so», e sia convinto che questo continuum è interrotto solo dalla sintassi e

2
In St. Anne, Jacques Lacan scrive che «ogni maschio è schiavo della funzione fallica»,
«Semiotext(e)», vol. 4, n. 1, 1981, p. 217.
3
Hugo Münsterberg, The Film: A Psychological Study, New York, Dover, 1970, p. 69; [tr. it.
Film. Il cinema muto nel 1916, Parma, Pratiche, 1980, p. 90].
4
André Bazin, The Virtues and Limitations of Montage e The Evolution of the Language of
Cinema, in Id., What is Cinema, vol. I, Berkeley, University of California Press, 1967, p. 50 e p.
37; (edizione originale Qu’est-ce que le cine´ma? I-IV, Paris, Les Éditions du Cerf, 1958-1962);
[tr. it. Montaggio proibito e L’evoluzione del linguaggio cinematografico, in Che cosa e` il cinema?,
Milano, Garzanti, 1999, pp. 63-74 alla p. 73 e pp. 74-92 alla p. 90].

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 95

dalla metafora5, egli ammette occasionalmente che la mancanza è in


qualche modo intrinseca al funzionamento del cinema. In Un’estetica della
realtà egli parla della «perdita del reale» che «implica ogni partito preso
realista» e che «permette spesso all’artista di moltiplicare, con le conven-
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zioni estetiche che può introdurre nel posto lasciato libero, l’efficacia della
6
realtà scelta» . Altrove Bazin suggerisce che uno dei sacrifici che pertanto il
cinema esige è la presenza fisica dell’attore e, per estensione, di ogni altro
7
oggetto profilmico .
Christian Metz dà molta importanza a questa particolare assenza. Il
fatto che lo spettatore e l’attore non siano mai nello stesso posto nel
medesimo tempo fa del cinema una storia di incontri mancati, dell’«appun-
tamento mancato del voyeurista e dell’esibizionista, i loro passi non po-
8
tranno raggiungersi più» . Inoltre, a differenza del teatro, che utilizza attori
reali per raffigurare personaggi immaginari, il film comunica la sua illusione
attraverso altre illusioni: è doppiamente simulato, rappresentazione di una
rappresentazione. Per Metz il cinema non soltanto è invaso dalla perdita
dell’evento profilmico ma ne è sinonimo: «ciò che distingue il cinema è un
ulteriore raddoppiamento, un giro di vite supplementare e specifico nella
chiusura ermetica del desiderio sulla mancanza. Prima di tutto perché gli
spettacoli e i suoni che il cinema ci «offre» (ci offre a distanza, quindi, nella
stessa misura, ce li sottrae) sono qui particolarmente ricchi e svariati:
semplice differenza di grado, ma che ha già il suo peso: sono di più «le
9
cose» che lo schermo ci presenta e sottrae alla nostra presa» .
Nonostante la diversità delle loro posizioni teoriche, Münsterberg,
Bazin e Metz concettualizzano la transizione dal referente al segno filmico
come un’incisione chirurgica. Münsterberg parla della necessità che il film
tagli «tutti i possibili collegamenti» con l’ordine fenomenico, che strutturi lo

5
André Bazin, The Ontology of the Photographic Image e The Evolution of the Language of
Cinema, in What is Cinema, cit., p. 15 e pp. 23-40; [tr. it. Ontologia dell’immagine fotografica e
L’evoluzione del linguaggio cinematografico, in Che cosa e` il cinema?, cit., p. 8 e pp. 74-92].
6
André Bazin, An Aesthetic of Reality, in Id., What is Cinema, vol. II, Berkeley, University of
California Press, 1971, p. 29; [tr. it. Un’estetica della realtà: il neorealismo, in Che cosa e` il
cinema?, cit., pp. 289-290].
7
André Bazin, Bicycle Thief, ivi, p. 59; [tr. it. Ladri di biciclette, ivi, pp. 314-315].
8
Christian Metz, The Imaginary Signifier: Psychoanalysis and the Cinema, Bloomington,
Indiana University Press, 1982, p. 63; (edizione originale Le signifiant imaginaire. Psychanalyse
et cine´ma, Paris, Union Générale d’Éditions, 1977); [tr. it., Cinema e psicanalisi. Il significante
immaginario, Venezia, Marsilio, 1980, p. 67].
9
Ivi, p. 61; [tr. it. p. 65].

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96 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

spettacolo in modo che tutti i legami con l’oggetto siano «troncati»10. Bazin,
che si oppone all’usurpazione del referente da parte del segno e considera il
montaggio l’agente dell’usurpazione, definisce il montaggio come un proce-
dimento che sminuzza il mondo in «piccoli frammenti», infrangendo l’unità
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«naturale degli esseri e delle cose»11. Metz usa il termine «castrazione» per
descrivere la mancanza strutturante del cinema, evidenziando cosı̀ la posta
molto personale dello spettatore nella perdita dell’oggetto e aggiungendo
una nuova dimensione alla metafora del tagliare e spezzettare utilizzata dai
suoi predecessori.
Metz non soltanto mette in rapporto la perdita dell’oggetto con la
castrazione, ma suggerisce anche che lo spettatore o la spettatrice si
proteggono dal trauma di tale castrazione attraverso meccanismi difensivi
simili a quelli adottati dal bambino di Freud: disconoscimento e feticismo.
Lo spettatore di Metz appare diviso tra la consapevolezza e l’inconsapevo-
lezza: «qualsiasi spettatore sosterrà che ‘‘lui non ci crede’’, ma tutto succede
invece come se ci fosse qualcuno da illudere, qualcuno che ‘‘ci crederebbe’’
veramente [...] Questo credulo è certamente in noi, resta nascosto sotto
l’incredulo, o nel suo cuore, è quello che continua a credere, che rinnega
quello che sa [...]»12.
Come il bambino che vede i genitali femminili per la prima volta e che
disconosce l’assenza del pene, questo spettatore o spettatrice rifiuta di
ammettere ciò che invece sa perfettamente, ossia che il cinema è fondato
sulla mancanza dell’oggetto.
Sebbene Metz sia stato il primo a collocare questa divisione epistemo-
logica in un contesto psicanalitico, non è però stato il primo a notarla.
Münsterberg scrive che «non siamo mai illusi» riguardo alla piattezza
dell’immagine filmica e tuttavia le attribuiamo la tridimensionalità13. Bazin
fa un’osservazione simile sull’illusione filmica in Montaggio proibito: «ciò di
cui c’è bisogno per la pienezza estetica dell’impresa è che noi possiamo
credere alla realtà degli avvenimenti sapendo che sono truccati [...] Allora lo
schermo riproduce il flusso e il riflusso della nostra immaginazione che si
nutre della realtà alla quale progetta di sostituirsi...»14.

10
Hugo Münsterberg, The Film, cit., p. 64; [tr. it. p. 85].
11
André Bazin, The Evolution of the Language of Cinema, cit., p. 38; [tr. it. p. 91].
12
Christian Metz, The Imaginary Signifier, cit., p. 72; [tr. it. p. 75].
13
Hugo Münsterberg, The Film, cit., p. 23; [tr. it. p. 38].
14
Andrè Bazin, The Virtues and Limitations of Montage, cit., p. 48; [tr. it. p. 70].

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 97

Il flusso e il riflusso dell’immaginazione baziniana rappresentano il


doppio movimento del disconoscimento, il «lo so molto bene, ma ciò
nondimeno...» di un soggetto diviso lungo l’asse della credenza15.
Metz suggerisce che, come nella situazione descritta da Freud, il
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disconoscimento di una conoscenza destabilizzante nel cinema è facilitato


dalla costruzione di un feticcio. Il soggetto spettatore o spettatrice si
protegge dalla percezione della mancanza ponendo un surrogato al posto
del reale assente. Tale surrogato diviene la precondizione per il piacere.
Curiosamente, però, Metz sostiene che il feticcio filmico il più delle
volte è un virtuosismo tecnico o uno splendore formale: una dimostrazione,
per cosı̀ dire, della «bontà» del dispositivo16. Egli suggerisce, cioè, che
l’oggetto perduto viene rimpiazzato da un’aperta esibizione di artificio. Ciò
che lascia perplessi di questo ragionamento è che postula una situazione
feticistica in cui non c’è sospensione o miscredenza. Gli operatori, i registi, i
critici e gli spettatori di cui parla, e il cui amore per il cinema è amore della
tecnica, hanno già aderito alla perdita del reale, e non trovano nulla di
traumatico in essa. Il loro investimento non è nel rapporto ontologico tra
immagine e oggetto, ma nel rapporto produttivo tra la macchina e l’imma-
gine.
Comolli propone un’articolazione più convincente del feticismo filmico
quando suggerisce che il reale assente è sostituito da un reale simulato, che
egli chiama un’«impressione di realtà»17. Questa formulazione riecheggia
quella avanzata da Bazin in Un’estetica della realtà, dove egli illustra le
condizioni che rendono possibile il «flusso e riflusso» dell’immaginazione
dello spettatore:

chiameremo dunque realista ogni sistema di espressione, ogni procedi-


mento di racconto che tenda a far apparire più realtà sullo schermo [...] Al
termine di questa chimica inevitabile e necessaria si è sostituita alla realtà
iniziale un’illusione di realtà [...] È un’illusione necessaria, ma essa com-
porta rapidamente la perdita di coscienza della realtà stessa che si identi-
fica nello spirito dello spettatore con la sua rappresentazione cinematogra-
18
fica .

15
Peter Wollen osserva le affinità tra questo passo di Bazin e il saggio di Freud sul
feticismo in “Ontology” and “Materialism” in Film, «Screen», vol. 17, n. 1, 1976, p. 9.
16
Christian Metz, The Imaginary Signifier, cit., p. 74; [tr. it. p. 77].
17
Jean-Louis Comolli, Machines of the Visible, cit., p. 133.
18
André Bazin, An Aesthetic of Reality, cit., p. 27; [tr. it. pp. 286-287].

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98 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Bazin descrive qui l’operazione feticista paradigmatica, nella quale una


costruzione non soltanto sostituisce l’oggetto assente, ma viene anche
confusa o identificata con esso.
Nulla descrive il feticcio filmico in modo più vivido dell’affermazione
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baziniana che «l’immagine è l’oggetto stesso». Tuttavia esso si manifesta


anche in altri modi, il più delle volte attraverso l’importanza che lo
spettatore o il teorico attribuiscono ai legami esistenziali e analogici che
legano l’immagine all’oggetto. Comolli suggerisce che «l’impazienza
estrema dei primi spettatori di riconoscere nelle immagini dei primi film» il
doppio oggettivo della «vita stessa» derivava proprio da una «mancanza da
19
riempire», dalla mancanza dell’oggetto o del referente . In altre parole, il
desiderio di percepire somiglianza dove c’era ancora un’immagine scarsa-
mente discernibile testimoniava l’imperativo di trovare un surrogato con
cui coprire il reale assente.
Münsterberg devia l’attenzione dall’oggetto al soggetto dello scambio
feticista quando sottolinea la necessità che il testo filmico esista in «perfetto
isolamento» dallo spettatore. Il feticista, non meno del voyeur, dipende dal
mantenimento di una distanza da ciò che gli assicura il piacere. In effetti,
anche fuori dal cinema il feticista comincia sempre come voyeur, esigendo
che l’attrezzeria erotica funzioni come spettacolo prima di qualsiasi conver-
genza tattile. Il feticcio, come nota Stephen Heath, è «uno splendore,
qualcosa di illuminato, intensificato, descritto come sotto una lampada ad
arco, un punto di rappresentazione (teatrale); di qui lo sguardo; il soggetto
20
è insediato (come al teatro o al cinema) per la rappresentazione» . Natural-
mente nel cinema non vi sono convergenze tattili e la distanza tra spetta-
tore e spettacolo rimane incolmabile.
Questa distanza non produce solo il feticismo, ma consente anche al
feticista di ignorare quale sia la propria posta nella rappresentazione filmica,
di conformarsi alla limitazione di Münsterberg che «la nostra relazione
personale con l’opera d’arte non deve assolutamente entrare nella nostra
21
consapevolezza dell’opera stessa» . Come vedremo, questa limitazione
getta una luce considerevole sia sul rapporto del feticismo filmico con
l’«impressione di realtà» che prende il posto del reale perduto, sia sul
rapporto del maschio feticista con la donna come spettacolo.
Castrazione, disconoscimento, feticismo: che cosa dobbiamo pensare

19
Jean-Louis Comolli, Machines of the Visible, cit., p. 124.
20
Stephen Heath, Lessons from Brecht, «Screen», vol. 15, n. 4, 1970, p. 107.
21
Hugo Münsterberg, The Film, cit., p. 69; [tr. it. p. 90].

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 99

dell’affidamento che la teoria del film fa sulla psicoanalisi per spiegare


l’assenza dell’oggetto nell’esperienza filmica, come pure le difese dello
spettatore rispetto a questa assenza? E perché il ritorno costante a concetti
psicanalitici che derivano il loro valore apparente dal momento fondante
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della differenza sessuale?


È più facile rispondere alla prima di queste domande che alla seconda.
Non esiste un problema dell’oggetto che non sia nello stesso tempo anche
un problema del soggetto, non una perdita nel cinema che non sia anche
una perdita dentro lo spettatore. Se è la crisi a circondare la scoperta che la
costruzione filmica è organizzata intorno all’assenza, ciò accade perché il
soggetto spettatore è organizzato intorno alla stessa assenza.
La storia del soggetto che riscopre se stesso o se stessa all’interno del
cinema si rivela attraverso una serie di “fessure” o divisioni che si rivoltano
contro l’oggetto. Effettivamente questo punto può essere esposto anche con
maggior forza: le suddette fessure o divisioni producono al tempo stesso il
soggetto e l’oggetto, costituendo l’uno in opposizione all’altro. L’ingresso
del bambino nell’ordine simbolico ha luogo solo a un costo considerevole,
non soltanto attraverso la perdita di numerose “parti” del sé, che sono
relegate allo stato di oggetti, ma anche attraverso il sacrificio del proprio
essere.
La prima di queste divisioni sopraggiunge nella fase dello specchio,
quando il bambino arriva a una percezione iniziale di sé. Tale percezione è
indotta attraverso un’immagine mediata dalla cultura che rimane irriducibil-
mente esterna e che di conseguenza instilla nel bambino una sensazione di
differenza nello stesso momento in cui intravede questa identità. La sensa-
zione di differenza è regolata dal fatto che il bambino compie la scoperta di
sé attraverso un processo di sottrazione, ovvero mediante la cognizione
rudimentale di essere ciò che rimane quando un oggetto familiare (per
esempio la madre) è stato rimosso. Fin dal primo momento, dunque, la
soggettività si fonda sul riconoscimento di una distanza che separa il sé
dall’altro, su un oggetto la cui perdita è simultanea alla sua percezione.
La comprensione ancora molto incerta che il bambino ha dei suoi
confini diviene più salda col distacco dai vari oggetti che ha precedente-
mente sperimentato come parti del sé – il seno, le feci, la voce della madre,
una coperta amata. Tuttavia questi oggetti conservano la loro aura di
presenza anche dopo essere divenuti assenti, pertanto Lacan li descrive
come objets petit autre (oggetti con soltanto una piccola “differenza”).
Incisi nella stessa carne del soggetto, questi oggetti testimoniano con
straordinaria forza i termini secondo i quali il soggetto entra nel simbolico,

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100 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

le divisioni attraverso le quali egli acquista la propria identità e che


costituiscono il mondo di oggetti dal sé del soggetto. Sebbene il suo pieno
impatto venga avvertito solo più tardi, con l’ingresso nel linguaggio e nella
matrice edipica, la separazione delle parti oggetto dal soggetto infantile è
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sperimentata come castrazione. Lacan sottolinea che l’objet petit a è sempre


22
«legato agli orifizi del corpo» . È «qualcosa da cui il soggetto, per costi-
tuirsi, si è separato come organo» e che perciò «vale come simbolo della
23
mancanza» .
L’oggetto acquisisce cosı̀ fin dall’inizio il valore di ciò senza di cui il
soggetto non potrà mai essere intero o completo, e che di conseguenza
anela. Al contempo, l’identità culturale del soggetto dipende da questa
frammentazione. In effetti, si potrebbe quasi affermare che nella misura in
cui si è perso l’oggetto si è trovato il soggetto. Perché a questo punto nella
storia del bambino – che generalmente è designato come il momento
dell’“immaginario” – l’oggetto gode solo di una piccola “diversità”, il
soggetto di una piccola “somiglianza”. Saranno necessarie ulteriori divisioni
e perdite perché il bambino possa emergere come soggetto culturale
coerente.
L’ingresso nel linguaggio rappresenta la congiuntura in cui l’oggetto è
perduto in modo definitivo e irrimediabile e il soggetto è trovato in
maniera altrettanto definitiva e quasi irrimediabile. È anche l’occasione per
un ulteriore sacrificio, quello dello stesso essere del soggetto. Tali perdite
sono determinate dal fatto che pur sostituendosi al reale, il significato non è
in alcun modo motivato da ciò che soppianta, né lo riflette. Il significante
parla per l’oggetto senza parlare in alcun modo dell’oggetto. Si tratta di una
24
rappresentazione non rappresentativa .
Quando affermiamo che il linguaggio prende il posto del reale, inten-
diamo dire che prende il posto del reale per il soggetto, che il bambino
identifica con un significante attraverso il quale è inserito in un campo
chiuso di significato. In questo campo del significato, tutti gli elementi –
compreso il pronome in prima persona che sembra designare in modo

22
Jacques Lacan, Seminar of 21 January 1975, in Juliet Mitchell e Jacqueline Rose (a cura
di), Feminine Sexuality, New York, Norton, 1983, p. 164.
23
Jacques Lacan, Seminar XI, citato da Stephen Heath in Anata Mo., «Screen», vol. 17, n. 4
(1976/77), p. 53; [tr. it. Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi
(1964), Torino, Einaudi, 1979, p. 105].
24
Jacques Lacan, The Subject and the Other: Aphanisis, in Four Fundamental Concepts of
Psychoanalysis, tr. ingl. Alan Sheridan, New York, Norton, 1978, p. 218; [tr. it Afanisi. I
quattro concetti fondamentali della psicanalisi, cit.].

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 101

trasparente il soggetto – sono definiti esclusivamente attraverso il gioco


delle differenze codificate. Nessuno di questi elementi è capace di superarsi
per riprendere contatto con il reale. Alla fine, dunque, la porta si chiude sia
sull’essere del soggetto sia sull’oggetto. Lacan rende l’idea dell’estremità
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dell’opposizione tra linguaggio e ordine fenomenico quando la descrive


25
come scelta tra senso e vita .
È proprio l’irrecuperabilità dell’oggetto al soggetto, la distanza irriduci-
bile che separa la rappresentazione dal reale, che il cinema spesso sembrava
dover superare. Siegfried Kracauer descrive «l’inveterato frequentatore di
cinema» come una persona alienata dal mondo fenomenico, che spera di
trovare nella sala oscurata ciò che ha perso altrove, ovvero la «presenza
26
grezza e non modificata di oggetti naturali» . Questa figura immaginaria,
che è una specie di distillato delle aspirazioni realiste non solo di Kracauer
ma anche di Bazin, «attribuisce la propria sofferenza [...] al fatto di non
essere in contatto col mondo che respira intorno a lui, con quel fluire di
cose e avvenimenti che, se riuscisse a penetrarli, renderebbero la sua
esistenza più eccitante e significativa. Gli manca la “vita”. E il cinema lo
attira perché gli dà l’illusione di partecipare per procura alla vita nella sua
27
pienezza» . La vita che questo spettatore agogna è senza dubbio la propria.
Kracauer lo illustra non soltanto ponendo l’accento sull’autoalienazione del
cinefilo, ma anche attraverso la metafora natale per mezzo della quale
articola il rapporto ideale tra il dispositivo e l’evento profilmico. I film,
scrive, si conformano molto rigorosamente ai nostri sogni quando la
cinepresa appare come se «avesse appena tirati fuori (gli oggetti) dal
grembo dell’esistenza fisica e il cordone ombelicale tra immagine e realtà
28
non fosse ancora stato tagliato» . Lo spettatore di Kracauer desidera non
solo ripristinare la pienezza fenomenica, ma anche tornare a una condi-
zione presoggettiva. Significativamente, la linea di comunicazione vitale che
riconduce alla fusione e alla non-differenziazione è il rapporto indicizzato
della cinepresa con l’oggetto.
Il rapporto indicizzato della cinepresa con l’evento profilmico ha sem-
pre fornito la garanzia più affidabile che il cinema è di fatto capace di
restituire l’oggetto al soggetto. Quando Bazin celebra la capacità della

25
Jacques Lacan, The Subject and the Other: Alienation, ivi, pp. 211-213; [tr. it. Alienazione. I
quattro concetti fondamentali della psicanalisi, cit.].
26
Siegfried Kracauer, Theory of Film, London, Oxford University Press, 1960; [tr. it. Teoria
del film, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 260].
27
Ivi, p. 167; [tr. it. p. 265].
28
Ivi, p. 164; [tr. it. p. 260].

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102 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

cinepresa di riprodurre ciò che le sta davanti, quando sostiene l’elimina-


zione di ogni intervento umano, si appoggia interamente su questa garan-
zia:
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Per la prima volta, ecco che tra il modello e la sua riproduzione interviene
soltanto l’aiuto di un agente non vivente. Per la prima volta, un’immagine
del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creativo
dell’uomo [...] Tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo
nella fotografia ne godiamo l’assenza. Essa agisce su di noi in quanto
fenomeno «naturale», come un fiore o un cristallo di neve la cui bellezza è
inseparabile dalle origini vegetali o telluriche.
Questa genesi automatica ha sconvolto radicalmente la psicologia dell’im-
magine. L’oggettività della fotografia le conferisce un potere di credibilità
assente da qualsiasi opera pittorica. Quali che siano le obiezioni del nostro
spirito critico siamo obbligati a credere all’esistenza dell’oggetto rappre-
sentato [...]29.

Nonostante il suo fervore utopico, questo brano tratto da Ontologia


dell’immagine fotografica rivela un’interpretazione complessa del rapporto
binario del soggetto con il referente, del fatto che la presenza dell’uno
necessita dell’assenza dell’altro, dal momento che il primo appartiene
all’ordine simbolico e il secondo al dominio del fenomenico. In questo caso
Bazin opta per la materialità bruta piuttosto che per il senso: la sua
nostalgia per l’oggetto perduto è cosı̀ intensa che è disposto a sacrificare la
soggettività per assicurarne la restituzione. Tuttavia, la mancanza ritorna
attraverso il consueto itinerario baziniano, ossia ricordando che i film sono
montati, e che i rapporti tra un’inquadratura e l’altra usurpano quelli che si
stabiliscono tra la cinepresa e l’evento profilmico. Egli è costretto a conclu-
dere il suo saggio-sogno con l’ammissione: «d’altra parte il cinema è un
linguaggio»30.
Il cinema rivive cosı̀ il desiderio primordiale per l’oggetto solo per
deluderlo, riattivando il trauma originario della sua scomparsa. Poiché la
perdita dell’oggetto comporta sempre una perdita di ciò che una volta era
parte del soggetto, essa è (nel senso più stretto del termine) una castra-
zione. L’uso che Metz fa di tale concetto pertanto non è né idiosincratico
né iperbolico. In effetti, Serge Leclaire afferma che castrazione è il solo
termine corretto per designare la frattura con il reale indotta dal linguaggio;

29
André Bazin, The Ontology of the Photographic Image, cit., p. 13; [tr. it. pp. 7-8].
30
Ivi, p. 16; [tr. it. p. 10].

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 103

il solo all’altezza del compito di evidenziare «la radicalità della divisione tra
l’ordine della lettera (il significante) e l’alterità dell’oggetto»31.
Se castrazione è l’unica parola che può essere riferita in modo appro-
priato alla perdita dell’oggetto indotta dal significato, e se il film è (come
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riconosce anche Bazin) un linguaggio, allora i termini misconoscimento e


feticismo potrebbero apparire altrettanto adeguati per definire certe strate-
gie impiegate dal cinema classico per dissimulare questa perdita. La fiducia
che Metz ripone nei significanti ha la virtù aggiunta di attirare l’attenzione
sul fatto che, quando il film ricopre il reale assente con una realtà simulata
o costruita, compensa anche la mancanza del soggetto spettatore, restituen-
dogli una pienezza immaginaria.
Come ho suggerito all’inizio di questo saggio, la mancanza che osses-
siona la teoria del film si dimostra sorprendentemente mobile. Al con-
tempo, i suoi spostamenti seguono una traiettoria precisa che va dalla
perdita dell’oggetto, al luogo di produzione precluso, alla rappresentazione
della donna come mancanza. Questi spostamenti orchestrati hanno quale
scopo finale l’articolazione di un soggetto maschile coerente. Prima di
affrontare la seconda delle questioni poste sopra, ossia la domanda sul
perché la teoria del film spieghi la mancanza strutturante del cinema con
concetti tratti dal lavoro di Freud sulla differenza sessuale, occorre fare
alcune considerazioni sul luogo di produzione precluso.
Abbiamo visto che l’oggetto viene perso per la prima volta (e il
soggetto trovato per la prima volta) al momento dell’accesso linguistico. Il
cinema replica questo dramma della perdita fenomenica e del recupero
culturale. La sua «insolita ricchezza percettiva»32 infonde nello spettatore il
senso immaginario di possesso descritto da una delle persone intervistate
da Kracauer, la quale affermava che al cinema «ci si sente, per cosı̀ dire,
simile a un dio che vede tutto, si ha la sensazione che nulla ci sfugge e che
siamo in grado di cogliere tutto l’insieme»33. Comunque, questo piacere di
possesso è costantemente a repentaglio; gli oggetti del cinema non sono
soltanto fantasmatici, ma appartengono anche all’ordine del significante.
Qui come altrove le operazioni di senso escludono il reale; nel momento in
cui lo spettatore allunga la mano per reclamare l’evento profilmico esso
dissolve in nero.

31
Serge Leclaire, De´masquer le re´e´l: un essai sur l’objet en psychanalyse, Paris, Les Éditions du
Seuil, 1971, p. 50.
32
Christian Metz, The Imaginary Signifier, cit., p. 45; [tr. it. p. 49].
33
Siegfried Kracauer, Theory of Film, cit., p. 171; [tr. it. p. 267].

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104 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

I teorici della sutura danno molta importanza a questa usurpazione


della transizione da un momento mitico, nel quale lo spettatore vive un
«rapporto bivalente» con l’immagine filmica e in cui lo spazio è «ancora
una pura estensione di jouissance», al congelamento di quest’immagine in
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34
una «lettera congelata, che significa un’assenza nel corso del suo avvento» .
Tuttavia, i teorici della sutura non mancano di condurre l’analisi semiotica
un gradino avanti, sottolineando che i significanti filmici, come le loro
controparti linguistiche, sono attivati solo all’interno del discorso, e tale
discorso richiede sempre un agente di enunciazione. Jean-Pierre Oudart e
Daniel Dayan evidenziano, in breve, che i film sono necessariamente
35
parlati .
Sulla scia della teoria dell’autore, e come reazione al suo privilegiare la
singola voce, la teoria del film si è molto impegnata a distinguere l’agente
di enunciazione del cinema dalla figura del regista o dello sceneggiatore. Il
risultato è stato il maggior rilievo dato sia al ruolo produttivo del disposi-
36
tivo tecnologico e ideologico sia alle strategie per nascondere questo
dispositivo alla vista generale.
L’articolazione filmica è stata tracciata in parte nel complesso di
macchine senza le quali sarebbe rimasta solo una possibilità astratta, e in
parte nei codici specifici e non specifici responsabili della generazione del
senso. E dato che questa dispersione creativa va contro la visione umanista
dominante della paternità dell’autore, spesso viene coperta (nei film e negli
scritti sui film) da una rappresentazione armonizzante. Identificata con la
visione umana, molto spesso è la macchina da presa a fornire tale rappre-
37
sentazione armonizzante , sebbene esempi filmici tanto diversi come Dou-

34
Jean-Pierre Oudart, Cinema and Suture, «Screen», vol. 18, n. 4, (1977/1978), p. 41, p. 44.
35
Daniel Dayan, The Tutor Code of Classical Cinema, in Bill Nichols (a cura di ), Movies and
Methods, Berkeley, University of California Press, 1976, pp. 438-51. Per ulteriori letture sulla
sutura vedi Stephen Heath, Notes on Suture, «Screen», vol. 18, n. 4, 1977-78, pp. 48-76; Claire
Johnston, Towards a Feminist Film Practice: Some Theses, «Edinburgh Magazine», n. 1, 1976,
pp. 50-59; Kaja Silverman, Suture, in The Subject of Semiotics, New York, Oxford University
Press, 1983, pp. 194-236; e Leslie Stern, Point of View: The Blind Spot, «Film Reader», n. 5,
1979, pp. 214-236.
36
Vedi Metz, Story/Discourse (A Note on Two Kinds of Voyeurism), in The Imaginary Signifier,
cit., pp. 89-98, [tr. it. Storia/Discorso (nota su due voyeurismi), in Cinema e psicanalisi..., cit., pp.
83-90]; e Jean-Louis Baudry, Ideological Effects of the Basic Cinematographic Apparatus, «Film
Quarterly», vol. 28, n. 2, (1974/1975), pp. 39-47, e The Apparatus, «Camera Obscura», n. 1,
1976, pp. 104-128.
37
Vedi Comolli, Machines of the Visible, cit., pp. 124-127; Metz, The Imaginary Signifier, cit.,
pp. 49-52, [tr. it. pp. 53-55]; e Jean-Louis Baudry, Ideological Effects of the Basic Cinematogra-
phic Apparatus, cit., pp. 41-42.

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 105

ble Indemnity (La fiamma del peccato, Billy Wilder, 1944), The Conversation
(La conversazione, Francis Ford Coppola, 1974), David Holzman’s Diary (Jim
McBride, 1967) e Blow Out (Id., Brian De Palma, 1981) suggeriscono che il
magnetofono può adempiere una funzione simile in virtù della sua associa-
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zione all’udito. Insieme, queste due macchine privilegiate rendono possibile


un certo antropomorfismo del dispositivo filmico, la sua concettualizza-
zione in termini di spettatore e ascoltatore trascendentali.
Tuttavia, come osservano Dayan e Oudart, nemmeno questa finzione
rassicurante può dissimulare il fatto che l’agente di enunciazione del cinema
è assente dalla costruzione filmica, ossia che, come l’oggetto profilmico,
occupa una scena diversa da quella abitata dal soggetto che guarda. Il punto
dell’origine discorsiva è nascosto e velato. Eccede lo spettatore, che non vi
ha alcun accesso. Oudart fa riferimento al «parlante» invisibile del cinema –
38
al luogo di produzione precluso – come all’«Assente» .
Questa seconda mancanza si manifesta anche prima del montaggio. È
implicita nella singola inquadratura, nell’elemento centrale della teoria del
realismo di Bazin. Dayan e Oudart sostengono che non appena lo spetta-
tore (o la spettatrice) si accorge dell’interlinea, diviene consapevole della
costrizione visiva, e quindi di un agente di controllo invisibile. Lo spetta-
colo è svuotato della sua pienezza, diventando un significante vuoto per
l’enunciatore invisibile. Pertanto, l’immagine filmica, invece di interessare lo
spettatore «come un fenomeno naturale», attesta l’artificio e la coercizione.
Per quanto riguarda il piacere dello spettatore, potenzialmente l’assenza
del luogo di produzione dalla scena diegetica è tanto distruttiva quanto
l’assenza dell’oggetto. Dayan suggerisce che la scoperta di un campo di là
dello sguardo è vissuta come «spoliazione», come diminuzione o perdita
del potenziale visivo. Presumibilmente questa scoperta contribuisce anche
al senso di insufficienza auditiva dello spettatore. Il successo del cinema
classico può essere valutato in base al livello della sua capacità di sostituire
campi fittizi a quello irrimediabilmente assente, ossia dalla misura in cui
riesce a costruire surrogati adeguati.
Il campo/controcampo è generalmente ritenuto particolarmente confa-
cente a questo scopo, giacché la seconda inquadratura si propone di
mostrare ciò che mancava nella prima; insieme le due inquadrature sem-
brano comprendere un intero perfetto. Inoltre, tipicamente una di queste
inquadrature raffigura qualcuno che guarda mentre l’altra sembra fornire
l’oggetto di questo sguardo. La formazione campo/controcampo simula

38
Jean-Pierre Oudart, Cinema and Suture, cit., p. 36.

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106 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

cosı̀ lo scambio scopico dietro la produzione di immagini filmiche. Non


soltanto propone una versione immaginaria del campo assente, ma associa
una visione autoritaria a un personaggio inventato, un personaggio che
prende il posto dell’enunciatore invisibile. In questo modo lo spettatore
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rientra in possesso della potenza visiva (e auditiva), persuaso che il suo


sguardo non subisca costrizioni.
A questo punto dovrebbe essere ormai evidente che i teorici della
sutura si basano con la stessa convinzione di Bazin, Metz e Comolli sul
paradigma castrazione, disconoscimento, feticismo. Tuttavia, essi spostano
l’attenzione dal reale assente all’ordine simbolico e alla ripartizione di
potere all’interno di tale ordine. Mentre Bazin, Metz e Comolli sono
interessati innanzitutto alla soppressione dell’oggetto, Oudart e Dayan si
occupano invece della repressione del soggetto, dell’alienazione dello spet-
tatore dal luogo di produzione filmica. Secondo loro, il trauma di castra-
zione sopraggiunge quando lo spettatore riconosce la propria impotenza
discorsiva, quando comprende di essere «autorizzato a vedere soltanto ciò
che si trova ad essere in asse con lo sguardo di un altro spettatore, che è
39
fantasmatico o assente» . Il disconoscimento di questa mancanza è sempre
un’operazione ideologica, perché restituisce lo spettatore alla sua prestabi-
lita posizione di soggetto e consolida i rapporti di potere esistenti.
Possiamo dire, quindi, che la preoccupazione della teoria del film
riguardo la castrazione, il disconoscimento e il feticismo è motivata non
soltanto dall’esclusione che il cinema opera rispetto all’oggetto, ma anche
dal suo subordinare lo spettatore a un Altro trascendentale, dal sovrapporsi
del dispositivo filmico a un ordine simbolico in cui il soggetto è tipica-
mente estraniato da qualsivoglia ruolo attivo nella produzione del discorso.
L’assenza alla quale questa teoria ritorna in modo quasi ossessivo trova il
suo luogo nel soggetto spettatore, un soggetto a cui mancano sia la
pienezza fenomenologica sia il controllo simbolico.
La prima di queste perdite è disconosciuta attraverso l’“impressione di
realtà” che il cinema sostituisce all’oggetto precluso. La seconda perdita –
quella che Dayan definisce “espropriazione” del soggetto discorsivo – è
dissimulata anche attraverso un feticcio, quantomeno nel cinema classico.
L’esclusione dello spettatore dal luogo di produzione filmica è coperta
dall’iscrizione nella diegesi di un personaggio dal quale sembrano fluire i
suoni e le immagini del film, un personaggio dotato di una visione autorita-
ria, che sente e parla. Nella misura in cui lo spettatore si identifica con

39
Daniel Dayan, The Tutor Code of Classical Cinema, cit., p. 448.

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 107

questa rappresentazione assolutamente fantasmatica, gode di un’indiscuti-


bile interezza e sicurezza. Ciò che la teoria della sutura non ha ancora
adeguatamente riconosciuto è il grado in cui la rappresentazione compen-
sativa viene codificata come maschile.
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Per Freud, che fornisce la formulazione fondante, la castrazione è


qualcosa che il bambino impara a temere solo dopo la vista dei genitali
femminili. Poiché fino a quel momento ha supposto che tutti abbiano un
pene, la differenza anatomica della donna lo impressiona come una man-
canza o un’assenza. Disconosce ciò che ha visto fino a un certo momento
successivo, quando viene minacciato dalla castrazione se persiste in un’atti-
vità proibita. Allora ricorda e riconosce lo spettacolo precedente, risol-
vendo le emozioni violente che sorgono in lui attraverso l’«orrore per
40
quella creatura mutilata o il trionfante disprezzo per essa» .
Il feticista è descritto da Freud come un uomo incapace di accettare la
mancanza della donna, e che continua a disconoscere ciò che ha visto. Egli
sostituisce al pene mancante un oggetto contiguo, qualcosa che era parte
dell’“immagine” originaria (una scarpa, un capo di vestiario, un’altra parte
dell’anatomia femminile). Fintanto che il feticcio è al proprio posto, la
donna è adeguata al suo piacere. Non costituisce una sfida alla potenza
sessuale del soggetto maschile perché la sua “differenza” è stata coperta.
Tuttavia, sebbene il feticcio dissimuli la mancanza femminile, la sua pre-
senza testimonia la consapevolezza di questa mancanza da parte del
41
soggetto maschile .
Tornare all’interpretazione letterale anatomica delle considerazioni
freudiane su castrazione, disconoscimento e feticismo dopo aver esplorato i
paradigmi proposti dalla teoria del film rappresenta una sorta di shock. Più
sorprendente di tutto è la sublimazione cui questi tre concetti sono sotto-
posti nel passaggio dalle prime alla seconda, la loro deviazione da un’analisi
42
della sessualità a un’analisi del cinema .

40
Sigmund Freud, Some Psychical Consequences of the Anatomical Distinction Between the
Sexes, in The Standard Edition of the Complete Psychological Works (in seguito The Standard
Edition), London, Hogarth Press, 1953, vol. XIX, p. 252; [tr. it. Alcune conseguenze psichiche
della differenza anatomica tra i sessi (1925), in Opere 1924-1939, vol. X, Torino, Bollati
Boringhieri, 1978, pp. 207-217, alla p. 211].
41
Sigmund Freud, Fetishism, in The Standard Edition, vol. XXI, cit., pp. 152-157; [tr. it.
Feticismo, in Opere, vol. X, cit., pp. 491-497].
42
Per una discussione sulla sublimazione e i suoi rapporti con l’attività intellettuale cfr.
Leonardo da Vinci and a Memory of His Childhood, in The Standard Edition, cit., pp. 53-63,
80-81; [tr. it. Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, (1910), in Opere, vol. VI, pp. 213-284].

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108 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Questa sublimazione è ancora più evidente in Metz, che offre un


accurato compendio della discussione freudiana, scegliendo tuttavia di
fissare la propria formulazione sulla base di quella che può essere definita la
“revisione” lacaniana, ossia di concettualizzare la castrazione nei termini
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delle diverse separazioni attraverso le quali il soggetto si costituisce. Inoltre,


anche qui Metz se ne appropria in modo selettivo, concentrandosi anzi-
tutto sulle separazioni che precedono il momento edipico e, quindi, la
differenza sessuale. Come abbiamo visto, secondo lui la castrazione designa
la perdita dell’oggetto indotta dal significante filmico, una perdita che
raggiunge e dà significato alle divisioni indotte nel soggetto dalla fase dello
specchio, dagli objets a e dall’ingresso nel linguaggio.
Jacqueline Rose ha aspramente criticato Metz e Comolli per quella che
considera una appropriazione indebita, da parte loro, dei concetti di castra-
zione, misconoscimento e feticismo, suggerendo che questa sia una strate-
gia per evitare l’intera questione della differenza sessuale nel cinema. Rose
insiste su un ritorno alla formulazione freudiana per rettificare questa
situazione:

Ridefinire (il concetto di misconoscimento) come problema di differenza


sessuale significa, necessariamente, riconoscere il suo riferimento fallico, il
modo in cui la donna è strutturata come immagine intorno a questo
riferimento e come per questo finisce col rappresentare la perdita poten-
ziale e la differenza che sostengono l’intero sistema (ed è proprio questo il
problema del lavoro di Metz e Comolli: l’incapacità di affrontare tutto
ciò). Quella che il cinema classico rappresenta o “mette in scena” è
quest’immagine di donna come continente altro, oscuro, e da qui ciò che
sfugge o si perde al sistema...43.

Rose si muove qui nella direzione di un tema cruciale per il femmini-


smo, un tema che deve essere ancora pienamente elaborato. L’autrice
suggerisce che la mancanza che preoccupa Metz e Comolli (e per esten-
sione Münsterberg e Bazin) è in qualche modo collegata alla mancanza che
preoccupa Freud, ossia che nel cinema classico la donna funziona come
una rappresentazione delle perdite che precedono la differenza sessuale e al
tempo stesso di quelle attraverso le quali la differenza sessuale si stabilisce.
In altre parole, Rose propone che l’assenza che il cinema classico colloca
nel luogo del corpo femminile ha le sue origini altrove, nelle operazioni del
significante e nella preclusione del reale.

43
Jacqueline Rose, The Cinematic Apparatus: Problems in Current Theory, in The Cinematic
Apparatus, cit., p. 182.

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 109

Tuttavia, la sua critica del modo in cui Metz e Comolli trattano la


castrazione filmica ne trascura il potenziale decostruttivo, il potenziale per
rimuovere la donna dal ruolo obbligato dell’assenza e della mancanza.
Focalizzandosi in modo cosı̀ esclusivo sulle perdite inflitte dal significante e
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insistendo sul fatto che queste perdite costituiscono una castrazione, Metz e
Comolli ci forniscono la necessaria distanza critica dal paradigma freudiano
per scorgere ciò che esso rinnega. Ci consentono di comprendere che
l’equazione donna-mancanza è una costruzione secondaria, che copre sacri-
fici precedenti.
Esaminando la teoria della castrazione di Freud dalla posizione di Metz
e Comolli, si rimane colpiti dalla sua inclinazione univoca, dal suo rifiuto di
conciliare le perdite preedipiche. Questo rifiuto appare ancora più rimar-
chevole alla luce della simmetria che Freud stabilisce tra i termini «feci»,
«bambino» e «pene» in Dalla storia di una nevrosi infantile, e la sua
descrizione di ciascuno di questi oggetti come «una piccolezza che può
44
essere staccata dal proprio corpo» . Questa spiegazione abbreviata dell’objet
a è integrata da una nota del 1923 in Analisi della fobia di un bambino di
cinque anni, dove ancora una volta Freud insiste nel restringere il significato
di castrazione alla rimozione del pene:

Si è messo in risalto che già il lattante deve sentire ogni distacco dalla
mammella materna come una evirazione, ossia come la perdita di una
parte importante del corpo, considerata propria; ch’esso non può conside-
rare altrimenti la regolare perdita delle feci; che infine la stessa nascita,
come separazione dalla madre con cui fino ad allora il nato era tutt’uno,
costituisce il prototipo dell’evirazione. Pur riconoscendo tutte queste radici
del complesso, ho sostenuto l’esigenza che il termine “complesso d’evira-
zione” sia riservato agli eccitamenti e agli effetti che fanno capo alla
perdita del pene45.

Vorrei osservare che questo rifiuto di identificare la castrazione con


qualsiasi altra separazione preedipica rivela il desiderio di Freud di porre la
maggiore distanza possibile tra il soggetto maschile e la nozione di man-
canza. Ammettere che anche la perdita dell’oggetto è una castrazione

44
Sigmund Freud, History of an Infantile Neurosis, in The Standard Edition, vol. XVII, p. 84;
[tr. it., Dalla storia di una nevrosi infantile (caso clinico dell’uomo dei lupi), (1914 [1918]), in
Opere, vol. VII, pp. 487-593, alle pp. 557-558].
45
Sigmund Freud, Analysis of a Phobia in a Five-Year-Old Boy, in The Standard Edition, vol.
X, p. 8; [tr. it. Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo Hans),
(1908 [1909]), in Opere, vol. V, pp. 481-589, alla p. 483, nota n. 3 (aggiunta nel 1923)].

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110 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

significherebbe riconoscere che il soggetto maschile è già strutturato dal-


l’assenza nel momento della differenziazione sessuale, ovvero concedere
che, come il soggetto femminile, egli è già stato privato di ogni pienezza
dell’essere.
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L’accento che Freud pone sulla natura ritardata della crisi di castra-
zione può essere letto in modo simile come espediente per proteggere il
soggetto maschile da un confronto doloroso e culturalmente distruttivo con
la propria insufficienza. Accordando una condizione retroattiva al “ricono-
scimento” della mancanza della donna da parte del bambino e rendendo
tale riconoscimento effetto di proibizioni e minacce, Freud vuole suggerire
che l’idea di mancanza è tanto aliena dalla consapevolezza maschile da
dovere essere insediata attraverso l’ammonizione paterna.
Ricordiamo che Freud non accorda alla bambina una simile dilazione.
Nel momento dello svelamento anatomico «il suo giudizio e la sua deci-
46
sione sono istantanei. Essa l’ha visto, sa di non averlo, e vuole averlo» .
Tuttavia, poiché subisce (non più del bambino) la perdita del pene, le
risposte attribuitele da Freud rimangono inesplicabili. Soltanto attraverso
un intervento culturale analogo a quello a cui è esposto il soggetto maschile
il soggetto femminile arriva a percepire se stesso come mancante di un
organo privilegiato. In effetti, Freud giunge ad ammettere ciò in Sessualità
femminile, dove commenta il ricalcitrare epistemologico del soggetto fem-
minile: «quando la bimba, alla vista di un genitale maschile, si accorge del
suo difetto, accetta la brutta sorpresa dopo lunga esitazione e non senza
47
riluttanza» .
Il senso di crisi e di perdita che permea la piccola scena descritta da
Freud in Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi e
Feticismo deve essere conseguentemente ricondotto a un’altra fonte, ossia
alle diverse castrazioni preedipiche catalogate da Lacan, castrazioni che
sono percepite pienamente solo con l’ingresso nel linguaggio. Esse produ-
cono un soggetto strutturato dalla mancanza molto prima della “scoperta”
della differenza sessuale, un soggetto la cui coerenza e certezza stesse si
fondano sulla divisione e sull’alienazione.
L’insistenza con cui Freud afferma che la bambina sperimenta una
comprensione immediata e diretta di ciò che il bambino è costretto a

46
Sigmund Freud, Some Psychical Consequences of the Anatomical Distinction Between the
Sexes, cit., p. 252; [tr. it. p. 211].
47
Sigmund Freud, Female Sexuality, in The Standard Edition, vol. XXI, p. 223; [tr. it.
Sessualità femminile (1931), in Opere, vol. XI, pp. 63-80, alla p. 70].

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 111

confrontare solo indirettamente e in una data successiva è piuttosto indica-


tiva. Lo stesso vale per l’enfasi che egli pone sui meccanismi difensivi –
disconoscimento e feticismo – per mezzo dei quali il soggetto maschile può
ulteriormente proteggersi dalla consapevolezza della perdita. Più rivelatrice
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di tutto, però, è forse la malizia che lo stesso Freud mostra nei confronti del
soggetto femminile nel suo saggio sulla differenza anatomica – il suo
incoraggiare il soggetto maschile a mantenere un «disprezzo trionfante» nei
confronti della «creatura mutilata» che è il suo altro sessuale. Questo
insieme di emozioni non testimonia nulla di più di una proiezione ben
congegnata, lo spostamento esternante nel soggetto femminile di ciò che il
soggetto maschile non può tollerare in sé: la castrazione e la mancanza.
Significativamente, la proiezione è una forma di difesa strettamente
correlata al disconoscimento in quanto è un «rifiuto di riconoscere» qual-
cosa che dà dispiacere. Tuttavia, mentre il disconoscimento implica il
rifiuto di riconoscere una qualità non desiderata nell’altro, la proiezione
implica il rifiuto di riconoscere una qualità non desiderata in se stessi. È
48
quindi simultaneamente il rifiuto di essere ciò che evoca il dispiacere . Il
soggetto si protegge da questo dilemma ontologico estraendo «dal suo
stesso io una componente che proietta nel mondo esterno e sente nemi-
49
ca» . In altre parole, subisce un’altra di quelle spaccature costantemente
necessarie al suo senso di consistenza e di interezza.
La visione e l’udito svolgono un ruolo chiave nel riposizionamento
della qualità non desiderata dal dentro al fuori. Il soggetto proiettante si
difende dal dispiacere situando quella qualità a una distanza visiva e
auditiva – rendendola l’oggetto delle pulsioni scopiche e invocative. Una
volta stabilita la causa dell’ansietà come esterna al sé, il soggetto reagisce
contro di essa «con i tentativi di fuga rappresentati dagli scansamenti
50
fobici» .
La spiegazione freudiana della crisi di castrazione maschile obbedisce
con sorprendente precisione alle operazioni difensive appena descritte.
Prima di tutto, questa crisi rappresenta il momento della divisione più
drammatica nella storia del soggetto: la differenziazione tra i sessi. Per la

48
Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The Language of Psychoanalisis, tr. ingl. Donald
Nicholson-Smith, New York, Norton, 1973, p. 354; [tr. it. Enciclopedia della psicoanalisi,
Tomo secondo, Bari, Laterza, 1993, p. 445].
49
Sigmund Freud, Instincts and their Vicissitudes, in The Standard Edition, vol. XIV, p. 136;
[tr. it. Pulsioni e loro destini (metapsicologia, 1915), in Opere, vol. VIII, pp. 13-35, alla p. 31].
50
Sigmund Freud, The Unconscious, in The Standard Edition, vol. XIX, p. 252; [tr. it.
L’inconscio (1915), in Opere, vol. VIII, cit., pp. 49-88, alla p. 68].

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112 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

prima volta il bambino percepisce la donna come radicalmente e spiacevol-


mente altra, come luogo di una qualità aliena e non desiderata. Egli insiste
su tale alterità rinunciando ai suoi desideri edipici e identificandosi con il
padre.
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In secondo luogo, la visione rappresenta il mezzo attraverso il quale il


soggetto femminile è riconosciuto sia come diverso sia come inferiore, il
meccanismo mediante il quale il soggetto maschile rassicura se stesso sul
fatto che non è lui ma l’altra a essere castrata. Come nel caso della
paranoia, al quale la proiezione è strettamente collegata, lo spettacolo
minaccioso inizialmente è irreale e facilmente contestabile (il bambino
«rimane titubante, sembra essere dapprima poco interessato; non ha visto
niente, oppure rinnega ciò che ha visto»), ma acquista autenticità quando la
51
sua esteriorità viene fissata con maggiore fermezza .
L’esteriorità della qualità aliena e non desiderata è inizialmente in
dubbio perché di fatto tale qualità appartiene tanto al bambino che alla
bambina. Freud inavvertitamente indica al suo lettore questa conclusione
quando descrive la rivelazione della mancanza femminile come «pertur-
bante e traumatica», dal momento che in un saggio precedente definisce il
perturbante come «quel genere di spavento che si riferisce a cose da lungo
52
tempo conosciute e familiari» . Secondo i termini adottati dallo stesso
Freud, se lo spettacolo della castrazione femminile colpisce lo spettatore
maschio in quanto «perturbante», egli stesso deve aver già sperimentato la
castrazione; lungi dal funzionare semplicemente come spettatore “inno-
cente” (quantunque atterrito), anche lui dimora nella cornice dell’immagine
spiacevole. In altre parole, la ricorrenza della parola «perturbante» nel
saggio sul feticismo ci ricorda che il soggetto maschile ha una conoscenza
intima della perdita anche prima della crisi di castrazione, ossia che subisce
numerose divisioni o spaccature prima di qualsiasi divisione sessuale. Cosı̀
ciò che sembra sfidarlo dall’esterno, sotto l’aspetto del corpo femminile
“mutilato”, di fatto lo minaccia dall’interno, sotto forma della sua stessa
storia.
Non sorprende, quindi, che al centro dell’alterità femminile rimanga
qualcosa di stranamente familiare, qualcosa che urta pericolosamente la
soggettività maschile. Fin dall’inizio il bambino è ossessionato da questa

51
Sigmund Freud, Some Psychical Consequences of the Anatomical Distinction Between the
Sexes, cit., p. 252; [tr. it. p. 211].
52
Sigmund Freud, Fetishism, cit., p. 155; [tr. it. Feticismo, cit. p. 494], e The Uncanny, in The
Standard Edition, vol. XVII, p. 220; [tr. it. Il perturbante (Das Unheimliche, 1919), in Opere, vol.
IX, p. 68].

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 113

somiglianza, dalla paura di diventare come il suo altro sessuale. Tale paura
parla a quel «duplicarsi, dividersi e scambiarsi della personalità» dal quale
53
scaturisce la differenza sessuale . Indica che quanto è ora associato al
soggetto femminile è frutto di un trasferimento operato dal soggetto
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maschile e che il trasferimento non è affatto irreversibile.


Il soggetto maschile risponde a questa minaccia di (ri)contaminazione
con la fuga fobica, insistendo sull’assolutezza dei confini che separano
l’uomo dalla donna. Ma questi confini sono soggetti a un’erosione costante.
Come osserva Julia Kristeva «il soggetto serberà sempre la traccia delle
incertezze delle sue frontiere e delle sue valenze affettive – tanto più
determinanti quanto più la funzione paterna sarà stata debole o addirittura
54
inesistente –, aprendo la via alla perversione o alla psicosi» . Qualche volta
il soggetto maschile è perfino incapace di tollerare l’immagine di perdita
che ha proiettato sulla donna ed è obbligato a coprirla con un feticcio.
Tuttavia, sia che insista sulla differenza sessuale sia che cerchi di
dissimularla con un feticcio, egli si rafforza meno contro l’immagine della
castrazione femminile che contro la propria. Il soggetto maschile “normale”
è costruito attraverso la negazione della sua mancanza; egli è motivato su
tutti i fronti da un «non desiderio di essere». In altri termini, ciò che egli
disconosce è se stesso e il meccanismo di questo disconoscimento è la
proiezione.
Laplanche e Pontalis indicano che uno dei significati psicoanalitici della
proiezione è paragonabile a quello filmico, giacché in entrambi i casi «il
soggetto invia al di fuori l’immagine di ciò che esiste in lui in modo
inconscio». Essi aggiungono che «la proiezione consiste qui in una forma di
misconoscimento, cui corrisponde, come contropartita, la conoscenza nel-
55
l’altro proprio di ciò che viene misconosciuto nel soggetto» .
A un primo sguardo il paragone appare piuttosto sconcertante poiché
le attività di vedere e proiettare sono nettamente differenziate nel regime
filmico dominante. La prima si dispone sul versante della ricezione, la
seconda su quello della (ri)produzione. Di conseguenza, lo spettatore non è
responsabile di ciò che vede, a livello sia conscio sia inconscio, nonostante i
suoi desideri possano essere pienamente coinvolti. Fa assegnamento su un
dispositivo invisibile per il flusso delle immagini, su una «vibrazione bril-

53
Sigmund Freud, The Uncanny, cit., p. 234; [tr. it. p. 81].
54
Julia Kristeva, Powers of Horror, New York, Columbia University Press, 1982, p. 63; [tr.
it., Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Milano, Spirali/Vel, 1981, p. 72].
55
Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The Language of Psychoanalisis, cit., p. 354; [tr. it.
p. 445].

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114 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

lante il cui getto imperioso rasenta la nostra testa» e il cui «stelo di luce
delinea i contorni di una serratura attraverso il cui buco tutti noi guardiamo
56
attoniti» .
Non è nemmeno chiaro come si possa sostenere che il cinema – nelle
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sue attività tecnologiche e in quelle ideologiche – coinvolga lo spettatore in


uno spostamento esterno del tipo descritto sopra. In altre parole, resta da
stabilire proprio in che modo il testo classico partecipi nel proiettare sugli
altri quelle qualità che costituiscono una parte inaccettabile del sé dello
spettatore, soprattutto perché quest’ultimo non determina in alcun modo
quali qualità verranno cosı̀ proiettate.
La prima di queste difficoltà svanisce non appena ricordiamo che lo
spettatore è sempre coinvolto nel flusso delle immagini filmiche, non
appena richiamiamo alla mente che i film sono prodotti non soltanto per
ma attraverso lo spettatore. Nella ricezione dello spettacolo filmico è
implicita l’identificazione dello spettatore non solo con la cinepresa, ma
anche con il proiettore e lo schermo:

durante la proiezione lo spettatore è il faro [...] che duplica il proiettore, il


quale a sua volta duplica la macchina da presa, ed egli stesso è la
superficie sensibile che duplica lo schermo, il quale a sua volta duplica la
pellicola [...] Quando dico che «vedo» il film, intendo con ciò una mesco-
lanza singolare di due correnti contrarie: il film è quello che ricevo, ma è
anche quello che faccio scaturire [...] Quando lo faccio scaturire, sono
l’apparecchio di proiezione; quando lo ricevo, sono lo schermo; in queste
due figurazioni contemporanee, sono la macchina da presa, bersagliata e
che tuttavia registra57.

Lo spettatore è tenuto nelle «tenaglie» del dispositivo filmico, e quindi


inserito nella sua tecnologia. Anche al livello più “elementare” – il livello
della relazione percettiva dello spettatore con il testo – guardare un film è
un processo costante di proiezione e introiezione, di emissione di «una
specie di flusso, che si chiama sguardo» di modo che «gli oggetti possano
58
risalire quel flusso in senso inverso» .
La teoria del film ha anche rilevato come questa introiezione svolga un

56
Roland Barthes, Upon Leaving the Movie Theatre, tr. ingl. Bertrand Augst e Susan White,
in Cinematic Apparatus: Selected Writings, a cura di Theresa Hak Kyung Cha, New York,
Tanam Press, 1980, p. 2; [tr. it. Uscendo dal cinema, in Id., Sul cinema, Genova, Il melangolo,
1994, p. 147].
57
Christian Metz, The Imaginary Signifier, cit., pp. 50-51; [tr. it. p. 54].
58
Ibid.

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 115

ruolo vitale nel determinare il rapporto dello spettatore con la diegesi, dal
momento che l’identificazione “secondaria” è realizzata in larga misura
attraverso l’incorporazione delle rappresentazioni del personaggio. Queste
rappresentazioni vengono introiettate e forniscono la base per una soggetti-
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vità momentanea, una soggettività che è talvolta in contraddizione con la


precedente strutturazione dello spettatore, ma che più spesso è abbastanza
compatibile da creare un’illusione di continuità. Alla funzione della proie-
zione nell’identificazione secondaria è stata dedicata minore attenzione.
Tuttavia, come vedremo, nel sistema rappresentativo del cinema classico
essa occupa un posto altrettanto importante dell’introiezione.
Che la proiezione filmica sia intesa nel suo senso più tecnologico o in
quello più ideologico, essa coinvolge ed eccede sempre lo spettatore. In
parole semplici, è attivata per lo spettatore o per la spettatrice da un agente
esterno (il proiezionista, il sistema testuale). La proiezione filmica fornisce
quindi una metafora inestimabile per concettualizzare la natura involontaria
delle proiezioni sessualmente differenzianti discusse sopra. Queste ultime
non sono più “controllate” delle prime. Sono l’effetto di una strutturazione
edipica costantemente rinnovata che ricolloca la perdita dell’oggetto al
livello dell’anatomia femminile restituendo con ciò al bambino una inte-
rezza immaginaria. Questo spostamento esternante è ulteriormente assicu-
rato attraverso l’identificazione forzata della donna con la mancanza. Il
soggetto femminile porta la ferita per mezzo della quale sia il soggetto
femminile sia quello maschile entrano nel linguaggio, lasciando al secondo
l’illusione di un essere ancora intatto.
Questa non è la sola ferita che il soggetto femminile è obbligato a
esibire. La coerenza del soggetto maschile è minacciata tanto dalla distanza
che lo separa dal fallo quanto dalla distanza che lo separa dal reale. Nel
primo come nel secondo caso, la sua integrità è stabilita attraverso la
proiezione nella donna della mancanza che egli non può tollerare in sé. Il
soggetto maschile “attesta” la sua potenza simbolica attraverso la dimostra-
zione ripetuta dell’impotenza simbolica del soggetto femminile.
Uno degli scopi della presente discussione è rovesciare in un modo o
nell’altro questi spostamenti, ossia leggere la perdita e la differenza associate
59
al soggetto femminile come un sintomo della condizione maschile . Un
secondo scopo è mostrare che il rapporto tra il cinema classico e le

59
Rose propone una formulazione molto simile nella seconda introduzione a Feminine
Sexuality, dove scrive «in quanto luogo nel quale la mancanza è proiettata, e attraverso il
quale è simultaneamente misconosciuta, la donna è per l’uomo un “sintomo”» (cit. p. 48).

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116 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

operazioni che costruiscono la differenza sessuale è più che metaforico,


ossia di suggerire che la pratica filmica dominante orchestra il gravoso
trasferimento della mancanza maschile al soggetto femminile proiettando le
proiezioni sulle quali si fondano le nostre attuali nozioni di genere.
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Tornerò tra un momento al punto di intersezione in cui il cinema


classico converge con un ordine simbolico fallocentrico. Tuttavia, prima di
farlo, mi sembra importante sottolineare che nonostante il trasferimento
della mancanza dal soggetto maschile al soggetto femminile trovi un certo
sostegno materiale nella proiezione di immagini filmiche su di uno
schermo, si tratta, di fatto, di un’operazione ideologica piuttosto che
tecnologica. In altri termini, lo spostamento sul soggetto femminile di
perdite subite dal soggetto maschile non è affatto un’estensione necessaria
della situazione prodotta dallo schermo. Piuttosto, è l’effetto di un partico-
lare regime scopico e narratologico.
Il cinema sfida la pienezza immaginaria del soggetto spettatore ogni
volta che rivela la base fantasmatica dei suoi oggetti, ogni volta che
riproduce l’esclusione del reale dalla rappresentazione. Abbiamo visto in
quale misura questa perdita impegni la teoria del film e quanta enfasi venga
posta sulla sostituzione di una “impressione di realtà” al reale assente. Una
minaccia ancora maggiore per la coerenza del soggetto è la rivelazione del
significante filmico, poiché questa non solo completa la rottura con il
dominio fenomenico, ma attira l’attenzione sull’enunciatore invisibile, ossia
sul fatto che i film e i loro spettatori sono parlati da un Altro invisibile. La
teoria del film si è dimostrata sensibile sia a questa assenza sia alle strategie
sviluppate dal cinema classico per coprirla.
Tuttavia, in nessun momento di queste due estese discussioni teoriche è
stato osservato che la mancanza che deve in qualche modo essere discono-
sciuta non solo struttura tanto la soggettività maschile quanto la soggetti-
vità femminile, ma rappresenta anche un pericolo maggiore per la stabilità
della prima piuttosto che della seconda. Poiché la soggettività femminile è
costruita attraverso un’identificazione con l’espropriazione, la sua esposi-
zione a ulteriori castrazioni non mette a repentaglio nulla. Il soggetto
maschile, al contrario, è costruito attraverso l’identificazione con il fallo.
Questa identificazione può essere minacciata dalla scomparsa dell’oggetto,
ma è rovesciata da ogni ricordo dell’impotenza discorsiva dello spettatore
maschio. Per un soggetto che sa di essere escluso dalla visione, dal discorso
e dall’ascolto autoritari è impossibile sostenere un allineamento narcisistico
con il fallo.
Inoltre, nessuna di queste esplorazioni teoriche ha suggerito che vi

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 117

possa essere un importante nesso tra le perdite che strutturano il cinema e


la rappresentazione della donna come mancante. Questa omissione è
particolarmente evidente in Oudart e Dayan, dal momento che il sistema
della sutura funziona proprio attraverso l’articolazione della differenza
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60
sessuale. Come ho sostenuto altrove , la formazione campo/controcampo
più paradigmatica è quella che allinea il corpo femminile con lo sguardo
maschile. Questa inquadratura a due non solo copre il luogo assente della
produzione, ma pone il soggetto maschile sul versante della visione e il
soggetto femminile su quello dello spettacolo. Inoltre, essendo il dispositivo
antropomorfizzato (essendo, cioè, la cinepresa associata allo sguardo
umano e il registratore all’udito) assume una forma paterna. Il complesso
coinvolgimento del cinema classico nell’articolazione della differenza ses-
suale può essere dimostrato attraverso un breve esame di un altro corpus
della teoria del film riguardante la nozione della mancanza.
A partire dalla pubblicazione nel 1975 di Piacere visivo e cinema narra-
tivo di Laura Mulvey, la teoria femminista del cinema ha dedicato una
grande attenzione alla codificazione del soggetto femminile da parte del
61
cinema classico come inadeguato o castrato . Questa teoria ha anche
esaminato da vicino il potenziale traumatico contenuto nello spettacolo
della donna come mancanza e i meccanismi difensivi a disposizione dello
spettatore per proteggersi da tale mancanza.
Curiosamente, lo scenario descritto da Mulvey si conforma al para-
digma originale psicanalitico di castrazione e crisi in modo ancora più
rigoroso di quelli di Metz e Comolli o di Oudart e Dayan. Come il
bambino di Freud, lo spettatore di Mulvey considera la visione della
mancanza della donna una minaccia alla propria coerenza e teme di poter
diventare la vittima di una perdita analoga. Secondo Mulvey, il cinema
classico offre due possibili soluzioni di questa crisi: il disconoscimento
attraverso il feticismo e l’ammissione accompagnata dalla denigrazione.
Come conseguenza della prima di queste risposte, un capo di vestiario

60
Kaja Silverman, Suture, cit., pp. 222-225.
61
Vedi Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», 16, n. 3, 1975, pp.
8-18; [tr. it. Piacere visivo e cinema narrativo, «Nuova dwf», n. 8, luglio-settembre 1978, pp.
26-41]; Teresa de Lauretis, Through the Looking Glass, in The Cinematic Apparatus, cit., pp.
187-202; Linda Williams, Film Body: An Implantation of Perversions, «Ciné-Tracts», vol. 3, n.
4, 1981, pp. 19-35; Lucy Fischer, The Image of Woman as Image: The Optical Politics of Dames,
in Rick Altman (a cura di), Genre: The Musical, London, Routledge & Kegan Paul, 1981, pp.
70-84; Sandy Flitterman, Woman, Desire and the Look: Feminism and the Enunciative Apparatus
in Cinema, «Ciné-Tracts», vol. 2, n. 1, 1978, pp. 63-68.

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118 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

o un’altra parte dell’anatomia femminile diviene il luogo di un investimento


compensativo e sostituisce l’organo che si presume mancante. La seconda
risposta ha un esito molto diverso, in quanto, invece di far deviare l’atten-
zione da una parte del corpo a un’altra, la sposta dal “fuori” della donna al
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suo “dentro”. Questo trasferimento è realizzato mediante un’indagine che


“rivela” che il soggetto femminile o ha commesso un crimine per il quale
deve essere punito, o è afflitto da una malattia mutilante. Poiché in
entrambi i casi la castrazione della donna può essere fatta risalire alla sua
interiorità, questa soluzione dell’ansietà dello spettatore maschio gli con-
sente di porre la massima distanza tra sé e lo spettacolo della mancanza, di
indulgere a un senso di “trionfante disprezzo” per la “creatura mutilata” che
è il suo altro sessuale.
La maggiore conformità con la formulazione freudiana non è il solo
modo in cui la spiegazione che Mulvey dà della castrazione filmica si
discosta da quella degli altri teorici qui menzionati. Vi è un’altra deviazione
altrettanto importante e strettamente correlata: mentre Metz, Comolli,
Oudart e Dayan enfatizzano l’effetto suturante della narrazione – la sua
capacità di coprire o di compensare le varie assenze organizzanti del
cinema – Mulvey situa il momento della perdita all’interno della narrazione.
Essa sposta l’attenzione dalle castrazioni extradiegetiche descritte dagli altri
a quella che ricorre all’interno della diegesi. In altre parole, Mulvey suggeri-
sce che l’“impressione di realtà” con cui il cinema dominante copre il reale
mancante e cancella il suo status di discorso si fonda su una nuova messa in
scena del dramma della perdita. Come dobbiamo interpretare questa com-
pulsione a ripetere, questo ritorno del represso? E come possiamo spiegare
il ricorso paradossale alle rappresentazioni della mancanza con cui dissipare
lo spettro di una mancanza empirica?
Per prima cosa occorre rilevare che la formulazione narrativa è una
ripetizione con numerose e notevoli differenze, la più importante delle quali
è che lo spettatore di Mulvey, diversamente da quello presunto da Metz,
Comolli, Oudart e Dayan, occupa una posizione specificamente maschile.
Questo spettatore – uomo o donna che sia – si identifica con lo sguardo del
protagonista maschile, sperimentando con lui l’ansia della castrazione e il
62
piacere della sua neutralizzazione .

62
Laura Mulvey offre un’interessante discussione dei modi in cui il cinema classico facilita
l’identificazione della spettatrice sia con i personaggi maschili sia con quelli femminili in
Afterthoughts ... inspired by Duel in the Sun, «Framework», nn. 15, 16, 17, 1981, pp. 12-15; [tr.
it. Le ambiguità dello sguardo, «Lapis», n. 7, marzo 1990, pp. 38-42].

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 119

Un’altra differenza riguardo alla ripetizione narrativa è che, mentre lo


spettatore descritto dagli altri teorici disconosce la perdita di qualcosa che
prima era percepita come parte del sé, che si trattasse dell’oggetto o della
potenza discorsiva, quello descritto da Mulvey sembra disconoscere la
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mancanza dell’altro. La fonte di dispiacere è esternata nella forma del corpo


femminile. Può essere vista (e udita).
Tuttavia, nonostante la sua apparente esteriorità, questa mancanza è
profondamente disturbante per lo spettatore maschio, al quale ispira ansia e
paura. Egli sperimenta la ferita della donna come un assalto alla propria
soggettività, una minaccia di un castigo similare. Come la parola “pertur-
bante” nella spiegazione freudiana della crisi di castrazione, la violenza di
questa reazione e l’estremità delle misure che occorre prendere per neutra-
lizzarla suggeriscono che l’immagine della donna riflette «qualcosa che
doveva rimanere nascosto ma è venuto alla luce». Lungi dall’esporre lo
spettatore maschile al «nuovo e all’estraneo», quest’immagine sembrerebbe
porlo di fronte a «un elemento ben noto e impiantato da lungo tempo nella
63
psiche, che solo il processo di repressione poteva rendere estraneo» .
Sembreremmo trovarci faccia a faccia con un’altra proiezione sessual-
mente differenziante, con uno spostamento esternante del genere involon-
tariamente articolato da Freud negli scritti sulla crisi di castrazione. In
entrambi i casi, una parte non desiderata del sé è spostata sul registro
esterno, dove può essere controllata attraverso la visione. E in entrambi i
casi l’immagine proiettata torna a turbare il soggetto maschile. Tuttavia, la
situazione elaborata da Mulvey si verifica ben dopo l’ingresso del soggetto
nel simbolico, ed è precipitata non solo dalla perdita del reale e dall’abban-
dono del desiderio edipico, ma anche dall’“ingombro” del fallo, dal peso di
questo significante in rapporto al quale il soggetto maschile non potrà mai
64
essere adeguato .
Sebbene il fallo sia naturalizzato attraverso il suo allineamento immagi-
nario con il pene, non è né più né meno di un distillato dei valori positivi al
centro di un ordine simbolico circoscritto storicamente. Questi valori
resistono ostinatamente all’incorporazione, designando una posizione
grammaticale piuttosto che esistenziale, una posizione occupata dal nome
piuttosto che dalla realtà del padre. I discorsi individuali che compongono
l’ordine simbolico più ampio circoscrivono il fallo delineando un soggetto
parlante, ossia un soggetto autorizzato a dominare questo potere-

63
Sigmund Freud, The Uncanny, cit., p. 241; [tr. it. p. 88].
64
Jacques Lacan, Seminar of 21 January 1975, cit., p. 186.

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120 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

conoscenza del discorso, come un dottore nel contesto della medicina, o


un giudice nel contesto della legge. In tutti i discorsi fallocentrici questo
soggetto parlante è sinonimo della funzione fallica.
Come il fallo, il soggetto parlante è una figurazione simbolica che
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eccede sempre gli individui che definisce. Ciò è particolarmente evidente


nel caso del cinema classico dove l’enunciazione è tanto un effetto del
dispositivo ideologico e tecnologico quanto dell’intervento umano. E in-
fatti, come ho appena evidenziato, i teorici della sutura fanno riferimento
all’agente enunciante del cinema classico non come al regista ma come
all’“Assente”. Il fallo equivale qui all’enunciatore invisibile, e agli attributi
(visione, udito e parola trascendenti) che lo definiscono.
L’esclusione dello spettatore del cinema classico dal punto di origine
discorsiva è quindi simultaneamente un isolamento dal fallo. Ogni ricordo
del luogo di produzione precluso sposta l’attenzione su questo isolamento,
rivelando l’abisso che separa lo spettatore maschio dal significante sul quale
fa assegnamento per la sua identità culturale. Infatti, poiché ogni interlinea
e ogni taglio costituiscono potenziali ricordi di questa scena nascosta, il film
classico costituisce una minaccia costante alla stessa soggettività che desi-
dera consolidare.
È questa la minaccia di castrazione di cui scrive Mulvey e che suscita
tanta ansia e paura nello spettatore maschio. Contro di essa vengono
schierate numerose difese, delle quali il disconoscimento e il feticismo sono
in un certo senso le più benevole. Lo spettatore maschio è protetto anche
dalla consapevolezza della propria impotenza discorsiva attraverso l’iscri-
zione nella diegesi dei personaggi fallici con i quali è incoraggiato a
identificarsi, personaggi dotati degli attributi dell’Assente (per esempio la
capacità di guardare in modo creativo, di parlare con autorità, di catturare e
reprimere la parola altrui).
Tuttavia, lo spettatore maschio può realizzare queste piacevoli introie-
zioni solo se è capace di sbarazzarsi delle varie perdite che organizzano la
sua soggettività, ossia solo se è capace di proiettare sulla donna la propria
mancanza. Il cinema classico costruisce questa proiezione per lui. Attra-
verso le sue infinite rinarrativizzazioni della crisi di castrazione, esso trasfe-
risce al soggetto femminile le perdite che affliggono il soggetto maschile e
al tempo stesso lo arma contro il loro ritorno sotto forma di percezioni
spiacevoli. In questo modo il trauma che altrimenti travolgerebbe lo spetta-
tore maschio viene fatto affiorare e al tempo stesso contenuto.
Sebbene la castrazione del soggetto femminile sia sempre naturalizzata
attraverso il riferimento alla sua anatomia – in un’operazione parallela a

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OGGETTI PERDUTI E SOGGETTI SBAGLIATI 121

quella che fonde il fallo con il pene – in realtà essa comporta l’esclusione
dal potere e dal privilegio simbolico. Questa esclusione è raffigurata come
un rapporto passivo con i regimi scopici e auditivi del cinema classico,
ossia come un’incapacità di guardare, parlare o ascoltare autoritariamente
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da un lato, e con quella che può essere chiamata “ricettività” allo sguardo e
alla voce maschili dall’altro.
Cosı̀ la visione della donna è dipinta come parziale, incrinata, inaffida-
bile e autointrappolante; essa vede cose che non ci sono, urta contro i muri,
o perde il controllo alla vista del colore rosso. E sebbene il suo sguardo
raramente raggiunga il suo obiettivo, il soggetto femminile è sempre in
mostra davanti allo sguardo maschile. In effetti, essa manifesta talmente
poca resistenza a questo sguardo da sembrare spesso nulla di più che una
sua estensione.
Le parole del soggetto femminile appaiono appartenergli anche meno
dei suoi “sguardi”. Sono scritte per lei, estratte da lei da un agente esterno, o
pronunciate da lei in uno stato simile alla trance. Anche la sua voce rivela
una notevole facilità a disprezzare e incriminare se stessa, ossia a dare la
colpa a Mame. Anche quando parla senza una costrizione visibile, è sempre
parlata dal luogo dell’altro sessuale.
Il soggetto femminile del cinema classico è il luogo dove l’impotenza
discorsiva dello spettatore viene esumata, contenuta ed esibita. La donna è
ciò che si potrebbe definire una rappresentazione sineddochica – la parte
per il tutto – dal momento che è obbligata ad assorbire sia la mancanza del
soggetto maschile sia quella propria. L’incorporazione involontaria da parte
del soggetto femminile delle varie perdite che ossessionano il cinema, dal
reale precluso all’agente di enunciazione invisibile, rende possibile l’identifi-
cazione del soggetto maschile con il padre simbolico, e il suo allineamento
immaginario con la visione creativa e con il discorso. Infatti, la donna non è
solo costretta ad assumere la mancanza maschile come propria: è la sua
ricettività obbligatoria allo sguardo maschile a stabilirne la superiorità,
proprio come la sua obbedienza alla voce maschile “dimostra” il suo potere.
Il dramma diegetico di castrazione descritto da Mulvey, pertanto, è una
simulazione della crisi che si verifica tutte le volte che allo spettatore
maschio viene ricordata la sua subordinazione visiva e verbale all’enuncia-
tore assente del cinema, ossia la simulazione che copre l’altra scena, quella
di castrazione, con le sue rappresentazioni di uomo fallico e donna ferita.
Poiché ripropone quanto accade altrove, sia nella storia del soggetto sia
nell’articolazione del cinema, l’organizzazione diegetica del cinema classico
può essere forse adeguatamente descritta con una frase di Bazin: «uno

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122 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

specchio dal riflesso differito, la cui foglia di stagno trattenga l’immagine»


65
di antiche perdite . Non occorre aggiungere che è la donna la foglia dello
specchio.
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65
André Bazin, Theatre and Cinema, Part Two, in What is Cinema, vol. I, p. 97; [tr. it. Teatro
e cinema, in Che cosa e` il cinema?, cit., pp. 142-190, alla p. 163].

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IL DINIEGO DELLA DIFFERENZA: TEORIE


DELL’IDENTIFICAZIONE FILMICA

di Anne Friedberg

Quando guardi nello specchio


Vedi te stesso?
Vedi te stesso
Sullo schermo della TV?
Vedi te stesso
Sulla rivista?
Quando vedi te stesso
Ti viene da urlare?

Identità, Poli-stirolo di X-RAY SPEX

L’identificazione NON è un processo esclusivo del cinema. Pervade tutte le


relazioni con l’oggetto, è inscritto in ogni interazione tra il soggetto e
l’oggetto. Mentre gli studi psicanalitici descrivono l’identificazione come
meccanismo centrale nella costruzione dell’identità, non offrono una critica
delle sue strategie o dei suoi effetti. L’identificazione è stata considerata sia
innocente sia falsa.
Questo saggio intende offrire una disamina delle teorie psicanalitiche
dell’identificazione e della loro collocazione nella costruzione della sogget-
tività, e al contempo suggerire una critica del suo funzionamento basilare
sotto forma della seguente affermazione monumentale: l’identificazione è
un processo che ordina al soggetto di essere sostituito da un altro; è una
procedura che rifiuta e recupera la separazione tra il sé e l’altro, e in questo
modo replica la struttura stessa del patriarcato. L’identificazione richiede
uniformità, necessita la similarità, rifiuta la differenza. L’identificazione è un
processo con una propria ideologia implicita.

A Denial of Difference: Theories of Cinematic Identification, in E. Ann Kaplan (a cura


di), Psychoanalysis & Cinema, New York, Routledge, 1990, pp. 36-45.

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124 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

L’identificazione con una star cinematografica non implica una scelta


1
cognitiva, ma attinge a un repertorio di processi inconsci . La star cinema-
tografica non è un oggetto casuale, ma è piuttosto uno specifico essere
umano mercificato, convogliato attraverso un sistema di segni con valore di
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scambio. Per formulare una critica esauriente di ciò che significa identifi-
carsi con un particolare oggetto, appare necessario iniziare dalla seguente
analisi e dalla problematizzazione dell’identificazione filmica stessa.
La maggior parte degli studi sull’identificazione e il filmico partono da
una descrizione di quella che è sostanzialmente l’identificazione pre-filmica.
Il dossier delle descrizioni fornito da Freud e dai suoi continuatori (Otto
Fenichel, Melanie Klein e altri), le nuove teorizzazioni di Jacques Lacan
nella sua descrizione della fase dello specchio, sono formulazioni che
forniscono un compendio ogni volta che si tracciano delle omologie tra la
serie di relazioni con l’oggetto che intervengono nella costruzione dell’iden-
tità e la duplicazione di questo processo nella visione cinematografica.
Tuttavia per affinare tale analogia, si può fare una tassonomia dei processi
identificatori separando i tre livelli seguenti dell’identificazione: pre-filmico,
filmico, extra-filmico.

Identificazione pre-filmica
Al fine di esaminare la serie dei processi identificatori inconsci che prece-
dono la visione filmica, vale la pena esaminare brevemente le descrizioni
psicanalitiche delle relazioni assimilative tra soggetto e oggetto, della serie
di interazioni che costruiscono l’identità.
Alcuni studi pre-freudiani dell’identificazione isterica, basati sui modelli
dell’imitazione, della mimesi e del contagio mentale descrivevano il pro-
cesso in termini comportamentali, non intrapsichici. Mentre Freud non

1
Questo saggio è stato originariamente scritto per uno stage del BFI [British Film
Institute] sulle Star cinematografiche nel gennaio 1982 e intitolato Identification and the Star: A
Refusal of Difference. Negli ultimi sei anni, il lavoro nella teoria cinematografica femminista
ha sviluppato molte delle questioni qui sollevate. Sebbene il saggio originale sia stato
pubblicato in un pamphlet del BFI intitolato Star Signs, (London, BFI Education, 1982) e
estratti di esso siano apparsi in materiali di corso con diritti d’autore per la Open University
(Materiale Supplementare per U203 Cultura Popolare, Stars: Sexuality, Representation, Politics,
The Open University, 1982), la versione che appare qui è stata aggiornata per questo
volume. Benché io abbia mantenuto il tono malizioso e polemico della discussione generale
di questo saggio, oggi appare come un documento il cui tono è quello degli interventi nella
teoria femminista intorno al 1981.

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IL DINIEGO DELLA DIFFERENZA: TEORIE DELL’IDENTIFICAZIONE FILMICA 125

faceva menzione dell’identificazione e del suo ruolo nella formazione del


sintomo isterico in Studi sull’isteria (1893-1895), dipingeva la teorizzazione
dell’isteria come un processo di spostamento; le assenze dell’isterico erano
la mimesi di un altrove psichico. In realtà, il tentativo di Freud di tracciare i
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vari sentieri dello spostamento (Verschiebung), che affidano le loro conver-


sioni psichiche a processi diversi dall’identificazione, è divenuto un compito
centrale per disegnare un’economia psichica. In Interpretazione dei sogni
(1900), Freud affermava le componenti inconsce dell’identificazione e insi-
steva sul fatto che l’identificazione non fosse «semplice imitazione, bensı̀
appropriazione», che «esprime un “come” e si riferisce a qualche cosa di
2
comune (Gemeinsames) che permane nell’inconscio» (corsivo mio).
Freud specificava anche le componenti bisessuali delle identificazioni
multiple rilevate negli isterici. In un esempio su cui ritorna frequentemente,
Freud ricorda una paziente che si strappava il vestito di dosso con una
mano (identificandosi con un uomo) e se lo teneva stretto al corpo con
3
l’altra (identificandosi con una donna) . Nonostante i suoi limiti nel rendersi
conto della propria identificazione contro-transferenziale con il caso di
Dora, Freud ha descritto la situazione di lei come un’identificazione multi-
4
pla transessuale con sua madre, la signora K. e il signor K .

2
Sigmund Freud, Die Traumdeutung, (1900), G. W., Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag,
1968, II & II, p. 166; [tr. it. L’Interpretazione dei sogni, in Opere, vol. III, Torino, Bollati
Boringhieri, 1974, p. 154]. Questa citazione è tratta dalla traduzione Brill (Interpretation of
Dreams, New York, Modern Library, Random House, Inc. 1938), p. 288. La traduzione di
James Strachey (S. E., vol. IV, London, Hoghart Press, p. 150) varia leggermente, e usa la
parola «somiglianza» invece di «come se» per tradurre il tedesco «gleichwie». La traduzione
Strachey usa «elemento comune» per «Gemeinsames», che Brill invece chiama «condizione
comune». Si tratta di sottili sfumature filologiche, ma in questo caso è bene guardare al
tedesco per notare la relazione tra «Gemeinsames» come appare in Traumdeutung e
«Gemeinsamkeit» come appare in Massenpsychologie (Psicologia delle masse) nel 1921. La
traduzione italiana Facchinelli/Trettl, adottata qui, si serve della parola «come» per tradurre
il tedesco «gleichwie», e traduce «Gemeinsames» con l’espressione «qualche cosa di comune»
(N.d.t.).
3
Sigmund Freud, Hysterical Phantasies and their Relation to Bisexuality, riportato anche in
General Remarks on Hysterical Attacks (1909), entrambi in Sigmund Freud: Collected Papers, vol.
2, New York, Basic Books, 1959; [tr. it. Osservazioni generali sull’attacco isterico e Fantasie
isteriche e loro rapporto con la bisessualità, in Sigmund Freud, Sulla psicanalisi. Cinque conferenze
e scritti 1908/1910, Roma, Newton Compton, 1976].
4
Naturalmente, la quantità consistente di letteratura sul caso Dora si è concentrata
direttamente sulla cecità contro-transferenziale di Freud. Vedi Jacques Lacan, (1952), Inter-
vention on Transference (1952), tradotto da Jacqueline Rose e ristampato in Jacqueline Rose e
Juliet Mitchell (a cura di), Feminine Sexuality: Jacques Lacan and the École Freudienne, New
York, Norton, 1983; [tr. it. Intervento sul transfert, in Jacques Lacan, Scritti, vol. I, Torino,

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126 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Tuttavia, in uno dei rari tentativi di Freud di applicare queste teorie


dell’identificazione, le componenti di genere dell’identificazione non ven-
gono menzionate. In Personaggi psicopatici sulla scena (1905), Freud analizza
gli effetti dell’identificazione sullo spettatore allo Schauspiel:
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Lo spettatore vive troppo poco intensamente, si sente “misero, al quale


nulla di grande può accadere”, da tempo ha dovuto soffocare, o meglio
rivolgere altrove, la sua ambizione di porre se stesso al centro della
macchina mondiale, vuole sentire, agire, plasmare tutto a sua volontà... E
gli autori e attori teatrali glielo consentono, permettendogli di identificarsi
con un eroe... Il suo godimento ha come presupposto l’illusione5.

Qui lo spostamento ricorre, ma non come nell’isteria. In questa spiega-


zione, l’effetto-spettatore consente un’identificazione con un altro compen-
satorio. Lo spostamento di se stessi, l’identificazione con un personaggio
del palcoscenico offre anche, come suggerisce Freud, la soddisfazione di
trovare – “sfogandosi” – uno sbocco per i desideri irrealizzati.
Quando Freud iniziò il suo lavoro sul narcisismo e sullo sviluppo
dell’Io, si discostò dal modello dell’identificazione isterica per avviarsi verso
una concettualizzazione dell’identificazione come meccanismo che si ri-
scontra in tutte le relazioni con l’oggetto. L’introduzione del termine
introiezione da parte di Sandor Ferenczi coincideva con questo amplia-
6
mento concettuale nel lavoro di Freud . Quando Freud scrisse Gli istinti e le
loro vicissitudini nel 1915, le parole incorporazione, introiezione e identifica-
zione erano utilizzate come termini che si riferivano non a un processo
neurotico, ma ad una fase strutturale dello sviluppo. La connotazione
patologica dell’identificazione era scomparsa. L’identificazione veniva de-
scritta come un meccanismo funzionale nello sviluppo, connesso alla fase
orale dell’organizzazione libidinale in cui il soggetto desidera incorporare,
in modo corporeo, o introiettare, in modo non-corporeo, oggetti esterni
piacevoli.

Einaudi, 1974 e 2002, pp. 208-219]; vedi anche Charles Bernheimer e Claire Kahane (a cura
di), In Dora’s Case: Freud-Hysteria-Feminism, New York, Columbia University Press, 1985.
5
Sigmund Freud, Psychopathic Characters on the Stage (1905-1906), in S. E., cit., vol. VII, p.
303-310; [tr. it. Personaggi psicopatici sulla scena, in Opere 1905-1908, cit., vol. V, pp. 231-236,
alle pp. 231-32].
6
Il termine fu dapprima usato da Sandor Ferenczi nel suo saggio, Introjection and
Transference (1909); [tr. it. Introiezione e transfert, in Sandor Ferenczi, Opere, vol. I
(1908-1912), Milano, Cortina, 1989, pp. 78-107].

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IL DINIEGO DELLA DIFFERENZA: TEORIE DELL’IDENTIFICAZIONE FILMICA 127

In Psicologia collettiva7 (1921), una delle ricapitolazioni più succinte dei


registri ordinali dell’identificazione, Freud definisce l’identificazione prima-
ria come «la forma più primitiva dell’attaccamento affettivo (Gefühlsbin-
dung) ad un oggetto». L’identificazione secondaria è definita come «una
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trasformazione regressiva con cui essa prende il posto di un attaccamento


libidico per l’oggetto» che rimpiazza un oggetto abbandonato o perduto
per mezzo dell’introiezione. L’identificazione terziaria o parziale è basata
sulla percezione di un aspetto comune (Gemeinsamkeit): «[...] può aver luogo
ogni volta che una persona scopre in sé un aspetto comune con un’altra
persona, senza che questa costituisca per lei un oggetto di desideri libidici.
Più gli aspetti comuni saranno importanti e numerosi, e più l’identificazione
8
sarà completa e corrisponderà all’inizio di un nuovo attaccamento» . Que-
sta forma di identificazione parziale è un meccanismo importante nella
formazione dei gruppi, e come la descrive Freud, la base per «l’istinto
gregale».
L’identificazione parziale è quella forma di identificazione che Freud
esplicitamente fa dipendere dalla percezione. Sembra esservi l’implicita as-
sunzione, per quanto imprecisa, del rapporto tra percezione e identifica-
zione. Sebbene il visuale non sia l’unica modalità di percezione, nel lavoro
di Freud sembra quella determinante. (Vi sono, naturalmente, esempi sparsi
di identificazione attraverso altri canali – l’identificazione invocatoria ap-
pare evidente nella lettura di Freud della tosse di Dora come sintomo della
9
sua identificazione con la signora K. ). La riformulazione lacaniana delle
relazioni con l’oggetto (freudiane e post-freudiane) insisteva sulla suprema
importanza del visuale e sminuiva altri canali di introiezione. Lo stade du
10
miroir descrive una trasformazione dell’identità che è scopico-dipendente .

7
Sigmund Freud, Group Psychology and the Analysis of the Ego (1921), in S.E., cit., vol.
XVIII; [tr. it. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, cit., vol. IX, L’Io, L’Es e altri scritti].
La traduzione utilizzata qui è stata tratta dal volume, Sigmund Freud, Psicologia collettiva e
analisi dell’Io, Roma, Newton Compton, 1976, pp. 54-55 [N.d.t.].
8
Sigmund Freud, Group Psychology and the Analysis of the Ego, cit., p. 108; [tr. it. p. 55].
9
In Fragment of an Analysis of a Case of Hysteria, in S. E., cit., vol. VII; p. 3; [tr. it.
Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora, 1901), in Opere (1900-1905), cit., vol. IV,
Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti, p. 346)], Freud analizza la «fantasticata situazione
sessuale su cui è basata» la tosse di Dora (tussis nervosa) come una fantasia in cui lei «si
metteva al posto della signora K.»; parte della doppia identificazione di Dora con sua madre
(«la donna amata prima da suo padre») e con Frau K. («la donna amata ora»). Ma, come
evidenzierà Lacan, Dora si identificava anche con il signor K.
10
Per una discussione delle teorie lacaniane sulla formazione del soggetto, vedi Jacques
Lacan, Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je. La prima versione di questo
saggio fu data alle stampe nel 1936, l’attuale versione fu pubblicata nel 1949, ripubblicata in

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128 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Lacan descrive un soggetto la cui identità è costituita attraverso il miscono-


scimento speculare di un altro. Prima di Lacan, anche il lavoro di Otto
Fenichel ha trattato il ruolo speculare nell’identificazione. Quest’ultimo
descrive cosı̀ l’identificazione: «caratteristiche che erano precedentemente
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11
percepite in un oggetto vengono acquisite da colui che le ha percepite»
(corsivo mio). Queste nozioni vengono affinate in un saggio scritto nel
1935, L’istinto scopofilico e l’identificazione, nel quale Fenichel esamina il
processo dell’introiezione oculare, dell’incorporazione attraverso l’occhio:
«nell’inconscio, guardare un oggetto può significare varie cose, tra le quali
le più degne di nota sono le seguenti: divorare l’oggetto guardato, crescere
come esso (essere costretti ad imitarlo) o, al contrario, costringerlo a
12
crescere come se stessi» .
L’introiezione oculare si colloca, nella formulazione di Fenichel, ac-
canto all’introiezione orale, anale, epidermica e respiratoria come «vorrei
13
che ciò che vedo mi penetrasse» .
Jean Laplanche e Jean-Bertrand Pontalis descrivono queste direzioni
delle relazioni identificatorie come eteropatica/centripeta (il soggetto identi-
fica sé con l’altro) e idiopatica/centrifuga (il soggetto identifica l’altro con
sé). L’identificazione centripeta è introiettiva, incorporando l’altro, come un
io ideale esterno; mentre l’identificazione centrifuga è proiettiva, proiet-
14
tando il sé narcisistico su un oggetto esterno . Come vedremo, il cinema
gioca sull’identificazione introiettiva ma allo stesso tempo fornisce l’illu-
sione dell’identificazione proiettiva.
Sebbene il nesso potrebbe non essere immediatamente evidente, il
feticismo, un termine più comunemente impiegato nella sua portata meta-
forica, ha certe similarità strutturali con il processo dell’identificazione.

Écrits, Paris, Éditions du Seuil, 1966; [tr. ingl. The Mirror Stage as Formative of the Function of
the I, London, Tavistock Publications, 1977; tr. it. Lo stadio dello specchio come formatore della
funzione dell’Io, in Scritti, vol. I, a cura di Giacomo Contri, Torino, Einaudi, 1974 e 2002, pp.
87-94].
11
Otto Fenichel, Identification (inizialmente pubblicato in Int. A. Psa., vol. 12, 1926, pp.
309-325), ripubblicato in Collected Papers of Otto Fenichel, First Series, New York, Norton,
1953, p. 97.
12
Otto Fenichel, The Scoptophilic Instinct and Identification (inizialmente pubblicato in Int.
Z. Psa., vol. 21, 1935, pp. 561-583), ripubblicato in Collected Papers of Otto Fenichel, cit., pp.
373-397.
13
Ivi, p. 373.
14
Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The Language of Psychoanalysis, New York and
London, W. W. Norton & Company, 1973, pp. 205-208; [tr. it. Enciclopedia della psicoanalisi,
Roma e Bari, Laterza, 1993, pp. 229-233].

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IL DINIEGO DELLA DIFFERENZA: TEORIE DELL’IDENTIFICAZIONE FILMICA 129

Nella terminologia psicanalitica i due termini hanno scopi contrari parados-


sali. Il feticismo è una relazione con l’oggetto (una carica oggettuale)
utilizzata per disconoscere il luogo della differenza sessuale, della castrazione.
Per Freud, la scoperta della differenza era una questione di vista; l’angoscia
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15
di castrazione, uno scenario del visibile .
Tuttavia il modello freudiano del feticismo ammette una sola possibi-
lità: che in tale relazione con l’oggetto la donna sia l’oggetto; che l’uomo
sia il soggetto. La scelta dell’oggetto del feticista ha un valore dipendente
dal suo disconoscimento (cioè, la sua capacità di negare o distogliere
dall’angoscia provocata dalla scena della differenza). La relazione con
l’oggetto del feticista è quella di un riconoscimento e un disconoscimento
in costante oscillazione. L’identificazione è una relazione con l’oggetto in
cui il soggetto disconosce – non la scena della castrazione, la “vista” della
differenza sessuale – bensı̀ la “vista” della differenza; la differenza tra
soggetto e oggetto, tra sé e altro. L’identificazione è ciò che nasconde e
rinvia il riconoscimento della dissomiglianza. Se il feticismo e` una relazione
indotta dall’angoscia della differenza sessuale, l’identificazione e` una relazione
indotta dall’ansia della pura differenza.
Se accettiamo la psicanalisi come strumento descrittivo fornito dal
patriarcato per descrivere le proprie strutture oppressive, o, come hanno
fatto molte femministe, ce ne appropriamo come «arma politica», rimane
comunque il fatto che la descrizione del feticismo, imperniata sul concetto
avere/non avere della differenza sessuale, rende evidente la difficoltà di
riconoscere la differenza in un modo diverso dal confronto binario, la
16
misura di un’assenza, una mancanza .

15
«È probabile che a nessun essere umano di sesso maschile sia stato risparmiato lo
spavento dell’evirazione derivante dalla vista del genitale femminile». Da Sigmund Freud,
Fetishism, «International Journal of Psychoanalysis», vol. IX, 1927; [tr. it. Feticismo, in Opere,
cit., vol. X, pp. 491-497, alla p. 494].
16
Gli scritti di Luce Irigaray raccolgono questa sfida. (Vedi soprattutto, The Blind Spot of
an Old Dream of Simmetry, e Any Theory of the “Subject” Has Always Been Appropriated by the
Masculine, in Speculum of the Other Woman, tradotto da Gillian C. Gill, Ithaca, Cornell
University Press, 1985; [tr. it. Il luogo cieco di un antico sogno di simmetria e Ogni teoria del
“soggetto” si trova sempre ad essere appropriata al maschile, in Speculum. L’altra donna, Milano,
Feltrinelli, 1975]). Irigaray problematizza il modello freudiano per le sue manovre all’interno
di un’ideologia patriarcale implicita. Nei termini della natura totalizzante della critica
dell’identificazione avanzata in questo scritto, si deve considerare la descrizione di Irigaray
dell’identificazione come sottomissione non supremazia. Vedi Speculum of the Other Woman,
e Ce sexe qui n’en est pas un, [tradotto in inglese da Catherine Porter, This Sex Which Is Not
One, Ithaca, Cornell University Press, 1985; trad it. Questo sesso che non e` un sesso, Milano,
Feltrinelli, 1978].

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130 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Tuttavia anche se tentiamo una contro-teoria riconcettualizzando al di


fuori dei parametri psicanalitici esistenti, attraverso l’esplorazione delle
formazioni pre-edipiche, le concezioni alternative della maternità, ecc.17,
dobbiamo pur sempre ammettere che il processo dell’identificazione consi-
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ste nella negazione della differenza tra sé e altro. È un impulso che ingaggia
i piaceri della similarità. Se il soggetto è costituito da una serie di identifica-
zioni che forzano la similarità, l’identificazione è una lunga ripetizione
strutturale di questo diniego della differenza, una costruzione dell’identità
basata sulla somiglianza.

Identificazione filmica
Una volta diversificata la gamma dei processi identificatori che precedono
la visione cinematografica, appare evidente che l’identificazione secondaria
e quella parziale sono i registri dell’identificazione sollecitati nelle identifica-
zioni al di là dei legami primari con “l’altro genitoriale”. Tutti e tre i registri
dell’identificazione, come descritti dalla terminologia psicanalitica, indu-
cono però a una certa confusione quando si comincia a adottare i termini
per l’identificazione filmica introdotta da Christian Metz. Poiché Il signifi-
cante immaginario18 rimane un testo chiave per il modo in cui traccia i
registri dell’identificazione filmica, occorre fare alcune distinzioni tra l’uso
metziano dell’identificazione primaria e secondaria e gli usi psicanalitici
comuni.
L’identificazione filmica primaria, come la descrive Metz (distinta dal-
l’uso freudiano di «forma più primitiva dell’attaccamento affettivo»19), è

17
Negli studi sul cinema, Masochism and the Perverse Pleasures of the Cinema di Gaylyn
Studlar (pubblicato in questa antologia con il titolo Il masochismo e i piaceri perversi del cinema,
N.d.t.), ristampato in Bill Nichols (a cura di), Movies and Methods II, Berkeley, University of
California Press, 1985, sfida il modello “freudiano-lacaniano-metziano” per le sue inadegua-
tezze nel rendere conto del piacere filmico. Mentre il suo ricorso al lavoro di Gilles Deleuze
sul masochismo non offre un’alternativa pienamente convincente, il suo articolo indica i
possibili piaceri della “mobilità di genere” nell’identificazione.
18
Christian Metz, Le signifiant imaginaire, dapprima pubblicato in «Communications», n.
23, 1975. Tradotto da Ben Brewster e pubblicato in «Screen», vol. 16, n. 2, estate 1975; [tr. it.
Il significante immaginario, in Christian Metz, Cinema e psicanalisi, Venezia, Marsilio, 1980].
Questo testo, pubblicato da Metz con diversi altri saggi sotto il titolo Le signifiant imaginaire,
Paris, Union Generale d’Éditions, 1977, è stato in seguito tradotto in inglese in un volume,
The Imaginary Signifier, Bloomington, Indiana University Press, 1985.
19
Sigmund Freud, Group Psychology and the Analysis of the Ego, cit., p. 69; [tr. it. p. 54].

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IL DINIEGO DELLA DIFFERENZA: TEORIE DELL’IDENTIFICAZIONE FILMICA 131

l’identificazione con lo “sguardo” della macchina da presa e del proiettore.


Come un bambino posto davanti a uno specchio, lo spettatore cinemato-
grafico, posto davanti allo schermo cinematografico, costruisce una nozione
immaginaria di interezza, di un corpo unificato. Tuttavia, a differenza dello
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specchio, lo schermo cinematografico non offre l’immagine di se stessi. La


teoria metziana sussume tutti gli altri registri dell’identificazione sotto
quello primario – un soggetto onnipercepiente, assente dallo schermo, che
è trasformato in un soggetto trascendente non empirico. Metz presuppone
anche che Lacan intendesse uno specchio empirico piuttosto che un
genitore (madre o padre) che è visto come un oggetto più perfetto, più
completo.
Per Metz, l’identificazione secondaria è quella con un attore, un perso-
naggio, o una star. È a questo livello dell’identificazione che entra in gioco
il genere dell’identificazione. Nel sistema metziano, l’identificazione prima-
ria è apparentemente di genere neutro. Sebbene la teorizzazione di Jean-
Louis Baudry dell’apparato affermi il fondamento ideologico dell’apparato
stesso – come macchina di dominio, strumento di controllo – egli non si
20
spinge fino a sostenere che l’intero apparato è di genere maschile .
Tutta la rappresentazione filmica del corpo ha una funzione complessa
a questo riguardo. Lo schermo non è uno specchio. (Come sottolinea lo
stesso Metz, c’è una cosa che non si riflette mai in esso: il corpo dello
spettatore). Tuttavia l’identificazione esige il riconoscimento prima di fun-
zionare come misconoscimento. Qui, vi sono come minimo tre limiti alle
teorie di ispirazione metziana dell’identificazione filmica. Primo, le conven-
zioni della rappresentazione cinematografica impongono una metonimia

20
Jean-Louis Baudry, Cine´ma: effets ide´ologiques produits par l’appareil de base, (inizialmente
pubblicato in «Cinéthique», n. 7-8, 1970, pp. 1-8), [tr. ingl., The Ideological Effects of the Basic
Cinematic Apparatus, «Film Quarterly», vol. 28, n. 2, inverno 1974-1975. Ristampato in
Movies and Methods II, cit.]. Baudry descrive il meccanismo della proiezione filmica stessa, il
suo funzionamento percettivo, come una tecnica dell’apparato in cui la differenza è negata
(la diffe´rence nie´e); ma nella analisi di Baudry, la diffe´rence negata è tra il film come serie di
immagini incorniciate e l’illusione della continuità che risulta dalla proiezione. Baudry
sostiene inoltre che lo spettatore si identifica più con l’apparato che con ciò che viene
rappresentato. In Woman, Desire and the Look, Sandy Flitterman estende questa descrizione
dell’apparato nel suo riassunto di Hitchcock, The Enunciator di Raymond Bellour («Camera
Obscura», n. 2, autunno 1977). Nella discussione di Bellour del sistema “enunciativo” di
Hitchcock, egli descrive la combinazione di identificazione con la macchina da presa e
identificazione con l’oggetto. Sebbene Flitterman indichi l’utilità di questo tipo di analisi per
le femministe, non arriva mai ad affermare che l’intero apparato filmico sia di genere
maschile. Vedi Woman, Desire and the Look, in Theories of Authorship, John Caughie (a cura
di), London, Routledge & Kegan Paul, 1981, pp. 242-250.

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132 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

del corpo; un viso, una mano, una gamba, tutti tagliati. La star, come la
maggior parte delle forme umane al cinema, non è presentata come un
corpo unificato. In effetti, spesso è proprio questa metonimia ad essere
trasformata in parti-oggetto mercificate. Il viso di Garbo è trasformato nella
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parte di lei maggiormente mercificata, proprio come le gambe di Grable, la


voce di Bacall, ecc. La star diventa riconoscibile e familiare (di qui la
compulsione a ritornare ad essa) anche se non è mai totalmente unificata
come corpo. Il cinema fornisce identificazioni con la parte oggetto, crea
feticci di parti-oggetto. Non viene offerta l’interezza; l’io-ideale rappresen-
tato non è unificato o intero, bensı̀ un significante sineddochico.
Secondo, le difficoltà prevalenti con la struttura delle relazioni identifi-
catorie cominciano quando si esaminano le variabili dell’identificazione del
corpo di genere. Il saggio miliare di Laura Mulvey, Piacere visivo e cinema
21
narrativo , ha aperto questo vaso di Pandora. (L’identificazione di genere è
rimasta il locus della maggior parte dei dibattiti nella teoria cinematografica
femminista). Secondo Mulvey, la codificazione di preesistenti «modelli di
fascinazione» nel cinema narrativo struttura lo sguardo scindendolo tra
l’uomo come agente dello sguardo e la donna come oggetto dello sguardo.
Per potere accettare la sua spiegazione – che descrive dettagliatamente i
piaceri duali della scopofilia voyeuristica e dell’identificazione narcisistica –
rimane la domanda: la spettatrice è costretta ad identificarsi con il protago-
nista maschile?
Se le star cinematografiche sono possibili io ideali, quali sono le
implicazioni di genere dell’identificazione con le star di entrambi i generi?
Come attesta la gamma delle star nel cinema classico, esistono pochi io
ideali femminili forti. Laddove esistono, la loro forza è spesso mitigata o
recuperata dalla loro collocazione in una narrazione chiusa che non am-
mette tale forza. Seguendo le implicazioni della spiegazione di Mulvey, la
spettatrice è collocata nella posizione masochistica di identificarsi o, da una
parte, con la donna che è punita dalla narrazione o trattata come un
feticcio scopofilico, OPPURE, dall’altra parte, con l’uomo che controlla gli
eventi. Non c’è molta differenza rispetto alla confusione di genere dell’iste-
rica che contemporaneamente stringe forte e strappa il suo vestito. Al
cinema, in entrambi i casi, la sua differenza dalla star sullo schermo è
annientata, lei non è né la donna rappresentata né il maschio rappresentato.

21
Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», vol. 16, n. 3, autunno
1975; [tr. it. Piacere visivo e cinema narrativo, in «Nuova dwf», n. 8, luglio-settembre 1978, pp.
26-41].

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IL DINIEGO DELLA DIFFERENZA: TEORIE DELL’IDENTIFICAZIONE FILMICA 133

Per l’uomo il problema è meno complesso. In entrambi i casi, il suo potere


è sostenuto; a lui è concesso il gioco bisessuale del misconoscimento (con il
corpo maschile/con il corpo femminile) senza perdere la sua uguaglianza
con il maschio.
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Terzo, le identificazioni secondarie sembrano dipendere dal riconosci-


mento di una forma umana, di corpi come il nostro. Tuttavia l’identifica-
zione può non essere solo un’interazione di genere, bensı̀ un processo che
offre spostamenti più fluidi, inconsueti. C’è una gamma di esempi di star
antropomorfe ma non umane – da Lassie e Benji a Flicka e Flipper a Yoda
e R2D2. La “qualità di star” di queste creature indica che per l’identifica-
zione non occorre una forma umana. Nel cinema, lo spettatore e la
spettatrice non si identificano comunque con la propria immagine. I piaceri
offerti sono precisamente questo diniego: il corpo della star non è il corpo
del soggetto, né di lui, né di lei. Ciò può spiegare la fascinazione del non
umano al cinema, la proiezione in un NON sé, in un altro bestiale. Come
attestano innumerevoli film (con mostri, robot, animali), qualsiasi corpo
offre una opportunità per l’investimento identificatorio, un possibile abito
per la sostituzione/misconoscimento del sé.

Identificazione extra-filmica
Esiste una categoria di investimenti identificatori che sono collegati a e
dipendenti da una visione cinematografica e che tuttavia sono extra-
speculari, i cui effetti continuano al di fuori della visione. Ho scelto di
definirli extra-filmici per evitare la costruzione temporale di post-filmico.
Certamente le identificazioni primaria e secondaria hanno effetti extra-
filmici, più facilmente osservabili nei sistemi ausiliari della mercificazione
che immettono l’“esperienza” filmica sul mercato.
L’identificazione con una star cinematografica è un processo che si
estende oltre l’identificazione filmica secondaria, impegno che dura per
tutto il tempo in cui si assiste allo spettacolo, nell’identificazione extra-
filmica, impegno che è prolungato e amplificato dai sistemi ausiliari della
codificazione che si estendono oltre la specificità della portata del singolo
film. Ed è proprio al di fuori della visione spettatoriale, nel contesto
economico e sociale, che l’identificazione è divenuta una delle figure più
centrali dell’istituzione. La fascinazione di una star cinematografica non è
fascinazione di una singola persona significante (Norma Jean Baker, Marion
Morrison, Greta Gustafson) o di un singolo significante (Monroe in Nia-
gara [Id.], Wayne in She Whore a Yellow Ribbon [I cavalieri del Nord-Ovest],

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134 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Garbo in Mata Hari [Id.]), bensı̀ di un intero sistema di significanti e di un


codice – il sistema erotico commercializzato che corrisponde a ciò che
22
Baudrillard ha definito «metafora del feticismo» .
Laddove è usata in pura omologia con la visione cinematografica, la
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metafora del feticismo non suggerisce un riferimento letterale alla castra-


zione. La struttura dell’oscillazione tra riconoscimento e disconoscimento
avviene nello spettatore cinematografico che simultaneamente disconosce
(non la castrazione ma) l’assenza o il non esserci della scena filmica,
riconoscendo allo stesso tempo la sua presenza, sebbene illusoria.
Tuttavia il feticismo ha un’altra funzione metaforica, diversa dalla sua
azione non materialista nell’inconscio. Secondo Marx, il termine era utiliz-
zato per descrivere il valore di un oggetto, in termini economici non
psicosessuali. Per Marx, la merce era un feticcio, il suo valore veniva
trasformato da un prodotto del lavoro con un valore d’uso in un oggetto in
un sistema del capitale con un valore di scambio. La merce feticcio è un
oggetto che ha un valore al di là del suo uso, nel «geroglifico sociale» dello
23
scambio .
La star cinematografica corrisponde esattamente a entrambi questi
modelli. Come oggetto in una relazione identificatoria, essa è simultanea-
mente identificata (riconosciuta) come altro e misconosciuta (discono-
sciuta) come sé. Come oggetto trasformato in un sistema di merci, è messa
sul mercato non per il mero consumo, ma per il suo valore di scambio. La
star cinematografica è un feticcio istituzionalmente sanzionato.
La maggior parte delle analisi della relazione tra star e pubblico
ricorrono a spiegazioni economiche e sociologiche proprio a causa della
relazione indeterminata tra la star e lo star system, tra il segno e il sistema
intertestuale del significato. I confini del segno della star non sono tracciati
chiaramente. Le analisi economiche spiegano come le star vengano usate in
24
un mercato di prodotti di intrattenimento , come siano state sviluppate

22
Jean Baudrillard, For a Critique of the Political Economy of the Sign, tradotto da Charles
Levin, St. Louis, Telos Press, 1981; [tr. it. Per una critica dell’economia politica del segno,
Mazzotta, 1974]. Vedi, in particolare, il capitolo Fetishism and Ideology: The Semiological
Reduction (che inizialmente apparve come articolo in «Nouvelle Revue de Psychoanalyse»,
vol. II, autunno 1970).
23
Vedi Karl Marx, Capital (capitolo 1, parte 4), The Fetish of the Commodity and its Secret;
[tr. it. Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1964-65].
24
Il racconto di Tino Balio delle carriere di Mary Pickford, Charles Chaplin e Douglas
Fairbanks Jr., in United Artists: The Company Built By Stars, Madison/Wisconsin, University
of Wisconsin Press, 1976, esemplifica come le prime star cinematografiche negoziassero il
proprio valore sul mercato.

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IL DINIEGO DELLA DIFFERENZA: TEORIE DELL’IDENTIFICAZIONE FILMICA 135

quale strategia della differenziazione del prodotto nella battaglia dell’indu-


stria cinematografica statunitense tra il Patent’s Trust e i produttori e i
25
distributori “indipendenti” (tra il 1912 e il 1918) , come vengano costante-
mente utilizzate come merci per il loro valore di scambio. Le star, come
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sappiamo, non erano una parte intrinseca dell’istituzione cinematografica


nelle sue prime espressioni, ma furono lanciate sul mercato ben quindici
anni dopo che il cinema era stato introdotto come forma di intratteni-
mento rivolta al pubblico. Gli argomenti del determinismo economico
spiegano come le valutazioni economiche determinino la forma dei film,
ma non spiegano perche´ certe strategie di marketing funzionino. In queste
analisi, che costruiscono un modello quasi comportamentista delle masse, il
pubblico è visto come un gruppo di volontaristi che rispondono ai pubblici-
sti e ai capi dello studio. Le descrizioni economiche enfatizzano la fabbrica-
zione non l’effetto.
Le analisi sociologiche cercano delle spiegazioni empiriche o impres-
sioniste rispetto al funzionamento delle star in un sistema sociale. Sebbene
la natura quasi religiosa, di culto, di gran parte del discorso che circonda la
star cinematografica – interviste, biografie, giornali di pettegolezzi, fan club,
autografi, paparazzi – esiga una spiegazione della valenza sociale delle star
cinematografiche, la maggior parte delle analisi sociologiche non offrono
una spiegazione integrale del perche´ le star vendano, del perche´ affascinino lo
spettatore o perche´, nella rappresentazione filmica, esse siano collocate al
26
centro della narrazione .
Nello star system la relazione tra vedere e divorare è sfruttata in una
maniera più complicata di quanto il linguaggio metaforico del consumo dei
beni potrebbe suggerire. La varietà dei rapporti con i prodotti che suggeri-
sce o l’incorporazione fisica letterale (la salsiccia di puro suino di Jimmy
Dean, gli hamburger di Roy Rogers, il condimento per l’insalata e il sugo
per gli spaghetti di Paul Newman, il cocktail “Shirley Temple”, ecc.) o

25
Questo sembra un mito consolidato delle origini delle storie economiche dello star
system. Un tale resoconto sintetico è fornito da Gorham Kindem in Hollywood’s Movie Star
System: A Historical Overview, in Gorham Kindem (a cura di), The American Film Industry,
Carbondale, Southern Illinois University Press, 1982. Ma la stessa spiegazione si trova in
altri testi di storia: Benjamin B. Hampton, History of the American Film Industry, New York,
Dover Publications, Inc., 1970; Tino Balio (a cura di), The American Film Industry, Madi-
son/Wisconsin, University of Wisconsin Press, 1976.
26
Stars di Richard Dyer (London, BFI, 1979) rimane la migliore analisi concisa sulle star e
sul loro significato sociale. Vedi anche il saggio miliare di Edgar Morin, The Stars (New
York, Grove Press, 1960), per la sua disamina delle identificazioni basate sulle similarità
regionali, di età e di genere.

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136 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

l’incorporazione epidermica (lo shampoo di Farrah Fawcett, la lozione per


il corpo Love me Tender di Elvis) attinge alla stretta relazione tra VEDERE
e DIVORARE e VEDERE e DIVENTARE.
Questo modello di identificazione introiettiva corrisponde alle forme
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acquisitive di incorporazione richieste dall’economia consumistica. Il VE-


DERE/DIVORARE e il COMPRARE/POSSEDERE sono sfruttati nella
relazione identificatoria e trasformati in VEDERE/DIVENTARE e COM-
PRARE/DIVENTARE. Il processo dell’identificazione è designato a inco-
raggiare il diniego della propria identità o l’acquisizione di una identità
costruita basata sul modello dell’altro, ripetuta mimeticamente, che ali-
menta l’illusione che si stia davvero abitando il corpo dell’io ideale.
Quali espedienti filmici accrescono l’identificazione e quali la ostacolano?
Qui è in discussione il potere di un testo specifico di contestare le operazioni
dell’apparato. Tutte le richieste di censura cinematografica derivano dall’opi-
nione che il cinema incoraggi l’imitazione/incorporazione mimetica delle
azioni dannose, illegali o immorali di un personaggio, un attore o una star. In
breve, da una paura dell’identificazione. L’imitazione dell’attività vista nel
mondo fittizio è una misura del potere, (e da qui) la minaccia del cinema.
Tuttavia, coloro che temono l’effetto ideologico dei “valori sbagliati” di solito
contro-argomentano la rappresentazione dei “valori giusti”. Gli argomenti a
favore delle pratiche cinematografiche alternative che propongano un’identi-
ficazione positiva con io ideali “perfezionati”, rifiutano di comprendere
l’operazione basilare dell’identificazione stessa. Creare gente comune più
“realistica” e meno stereotipata, allontanarsi dalle divinità, richiede sempre gli
stessi processi di identificazione. Il cinema realista, proprio come quello non
realista, cancella la propria costruzione. La struttura identificatoria di base,
negando la differenza, è ancora attiva.
È bene, però, dichiarare subito apertamente i limiti di una simile critica
monumentale. In primo luogo, come in tutte le affermazioni che tentano di
descrivere operazioni basilari dell’apparato cinematografico, l’apparato è
descritto in modo iperbolico come se fosse al di fuori della storia, come se
un “soggetto costruito” nel 1937 fosse uguale a uno del 1987. In secondo
luogo, le affermazioni sull’apparato rifiutano anche la specificità dei singoli
testi, annullano le strategie che potrebbero contrastare il codice. Una delle
benedizioni dell’analisi testuale è stata la scoperta della complessità di ogni
27
testo filmico . In terzo luogo, mentre le descrizioni dell’apparato tentano di

27
Come spieghiamo, per esempio, il fallimento commerciale di Sylvia Scarlett (Il diavolo e`
femmina, 1936) di George Cukor e di Queen Christina (La regina Cristina, 1933) di Rouben

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IL DINIEGO DELLA DIFFERENZA: TEORIE DELL’IDENTIFICAZIONE FILMICA 137

descrivere le caratteristiche fondamentali, esse fanno anche sembrare quasi


impossibile una pratica alternativa. Al suo livello estremo, se il cinema è un
apparato che ha sviluppato un regime speculare di potere che replica la
costruzione del soggetto nel patriarcato e se la “natura” della visione
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cinematografica è di designare soggetti passivi, assoggettati a strumenti di


controllo, vi sono poche possibilità alternative per la pratica filmica. Sem-
bra impossibile evitare i legami della rappresentazione filmica senza escogi-
tare nuovi sistemi di rappresentazione basati sui canali relativamente inde-
terminati della percezione – gusto, tatto, olfatto. (Persino le formulazioni
immaginate di tali apparati spingono a pensare alle alternative – palatografi,
sensorami, diffusori di profumo...). La soluzione più adatta per contrastare
l’inevitabile eccessiva determinazione della visione da parte delle conven-
zioni patriarcali e ideologiche è quella di richiedere l’accecamento (squadre
di scavatori che operano radicali occlusioni oculari) come alternativa al
passato speculare?
Questo ci lascia, come soggetti della visione, catturati nel legame tra il
cannibalismo speculare e la bulimia scopica, tra l’introiezione di un altro
imposto e il rifiuto di ciò che l’occhio ha assimilato. Tuttavia, la bulimia
visuale è solo la costruzione della metafora. L’occhio è un organo che
divora ma non espelle.
Tenendo presenti i limiti di tale critica, rimane comunque il fatto che
l’identificazione ha le seguenti funzioni problematiche: l’identificazione può
avvenire solo attraverso il riconoscimento e ogni riconoscimento è in se
stesso una implicita conferma dell’ideologia dello status quo. La sanzione
istituzionale delle star come io ideali istituisce figure normative, autentica le
norme di genere. Ciò che resta qui è una questione inequivocabilmente
politica. L’identificazione determina il collasso del soggetto su ciò che è
normativo, una compulsione all’uguaglianza, che, sotto il patriarcato, esige
una critica.

Mamoulian, giustificando allo stesso tempo il successo commerciale di Blonde Venus (Venere
bionda, 1932) e Morocco (Marocco, 1930) di Josef von Sternberg? Ognuno di questi film ha una
star femminile in una “parte con i pantaloni” (Hepburn in Il diavolo e` femmina, Garbo in La
regina Cristina, Dietrich in Venere bionda e Marocco); è Dietrich che “fa vendere” i suoi due
film? O è forse che il travestimento (e disconoscimento) della donna è trattato differente-
mente in ciascuno dei film?

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CORPI A PEZZI:
IL VENTRE, LA FICA, LA VAGINA DENTATA

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IL BUCO E LO ZERO:
VISIONI DELLA FEMMINILITÀ IN GODARD

di Laura Mulvey

In uno dei primi articoli, scritto nel 1952 per i «Cahiers du Cinéma», Difesa
e illustrazione del «de´coupage» classico, Godard associa la bellezza femminile,
quasi ontologicamente, al cinema:

Un bel volto, scrive giustamente La Bruyère, è il più bello degli spettacoli.


È nota la graziosa leggenda seconda la quale Griffith, commosso dalla
bellezza della sua attrice, inventò il primo piano per fissarne meglio i
dettagli. Paradossalmente, dunque, il più semplice primo piano è anche il
più commovente. È qui che la nostra arte è capace di imprimere con più
forza la propria trascendenza e far esplodere nel segno la bellezza dell’og-
getto significato. Di questi occhi immensi che si ripiegano, pieni di
prudenza e di lussuria, di queste labbra che impallidiscono, del loro
turbamento non vediamo altro che gli oscuri disegni che esso trama, delle
loro confessioni nient’altro che le illusioni che esse nascondono [...] Il
cinema non si interroga sulla bellezza di una donna, si limita a dubitare del
suo cuore, a registrare la sua perfidia (è un’arte dell’intera persona, scrive
La Bruyère, quella di collocare una parola o un’azione che inganni), a non
vedere che i suoi movimenti1.

Leggendo queste parole è impossibile non pensare alla bellezza profon-

The Hole and the Zero: Godard’s Visions of Femininity, in Raymond Bellour, Mary Lea
Bandy (a cura di), Jean-Luc Godard: Son + Image 1974-1991, New York, The Museum
of Modern Art, 1992, pp. 75-88.
1
Jean-Luc Godard, Defence and Illustration of the Cinema’s Classical Construction, in Tom
Milne (a cura di), Godard on Godard, London, BFI e Secker & Warburg, 1972, p. 28; [tr. it.
Difesa e illustrazione del «de´coupage» classico, in Jean-Luc Godard, Il cinema e` il cinema, Milano,
Garzanti, 1981, pp. 40 e 43].

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142 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

damente cinematografica delle attrici di Godard, alla noncurante slealtà di


Jean Seberg in A` bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) e, soprattutto, a
Anna Karina e al suo falso sguardo in macchina in Pierrot le fou (Il bandito
delle undici, 1965). La dicotomia tra superficie e segreto, artificio e verità, è
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paradossale. La superficie artificiale della bellezza femminile può masche-


rare un segreto che può essere svelato solo per rivelare la pericolosità della
femme fatale. Ma la superficie artificiosa dell’illusione cinematografica può
celare un segreto che può essere svelato per palesare la vera bellezza della
sua materialità e del suo potenziale di analisi della realtà politica.
Nel corso degli ultimi, militanti anni Sessanta, lo spostamento di
Godard verso un’estetica materialista si è accompagnato a uno sposta-
mento verso il marxismo. Durante il suo periodo marxista, egli ha riformu-
lato le opposizioni superficie/parte segreta, bellezza/inganno, che avevano
caratterizzato le sue rappresentazioni delle donne, continuando a lottare
contro la società capitalista dei consumi. Parallelamente a questa lotta egli
ha sviluppato il suo contro-cinema politicamente radicale e esteticamente
avanguardistico. Al posto di una femminilità misteriosa, è emersa una
femminilità enigmatica. L’artificio e l’illusione della femminilità potrebbero
essere rimossi insieme all’artificio e all’illusione del cinema e all’artificio e
all’illusione della società consumistica. In seguito, nell’ultima fase – post-
marxista – degli anni Ottanta, il cinema di Godard si è allontanato
dall’enigma ed è tornato al mistero, si è allontanato dalla curiosità e
dall’investigazione verso un nuovo senso di reverenza. Questi cambiamenti
politici hanno riguardato sia il suo cinema che la sua rappresentazione delle
donne. I cambiamenti possono essere mappati attraverso il doloroso ma
ostinato coinvolgimento con il sesso, la differenza sessuale e la femminilità
che ha attraversato il suo cinema e le sue tendenze politiche.
Perché, Godard ci ha insegnato a chiedere, questi suoni e queste
immagini? In Je vous salue, Marie (Id. 1982), Maria si reca dal suo medico di
famiglia. Prima di visitarla e accertare la sua gravidanza verginale, il dottore
va dietro un paravento per lavarsi le mani facendo nel frattempo un
commento che lei non riesce a sentire. La macchina da presa è in campo
lungo, collocata intorno a Maria seduta in biancheria intima sul lettino da
visita. Lei gli domanda di ripetere quanto ha detto e la macchina da presa
viene riposizionata in campo medio sul dottore, quando dice, apparente-
mente a beneficio del pubblico piuttosto che di Maria: «dicevo che non so
fino a che punto un uomo può conoscere una donna e invece ho scoperto
che un uomo non può sapere più di quello che già non sa: un vero mistero,
eh già». Di fronte alla vergine Maria, ovviamente il mistero diventa il

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IL BUCO E LO ZERO 143

Mistero. È come se Godard avesse lottato per cosı̀ tanto tempo per
scendere sotto la superficie che, in questo film, ha dovuto fare un passo
indietro per esaminarla con reverenza, anche se con una certa ironia.
Comunque, nel fare ciò, egli installa un concetto feticizzato della bellezza,
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uniforme e completo, nel cinema, nel corpo della donna e in una conce-
zione della natura che include l’inconoscibile.
Il cinema, il corpo della donna, la “natura”. L’estetica che emerge da
questa triade è molto diversa dall’estetica delle fasi politiche di Godard. A
metà degli anni Sessanta, in quella che può essere definita la sua fase
Debord2, [specialmente Une femme marie´e (Una donna sposata, 1964) e Deux
ou trois choses que je sais d’elle (Due o tre cose che so di lei, 1966)], la triade era
invece: il cinema, il corpo della donna, la società consumistica. Nella sua
fase marxista [per esempio, British Sounds (Id., 1969) e Tout va bien (Crepa
padrone, tutto va bene, 1972)], egli ha provato a guardare oltre il consumi-
smo al processo della produzione stessa della merce. Il cinema, il corpo, la
fabbrica. Sebbene queste triadi siano di necessità concettualmente riduttive,
esse attirano l’attenzione su un aspetto importante dell’estetica di Godard
in cui la donna continua a giocare un ruolo nodale nonostante gli slitta-
menti e i cambiamenti nella sua agenda politica. Nel corso degli anni
Ottanta, la relazione significativa tra i primi due termini si è alterata in
modo che gli elementi che hanno contribuito all’enorme influenza teorica
di Godard degli anni Sessanta e Settanta emergono in una “combinazione”
differente con Passion (Id., 1981), Pre´nom Carmen (Id., 1983) e Je vous salue,
Marie. Passion è un film spartiacque, un momento in cui prendono forma le
priorità estetiche e politiche in trasformazione. Carmen è un film di transi-
zione, un film di crisi che segna la distanza che intercorre tra Passion e Je
vous salue, Marie.
Due topografie differenti sottostanno alla rete di collegamenti tra idee,
deviazioni di significato, spostamenti e condensazioni che si scambiano tra
le triadi. Per esempio, il cinema, il corpo femminile erotizzato e i prodotti
di consumo condividono tutti l’attributo dello spettacolo. Essi possono

2
Nel suo pamphlet La società dello spettacolo, che nei tardi anni Sessanta ha avuto
un’ampia influenza culminata nel maggio ’68, Debord ha istituito legami tra lo spettacolo e il
feticismo della merce. Egli scrive: «lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta
all’occupazione totale della vita sociale» [tr. it. La società dello spettacolo, Milano, Baldini &
Castoldi, 1997, p. 70]. In Une femme marie´e e in Deux ou trois choses que je sais d’elle Godard
mostra il corpo femminile come significante del feticismo della merce, collegandolo alla
società dello spettacolo attraverso il discorso della sessualità nella pubblicità.

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144 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

rafforzarsi e sovrapporsi l’un l’altro in una serie di analogie. Dall’altra parte


possono creare una rete di interconnessioni, più sul versante della metoni-
mia, in modo che la connessione tra la donna e il consumo delle merci
risulti un parallelismo sociale piuttosto che analogico o metaforico. Dall’al-
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tra parte ancora, nella forma della prostituta, il rapporto della donna con le
merci è analogo. Entrambi si mettono in vendita sul mercato. Entrambi
devono esibire una superficie desiderabile. Entrambi devono circolare senza
riferimento ad alcuna storia al di fuori del momento dello scambio.
In Due o tre cose che so di lei, Juliette/Marina Vlady è una casalinga
proletaria che diventa una prostituta per comprare merci per se stessa e per
la sua famiglia. Lei condensa quindi, in una singola figura, un’analogia
metaforica della merce e una metonimia, il fare acquisti. Naturalmente,
Juliette fa acquisti anche per dar forma alla superficie desiderabile, l’“a-
spetto” che si ottiene con il trucco e i vestiti, che poi, a sua volta, implica la
seduzione di una superficie erotizzata che implica qualcosa di nascosto, un
segreto o un mistero. Mentre Godard attira l’attenzione sulla mercificazione
della donna, nella pubblicità del capitalismo consumista come pure, alla
lettera, nella prostituzione, contemporaneamente attira l’attenzione anche
su un’erotizzazione della merce. Di nuovo, una superficie seducente implica
qualcosa di nascosto. Le due cose condividono una struttura simile che può
anche essere estesa al cinema e al suo investimento in una seduzione di
superficie che nasconde i suoi meccanismi. E anche il cinema è a sua volta
una merce che circola con successo grazie al suo potere di seduzione e la
sua seduttività è molto spesso incapsulata nella presenza sullo schermo del
corpo femminile erotizzato. La somiglianza della struttura crea, cosı̀, un
canale attraverso il quale possono circolare i processi di spostamento e in
questo senso le connessioni metaforiche o metonimiche sono strutturate da
un’omologia fantasmatica. L’omologia rafforza i movimenti di idee e di-
spone connessioni subliminali profonde tra figurazioni che in superficie non
sembrerebbero cosı̀ strettamente intricate. La raffigurazione della femmini-
lità è centrale e l’enigma femminile permette a Godard di suggerire altri
enigmi, estetici, cinematografici e socio-economici (quello della merce).
L’omologia della superficie e l’insinuazione di una “profondità” fantasma-
tica proiettata dietro di essa incanala le idee e le immagini in una rete di
rimozioni e condensazioni incrociate.
Qui emerge la questione della visibilità. L’aspetto esteriore opaco,
placido e passivo di Juliette come oggetto sessuale viene giustapposto ai
suoi pensieri intimi trasmessi, tramite la colonna sonora, al pubblico ma
non ai personaggi sullo schermo, mentre si interpone anche la voce

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IL BUCO E LO ZERO 145

sussurrante dello stesso Godard, che commenta l’azione sullo schermo e ne


mette in discussione la sua spontaneità e autonomia. Nell’introduzione a
Due o tre cose che so di lei di Marina Vlady, lei, o piuttosto (probabilmente)
Godard, cita Brecht. Anche la citazione crea un ponte tra uno smantella-
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mento brechtiano della “completezza” dello spettacolo, la funzione del


cinema come merce destinata al consumo e la struttura e la funzione del
feticismo della merce nella società tardo-capitalista. Sebbene la mediazione
avvenga attraverso la figura della prostituta (anche star cinematografica,
spettacolo e merce in se stessa), il primo interesse di Godard è nei riguardi
degli aspetti feticisti del cinema. Se la splendida e lucente fascinazione di
superficie dello schermo potesse essere smascherata per rivelare il processo
di produzione nascosto dietro di essa, il cinema verrebbe spogliato dei suoi
aspetti feticisti. In Godard, il desiderio di liberare il cinema nello spazio e
nel tempo complessi della referenza intertestuale, del discorso, o della
riflessività in prima persona e della specificità materiale e cosı̀ via, eguaglia
il desiderio marxista di defeticizzare la merce, rendendo visibile, attraverso
l’analisi politica, la specificità del suo processo di produzione. Il materiali-
smo di un’estetica moderna incontra il materialismo marxista in Brecht e
arriva direttamente a Godard.
Durante la sua fase radicale, il cinema di Godard aveva il fine di
riplasmare gli spettatori, tentando di creare e di rivolgersi a un pubblico che
sarebbe stato eccitato da un’immagine e eccitato dalla sua specificità filmica
e eccitato dalla decodifica del suo significato. Io ho sostenuto che l’impulso
della curiosità possa essere una risposta critica al richiamo del voyeurismo.
La critica tenta di trasformare immagini seducenti in immagini enigmatiche
e di decifrare il loro significato. Un contro-cinema tenta di creare immagini
seducenti perché esse suscitano curiosità e sfidano il pubblico a decifrare il
loro significato. In questo senso, la curiosità generata da un segreto,
qualcosa di nascosto e di proibito, si estende alla curiosità generata da un
puzzle, qualcosa che deve essere capito. Le immagini della donna, a lungo
associate con la seduzione e l’enigma, stanno al centro dello schermo. Esse
funzionano come segni che, come un puzzle, possono essere decifrati per
rivelare qualcosa che era prima incomprensibile, una fonte di mistero.
Nell’immagine della prostituta, Godard subordinava il mistero alla materia-
lità della sessualità, della produzione capitalista e, implicitamente, del
cinema.
In due scene complementari, Godard usa la figura della prostituta per
istituire ulteriori catene di riferimento tra due aspetti contrastanti del
capitalismo e della sessualità. In Due o tre cose che so di lei, le due prostitute

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146 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

vengono chiamate nella suite d’albergo di un uomo d’affari americano. Il


loro cliente chiede loro di camminare davanti a lui, portando sulla testa una
borsa da viaggio, una della Pan Am, l’altra della TWA, mentre lui le
fotografa. L’investimento erotico dell’americano sulla sua potente e costosa
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macchina fotografica, le ragazze mascherate da due grandi loghi, trasfor-


mano la relazione prostituta/cliente in un rituale che celebra in modo
grottesco la dipendenza del capitalismo consumistico americano dalla
rappresentazione del suo potere fallico come feticcio del piacere sessuale e
opera una condensazione di merce e sessualità. Nella seconda scena, in
Sauve qui peut (la vie) (Si salvi chi può (la vita), 1979), la prostituta e altri
dipendenti creano, diretti dal loro capo e a beneficio e soddisfazione di lui,
una macchina da sesso Heath Robinson dalla gestualità fredda, imperso-
nale, taylorizzata. Mentre la prima scena ruota intorno a immagini di
consumo, la seconda imita la catena di montaggio. Mentre la prima esplora
il feticismo della merce, la seconda parodia le relazioni produttive del
capitalismo che il feticismo nasconde.
Comunque, la macchina da sesso stessa è, ovviamente, allo stesso
tempo, profondamente feticista. Essa usa i movimenti meccanici e sincro-
nizzati del robot attraverso cui il processo di produzione, altrimenti perico-
losamente vicino a rivelare la teoria del valore del lavoro, può nascondere i
suoi segreti. Robert Stam ne parla in questi termini: «come un cineasta [il
capo] assegna movimenti precisi ai suoi attori [...] I partecipanti all’orgia,
come lavoratori nel processo di assemblaggio, sono ridotti a ben definiti
3
spasmi, torsioni, lamenti e tremiti» . Raymond Bellour e Pascal Bonitzer
hanno similmente attirato l’attenzione sull’analogia. Bellour ha fatto notare
che le inquadrature in stop-motion privilegiano momenti particolari in Si
salvi chi può (la vita) e «rendono impossibile la pausa immaginaria di cui
l’immagine ha bisogno per soddisfare la sua falsa pienezza» e che esse
consentono «la rinascita dell’immagine, lo spostamento verso una scrittura-
pittura liberata dalla pienezza ingannevole e illusoria prescritta dal movi-
mento in avanti della m.d.p.»4. C’è anche un senso di perdita definitiva, a
suggerire che Godard, questa volta, non è molto coinvolto nella decostru-
zione della macchina cinema o nella sua liberazione, ma piuttosto nella
registrazione del blocco di questi processi. La sovrapposizione di cinema,
fabbrica e corpo è lı̀, visibilmente in movimento, ma non ha più altro
significato che questo.

3
Robert Stam, Jean-Luc Godard’s ‘‘Sauve qui peut (la vie)’’, «Millennium Film Journal», nn.
10-11, autunno/inverno 1981-1982.
4
Raymond Bellour, I Am an Image, «Camera Obscura», nn. 8-10, 1989, pp. 120-121.

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IL BUCO E LO ZERO 147

Fabbrica-corpo-cinema. Le ultime tracce del Godard analitico e politi-


camente radicale, impersonate principalmente dal personaggio di Isabelle
Huppert in entrambi i film, sono svanite da qualche parte tra Si salvi chi può
(la vita) e Passion. In Passion, questi tre grandi temi che hanno preoccupato
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Godard cosı̀ a lungo vengono ad occupare tre spazi distinti che si riversano
l’uno nell’altro attraverso i fili intrecciati della narrazione. Lavoro-sesso-
suono/immagine. La sfera della fabbrica è rappresentata da Isabelle Hup-
pert come operaia e Michel Piccoli come padrone. Il personaggio di Piccoli
ricorda il padrone/cliente nella scena della macchina da sesso in Si salvi chi
può (la vita). Il personaggio di Isabelle ha legami con quella scena solo
attraverso la presenza dell’attrice e per il fatto che il suo personaggio è,
all’inizio del film, all’interno della “sfera” della fabbrica/macchina e sog-
getto al potere del padrone. La “sfera” del cinema è rappresentata dal
regista, il suo cast, la troupe e lo studio («il più costoso d’Europa») dove
stanno girando un film, anch’esso intitolato Passion. L’analogia fabbrica/ci-
nema continua e ci sono numerose sovrapposizioni tra queste due sfere. La
presenza di Piccoli, sebbene qui dalla parte della fabbrica, offre una traccia
evanescente del suo ruolo di sceneggiatore in Le Me´pris (Il disprezzo, 1963),
che riscrive l’Odissea più o meno come, in questo film, il regista cerca di
ricreare i dipinti degli Antichi Maestri. Nel loro comportamento e negli
atteggiamenti sociali, le dramatis personae della troupe del film ripropon-
gono la gerarchia e la divisione del lavoro della fabbrica. Jerzy, il regista, sul
set è autoritario e perentorio. Sophie, l’assistente di produzione, si com-
porta in modo molto simile a una manager di fabbrica; insiste sui ruoli,
sull’importanza della produttività e sul posto che occupa la narrazione nel
cinema. Patrick, l’assistente alla regia, si comporta in modo molto simile a
un caposquadra; fa il prepotente ed esorta le comparse a “lavorare”,
radunandole e sorvegliando la gestione del set, dando letteralmente la
caccia alle ragazze. La sfera del sesso/il corpo è rappresentata da Hanna
Schygulla, moglie di Piccoli, proprietaria dell’albergo in cui soggiornano il
cast e la troupe, e il mondo del film si sovrappone a quello della fabbrica
della porta accanto. Jerzy passa il tempo con Hanna mentre dovrebbe
dirigere il film, facendole guardare un video del suo viso, in primo piano,
registrato sotto l’influenza di un’emozione forte, quando cerca di persua-
derla a passare al mondo del cinema e a recitare una parte in Rubens.
Isabelle, l’operaia della fabbrica, all’inizio di Passion viene licenziata. La
sua narrazione è concentrata primariamente sulla sua lotta per la reintegra-
zione o il risarcimento e cosı̀ è apparentemente in armonia con il prece-
dente impegno di Godard nella lotta della classe operaia. Il suo personag-

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148 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

gio è fisicamente ed emotivamente vulnerabile. La sua lieve balbuzie


esprime una mancanza di dominio sul linguaggio e i discorsi della cultura
che la isola dal mondo del cinema e dell’arte. Verso la fine del film Piccoli
capitola e la liquida, troppo sfibrato dalla sua tosse tormentosa per conti-
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nuare la lotta. Lei improvvisamente si trasforma da operaia in libera agente,


una potenziale imprenditrice, capace di scegliere il proprio futuro, come se
la narrazione avesse deciso di spostarsi dal significante della classe operaia e
della sua lotta e orientarsi verso un altro tipo di produzione, artistica
piuttosto che economica e politica. Il cinema, comunque, rimane un punto
centrale di investigazione e di inchiesta, ma il “come” è ora decisamente
diretto più verso questioni di creatività, sebbene quelle economiche e
tecniche siano ancora presenti.
La relazione tra Jerzy e Isabelle indica parallelismi tra la lotta di lei con
il padrone della fabbrica e la lotta di lui per riconciliare le richieste
industriali di produzione e distribuzione con l’autonomia creativa. A un
altro livello, c’è un parallelismo tra la balbuzie di Isabelle, la sua lotta per
articolare il linguaggio e la perdita da parte del regista del progetto del suo
film. Entrambi stanno tentando di trovare una forma di espressione fluida e
si ritrovano bloccati. Il regista deve trovare una soluzione per il suo film
senza dover ricorrere a una storia, come richiesto dai finanziatori, da
Sophie e dalle aspettative generali. Egli è ossessionato dalla sua incapacità
di organizzare le luci sul set. Egli vuole ricreare in immagini e poi filmarli
nelle loro tre dimensioni alcuni dei grandi e famosi dipinti dell’arte occi-
dentale. Create su una superficie piatta dal pittore, con l’illusione della
profondità e del movimento congelato per una frazione di secondo, queste
immagini devono trasformarsi dal trompe-l’oeil della superficie della tela nel
trompe-l’oeil della superficie dello schermo. Nel corso del film, il regista,
come Michelange in Les carabiniers (I carabinieri, 1963), cerca di penetrare
dentro lo spazio racchiuso in questi dipinti familiari, trasformandoli a tutto
tondo per l’esplorazione e la partecipazione della m.d.p. Le immagini belle
in modo sbalorditivo vengono ricreate su set enormi come labirinti, incana-
lando e poi bloccando i movimenti fluidi della m.d.p. Un tecnico con la
videocamera e i cavi, o altri elementi esterni intrusivi, possono smontare il
magico trompe-l’oeil presentando, nell’immagine sullo schermo, i processi
della sua produzione. Mentre la metafora dello “svelamento” evocava una
dicotomia superficie/segreto suggerita dal feticcio, qui la metafora appro-
priata è “penetrazione”, non dietro ma nella superficie. La superficie ora
possiede una via d’accesso a ciò che le sta dietro, non in un modo di
produzione o in qualcosa che esso ricopre, ma nella celebrazione della

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IL BUCO E LO ZERO 149

feticizzazione della superficie come tale. La fuga dal dilemma del feticismo,
dal bisogno radicale di defeticizzare la produzione culturale, è un segno del
passaggio dell’epoca della macchina, della fine delle problematiche della
modernità e delle politiche che hanno caratterizzato entrambe.
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Il mutuo riconoscimento di Isabelle e Jerzy è come l’ultima traccia


rimasta di una condensazione teorica del processo di produzione, nel
capitalismo e nell’arte, che ha caratterizzato l’estetica iniziale, decostruttiva
e brechtiana di Godard. In Passion le priorità di Godard sembrano cambiare
direzione. È come se egli stesse descrivendo il cambiamento di enfasi nel
suo lavoro, dalla modernità materialista a un’esplorazione dell’arte e dei
problemi della creatività stessa. In questa prospettiva, Isabelle rappresente-
rebbe (fino alla sua vittoria) il passato nella traiettoria politica in trasforma-
zione dello stesso Godard e il mutevole clima degli anni Ottanta che, con
le parole di André Gorz, ha detto «addio alla classe operaia». Jerzy si
descrive come uno alla ricerca di una soluzione per i suoi problemi con il
cinema in mezzo alle due donne, «diverse come il giorno e la notte». Il
problema del cinema si sovrappone al corpo femminile, in uno strano
rovesciamento della preoccupazione degli anni Sessanta per la demistifica-
zione della società dello spettacolo e del suo investimento nella sessualità.
In Passion, Godard comincia a ricostituire il corpo femminile come
supporto del cinema. Alla fine del film, in un gesto che ammette il suo
allontanamento dalla lotta politica di ogni giorno, Godard si sposta dal
quotidiano verso un mondo più “reale” fatto di fiction e di fantasia. Una
ragazza, ballerina e acrobata, che lavora come cameriera all’albergo procura
al film un finale. Jerzy è il suo “principe” e lei accetta un passaggio nella sua
macchina quando egli le dice, la sua “principessa”, che non è una macchina
ma un tappeto magico che li riporterà in Polonia. Il film termina con una
fuga dallo spazio del film e dallo spazio della fabbrica, ma lo spazio del
corpo, espresso dal femminile, è stato incorporato nella fuga fantastica di
una fiaba.
Dopo Passion, Godard ha fatto due film in successione che si occupano
entrambi dei miti del mistero femminile e dell’enigma del corpo femminile.
Essi formano anche un dittico attraverso il quale egli può tornare alla sua
vecchia ossessione pre-marxista della dualità del cinema, della sua magia
contro la sua realtà. Le due mitologie del femminile sono, a fronte di ciò,
diametralmente opposte l’una all’altra. Una, Pre´nom Carmen, rielabora, nel
suo principale filo narrativo, la storia del 1845 di Prosper Mérimée, la cui
eroina, a causa del successo dell’opera di Bizet del 1875, è diventata
rapidamente un’icona della seduzione e dell’infedeltà femminili e di una

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150 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sessualità rampante e indipendente. L’altra, Je vous salue, Marie, riscrive in


modo audace il mito dell’Annunciazione e della Nascita della Vergine e la
storia di Maria, nella cultura cristiana icona della castità femminile, della
sottomissione alla volontà di Dio e della spiritualità. Il problema del cinema
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trova ancora una volta un’analogia o una rappresentazione metaforica nel


mistero della donna. I due tipi di cinema, il cinema della magia/il desiderio
(Carmen) e il cinema della spiritualità/la verità (Maria), sono modificati
attraverso metonimie che entrambi riconnettono al posto del corpo femmi-
nile nel precedente lavoro di Godard e rappresentano un punto di crisi. C’è
un’improvvisa, stordente presa di coscienza che la creatività dipenda dal
desiderio ma che il desiderio svii la creatività.
In Je vous salue, Marie Godard trova un mezzo apparentemente para-
dossale per ripristinare le questioni spirituali (la natura innaturale della
Nascita della Vergine) al cinema. Questo non è tanto un nuovo inizio ma
un ritorno alla tradizione spirituale del realismo cinematografico e ad alcuni
dei primi mentori di Godard: Dreyer, Rossellini, Bresson. Godard subor-
dina il magico, implicito nella fede nella Nascita della Vergine, al mistero e
riporta il suo cinema alla natura attraverso la mano di Dio. La rappresenta-
zione cinematografica della natura è ora misteriosa, cinicamente svuotata
della sua precedente aspirazione realista. Solo l’istintiva interpretazione di
Godard delle contraddizioni inerenti al cinema, il suo profondo coinvolgi-
mento nel dibattito sulla natura del cinema, potevano realizzare il suo para-
dosso con tanta precisione. E solo una disperata ossessione per l’enigma
della femminilità poteva invocare la Vergine Maria come il paradosso
stesso. Cosı̀, dal momento che i due film polarizzano la femminilità in
un’opposizione binaria, il carnale e lo spirituale, ritornano anche i fantasmi
delle precedenti polarizzazioni.
Gli atteggiamenti dualistici, quasi manichei, di Godard sono presenti
già dall’inizio del suo lavoro di regista, o persino da prima dell’inizio,
quando, come critico, cominciò per la prima volta ad articolare la sua
concezione del cinema. Come critico, Godard ha racchiuso le sue idee nei
nomi («la critica ci ha insegnato ad amare sia Rouch che Ejzenštejn»),
reiterando costantemente un’opposizione tra ricerca o documentario (Lu-
mière) e spettacolo o fiction (Méliès), da una parte Rossellini e dall’altra
Nicholas Ray. Attraverso queste opposizioni Godard ha cercato di trattare
il problema della verità e dell’estetica nel cinema. Dall’inizio, cioè dal
tradimento da parte di Patricia di Michel Poiccard in Fino all’ultimo respiro,
la scissione tra l’aspetto femminile seducente e l’essenza o falsa o misterio-
samente inconoscibile, è stato un tema ricorrente nel lavoro di Godard.

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IL BUCO E LO ZERO 151

Non è soltanto un tropo drammatico ma anche una metafora per il più


profondo problema filosofico della scissione tra apparenza e essenza. È un
problema di iscrizione. Je vous salue, Marie ritorna a questo problema ma
attraverso uno strano percorso che viene mappato tramite/attraverso la
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questione della verità come presenza dell’invisibile e dello spirituale resi


evidenti tramite/attraverso il corpo della donna. L’omologia godardiana tra
la sessualità femminile, l’artificio e l’inganno ha, naturalmente, una ricca
storia nella cultura occidentale e ci sono molte femmes fatales che potreb-
bero rappresentare il mito che egli ha realizzato con la storia di Carmen,
mentre una sola donna, la Vergine Maria stessa, potrebbe rappresentare
l’altra parte dell’antinomia. Nel mito della Madre di Dio, il mistero enigma-
tico e pericoloso della sessualità femminile viene esorcizzato, ma solo
attraverso l’ulteriore mistero del potere di Dio. E paradossalmente questo
mistero può essere colto soltanto da una cieca sottomissione alla fede
irrazionale. La fede in Dio dipende dalla fede nell’impossibile verginità della
donna che rappresenta la sua “totalità”, uno svisceramento dell’“interno”
psicologicamente minaccioso e fisicamente disgustoso. È solo in quanto
“tutto” che la donna può gettare la maschera dell’artificio con la quale con-
temporaneamente inganna l’uomo e nasconde la verità del suo corpo.
Ma il semplice fatto della polarizzazione funzionerà sempre da collega-
mento, cosı̀ come da opposizione, e gli attributi che separano Carmen e
Maria nascondono solo superficialmente la basilare “consonanza” che c’è
tra loro. Entrambi i miti ruotano intorno ai misteri del corpo femminile e
della sua finale inconoscibilità. Entrambi i miti simboleggiano un punto
zero per Godard, in cui il mistero del femminile, profondamente distruttivo
a un certo livello, diventa una soglia verso, e un significante di, altri misteri
più profondi. C’è una complessa mescolanza tra le proprietà enigmatiche
della femminilità e il mistero delle origini, in particolare le origini della
creatività, che siano la creazione della vita o i processi creativi dell’arte. In
entrambi i film le forze della natura hanno una presenza senza precedenti
nel cinema di Godard. Sebbene nel suo cinema il paesaggio abbia spesso
giocato il suo ruolo, accanto alle citazioni e alle opere d’arte (il viaggio
attraverso la Francia in Il bandito delle undici, il Mediterraneo in Il disprezzo,
la corsa in bicicletta di Denise in Si salvi chi può, il cielo in Passion), in questi
due film il paesaggio si è evoluto in natura, e, in entrambi i film, è associato
al femminile.
Dall’altra parte, la femminilità non può essere separata dalla perfor-
mance. Nietzsche, termina Del problema del commediante in La gaia scienza
con queste parole:

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152 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Infine le donne: si rifletta su tutta la storia delle donne – non devono esse
prima e al di sopra di qualsiasi cosa essere delle commedianti? Si ascoltino
i medici che hanno ipnotizzato delle signore; e infine amiamole – lascia-
moci «ipnotizzare» da loro! Che cosa ne viene fuori ogni volta? Che esse si
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esibiscono, anche quando... si danno... La donna è tanto artista...5

È facile immaginare la frase «la donna è tanto artista» nella mente di


Godard. A che punto l’arte si trasforma in artificio e l’artificio in arte? Il
problema estetico posto dalla natura dissimulante dell’attore preoccupava
Godard nello spirito del commento di Nietzsche: «la falsità con buona
coscienza; il piacere della dissimulazione che irrompe come potenza, spin-
gendo da parte il cosiddetto “carattere”, inondandolo e talvolta cancellan-
dolo; l’intimo desiderio di calarsi in una parte, di mettersi una maschera, di
6
entrare in una parvenza» .
In Una donna sposata, Charlotte interroga il suo attore/amante mo-
strando gli stessi dubbi che più spesso l’uomo proietta sulla donna su come
leggere il suo essere intimo nella sua apparenza. Era questa diffidenza nei
confronti della rappresentazione che ha spinto Godard verso la distaccata e
visibile separazione tra l’attore e il ruolo che ha caratterizzato il suo cinema
7
dei tardi anni Sessanta . E questa diffidenza poi si estende alla simulazione e
alla finzione del cinema stesso. La simulazione della donna, come quella del
cinema, è spettacolo e ciò che può soltanto essere visto come superficie che
ancora nasconde i suoi segreti.
Molti critici vedendo Pre´nom Carmen furono colpiti dalla somiglianza
tra Myriem Roussel a Anna Karina. Come la Vergine Maria in Je vous salue,
Marie, Roussel trasforma la perfidia in purezza, trasformando Marianne (Il
bandito delle undici) in una Nana Vivre sa vie (Questa e` la mia vita, 1962) la
cui sessualità è stata cancellata. La bellezza del suo corpo può ancora
trafiggere la macchina da presa, ma funziona come un condotto verso un
nuovo tipo di cinema che può trascendere la materialità. L’uomo e il
cinema possono fantasticare sulla liberazione dalla schiavitù nei confronti
della sessualità. Mentre Carmen racchiude il tema della bellezza e dell’infe-
deltà nella femme fatale e, per estensione, nel cinema di Hollywood, il tema
delle questioni spirituali in natura, rappresentato da Maria, resuscita il

5
Friedrich Nietzsche, The Gay Science, New York, Vintage Books, 1974, p. 317; [tr. it. La
gaia scienza, Milano, Rizzoli, 2000, p. 347].
6
Ivi, p. 316; [tr. it. pp. 345-346].
7
Vedi Peter Wollen, Godard and Counter Cinema: Vent d’Est, in Readings and Writings,
London, Verso, 1982, pp. 89-90.

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IL BUCO E LO ZERO 153

fantasma di un altro cinema e del significato che una volta Rossellini aveva
per Godard. In un’intervista del 1962 con i «Cahiers du Cinéma» ha detto:

Rossellini è un’altra cosa ancora [...] In lui, un’inquadratura è bella perché


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è esatta; nella maggior parte degli altri registi un’inquadratura diventa


esatta a forza d’essere bella. Gli altri cercano di costruire qualcosa di
straordinario: se effettivamente ci riescono, ci si rende conto che c’era
motivo di farlo. Rossellini, invece, fa le cose prima di tutto perché ha certe
ragioni per farle. È bello proprio per questo8.

Il cinema è l’unica arte che, come dice Cocteau (in Orphe´e, credo)
mostra la «morte al lavoro», una frase glossata da Godard come «morte
ventiquattro volte al secondo». Questa citazione resuscita un’altra influenza
meno ovvia su Godard: André Bazin, il fervido cattolico co-fondatore dei
«Cahiers du Cinéma» che ha diretto dal 1951 fino alla morte nel 1958. In
Ontologia dell’immagine fotografica Bazin sostiene che le origini dell’arte
risiedono nel desiderio umano di vincere la morte, di mummificare il corpo
e di sconfiggere il tempo: «salvare l’essere mediante l’apparenza». Nella
storia dell’arte, questa «creazione di un universo ideale a immagine del
reale» è stata viziata dal bisogno dell’illusione, dalla «mentalità magica», e
sono stati solo Niépce e Lumière a redimere l’arte da questo peccato. Bazin
ha scritto: «per la prima volta, un’immagine del mondo esterno si forma
automaticamente senza intervento creativo dell’uomo [...] La fotografia
agisce su di noi in quanto fenomeno naturale, come un fiore o un cristallo
9
di neve la cui bellezza è inseparabile dalle origini vegetali o telluriche» . E
paragona la natura che l’oggetto condivide con la sua fotografia all’im-
pronta digitale.
Nelle categorie semiotiche di Charles Peirce, l’impronta digitale è un
indice, il segno nel quale l’oggetto lascia la sua traccia non mediata proprio
come la luce, in fotografia, trasferisce l’immagine nella celluloide. Peter
Wollen associa l’estetica baziniana dell’indice al suo interesse per le que-
stioni spirituali:

Era il vincolo esistenziale tra il fatto e l’immagine, il mondo e il film, a


contare maggiormente nell’estetica di Bazin, piuttosto che qualsiasi qualità
di similarità o somiglianza. Da qui la possibilità – persino la necessità – di

8
Tom Milne, Godard on Godard, cit., pp. 180-181; [tr. it. p. 185].
9
André Bazin, What is Cinema?, Berkeley, University of California Press, 1967, p. 12; [tr.
it. Che cosa e` il cinema?, Milano, Garzanti, 1973, p. 7].

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154 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

un’arte che potrebbe rivelare condizioni spirituali. C’era, per Bazin, un


doppio movimento di impressione, di modellazione, di stampa: il primo, la
sofferenza spirituale interiore, era impressa sulla fisionomia esteriore; poi
la fisionomia esteriore era impressa e stampata sulla pellicola sensibile10.
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Qui il problema della relazione tra interno e esterno, tra l’apparenza e


ciò che potrebbe nascondere, è cancellato poiché la presenza di Dio è
incisa nel mondo, nella natura e nell’anima, scolpita sul viso dell’uomo. Il
cinema, quindi, a sua volta, trova un’integrazione tra la sua natura mecca-
nica e la sua capacità di registrare. La scissione tra il cinema come illusione
di superficie e le deludenti meccaniche che lo producono viene cancellata.
Ma, per Godard, c’è una difficile tensione tra la sovrapposizione di cinema
e bellezza della donna, e quindi la sua perfidia, e la sua potenziale realizza-
zione dell’estetica di Bazin. Quando, in Questa e` la mia vita, Anna Karina
nel ruolo di Nana piange mentre guarda il viso di Falconetti in La passione
di Giovanna D’Arco (1927), Godard paga un tributo all’immagine di Dreyer,
in cui la spiritualità dell’anima è indistinguibile dalla spiritualità del cinema.
La Maria di Myriem Roussel potrebbe essere nata dallo scarto tra Kari-
na/Nana, innocente ma prostituta, irrevocabilmente subordinata al corpo e
agli impulsi sessuali, e la Giovanna di Falconetti, non contaminata dagli
impulsi sessuali e segnata dal potere spirituale di Dio. Peter Wollen ha
notato che Bazin vedeva nei film di Bresson:

“la rivelazione esterna di un destino interiore” e che in quelli di Rossellini


“la presenza dello spirito” è espressa con “ovvietà mozzafiato”. L’esterno,
attraverso la trasparenza delle immagini svuotate di tutto ciò che è
inessenziale, rivela l’interno. Bazin ha enfatizzato l’importanza della fisio-
nomia, sulla quale – come nei film di Dreyer – la vita spirituale interiore
era incisa e stampata11.

Raymond Bellour ha messo in evidenza che l’indice è contemporanea-


mente il più materiale e il più spirituale dei segni. Nel suo periodo marxista,
Godard cercava la realtà attraverso il materialismo piuttosto che attraverso
un cinema che poggiava sulla cuspide dell’illusione e della spiritualità. Da
un punto di vista materialista, la verità sta nel rivelare i rapporti di
produzione, siano quelli della società capitalista o quelli del cinema stesso.

10
Peter Wollen, Signs and Meaning in the Cinema, London, BFI and Secker & Warburg,
1969, p. 134.
11
Ibid.

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IL BUCO E LO ZERO 155

In questo senso, la bellezza dell’immagine filmica non proviene dalla


registrazione di qualcosa misticamente inerente al profilmico, ma dall’iscri-
zione della presenza solitamente nascosta dei processi della produzione
cinematografica. La presenza della macchina da presa, la sua iscrizione
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nella scena, illumina il qui ed ora del momento filmico nella sua funzione di
indice e quando i personaggi di Godard si rivolgono direttamente alla
macchina da presa, non solo il documentario irrompe nella fiction ma quel
momento viene poi trasportato nella effettiva proiezione del film terminato
e lo schermo parla, ad ogni nuova proiezione, in quel preciso momento,
allo spettatore del futuro. È come se con il riconoscimento dell’apparato
cinematografico, tutto ciò che è solitamente nascosto e mascherato nel
processo di realizzazione di un film potesse aprire lo spazio segreto della
verità del cinema. L’interpellazione diretta, perciò, apre lo spazio buio
dell’auditorio. Le estetiche realiste di Brecht non sono le stesse di Bazin.
Inoltre, mentre Godard era in grado di defeticizzare il cinema e spiegare la
sovrapposizione feticista tra la donna come apparenza e la natura dissimu-
lata della merce del tardo capitalismo, la sua iconografia della femminilità
sullo schermo non si è mai affrancata da un aspetto feticista.
Precedentemente, ho descritto Passion come uno spartiacque nel lavoro
di Godard. Le sfere dello spazio narrativo, divise in percorsi tematici,
rimpiazzano la struttura per capitoli che Godard aveva utilizzato in Si salvi
chi può e spesso anche nei suoi film precedenti. In Passion, la nuova ricerca
di purezza di Godard, precedentemente convertita in materialismo, ora
assume la forma di una scissione delle differenti componenti narrative del
film in sfere distinte e quasi autonome. Queste divisioni sono ancora più
significative in Pre´nom Carmen. Carmen e l’erotismo sono funzioni dell’im-
magine, mentre Claire e la purezza si materializzano attraverso la musica. È
come se gli elementi del film, che sono solitamente avvolti insieme in
un’organizzazione gerarchica, fossero stati districati, in modo che il suono
acquisisce la colonna immagini e l’immagine è usata per generare la
colonna sonora. In Pre´nom Carmen, il film è diviso in spazi diversi secondo i
parametri formali piuttosto che in base alla narrazione o al tema. La musica
è tratta dai tardi quartetti d’archi di Beethoven. Un quartetto d’archi è
pensato per un’esecuzione informale e una “camera”, spazio in cui i membri
del quartetto praticano, si materializza, lungo lo spazio della storia, per dare
12
un’immagine alla musica della colonna sonora . In un’intervista Godard ha
descritto il suono di questo film come “scolpito”.

12
Vorrei ringraziare Michael Chanan per aver confermato e approfondito questo concetto
per me.

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156 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

In Pre´nom Carmen, il solo personaggio proveniente dalla sfera della


musica ad avere contatti con la narrazione è Claire (Myriem Roussel, che
interpreterà Maria nel film successivo), sebbene i quartetti siano presenti,
come in effetti tutto il resto del cast, nella scena finale dell’albergo. Mentre
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il cielo e la campagna avranno un posto importante in Je Vous salue, Marie,


in Pre´nom Carmen il mare crea sia il suono che la colonna immagini,
facendo da contrappunto a Beethoven (e a Claire) e agendo come esten-
sione metaforica di Carmen. Parimenti, il filo della narrazione, o il desiderio
del cinema, è impersonato dalla presenza del regista sullo schermo. Egli
esiste in una sorta di limbo, che occasionalmente si sovrappone allo spazio
della storia stessa, dominato da “Carmen”. La partecipazione del narratore
alla narrazione è compresa nella storia originale di Mérimée, ma la pre-
senza di Godard è anche una sorta di materializzazione della sua voce
sussurrata, cosı̀ familiare dopo le precedenti colonne sonore, e anche, di
nuovo, un rovesciamento delle sue precedenti, destrutturanti apparizioni
come parte del processo di produzione.
In Pre´nom Carmen Godard interpreta il regista del film che si è rifugiato
in una casa di cura (per malattie fisiche e mentali) perché non riesce a fare
film. Egli non è veramente malato. Al contrario, la febbre che gli serve per
restare in ospedale sembra essere anche la febbre che gli manca per fare i
film. Per il regista, sottintende Godard, il cinema è un oggetto necessario
senza il quale il mondo è insopportabile. Nonostante la sua macchina da
presa sia lı̀ con lui, come un oggetto feticcio, nella sua camera d’ospedale,
egli non può, da solo, improvvisare il cinema. Quando l’infermiera viene a
misurargli la temperatura, incoraggiando dolcemente le speranze di lui di
avere un po’ di febbre, egli dice: «se le metto un dito nel culo e conterà fino
a trentatré, allora avrò la febbre?». Nella scena seguente, al momento giusto,
per cosı̀ dire, appare Carmen. Diversamente dall’infermiera che sembra
funzionare più come canale del desiderio, Carmen rappresenta il femminile
«da essere guardato». E questo investimento nella seduttività di lei crea il
senso della superficie, di lucentezza e brillantezza, che i teorici degli anni
Sessanta e Settanta hanno associato al feticismo sia della merce che del
cinema, e che le teoriche femministe hanno associato alla specularizzazione
del corpo femminile. Carmen è la nipote del regista, che l’ha desiderata da
quando era un’adolescente. Essa chiede aiuto a suo zio Jean per un film che
sta realizzando con alcuni amici e segna cosı̀ sia l’inizio del desiderio che
quello della fiction, dell’avventura, della fantasia. Come la torre che comin-
cia a crollare all’inizio di Le sang d’un poe`te (Il sangue di un poeta, 1930) e poi
si sbriciola al suolo alla fine, mettendo tra parentesi tutte le azioni nel

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IL BUCO E LO ZERO 157

mezzo come soggettive, fuori dallo spazio e dal tempo, cosı̀ l’infermiera
sembra mettere tra parentesi l’azione narrativa in Pre´nom Carmen. Quando il
cappotto dello zio Jean ha bisogno di rammendi durante una riunione di
produzione, l’infermiera riappare come responsabile del guardaroba e poi
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rimane la sua compagna costante e inseparabile, interpretando (nel senso di


recitare una parte, con gesti e frasi appropriate) il ruolo dell’assistente di
produzione, una traccia della parte di Sophie in Passion. Alla fine del film lo
zio Jean le dice: «ci ha messo molto tempo per contare fino a trentatré».
La recitazione di Godard è ironica, triste e duramente autoparodica,
come se volesse prevenire le accuse che il suo cinema dell’ultimo periodo si
è probabilmente attirato, diciamo, negli ambienti femministi o politici. Egli
dipinge il dilemma del regista del film come inguaribilmente feticista, la sua
ossessione per il cinema e il corpo femminile come irriducibilmente dipen-
dente, masochista e sfruttatrice. Il cinema e la sessualità si fondono in una
condensazione che è sfacciatamente maschile, quand’anche apologetica-
mente impotente. La febbre del regista è destata dal e attraverso il corpo
femminile, come se, al punto zero della creatività, Godard tocchi il fondo e
si accorga che non è rimasto niente eccetto il desiderio del desiderio. Il
cinema che si materializza lentamente, come un genio masturbato fuori
dalla sua bottiglia, è quindi una distillazione, quasi un’astrazione o una
rêverie sui limiti stessi della fantasia del cineasta. E il genio appare nella
forma di una femme fatale, Carmen, che fa anche appello, genericamente,
alla prima grande passione di Godard: il film noir.
Quando ho visto per la prima volta Pre´nom Carmen, mi sono molto
emozionata. Non erano il film, la storia o la condizione del regista a
commuovermi. Era, probabilmente, la situazione del film nella storia perso-
nale di Godard, il suo slittamento dall’autoreferenzialità alla nostalgia. Il
titolo finale «In Memoriam small movies» faceva tornare in mente la dedica
di Fino all’ultimo respiro alla Monogram Pictures. C’è, quindi, un doppio
palinsesto, un livello che segue le tracce dei suoi primi lavori, e ancora più
in profondità, le tracce del cinema hollywoodiano che originariamente era
stato il suo punto di partenza. Il ponte che collega il passato al presente
registra anche la presenza di ciò che si è attraversato. Proprio come
Godard rappresenta il meglio del cinema radicale degli anni Sessanta, cosı̀
anche il suo lavoro solleva certamente la questione di cosa accade dopo
l’innovazione. Il cineasta politico, che lavora all’interno dei principi morali
di una particolare congiuntura storica, deve fare subito i conti con il tempo,
con il fatto che passa e che tende a spazzare via un movimento radicale,
un’avanguardia, lasciando i suoi membri incagliati al di sopra della linea di

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158 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

marea. Il tema e l’immaginario dell’“essere rimasti incagliati” è centrale in


Pre´nom Carmen. È lı̀ nei ripetuti sciabordii del mare. E la sensazione del
regista di essere stato abbandonato dal cinema viene drammaticamente
replicata quando Joseph alla fine viene abbandonato da Carmen. Il cinema
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stesso, o piuttosto la videocamera, viene solo utilizzata dai giovani ridutti-


vamente, come una mascherata per occultare il loro tentato rapimento.
Se Pre´nom Carmen segna un momento di crisi nella storia di Godard,
rivela anche i nudi elementi costitutivi del suo ultimo cinema, tutto ciò che
rimane quando tutto il resto è stato spazzato via. Nei primi anni Ottanta,
con Pre´nom Carmen il ritorno di Godard al cinema “come tale” prende la
forma di un disperato ritorno allo zero, che ironicamente inverte il brivido
del ritorno allo zero del 1968. Il ritorno allo zero è un ritorno alle origini
del desiderio primario del regista stesso per il cinema, piuttosto che al
punto zero che investiga la circolazione sociale e il significato delle imma-
gini come, per esempio, in Le gai savoir (La gaia scienza, 1968). Ora la sua
lotta consiste nel rappresentare ciò che rende possibile la realizzazione del
cinema: la sua presa ossessiva, romantica e illusoria sul regista piuttosto che
la lotta moderna e brechtiana per rappresentare il processo di produzione
del cinema e il processo di produzione del significato.
Nonostante ci sia un coraggio ostinato nell’“autoritratto” di Godard
come regista che vede il cinema scivolargli tra le dita e un eroismo poetico
nella sua capacità di trasformare persino un simile indizio di perdita in
nuovi “suoni e immagini”, permane la questione: perché, nel momento
della crisi, dovrebbe ritornare a questi specifici suoni e a queste specifiche
immagini? E, soprattutto, qual è il significato della giustapposizione tra
Carmen e Claire/Maria come due icone polarizzate del femminile?
Il mio improvviso attacco di nostalgia dopo aver visto Pre´nom Carmen
era incentrato soprattutto su Il bandito delle undici. Il bandito delle undici era
già una versione della storia di Carmen. Cioè, era una storia di amour fou, in
cui un eroe sostanzialmente rispettabile e rispettoso delle leggi viene
trascinato da una donna irresistibile e infedele sempre più in basso sulla
strada del crimine, in fuga dalla polizia. La fine è la morte. Ferdinand
uccide Marianne e poi si uccide; Don José uccide Carmen, che preferisce
morire piuttosto che perdere la propria libertà, e, nell’originale di Mérimée,
come in Pre´nom Carmen, Don José/Joseph si consegna spontaneamente alla
polizia. La storia di Carmen è imperniata sulla separazione tra la vita
quotidiana e regolare dell’eroe e l’altro inferno di passione, violenza e
avventura. Lo scarto che separa i due è colmato dall’incantesimo fatto da
Marianne a Ferdinand, da Carmen a Don José, da Elsa Bannister a Michael

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IL BUCO E LO ZERO 159

O’Hara in The Lady from Shanghai (La signora di Shanghai, 1948). In tutti
questi casi la passione dell’eroe per l’eroina è ambivalente.
“Carmen” rimanda a “Pierrot” non solo attraverso riferimenti quasi
subliminali come la frase fischiettata di Il chiaro di luna e il reiterato rifiuto
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di Joseph di essere chiamato Joe («Mi chiamo Ferdinand/Joseph»), ma


attraverso un ritorno al tipo di cinema definito verso l’inizio di Il bandito
delle undici da Sam Fuller, che appare nel ruolo di se stesso: «il cinema è
come una battaglia. Amore. Odio. Azione. Violenza. Morte. In una parola:
emozione». La rapina in banca che Carmen organizza fa passare Joe dalla
parte della legge a quella dei criminali, proprio come lo scontro di Ma-
rianne con i trafficanti di armi fa passare Ferdinand da membro rispettabile
della borghesia a elemento della malavita. Il cambiamento è un effetto del
cinema hollywoodiano che a tal punto aveva influenzato i critici dei
«Cahiers». Ferdinand aveva dimenticato di avere in programma di andare a
un party con sua moglie e aveva mandato la cameriera a vedere Johnny
Guitar (Id., 1954). In assenza della cameriera, appare Marianne come
baby-sitter. Proprio come Sterling Hayden e Joan Crawford si rincontrano
dopo cinque anni di separazione, Marianne e Ferdinand si rincontrano e
tornano indietro nel tempo di cinque anni. Sia in Il bandito delle undici che
in Carmen, l’amour fou porta alla violenza e a un viaggio di crimine,
inseguimento e morte (Una stagione all’inferno). L’“emozione” è anche
movimento, lo spettacolo cinematografico, il movimento della narrazione,
l’avventura che soggioga l’eroe, e la seduzione esercitata dall’eroina che lega
insieme tutti gli altri livelli del movimento. Sia Joe che Ferdinand vengono
abbandonati dalla storia quando non sono più desiderati dall’eroina. Ferdi-
nand viene sfruttato nella rapina finale e poi lasciato indietro sul molo. Joe
non ha nessun “ruolo” nella rapina finale e la sua impotenza sessuale è
peggiorata dalla sua impotenza narrativa.
Per entrambi i Giuseppe (il professore e il santo) il desiderio sessuale è
una spossante schiavitù al femminile, che spinge all’umiliazione, sia con
l’esaltazione riconciliata in Maria, che con l’aggressione antagonista in
Carmen. Entrambi gli uomini sono soggetti a ciò che nella donna è
irrazionale e inconoscibile ed entrambe le donne sono descritte come
“tabù”. In Pre´nom Carmen la citazione è tratta dalle battute di Carmen Jones
(Id., 1954) di Preminger: «tu vai matto per me e io sono un tabù – ma se sei
duro a capire – io andrò matta per te e se lo farò – allora sarai fottuto –
perché, se io ti amo, è la tua fine!». In Je vous salue, Marie, l’angelo spiega a
Giuseppe che il «tabù risparmia il sacrificio». Entrambi gli uomini devono
sopportare eccessi di gelosia. Carmen vuole scoprire «quello che una donna

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160 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

ama fare con un uomo», Maria deve insegnare all’uomo come relazionarsi
al suo corpo senza la sessualità. In ciascun film l’iconografia di un personag-
gio femminile centrale contrasta con l’iconografia del personaggio femmi-
nile secondario. Mentre Claire, in Pre´nom Carmen, prefigura Maria ed è
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distaccata dal mondo carnale di Carmen attraverso l’astrazione spirituale


della musica, Eva, in Je vous salue, Marie, è una personificazione della
sessualità. È una studentessa che prende lezioni sulle origini dell’universo
da un professore ceco esiliato del quale si innamora. Eva viene prima
mostrata seduta alla luce del sole mentre cerca di risolvere il puzzle del
cubo di Rubik. Lei rappresenta la curiosità della sua omonima, ma, allo
stesso tempo, il puzzle riflette il tema generale del mistero e dell’enigma
che attraversa il film. In giustapposizione all’enigma finale, la gravidanza
verginale di Maria e la nascita, il mistero delle origini della vita viene
discusso dagli studenti. La posizione del professore è che i primordi della
vita fossero «programmati e desiderati da un’intelligenza risoluta» che a un
certo momento ha interagito con il caso per determinare il corso della
natura. Per dimostrare questo punto, Eve in piedi dietro Pascal, gli copre gli
occhi, e lo guida passo dopo passo attraverso il puzzle del cubo di Rubik.
Le sue indicazioni – «sı̀... no... no... sı̀... sı̀... sı̀» – sono ripetute da Maria
quando guida la mano di Giuseppe sul suo ventre, insegnandogli ad
avvicinarsi al suo corpo senza toccarlo e ad accettare il mistero che le è
accaduto.
Mentre Carmen è collegata all’incessante movimento del mare, delle
onde sulla riva e della marea, Maria è collegata alla luna e alle tranquille
superfici dell’acqua, a volte rotte da increspature. La luna e l’acqua sono
antichi simboli del femminile (opposti al sole e alla terra) e la luna e la
marea coesistono in un tempo ciclico di ripetizione e ritorno che rompe
radicalmente con il tempo lineare, per esempio, della storia e con la sua
aspirazione utopica al progresso. Godard associa il ciclico con il sacro e il
femminile. La rotondità della luna è duplicata dall’altro attributo iconogra-
fico di Maria, la palla da basket che tiene con sé per gli allenamenti con la
squadra e che Giuseppe le strappa di mano ogni volta che attenta alla sua
castità. La palla è rotonda e completa, ancora una volta il circolo del
femminile, ma impenetrabile, senza nessun buco. In questo senso la palla
funziona come un oggetto di disconoscimento, non nello scenario classico
del feticismo che nega e trova un sostituto per l’assenza del pene della
madre, ma, piuttosto, come un rifiuto della ferita, della vagina aperta, del
buco.
In una delle inquadrature più complesse e splendidamente organizzate

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IL BUCO E LO ZERO 161

di Passion, la macchina da presa si muove tra lo spazio della troupe del film
e lo spazio del set, opponendo il lavoro compiuto per produrre l’immagine
al “finish” dell’immagine stessa. In questo caso, l’immagine consta di una
ragazza bella e nuda, che, su richiesta del regista, galleggia, distesa in forma
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di una stella, in una piscina orientale. Quando la macchina da presa scivola


lentamente lungo la superficie dell’acqua, questa sembra opaca con il
riflesso di minuscoli punti di luce, come le stelle riflesse ondeggianti
all’inizio di Je vous salue, Marie. Quando la macchina da presa si avvicina al
regista, il suo amico gli chiede cosa stia guardando. Egli risponde: «la ferita
del mondo» e poi si volta dall’altra parte per cercare di perfezionare
l’illuminazione sul set. Il tema ritorna in Pre´nom Carmen, quando, dopo aver
fatto per la prima volta l’amore con Carmen, Joseph dice: «ho trovato! la
prigione, perché viene chiamata “il Buco”». Il corpo verginale di Maria,
dall’altra parte, è perfetto. A un certo momento della loro relazione
burrascosa e aggressiva l’angelo domanda a Giuseppe: «qual è il comune
denominatore tra lo zero e Maria?», e egli risponde a se stesso: «il corpo di
Maria, idiota». Lo zero, il magico punto di ritorno per una nuova partenza,
il cerchio perfetto, lo spazio del grembo, quell’interno del corpo femminile
che non è il buco/la vagina/la ferita. Quando in Pre´nom Carmen la habilleuse
rammenda il buco nella giacca di Godard, questi sembra suggerire un’affi-
nità tra la funzione della sutura nel cinema (l’elemento considerato mag-
giormente responsabile, durante i decostruttivi anni Settanta, della falsa
coesione tra il cinema convenzionale e il soggetto che esso produce) e la
paura del buco aperto, della ferita. Il feticismo della liscia superficie cinema-
tografica, e la perfetta superficie del corpo femminile, rassicurano, ma solo
fino al punto di «lo so, ma non di meno...».
Maria separa la sessualità femminile, i genitali femminili che rappresen-
tano la ferita, dalla riproduzione, lo spazio del grembo. L’inquadratura del
film più frequentemente riprodotta ha acquisito, in se stessa, qualcosa di si-
mile allo status di un feticcio. La mano di Giuseppe che va verso il ventre
di Maria, teso nella forma di una curva, e inquadrata, tagliata esattamente
all’altezza dell’inguine e della spalla. Giuseppe accetta il mistero, in rela-
zione al e attraverso il corpo di Maria, cosicché gli enigmi della femminilità
e della sessualità femminile sono risolti e resi innocui in opposizione polare
al corpo sessualizzato di Carmen che deve rimanere in definitiva indetermi-
nato e inconoscibile.
In Si salvi chi può la prostituta, Isabelle, fa sesso con un suo cliente, Paul,
mentre sulla colonna sonora si può ascoltare il suo monologo interiore.
Constance Penley ha commentato: «Isabelle, nel momento in cui è presentata
esattamente come inevitabile icona della scena pornografica di sesso, il primo

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162 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

piano del viso della donna gemente che funziona da garanzia del piacere,
13
viene ascoltata mentre pensa alle commissioni che deve fare» . Godard
illustra cosı̀ uno scarto tra il visibile e l’invisibile, un artificio esterno che
coinvolge la fede e una interiorità che richiede la conoscenza. Questo scarto
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nella conoscenza maschile dei piaceri sessuali delle donne rafforza l’ansia di
castrazione provocata dai genitali femminili, separati, come sono, dagli
organi riproduttivi femminili, mancanti di qualsiasi “segno” visibile del
piacere. Gayatri Spivak discute il problema rappresentato dalla sessualità
femminile in quanto inconoscibile per gli uomini. Cita Nietzsche sulle donne
che sono «tanto artiste» e commenta: «le donne si fingono nell’atto dell’orga-
smo anche nel momento in cui hanno un orgasmo. All’interno della storica
convinzione che le donne non siano in grado di provare l’orgasmo, Nietzsche
sostiene che la finzione è il solo piacere sessuale della donna. Nell’epoca del
più grande autocontrollo-con-estasi, la donna ha abbastanza autocontrollo da
organizzare un’auto-(rap)presentazione senza la presenza effettiva del piacere
14
sessuale da (rap)presentare» . È facile vedere, come ho detto prima, la frase
«la donna è tanto artista» nella mente di Godard. Quand’è che l’arte si
trasforma in artificio e viceversa? La simulazione della donna, come quella del
cinema, è spettacolo e ciò che si può soltanto considerare come una superficie
che ancora nasconde i suoi segreti; qualunque cosa lo spettatore voglia
vedere, egli può ancora sospettare...
Proprio alla fine di Je vous salue, Marie, Maria siede da sola in una
macchina, il volto in primo piano. Prende un rossetto dalla borsa e se lo
passa sulle labbra. La macchina da presa avanza fino a riempire l’inquadra-
tura con la forma della sua bocca, che diventa scura e cavernosa, circondata
dalle labbra luminose appena dipinte. Lei accende una sigaretta. Il ciclo è
completo, la vergine si trasforma in puttana, il buco torna a rompere la
perfezione dello zero. La rappresentazione della donna si mette addosso,
insieme alla sessualità, il suo aspetto cosmetico e, contemporaneamente,
viene rimessa al suo posto tra quella serie di oggetti definiti da una
topografia di interno/esterno, superficie/segreto.
Ho cercato di mostrare come una struttura topografica comune faciliti
la costruzione di analogie che, sebbene diverse nel contenuto, sono centrali
nella struttura delle idee di Godard. È, forse, come se l’analogia fosse
consentita dall’omologia. L’immagine di un involucro esterno che protegge

13
Constance Penley, Pornography, Eroticism, in Raymond Bellour e Mary Lea Bandy (a cura
di), Jean-Luc Godard: Son-Image 1974-1991, New York, Museum of Modern Art, 1992, p. 47.
14
Gayatri Chakravorty Spivak, Displacement and the Discourse of Woman, in Mark Krupnick (a
cura di), Displacement, Derrida and After, Bloomington, Indiana University Press, 1983.

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IL BUCO E LO ZERO 163

dalla vista uno spazio o contenuti interni solitamente porta con sé l’implica-
zione che se l’esterno si incrina i contenuti interiori possono disgustare e
forse nuocere. Da un punto di vista psicoanalitico, la superficie protettiva è
una difesa costruita dall’ego al modo del feticcio. Esso nega l’interno ma,
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poiché sa che l’esterno e` un esterno, riconosce pertanto l’interno. La


bellezza femminile, in un certo senso, realizza questa funzione fissando
l’occhio su qualcosa che gli procura piacere e impedisce alla psiche di far
venire in mente quegli aspetti del femminile che sono sgradevoli. Cosı̀
anche se Carmen porta morte e distruzione, la figura femminile che
impersona porta sullo schermo un’immagine di perfezione giovanile. Sullo
schermo quest’immagine è una fotografia proiettata, un’ombra, sviscerata
dai fluidi corporali associati al corpo materno. Ma anche il cinema ha
interni meno visibili e affascinanti del suo schermo. È una macchina che
può funzionare solo con il denaro e che produce una merce per la
circolazione sul mercato che deve anche mascherare il lavoro che l’ha
creata e le sue meccaniche scricchiolanti e poco maneggevoli, mentre
aspetta di essere alla fine schiacciata dall’elettronica.
Sebbene il suo cinema sia sempre più assorbito dalla superficie, Godard
non ritorna a un cinema di pienezza e coesione. Egli scinde rigorosamente
le componenti del suono, dell’immagine e della narrazione. I suoi film
ancora mettono in primo piano il loro processo, principalmente attraverso
il rapporto tra colonna sonora e immagine. Ma la lotta per articolare le
contraddizioni sociali e la lotta per il cambiamento non sono più lı̀. E
l’interesse politico di vecchia data di Godard per il lavoro e i rapporti di
produzione della società capitalista contemporanea viene sostituito, in Je
vous salue, Marie, dall’interesse per la creatività e per il nesso dello spirituale
con le origini dell’essere. E questi misteri, in particolare la natura e la
donna, non possono essere penetrati eccetto che da Dio. I miti, i cliché e le
fantasie che circondano sia Carmen che Maria costituiscono, non un
mistero, ma un rebus per una critica femminista di Godard. Ma quando
Godard racconta di nuovo queste storie, dimostra non solo che esse sono
come Giano bifronte, ma quanto significative esse siano per la nostra
cultura. Nel cercare di decodificare una misoginia radicata ma interessante,
sono arrivata a pensare che il cinema di Godard conosca le proprie
trappole e che stia ancora investigando e lottando per dare suoni e
immagini alle mitologie che infestano la nostra cultura, non essendo
tuttavia più in grado di sfidarle. Per la curiosità femminista tutto ciò è
ancora una miniera d’oro.

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«DI CHI È QUESTA FICA?»


UNA CRITICA FEMMINISTA

di bell hooks

Prima di vedere il film di Spike Lee She’s Gotta Have It (Lola Darling, Usa
1986), ne sento parlare. La gente mi dice, «è nero, è divertente, è qualcosa
che non vorresti perdere». Con tutte queste chiacchiere, specialmente da
parte di gente nera che di solito non va al cinema, divento riluttante,
persino sospettosa. Se piace a tutti, anche a gente bianca, ci deve essere
qualcosa di sbagliato da qualche parte! Inizialmente sono questi i pensieri
che mi hanno trattenuto dal vedere il film, ma non ne sono stata lontano a
lungo. Quando ricevo lettere e telefonate da donne nere studiose e amici
che mi raccontano del film e vogliono discutere se ritragga una donna nera
liberata o meno, mi decido ad andare al cinema. Non vado da sola. Vado
con le mie amiche nere Beverly, Yvette e Maria, cosı̀ che possiamo parlarne
insieme. Alcune delle cose dette quella sera nella foga della discussione
informano le mie considerazioni.
Spettatrice appassionata di film, soprattutto del lavoro di cineasti indi-
pendenti, ho trovato che nella tecnica, nello stile e nell’intera produzione di
Lola Darling ci fosse molto da apprezzare. Sono stata rincuorata soprattutto
nel vedere sullo schermo immagini di neri che non fossero caricature
grottesche, immagini che erano familiari, immagini che a livello simbolico
catturavano l’essenza, la dignità e lo spirito di quella qualità sfuggente
conosciuta come “anima”. Era un film molto pieno di sentimento.
Pensando al film da una prospettiva femminista, considerando le sue

Whose Pussy Is This? A Feminist Comment, in bell hooks, Reel to Real. Race, Sex and
Class at the Movie, New York and London, Routledge, 1996, pp. 227-235.

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166 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

implicazioni politiche, lo trovo molto più problematico. Nell’articolo Art vs.


Ideology: The Debate Over Positive Images (“Arte contro ideologia: il dibattito
sulle immagini positive”), Salim Muwakkil solleva la questione di come una
«matura comunità afroamericana» possa permettere che «i giudizi estetici
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poggino su criteri ideologici o politici»,

i nazionalisti culturali neri degli anni Sessanta e Settanta non fecero che
confermare l’effetto di isolamento che tali requisiti ideologici hanno sull’e-
spressione creativa. Le loro molteplici proibizioni e prescrizioni abortirono
un momento storico gravido di promesse. Sembra evidente che gli sforzi
di subordinare il profondo e penetrante processo creativo della gente di
colore a un momento ideologico soffochino la vitalità creativa della
comunità.

Mentre intendo sostenere con enfasi che i giudizi estetici non dovreb-
bero poggiare unicamente su criteri ideologici o politici, ciò non significa
che tali criteri non possano essere usati insieme ad altre strategie critiche
per stabilire il valore complessivo di un dato lavoro. Ciò non implica
l’assunzione di una svalutazione nella discussione critica di questi criteri.
Negare la validità di una critica estetica che includa gli aspetti ideologici e
politici significa dissimulare la verità che ogni lavoro estetico incarna gli
aspetti politici e ideologici come parte della sua struttura fondamentale.
Nessun lavoro estetico trascende la politica o l’ideologia.
Significativamente, il film Lola Darling è stato pubblicizzato, lanciato sul
mercato e discusso in recensioni e conversazioni in un modo che ha
sollevato questioni politiche e ideologiche sia sul film che sulle reazioni del
pubblico. Il film era «una storia di donna»? Il film dipingeva un’immagine
radicalmente nuova della sessualità femminile nera? Un uomo può real-
mente raccontare una storia di donna? Uno spettatore mi ha posto la
questione in questi termini «Nola Darling è una donna liberata o solo una
PUTTANA?» (Questo è il modo in cui era scritta questa frase in una lettera
inviatami da una professoressa nera di cinema che ha scritto che «stava
aspettando una risposta femminista».) Non c’è stata una risposta femminista
molto estesa al film proprio a causa dell’assai diffusa celebrazione pubblica
di ciò che in questo film è nuovo, differente e eccitante. Dato l’antifemmini-
smo diffuso della cultura popolare e della sottocultura nera, una critica
femminista potrebbe semplicemente essere aggressivamente liquidata. Tut-
tavia per pensatrici femministe evitare la critica pubblica significa ridurre il
potere del film. È una conferma di quel potere il fatto che esso ci obbliga a
pensare, a riflettere, ad assumere l’impegno fino in fondo.

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«DI CHI È QUESTA FICA?» 167

Recentemente, la versione cinematografica de Il colore viola di Alice


Walker ha suscitato tra i neri più dibattito di tematiche femministe (sessi-
smo, libertà di espressione sessuale, violenza maschile contro le donne,
ecc.) di qualsiasi altro lavoro teorico e/o polemico di studiose femministe.
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Lola Darling ha suscitato una reazione analoga. Spesso queste discussioni


rivelavano una grave ignoranza sul movimento politico femminista, pale-
sando la misura in cui nozioni superficiali sulla lotta femminista divulgate
da non femministe nella cultura popolare formano e influenzano il modo in
cui molta gente di colore percepisce il femminismo. Che tutte le femministe
siano misantrope sessualmente depravate, castranti, affamate di potere e
cosı̀ via sono stereotipi predominanti. La tendenza a vedere le donne
liberate come sessualmente dissolute ha informato il modo in cui molte
persone hanno valutato il ritratto della sessualità femminile nera in Lola
Darling. In qualche misura, questa percezione è basata su una nozione
ristretta della liberazione, che in passato era bene accetta in alcuni circoli
femministi.
Durante la fase iniziale del movimento contemporaneo delle donne, la
liberazione femminista era spesso associata alla liberazione sessuale sia dalle
attiviste femministe che dalle non femministe. A quel tempo, la concettua-
lizzazione della liberazione sessuale femminile era informata da un violento
pregiudizio eterosessista che vedeva la liberazione sessuale primariamente
in termini di donne che rivendicavano il diritto di provare desiderio
sessuale, di promuovere relazioni sessuali e di partecipare ad incontri
sessuali casuali con partner maschili diversi. Le donne osavano affermare
che la sessualità femminile non era passiva, che le donne erano soggetti
desideranti che desideravano e godevano del sesso altrettanto se non più
degli uomini. Queste affermazioni avrebbero potuto facilmente fornire
l’impalcatura ideologica per la costruzione di un personaggio come Nola
Darling, il personaggio femminile principale di Lola Darling. Nola esprime
ripetutamente la sua grande voglia e disponibilità a proporsi sessualmente
agli uomini, cosı̀ come il diritto di avere numerosi partner.
In superficie, Nola Darling è la perfetta incarnazione della donna come
soggetto desiderante – una rappresentazione che sfida le nozioni sessiste
della passività sessuale femminile. (È importante ricordare che, dalla schia-
vitù in poi, nel pensiero razzista bianco le donne nere sono state rappresen-
tate come sessualmente sicure di sé, sebbene questa visione contrasti
nettamente con l’enfasi posta dalla cultura nera sulla castità, la monogamia
e il diritto del maschio di promuovere il contatto sessuale, una visione
sostenuta soprattutto dai ceti medi.)

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168 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Per ironia e per sfortuna, il desiderio sessuale di Nola Darling non è


dipinto come un atto autonomo, come un desiderio indipendente di
espressione sessuale, soddisfazione e realizzazione. Piuttosto la sua sessua-
lità sicura di sé è più spesso ritratta come se il suo corpo, il suo essere
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sessualmente eccitata, fossero una ricompensa o un dono che lei concede al


maschio che lo merita. Quando il bodybuilder Greer Childs dice a Nola
che la sua foto apparirà sulla copertina di una popolare rivista per uomini,
lei risponde togliendosi i vestiti, offrendo il suo corpo come pegno della sua
stima. Questo e altri eventi suggeriscono che Nola, sebbene soggetto
desiderante, agisca in base al presupposto che l’affermazione sessuale fem-
minile eterosessuale ha legittimità primariamente come atto di ricompensa
o come mezzo attraverso il quale gli uomini possono essere manipolati e
controllati dalle donne (ciò che è volgarmente chiamato «potere della
fica»). Gli uomini non devono oggettificare la sessualità di Nola, perché è
lei stessa ad oggettificarla. Nel fare ciò, il suo personaggio diventa la
proiezione di una nozione sessista stereotipata di una donna sessualmente
sicura di sé – in realtà lei non è liberata.
Benché Nola non sia sessualmente passiva, la sua preoccupazione
principale è di soddisfare ogni partner. Sebbene siamo portati a credere che
il sesso le piaccia, il suo appagamento sessuale non è mai la preoccupazione
principale. Ella prova piacere solo nella misura in cui è in grado di dare
piacere. I suoi partner, anche se amano fare sesso con lei, sono disturbati
dal suo desiderio di fare sesso di frequente con vari partner. Essi conside-
rano il suo desiderio sessuale anormale. Uno dei partner maschili, Mars,
dice: «guardate, le matte piacciono (a letto), certo noi non vogliamo
sposarle». Questo commento illustra gli stereotipi sessisti sulla sessualità
femminile che informano la percezione che Mars ha di Nola. Quando
Jaime, un altro partner, insinua che Nola sia malata, evocando stereotipi
sessisti per etichettala come squilibrata, depravata, anormale, Nola non
risponde affermando di essere sessualmente liberata. Invece interiorizza la
critica e cerca aiuto psichiatrico. Per tutto il film, lei rimane estremamente
dipendente dalle percezioni maschili della sua realtà. Mancando di consa-
pevolezza di sé e di capacità di autocritica, esplora la propria sessualità solo
quando è costretta a farlo da un uomo. Se Nola fosse sessualmente liberata,
non avrebbe bisogno di giustificarsi o difendersi dalle accuse maschili. È
solo dopo che gli uomini hanno espresso i propri giudizi che lei dà inizio al
processo di acquisizione della consapevolezza. Fino a quel momento,
sappiamo di più su come la vedono gli uomini nel film che su come lei
vede se stessa.

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«DI CHI È QUESTA FICA?» 169

Non è Nola ma i suoi partner maschili ad occupare in misura conside-


revole la posizione centrale nel film. Cosı̀ come sono il centro dell’atten-
zione sessuale, essi sono anche i personaggi centrali del film. Nel dirci ciò
che pensano di Nola, ci dicono di più su se stessi, sui propri valori, desideri.
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Lei è l’oggetto che stimola il discorso, loro ne sono il soggetto. I narratori


sono maschi e la storia è un racconto patriarcale incentrato sul maschio e
di parte maschile. In quanto tale, non è progressista né si distacca dal
ritratto tradizionale della sessualità femminile nel cinema. Lola Darling può
prendere il suo posto accanto a un corpo crescente di film contemporanei
che pretendono di raccontare storie di donne privilegiando però testi scritti
da uomini e film che stimolano il pubblico con versioni della sessualità
femminile che non sono in realtà né nuove né diverse (Paris Texas, Wim
Wenders, Usa 1984, per esempio). Un altro film recentemente acclamato,
Mona Lisa (Neil Jordan, Gb 1986) reifica la femminilità nera e la sessualità
femminile nera in modo analogo.
Nel complesso, sono gli uomini a parlare in Lola Darling. Mentre, in
quanto a prospettiva e messa a fuoco, Nola appare a una dimensione,
apparentemente più interessata alle sue relazioni sessuali che a qualsiasi
altro aspetto della sua vita, i personaggi maschili sono multidimensionali.
Hanno personalità. Nola non ha personalità. È superficiale, vacua, vuota.
L’unico suo diritto alla celebrità risiede nel fatto che le piace scopare.
Nell’immaginazione pornografica maschile potrebbe essere descritta come
«pura fica», vale a dire che la sua abilità di offrire prestazioni sessuali è
l’aspetto centrale che definisce la sua identità.
Questi uomini sessualmente attivi e sessualmente famelici non sono
«puri peni», perché tale categoria non esiste. Ognuno di loro è definito da
caratteristiche e da attributi unici – Mars dal suo humour, Greer dalla sua
ossessione per il bodybuilding, Jaime dal suo interesse per le storie d’amore
e le relazioni impegnate. A differenza di Nola, essi non pensano sempre al
sesso, non hanno il chiodo fisso del pene. Hanno opinioni su vari argo-
menti: politica, sport, stili di vita, genere e cosı̀ via. Il cineasta Spike Lee
sfida e critica le nozioni della sessualità maschile nera mentre presenta una
prospettiva molto tradizionale della sessualità femminile nera. Le sue acute
esplorazioni della psiche maschile nera sono molto più approfondite, molto
più estese e infine molto più interessanti delle sue esplorazioni della
femminilità nera.
Quando Nola dichiara che nella sua vita ci sono stati dei «maiali» –
uomini che erano interessati solo ad andare a letto – un gruppo di uomini
neri appare sullo schermo in fila indiana pronunciando le battute che usa

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170 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

per sedurre le donne, per «farsela dare». In questo breve segmento, la


reificazione maschile sessista delle donne è messa a nudo insieme alla falsità
e alla superficialità degli uomini. Questa particolare scena più che qualsiasi
altra del film è un esempio eccellente di come il cinema può essere usato in
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modo efficace per aumentare la consapevolezza sulle questioni politiche –


in questo caso la reificazione maschile sessista delle donne. Senza che ci sia
un particolare personaggio a fare un’affermazione pesante sulla superficia-
lità con cui questi uomini neri pensano alle donne e alla sessualità, questo
argomento è espresso con forza. Il cineasta Spike Lee riconosce che
intendeva mettere a fuoco in modo critico il comportamento maschile nero
nel film affermando: «so che gli uomini neri fanno molte cose che sono
sballate e ho cercato di mostrare alcune delle cose che facciamo».
Mentre il suo ritratto innovativo degli uomini neri in questa scena (che
è girata in modo tale da dare l’idea del documentario – gli uomini che
appaiono in fila indiana davanti alla macchina da presa come se venissero
intervistati individualmente) ha la funzione di rivelare e, implicitamente,
criticare il sessismo maschile nero, altre scene lo rafforzano e lo perpe-
tuano. La forza decostruttrice di questa scena viene indebolita in modo più
lampante dalla scena di stupro che si verifica più avanti.
Spesso, parlando con gli altri del film, mi sono accorta che la mia gente
non aveva notato che c’era una scena di stupro, mentre altri si domanda-
vano se ciò che era accaduto potesse essere correttamente descritto come
uno stupro. Quelli di noi che interpretano lo stupro come un atto di
contatto sessuale coercitivo, in cui una persona viene costretta da un’altra a
partecipare senza consenso, hanno visto in Lola Darling una scena di
stupro. Quando ho visto per la prima volta il film con le amiche nere
menzionate precedentemente, eravamo sorprese e disturbate dalla scena
dello stupro, tuttavia non abbiamo urlato in segno di protesta né abbiamo
lasciato il cinema. Come gruppo, siamo collettivamente affondate nelle
nostre poltrone come se volessimo nasconderci. Non era la descrizione
fantasiosa dello stupro a scioccare e a disturbare ma il modo e lo stile della
rappresentazione. In questo caso, lo stupro come atto di violenza maschile
nera contro una donna nera era descritto come se fosse solo un altro
piacevole rapporto sessuale, solo un’altra scopata. Stupro, suggerisce il film,
è un termine difficile da usare quando descrive un rapporto sessuale forzato
con una donna sessualmente attiva (in questo caso viene chiamato un
«quasi stupro»). Dopotutto, come molti neri – donne e uomini – hanno
sottolineato conversando con me, «lei lo chiamava – lei voleva essere
provocante con lui – lei lo voleva». Racchiuso in questo pensiero c’è

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«DI CHI È QUESTA FICA?» 171

l’assunto sessista che la donna come soggetto desiderante, come iniziatrice


attiva, come seduttrice sessuale è responsabile della qualità, della natura e
del contenuto della reazione maschile.
Non sorprendentemente, Nola si considera responsabile, tuttavia la sua
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capacità di giudicare chiaramente le situazioni è stata messa in dubbio in


tutto il film. Se è completamente nel personaggio quando etichetta lo
stupro come un «quasi stupro», rimane il fatto che è stata stuprata. Sebbene
sia rappresentata come una che trae piacere dall’atto, ciò non altera il fatto
che sia costretta a fare sesso senza il suo consenso. È perfettamente
compatibile con le fantasie pornografiche sessiste sullo stupro mostrare una
donna che prova piacere nell’abuso. Dal momento che la mentalità sessista
attribuisce la responsabilità alla donna, pretendendo che lei abbia di fatto la
situazione sotto controllo, una tale fantasia ammette che lei (che in realtà è
una vittima) abbia il potere di cambiare questo atto di violenza in un’espe-
rienza piacevole.
Da qui lo sguardo sul viso di Darling durante lo stupro, che dapprima è
una smorfia, rispecchiamento della sofferenza, e alla fine è un gioco di
piacere e di soddisfazione. Questa è senza dubbio una fantasia sessista sullo
stupro ricca d’immaginazione – che noi come spettatori passivi e silenti
perdoniamo con la nostra complicità. Proteste da parte del pubblico
avrebbero almeno modificato l’accettazione passiva di questa rappresenta-
zione dello stupro. In accordo con la realtà del patriarcato, con il sessismo
nella nostra cultura, quando ho visto il film gli spettatori che erano contenti
dello stupro applaudivano ed esprimevano il proprio consenso all’azione di
Jaime.
Quando Jaime stupra Nola e le chiede aggressivamente di rispondere
alla domanda «di chi è questa fica?», arriviamo al momento di verità – al
momento in cui lei può dichiararsi indipendente, liberata sessualmente, il
momento in cui può orgogliosamente affermare attraverso la resistenza la
sua autonomia sessuale (per molti partner, per non appartenere a nessuno).
Ironicamente, lei non resiste alla violenza fisica. Non afferma l’importanza
suprema dei diritti del suo corpo. È passiva. È ironico perché fino a questo
momento noi siamo stati sedotti dall’immagine di lei come donna forte,
una donna che osa essere sessualmente sicura di sé, esigente, attiva. Ve-
niamo sedotti e abbandonati. Quando Nola risponde alla domanda «di chi
è questa fica?» dicendo «tua», è difficile per chiunque si sia innamorato della
sua immagine di donna sessualmente liberata non sentirsi tradito e deluso
sia dal suo personaggio che dal film. Improvvisamente non stiamo assi-
stendo a una radicale messa in questione della passività sessuale femminile

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172 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

o a una celebrazione dell’autoaffermazione sessuale femminile, ma a una


ricostruzione del solito vecchio contenuto sessista in una forma nuova e più
interessante. Mentre alcune di noi erano passivamente disgustate e distur-
bate, gli spettatori maschi sessisti che si sentivano diffamati applaudivano,
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esprimendo la propria soddisfazione che la donna nera che aveva alzato la


cresta era stata messa al suo posto – il dominio maschile e l’ordine
patriarcale erano stati restaurati.
Dopo lo stupro, Nola cessa di essere sessualmente attiva, sceglie di
avere una relazione monogama con Jaime, il partner che l’ha violentata.
Ideologicamente tale scenario imprime sulla coscienza dei maschi neri, e di
tutti i maschi, l’assunto sessista che lo stupro sia un mezzo efficace di
controllo sociale patriarcale che contribuisce a restaurare e a mantenere il
potere maschile sulle donne. Esso suggerisce contemporaneamente alle
donne nere, e a tutte le donne, che essere sessualmente sicure di sé le
condurrà al rifiuto e alla punizione. In una cultura in cui viene stuprata una
donna ogni diciotto secondi, in cui c’è ancora un’enorme ignoranza sullo
stupro, in cui il patriarcato e le pratiche sessiste promuovono e scusano lo
stupro delle donne da parte degli uomini come mezzo per mantenere il
dominio maschile, disturba assistere a questa scena, non solo perché
rafforza stereotipi pericolosi (uno tra i più radicati dei quali è che le donne
provino piacere a essere stuprate), ma perché insinua che lo stupro non
abbia gravi e pesanti conseguenze per le vittime. Senza terapia, senza
sostegno, Nola alla fine del film viene restituita al suo io freddo e sicuro di
sé. Muta sulla sua sessualità per quasi tutto il film, all’improvviso parla. È lei
che definirà lo stupro un «quasi stupro», come se in realtà non fosse una
faccenda grave.
Tuttavia è lo stupro che fa slittare la direzione del film, dell’immagina-
ria autoanalisi di Nola Darling. A espressione della sicurezza di sé da poco
acquisita, Nola denuncia con calma il «quasi stupro», spiega che la relazione
con Jaime non ha funzionato e mette in evidenza il suo diritto ad autodefi-
nirsi. Detto senza la spavalderia e il gusto piccante con cui è stato descritto,
noi abbiamo assistito allo spettacolo di una donna che viene privata del suo
potere e non di una donna che acquisisce potere. Questa sensazione sembra
essere riconfermata quando la scelta di Nola di autodefinirsi realmente
significa che rimarrà sola, senza un partner sessuale.
In perfetto contrasto con The Color Purple (Il colore viola, Steven Spiel-
berg, Usa 1985), in cui relazioni omosessuali tra donne sono rappresentate
come una fonte di mutua affermazione erotica che non mira allo sfrutta-
mento e servono da catalizzatore per l’evoluzione personale, la sessualità

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«DI CHI È QUESTA FICA?» 173

lesbica in Lola Darling è rappresentata in negativo. Non costituisce un’alter-


nativa a pratiche eterosessuali distruttive. Il personaggio lesbico è rapace,
un «maiale» tanto quanto qualsiasi uomo. Significativamente, Nola non
trova difficile rifiutare approcci sessuali indesiderati di un’altra donna,
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affermare i diritti del suo corpo e le sue preferenze. Completamente


identificata con il maschio, non apprezza le sue amiche. Sebbene siano
personaggi poco sviluppati nel film, le due amiche sono affascinanti e
interessanti. L’apparente dedizione e la disciplina che la suonatrice di basso
mostra verso la sua musica, contrasta nettamente con l’approccio svogliato
di Nola verso la sua arte, dal momento che la musicista di basso sembra a
suo agio con la propria autonomia in un modo in cui Nola non lo è.
L’autonomia non è rappresentata come un miglioramento della vita,
una scelta che dà potere a Nola. La decisione di essere autosufficiente la
lascia altrettanto vacua e vuota di quanto era apparsa precedentemente
senza il senso pratico che aveva nel ruolo di vamp. Infine la vediamo sola al
termine del film, avvolta nelle lenzuola, un’immagine familiare che non
suggerisce nessuna trasformazione. Dobbiamo immaginare che abbia ces-
sato di desiderare «ciò» che deve avere? Dobbiamo pensare che dopotutto
il «ciò» abbia molteplici implicazioni, che può non essere sesso ma un
senso dell’io a cui lei aspira? Nola ha fatto sesso per tutto il film; ciò che
non ha ottenuto è un senso dell’io che le permetterebbe di essere piena-
mente autonoma e sessualmente sicura di sé, indipendente e liberata. Senza
un senso saldo dell’io i suoi tentativi di diventare un soggetto desiderante
invece che un oggetto sono destinati a fallire. Nola non può inserirsi nella
lotta per il potere sessuale tra donne e uomini come oggetto e diventare
soggetto. Il solo desiderio non è abbastanza per renderla un soggetto, per
liberarla (il film dimostra questa tesi, ma questa non è una rivelazione). Una
nuova immagine, quella che ancora dobbiamo vedere al cinema, è quella di
una donna nera desiderante che prevale, che trionfa, che non è privata della
sua sessualità, non è sola, che è «insieme» in ogni accezione del termine.
Joan Mellen nella sua introduzione a Women and Their Sexuality in the New
Film (Le donne e la loro sessualità nel nuovo cinema) sottolinea che il recente
tentativo di rappresentare immagini radicali e in trasformazione della
sessualità femminile si è rivelato una delusione, in molti casi un fallimento:

il linguaggio delle donne indipendenti può essere consentito con rilut-


tanza, ma la sostanza non cambia. Se a parole offre una pseudo-
anticipazione della sfida ai vecchi valori e immagini, ciò di cui veramente
si tratta è di rimettere a nuovo la visione costituita, consolidata ora dal
riferimento nominale alla «consapevolezza». Questo gioco di destrezza è il

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174 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

metodo della co-opzione. Il cinema è un’arena in cui il processo è stato


perfezionato. Perciò quando l’immagine stessa delle donne liberate o
auto-sufficienti è arrischiata sullo schermo, presenta connotazioni negative
ed è impiegata per rafforzare le vecchie abitudini.
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Anche se è probabile che il regista Spike Lee avesse l’intenzione di


rappresentare un’immagine radicalmente nuova della sessualità femminile
nera, Lola Darling nell’insieme rafforza e perpetua vecchie norme. Certa-
mente il film ci mostra la natura delle lotte per il potere maschile-femminile
nero, le contraddizioni, la pazzia e quella è un’importante direzione nuova.
Tuttavia è l’assenza di una riconciliazione liberatoria convincente a minare
il potenziale progressista radicale del film. Anche se le scene di nudo, le
scene di rapporti sessuali costituiscono un’importante rappresentazione
della sessualità nera sullo schermo dal momento che non sono grottesche o
pornografiche, ancora non vediamo una rappresentazione di rapporti mu-
tui, sessualmente soddisfacenti tra donne e uomini neri in un contesto di
non dominio. Non è veramente importante che la donna sia dominante e il
maschio sottomesso – è il solito vecchio scenario oppressivo. In definitiva,
è un racconto patriarcale – quello in cui la donna non emerge trionfante,
realizzata. Se possiamo applaudire il debole tentativo di Nola di raccontare
una nuova storia alla fine del film, essa non risulta convincente, non
abbastanza – non è soddisfacente.

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KRISTEVA, LA FEMMINILITÀ, L’ABIEZIONE

di Barbara Creed

L’abiezione è anche frontiera ma sopra tutto ambiguità.


Perché, pur demarcandolo, non stacca radicalmente il soggetto
da quel che lo minaccia, anzi lo riconosce in un perpetuo
pericolo.
Julia Kristeva, Poteri dell’orrore

Poteri dell’orrore di Julia Kristeva ci offre un’ipotesi preliminare per un’analisi


della rappresentazione della donna mostruosa nel film horror. Sebbene il suo
studio riguardi la psicoanalisi e la letteratura, esso suggerisce tuttavia un
modo di porre il mostruoso-femminino nel film horror in rapporto alla figura
materna e a quanto Kristeva definisce “abiezione”, ciò che non «rispetta i
limiti, i posti, le regole», ciò che «turba un’identità, un sistema, un ordine»1. In
termini generali, Kristeva tenta di esplorare i diversi modi in cui l’abiezione
agisce nelle società umane, come mezzo per distinguere l’umano dal non
umano e il soggetto interamente costituito da quello formato solo in parte. Il
rito diviene un mezzo grazie al quale le società rinnovano il loro contatto
iniziale con l’elemento abietto e poi lo escludono. Attraverso il rito, le linee di
demarcazione tra umano e non umano vengono nuovamente tracciate e,
mediante questo processo, presumibilmente rafforzate. (Uno degli obiettivi di
Kristeva in Poteri dell’orrore è presentare una riscrittura di molte delle idee e
convinzioni esposte dal College of Sociology, specialmente quelle associate

Kristeva, Femininity, Abjection, in Barbara Creed, The Monstrous-Feminine. Film,


Feminism, Psychoanalysis, London and New York, Routledge, 1993, pp. 8-15.
1
Julia Kristeva, Powers of Horror: An Essay on Abjection, New York, Columbia University
Press, 1982, p. 4.; [tr. it. Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Milano, Spirali/Vel, 1981, p. 6].

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176 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

alla natura della femminilità, dell’abiezione, del sacro)2.


L’analisi completa di tale teoria esula dai fini di questo saggio; intendo,
infatti, fare riferimento soprattutto alla discussione di Kristeva sulla costru-
zione dell’abiezione nel soggetto umano in rapporto alla sua nozione di (a)
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“limite”, (b) rapporto madre-figlio e (c) corpo femminile. Laddove sarà


rilevante farò anche riferimento ai suoi scritti sull’abietto in rapporto ai
discorsi religiosi. Non è possibile ignorare quest’ambito, perché leggendo i
suoi scritti appare evidente che le definizioni del mostruoso, cosı̀ come
sono costruite nei testi dell’horror moderno, sono radicate nelle antiche
nozioni religiose e storiche dell’abiezione; questo avviene in modo partico-
lare in rapporto alle seguenti “abominazioni”: immoralità sessuale e perver-
sione; alterazione corporea, decadimento e morte; sacrificio umano; assassi-
nio; cadavere, rifiuti corporei; corpo femminile e incesto. Tali forme di
abiezione sono centrali anche nella costruzione del mostruoso nel moderno
film horror.
Il luogo dell’abietto è «dove il senso sprofonda», il luogo in cui “io” non
3
sono. L’abietto minaccia la vita; deve diventare «radicalmente un escluso»
dal luogo del soggetto vivente, deve essere allontanato dal corpo e deposto
sull’altro versante di un limite immaginario che separa il sé da ciò che lo
minaccia. Sebbene il soggetto debba escludere l’abietto, l’abietto deve,
nondimeno, essere tollerato giacché ciò che minaccia di distruggere la vita
aiuta anche a definirla. Per di più, l’attività di esclusione è necessaria a
garantire che il soggetto (maschile o femminile) occupi il proprio posto in
rapporto al simbolico.
È possibile sperimentare l’abietto in vari modi, di cui uno attiene alle
funzioni biologiche del corpo, mentre un altro è stato iscritto in un’econo-
mia simbolica (religiosa). Per esempio, Kristeva afferma che il disgusto per
4
gli alimenti è «forse la forma più elementare e più arcaica dell’abiezione» . Il
cibo, però, diventa abietto solo se costituisce un limite «tra due entità o due
5
territori distinti» . Julia Kristeva spiega come per lei la pellicina sulla
superficie del latte offertale dal padre e dalla madre sia un «segno del loro
desiderio», un segno che separa il suo mondo dal loro, un segno che lei
non vuole. «Ma poiché quel cibo non è un “altro” per “me” che sono

2
Per un’introduzione alla filosofia e agli scritti del College vedi Denis Hollier (a cura di), The
College of Sociology (1937-1939), Minneapolis, University of Minnesota Press, 1988.
3
Julia Kristeva, Powers of Horror, cit., p. 2; [tr. it. p. 4].
4
Ibid.
5
Ivi, p. 75; [tr. it. p. 85].

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KRISTEVA, LA FEMMINILITÀ, L’ABIEZIONE 177

solamente nel loro desiderio, io mi espello, mi sputo, mi abietto nello stesso


6
movimento con cui “io” pretendo di pormi» . Per quanto riguarda il film
horror, è interessante notare che il disgusto per il cibo spesso è rappresen-
tato come una delle fonti più importanti di abiezione, in particolar modo il
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mangiare carne umana [Blood Feast, Motel Hell, Blood Diner (Il ristorante
all’angolo), The Hills Have Eyes (Le colline hanno gli occhi ), The Corpse
Grinders].
L’abiezione fondamentale è il cadavere. Il corpo si protegge dai rifiuti
corporei come le feci, il sangue, l’urina e il pus espellendoli esattamente
come espelle il cibo che, per qualche ragione, il soggetto trova detestabile.
Il corpo espelle queste sostanze, liberandosi di loro e al tempo stesso dal
luogo in cui cadono, in modo da poter continuare a vivere: «i rifiuti cadono
perché io viva finché, di perdita in perdita, non mi resti nulla e il mio corpo
cada intero al di là del limite, cadere, cadavere. Se la spazzatura significa
l’altro aspetto del limite, quello dove non sono e che mi consente di essere,
il cadavere, il più disgustoso dei rifiuti, è un limite che ha invaso tutto. Non
7
sono più io a espellere, “io” è espulso» .
Anche nel contesto biblico il cadavere è assolutamente abietto. Esso
simboleggia una delle forme più essenziali di corruzione: il corpo senza
anima. Quale forma di spazzatura, esso rappresenta l’opposto dello spiri-
tuale, del simbolico religioso. Per quanto riguarda il film horror, è impor-
tante notare che la maggior parte delle figure dell’orrore più popolari sono
«corpi senza anima» (vampiri), «cadaveri viventi» (zombi), divoratori di
cadaveri (demoni che divorano cadaveri), robot o androidi. Ma è altret-
tanto interessante osservare che le antiche figure di abiezione, come il
vampiro, il demone divoratore, lo zombie e la strega (uno dei suoi più gravi
delitti era l’utilizzo dei cadaveri per i riti magici) continuano a fornire
alcune delle immagini dell’orrore più irresistibili nel cinema moderno.
Anche i licantropi, i cui corpi denotano un crollo del limite tra l’umano e
l’animale, rientrano in questa categoria.
L’abiezione si verifica altresı̀ quando l’individuo è un ipocrita, un
bugiardo. Le cose abiette sono quelle che mettono in evidenza la «fragilità
della legge» e che esistono dall’altra parte del limite che divide il soggetto
vivente da ciò che minaccia la sua estinzione. L’abiezione, però, è una cosa
dalla quale il soggetto non potrà mai sentirsi libero: è sempre presente,
invitando il sé a prendere il posto dell’abiezione, il posto in cui crolla il

6
Ivi, p. 3; [tr. it. p. 5].
7
Ivi, pp. 3-4; [tr. it. p. 5].

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178 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

significato. Il soggetto, costruito nel linguaggio e attraverso di esso, me-


diante il desiderio di significato, è parlato anche dall’abietto, il luogo della
non significanza. Pertanto, il soggetto è costantemente assediato dall’abie-
zione che affascina il desiderio ma che deve essere respinta per paura
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dell’autoannichilimento. Un punto fondamentale è che l’abiezione è sempre


ambigua. Come Bataille, anche Kristeva pone l’enfasi sull’attrazione, ma
anche sull’orrore dell’indifferenziato.

L’abiezione e il film horror


Sono almeno tre i modi in cui il film horror potrebbe sembrare un’illustra-
zione dell’opera dell’abiezione. Innanzitutto, il film horror abbonda di
immagini di abiezione, prima delle quali è il cadavere, intero e mutilato,
seguito da una serie di rifiuti corporali come sangue, vomito, saliva, sudore,
lacrime e carne in putrefazione. Secondo la nozione kristeviana del limite,
quando di un dato film horror diciamo che “mi ha dato la nausea” o “me la
sono fatta sotto” stiamo di fatto evidenziando questo particolare film horror
come “opera dell’abiezione” o “abiezione all’opera” in senso quasi letterale.
Guardare un film horror denota non solo un desiderio di piacere perverso
(confrontarsi con immagini rivoltanti, che provocano orrore, provare ter-
rore, desiderio per l’indifferenziato) ma anche un desiderio, una volta sazi
di perversità e avendo tratto piacere dalla perversità, di vomitare, di
rigettare, di espellere l’abietto (dalla sicurezza della poltrona dello spettato-
re). Secondo Kristeva, la donna è posta in una relazione particolare con gli
oggetti contaminanti che rientrano in due categorie: escrementizi e me-
struali. Questo a sua volta pone la donna in un rapporto particolare con
l’abietto. Si tratta di un punto importante che discuterò tra breve.
In secondo luogo, il concetto di limite è centrale per la costruzione del
mostruoso nel film horror; ciò che valica il “limite” o minaccia di attraver-
sarlo è abietto. Sebbene la natura specifica del limite cambi da un film
all’altro, la funzione del mostruoso rimane identica: determinare un incon-
tro tra l’ordine simbolico e ciò che ne minaccia la stabilità. In alcuni film
horror il mostruoso si produce ai confini tra umano e non umano, tra
uomo e bestia [Dr. Jekill and Mr. Hyde (Il dottor Jekyll e Mister Hyde),
Creature from the Black Lagoon (Il mostro della laguna nera), King Kong]; in
altri il limite è tra il normale e il sovrannaturale, il bene e il male [Carrie
(Carrie lo sguardo di Satana), The Exorcist (L’esorcista), The Omen (Il presagio),
Rosemary’s Baby (Rosemary’s Baby. Nastro rosso a New York)]; o, ancora, il
mostruoso si produce al limite che separa quanti assumono il ruolo proprio

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KRISTEVA, LA FEMMINILITÀ, L’ABIEZIONE 179

al loro genere da quanti non lo fanno [Psycho (Id.), Dressed to Kill (Vestito per
uccidere), A Reflection of Fear]; oppure il limite è tra il desiderio sessuale
normale e quello anormale [The Hunger (Miriam si sveglia a mezzanotte), Cat
People (Il bacio della pantera)]. La maggior parte dei film horror crea un
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confine tra ciò che Kristeva definisce «corpo proprio e puro» e il corpo
abietto, o il corpo che ha perduto la propria integrità e forma. Il corpo
pienamente simbolico non deve conservare tracce del proprio debito verso
la natura. Secondo Kristeva, l’immagine del corpo della donna, a causa
delle sue funzioni materne, riconosce il proprio «debito verso la natura» e
di conseguenza è più adatto a significare l’abietto8. La nozione di corpo
femminile materiale è centrale per la costruzione del limite nel film horror.
Esplorerò compiutamente quest’area fondamentale nei capitoli seguenti.
È piuttosto interessante osservare come diversi sottogeneri di film
horror sembrano corrispondere a categorie religiose di abiezione. Per
esempio, il cannibalismo, un’abominazione religiosa, è centrale nei film “di
carne” [The Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi ), Le colline
hanno gli occhi]; il cadavere come abominazione diventa l’abietto dei film di
demoni divoratori e zombi [Evil Dead (La casa); Zombie Flesheaters]; il
sangue è centrale per i film di vampiri (Miriam si sveglia a mezzanotte) e per
i film horror in genere (Bloodsucking Freaks); il cadavere è costruito come
l’abietto di praticamente tutti i film horror; e la deturpazione del corpo
come abominazione religiosa è centrale anche per il film di sfregiatori,
particolarmente quelli in cui viene sfregiata la donna, essendo il marchio un
segno della sua “differenza”, della sua impurità (Vestito per uccidere, Psycho).
Il terzo modo in cui il film horror illustra l’opera dell’abiezione è la
costruzione della figura materna come abietta. Kristeva sostiene che ogni
individuo prova abiezione al momento dei primissimi tentativi di staccarsi
dalla madre. Ritiene che il rapporto madre-figlio sia caratterizzato dal
conflitto: il bambino lotta per liberarsi ma la madre è riluttante a lasciarlo.
A causa della «instabilità della funzione simbolica» in rapporto a questo
ambito estremamente cruciale – «la proibizione riposta nel corpo materno
(come difesa contro l’autoerotismo e il tabù dell’incesto)» –, secondo Kri-
steva il corpo materno diventa un luogo di desideri contrastanti. «Qui regna
la pulsione per costituire uno strano spazio che chiameremo con Platone
(Timeo, 48-53), una chora, un ricettacolo»9. La posizione del bambino è resa

8
Ivi, p. 102; [tr. it. p. 115].
9
Ivi, p. 14; [tr. it. p. 16].

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180 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

ancora più instabile perché la forte presa che la madre mantiene sul
bambino può servirle ad autenticare la sua esistenza – un’esistenza che
necessita di convalida a causa del suo rapporto problematico con il domi-
nio del simbolico.
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Nei tentativi del bambino di staccarsi dalla madre, questa diventa un


“abietto”; pertanto, in questo contesto, in cui il bambino lotta per divenire
10
un soggetto separato, l’abiezione diventa una «crisi narcisitica» . Ancora una
volta possiamo vedere l’abiezione all’opera nel testo horror, dove il bam-
bino lotta per staccarsi dalla madre, rappresentativa della figura materna
arcaica, in un contesto in cui il padre è invariabilmente assente [Psycho,
Carrie lo sguardo di Satana, The Birds (Gli uccelli )]. In questi film la figura
materna è costruita come il mostruoso-femminino. Rifiutando di abbando-
nare la presa sul bambino, essa gli impedisce di occupare il proprio posto in
rapporto al simbolico. Consumato, in parte, dal desiderio di rimanere al
sicuro in una felice relazione con la madre e in parte atterrito dalla
separazione, il bambino soccombe facilmente al piacere confortevole della
relazione bivalente. Secondo Kristeva, un intero ambito della religione si è
assunto la funzione di affrontare questo pericolo:

si tratta precisamente dei riti della sozzura e delle loro derivazioni che
poggiando sul sentimento di abiezione e convergendo tutti verso il ma-
terno cercano di simbolizzare quell’altra minaccia per il soggetto che è
l’inghiottimento nella relazione duale in cui il soggetto rischia non tanto di
perdere una parte (castrazione), bensı̀ di perdersi completamente come
vivente. Questi riti religiosi hanno la funzione di scongiurare la paura del
soggetto di affondare senza ritorno nella madre la propria identità11.

Come vengono dunque emanate e fatte rispettare le proibizioni relative


al contatto con la madre? Rispondendo a questa domanda, Kristeva collega
alla madre le pratiche universali dei riti di sozzura. Sostiene che nelle
pratiche di tutti i riti di sozzura, gli oggetti contaminanti ricadono in due
categorie: escrementizi, che minacciano l’identità dall’esterno, e mestruali,
che la minacciano dall’interno. Entrambe le categorie di oggetti contami-
nanti hanno attinenza con la madre. Il rapporto con il sangue mestruale è
evidente: l’associazione degli oggetti escrementizi con la figura materna è
dovuta al ruolo materno nell’addestramento sfinterico. Kristeva afferma che
il primo contatto del soggetto con l’“autorità” è quello con l’autorità

10
Ibid.
11
Ivi, p. 64; [tr. it. p. 73].

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KRISTEVA, LA FEMMINILITÀ, L’ABIEZIONE 181

materna, quando, attraverso l’interazione con la madre, il bambino ap-


prende qualcosa sul proprio corpo: la forma del corpo, il pulito e lo sporco,
le aree decorose e sconvenienti del corpo. È proprio questo concetto di
“autorità materna” che svilupperò ed estenderò al simbolico in rapporto
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alla castrazione nella mia analisi del mostruoso-femminino nell’horror.


Kristeva fa riferimento ai processi di educazione all’uso del bagno come
«cartografia primaria di quel corpo» che definisce «semiotico». Distingue tra
«autorità» materna e «leggi paterne»: «l’autorità materna è depositaria di
questa topografia del corpo proprio e puro; si distingue dalle leggi paterne
nelle quali con la fase fallica e con l’acquisizione del linguaggio s’introdurrà
12
il destino dell’uomo» . Nella sua discussione dei riti della sozzura in
rapporto al sistema indiano delle caste, Kristeva traccia una distinzione tra
autorità materna e legge paterna. Afferma che il periodo della «topografia
13
del corpo proprio e puro» è caratterizzato dall’esercizio di una «autorità
14
senza colpa», un tempo in cui c’è una «fusione della madre con la natura» .
Tuttavia, il simbolico introduce «un universo completamente diverso di
prestazioni sociali significanti in cui entrano in gioco il disagio, la vergogna,
la colpevolezza, il desiderio – l’ordine del fallo». Nel contesto indiano,
questi due mondi coesistono armoniosamente fianco a fianco grazie ai riti
della sozzura. Qui Kristeva fa riferimento alla pratica della defecazione
pubblica in India. Sostiene che questa spaccatura tra il mondo della madre
(un universo senza vergogna) e il mondo del padre (un universo di
vergogna), in altri contesti sociali produrrebbe psicosi; in India trova invece
una «perfetta socializzazione»: «forse perché l’istituzione del rito della
sozzura assume la funzione di trait d’union, di diagonale, consentendo ai
due universi della sporcizia e del divieto di sfiorarsi senza necessariamente
15
identificarsi come tali, come oggetto e come legge» .
I testi horror rappresentano praticamente tutti il mostruoso-femminino
in rapporto alla nozione kristeviana dell’autorità materna e della topografia
del corpo proprio e puro. Le immagini di sangue, vomito, pus, feci, ecc.
sono centrali per le nostre nozioni socialmente o culturalmente costruite di
ciò che fa orrore. Esse denotano una spaccatura tra due ordini: l’autorità
materna e la legge del padre. Da un lato queste immagini di rifiuti corporei
minacciano un soggetto che si è già costituito, in relazione al simbolico,

12
Ivi, p. 72; [tr. it. pp. 81-82].
13
Ibid.
14
Ivi, p. 74; [tr. it. p. 84].
15
Ibid.

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182 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

come «integro e puro». Pertanto esse riempiono il soggetto – protagonista


nel testo e spettatore nel cinema – di disgusto e ripugnanza. Dall’altro lato
guardano anche indietro a un tempo in cui esisteva «una fusione della
madre con la natura»; quando i rifiuti del corpo, pur essendo separati dal
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corpo, non erano visti come oggetti di imbarazzo e vergogna. Situata nel
sociale simbolico, la loro presenza nel film horror può suscitare una
risposta di disgusto da parte del pubblico, ma a un livello più arcaico la
rappresentazione dei rifiuti del corpo può invocare piacere rompendo il
tabù sulla sozzura – descritto talvolta come un piacere nella perversità –
come pure il piacere di tornare al tempo in cui il rapporto madre-figlio era
caratterizzato dal piacere non intralciato di “giocare” con il corpo e i suoi
rifiuti.
Il moderno film horror spesso “gioca” con il suo pubblico, saturandolo
con scene di sangue e effetti truculenti e raccapriccianti, mostrando delibe-
ratamente la fragilità dell’ordine simbolico nel dominio del corpo dove il
corpo non cessa mai di segnalare il mondo represso della madre. Nell’Esor-
cista il mondo del simbolico, rappresentato dal sacerdote come padre, e il
mondo del presimbolico, rappresentato da una ragazza pubescente schie-
rata dalla parte del diavolo, si scontrano, testa in avanti, in scene in cui la
malvagità della donna è denotata dal suo corpo putrido, sudicio, coperto di
sangue, urina, escrementi e bile. Significativamente, la ragazza posseduta è
anche vicina al periodo mestruale: in una scena, il sangue dei suoi genitali
feriti si mescola con il sangue mestruale offrendo una delle immagini chiave
di orrore del film. In Carrie lo sguardo di Satana, l’atto più mostruoso del
film ricorre quando la coppia è impregnata del sangue del maiale, che
simboleggia il sangue mestruale nei termini fissati dal film; nel film ci si
riferisce alle donne come “maiali”, le donne «sanguinano come maiali», e il
sangue del maiale scorre lungo il corpo di Carrie in un momento di intenso
piacere, proprio come il sangue mestruale le scende lungo le gambe
durante un momento di piacere simile, quando gode del proprio corpo
nella doccia. Qui, il sangue del maiale e il sangue della donna scorrono
insieme, significando orrore, vergogna e umiliazione. In questo film, co-
munque, la madre sta per il simbolico, identificandosi con un ordine che ha
definito la sessualità della donna come fonte di ogni male e la mestruazione
come segno del peccato.
La semiotica di Kristeva postula una dimensione preverbale del lin-
guaggio che si rapporta ai suoni e al tono della voce e all’espressione diretta
delle pulsioni e del contatto fisico con la figura materna: «essa dipende dal
senso, ma in un modo che non è quello dei segni linguistici né dell’ordine

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KRISTEVA, LA FEMMINILITÀ, L’ABIEZIONE 183

simbolico da essi instaurato»16. Con l’ingresso del soggetto nel simbolico, che
separa il bambino dalla madre, la figura materna e l’autorità che rappre-
senta vengono represse. Kristeva sostiene allora che è una funzione dei riti
della sozzura, particolarmente di quelli collegati al sangue mestruale e agli
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oggetti o alle sostanze escrementizie, quella di indicare il “limite” tra


l’autorità semiotica materna e la legge simbolica paterna.
Julia Kristeva afferma che, storicamente, purificare l’abietto è stata una
funzione della religione, ma con la perdita di queste «forme storiche» delle
religioni, l’opera di purificazione ora è affidata soltanto a quella «catarsi per
17
eccellenza che è l’arte» . Questo, secondo me, è anche il progetto ideologico
centrale del film horror popolare: la purificazione dell’abietto attraverso una
«discesa nelle fondamenta dell’edificio simbolico». Il film horror cerca di
realizzare un confronto con l’abietto (il cadavere, i rifiuti corporei, il
mostruoso-femminino) per poter finalmente espellere l’abietto e ridefinire i
limiti tra umano e non umano. Quale forma di un moderno rito di
purificazione, il film horror tenta di scindere l’ordine simbolico da tutto ciò
che ne minaccia la stabilità, in modo particolare la madre e tutto quello che
il suo universo rappresenta. In questo senso, significare l’orrore implica una
rappresentazione del corpo materno e una riconciliazione con esso. La
teoria dell’abiezione di Kristeva ci fornisce un’importante struttura teorica
per analizzare, nel film horror, la rappresentazione del mostruoso-
femminino, in rapporto alle funzioni riproduttive e materne della donna.
Tuttavia, l’abiezione è per sua natura ambigua; attrae e repelle al tempo
stesso. Scindere la madre e il suo universo dall’ordine simbolico non è
un’impresa facile; forse alla fine non è nemmeno possibile. Inoltre, quando
iniziamo a esaminare da vicino la natura della madre mostruosa scopriamo
che svolge un ruolo cruciale anche per quanto riguarda la castrazione e il
passaggio del bambino nell’ordine simbolico, argomenti discussi nella se-
conda parte in rapporto alle immagini della vagina dentata e della madre
castrante.

16
Ivi, p. 72; [tr. it. p. 81].
17
Ivi, p. 17; [tr. it. p. 19].

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PIACERI

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI


DEL CINEMA

di Gaylyn Studlar

Questo studio offre un modello alternativo al discorso corrente che enfa-


tizza il fatto che il voyeurismo sia connesso con il sadismo, che l’unica
posizione del piacere spettatoriale sia quella del maschio che controlla lo
sguardo e che una nozione polarizzata della differenza sessuale sia connessa
al femminile considerato come “mancanza”. Nel 1978 Christine Gledhill ha
scritto della necessità di allargare il fuoco della teoria femminista sul
cinema, di interrogare gli assunti teorici guida e di affrontare la complessità
1
del “posto della donna” all’interno della cultura patriarcale . Nel contesto
degli approcci al cinema di stampo femminista-psicoanalitico, l’egemonia
del modello freudiano-lacaniano-metziano ha purtroppo ridotto, piuttosto
che ampliato, il campo delle questioni che la teoria femminista ha posto su
forme specifiche di enunciazione nel cinema narrativo classico e sul posi-
zionamento del soggetto. Sebbene io non presuma di soppiantare il mo-
dello dominante, c’è, credo, un’ovvia necessità di mettere in discussione
alcuni degli assunti che hanno determinato le tendenze correnti.
2
Il mio modello alternativo è tratto da Il freddo e il crudele . Deleuze
applica un approccio psicoanalitico-letterario ai romanzi di Leopold von

Masochism and the Perverse Pleasures of the Cinema, in Bill Nichols (a cura di), Movies
and Methods II, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1985, pp.
602-621.
1
Christine Gledhill, Recent Developments in Feminist Criticism, «Quarterly Review of Film
Studies», vol. 3, autunno 1978, pp. 457-93. Nella sua revisione del 1984 di questo articolo per
Revision: Essays in Feminist Film Criticism (Frederick/Md., AFI-University Publications of
America, 1984), Gledhill riarticola la sua critica originaria.
2
Gilles Deleuze, Masochism: An Interpretation of Coldness and Cruelty, New York, George
Braziller, 1971; [tr. it. Il freddo e il crudele, Milano, SE, 1996]; Leopold von Sacher-Masoch,

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188 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Sacher-Masoch, l’omonimo del masochismo, per sfidare i principi basilari


freudiani riguardanti la dualità sadomasochistica e l’eziologia del masochi-
smo come risposta al padre e all’ansia di castrazione. Se le differenze
qualitative tra sadismo e masochismo sono ignorate e viene considerato
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solo l’argomento dolore/piacere, allora le due perversioni possono ben


essere considerate complementari come sosteneva Freud, ma Deleuze
mostra che solo quando i modelli formali del masochismo sono ricono-
sciuti come riflessi di un’unica struttura psicoanalitica sottostante, la perver-
sione può correttamente essere definita come un’entità clinica distinta o
come un’estetica: «il masochismo è innanzitutto formale e drammatico;
ossia raggiunge una combinazione di dolore e piacere soltanto attraverso
un particolare formalismo e vive la colpa soltanto attraverso una storia
3
specifica» .
Deleuze considera il masochismo una fenomenologia dell’esperienza
che va molto al di là della definizione limitata di una sessualità perversa.
Allo stesso modo, l’estetica masochista si estende oltre il puro regno clinico
nell’ambito della forma artistica, del linguaggio e della produzione del
piacere attraverso un testo.
Comparando i romanzi di Masoch e di Sade, Deleuze conclude che
l’intenzione, le tecniche formali e il linguaggio di Sade sono totalmente
all’opposto di quelle di Masoch. Queste differenze sono soltanto un riflesso
di determinanti psicoanalitiche differenti. Il discorso sadiano – denotativo,
scientifico, imperturbabilmente diretto nei suoi osceni imperativi e descri-
zioni – crea un eterocosmo fantasticamente crudele basato esclusivamente
sul dominio della ragione. La fantasia sadica dominante espressa nel lavoro
di Sade innalza il padre “al di sopra di tutte le leggi”, dice Deleuze, e nega
4
la madre . Di contro, il mondo fittizio di Masoch è mitico, persuasivo,
orientato esteticamente e centrato intorno all’esaltazione idealizzata, mistica
dell’amore per la donna punita. Nella sua forma ideale, in quanto rappre-
sentativo della potente madre orale, il femminile nello scenario masochi-
stico non è sadico, ma deve infliggere crudeltà all’amore per appagare il
ruolo femminile nel mutuo accordo sullo schema masochistico. Masoch
scrive in un passaggio tipico del suo romanzo più famoso, Venere in
pelliccia: «amare, essere amati, quale felicità! Eppure come impallidisce

Venus in Furs, tr. Jean McNeil, in Deleuze; Masochism, cit. [tr. it., Venere in pelliccia, Milano,
ES, 1993].
3
Ivi, p. 95; [tr. it. p. 120].
4
Ivi, p. 52.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 189

tanto splendore di fronte alla tormentosa beatitudine di adorare una donna


che fa di noi il proprio trastullo, quale estasi essere lo schiavo di una bella
5
tiranna che ci calpesta senza pietà» .
Come nota Deleuze, il paradosso dell’alleanza masochistica, com’è
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esemplificato nel lavoro di Masoch, è la sovversione delle posizioni patriar-


cali previste di potere/mancanza di potere, padrone/schiavo, il cui mas-
simo paradosso è la disponibilità dello schiavo (del maschio) a conferire il
6
potere alla femmina .
Un estratto dalle Centoventi giornate di Sodoma di Sade rende evidente
l’impudente assurdità di equiparare sadismo e masochismo a livello lettera-
rio e, come mostra Deleuze, anche a livello psicoanalitico: «vuole dodici
donne, sei giovani e sei vecchie, e, se è possibile, sei madri e sei figlie. Lecca
loro la fica, il culo, la bocca; quando lavora alla fica vuole urina; quando
7
lavora alla bocca, vuole saliva; e quando lavora al culo vuole peti» .
Anche quando Sade sceglie come “eroina” una donna, questa mette in
atto l’impulso misogino criminale che non viene soddisfatto oggettificando
o demistificando meramente le donne, ma distruggendole. Nel testo maso-
chistico, la donna non è uno tra un’infinità di oggetti abbandonati, ma una
figura potente, idealizzata, insieme pericolosa e confortante. La feticizza-
zione, la fantasia e il disconoscimento idealizzante sostituiscono l’esaltata
distruzione sadiana della femminilità. Mentre i libertini attivi di Sade
sfidano incessantemente i limiti della resistenza umana e del male in cicli di
sesso e violenza che si ripetono senza sosta, il mondo masochistico
suggerisce appena attività sessuale o violenza. Deleuze osserva: «contraria-
mente a Sade, occorre dire di Masoch che nessuno si è mai spinto cosı̀
8
lontano con tanta decenza» . Nell’estetica masochista la suspense dramma-
tica rimpiazza l’accelerata ripetizione sadiana dell’azione, l’intimità tra part-
ner che si sono scelti a vicenda prende il posto dell’impersonalità delle
masse di libertini e vittime, l’erotismo idealizzato sostituisce l’oscenità che
minaccia di far esplodere i limiti del linguaggio convenzionale in un
tentativo di raggiungere l’irraggiungibile, la distruttiva Idea del Male9. Se la

5
Leopold von Sacher-Masoch, Venus in Furs, cit., p. 129; [tr. it. p. 24].
6
Gilles Deleuze, Masochism, cit., p. 80.
7
Donatien Alphonse François de Sade, The 120 Days of Sodom and Other Writings, tr. ingl.
a cura di Austryn Wainhouse e Richard Seaver, New York, Grove Press, 1966, p. 577; [tr. it.
Le 120 giornate di Sodoma, ES, Milano, 1991, p. 300].
8
Gilles Deleuze, Masochism, cit., p. 31; [tr. it. p. 38].
9
Ivi, pp. 16-19, vedi anche Roland Barthes, Sade/Fourier/Loyola, tr. ingl. Richard Miller,
New York, Hill & Wang, 1976, pp. 31-37; [tr. it. Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso,
Torino, Einaudi, 1977].

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190 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

scrittura di Sade è «connessa strutturalmente al crimine e al sesso», come


10
ha detto Roland Barthes , allora il lavoro di Masoch rivela un modello
formale e narrativo strutturalmente connesso all’auto-umiliazione e al desi-
derio pre-edipico.
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Le strutture formali dell’estetica masochista – fantasia, disconosci-


mento, feticismo e suspense – coincidono con le strutture primarie che
consentono al cinema narrativo classico di produrre piacere visivo. Queste
somiglianze toccano questioni fondamentali sulla relazione del piacere
cinematografico con il masochismo, la differenziazione sessuale, i processi
di identificazione, la rappresentazione del femminile nel cinema e altri temi
in cui il modello derivato dalla teoria di Deleuze offre una radicale
alternativa a quegli assunti freudiani che sono stati adottati dalla maggior
parte della teoria filmica psicoanalitica.
La questione chiave è: perché rimpiazzare la linea di pensiero rappre-
sentata da Christian Metz e Laura Mulvey, con il suo accento sulla
somiglianza tra le strutture del sadismo e del piacere visivo, con un’enfasi
sulla relazione masochistica con il piacere visivo? Quali sono i vantaggi?
Ponendo l’accento sul periodo pregenitale nello sviluppo del desiderio
e dell’identità sessuale piuttosto che sulla fase fallica enfatizzata negli studi
di Freud, una valutazione di estetica e cinema masochista sposta l’atten-
zione a uno stadio della vita psicosessuale che è stato una determinante
trascurata nel modello “sadico” del pubblico cinematografico. Il “modello
masochista” rifiuta una posizione che ha posto l’enfasi sulla fase fallica e sul
piacere del controllo o del dominio e perciò offre un’alternativa ai rigidi
modelli freudiani che hanno dimostrato di essere un punto morto per la
teoria femminista-psicoanalitica. Nel cercare di arrivare a un accordo con la
società patriarcale e con il cinema come costrutto di quella società, il
corrente discorso teorico ha spesso inavvertitamente ridotto la complessità
psicoanalitica del pubblico attraverso un fallocentrismo regressivo che
ignora un più ampio raggio di influenze psicologiche sul piacere visivo.
L’approccio presentato qui mette insieme due linee di lavoro teorico
precedentemente separate: (1) l’analogia riscontrata da Jean-Louis Baudry e
Robert Eberwein tra l’apparato cinematografico e lo schermo del sogno del
11
periodo orale dell’infanzia e (2) la valutazione della rappresentazione del
femminile, dell’identificazione e del pubblico sessualmente differenziato

10
Roland Barthes, Sade/Fourier/Loyola, cit., p. 34.
11
Jean-Louis Baudry, The Apparatus, «Camera Obscura», vol. 1, autunno 1976, pp. 105-126;
Robert Eberwein, Reflection on the Breast, «Wide Angle», vol. 4, n. 3, 1981, pp. 48-53.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 191

nelle teorie di Laura Mulvey, Claire Johnston, Mary Ann Doane e di altri12.
Il “modello masochista” potrebbe essere visto come un tentativo di usare il
primo approccio per rivolgersi ai temi dell’ultimo.
Freud ha affrontato la questione del masochismo in numerosi saggi; le
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sue opinioni sulla perversione sono cambiate nel corso degli anni, ma è
stato coerente nella sua convinzione che il conflitto edipico fosse la causa
della perversione. La colpa e l’ansia di castrazione del padre spingono il
bambino maschio ad assumere una posizione passiva per placare il padre e
ottenere il suo amore. Essere picchiati dal padre (o la femmina che fornisce
al padre il travestimento nella fantasia conscia) era «non solo la punizione
per la relazione genitale vietata con la madre, ma anche un sostituto
regressivo per essa». La punizione acquisiva «eccitazione libidinale» e «qui»,
13
dichiarava Freud, «abbiamo l’essenza del masochismo» . Freud ha svilup-
pato una teoria del masochismo come impulso primario che esprime
l’Istinto di Morte, ma era continuamente spinto a riaffermare la comple-
mentarità di masochismo e sadismo. Egli affermava che, nel primo, l’accre-
sciuto sadismo del superego fosse conservato nella libido con l’ego come
14
“vittima”. Nel sadismo l’Istinto di Morte era deviato verso l’esterno .
Deleuze crede che le attività del superego/ego di sadismo e masochi-

12
Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», vol. 16, autunno 1975,
pp. 6-18; [tr. it. Piacere visivo e cinema narrativo, «Nuova dwf», n. 8, luglio-settembre 1978, pp.
26-41]. Claire Johnston, Note’s on Women’s Cinema, London, Society for Education in Film
and Television, 1973, pp. 2-4; Mary Ann Doane, Misrecognition and Identity, «Cinè-Tracts»,
vol. 3, autunno 1980, pp. 25-32; Mary Ann Doane, Film and the Masquerade: Theorising the
Female Spectator, «Screen», vol. 23, settembre-ottobre 1982, pp. 74-87; [tr. it. Cinema e
mascheramenti: per una teoria della spettatrice, in Giuliana Bruno e Maria Nadotti (a cura di),
Immagini allo schermo. La spettatrice e il cinema, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, pp. 63-82;
ora, con il titolo Il film e la mascherata: teorie sulla spettatrice, in Mary Ann Doane, Donne
Fatali, Parma, Pratiche, 1995, pp. 21-43].
13
Sigmund Freud, A Child is Being Beaten, (1919) in Philip Rieff (a cura di), Sex and the
Psychology of Love, New York, Macmillan, Collier Books, 1963, p. 117; [tr. it. Un bambino
viene picchiato: contributo alla conoscenza dell’origine delle perversioni sessuali, in Sigmund Freud,
Opere, vol. IX, Torino, Bollati Boringhieri, 1966-1980]. Vedi The Economic Problem in
Masochism, in General Psychological Theory: Papers on Metapsychology, Philip Rieff (a cura di),
New York, Macmillan, Collier Books, 1963, pp. 190-93; [tr. it. Il problema economico del
masochismo (1924), in Opere, cit., vol. X], per il primo saggio di Freud ad usare la teoria
dell’istinto di morte come un modo di affrontare i dilemmi clinici e teoretici. Vedi anche
Instincts and Their Vicissitudes, (1915) in General Psychological Theory, p. 25, e Three Essays on
the Theory of Sexuality, Standard Edition of the Complete Psychological Works, James Strachey (a
cura di), London, Hogarth Press, 1953-66, vol. 7, pp. 159-61; [tr. it. Pulsioni e loro destini (vol.
VIII) e Tre saggi sulla teoria sessuale (1905, vol. IV), in Opere, cit.].
14
Sigmund Freud, The Economic Problem in Masochism, cit., pp. 190-191.

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192 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

smo siano completamente differenti, ma, più importante per uno studio di
masochismo e cinema, egli fa della madre la determinante primaria nella
15
struttura della fantasia masochistica e nell’eziologia della perversione .
Contemporaneamente oggetto d’amore e agente di controllo per il bam-
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bino indifeso, la madre è vista come una figura ambivalente durante il


periodo orale. Che sia dovuto all’esperienza del bambino di un trauma
reale, come asserisce Bernhard Berliner, o alla narcisistica insaziabilità della
richiesta propria del bambino, il piacere associato alla madre orale nel
16
masochismo è legato al bisogno della sofferenza . La fantasia masochistica
per sua stessa natura non può appagare il suo desiderio più originario –
«l’unità duale e la completa simbiosi tra il bambino e la madre» – eccetto
17
che nell’immaginazione . Come conseguenza, la morte diventa la soluzione
di fantasia per il desiderio masochistico.
La madre assume la propria autorità nel masochismo sulla base dell’im-
portanza che lei stessa riveste per il bambino, non, come sosteneva Freud,
perché la figura del padre deve essere “nascosta” dietro di lei per sviare le
implicazioni omosessuali della fantasia del soggetto maschile. Roy Schafer
individua nella paura del bambino di perdere la madre la fonte primaria
18
della sua autorità .
Radicato nella paura di essere abbandonato dalla madre, il masochismo
ricrea ossessivamente il movimento tra la dissimulazione e la rivelazione, la

15
Gilles Deleuze, Masochism, cit., pp. 50-54. Vedi anche Bernhard Berliner, On Some
Psychodynamics of Masochism, «Psychoanalytic Quarterly», vol. 16, 1947, pp. 459-471; Gustav
Bychowski, Some Aspects of Masochistic Involvement, «Journal of the American Psychoanalytic
Association», vol. 7, aprile 1959, pp. 248-273; E. Bergler, The Basic Neurosis, New York,
Grune and Stratton, 1949, per altri punti di vista che individuano la genesi del masochismo
nella relazione madre/figlio. Vedi Deleuze, Masochism, cit., pp. 111-112, sul superego/ego.
16
Bernhard Berliner, Libido and Reality in Masochism, «Psychoanalytic Quarterly», vol. 9,
1940, pp. 323-326, 333. Deleuze ritiene che la madre orale del masochismo sia la madre
buona che assume le funzioni delle due «cattive madri del masochismo», la madre eterica e
la madre edipica. Nel corso del processo di assunzione, le funzioni vengono sublimate e,
come spiega Deleuze, «questa concentrazione sulla madre orale implica il primo aspetto in
base al quale il padre viene annullato» (p. 55; [tr. it. p. 70]).
17
Gustav Bychowski, Some Aspects of Masochistic Involvement, cit., p. 60. La questione del
perché il dolore sia necessario nella dinamica masochista del piacere è ancora una delle più
controverse in psicoanalisi. Vedi Abram Kardiner, Aaron Karush e Lionel Ovesey, A
Methodological Study of Freudian Theory III: Narcissism, Bisexuality, and the Dual Instinct Theory,
«Journal of Nervous and Mental Disorders», vol. 129, 1959, pp. 215-222. Vedi anche Gilles
Deleuze, Masochism, cit., pp. 108-109.
18
Roy Schafer, The Idea of Resistance, «International Journal of Psychoanalysis», vol. 54,
1973, p. 278.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 193

scomparsa e l’apparizione, la seduzione e il rifiuto. Postulata come «niente


mancante», la madre è alleata con il bambino nel disconoscimento della
distruzione del superego. Deleuze afferma che il superego punitivo del
padre e la sessualità genitale siano simbolicamente puniti nel figlio, che
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deve espiare la sua somiglianza con il padre. Il dolore simbolicamente


espelle il padre e “inganna” il superego. Non è il figlio che è colpevole,
come nella teoria di Freud, ma il padre che tenta di mettersi tra la madre e
19
il figlio . Nella posizione di Deleuze, la paura del padre castrante e la colpa
edipica non possono spiegare la paradossale struttura masochistica di
dolore/piacere. Il suo rifiuto dell’importanza dell’ansia di castrazione per la
formazione della perversione costituisce una revisione della teoria freudiana
che è in accordo con Michael de M’Uzan a Theodore Reik. M’Uzan
deduce dall’osservazione clinica che il masochista «non ha paura di niente,
20
nemmeno della castrazione» . Nel suo lungo studio Masochismo nell’uomo
moderno, in cui elenca dettagliatamente le manifestazioni sociali piuttosto
che quelle sessuali del masochismo, Reik fa una valutazione analoga a
quella di M’Uzan: l’ansia di castrazione non è di basilare importanza
21
nell’eziologia della perversione . Si dovrebbe notare che Deleuze mette il
maschio nella posizione di soggetto fantasticante di questo costrutto. Sotto
questo aspetto, il suo modello potrebbe essere considerato sessista, sebbene
egli noti che la bambina può assumere la stessa posizione in relazione alla
22
madre orale . Il modello di Deleuze può anche essere affrontato da un’altra
prospettiva che lo rende maggiormente applicabile a una considerazione
della risposta spettatoriale al cinema. La fantasia masochistica può essere
vista come una situazione in cui il soggetto (maschio o femmina) assume la
posizione del bambino che desidera di essere controllato all’interno delle
dinamiche della fantasia. La fantasia sadica (sebbene non semplice capovol-

19
Gilles Deleuze, Masochism, cit., p. 95; [tr. it. p. 120]. «Altro esempio, nel masochismo il
senso di colpa gioca un ruolo molto importante, ma come fenomeno di copertura, come
sentimento umoristico di una colpa già “rovesciata”; la colpa non è più quella del figlio verso
il padre, ma quella dello stesso padre, e della somiglianza del padre nel figlio [...] La colpa
viene “masochisticamente” vissuta come già rovesciata, fittizia e ostentatoria [...]». La teoria
di Deleuze – secondo la quale il padre è colpevole – non è cosı̀ insolita come può apparire a
prima vista. Vedi Claude Lévi-Strauss, The Raw and the Cooked, tr. Joahan e Doreen
Weightman, New York, Harper & Row, 1969, p. 48.
20
Michael de M’Uzan, A case of Masochistic Perversion and an Outline of a Theory,
«International Journal of Psycoanalysis», vol. 54, 1973, p. 462.
21
Theodore Reik, Masochism in Modern Man, tr. M. H. Beigel e G. M. Kruth, New York,
Farrar, Straus, 1941, p. 428.
22
Gilles Deleuze, Masochism, cit., pp. 59-60.

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194 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

gimento dell’istinto o dello scopo) è quella in cui il soggetto assume la


posizione del genitore che controlla, che non è alleato con il bambino
(oggetto) in un mutuo accordo sul patto di piacere/dolore, ma esercita
23
(all’interno della fantasia) un potere sadico su una vittima riluttante .
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Il masochismo sovverte le nozioni psicoanalitiche tradizionali riguar-


danti le origini del desiderio umano e i ruoli della madre e del padre nello
sviluppo psichico del bambino. Una teoria del masochismo che enfatizza i
conflitti e i piaceri pre-edipici richiede una considerazione delle risposte al
cinema da parte di spettatori di entrambi i sessi che può entrare in conflitto
con assunti culturali consci sulla differenza sessuale, l’identità di genere e la
separazione dell’identificazione dall’investimento dell’oggetto. Una teoria
del desiderio masochistico interroga anche la complicità della maggior
parte della teoria cinematografica psicoanalitica con il fallocentrismo come
istanza formativa nella strutturazione dell’identità e del piacere scopico.
Essa interroga anche la preminenza di un piacere basato su una posizione
di controllo piuttosto che di sottomissione. Nel suggerire che la madre
orale potrebbe essere la figura primaria dell’identificazione e del potere
nelle manifestazioni cliniche ed estetiche del masochismo, la teoria di
Deleuze del desiderio masochistico sfida la nozione che il piacere scopico
maschile debba essere incentrato sul controllo – mai sull’identificazione con
o sulla sottomissione al femminile.
Questo articolo è tratto da un lungo studio sui film di Josef Von
Sternberg che utilizza una pratica critica per esaminare l’estetica masochista
nel cinema e la relazione tra gli elementi formali dell’estetica, le psicodina-
miche dei film, e le forme specifiche del piacere visivo. Con i suoi maschi
masochisti remissivi, la madre orale incarnata nella presenza ambivalente e
seducente di Marlene Dietrich e la sua sessualità ambigua che è stata spesso
24
collegata al “sadomasochismo” e alla “degradazione” , la collaborazione
Von Sternberg/Dietrich si offre come caso primario di studio dell’estetica
masochista nel cinema.
All’interno del contesto della critica postmoderna al realismo, i film di
Von Sternberg sono diventati il centro di un interesse crescente. Essi sono
la creazione di una bellezza visuale e di una sessualità sublimi, chiaroscuro

23
Vedi Victor Smirnoff, The Masochistic Contract, «International Journal of Psycho-
analysis», vol. 50, 1969, pp. 666-671, per un’analisi del masochismo pesantemente indebitata
con il lavoro di Deleuze, ma che riduce il ruolo del dolore e enfatizza quello dell’alleanza
contrattuale nella perversione. Io stessa devo ammettere il mio debito nei confronti di
Marsha Kinder per avermi suggerito questo sviluppo del modello di Deleuze.
24
Robin Wood, Venus de Marlene, «Film Comment», vol. 14, marzo-aprile 1978, p. 60.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 195

irreale ed eccesso decorativo soffocante costituiscono lo sfondo di un


melodramma pervaso da una sessualità diffusa. Come numerosi critici
hanno osservato, i film sono poetici ma non simbolici, melodrammatici e
persino tragici, ma segnati da uno humour distaccato e ironico. In queste
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narrazioni dominate dalla passione, persino la passione assume una fred-


dezza stranamente distanziante. I film interpretati da Marlene Dietrich
aggiungono il paradosso della femmina splendida ma androgina che è
contemporaneamente morale e amorale, assolutamente autentica ma irri-
mediabilmente decadente.
Come risultato dei multipli strati di paradossi, dell’affascinante ambi-
guità dell’emozione e della bellezza visuale quasi trascendente, i film di Von
Sternberg hanno ripetutamente stimolato tentativi di spiegare la loro strut-
tura e il loro significato. Essi sono stati utilizzati altrettanto di frequente
come esempi nei trattati teorici che si occupano della rappresentazione del
femminile nel cinema narrativo o di questioni riguardanti le determinanti
inconsce del piacere visivo.
Tra i saggi più importanti c’è l’articolo di Laura Mulvey, Piacere visivo e
cinema narrativo, una pietra miliare, che usa i film di Von Sternberg per
illustrare il concetto di scopofilia feticista. Per lei Morocco (Marocco) di Von
Sternberg è tipico di uno stile visuale e di una struttura narrativa che
intrappola la donna nella condizione dell’«essere-guardata», di esibizioni-
smo passivo che opprime le donne a beneficio degli scopi feticisti del
patriarcato. Mulvey considera un tale feticcio femminile «rassicurante anzi-
25
ché pericoloso» . Sebbene sottoscriva la tesi di Mulvey, Mary Ann Doane
ha fatto riferimento all’immagine di Dietrich in quanto esemplificativa
dell’«eccesso di femminilità [...] associato alla femme fatale [...] e [...] necessa-
26
riamente considerato dagli uomini come l’incarnazione del male» .

25
Laura Mulvey, Visual Pleasure, cit., p. 14; [tr. it. p. 35].
26
Mary Ann Doane, Film and the Masquerade, cit., p. 82; [tr. it. p. 34]. Doane si riferisce
all’immagine di Dietrich come artista di teatro. Si serve delle osservazioni di Sivia Boven-
schen in Is There a Feminine Aesthetic?, «New German Critique», vol. 11, inverno 1977, p.
130, e le usa per supportare le sue considerazioni sulla femminilità eccessiva. In realtà
Bovenschen associa Dietrich ad un «understatement intellettuale» e allude al fatto che sia
diventata un «mito» nonostante «il suo sottile disprezzo per gli uomini». La complessità
dell’immagine di Dietrich nella discussione di Bovenschen non avalla l’uso che Doane fa
delle sue dichiarazioni per associare Dietrich a «un eccesso di femminilità». David Davidson
ha collocato il personaggio di Lola interpretato da Dietrich in The Blue Angel (L’angelo
azzurro) all’interno della tradizione della «donna amorale». Egli fa alcune osservazioni
interessanti sulla sessualità «minacciosa» di questi personaggi femminili in relazione alla
teoria di Mulvey.

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196 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Contrariamente a Doane, ciò che viene notato più spesso è il carattere


androgino di Dietrich e Carole Zucker ha sostenuto (dandone prova) che
la moralità di Dietrich viene «incredibilmente esaltata» nei film di Von
27
Sternberg . Si aggiunge alla controversia il tentativo di Robin Wood di
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confutare l’analisi di Laura Mulvey del ruolo della donna nella strategia
narrativa e nello stile visivo dei film. Egli sostiene che Von Sternberg sia
«pienamente consapevole» della posizione della femmina come oggetto
dello sguardo maschile e in Blonde Venus (Venere bionda) se ne serva come
28
di un «tema articolato» piuttosto che di un prodotto finito . Comunque,
egli non ha confutato la fondamentale premessa di Mulvey: che il piacere
visivo nel cinema narrativo classico è basato sui meccanismi del complesso
di castrazione.
Piuttosto che sviluppare un’analisi testuale dettagliata, questo esame di
estetica masochista e cinema esplora le implicazioni teoriche più vaste del
masochismo in relazione al piacere visivo. Esaminerò brevemente queste
implicazioni in relazioni a cinque questioni cruciali: (1) la donna definita
come mancanza, (2) lo sguardo maschile definito dal controllo, (3) la causa
e la funzione del disconoscimento e del feticismo, (4) lo schermo del sogno
e (5) l’identificazione, in particolare l’identificazione con il sesso opposto.

La donna come mancanza


La donna in quanto immagine cinematografica viene spesso considerata
come un piacere spettatoriale ambivalente per il maschio perché rappre-
senta la possibilità della castrazione. Rappresenta la differenza, il non fallo,
la mancanza. Senza dubbio, la tensione tra attrazione e paura è un’ambiva-
lenza che sottende a gran parte della rappresentazione cinematografica del
femminile, ma è una semplificazione eccessiva ridurre l’intera espressione
29
della donna al significato fallico .

27
Carole Zucker, Some Observations on Sternberg and Dietrich, «Cinema Journal», vol. 19,
primavera 1980, p. 21. La posizione ambivalente del masochismo nei confronti del femmi-
nile garantisce la sua alternanza tra freddezza e partecipazione, sacrificio e tortura, ma, come
mette in evidenza Deleuze, la donna nello scenario masochistico non è sadica, ma «incarna
l’elemento del “far soffrire” in una prospettiva esclusivamente masochista» (p. 38; [tr. it. p.
46]). Raramente la femmina sessualizzata è giudicata colpevole nei film di Von Sternberg,
ma è rappresentativa del superego e del padre.
28
Robin Wood, Venus de Marlene, cit., p. 61.
29
Claire Pajaczkowska articola questo punto in The Heterosexual Presumption: A Contribu-
tion to the Debate on Pornography, «Screen», vol. 22, 1981, p. 86.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 197

Nel masochismo, la madre non è definita né come mancanza né come
“fallica” rispetto a un semplice trasferimento del simbolo del potere del
maschio. Essa è potente di per se stessa perché possiede ciò che manca al
30
maschio – il seno e il grembo . Nutrice attiva, prima fonte d’amore e
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oggetto del desiderio, primo ambiente e agente di controllo, la madre orale


del masochismo assume tutte le funzioni simboliche. Parallelo alla sua
idealizzazione c’è un degradante disconoscimento del padre. «Il padre non
31
è nulla», afferma Deleuze, «vale a dire è privo di ogni funzione simbolica» .
L’obiettivo fantastico del bambino, cioè quello della rifusione e della
completa simbiosi con la madre, è necessariamente informato dall’ambiva-
lenza. Anche la promessa di una meravigliosa reincorporazione nel corpo
della madre e di una rifusione dell’ego narcisistico del bambino con la
madre come ego ideale è una minaccia. Solo la morte può essere una
soluzione mistica finale per l’espiazione del padre e per l’unione simbiotica
con il ruolo materno idealizzato. Il masochista immagina il trionfo finale di
32
una rinascita partenogenetica dalla madre . Deleuze associa la madre orale
buona del masochismo con «l’ideale di freddezza, di sollecitudine e di
33
morte», gli estremi mitici che cristallizzano la sua ambivalenza . La donna
riflette la fantasia del bambino desiderante che considera la madre insieme
sacra e profana, amorevole e respingente, mobile in modo frustrante eppure
essenza della stabilità ritmica e della immobilità. Nella sospensione maso-
chistica della finale “gratificazione” della morte, il ritorno ossessivo al
momento della separazione dalla madre orale deve essere rimesso in scena
continuamente come il masochistico gioco del desiderio del fort/da che è il
34
punto d’incontro tra fantasia e azione . La ripetizione masochistica so-

30
Gilles Deleuze, Masochism, cit., p. 56. Sebbene l’agente materno possa essere considerato
un ruolo socialmente determinato piuttosto che strettamente biologico, questa definizione
alternativa non sembra appropriata a questa particolare applicazione di Deleuze e della
ricerca pregenitale. È stato indicato, in modo interessante, che nello stadio pregenitale la
differenza sessuale non è un problema per il bambino eccetto che nei termini di seno/non
seno.
31
Ivi, p. 56; [tr. it. p. 71].
32
Ivi, pp. 80-81; Gustav Bychowski, Some Aspects of Masochistic Involvement, cit., p. 260.
33
Ivi, p. 49; [tr. it. p. 61]; La donna nello scenario masochistico è una femme fatale, ma di
tipo molto particolare. Il pericolo che lei rappresenta soppianta il suo ritratto come femmina
“amorale” e sessualizzata che minaccia il controllo sociale. Il “mistero” della femme fatale del
masochismo è il mistero del grembo, della rinascita e del vincolo simbiotico del bambino
con la madre. Lei rappresenta l’unità dialettica tra liberazione e morte, il legame tra Eros e
Thanatos che colloca il primo al servizio dell’ultimo.
34
Vedi Kaja Silverman, Masochism and Subjectivity, «Framework», vol. 12, 1980, p. 2. La
discussione di Silverman sull’uso masochistico del gioco del fort/da è molto valida; comun-

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198 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

stiene la paradossale struttura dolore/piacere delle psicodinamiche della


perversione e riflette l’attento controllo del desiderio cosı̀ necessario per
sostenere lo scenario masochistico proprio quando esso esprime l’aspetto
compulsivo della fissazione nella sessualità infantile. Non tenendo conto
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delle richieste del tabù dell’incesto, del complesso di castrazione e dell’in-


gresso nella sessualità genitale, il masochismo è un desiderio “sovversivo”
che assicura l’efficace potere della madre pre-edipica in quanto attrazione
più intensa della forza “normalizzante” del padre che minaccia l’alleanza tra
madre e figlio.
La ripetizione della perdita, della sofferenza, non dissuade o confonde il
desiderio masochistico ma lo infiamma, come è dimostrato graficamente in
The Devil is a Woman (Capriccio spagnolo) di Von Sternberg. La salute
distrutta, la carriera rovinata dal suo coinvolgimento con la «più pericolosa
donna vivente», Don Pasquale afferma di non aver ottenuto alcun “piacere”
descrivendo al suo amico Antonio il suo cammino verso la rovina. Alla fine
è in realtà evidente che egli non solo si diverte a raccontare la sua storia,
ma il fatto stesso di ripeterla fornisce la spinta per una ripresa del suo
inseguimento masochistico di Concha Perez. Egli fa in modo di farsi
uccidere in duello per soddisfare il desiderio di Concha per un altro uomo
(Antonio). Steso sul letto di morte, ottiene ciò che più desidera, Concha e
la Morte, fuse insieme, entrambe ancora sospese, promesse, ma tenute per
sé. L’eterno atteggiamento masochista della sofferenza sospesa e lasciata in
attesa è mantenuto in tutta la sua assurdità tragica e comica fino alla fine
del film, l’ultimo della collaborazione Von Sternberg/Dietrich.
L’ambivalenza della separazione/unione dalla madre, formalizzata nella
ripetizione e sospensione masochistica, è un’ambivalenza condivisa da tutti
gli esseri umani. A differenza della visione freudiana delle dinamiche
familiari, in cui la madre ha uno scarso impatto psicologico sullo sviluppo
del figlio, Deleuze, Schafer, Robert Stoller, Nancy Chodorow e Janine
Chasseguet-Smirgel considerano l’influenza e l’autorità della madre come
fattori primari nella crescita del bambino. La visione che il bambino ha
della donna potente, amata ma minacciosa durante lo stadio pre-edipico
non viene cancellata del tutto dagli stadi successivi della vita – incluso il

que, non posso essere d’accordo con le sue generalizzazioni su piacere culturale/dispiacere
istintivo o con la sua lettura di Freud (specialmente riguardo al trasferimento dell’impulso
espressione a un impulso contrario). Silverman suggerisce anche l’idea che il feticismo sia
collegato all’identificazione (p. 6), una nozione abbastanza importante da indagare in
dettaglio.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 199

passaggio del maschio attraverso il complesso di castrazione35. Hans Loe-


wald suggerisce che, mentre l’identificazione con la potente madre pre-
edipica è fondamentale per l’organizzazione della realtà individuale del-
36
l’ego, questa stessa identificazione è la «fonte del terrore più profondo» .
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Jeanine Chasseguet-Smirgel arriva al punto di suggerire che il disprezzo per


le donne che Freud credeva fosse un’inevitabile reazione maschile alla
percezione della “castrazione” femminile è in realtà una risposta patologica
37
e difensiva nei confronti del potere materno .
Nel ritornare alle fantasie che hanno avuto origine nella fase orale della
crescita, l’estetica masochista apre il cinema nel suo complesso all’esistenza
di piaceri spettatoriali separati dalle istanze della castrazione, della diffe-
renza sessuale e della mancanza femminile. La teoria corrente ignora il
piacere della sottomissione che è filogeneticamente più antico del piacere
del dominio – per entrambi i sessi. Nel masochismo, come nello stadio
infantile della dipendenza inerme che segna la sua origine, il piacere non
coinvolge il dominio del femminile ma la sottomissione ad esso. Questo
piacere si applica al bambino, al masochista e anche allo spettatore cinema-
tografico. La teoria psicoanalitica cinematografica deve reintegrare la po-
tente immagine materna che viene considerata come una «memoria
schermo» complessa e piacevole sia per gli spettatori che per le spettatrici,
38
persino nella società patriarcale . Come asserisce Janine Chasseguet-
Smirgel:

35
Roy Schafer, The Idea of Resistance, cit., p. 278. Vedi anche Robert Stoller, Sexual
Excitement, New York, Simon and Schuster, 1979; Nancy Chodorow, The Reproduction of
Mothering: Psychoanalysis and the Sociology of Gender, Berkeley, University of California Press,
1978; Joyce Trebilcot (a cura di), Mothering: Essays in Feminist Theory, Totowa/New Jersey,
Rowman & Allanheld, 1984. Mentre la mia breve analisi di Freud in questo articolo
necessita di una generalizzazione sulla sua posizione nei confronti delle donne, dovrebbe
essere notato che egli considera l’influenza della madre, ma, come dimostrano le sue teorie
sul masochismo e su varie altre sintomatologie, il padre, l’invidia del pene, la paura di
castrazione, e l’enfasi sulla fase fallica (e il corrispondente disinteresse nelle fasi pre-edipica e
genitale) effettivamente destituiscono la madre dal suo compito. Vedi Viola Klein, The
Feminine Character: History of an Ideology, New York, International Universities Press, 1949.
36
Hans Loewald, Papers on Psychoanalysis, New Haven, Yale University Press, 1980, p.
165.
37
Janine Chasseguet-Smirgel, Freud and the Female Sexuality: The Consideration of Some
Blind Spots in the Exploration of the Dark Continent, «International Journal of Psychoanalysis»,
vol. 57, 1976, p. 196.
38
Robert Dickes esamina il feticcio come “memoria schermo” in Fetishistic Behavior: A
Contribution to Its Complex Development and Significance, «Journal of the American Psychoana-
lytic Association», vol. 11, 1963, pp. 324-330. Vedi anche Anneliese Riess, The Mother’s Eye:
For Better and for Worse, «The Psychoanalytic Study of the Child», vol. 33, 1978, pp. 381-405.

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200 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

ora la rappresentazione della donna nella teoria freudiana e` esattamente l’oppo-


sto dell’immagine materna primaria risultante dal materiale clinico di en-
trambi i sessi [...] le contraddizioni [...] nel lavoro di Freud sul problema
del monismo sessuale fallico e delle sue conseguenze, ci costringono a
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notare più da vicino questa incompatibilità tra la donna descritta da Freud


e la madre conosciuta dall’Inconscio [...] Se sottovalutiamo l’importanza
delle nostre relazioni più precoci e del nostro investimento sull’immagine
materna, ciò significa che permettiamo alla legge paterna di predominare
39
e che siamo in fuga dalla nostra dipendenza infantile .

La paura della castrazione e la percezione della differenza sessuale non


hanno importanza nella formazione del desiderio masochistico di una
completa simbiosi con la madre. Le polarità di mancanza femminile/fallo
maschile e la visione ristretta in base alla quale la donna nel cinema può
funzionare solo come l’oggetto di un possesso spettatoriale maschile sadico
devono aprirsi ad altre considerazioni.
La donna nell’estetica masochista è più che l’oggetto passivo del
desiderio maschile del possesso. È anche una figura dell’identificazione, la
madre della pienezza il cui sguardo incontra quello del bambino quando
rivendica la sua presenza e il suo potere. L’espressione di Von Sternberg
dell’estetica masochista nel cinema offre un’immagine complessa della
donna in cui questa è l’oggetto dello sguardo ma anche la detentrice di uno
sguardo “che controlla” che trasforma il maschio in un oggetto da “essere-
guardato”. In Marocco, il soldato semplice Tom Brown (Gary Cooper), un
noto “dongiovanni”, è ridotto nella posizione “femminile” passiva di og-
getto dello sguardo valutativo e sicuro di Amy Jolly. Amy gli getta una
rosa, che Brown porta poi dietro l’orecchio.
Operando all’interno dei limiti del patriarcato, il personaggio di Die-
trich in questi film mostra la sua abilità di affascinare a conferma di ciò che
Michel Foucault ha chiamato «potere che afferma se stesso attraverso il
piacere dell’esibizionismo, dello scandalo, o della resistenza»40. In risposta

39
Janine Chasseguet-Smirgel, Freud and the Female Sexuality, cit., p. 281. Ethel Spector
Person ha suggerito che la dipendenza infantile può essere la chiave per le relazioni di
potere nella sessualità: «i limiti alla “liberazione” sessuale, cioè liberazione dalle contamina-
zioni del potere, non si fondano sulla natura biologica della sessualità, o su programmi
culturali o politici, e certamente non sulla differenza sessuale, ma poggiano sulla condizione
universale della dipendenza infantile» (p. 627). Vedi Sexuality as the Mainstay of Identity:
Psychoanalytic Perspective, «Signs», vol. 5, estate 1980.
40
Michel Foucault, The History of Sexuality vol. I: An Introduction, tr. ingl. Robert Hurley,

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 201

allo sguardo maschile, Dietrich risponde allo sguardo o lo promuove.


Questo semplice fatto contiene il potenziale per mettere in dubbio la sua
oggettificazione.
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Lo sguardo
Mentre i piaceri dell’apparato cinematografico inteso come schermo del
sogno sono stati associati da Jean-Louis Baudry e Robert Eberwein al
piacere della fase orale, i piaceri della visione dell’immagine femminile al
cinema sono stati immancabilmente connessi alla fase fallica, al complesso
di castrazione e ai conseguenti “bisogni” fisiologici dello spettatore ma-
schio.
La struttura dello sguardo è uno degli elementi più importanti nella
definizione del piacere visivo. Secondo Laura Mulvey, il film narrativo è
fatto per il piacere del solo spettatore maschio, che possiede “indiretta-
mente” la donna attraverso lo sguardo, o piuttosto lo scambio di sguardi
creato dalla macchina da presa, lo sguardo della star maschile e lo sguardo
dello spettatore stesso. La donna sopporta il «peso del desiderio maschile»,
che è «nato con il linguaggio». Ella cristallizza il paradosso del «momento
traumatico» della nascita del desiderio – il complesso di castrazione, perché
lei rappresenta la differenza sessuale. Lo spettatore maschio sfugge all’ansia
di castrazione evocata dall’immagine femminile sia attraverso il voyeurismo
sadico (demistificando il femminile), sia attraverso la scopofilia feticistica.
Quest’ultima, un «completo disconoscimento della castrazione», trasforma
41
la donna in un feticcio, il significante del fallo assente . Il modello determi-
nistico e polarizzato di Mulvey porta la sua teoria del piacere visivo a un
cruciale “punto cieco” che è stato messo in evidenza da D. N. Rodowick. In
The Difficulty of Difference, Rodowick afferma che Mulvey evita le logiche
conseguenze della sua stessa teoria che richiederebbero di accoppiare
masochismo, sottomissione passiva all’oggetto e scopofilia feticistica. A
causa della «natura politica della sua tesi», conclude Rodowick, Mulvey non
può ammettere che lo sguardo maschile contenga elementi passivi e possa
significare sottomissione alla piuttosto che possesso della donna42.

New York, Pantheon Books, 1978, pp. 108-109; [tr. it. La volontà di sapere, Milano,
Feltrinelli, 1988].
41
Laura Mulvey, Visual Pleasure, cit., pp. 13-14; [tr. it. pp. 32-35].
42
David W. Rodowick, The Difficulty of Difference, «Wide Angle», vol. 5, n. 1, 1982,
pp. 7-9.

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202 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Nell’escludere una possibile posizione spettatoriale maschile informata


dal masochismo, Mulvey è costretta a ridurre lo sguardo maschile a uno
sguardo che considera la donna solo come un significante della castrazione
o un oggetto di possesso. Nel ridurre il piacere spettatoriale ai meccanismi
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del complesso di castrazione, Mulvey non tiene in nessun conto neanche


dell’esistenza dei desideri e delle ambivalenze pre-edipici che giocano un
ruolo nella genesi della scopofilia e del feticismo, come anche del masochi-
smo. Nel costrutto di Mulvey di polarità immutabili, la donna «può esistere
solo in rapporto alla castrazione»; lei non è né la «portatrice della colpa» né
43
il «prodotto perfetto» .
Il piacere cinematografico è più vicino al piacere scopico masochistico
che a quello sadico e di controllo privilegiato da Mulvey e anche da
Christian Metz. In Il significante immaginario di Metz, la separazione voyeu-
ristica del soggetto dall’oggetto dello schermo è usata per associare lo
spettatore al sadismo. «Il desiderio voyeurista, insieme al sadismo in certe
sue forme», osserva Metz, «è il solo che, per il suo principio di distanza,
procede a una evocazione simbolica e spaziale di questa frattura fondamen-
tale». Metz ritiene che tutto il voyeurismo sia in una certa misura sadico e
compara il voyeurismo cinematografico a una «scopofilia non autorizzata»
44
e al suo prototipo, il bambino di fronte alla scena primaria .
Al contrario di Metz, Jean Laplanche ha mostrato come la posizione
spettatoriale nello sguardo primario sia associata al masochismo, non al
sadismo. Laplanche considera il masochismo una «fantasia fondamentale».
Egli compara la posizione del bambino a quella di «Ulisse legato all’albero
di Tantalo, al quale è imposto lo spettacolo dei rapporti sessuali dei
genitori». Corrispondente al turbamento del dolore c’è l’«eccitazione sim-
patetica [...], la posizione passiva del bambino [... che] non è semplicemente
passività in relazione all’attività dell’adulto, ma passività in relazione alla
45
fantasia dell’adulto che si introduce dentro di lui» .
Parallela alla descrizione di Laplanche della scena primaria è quella in
Ricordi d’infanzia e riflessioni sul romanzo di Masoch. A dieci anni Leopold
Von Sacher Masoch, nascosto nell’armadio della camera da letto di sua zia,

43
Laura Mulvey, Visual Pleasure, cit., pp. 11, 14; [tr. it. pp. 27, 36].
44
Christian Metz, The Imaginary Signifier, tr. ingl. Celia Britton, Annwyl Williams, Ben
Brewster, Alfred Guzzetti, Bloomington, Indiana University Press, 1982, pp. 59-63; [tr. it. Il
significante immaginario, in Id. Cinema e psicanalisi, Venezia, Marsilio, 1997, pp. 64-69].
45
Jean Laplanche, Life and Death in Psychoanalysis, tr. ingl. Jeffrey Mehlman, Baltimore,
Johns Hopkins University Press, 1976, p. 102; [tr. it. Vita e morte nella psicanalisi, Bari,
Laterza, 1972].

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 203

sente sua zia che accoglie il suo amante: «non capivo cosa si dicessero,
ancora meno cosa facessero; ma sentivo il mio cuore battere con forza,
perché mi rendevo perfettamente conto della situazione in cui mi trovavo
[...]». Il marito interrompe l’incontro degli amanti. Madame Zenobia inizia
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a picchiarlo. Poi scopre Leopold e lo frusta. «Devo riconoscere», scrive


Masoch, «che, contorcendomi sotto i colpi crudeli della bella donna, provai
46
una sorta di piacere» . Non è un caso che anche nei film di Von Sternberg
ci siano numerose scene che evocano la situazione del bambino che guarda
o ascolta i rapporti sessuali dei genitori. In Shanghai Express (Id.), Doc
Harvey origlia le “trattative” tra Lily e il perfido generale Chang. Come il
bambino passivo che vede/ascolta la scena primaria e fantastica sia di
essere scoperto che punito, Doc rischia di essere punito per la sua curiosità
e il suo desiderio: il generale Chang decide di accecarlo. In The Scarlet
Empress (L’imperatrice Caterina), Alexei ama Caterina ma è costretto da lei a
preparare la camera da letto reale per l’arrivo del suo amante, il generale
Orloff. Alexei assume il ruolo del bambino-spettatore.
Se i romanzi di Sade sono presi come prototipi delle relazioni sadiche
con gli oggetti, allora è ovvio che il sadico sia spinto a consumare o a
distruggere l’oggetto per provocarsi direttamente il piacere dell’orgasmo.
Questa negazione non può essere esercitata soltanto attraverso lo “sguardo”
sadico – lo sguardo attivo. L’orgasmo non è l’obiettivo del masochista che
è legato al regime della sessualità pregenitale. Gli eroi di Masoch si sentono
sempre svenire prima dello stupendo momento della consumazione. Col-
mare lo scarto tra il soggetto masochista desiderante e l’oggetto, in realtà,
minaccia la gratificazione narcisistica del masochista che «non dà nulla» e
47
non può sopportare l’«ansia [di dare] che deve accompagnare l’orgasmo» .
Il desiderio masochistico dipende dalla separazione che garantisce la strut-
tura del suo desiderio ambivalente. Colmare lo scarto, superare la separa-
zione dalla madre, appagare il desiderio, raggiungere l’orgasmo significa
morte. La convenuta, mutua alleanza della relazione masochista garantisce
la distanza/separazione. Diversamente dal sadismo, che dipende da azione
e gratificazione immediata, il masochismo assapora suspense e distanza.
Lo spettatore di fronte allo schermo del sogno cinematografico regredi-
sce a uno stadio di oralità simile a quello del masochista e fa anche

46
Leopold Von Sacher-Masoch, A Childhood Memory and Reflection on the Novel, appen-
dice prima in Gilles Deleuze, Masochism, cit., pp. 232-233; [tr. it. pp. 152-153].
47
Sylvan Keiser, Body Ego During Orgasm, «Psychoanalytic Quarterly», vol. 21, aprile 1952,
pp. 160, 103.

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204 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

esperienza di una perdita del confine dell’ego-corpo. Il piacere spettatoriale


è limitato come quello infantile ed extragenitale che caratterizza il masochi-
sta. Come il masochista, ma diversamente dal sadico, per rimanere all’in-
terno dei confini del pubblico normale e non diventare, come dice Stephen
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48
Heath, «un vero voyeur» , lo spettatore deve evitare la relazione orgasmica
che effettivamente distruggerebbe i confini del disconoscimento e interrom-
perebbe il pensiero magico che definisce l’uso orale, infantile e narcisistico
che lui/lei fa dell’oggetto cinematografico. L’onnipotenza narcisistica dello
spettatore è come l’onnipotenza narcisistica e infantile del masochista, che
in definitiva non può controllare il partner attivo. Immobile, avvolto dal
buio, lo spettatore diventa l’oggetto recettore passivo che è anche soggetto.
Lo spettatore deve comprendere le immagini, ma le immagini non possono
essere controllate. A questo livello di piacere lo spettatore riceve, ma non
vengono avanzate rivendicazioni riguardo agli oggetti.

Feticismo e disconoscimento
L’estetica masochista rappresenta un ambito cruciale per lo sviluppo di una
critica delle teorie del piacere visivo imperniata sul ruolo dell’angoscia di
castrazione nella formazione del piacere spettatoriale maschile. Il masochi-
smo non viene associato all’angoscia di castrazione, mentre il feticismo è
una parte integrante delle sue dinamiche. Il disconoscimento e il feticismo,
le due matrici comuni del masochismo e del piacere spettatoriale cinemato-
grafico, non sempre riflettono il trauma psichico della castrazione e della
differenza sessuale definita come mancanza femminile.
La recente ricerca psicoanalitica sul periodo preedipico indica che il
disconoscimento e il feticismo sono operativi molto ma molto prima dello
stadio fallico e non funzionano necessariamente come difesa contro l’ansia
di castrazione. Di particolare importanza per lo studio del piacere visivo e
del masochismo è il punto di vista secondo cui il feticismo e il masochismo
testimoniano il bisogno prolungato dell’identificazione primaria con la
49
«madre preedipica onnipotente» . Se la relazione madre/bambino viene
disturbata quando i confini del corpo del bambino non sono ben stabiliti, il

48
Stephen Heath, Questions of Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1981, p.
189.
49
P. J. Van der Leeuw, The Preoedipal Phase of Male, «The Psychoanalytic Study of the
Child», vol. 13, 1958, p. 369. Vedi anche Robert C. Bak, Fetishism, «Journal of the American
Psychoanalytic Association», vol. 1, 1953, p. 291.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 205

feticismo basato sul disconoscimento della perdita di lei può svilupparsi


come manovra difensiva per ripristinare il corpo della madre, permettere la
50
soddisfazione del bambino passivo e proteggere l’identificazione primaria .
Nel riassumere varie conclusioni, Robert Dickes afferma che la maggior
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parte della ricerca pregenitale si pone in diretta opposizione a Freud, cioè,


51
che «il feticcio rappresenta qualcosa di più che il fallo femminile» . Dickes
ritiene che la tradizionale visione del feticcio come «talismano nell’alleviare
l’ansia della castrazione fallica» sia uno «stadio tardo della crescita [...]
52
normalmente [...] mai raggiunto» . La maggior parte dei bambini, senza
distinzioni di sesso, usano gli oggetti di transizione per alleviare il dolore
della separazione dalla madre. Se il bambino non riesce ad adattarsi a
questa separazione, l’oggetto di transizione può essere conservato e feticiz-
zato. Mentre Socarides ritiene che il feticismo «non abbia una connessione
eziologica con la sessualità fallica o genitale», Wulff conclude che il feticcio
53
«rappresenta un sostituto per il seno e il corpo della madre» .
Feticismo e disconoscimento non sono manifestazioni psicoanalitiche
esclusivamente maschili, ma è molto più probabile che siano i maschi a
sviluppare queste perversioni a causa dei problemi legati alla determina-

50
P. J. Van der Leeuw, The Preoedipal Phase of Male, cit., pp. 352-374; Charles Socarides,
The Development of a Fetishistic Perversion: The Contribution of Preoedipal Phase Conflict,
«Journal of the American Psychoanalytic Association», vol. 8, aprile 1960, pp. 307-309;
Robert C. Bak, Fetishism, cit., p. 291. Bak sostiene che il bambino normale pensa che sia
possibile identificarsi con la madre e emulare il suo potere positivo (cioè, partorire un
bambino) e nel frattempo rimediare alla separazione da lei (attraverso il feticismo) senza
mettere in pericolo l’integrità fallica (p. 286). Joseph Solomon, Transitional Phenomena and
Obsessive-Compulsive States, in Simon A. Grolnick, Leonard Barkin, Werner Muesterberger (a
cura di), Between Reality and Fantasy: Transitional Objects and Phenomena, New York, Jason
Aronson, 1978, pp. 250-251, associa il feticismo al senso di integrità del corpo che il
bambino ha tratto dalla madre.
51
Robert Dickes, Fetishistic Behavior, cit., p. 320.
52
Ivi, p. 327.
53
M. Wulff, Fetishism and Object Choice in Early Childhood, «Psychoanalytic Quarterly»,
vol. 15, 1945, pp. 465-470. Charles Socarides, The Development of a Fetishistic Perversion, cit.,
p. 309. Brunswick, Lampl-de Groot, Jacobson, Kestenberg, Socarides e molti altri collegano
la perversione feticista al periodo preedipico. La maggior parte concludono che il feticismo
ha poco a che vedere con il periodo fallico o la sessualità genitale durante la sua formazione,
ma ciò non significa che il feticcio non possa rappresentare il fallo. Wulff definisce il legame
tra il feticismo infantile e il feticismo adulto osservando le contraddizioni nel loro rapporto e
il bisogno di ulteriori ricerche. Griselda Pollock in What’s Wrong with Images of Women,
«Screen Education», vol. 24, autunno 1977, pp. 25-33, ha suggerito che la teoria del
feticismo di Freud (in particolare nel modo in cui è adottata da Mulvey) non riesce a
rendere conto dell’immaginario vaginale in pornografia.

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206 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

zione dell’identità di genere (passaggio dall’identificazione primaria a quella


con lo stesso sesso) scollegata dall’esistenza di qualsiasi impulso scopico
54
sessualmente differenziato .
La perversione femminile esiste; tuttavia, le forme estreme, in partico-
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lare, sono meno “visibili” di quelle in versione maschile perché la donna


55
può “nascondere” le funzioni sessuali danneggiate . Come risultato, la
donna, come sostiene Charles Socarides, può tendere a mostrare «forme di
feticismo non necessariamente associate con il funzionamento genitale»,
56
per esempio, preparazioni rituali per i rapporti sessuali . Sebbene sia
ingenuo affermare che l’identificazione della scopofilia o del feticismo
femminili aprirebbe un varco per la spettatrice all’interno del cinema
dominante, l’origine pregenitale di queste manifestazioni mette in discus-
sione quelle posizioni che se ne servono per estromettere la donna dalle
strutture fondamentali del piacere cinematografico o persino dalla possibi-
lità di uno sguardo libidinale.

Schermo del sogno


La fantasia masochista è dominata dal piacere orale, dal desiderio di
ritornare allo stato di indifferenziazione del corpo della madre da quello del
bambino e dalla paura dell’abbandono (lo stato della mancanza di seno,
della mancanza di pienezza). Da un certo punto di vista, questi stessi
desideri vengono duplicati dallo spettatore cinematografico che ridiventa
bambino in risposta allo schermo del sogno del cinema. Questo schermo
del sogno procura piacere spettatoriale ricreando il primo feticcio – la
madre come ambiente nutritivo. Lo spettatore di fronte allo schermo del
sogno cinematografico regredisce a uno stadio che Baudry ritiene analogo

54
Ralph Greenson, Dis-identifying from Mother: Its Special Importance for the Boy, «Interna-
tional Journal of Psychoanalysis», vol. 49, 1968, pp. 370-374; vedi anche Nancy Chodorow,
Family Structure and Feminine Personality, in S. Rosaldo e L. Lamphere (a cura di), Woman,
Culture, and Society, Stanford, California, Stanford University Press, 1978, p. 50; Janine
Chasseguet-Smirgel, Freud and the Female Sexuality, cit., pp. 281-284. In Il film e la mascherata,
Doane insiste sul fatto che la donna è «fatta in maniera diversa per quanto concerne il
processo della vista» (p. 80, [tr. it. pp. 30-31]).
55
Charles Socarides, The Development of a Fetishistic Perversion, cit., p. 304. Vedi anche
Stoller, Sexual Excitement, pp. 7-13; Freud, The Psychogenesis of a Case of Homosexuality in a
Woman, in Philip Rieff (a cura di), Sex and the Psychology of Love, cit., pp. 133-159.
56
Charles Socarides, The Development of a Fetishistic Perversion, cit., p. 304.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 207

alla fase orale57. Come gli oggetti feticcio che seguono, lo schermo del
sogno ripristina il senso di totalità della prima relazione simbiotica, cosı̀
come ripristina l’unità dell’ideale indifferenziato ego/ego. Esso funziona
come una «coperta buona» che riunisce lo spettatore/bambino con l’og-
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getto originario del desiderio che riduce l’ansia dell’ego liberato dai confini
58
del corpo .
Nel ricostituire l’ambiente del primo sonno dello schermo del sogno,
l’apparato cinematografico ristabilisce i confini fluidi del sé. In L’irricordabile
e l’indimenticabile: la repressione primaria passiva, Alvan Frank discute i
benefici psichici delle esperienze allucinatorie schermo/seno che creano
un’assenza dei confini dell’ego e permettono la regressione a modelli
59
percettivi precedenti . Il cinema può anche offrire questo tipo di ripara-
zione psichica nella ricreazione di un fenomeno dello schermo che con-
sente l’accesso ai “ricordi” dimenticati delle prime esperienze infantili.
Lo schermo del sogno come la prima allucinazione della gratificazione
è una nozione essenziale per considerare il piacere cinematografico. Attra-
verso l’immaginazione il bambino crea la madre e il seno. Proprio come il
seno immaginario non può offrire un nutrimento reale o l’interazione con
la madre, l’apparato cinematografico non può procurare intimità o fusione
con gli oggetti reali. Lo spettatore deve disconoscere un’assenza: lo
schermo del sogno offre solo una gratificazione parziale al desiderio sim-
biotico. Le immagini dell’oggetto/schermo non possono essere possedute
fisicamente o controllate dallo spettatore. “L’equivoco” spettatoriale del
controllo sulle immagini cinematografiche è meno un equivoco che un
disconoscimento della perdita dell’autonomia dell’ego sulla formazione
dell’immagine.

57
Jean-Louis Baudry, The Apparatus, cit., p. 125. «Può sembrare peculiare che il desiderio
che costituisce l’effetto cinematografico sia radicato nella struttura orale del soggetto. Le
condizioni della proiezione evocano la dialettica interno/esterno, inghiottire/inghiottito,
mangiare/essere mangiato, che è caratterizzata da ciò che si è strutturato durante la fase
orale [...] La relazione visiva orifizio/orifizio orale agisce allo stesso tempo come analogia e
come differenza, ma punta anche al rapporto di consecuzione tra la soddisfazione orale, il
sonno, lo schermo bianco del sogno sul quale verranno proiettate immagini del sogno,
l’inizio del sogno».
58
Judith S. Kestenberg e Joan Weinstock, Transitional Objects and Body-Image Formation, in
Between Reality and Fantasy, cit., p. 82.
59
Alvan Frank, The Unrememberable and the Unforgettable, «The Psychoanalytic Study of
the Child», vol. 24, 1969, p. 56. Vedi anche Ernst Kris, On Preconscious Mental Processes, in
David Rapaport (a cura di), Organization and Patology of Thought, New York, Columbia
University Press, 1951, p. 493.

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208 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Identificazione
Nel ripristinare il narcisismo primario del pre-ego, il cinema incoraggia una
regressione caratterizzata da tutte le possibilità dell’identificazione e della
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proiezione che somigliano ai meccanismi infantili operativi nelle perver-


sioni. I piaceri della perversione dipendono direttamente da un tipo lace-
60
rante di difesa dell’ego per rendere solida l’identità . Soddisfacendo la
compulsione a ripetere stadi arcaici della vita, la regressione artificiale del
61
cinema amplia e reintegra l’ego attraverso forme diverse della sua realtà .
Lo spettatore cinematografico fa esperienza di forme infantili di investi-
mento dell’oggetto e di identificazione normalmente represse. Tra gli
aspetti più importanti di questo rilascio di materiale represso vi sono i
piaceri di rivivere l’identificazione primaria con la madre e le piacevoli
possibilità della mobilità di genere attraverso l’identificazione. Loewald
considera l’identificazione con la madre essenziale per la formazione del-
l’ego e la strutturazione della personalità: «l’identità primaria narcisistica
con la madre costituisce per sempre l’origine inconscia e il livello strutturale
dell’ego e della realtà più profondi e il punto di forza per “il notevole
62
sforzo” dell’ego “verso l’unificazione e la sintesi”» .
Mentre l’identificazione preedipica del maschio con la madre viene
repressa nella vita adulta, sia per il sesso maschile che per quello femminile
l’identificazione con lo stesso sesso non esclude totalmente l’identificazione
63
con il sesso opposto . Il desiderio di essere di entrambi i sessi – di superare
la differenza sessuale – rimane.
Freud, pur ammettendo la bisessualità di tutti gli esseri umani, poneva
continuamente l’accento sulla polarità tra maschile e femminile – una
polarità che è penetrata negli approcci femministi-psicoanalitici al cinema.
La ricerca recente ha rivelato l’importanza vitale dell’androginia psichica
(bisessualità) per comprendere la sessualità, l’identità e la ricerca del pia-
cere. Nel suo studio L’impulso di diventare entrambi i sessi, Lawrence Kubie

60
W. Gillespie, Notes on the Analysis of Sexual Perversion, «International Journal of Psychoa-
nalysis», 1952, p. 397. Vedi anche Hans Loewald, Papers on Psychoanalysis, Yale University
Press, New Haven, 1980, pp. 268-269, 401-402. Vedi Nancy Chodorow, The Reproduction of
Mothering, cit., sulla eccezionale tecnica di difesa dell’ego, dell’identificazione primaria e
dello stadio orale, p. 60.
61
Hans Loewald, Papers on Psychoanalysis, cit., pp. 16-17.
62
Ivi, p. 17.
63
Sigmund Freud, A Child is Being Beaten, p. 129; Robert Stoller, Facts and Fancies: An
Examination of Freud’s Concept of Bisexuality, in Jean Strouse (a cura di), Women and Analysis,
New York, Grossman, 1974, pp. 357-360.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 209

descrive due aspetti preminenti della bisessualità: (1) il contrario dell’invidia


del pene e (2) l’impulso ad appartenere a entrambi i sessi:

viene trascurata l’importanza della contraria e della complementare invi-


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dia del maschio per il seno della donna, per l’allattamento come anche la
sua invidia per la capacità della donna di concepire e mettere al mondo
bambini [...] dall’infanzia e durante tutta la vita, a livello conscio, precon-
scio e inconscio, in varie proporzioni ed enfasi, l’obiettivo umano sembra
quasi inevitabilmente quello di essere entrambi i sessi, con la conseguenza
inevitabile che tentiamo sempre in ogni momento e attraverso ogni azione
64
di affermare e negare contemporaneamente le nostre identità di genere .

Socarides, Zilboorg e altri hanno connesso la feticizzazione della fem-


mina da parte del maschio allo stesso impulso di ripristinare la pienezza
della bisessualità – di avere sia le caratteristiche sessuali maschili che quelle
femminili. Nella visione di Socarides, l’identificazione maschile con la
madre preedipica si esprime attraverso «il desiderio dei genitali femminili, il
desiderio di un bambino e il desiderio di riparare alla separazione dalla
65
madre» . Investimento e identifı̀cazione sono simultanei nel duplice scopo
66
dell’impulso bisessuale . La capacità di desiderare e contemporaneamente
di identificarsi con il sesso opposto ha importanti implicazioni per il
pubblico cinematografico. Quando è stata presa in considerazione l’identifi-
cazione con il sesso opposto, è stata molto spesso considerata come un
problema per la spettatrice piuttosto che come un potenziale piacere
fruibile da entrambi i sessi. La “mascolinizzazione” della spettatrice è stata
analizzata da Mary Ann Doane e da Laura Mulvey nei termini dell’identifi-
cazione della spettatrice con la posizione maschile. Nei loro studi, questa
identificazione transessuale è il risultato della mancanza di una posizione
spettatoriale femminile diversa da quella di un’identificazione masochistica
con l’oggetto67. Vengono trascurate le possibilità dell’identificazione ma-

64
Lawrence Kubie, The Drive to Become Both Sexes, in Herbert J. Schlesinger (a cura di),
Symbols and Neurosis, New York, International University Press, 1978, pp. 195, 202. Vedi
anche Zilboorg e Kittay.
65
Charles Socarides, The Development of a Fetishistic Perversion, cit., 307; Gregory Zilboorg,
Masculine and Feminine: Some Biological and Cultural Aspects, «Psychiatry», vol. 7, 1944, pp.
257-296; Eva Feder Kittay, Womb Envy: An Explanatory Concept, in Joyce Trebilcot (a cura
di), Mothering: Essays in Feminist Theory, cit., pp. 94-128.
66
Bruno Bettelheim, Symbolic Wounds, Glencoe, III, The Free Press, 1954, p. 260.
67
Mary Ann Doane, Film and The Masquerade, cit., pp. 74-88; Laura Mulvey, Afterthoughts
on “Visual Pleasure and Narrative Cinema” Inspired by Duel in the Sun, «Framework», vol. 6,
nn. 15/16/17, estate 1981, pp. 12-15; [tr. it. Le ambiguità dello sguardo, in «Lapis», n. 7, marzo
1990, pp. 38-42].

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210 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

schile con la donna (anche come ego ideale) o con un personaggio


mascolino “femminilizzato”.
Come il desiderio della fusione con e il desiderio opposto della separa-
zione dalla madre, il desiderio di cambiare l’identità di genere, il «tentativo
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di identificarsi con e insieme di diventare entrambi i genitori», non può


68
essere soddisfatto nella «realtà» . Laplanche ha affermato che la fantasia è
un mezzo per raggiungere l’obiettivo di reintegrare l’identificazione con il
69
sesso opposto . Otto Fenichel sosteneva che il piacere scopofilico dipen-
desse dal fatto di assumere la posizione non dell’agente dello stesso sesso
70
osservato durante i rapporti sessuali, ma di quello di sesso opposto .
Attraverso la mobilità delle identificazioni multiple e fluide, il cinema offre
un apparato enunciativo che funziona come una maschera protettrice,
come la fantasia o il sogno, per permettere la temporanea soddisfazione di
ciò che Kubie considera «una delle più profonde tendenze della natura
71
umana» .
Dal momento che il piacere della vista, specialmente quella dello
schermo del sogno del cinema e della donna, coinvolge i piaceri e le
ambivalenze pregenitali, il ruolo e la reazione dello spettatore sessualmente
differenziato deve essere considerato sotto una luce completamente diffe-
rente. I piaceri pregenitali della perversione non sono limitati al diverti-
mento dello spettatore maschile né fruibili dalla donna solo se abbandona
l’identificazione masochistica con “l’oggetto femminile” e s’identifica invece
con una posizione spettatoriale maschile definita solo dal controllo.
Spinta dalla necessità di delineare la relazione del masochismo e delle
sue strutture formali con la psicoanalisi corrente, una riconsiderazione del
ruolo degli stati pregenitali dello sviluppo psichico promette di aprire
nuove frontiere allo studio del piacere spettatoriale. Molte delle ipotesi fatte
dai teorici cinematografici dalla metapsicologia freudiana o da Lacan sem-
brano inadeguate a rendere conto del piacere cinematografico. Per capire la
struttura dello sguardo, il piacere visivo deve essere connesso alle sue
manifestazioni primarie nell’infanzia. Secondo quanto indica il lavoro di

68
Lawrence Kubie, The Drive to Become Both Sexes, cit., p. 211. Vedi anche Loewald, Papers
on Psychoanalysis, cit., pp. 268-269.
69
Jean Laplanche e Jean-Bertrand Pontalis, The Language of Psychoanalysis, New York, W.
W. Norton, 1973, pp. 243-246; [tr. it. Enciclopedia della psicoanalisi, Roma e Bari, Laterza,
1993].
70
Otto Fenichel, The Scoptophilic Instinct and Identification, in Collected Papers of Otto
Fenichel: First Series, New York, Norton, 1953, p. 377.
71
Lawrence Kubie, The Drive to Become Both Sexes, cit., p. 211.

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IL MASOCHISMO E I PIACERI PERVERSI DEL CINEMA 211

Edith Jacobson, come anche quello di Stoller, Bak, Loewald e altri, il


piacere visivo sperimentato negli stadi arcaici non viene automaticamente
negato dagli stadi successivi della crescita del bambino72. La stretta somi-
glianza tra l’apparato cinematografico e le strutture della perversione e,
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specificamente, il masochismo giustifica ulteriori ricerche, al di là dei limiti


imposti dal discorso teorico corrente, se la natura del piacere cinematogra-
fico deve essere compresa in tutta la sua complessità e importanza psicolo-
gica.

72
Edith Jacobson, The Self and the Object World, New York, International Universities
Press, 1964.

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FETICISMO E PORNOGRAFIA
MARX, FREUD E IL “MONEY SHOT”

di Linda Williams

Ci sono quelli che credono che l’inquadratura


dell’eiaculazione, o, come la chiamano alcuni, il “money shot”,
sia l’elemento più importante di un film e che tutto il resto
(se necessario) dovrebbe essere sacrificato a sue spese.
Naturalmente, questo dipende dalla concezione del produttore,
ma una cosa è sicura: se non ci sono le inquadrature
dell’eiaculazione, non c’è film pornografico. Pianifica almeno
dieci inquadrature separate dell’eiaculazione... dieci è
abbastanza per consentire una certa libertà di scelta.
Stephen Ziplow, The Filmmaker’s Guide to Pornography (“La
guida del filmmaker alla pornografia”), New York, Drake,
1977, p. 34.

Il consiglio di Stephen Ziplow al pornografo frugale attesta ciò che dal


1977 è diventato il sine qua non del film di genere pornografico: lo

Fetishism and Hard Core. Marx, Freud, and the “Money Shot”, in Susan Gubar e Joan Hoff (a
cura di), For Adult Users Only, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press,
1989, pp. 198-217.
L’espressione “money shot”, la cui traduzione letterale sarebbe «inquadratura del denaro»,
è un’espressione del gergo pornografico che non ha equivalente in lingua italiana. Tuttavia,
è interessante notare che l’espressione inglese “money shot” è stata a volte utilizzata al di
fuori dall’ambito strettamente pornografico al quale originariamente apparteneva e piegata a
descrivere tutte quelle situazioni in cui il piacere (o il dispiacere) viene esplicitamente
espresso in termini visibili e corporali. Cfr. ad esempio il testo di Laura Grindstaff intitolato
proprio The Money Shot: Trash, Class, and the Making of Tv Talk Shows (Chicago, University
of Chicago Press, 2002) in cui l’autrice prende in prestito l’espressione per applicarla alla
logica dei talk show quotidiani, il cui momento culminante è, come nel caso del “money
shot” del film pornografico, quello in cui il talk show mette a nudo i sentimenti e le
emozioni dei suoi ospiti, «rende visibile il preciso momento del lasciarsi andare, della
perdita del controllo, della resa al corpo e alle sue emozioni “animali”» (p. 20). (N.d.t.)

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214 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

spettacolo visivo dell’eiaculazione del pene come climax finale – il senso di


una conclusione – per ognuno degli accoppiamenti genitali eterosessuali
rappresentati nella estesa narrazione del film pornografico ora sonoro, ora a
colori, ora quasi legale. Mentre i primi film per soli uomini, corti e muti,
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includevano occasionalmente spettacoli dell’eiaculazione esterna – a volte


inavvertitamente –, è stato solo con l’apparizione del lungometraggio
narrativo pornografico nei primi anni Settanta che il “money shot” ha
assunto la funzione narrativa di segnalare il climax di un evento genitale. In
precedenza, nei primi film per soli uomini, le sequenze pornografiche
tendevano ad essere organizzate come momenti dell’esibizione genitale
discontinui e incompleti, presentati in forma di discorso diretto allo spetta-
1
tore .
Ci sarebbe molto da dire sulla distinzione tra la fase del film per soli
uomini e la fase del lungometraggio di genere pornografico. Sebbene
entrambe le forme siano attualmente in circolazione – equivalenti attuali
del film per soli uomini si possono ancora trovare nei loop dei film o dei
video in mostra nelle cabine private dei locali per “adulti” –, ciascuna
2
esemplifica una fase storica specifica nella pornografia cinematografica . Il
film per soli uomini di una singola bobina, muto, realizzato e proiettato
illegalmente ha avuto inizio con l’invenzione del cinema stesso. Sebbene sia
fiorito negli Stati Uniti durante gli anni Venti e Trenta, è comunque rimasto
la forma dominante del film pornografico fino a quando, nei primi anni
Sessanta, i lungometraggi di “exploitation” legalmente prodotti hanno co-
minciato a usurparne i contenuti indirizzandosi al suo stesso pubblico.

1
Ho discusso estesamente la forma del film per soli uomini nell’ambito del genere
pornografico nel mio libro di prossima pubblicazione, Hard Core: Power, Pleasure and the
“Frenzy of the Visibile”, (poi pubblicato da Berkeley, University of California Press, 1989, il
capitolo in questione è il terzo e si intitola The Stag Film: Genital Show and Genital Event, pp.
58-92).
2
Sfortunatamente, si è scritto molto poco sulla storia di entrambe queste fasi. Il libro di Al
Di Lauro e Gerald Rabkin sul film per soli uomini (1976) rappresenta uno studio iniziale di
questa forma. Ma non c’è nessuno studio equivalente per il lungometraggio narrativo
pornografico. Naturalmente non mancano lavori sull’erotismo e la sessualità nei film in
generale; né posizioni teoriche o morali riguardanti questa nuova fase del genere. L’assioma
«se ne hai visto uno l’hai visti tutti» non è mai stato preso cosı̀ seriamente in nessun altro
genere della cinematografia popolare. La breve sinossi proposta qui non è in alcun modo un
tentativo di scrivere questa storia mancante. Tuttavia è necessario dare qualche significato a
questa storia. Nel fare questo ho contato soprattutto sulle mie concezioni personali e su una
presentazione molto breve e imprecisa della pornografia filmica in un capitolo di Erotic
Communications (1980) di George Gordon. Una storia in qualche modo più esauriente è
fornita dal mio libro.

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 215

I film di exploitation hanno volto a proprio vantaggio gli elementi


proibiti nel cinema di larga diffusione – di solito la nudità e il sesso –
confezionandoli in lungometraggi girati in fretta e a basso costo, proiettati
pubblicamente in sale cinematografiche regolari, ma spesso non molto
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rispettabili. A rigor di termini, questi non erano film pornografici. Sono


comunque importanti nell’evoluzione verso la pornografia del lungometrag-
gio hard-core perché, in conseguenza di una serie di sentenze della Corte
Suprema alla fine degli anni Sessanta, la strada dell’exploitation divenne il
terreno di prova e lo sbocco finale del materiale pornografico che una volta
era stato territorio esclusivo dei film illegali per soli uomini.
Ma prima che i film per soli uomini e quelli di exploitation sfociassero
nel nuovo lungometraggio pornografico completo di colore, suono e narra-
zioni lunghe più di un’ora, un altro genere cinematografico doveva contri-
buire alla transizione. I primi film a mostrare materiale hard-core in teatri
pubblici furono documentari sulla Danimarca e sulla sua allora recente
legalizzazione di forme di pornografia visiva prodotte in serie: Sexual
Freedom in Denmark (“La libertà sessuale in Danimarca”, John Lamb, 1970)
e Censorship in Denmark: A New Approach (“La censura in Danimarca: un
nuovo approccio”, Alex De Renzy, 1970). Entrambi i film si avvantaggia-
rono immediatamente e con intelligenza della clausola sul «valore sociale
riabilitante» delle sentenze del 1966 della Corte Suprema. Spacciandosi per
seri documenti sulla nuova permissività danese, i film fornivano informa-
zioni sull’industria pornografica in Danimarca. Censorship in Denmark, per
esempio, documenta dal vivo in un nightclub un rapporto sessuale “lesbico”
intitolato Olga and Her Sex Circus (“Olga e il suo circo del sesso”) e le
riprese di un film danese hard core. In entrambi i casi, il pubblico del
documentario vede esattamente ciò che vedeva il pubblico del rapporto
3
sessuale dal vivo e del film pornografico .
Spettatori che non si sarebbero mai concessi di vedere né Olga sul
palcoscenico né un film pornografico potevano giustificare l’esperienza se
era resa parte di una ricerca più ampia di informazioni sulle attività sessuali
di un’altra cultura. La nuova ondata di pornografia visiva dei tardi anni
Sessanta e dei primi anni Settanta non fu quindi semplicemente una
celebrazione del sesso “libero” esemplificativa della rivoluzione sessuale
americana. Piuttosto era collegata, come lo era la rivoluzione stessa, alla
ricerca di una maggiore conoscenza della sessualità.
Naturalmente è facile smascherare la falsità di tale ricerca. Certamente

3
Cfr. George Gordon, Erotic Communications, New York, Hastings House, 1980, p. 118.

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216 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

film dai titoli quali Cartelle cliniche dal Kraft-Ebing (Fratelli Dakota, 1971), la
4
compilation di film sulla storia del cinema per soli uomini , un “resoconto”
5
su un salone per massaggi o un “rapporto” da dietro le quinte di un regista
6
di film di exploitation difficilmente possono essere seriamente considerati
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un progresso della conoscenza scientifica sulle pratiche sessuali. Tuttavia


questi primi titoli provano la validità dell’argomentazione di Michel Fou-
cault secondo la quale tutte le forme del discorso moderno sulla sessualità
sono state contrassegnate da un’intensificazione di elementi scientifici e
7
veritieri, che egli denomina scientia sexualis .
Nella transizione dai film illegali per soli uomini al nuovo hard core
legale e più diffuso nei film popolari dei primi anni Settanta come Behind
the Green Door (Dietro la porta verde) e Deep Throat (Gola profonda, entrambi
del 1972), un «discorso sulla sessualità» di carattere scientifico che pretende
di ottenere una confessione di ulteriori “verità” sul sesso gioca un ruolo
fondamentale. Laddove i film per soli uomini si accontentavano di mo-
strare al loro pubblico quasi esclusivamente maschile momenti discontinui
di attività genitale, i nuovi film porno organizzano questa attività in
rappresentazioni complete di coinvolgimento, eccitazione, climax e soddi-
sfazione. In queste narrazioni sviluppate, pubblici di genere sessuale sempre
più misto cominciano ad identificarsi con personaggi i cui piaceri sessuali
sono strutturati come eventi narrativi piuttosto che come spettacoli di
esibizione genitale.
Un aspetto chiave di questa transizione è la crescente mercificazione e
feticizzazione dei piaceri sessuali ora confezionati in una forma narrativa di
oltre sessanta minuti. Sebbene siano numerosi i modi di approcciare la
natura di questa nuova forma, qui vorrei concentrarmi sul contrasto tra le
caratteristiche inquadrature attraverso le quali ognuno dei due tipi di film è
solito concludere le sue sequenze hard core. Queste inquadrature sono la
“inquadratura del pezzo di carne” del film per soli uomini e il “money shot”
del lungometraggio porno.
Mentre il film per soli uomini si accontenta di rappresentare il piacere

4
Per esempio, History of the Blue Movie di Alex De Renzy (1970) – una sorta di That’s
Entertainment del film per soli uomini. Questo film, insieme a Hollywood Blue (1971), riciclava
gli elementi messi in risalto dai film illegali per soli uomini come parte del processo della sua
stessa legittimazione.
5
Rabin’s Revenge (“La vendetta di Rabin”, Fratelli Mitchell, 1971).
6
The Casting Call (“L’audizione”, prodotto dalla Gentlemen II, 1970).
7
Cfr. Michel Foucault, The History of Sexuality, vol. I, An Introduction (1976), New York,
Pantheon, 1978; [tr. it. La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978].

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 217

finale del sesso in un primo piano della penetrazione genitale – in quello


che la The Filmmaker’s Guide to Pornography chiamerà in seguito “l’inquadra-
tura del pezzo di carne” – il lungometraggio hard core dei primi anni
Settanta sembra richiedere un nuovo livello di “verità”, espresso dall’affer-
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marsi di una nuova consuetudine nel palesamento del piacere del corpo.
L’eiaculazione visibile ed esterna del pene nel “money shot” è quella
consuetudine. Sebbene il lungometraggio porno includa un gran numero di
“inquadrature della carne” in molte delle sue sequenze hard core, raramente
conclude queste sequenze mostrando solo la penetrazione genitale. Ora
deve avere la prova visiva dell’ammissione involontaria del piacere che la
penetrazione nasconde. Le tappe della visibilità sono state percorse fino a
includere il preciso momento narrativo dell’orgasmo (maschile).
Con il “money shot” potrebbe sembrare di essere arrivati a ciò che la
volontà di conoscenza cinematografica ha perseguito implacabilmente da
quando il fotografo Eadweard Muybridge proiettò per la prima volta sullo
schermo della sua aula magna l’immagine di corpi nudi in movimento:
l’evidenza visiva della “verità” meccanica del piacere fisico colta in uno
spasmo involontario; l’ammissione definitiva e incontrollabile – definitiva
perche´ incontrollabile – del piacere fisico nel climax dell’orgasmo.
Nello stesso tempo, questo insistente primo piano di ciò che dopotutto
è solo un orgasmo maschile, questo momento finale di ammissione della
“verità”, potrebbe anche essere visto come il limite ultimo della rappresen-
tazione visiva del piacere sessuale. Poiché, per mostrare la “verità” quantifi-
cabile e materiale del suo piacere, l’attore di un lungometraggio pornogra-
fico deve ritrarsi da ogni rapporto tattile con i genitali o la bocca della
donna, affinché il “prodotto” del suo seme sia visibile. Per questo l’attore di
film pornografici è particolarmente ben pagato, di qui almeno uno dei
motivi del nome dell’inquadratura.
Con l’istituzione di questa convenzione, si richiede agli spettatori di
credere che i performer sessuali del film, nel momento cruciale dell’orga-
smo maschile, passino da una forma di piacere tattile a una forma di
piacere visivo. È una concezione comune a molta pornografia hard core dei
primi anni Settanta, che la donna preferisca la vista del pene in eiaculazione
o il tocco esterno dello sperma all’introduzione del pene dentro di lei. Essa
chiederà spesso “che lui venga” nel familiare “linguaggio scurrile” del
genere da poco sonoro; dirà, per esempio, che vuole che l’uomo le «venga
su tutta la faccia», che vuole vedere lo sperma uscire dal suo «grosso cazzo
duro» o sentirlo sgorgare su varie parti del suo corpo. Allo stesso tempo,
tuttavia, risulta sempre abbastanza evidente che questo spettacolo non è in

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218 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

realtà per i suoi occhi. Oltretutto è possibile che chiuda gli occhi se l’uomo
le viene sulla sua faccia, e non può assolutamente vedere l’eiaculazione
quando lui le viene, come fa di frequente, sulle natiche o sulle reni.
L’uomo, d’altra parte, vede quasi sempre l’eiaculazione; essa è palese-
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mente destinata ai suoi occhi e agli occhi dello spettatore. La “eiaculazione


visibile” è quindi un’ovvia perversione – nel senso letterale del termine,
8
come uno scarto da forme più dirette di contatto genitale – del rapporto
sessuale tattile, che sostituisce il rapporto tra i protagonisti con il piacere
visivo più solitario (e letteralmente scollegato) dell’attore maschile e dello
spettatore maschio.
Forse ancora più perversa, almeno per la spettatrice, è l’insistenza del
genere sulla tesi che la confessione visiva della solitaria “verità” maschile
coincida con la beatitudine dell’orgasmo femminile. Poiché in questo caso
si può dire che la rappresentazione del piacere di lei, più che di quello di
lui, è stata trasferita su oggetti sostituto. Perciò, per la donna più che per
l’uomo, il “money shot” funziona come un feticcio sostituto della realtà di
un rapporto sessuale maschio-femmina.
Ma perversione è un termine molto generico e insieme molto relativo.
È anche un termine sul quale le femministe hanno discusso veemente-
mente, spesso usandolo come un epiteto generale, sociale e psicologico, per
descrivere tutto ciò che nella eterosessualità orientata in senso fallico è
aggressivo, grossolano, oggettivante, frammentato e reificato. In effetti,
come ha notato Jane Gallop, c’è stata una tendenza generale all’interno del
femminismo a vedere tutte le forme di perversione come sintomi della
sessualità maschile e tutte le forme di eterosessualità come contaminate
dalla perversione. In questo senso, afferma Gallop, molte femministe fini-
scono per rovesciare la nozione stessa di norma e di perversione per
sostenere che la sessualità femminile normale è quella lesbica – una
sessualità dell’“intera persona” egualitaria e delicata – e che l’eterosessualità,
9
la norma apparente, è in realtà perversa .
Gallop afferma che questo rovesciamento potrebbe essere considerato

8
Uso qui il termine nel suo senso generale di deviazione dal piacere organico del sesso
genitale verso forme derivate o vicarie di piacere. È importante comprendere, comunque,
che sebbene il termine perversione racchiuda sempre l’idea di “deviare bruscamente” da una
norma istintiva, già ai tempi del suo Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) Freud stava
lavorando per abbattere i limiti norma/deviazione di tale interpretazione e teorizzare la
sessualità stessa come intrinsecamente perversa.
9
Jane Gallop, Feminist Criticism and the Pleasure of the Text, saggio non pubblicato, 1985,
pp. 13, 17.

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 219

come un’incapacità di abbracciare l’idea della perversione proprio nel


momento in cui tale abbraccio potrebbe avere un qualche potenziale
liberatorio per le donne. L’aborto, la contraccezione, il lesbismo e la
sessuologia femminista che individua la fonte primaria del piacere sessuale
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nella clitoride possono essere tutti considerati come “perversioni” poten-


zialmente liberatorie di una sessualità femminile vaginale, apparentemente
10
normale, sottomessa ai fini riproduttivi patriarcali .
A questo proposito Gayatri Spivak ha similmente scritto che il piacere
dell’orgasmo maschile “normalmente” implica un elemento dell’atto ripro-
duttivo maschile – o lo spargimento o la produzione dello sperma. Il
piacere dell’orgasmo femminile, dall’altra parte, non implica necessaria-
mente alcuna componente del ciclo riproduttivo femminile – ovulazione,
fertilizzazione, concepimento, gestazione, nascita. L’argomento di Spivak è
che «la clitoride sfugge all’apparato riproduttivo». «Nel definire legalmente
la donna come oggetto di scambio in termini di riproduzione, non è solo il
grembo ad essere letteralmente conquistato, è la clitoride come significante
del soggetto sessuato ad essere rimossa. Tutti i tentativi di definire la donna
come oggetto legale cadono in una molteplicità di rimozioni della clitori-
de».
La celebrazione della clitoride potrebbe rappresentare un modo per
cominciare a sfidare il potere di un’economia fallica del piacere. Ma questo
potrebbe verificarsi solo se lo scopo di tale celebrazione fosse non quello di
costituire un organo alternativo di culto feticistico ma quello di smantellare
la gerarchia di norma e deviazione per creare una pluralità di piaceri che
riconoscano le differenze.
La questione diventa, quindi, semplicemente quella di come può verifi-
carsi una sfida a un’economia fallica del piacere. Un modo in cui potremmo
cominciare a formulare tale sfida è attraverso la critica del suo più sfacciato
esempio fallico – il film pornografico eterosessuale contemporaneo in cui il
“money shot” regna supremo. Questa analisi potrebbe essere utile pressap-
poco nello stesso modo in cui è utile la lettura di Luce Irigaray dell’econo-
11
mia fallica – ad esempio, come un opportuno riconoscimento di ciò che
quell’economia realmente è e di come può essere sfidata al meglio. Poiché
fino a quando le femministe non impareranno a leggere le contraddizioni
all’interno della rappresentazione fallica del piacere e a costruire le rappre-

10
Ivi, p. 12.
11
Luce Irigaray, Speculum of the Other Woman, Ithaca, Cornell University Press, 1986
(edizione originale 1974); [tr. it. Speculum. L’altra donna, Milano, Feltrinelli, 1974].

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220 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sentazioni dei nostri piaceri (diversi) fuori da queste contraddizioni, ci


troveremo noi stesse nella posizione di essenzializzare e feticizzare questi
piaceri, di catapultarci al di fuori dell’ambito di tutti i discorsi conosciuti per
dire “verità” normative che possono facilmente diventare oppressive per le
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“deviazioni” di qualcun altro.


Comunque, ci sono buoni motivi perché le donne diffidino di tali
argomentazioni. Perché c’è sempre il pericolo che tale supposta liberazione
finirà solo per imprigionare ulteriormente le donne all’interno di definizioni
sessuali che evidenziano la sessualità femminile come il segno eccessivo
della differenza. Piuttosto che rischiare di ripetere i fallimenti della libera-
zione sessuale, alcune femministe contrarie alla pornografia hanno preferito
rimanere legate a forme capovolte di questa gerarchia. Temendo il caos
morale insito nell’abbandono di un sistema di comportamento sessuale
normativo che, con tutti i suoi problemi, ha tuttavia avuto spesso la
funzione di proteggere le donne dagli abusi patriarcali, esse hanno soste-
nuto difensivamente la norma dei propri piaceri non feticizzati contro la
deviazione della manifestazione crescente di perversioni esemplificate dal
lungometraggio pornografico eterosessuale.
C’è, inoltre, il problema correlato che i teorici maschi più convinti
fautori dell’abbraccio liberatorio dei piaceri perversi – che sia il puro
12
edonismo di un Roland Barthes o il più coperto edonismo delle analisi
politiche e sociali di potere e piacere di Michel Foucault – hanno avuto ben
poco da dire sulle specificità storiche e testuali della differenza della
perversione femminile. Può anche non essere fuori luogo notare che per
questi due teorici omosessuali, l’abbraccio della perversione non sfida
13
necessariamente le norme del fallocentrismo . Prese tra il diavolo e l’acqua
santa, acquistare cioè (quand’anche rovesciando i termini di) una sessualità
fallica normativa o abbracciare (potenzialmente) “perversioni” liberatorie, le
critiche femministe della pornografia devono analizzare attentamente la
struttura delle perversioni che abitualmente imperano nei lungometraggi
pornografici. Forse in modo ancor più decisivo, dobbiamo esaminare i
discorsi teorici di cui ci serviamo per definire come feticismo tali perver-
sioni. Quali sono i concetti di fondo? Presumono una dicotomia norma/de-

12
Roland Barthes, The Pleasure of the Text, New York, Hill and Wang, 1974 (edizione
originale 1973); [tr. it. Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975].
13
È anche interessante notare che nei loro numerosi scritti sulla sessualità e sul piacere né
Foucault né Barthes scrivono da omosessuali. Le loro voci, come mi ha fatto notare Julia
Lesage leggendo la prima stesura di questo saggio, sono le voci di intellettuali che articolano
la “verità” della sessualità restando al di fuori persino della propria differenza.

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 221

viazione? Sono queste le uniche alternative? Cosı̀ prima di procedere a


un’analisi del “money shot” dell’hard core come convergenza dei significati
economici e psicosessuali del feticcio, dobbiamo esaminare i classici signifi-
cati marxiani e freudiani del termine.
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Il feticcio marxiano e freudiano


14
In un famoso passo del Capitale (1867), Marx definisce la merce una «cosa
misteriosa» in cui il «carattere sociale del lavoro dell’uomo» sembra essere
«impresso» sul prodotto stesso di quel lavoro. In un’analogia estesa alla
visione, Marx spiega che proprio come «noi percepiamo la luce di un
oggetto non come eccitazione soggettiva del nostro nervo ottico, ma come
forma oggettiva di qualcosa che si trova al di fuori dell’occhio stesso», cosı̀
vediamo la merce come se possedesse oggettivamente queste qualità. Ma
mentre nell’atto di vedere c’è «un passaggio reale di luce da una cosa a
un’altra», nella percezione soggettiva delle merci tutto è illusione. Poiché in
esse la «relazione sociale tra gli uomini» assume «la forma fantastica di una
relazione tra cose». Marx trova infine l’analogia appropriata alla merce nella
«regione nebulosa del mondo religioso» in cui gli oggetti feticcio di culto
sono «prodotti del cervello umano», «dotati di vita propria»: «Cosı̀, nel
mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Io chiamo questo
feticismo, che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti
15
come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci» .
In un passo altrettanto famoso scritto mezzo secolo più tardi, Sigmund
Freud definisce il feticcio come un

sostituto del fallo della donna (della madre) a cui il piccino ha creduto e a
cui non vuole rinunciare [...] Non è vero che il bambino, anche dopo aver
osservato la donna, ha mantenuto intatta la propria fede nel fallo della
donna. È un convincimento che ha conservato, ma al tempo stesso ha
abbandonato; nel conflitto fra l’importanza della percezione indesiderata e
la forza del controdesiderio egli è giunto a un compromesso possibile
soltanto quando dominano le leggi inconsce del pensiero [...] In effetti
nella sfera psichica la donna continua a possedere un pene, ma questo
pene non è più lo stesso di una volta. Qualcosa d’altro [...] ha ora

14
Karl Marx, Capital, New York, The Modern Library, 1906 (edizione originale 1867); [tr.
it. Il Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1964-65].
15
Ivi, p. 83.

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222 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

ereditato l’interesse che era rivolto al pene di prima. Questo interesse


viene però ulteriormente esaltato in modo straordinario giacché nella
creazione di questo sostituto si riflette, come in un monumento alla
memoria, l’orrore della castrazione. Inoltre, come “stigma indelebile”
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dell’avvenuta rimozione, rimane anche un senso di estraneità – che nei


feticisti non manca mai – rispetto al vero e proprio genitale della donna. A
questo punto ci si può rendere conto di che cosa offra il feticcio e da che
cosa sia tenuto in vita. Il feticcio è il segno di una vittoria trionfante sulla
minaccia di castrazione e una protezione contro di essa...16.

Sebbene Marx e Freud definiscano i loro feticci in modo molto diffe-


rente, entrambi condividono una volontà comune di esporre i processi
attraverso i quali gli individui cadono vittime di un’illusoria fede nel valore
elevato di certi oggetti. Entrambi i passi creano cosı̀ l’illusione del valore
intrinseco di un oggetto in opposizione alla maggiore consapevolezza dei
loro autori delle condizioni socio-economiche o psichiche che creano
quell’illusione di valore. Per Marx, nel 1867, e per Freud, nel 1927, il
termine feticcio possedeva già una tradizionale connotazione spregiativa
17
ereditata dagli studi del diciottesimo secolo sulla religione primitiva . I
selvaggi che i viaggiatori del diciottesimo secolo vedevano prostrarsi da-
vanti a «cose inanimate» rudimentali e spesso falliche, adorando immagini
scolpite non solo contravvenivano a uno dei principi fondamentali del
protestantesimo, ma si dimostravano anche talmente accecati dalla volut-
tuosa materialità del feticcio da dimenticare che erano stati loro stessi a
conferirgli valore. Nella sua forma religiosa originale, il feticismo era quindi
considerato una falsa credenza a causa della quale chi ha costruito il feticcio
non riesce a rendersi conto di aver ceduto i suoi poteri produttivi al feticcio
– di adorarlo non semplicemente come un simbolo convenzionale di poteri
sovrannaturali ma come l’incarnazione letterale di quel potere, come una
cosa in se stessa.
Nel trasporre le forme precedenti dello studio della religione, Marx e
Freud condividono l’intuizione che gli adoratori ingannino se stessi pen-

16
Sigmund Freud, Fetishism (1927), in The Standard Edition of the Complete Psychological
Works of Sigmund Freud, London, Hogarth Press, 1964, vol. 21, p. 153; [tr. it. Feticismo, in
Opere 1924-1929, vol. X, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, pp. 492-493].
17
Due lavori recenti mi hanno fornito storie utili dell’evoluzione del concetto di feticcio
nel passaggio dal diciottesimo secolo al diciannovesimo. Essi sono W. T. J. Mitchell,
Iconology: Image, Text, Ideology, Chicago, University of Chicago Press, 1986, e David Simpson,
Fetishism and Imagination: Dickens, Melville, Conrad, Baltimore, Johns Hopkins University
Press, 1982.

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 223

sando che l’oggetto feticcio abbia un valore intrinseco. I feticisti sia mar-
xiani che freudiani collocano le forme illusorie e compensative di piacere e
potere nel luccichio dell’oro o nei pizzi di un indumento intimo. In un
certo senso, quindi, entrambi i teorici offrono un’applicazione economica di
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quella che nel diciottesimo secolo era stata in principio una critica della
religione – Marx nei termini economici diretti dell’investimento del lavoro
e Freud nel senso più indiretto di un’economia libidinale. Per entrambi, la
feticizzazione coinvolge la costruzione di un oggetto sostitutivo per evadere
le complesse realtà dei rapporti sociali o psichici.
I feticci sono perciò soluzioni a breve scadenza e miopi nei confronti
dei problemi reali del potere e del piacere nelle relazioni sociali. Per Freud,
comunque, la fede illusoria nel feticcio è una perversione relativamente
minore. Egli accetta come verità percettiva «l’orrore» e la «minaccia» di
castrazione oggettivamente collocate nei «genitali femminili reali» e perciò
tende a simpatizzare con la falsa credenza del feticista. Egli non condanna,
come Marx, la falsa credenza come pura barbarie. Piuttosto, universalizza la
perversione come parte dei processi naturali del pensiero primario e
infantile.
Ma laddove Freud tende a normalizzare la perversione, Marx retorica-
mente insiste sul punto di una moderna barbarie del feticismo della merce.
W. J. T. Mitchell nota che «l’orrore del feticismo» per Marx e per gli
antropologi del diciottesimo secolo era parimenti collocato non semplice-
mente «nell’atto illusorio e figurativo di trattare oggetti materiali come se
fossero persone» ma nel trasferimento della coscienza umana a «cose
18
inanimate» che «sembravano far sgorgare l’umanità fuori dall’idolatra» .
L’orrore sta dunque nel carattere perverso di uno scambio in cui, come
Marx dice altrove nel Capitale, le persone cominciano a relazionarsi l’una
19
con l’altra come cose e le cose assumono le relazioni sociali delle persone .
Potremmo essere tentati, quindi, di considerare Marx come il teorico
più incline ad utilizzare il feticismo come un termine legato ad un abuso
moralizzatore e fuori moda. Egli accusa esplicitamente coloro che sono
vittime dell’incantesimo della merce di essere come selvaggi che hanno
ceduto la propria umanità a una cosa. Ma è Freud, il famoso scopritore
della razionalità umana che sta dietro le perversioni, a credere realmente
nella verità visiva di ciò che il feticista vede quando guarda il corpo della
donna; è Freud a credere «nell’orrore della castrazione» dei genitali femmi-

18
W. T. J. Mitchell, Iconology: Image, Text, Ideology, cit., p. 190
19
Karl Marx, Capital, cit., p. 73; W. T. J. Mitchell, Iconology, cit., p. 190

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224 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

nili e a non riuscire a guardare al di là di essi a come le relazioni sociali di


potere li hanno interpretati in modo da farli apparire raccapriccianti. Dato
che lo scenario della visione di Freud si basa sulla “verità” percettiva
lampante della mancanza femminile, la sua stessa spiegazione comincia con
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un misconoscimento feticistico di una cosa sensuosa e percettiva – la vista


dei genitali femminili interpretati come “mancanza” – seguita dalla crea-
zione di un sostituto compensatorio – il feticcio. È come se Freud, desse
credito alla visione del feticista e al giudizio affrettato che ad essa si
accompagna sulla differenza sessuale delle donne come mancanza, ma
diffidasse della capacità del feticista di continuare ad affrontare la “verità” di
quella mancanza nel lungo periodo – di qui l’interpretazione del feticcio
come negazione di quella verità. Cosı̀ è solo nella parte successiva della sua
analisi – nel processo di disconoscimento di ciò che già sapeva essere vero
– che Freud non cade vittima dello stesso processo che tenta di analizzare.
Il modo in cui Marx articola la spiegazione è, all’opposto, più diffidente
nei confronti della vista fin dall’inizio. Egli considera criticamente la fisica
della vista e il modo in cui noi presumiamo che la vista nasca dall’oggetto
della visione, mentre in realtà è «un’eccitazione soggettiva» del nervo
ottico.
Marx è tempestivo nel sottolineare che questa analogia è debole;
poiché l’atto di guardare coinvolge almeno una relazione, un passaggio
reale della luce dall’oggetto all’occhio, mentre non c’è alcuna relazione
reale tra le proprietà fisiche della merce e i valori ad essa assegnati.
Guardando le merci non vediamo mai le cose in se stesse ma solo il valore
che è stato «impresso» su di loro – i soldi che valgono piuttosto che le
relazioni sociali che hanno loro assegnato valore; proiettiamo il valore del
nostro lavoro umano sui prodotti di quel lavoro.
Per Marx «l’orrore» non sta nell’oggetto della visione ma nel processo
soggettivo di feticizzazione – in ciò che accade all’idolatra che non riesce a
vedere il suo rapporto reale con gli altri produttori umani e che perciò
perde la propria umanità quando investe oggetti inanimati di attributi
umani. Anche nel feticcio freudiano l’idolatra investe in un oggetto inani-
mato, ma mantiene la propria umanità a spese dell’altro – trasformando la
donna in un oggetto ancora prima di investire il suo desiderio nel sostituto
del fallo mancante di lei. Perciò per Freud c’è un momento originario di
visione “vera” che accetta la radicale alterità di ciò che vede. Per Marx,
comunque, la realtà delle relazioni sociali ed economiche è un processo
dialettico che non si presta a farsi racchiudere in una singola visione. È per
questa ragione che un’analisi marxiana e politica dell’antecedente fatto

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 225

sociale della svalutazione della donna deve essere sempre scomposta in


fattori in una discussione sul feticcio freudiano.

Il “money shot”
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Questo abbozzo delle strutture comparative del feticcio marxiano e del


feticcio freudiano può aiutarci a comprendere la relazione tra la cultura
della merce e il piacere sessuale nel “money shot”. In quanto termine
gergale assegnato dall’industria al momento in cui il film hard core «man-
tiene l’impegno» della rappresentazione del piacere sessuale, il termine
sembra la perfetta incarnazione dell’illusoria e inconsistente natura della
«società dello spettacolo» tardo capitalista «a una dimensione» – una
società che consuma immagini ancor più avidamente di quanto non con-
20
sumi oggetti .
Ma naturalmente è nel suo rapporto con il denaro vero e proprio –
quell’oscenità definitiva – che il “money shot” è più evidentemente un
feticcio. Nel suo far convergere soldi e piacere sessuale – entrambi immagi-
nati come cose visibili, quantificabili, voluttuose e intrinsecamente preziose,
piuttosto che come strumenti per rapporti di scambio – il “money shot”
incarna perfettamente la profonda alienazione della società consumistica
contemporanea. Infatti, l’intuizione di Marx sull’analogia tra merci e soldi e
le «cose inanimate» dei feticci religiosi è che, sebbene entrambi possano
adeguatamente rappresentare il lavoro umano in una forma fissa e stabile, il
lavoro è in definitiva un processo che non può essere immutabile. Quando
e` davvero cosı̀ immutabile, allora questa stessa stabilità e questa stessa
rappresentabilità hanno l’effetto di dissolvere tutto il senso dei rapporti e
dei processi umani. Perciò i soldi, come nota Mitchell, finiscono per essere
visti non come «un simbolo “immaginario” del valore di scambio, ma come
“l’incarnazione diretta di tutto il lavoro umano”, la “incarnazione” del
21
valore» .
Una volta che il denaro assume la funzione di rappresentare il valore di
scambio di un oggetto, il processo di scambio della merce si divide, come
osserva F. W. Haug, in due segmenti isolati e antitetici di vendita e
acquisto. Il consumatore usa i soldi per ottenere il valore d’uso, mentre il

20
Cfr. Herbert Marcuse, One Dimensional Man, Boston, Beacon Press, 1964; [L’uomo a una
dimensione, Torino, Einaudi, 1967]; Guy Debord, La Socie´te´ du Spectacle, Paris, Buchet/Castel,
1967; [La società dello spettacolo, Milano, Baldini & Castoldi, 1997].
21
W. T. J. Mitchell, Iconology, cit., pp. 191-192.

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226 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

venditore usa il valore d’uso come mezzo per ottenere il valore di scambio
in forma di soldi. Gli scopi contraddittori del consumatore e del produttore
generano molto rapidamente una situazione in cui non importa più quale
sia il reale valore d’uso di una merce finché essa appare utile al consuma-
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tore. In tal modo, nella prima fase dello sviluppo del capitalismo, l’illusione
estetica diventa una funzione indipendente della vendita. Confezione e
desiderabilità cominciano a prendere il posto del prodotto tangibile, piutto-
22
sto che comprovarne l’utilità .
Quindi, l’aspetto più caratteristico della forma tardo capitalista del
consumo feticistico, è che, sempre più, non viene acquistato niente di
tangibile. Possiamo comparare il piacere della visione di un film pornogra-
fico contemporaneo al più diretto scambio tra la prostituta e il cliente, in
cui il consumatore, almeno momentaneamente, possiede la «merce» (o al
primitivo film per soli uomini, in cui la «merce» interpella direttamente lo
spettatore come consumatore). Il vantaggio – per il capitale – di questa
nuova forma di soddisfazione vicaria dell’immagine è che l’inconsistenza
stessa del valore d’uso acquistato rinvia alla struttura dei bisogni, rinno-
vando la disponibilità del consumatore a pagare per ciò che non possederà
23
mai .
Come dice Haug, «le merci prendono in prestito il proprio linguaggio
estetico dal corteggiamento umano» e lanciano sguardi accattivanti ai loro
24
acquirenti . L’effetto di tale corteggiamento della merce mediato dal de-
naro è che le «persone sono condizionate a godere di ciò che le tradisce»,
anche quando, come il feticista, sanno che il loro divertimento è fondato su
25
un’illusione . In una società post-industriale, consumare (si dice) è la chiave
di un’economia sana, anche se gonfiata. Forse nel pene gonfiato e “consu-
mato” del «money shot» possiamo vedere condensati tutti i principi della
società consumistica tardo capitalista alla ricerca del piacere: il piacere
rappresentato come un orgasmo del consumo; il feticcio non semplice-
mente come merce ma come surplus di valore dell’orgasmo.
Ma prima di addentrarci nelle seducenti attrazioni di quest’analogia
economica, potremmo innanzitutto esplorare alcuni dei presupposti sessuali
che stanno al di sotto della sua superficie. Poiché c’è qualcosa di quasi

22
F. W. Haug, Critique of Commodity Aesthetics: Appearance, Sexuality and Advertising in
Capitalist Society, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1986, p. 32 (edizione originale
1971).
23
Ivi, p. 55.
24
Ivi, p. 19.
25
Ivi, p. 53.

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 227

troppo sfacciatamente fallico nell’economia di questo «money shot». Nell’e-


conomia maschile del piacere sessuale contemporaneo, è stato più tipica-
mente il corpo della donna a funzionare come la merce feticcio e il surplus
di valore del piacere. Stephen Marcus, per esempio, scrive in The Other
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Victorians della «sottile» corrispondenza tra la «illimitata capacità orgasmica


26
femminile» e la contemporanea società consumistica .
Potremmo tuttavia chiedere: perché è l’immagine della sessualità femmi-
nile che sembra incarnare cosı̀ perfettamente la falsa consapevolezza di un
piacere sessuale degradato e desublimato? Quando Marcus afferma che
l’immagine del ventesimo secolo di una donna che si masturba può essere
interpretata come l’emblema stesso della cultura consumistica alienata,
dichiara che questo corpo riflette direttamente le condizioni di alienazione
della propria base economica. Ma quando analizza un’immagine contra-
stante della sessualità maschile caratteristica della pornografia del dicianno-
vesimo secolo (il vero e proprio soggetto del suo studio) Marcus offre una
forma molto differente di determinazione economica. L’interesse ossessivo
del diciannovesimo secolo per la «sessualità maschile e l’orgasmo maschile»
non riflette meramente la limitata economia industriale della scarsità e della
produzione; esso rappresenta anche una fantasia utopica di abbondanza
sessuale. Questa abbondanza è un capovolgimento della soddisfazione del
desiderio sia della fisiologia maschile – del suo capitalizzare la scarsa risorsa
del seme – sia dell’economia del diciannovesimo secolo e del suo limitato
dispendio delle risorse.
Marcus sostiene che la «fantasia della pornografia» del diciannovesimo
secolo è il complemento della scarsità economica, «poiché il mondo della
pornografia è un mondo di abbondanza. In esso tutti gli uomini sono in
sostanza infinitamente ricchi, tutti gli uomini sono provvisti illimitatamente
27
di quella moneta fluida universale che può essere spesa senza perdita» .
Può darsi che Marcus abbia ragione ad osservare che c’è un fondamentale
cambiamento nella rappresentazione del piacere sessuale dal diciannove-
simo al ventesimo secolo. Può darsi che abbia ragione anche quando
suggerisce che questa trasformazione è collegata ai cambiamenti nelle
modalità economiche dominanti della produzione e del consumo in questi
periodi e ai modelli della sessualità maschile e femminile che sono connessi
a queste modalità. Tuttavia, Marcus applica stranamente due pesi e due

26
Stephen Marcus, The Other Victorians: A Study of Sexuality and Pornography in Mid-
Nineteenth Century England, New York, New American Library, 1974, (1964), pp. VIII-XIV.
27
Ivi, p. 22.

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228 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

misure quando offre un modello utopico di una pornografia del diciannove-


simo secolo (a economia maschile), o «pornotopia», e un modello mera-
mente riflessivo, più puramente distopico di una pornografia del ventesimo
secolo (a economia femminile). Egli suggerisce dapprima che la «pornoto-
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pia» del diciannovesimo secolo esprime sogni utopici nati da realtà econo-
micamente e fisiologicamente limitate. Ma in un’analisi marxista che si rifà
alla tradizione della scuola di Francoforte della falsa coscienza, Marcus
considera l’abbondanza senza limiti della sessualità femminile come un
surplus dei sensi francamente distopico, come la falsa coscienza di una
società consumistica vorace e insaziabile.
La rappresentazione della sessualità maschile come desiderio utopico
attivo, la rappresentazione della sessualità femminile come falsa coscienza
passiva – tali sono i paradossi del tentativo di trascinare l’economia e la
storia nell’analisi della rappresentazione sessuale. Marcus offre un’illustra-
zione drammatica dell’incapacità di un’economia visiva fallica di immagi-
nare il piacere femminile come nient’altro che un’insufficienza o un eccesso
rispetto ai propri limiti.
Al di sotto di questa applicazione storica di due pesi e due misure sta la
dicotomia fondamentale di maschio soggetto/femmina oggetto, che poi
genera una pletora di ulteriori dicotomie – attivo/passivo, produzione/con-
sumo, visibile/invisibile – ognuna delle quali considera la donna, come ha
evidenziato Luce Irigaray, semplicemente come assenza o negativo di ciò
che un uomo è o ha: l’uomo ha il fallo, la donna non lo ha; l’uomo è il
logos, la donna è il silenzio; l’uomo è chiaramente rappresentabile, la donna
28
è il «continente oscuro» . L’argomento di Irigaray è che l’economia basilare
– sia nel senso marxiano della merce che nel senso freudiano del desiderio
libidinale – che funziona in tale dicotomizzazione è quella dell’uguaglianza
o identità. Essa afferma che quest’uguaglianza è in realtà una forma di
omosessualità maschile all’interno dell’eterosessualità: ad esempio, con l’o-
mosessualità intesa non come desiderio di un uomo per un uomo ma come
soggettività primitiva fallica che non riesce né a riconoscere né a immagi-
29
nare le reali differenze della donna .
Il paradosso della pornografia visiva contemporanea e del suo «money
shot» potrebbe quindi essere descritto come segue: è il tentativo ossessivo
di un’economia visiva fallica di rappresentare la differenza del piacere

28
Luce Irigaray, Speculum, cit., pp. 22, 26.
29
Luce Irigaray, This Sex Which Is Not One, Ithaca, Cornell University Press, 1985, p. 177
(edizione originale 1977); [tr. it. Questo sesso che non e` un sesso, Milano, Feltrinelli, 1978].

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 229

sessuale della donna in un linguaggio unitario di uguaglianza che non è in


realtà in grado di concepire la differenza. In linea con l’uso di Irigaray dei
termini freudiani e marxisti, potremmo considerare il «money shot» l’esem-
pio più drastico di come il fallimento di un’economia significante fallica
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significhi nient’altro che se stessa. Nel rappresentare l’orgasmo della coppia


nell’orgasmo attivo, produttivo e visibile del solo maschio, la pornografia
cinematografica contemporanea esibisce lo specchio-speculum di un desi-
derio e di una (speculare) economia fallici che possono vedere solo se
stessi, riaffermare solo se stessi.
Ma anche se il «money shot» offre l’esempio più palese dell’incapacità
dell’economia fallica di riconoscere la differenza, è importante compren-
dere che il nuovo hard core narrativo cerca nondimeno di percepire la
diversa “verità” del piacere della donna in modi mai eguagliati dalle
precedenti forme di pornografia cinematografica. Questo, ritengo, è il reale
valore del tentativo di Marcus di descrivere il cambiamento dalle immagini
pornografiche del diciannovesimo secolo incentrate sul maschio a quelle
del ventesimo secolo incentrate sulla femmina. Poiché il lungometraggio
porno è interessato in maniera quasi ossessiva, come non si è mai verificato
nei film per soli uomini o nella pornografia letteraria del diciannovesimo
secolo, a definire la differente natura del piacere femminile e a definirla
all’interno della narrazione.
In un saggio intitolato Il mercato delle donne Irigaray offre un’analisi
estesa dell’analogia tra la definizione marxiana del valore basato sullo
scambio e la valutazione dei corpi delle donne prodotta dallo scambio di
donne da parte degli uomini. Ella afferma che anche se le donne, come le
merci, hanno un intrinseco valore d’uso legato alla loro funzione riprodut-
tiva, è nel processo attraverso il quale due donne vengono poste in una
relazione quantificabile con un terzo termine – sia esso l’oro o il fallo – che
le donne perdono la propria specificità fisica per diventare, come la merce,
un «prodotto del lavoro dell’uomo» astratto e indifferenziato. Perciò il
desiderio, nel contesto dello scambio, «perverte» il bisogno, «ma tale
perversione sarà attribuita alle merci e ai loro presunti rapporti. Benché non
30
possano averne che agli occhi di terzi speculatori» . Perciò la donna come
merce esiste sia come corpo naturale con un valore d’uso che come corpo
con un valore di scambio socialmente costruito che rispecchia il desiderio
maschile. Questo valore astratto e apparentemente universale sottrae le
donne all’uso e allo scambio tra loro, mentre circolano come «idealità di

30
Ivi, p. 177; [tr. it. p. 147].

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230 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

valore» – oggetti feticcio – all’interno dell’economia omosessuale chiusa31.


L’adattamento di Irigaray dell’economia marxiana aiuta a spiegare
perché l’attrazione del film pornografico contemporaneo per il piacere
femminile non può mai rappresentare ciò che questo piacere significa per le
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donne. Ma piuttosto che attribuire questo fallimento alla falsa coscienza


della stessa merce, il problema reale sta in un’economia significante fallica il
cui apparato di misurazione non riesce ad andare oltre al numero uno.
Poiché per l’uomo il sesso della donna è, come dice il titolo di Irigaray,
questo sesso che non e` un sesso: contemporaneamente irriconoscibile, niente
affatto un sesso e non riducibile a un singolo organo, a una singola cosa.
Senza definire cosa sia la sessualità della donna, Irigaray afferma co-
munque che è possibile riconoscere l’esistenza di un’economia non unitaria
ma plurima dei piaceri femminili, invece di opposizioni dicotomiche che in
definitiva parlano del solo ed unico piacere fallico. Non è quindi una
questione di scelta, come sottolinea Freud, tra il piacere attivo clitorideo e
quello passivo vaginale, ma piuttosto della combinazione aggiuntiva di una
«molteplicità di zone erogene» – la clitoride e la vagina, le labbra e la vulva,
ecc. Tale lista che elenca le molte collocazioni del piacere femminile aiuta
ad abbattere le dicotomie o/o, attivo/passivo che sottolineano l’economia
sessuale fallica.
Perciò sia nel senso economico marxiano che in quello libidinale
freudiano, il feticcio del «money shot» dell’hard core compensa la scarsità e
la perdita. Ma nel suo senso freudiano questo feticcio è particolarmente
letterale: al posto del compromesso psichico che investe il piacere su un
significante relativamente indifferente – l’esempio di Freud è il giovane uomo
per il piacere sessuale del quale era necessario un certo «sfavillio sul naso» di
una donna – il «money shot» offre un’immagine del pene stesso come
sostituto del fallo mitico che il bambino di Freud teme di aver perso
nell’incontro con la differenza sessuale della madre. In effetti, questi primi
piani di peni eiaculanti eccessivamente lunghi e perennemente duri, potreb-
bero apparire un pò ridondanti, incarnazioni letterali di questo fallo di
fantasia idealizzato che, a quanto dicono, desideriamo tutti. Il pene eiacu-
lante del «money shot» disconosce quindi la castrazione evitando ogni
associazione con i genitali della donna; è come se l’immaginazione maschile
feticistica non potesse tollerare alcuna visione della differenza femminile nel
momento della rappresentazione del culmine orgasmico del proprio piacere.

31
Ivi, p. 183; [tr. it. p 150].

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 231

Nel saggio appropriatamente intitolato Il luogo cieco di un antico sogno di


simmetria, Irigaray afferma che c’è un sovra-investimento della visione, una
«norma» di visibilità e specularizzazione nell’economia significante ma-
schile che può solo teorizzare la donna come assenza, mancanza, irrile-
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vanza. Se gli uomini pensano che le donne siano versioni castrate di loro
stessi, afferma lei, è a causa di una fondamentale castrazione – «un buco» –
nella loro stessa economia significante limitata che può solo immaginare il
desiderio della donna come desiderio del pene32.
Il valore di tale analisi è che essa colloca al posto giusto la castrazione e
la feticizzazione – nelle presunte incapacità del corpo e della mente del
maschio consumatore della pornografia. Dal punto di vista dell’acquisizione
di potere femminile, l’affermazione più fiduciosa di Irigaray è il suggeri-
mento che la fobia freudiana suscitata negli uomini dalla perturbante
stranezza del «niente da vedere» della donna, sia in realtà la paura che lei
non possieda l’invidia che l’uomo presume che lei abbia – la paura, in altre
parole, che abbia altri desideri di natura differente da quelli di lui33.
L’argomento di Irigaray è che gli uomini sono ciechi rispetto alle donne:
rispetto ai loro organi sessuali differenti e multipli. Ma la soluzione a questa
cecità non è di celebrare o di fissare (a turno) un singolo emblema visivo
della differenza di lei, poiché anche questo sarebbe feticizzare, isolare
l’organo da una più ampia dinamica storica delle relazioni di scambio
all’interno della quale esso opera.
Il «money shot» in definitiva potrebbe quindi essere visto come quel
momento in cui l’economia «omosessuale» maschile è maggiormente in
crisi, torna maggiormente a uno standard di valore assoluto e unitario. Ma
il significato di questa affermazione non dovrebbe essere quello di sostenere
che la pornografia sia irrimediabilmente fallica. Dovrebbe essere quello di
dire, piuttosto, che essa è irrimediabilmente fallica in questo modo partico-
lare, in questo momento particolare, a causa delle pressioni all’interno del
suo stesso discorso per rappresentare la verità visiva dei piaceri femminili
sui quali sa molto poco.
Infatti, avendo il 1987 come punto d’osservazione, è ora possibile
vedere che il «money shot» è sul punto di diventare, come le convenzioni
nei western dei buoni con il cappello bianco e dei cattivi con il cappello
nero, un inattuabile e incredibile arcaismo le cui grossolanità e i cui limiti

32
Luce Irigaray, Speculum, cit., p. 49.
33
Ivi, p. 51.

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232 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sono diventati sempre più evidenti34. Come chiede Irigaray: «chissà che, a
forza d’esibire, senza pudore, la fallocrazia ovunque regnante, non diventi
possibile un’altra economia sessuale? La pornografia come “catarsi” del
dominio fallico? Come svelamento della soggezione sessuale delle don-
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35
ne?» . Nel breve segmento di Questo sesso che non e` un sesso dedicato alla
pornografia, Irigaray non tenta in alcun modo di rispondere a queste
domande. Ma le domande stesse suggeriscono il valore strategico di un
atteggiamento femminista verso la pornografia che cerca i semi di un’eco-
nomia sessuale differente nell’indagine delle limitazioni e delle carenze di
quella dominante.
Le domande continuano: «“il di più” deve finire nel “di meno”?...
L’accumulo deve finire nella dissipazione fino ad esaurimento delle riser-
ve?... All’orizzonte della scena pornografica c’è forse il persistente fascino
della mancanza? L’uomo confesserebbe cosı̀ la propria incapacità di godere
36
delle ricchezze? Della natura?» . Forse se le donne possono iniziare a porre
questo tipo di domande alla pornografia esistente, siamo sulla strada che
porterà alla formulazione e all’articolazione dei piaceri sessuali fondati su
un’economia dell’abbondanza piuttosto che della scarsità, dei molti piutto-
sto che dell’uno.

Gola profonda e il “money shot”


Gola profonda (Gerard Damiano, 1972) è probabilmente il più famoso tra i
lungometraggi pornografici della prima ondata a istituire la convenzione
del money shot. Tutto nella narrazione del film sembra concepito per
motivare la quantità necessaria di tali inquadrature (dieci) stabilita da
Ziplow nella sua The Filmmaker’s Guide to Pornography. Linda, una giovane
single e di mentalità molto libera, interpretata da Linda Lovelace, confessa
ad un’amica più esperta di trovare il sesso piacevole – «molti piccoli
fremiti» – ma non eccitante in modo sconvolgente: «niente campane che
suonano, dighe che crollano, o bombe che esplodono». Una serie di
«esperimenti» con una gran quantità di uomini servono solo a confermarle

34
La caduta di accento dal pene e dal “money shot” è già avvenuta in un piccolo numero
di film hard core ora diretti dalle donne. Vedi soprattutto i lavori di Candida Royale Urban
Heat e Femme. Si sta verificando la stessa cosa anche in hard core più convenzionali e
orientati al maschile. Cfr. la serie Insatiable con Marilyn Chambers.
35
Luce Irigaray, This Sex, cit., p. 203; [tr. it. p. 168].
36
Ivi, p. 202.

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 233

questo fatto. L’enfasi posta su questi esperimenti, si dovrebbe notare, è


soprattutto – anche se non esclusivamente – sulla “carne” piuttosto che sui
“soldi” come momento culminante del rapporto sessuale.
Possiamo già notare in questo scenario una differenza molto impor-
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tante rispetto a quello del film per soli uomini. Laddove il film per soli
uomini viene rapidamente al dunque dell’atto sessuale, presupponendo che
nell’atto sessuale stia il proprio significato, il proprio compimento, Gola
profonda è tipico della nuova onda dell’hard core post-1972 per il fatto che
sembra problematizzare questo compimento. È significativo, perciò, che
Linda confessi non il peccatuccio dell’esplorazione sessuale ma ciò che –
nei primi anni Settanta – e in parte come risultato di nuove rappresenta-
zioni di piaceri sessuali come questi – era diventato molto più vergognoso:
che lei non trovi un totale appagamento in questa esplorazione.
Ciò che qui merita di essere sottolineato è che il film dà per scontata
una premessa che è rarissima nei film per soli uomini: la possibilità che il
piacere sessuale non sia lo stesso per tutti. L’amica più adulta e più esperta
di Linda lo dice nei termini dei noti cliché degli anni Settanta, «carezze
diverse per persone diverse», ma la questione è significativa. Essa suggerisce
una tolleranza – persino un’accoglienza e un incoraggiamento – di una
molteplicità di pratiche sessuali che è tipica dei nuovi atteggiamenti degli
anni Settanta verso la sessualità e del cinema pornografico in particolare.
Un altro cliché che segna il cinema degli anni Settanta è la nozione di
37
terapia – quello che Stephen Heath ha chiamato il «rimedio sessuale».
Detto semplicemente, ciò significa che più sesso o sesso migliore fa bene a
ciò che ci affligge e che in materia di piacere sessuale la cosa migliore è
sempre consultare un esperto. Durante un esame clinico che si avvale di un
telescopio al posto di uno speculum, il sessuologo di Linda (l’onnipresente
Harry Reems) la informa che non ce l’«ha». In un fraintendimento fallogo-
centrico che Luce Irigaray apprezzerebbe, Linda risponde: «sono una
donna, non è previsto che lo abbia». Ciò che è in gioco in questo film,
comunque, e direi in molti lungometraggi pornografici di questo periodo, è
proprio la questione della misura in cui quell’“uno” fallico può essere usato
per rappresentare e determinare i “due” (o più) della differenza.
Quando il bravo dottore individua infine il clitoride di Linda nella sua
gola la rassicura che è comunque meglio che non averlo «affatto». La
preoccupazione di lei è per la condizione anormale in cui questo la mette –
«che ne diresti se avessi le palle nelle orecchie!». Ma la fisioterapia viene in

37
Stephen Heath, The Sexual Fix, London, Macmillan, 1982.

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234 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

suo aiuto e, con molta pratica, cominciando dal dottore stesso, lei impara la
tecnica della «gola profonda» che culmina in un «money shot» il cui climax
narrativo è accresciuto dall’interpolazione di fuochi d’artificio, suoni di
campane, esplosione di bombe e lancio di missili.
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La trovata della «gola profonda» ha dunque la funzione di rendere


naturale ciò che nei film per soli uomini è sempre stata la più fotogenica di
tutte le pratiche sessuali: la fellatio. La fellatio – seguita da un «money shot»
in cui l’eiaculazione avviene sul viso della donna – diventa, sulla scia
dell’enorme popolarità di Gola profonda, la figura privilegiata per l’espres-
sione del climax e della soddisfazione. (Essa raggiunge, per esempio, una
sorta di apoteosi nel film dei fratelli Mitchell, Behind the Green Door,
realizzato successivamente nel corso dello stesso anno).
Finalmente soddisfatta, Linda vuole solo sposare il suo dottore ed
essere, come dice, la sua «schiava». Ma il dottore ha un’idea più moderna:
lei diventerà una fisioterapista. Ciò che segue è una parodia allargata di
Masters e Johnson – una terapia di tipo sessuale, in cui Linda aiuta vari
uomini dai gusti un po’ particolari mentre ancora si sottopone alla «terapia»
con il dottore, accasciato sul letto con una benda intorno al suo pene
esausto, incapace di soddisfare le richieste di lei di ulteriori rapporti sessuali.
Una “gag” finale chiude il film: attraverso il suo lavoro di fisioterapista
Linda incontra Wilbur, a cui piace interpretare il ruolo del ladro sadico,
colto nell’atto di spiarla. Al di là di questo ruolo, comunque, egli è dolce e
gentile, l’uomo dei suoi sogni. Quando propone a Linda di sposarlo, lei gli
comunica che l’uomo che sposerà deve avere un «cazzo di nove pollici» per
soddisfare le richieste della sua «gola profonda». Wilbur chiama immediata-
mente il dottore, dicendo che è a soli quattro pollici dalla felicità. Il dottore
lo rassicura, ed egli si volta verso Linda con la notizia che il suo pene di
tredici pollici può essere ridotto a qualsiasi misura lei preferisca. Il piccolo
Wilbur è dunque il suo uomo ideale.
Quindi, Gola profonda feticizza il pene più o meno in tutti i sensi del
termine. La questione è come leggere questa feticizzazione. Probabilmente
la lettura femminista più comune sarebbe di vederla come un mezzo per
privare le donne delle loro forme di piacere naturali e organiche, impo-
nendo loro la perversione non solo della fellatio, ma della sua versione
parodica della «gola profonda». Gloria Steinem, per esempio, scrive che
Damiano, il regista del film, ha inventato un trucco che è «secondo solo alla
completa eliminazione di Freud della clitoride come fonte specifica del
piacere femminile... Sebbene la sua fantasticheria fisiologica su una donna
fosse molto meno ambiziosa della fantasticheria di Freud su tutte le donne,

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 235

il suo film pornografico ha avuto un efficace impatto audiovisivo; un


congegno istruttivo di cui era priva la teoria freudiana». Perciò, i «milioni di
donne» che venivano portate al cinema da fidanzati, mariti, o protettori
imparavano come far piacere a un uomo attraverso l’esempio di questo
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38
umiliante omaggio al feticcio .
Nello scenario di Steinem alla donna è assegnato il ruolo del feticista
selvaggio di Marx che si prostra davanti al potere e al piacere del fallo e
che rinuncia alla propria «specifica fonte di piacere femminile». Le ripetute
eiaculazioni sul suo viso possono perciò essere lette come una prova visiva
della sua oggettificazione e umiliazione. Nonostante il sorriso sul suo viso,
sappiamo dall’autobiografia di Linda Lovelace che questo sorriso era una
bugia che mascherava il terrore e il dolore, che lei era una schiava del sesso
per l’uomo che le faceva da protettore e manager, e che la sua intera vita a
39
quel tempo era, secondo il titolo della sua autobiografia, un «tormento» .
Sebbene non metta in dubbio l’ovvia importanza per le femministe di
respingere come inautentico il piacere delle donne ritratto in film di questo
tipo, metto però in dubbio la nozione, fortemente implicita nell’argomenta-
zione di Steinem, che c’è uno «specifico» piacere femminile che viene
represso dal film e che è, in effetti, represso da tutta la pornografia. Vorrei
invece affermare che anche se Gola profonda omette la rappresentazione
visiva della clitoride di Linda Lovelace, anche se il suo «money shot»
feticcio serve, secondo le parole di Gayatri Spivak, a «cancellare» quell’or-
gano, la sua narrazione costantemente sollecita e cerca di individuare il
momento narrativo di un orgasmo invisibile. Cosı̀ se, da una parte, il film
cerca di cancellare la differenza sessuale attraverso una trovata che renda
più naturale la pratica della fellatio, dall’altra parte, si può dire che questa
stessa eliminazione allegorizzi la differenza dandole di fatto la faccia di
Linda Lovelace.
Tutta la sollecitudine del film nel cercare di localizzare la clitoride
perciò deve essere vista nel contesto della conoscenza relativamente nuova
di questo organo inteso precisamente non come una versione ridotta o
difettosa del pene – come nella spiegazione di Freud dell’economia fallica
dell’uno – ma come una nuova economia non riducibile a quell’uno –
un’economia dei molti – di «carezze diverse per persone diverse». Anche se
la feticizzazione del fallo compiuta dal film cerca di disconoscere la

38
Gloria Steinem, The Real Linda Lovelace, in Outrageous Acts and Everyday Rebellions,
New York, New American Library, 1986, p. 275.
39
Linda Lovelace, Mike McGrady, Ordeal, New York, Berkeley Publishing Corp., 1980.

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236 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

differenza al momento dell’orgasmo e di modellare quell’orgasmo su una


metafora decisamente fallica di «esplosione di bombe», e anche se la donna
è ritratta come dipendente dall’uno dell’uomo, si sono registrate contraddit-
torie pluralità e differenze. Il fatto stesso che l’estesa narrazione del nuovo
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lungometraggio hard core si colleghi parodicamente alla ricerca scientifica


stile Masters e Johnson per la «verità» della differenza della donna indica in
che misura il piacere invisibile e non quantificabile della donna sia stato
portato alla ribalta, sulla scena dell’osceno.
Cosı̀ piuttosto che paragonare l’invocazione di Gola profonda per un’e-
conomia fallica a quella di Freud, come fa Steinem, possiamo fare meglio
mettendo a confronto le loro differenze. In Freud, la feticizzazione è un
modo ovvio per il soggetto maschile di mantenere l’economia fallica
dell’uno. Come abbiamo visto in precedenza, il feticista freudiano conserva
la propria umanità al prezzo di sottolineare la strana inumanità – l’«orrore»
– dell’altro femminile. Vorrei affermare che Gola profonda non rinnova
semplicemente questa oggettificazione dell’altro femminile. O piuttosto, che
se lo fa, lo fa in un modo che mette a tal punto sfacciatamente in mostra la
«fallocrazia» dominante che diventa possibile intravedere, nelle univoche
limitazioni della sua economia dell’uno, la possibile elaborazione di un’eco-
nomia dei molti.
Foucault scrive che con l’incitamento alla sessualità contenuto nei
proliferanti discorsi dell’età moderna sulla sessualità, si sviluppa una cre-
scente tendenza a identificare e a rivolgersi a molte e diverse pratiche
sessuali specializzate e, durante il processo, a «insediare» queste perversio-
40
ni . La mia argomentazione è che Linda Lovelace e la sua clitoride
insediata in modo perverso potrebbero essere considerati non come un’en-
nesima elisione di e orrore nei confronti dell’anomalia della “mancanza
sessuale” femminile, ma come qualcosa di totalmente diverso: come il
tentativo ambivalente e contraddittorio di un’economia fallica di contare
oltre il numero uno, di riconoscere, come continuano a sostenere i cre-
scenti dibattiti sulla sessualità, che non può più esistere una sessualità fissa,
maschile, femminile, o altro, ma che ci sono solo sessualità proliferanti.
Infatti se «l’insediamento di perversioni» è, come dice Foucault, uno stru-
mento e un effetto del potere, allora dato che i dibattiti sulla sessualità
elencano, identificano e in definitiva producono una stupefacente serie di
piaceri e di perversioni, la molteplicità stessa di questi piaceri e di queste

40
Michel Foucault, The History of Sexuality, cit., p. 48.

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 237

perversioni inevitabilmente lavora contro l’idea precedente di una norma


singola – un’economia dell’uno – in base alla quale si misura tutto il resto.
È questo crollo dell’idea stessa della norma che io trovo estremamente
stimolante e utile per una lettura femminista di e una difesa femminista
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contro la pornografia cinematografia contemporanea. Infatti se non esiste


un piacere “naturale” indipendente dalla sua produzione nel discorso so-
ciale, allora una possibile strategia efficace per le donne contrariate dalla
offensiva confluenza di potere e piacere nella pornografia può essere quella
di cominciare a capire le contraddizioni all’interno della produzione di
piacere del genere. E similmente, se il potere, come dice Foucault, deve
essere rintracciato nel discorso e se la resistenza al potere è «un campo
41
multiplo di relazioni di forza» piuttosto che un singolo punto di opposi-
zione rivoluzionario, allora la più efficace resistenza al potere del feticcio
non è quella di ristabilire una verità essenziale sulla quale misurare l’illu-
sione del feticcio. Fare ciò significherebbe soltanto stabilire norme nuove e
potenzialmente repressive come soluzione alla norma già repressiva del
fallo.
Se il feticcio marxiano del capitale della merce, il feticcio freudiano del
disconoscimento della castrazione e la loro convergenza nel «money shot»
del film pornografico possono essere caratterizzati come forme di potere
repressivo, allora ci dobbiamo rendere conto che questo potere non è
istituito dall’alto. Il modo più efficace di resistere a queste forme di
feticizzazione, allora, potrebbe non essere la tradizione marxiana dell’icono-
clastia. Infatti se diventiamo troppo iconoclasti, se il nostro unico scopo è
di mandare in pezzi gli idoli anormali e perversi della Mammona per
distruggere la falsa coscienza che essi producono, allora è possibile che non
riusciamo a comprendere e a combattere efficacemente l’effettiva attrazione
delle forme capitaliste e patriarcali di potere e piacere. D’altra parte se noi,
come Freud, assegniamo troppa legittimità alle cause apparentemente uni-
versali che hanno creato il bisogno del feticcio (fallico), allora rischiamo di
diventare noi stessi feticisti razionali – di normalizzare e giustificare la
funzione del feticcio nel nome dei processi universali del desiderio che
elidono l’esistenza del soggetto femminile.
Dobbiamo tornare, allora, alla questione di quello che è il più efficace
uso femminista della nozione di perversione. Se non ci può essere nessuna
posizione autentica, vera o normale dalla quale resistere alla repressione del
femminile com’è attualmente rappresentato nella pornografia visiva, ma

41
Ivi, p. 92.

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238 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

solo la speranza di sfuggire all’economia dell’uno, allora mi sembra che la


strategia più efficace starebbe nell’abbracciare il potenziale liberatorio con-
tenuto nell’«insediamento di perversioni».
Ciò non significa che le donne dovrebbero accettare una definizione
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fallica della loro sessualità differente come perversa. L’analisi di Foucault di


come i discorsi sulla sessualità hanno creato la donna isterica sessualmente
42
«saturata» è un ammonimento sufficiente contro tutto ciò . Ma ciò significa
che dovremmo riconoscere che il processo inevitabile di questo «insedia-
mento di perversioni», della feticizzazione stessa, può essere usato per
infrangere l’opposizione tra norma e devianza sulla quale spesso poggiano
le forme repressive del potere.
La lezione di Gola profonda sembrerebbe perciò essere la seguente:
mentre è innegabile che in questo film una norma fallica feticizzata tenta
costantemente di rappresentare la “vera” natura del piacere femminile, il
mero fatto che questo piacere non possa essere rappresentato come una
singola cosa all’interno dei termini quantificabili di quell’economia fallica
costringe il testo ad esplorare una serie di sostituzioni perverse – in questo
caso la fellatio e i giochi sadomasochistici – come mezzi per scoprire e
fissare l’elusiva natura del piacere femminile. Nel Gola profonda del 1972
questa gamma di pratiche è ancora molto limitata. Nei successivi lungome-
traggi pornografici dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta, la
gamma diventa più ampia. Ma ognuna di queste definizioni perverse è
destinata a fallire come rappresentazione del climax narrativo visibile del
piacere della donna. Perciò, quando si sviluppa la forma lungometraggio
del genere essa tende a moltiplicare le opportunità di investigare gamme
più ampie di pratiche sessuali perverse. Le femministe e la morale comune
hanno allo stesso modo avuto la tendenza a vedere solo l’incremento di
violenza di queste forme di rappresentazione sessuale. Ma è importante
comprendere anche che la diversità stessa di queste pratiche contribuisce
alla sconfitta del desiderio originale dell’economia fallica di fissare l’identità
sessuale della donna come specchio del proprio desiderio. E cosı̀ il genere
della pornografia eterosessuale diventa sempre più, quasi malgrado se
stesso, l’occasione per rappresentare pratiche sessuali diverse proprio men-
tre cerca di rappresentare identità sessuali definitive. Nella moltiplicazione
di queste diverse pratiche il genere mina il suo scopo originario di fissare e
rappresentare la verità narrativa lineare e visibile del piacere sessuale
femminile.

42
Ivi, p. 104.

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FETICISMO E PORNOGRAFIA 239

Un feticcio è in effetti, come dice Marx, «una cosa misteriosa». Come le


icone religiose, esso mistifica. E, come le icone religiose, può essere
oppressivo. Ma la lezione che il femminismo può trarre sia da Marx che da
Freud è che esso deve essere inteso come qualcosa di più che una frode
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illusoria perpetrata su un popolino ignaro e credulo. Ho cercato di dimo-


strare che la più importante di queste lezioni deve essere che la «man-
canza» disconosciuta dal feticcio non è una vera mancanza ma solo una
percezione basata sulla precedente svalutazione sociale ed economica delle
donne. Il feticcio del «money shot» esemplifica una soluzione a breve
termine e miope offerta dall’hard core visivo al perenne problema maschile
di comprendere la differenza della donna. Ma un’altra lezione è che tali
soluzioni sono piene di contraddizioni che possono aprire possibili vie di
resistenza ai piaceri sessuali egemoni.

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PARTE SECONDA

ERESIE

a cura di Giulia Fanara

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE
PROSPETTIVE CRITICHE, ISTANZE
EPISTEMOLOGICHE, STRATEGIE DI RESISTENZA
DELLA TEORIA FEMMINISTA DEL CINEMA

di Giulia Fanara

DA UN LATO, LA DIFFICILE AVVENTURA DEL VERBO: UNA PASSIONE. DALL’ALTRO –


IL RASSICURANTE RIVESTIMENTO DEL MIRAGGIO PREVERBALE DELLA MADRE: UN
AMORE.

Julia Kristeva, Eretica dell’amore

Lei ha questa paura che lei non ha nomi che lei


ha molti nomi che lei non conosce i suoi nomi lei ha
questa paura che lei è un’immagine che viene e va
chiarendo e scurendo la paura che lei è il sogno
nel cranio di qualcun altro lei ha questa paura che se
lei si toglie i vestiti spinge via il suo cervello
sbuccia la sua pelle che se lei prosciuga i vasi
sanguigni strappa la carne dalle ossa fa schizzare
il midollo lei ha questa paura che quando
raggiunge se stessa si volge per abbracciarsi una
testa di leone o di megera o di serpente si volterà
per divorarla e sogghignare lei ha questa paura che se lei scava
dentro se stessa lei non troverà nessuno che quando lei arriva
“lı̀” lei non troverà gli intagli sugli alberi gli
uccelli avranno mangiato tutte le briciole ha questa paura
che non troverà la strada del ritorno1.

Gloria Anzaldúa, Borderlands/La Frontera

SPERO CHE POTREMO CONCILIARE LA LEGGEREZZA DI QUESTA NUOVA ERA CON LA


PESANTEZZA DELLA GENEALOGIA FEMMINILE CHE PRODUCE LA CONSAPEVOLEZZA

1
Gloria Anzaldúa, Borderlands/La Frontera, San Francisco, Aunt Lute Books, 2 ed.,
1999 (1987); [tr. it. Terre di confine/La frontera, a cura di Paola Zaccaria, Bari,
Palomar, 2000. La poesia, qui tradotta a cura di chi scrive, è alla p. 77 dell’edizione
italiana].

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244 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

SCOMODA CHE, SEBBENE MOLECOLARE, QUESTO È ANCORA UN MONDO DI UOMINI.


SPERO CHE SAREMO IN GRADO DI PENSARE MOLTEPLICITÀ E LEGGEREZZA MA
ANCHE DI PORTARE IL PESO DEL NOSTRO BAGAGLIO: DA UN LATO LA MEMORIA
STORICA DELL’OPPRESSIONE, DALL’ALTRO IL PESO DELL’EPISTEMOLOGIA
FEMMINISTA, DELL’ETICA FEMMINISTA, DELLA POLITICA FEMMINISTA...
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Rosi Braidotti, Dissonanze

Genealogie: “Il personale e` politico”.


Come abbiamo narrato la nostra esperienza femminile
del mondo stando sulla soglia dei nostri corpi

Io sono Carne spaziosa che canta, sulla quale si innesta un (una) io


nessuno sa quale, più o meno umano ma in primo luogo vivo
perché in via di trasformazione.

Hélène Cixous, Il riso della Medusa

Sto guardando attraverso un cerchio in un cerchio di sguardi.

Trinh T. Minh-ha, Reassemblage

Il cinema e le donne, ma anche il cinema e la politica. Non stupisce che la


riflessione delle donne sul cinema sia, fin dall’inizio, politica. In sincrono
con l’esplodere della rivolta studentesca e operaia degli anni Sessanta e
Settanta, il movimento femminista vive la sua seconda grande ondata
ponendo la differenza sessuale al centro della proprie lotte. È un movimento
radicale, un movimento di liberazione, che si declina come tale, nelle società
occidentali, a partire da un vissuto politico in larga misura interno ai
movimenti giovanili e studenteschi della fine degli anni Sessanta. Un
vissuto dentro il quale matura un dissenso non esauribile nella battaglia,
ancora tutt’altro che conclusa, per i diritti, e che impone, piuttosto, di
ripensare ruoli, modelli, sistemi di sapere (una cultura sessista, ma anche i
“maestri pensatori”, la psicanalisi, lo stesso marxismo) a partire da quella
differenza di genere che ha contrassegnato la storia delle donne nella società
patriarcale e che impone la necessità di distinguere tra ruoli sessuali
2
biologici e ruoli sociali di genere . È proprio l’analisi dei ruoli sessuali come

2
Cfr. Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex: The Case of Feminist Revolution, New York,
Bantam Books, 1970; Elizabeth Janeway, Man’s World, Woman’s Place: A Study in Social
Mithology, New York, Dell, 1971.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 245

modo di controllo sociale a caratterizzare la prima fase della riflessione


delle donne, che prende le mosse da quella che è la più importante
scoperta della letteratura femminista del biennio ’68-’70 (Millett, Firestone,
Koedt): il fondamento sessista del sistema patriarcale, delle sue istituzioni
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ma anche delle sue ideologie – né Marx né Freud rimarranno al di fuori di
questa critica, ed è proprio dalla definizione del patriarcato di Millett che
prenderanno le mosse le analisi di Rich, come dal confutare il suo rifiuto
delle teorie freudiane da parte di Millett muoveranno molte studiose (prima
3
tra tutte Mitchell) per ridiscutere della psicoanalisi –, la politicità del sesso
come origine stessa dei rapporti di potere e di dominio tanto nella sfera
pubblica che in quella personale, le motivazioni biologiche ma anche
culturali di questa oppressione, la scoperta del proprio corpo ma anche la
messa in discussione di una eterosessualità obbligata, le prospettive di
liberazione con la prefigurazione di un quadro sociale che, con l’ausilio
delle tecnologie, significhi la liberazione dell’intera umanità.
4
Liberazione, dissenso, differenza sessuale , genere: ho già nominato,
all’interno di una proposizione che si prefigge l’impossibile compito di
raccontare in breve almeno due decenni (metà ’60-metà ’80), quattro snodi
cruciali (e densi di differenziazioni) del discorso delle donne, un discorso
parlato da quel luogo silenzioso della loro assenza che è il solo luogo a
5
partire dal quale una donna può essere nominata . Una donna, scriverà Julia
Kristeva, «è una cosa che non può essere: è anzi quello che non va nell’essere.
A partire di qui una pratica di donna non può essere che negativa,
all’opposto di ciò che esiste, per dire che ‘‘non è questo’’ e che ‘‘non è
ancora’’. Intendo dunque per donna ciò che non si rappresenta, ciò che non
6
si dice, che resta al di fuori delle dominazioni e delle ideologie» .

3
Cfr. Kate Millett, Sexual Politics, New York, Doubleday, 1970; Adrienne Rich, Of Woman
Born: Motherhood as Experience and Institution, New York, W. W. Norton, 1976; Juliet
Mitchell, Psychoanalysis and Feminism, New York, Random House, 1974.
4
Una definizione corrente soprattutto nell’ambito del dibattito femminista europeo, che
riunisce insieme il dato biologico, corporeo e l’aspetto simbolico o dell’immaginario.
Nell’area anglofona le due sfere sono invece espresse attraverso i due termini sex e gender. La
coppia sesso-genere costituisce uno degli snodi concettuali più rilevanti per indagare la
differenza, come aveva già evidenziato Gayle Rubin in The Traffic in Women: Notes on the
“Political Economy” of Sex, in M. Rayna Reiter (a cura di), Towards an Anthropology of Women,
New York, Monthly Review Press, 1975; [tr. it. Lo scambio delle donne. Una rilettura di Marx,
Engels, Le´vi-Strauss e Freud, «Nuova dwf», n. 1, ottobre-dicembre 1976, pp. 23-65].
5
Alcune parti di questo saggio sono state pubblicate in una precedente versione con il
titolo Il dibattito femminile in Italia e negli Stati Uniti d’America nei numeri 347, 348
(gennaio-febbraio, marzo-aprile 1994) e 353-354 (gennaio-aprile 1995) di «Cinema Nuovo».
6
Julia Kristeva, La femme, ce n’est jamais ça, conversazione con alcune donne del gruppo

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246 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Un luogo che ha a sua volta moltiplicato all’infinito le domande sulla


sua stessa natura, sulla sua geografia, ma, soprattutto, sul “chi è che parla”,
sul soggetto della sua enunciazione, contrapponendo l’«emersione poli-
morfa di desideri e parole delle donne nella loro diversità e nelle loro
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differenze imprevedibili» a quell’Uno (maschile) che è l’esistenza stessa del


7
potere , e che ha inaugurato pratiche e concepito obiettivi, messo in atto
spostamenti e attraversamenti, evidenziato contraddizioni: «parliamo il
linguaggio degli uomini o il silenzio delle donne?» è la domanda che de
Lauretis propone rispetto alla questione della teoria e della scrittura femmi-
niste e a chi si divide rispetto alle due posizioni risponde che è necessario
parlarli tutti e due,

perseguire strategie di discorso che diano voce al silenzio delle donne


dentro, attraverso, contro, al di sopra, al di sotto e al di là del linguaggio
degli uomini [...] elaborare e inventare pratiche di linguaggio in cui il
genere non sia soppresso né smaterializzato nella pura discorsività, ma
rivendicato e negato al tempo stesso, affermato e messo in questione,
decostruito e ricostruito8.

Similmente, Cavarero scrive: dal momento che la donna non è il


soggetto del linguaggio (ma quel neutro-universale uomo in cui l’uomo può
riconoscersi in «tutta la concretezza del suo essere intero, un vivente
sessuato»), «il suo linguaggio non è suo. Essa perciò si dice e si rappresenta
in un linguaggio non suo, attraverso le categorie del linguaggio dell’altro. Si
pensa in quanto pensata dall’altro», il suo essere consiste «in una straniazio-
ne». «In questa esperienza di distanza dalla lingua», le uniche vie di fuga
lasciateci da quella lingua straniera nella quale abbiamo imparato a parlare,
la lingua del padre – «non c’è una lingua materna perché non c’è una lingua
della donna» –, potrebbero apparire «il silenzio, il residuo non detto, il
corpo piuttosto che il pensiero». Ma «l’unica via possibile e insieme reale è
invece quella che si radica con necessità nell’esperienza quotidiana: l’essere

“Psychanalyse et politique” del MlF, apparsa in «Tel Quel», n. 59, autunno 1974; [tr. it. La
donna non e` mai questo, in Eretica dell’amore, a cura di Edda Melon, Torino, La Rosa, 1979,
pp. 71-78, p. 73].
7
Françoise Collin, Au Revoir, «Cahiers du Grif», vol. 23, n. 4, 1979, cit. in Rosi Braidotti,
Patterns of Dissonance: A Study of Woman in Contemporary Philosophy, Cambridge, Polity Press,
1991; [tr. it. Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea. Verso una lettura filosofica delle
idee femministe, Milano, La Tartaruga, 1994, pp. 117-118].
8
Teresa de Lauretis, Genealogie femministe. Un itinerario personale, in Id., Sui generiS. Scritti
di teoria femminista, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 24-25.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 247

un pensiero che non si è, eppure l’essere imprescindibilmente in questo


pensiero, il parlarsi e il dirsi in una lingua straniera». Pensandosi, tentando
di rispondere alla domanda “che cos’è” la donna, la donna si trova a
misurarsi con rappresentazioni del femminile molteplici e opposte, comun-
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que incompatibili con «l’essenza di universale razionalità che definisce


l’umano per eccellenza»; essa, dall’interno, «si trova pensata» e cosı̀ facendo,
«come soggetto, esperisce nel linguaggio a lei esterno», che non la contempla
come soggetto, l’esperienza della separatezza, una separatezza che vuole
essere colmata: «è un pensiero prepotente, ma forse, in questa prepotenza,
cieco rispetto al guadagno già raggiunto: l’esperienza della separatezza non
più muta, ma venuta alla parola, e quindi concettualizzata, rappresentata,
non è separata dal soggetto che la pensa pensandosi, che la concettualizza
9
e rappresenta. Essa è in atto il suo pensiero di sé» .
E una parte determinante dell’impegno politico delle donne, come
mostrerà con chiarezza questa seconda ondata, è la produzione di pensiero
– “pensare la differenza sessuale”, l’elaborazione di posizioni ideologiche,
filosofiche e anche estetiche centrate sulla donna.
Una strategia di segno diverso ma ancora più radicale è quella suggerita
dal “mimetismo ludico” di Luce Irigaray, che, mettendo a nudo tutta la
carica sovversiva del silenzio delle donne (del discorso delle donne), si
propone di articolare la differenza ribaltando la logica speculare alla base
del Logos fallocentrico attraverso un mimetismo che ne sveli, servendosi
della ripetizione, la logica di oppressione, che sfidi la logica maschile
risottomettendosi alle sue premesse «per farvi però “apparire”, mediante un
effetto di ripetizione ludica, ciò che dovrebbe restare occultato: che nel
linguaggio si nasconde una possibile operazione del femminile [...] se le
donne mimano cosı̀ bene, vuol dire che non sono totalmente assorbite in
10
tale funzione. Esse restano anche altrove» .
Un luogo, insomma, quello dell’assenza, in cui hanno avuto origine
nuovi valori etici ed epistemologici la cui rilevanza avrebbe segnato i
decenni successivi fino a inscriversi come espressione più avanzata e in
questo senso più utopica delle istanze politiche di cambiamento dell’età
postmoderna – non manca un ampio dibattito sui rapporti tra femminismo
e postmoderno –, non soltanto per le sue direttrici sovversive, ma per la

9
Adriana Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, in AA.VV., Diotima. Il pensiero
della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, III ed. 2003 (1987), pp. 43-79.
10
Luce Irigaray, Ce sexe qui n’en est pas un, Paris, Minuit, 1977; [tr. it. Questo sesso che non e`
un sesso, Milano, Feltrinelli, 1990].

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248 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

creatività che ne articola, con continue variazioni, modi e presupposti.


Parlare o non parlare la lingua dell’altro è comunque parlare le differenze e
attraverso quelle della propria identità. In queste derive in cui abbiamo
sognato il mondo della madre, ripetendone i gesti, molte volte ignorandone
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le passioni, abbiamo pensato. Vere e proprie “stazioni” di riflessione spesso


dolorosa dalle quali saremmo uscite ad ogni modo diverse, impregnate di
una nuova creatività. Dire e inventare come dire, incontrando la nostra
immaginazione narrativa negli infiniti intervalli del non detto, ecco perché
poteva bastare fissare un gesto, un’immagine, ecco perché potevano bastare
uno specchio e il volto di una donna. Per questo l’autocoscienza è pratica
11
(o meglio, pratiche ), ed esperienza, narrazione e teoria, il luogo in cui si
elabora quell’idea chiave del femminismo moderno che, come ricorda Rosi
Braidotti (e come Hester Eisenstein aveva già evidenziato nell’83, nella sua
ricostruzione del dibattito femminista anni Settanta negli Stati Uniti), de
12
Beauvoir fu la prima ad intuire , della coincidenza tra la condizione di una
donna, colei che parla, e l’insieme di fatti che costituiscono la condizione
femminile. Un’idea che il femminismo italiano precisa, quando, com’è il
caso di Lonzi, sottolinea, distinguendo tra questione femminile e femmini-
smo, come quest’ultimo «parla di tutte solo parlando di ognuna e ad
13
ognuna» . Sta qui l’affermazione di una scoperta fatta insieme: il collettivo,
a differenza di altre istanze del movimento del ’68 e dopo, è per le donne,
prima che luogo di decisione, luogo di relazione (lo “stare tra donne”),
trasformazione della politica, creazione di un “nuovo soggetto politico
donna”, liberazione appunto. Su questa linea ha ragione Braidotti – ma è la
continuità rispetto a questa radicalità originaria che qui mi preme sottoli-
neare – quando rintraccia tra le spinte oggi primarie della soggettività
femminile femminista il desiderio di divenire e di parlare al di là di un
possibile modello di divenire. Uno dei nodi centrali delle teorie femministe
della soggettività, afferma Braidotti, è «come conciliare la storicità, e dun-

11
Cfr. per questo e per altri “snodi” delle teorie femministe, soprattutto in Italia, la
riedizione di uno dei volumi, Teorie del femminismo, del Lessico politico delle donne (Milano,
Gulliver, 1978; ora Lessico politico delle donne: teorie del femminismo, a cura di Manuela Fraire,
Milano, Franco Angeli, 2002). Cfr. anche per le “due anime del femminismo” e le diverse
interpretazioni dell’autocoscienza la “lettura” di Manuela Fraire che chiude la ristampa del
volume: Vecchie ragazze, donne nuove, ivi, pp. 171-189.
12
Cfr. Rosi Braidotti, Dissonanze, cit., pp. 118-119; Hester Eisenstein, Contemporary Femi-
nist Thought, Boston, G. K. Hall, 1983, p. 3.
13
Cfr. Maria Luisa Boccia, L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, Milano, La
Tartaruga, 1990, p. 21.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 249

que la possibilità di azione, con la volontà politica di cambiamento, che


implica il desiderio (inconscio) del nuovo che a sua volta comporta, come
14
ci insegna la psicoanalisi, la costruzione di nuovi soggetti desideranti» .
Questa valorizzazione dell’importanza politica del desiderio rispetto alla
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volontà, del suo ruolo rispetto alla costruzione del soggetto – desiderio non
solo libidinale, precisa Braidotti, ma ontologico, desiderio di essere –, se è
un dato della sensibilità postmoderna (di contro a una modernità contras-
segnata dal trionfo della volontà di avere, con una conseguente oggettiva-
zione del soggetto), trova nella riflessione delle donne la sua più piena
affermazione nel suo conferire nuovo valore alle radici inconsce della
soggettività:

si tratta di una sorta di balzo ontologico in avanti mediante il quale un


soggetto collettivo politicamente costruito, il “noi donne” del movimento
delle donne, può potenziare dandogli forza il divenire soggettivo di
ciascuna “io donna”. È un balzo in avanti, non all’indietro verso la
glorificazione di un autentico e arcaico potere femminile o di una espe-
rienza “vera” finora “nascosta”. Non mira a recuperare un’origine perduta
o un territorio dimenticato, quanto piuttosto a dar vita qui ed ora a una
modalità di rappresentazione che consideri il fatto di essere donna come
forza politica positiva di autoaffermazione. È un atto di autolegittimazione
con cui il “sé femminile” fonde il suo desiderio ontologico di essere il
proprio sesso con il divenire consapevole e volontario di un movimento
politico collettivo15.

La coscienza, nella storia di tutti i movimenti rivoluzionari, è un


termine, scrive Teresa de Lauretis, che sta a indicare un processo più che
un risultato: come la coscienza di classe o di razza, la coscienza di sé è «una
particolare configurazione di soggettività, o limiti soggettivi, prodotti all’in-
tersezione di significato ed esperienza», della nostra storia personale e delle
configurazioni discorsive di una data cultura in un determinato momento
storico e come tale soggetta al cambiamento. Sta qui lo spostamento
teorico operato dal femminismo: «l’identità non è lo scopo ma il punto di
partenza del processo di autocoscienza, un processo attraverso il quale si
comincia a sapere che e come il personale è politico, che e come il
soggetto è specificamente e materialmente in-generato nelle sue condizioni

14
Rosi Braidotti, Femminismo, corporeità e differenza sessuale, in AA.VV., Questioni di teoria
femminista, a cura di Paola Bono, Atti del Convegno internazionale di teoria femminista
(Glasgow, luglio 1991), Milano, La Tartaruga, 1993, pp. 88-114, alle pp. 89-90.
15
Ivi, pp. 90-91.

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250 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sociali e possibilità di esistenza». E in questo senso è possibile affermare che


il femminismo si distingue dagli altri modi di pensiero radicale e creativo
nel suo porsi come istanza politica sul piano dell’esperienza, dell’espres-
sione e delle pratiche creative che, come tale, sposta le gerarchie estetiche e
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le categorie di genere dando fondamento teorico a una diversa produzione


di significato. La critica, la teoria, le pratiche femministe – i femminismi e le
16
loro complesse genealogie – non sono semplicemente una sfida alla
cultura occidentale ma un «nuovo genere (critico/di fiction) di espressione
creativa, che può essere pensata come una nuova estetica, una riscrittura
17
della cultura» e anche, forse, una riscrittura della politica.

“Non posso ritornare a una materialità indifferenziata


e non posso andare avanti con una differenziazione
semplicemente costruita...”

I numerosi rifiuti da parte delle “donne” di accettare le descrizioni


date nel nome delle “donne” non solo testimoniano le violenze
specifiche che un concetto parziale impone, ma l’impossibilità
costitutiva di un concetto o categoria imparziali o comprensivi.
L’affermazione di aver raggiunto un concetto o una descrizione
imparziali si sostiene precludendo lo stesso campo politico che
afferma di avere esaurito. Questa violenza è contemporaneamente
messa in scena e cancellata da una descrizione che rivendica la
finalità e la globalità. Per migliorare e rielaborare questa violenza è

16
La questione femminismo/femminismi è ben riassunta da Maria Teresa Chialant e
Eleonora Rao nel saggio introduttivo, La critica letteraria femminista: orientamenti e modelli, al
volume da loro curato, Letteratura e femminismi. Teorie della critica in area inglese e americana,
per la casa editrice Liguori (Napoli, 2000), con i riferimenti d’obbligo alle “tassonomie” di
Showalter, Kristeva, Moi, Armstrong (Elaine Showalter, Feminist Criticism in the Wilderness,
in Id. [a cura di], The New Feminist Criticism, London, Virago, 1986; Julia Kristeva, Les temps
des femmes, «Cahiers de recherche de science des textes et documents», n. 5, inverno 1979,
pp. 5-19; Toril Moi, Feminism and Postmodernism: Recent Feminist Criticism in the United States
[1988], poi in Terry Lovell [a cura di], British Feminist Thought, Oxford, Blackwell, 1990;
Isobel Armstrong, Debating Feminism, in Marialuisa Bignami, Caroline Patey [a cura di],
Moving the Borders, Milano, Unicopli, 1996, pp. 233-259). Altre indicazioni, nel più recente
panorama italiano, in Raffaella Baccolini, Maria Giulia Fabi, Vita Fortunati, Rita Monticelli
(a cura di), Critiche femministe e teorie letterarie, Bologna, Clueb, 1997 e Franco Restaino,
Adriana Cavarero (a cura di), Le filosofie femministe, Torino, Paravia, 1999.
17
Teresa de Lauretis, Feminist Studies/Critical Studies. Issues, Terms and Contexst, introdu-
zione a Id. (a cura di), Feminist Studies/Critical Studies, Houndmills-Basingstoke-Hampshire-
London, Macmillan, 1986, pp. 1-19, p. 10; cfr. anche Aesthetics and Feminist Theory:
Rethinking Women’s Cinema, «New German Critique», n. 34, inverno 1985, pp. 154-175.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 251

necessario imparare un doppio movimento: invocare la categoria


e, quindi, istituire provvisoriamente una identità e, allo stesso
tempo, aprire la categoria come sito di protesta politica
permanente...
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Judith Butler, Corpi che contano18

«Non posso ritornare a una materialità indifferenziata e non posso andare


avanti con una differenziazione semplicemente costruita»: citando questa
affermazione di Griselda Pollock, il suo rifiuto tanto dell’idea prefemminista
di un corpo non ingenerato, preesistente al genere, tanto di un ingenerarsi
dei corpi come processo astratto all’interno di una costruzione discorsiva
come sostiene Butler, de Lauretis confuta, in un suo scritto del ’99, la
posizione di quest’ultima: quanto Pollock (come Lindemann per vie di-
verse) sostiene sul soggetto a partire dall’esperienza come «materiale da cui
19
si ingenera la rappresentazione» , si pone in linea con quella definizione di
esperienza che la stessa de Lauretis ha elaborato a partire dalle concezioni
peirciane di un soggetto corporeo come «il luogo in cui – il corpo in cui –
fa presa e si realizza l’effetto di significato dei segni» e dell’interpretante
(emotivo, energetico, abitudine o interpretante logico) come «struttura
dinamica che lega tra loro oggetto, segno e significato» alla base di ogni
operazione di semiosi, di ogni momento di contrattazione tra Io e mondo.
L’inadeguatezza dell’approccio psicanalitico rispetto alla teorizzazione del-
l’esperienza (cruciale rispetto agli snodi della soggettività, della sessualità,
della pratica politica e della costruzione del soggetto femminile) era già
stata precedentemente messa in luce da de Lauretis che rintracciava ancora
una volta nel punto di intersezione tra semiotica e psicoanalisi il luogo
produttivo per l’analisi del soggetto: al privilegio assegnato da Kristeva
all’inconscio, fino al punto di fondare il semiotico nel dominio dei processi
biopsicologici e presimbolici, de Lauretis affianca Eco, che considera le
determinanti soggettive come parti del processo significante, ma escluden-
dole dall’indagine semiotica in quanto analizzabili soltanto come contenuto
del testo. Il fatto che poi la semiotica di Eco escluda «l’area in cui la fisicità
umana viene rappresentata, significata e assunta nei rapporti di significato»,

18
Judith Butler, Bodies that Matter. On the Discursive Limits of “Sex”, New York and
London, Routledge, 1993; [tr. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Milano,
Feltrinelli, 1996, p. 163].
19
Griselda Pollock et al., A Conversation on Judith Butler’s Bodies That Matter, «Parallax», n.
1, estate 1995, pp. 143-164, pp. 157-158; Gesa Lindemann, The Body of Gender Difference,
«The European Journal of Women’s Studies», vol. 3, novembre 1996, pp. 341-361, p. 358.

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252 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

avrebbe, per de Lauretis, la motivazione politica di voler «dichiarare una


zona smilitarizzata» e il vantaggio di evitare ogni rischio di idealismo,
correndo al tempo stesso quello di «elaborare una teoria storico materialista
della cultura che neghi la materialità e la storicità del soggetto stesso, dei
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soggetti della cultura». Il concetto di abitudine di Peirce rende possibile una


definizione dell’esperienza quale «complesso di abitudini risultanti dall’inte-
razione semiotica tra “mondo esterno” e “mondo interiore”». Dal momento
che è la semiosi a nominare il processo reciprocamente costitutivo del
soggetto e della realtà sociale, potremo pensare a un soggetto corporea-
mente impegnato (ed è questo un punto sul quale insisterà particolarmente
il femminismo italiano) nella produzione di significato. Successivamente,
alla metà degli anni Novanta, de Lauretis tornerà su questo percorso,
ampliando la dimensione di apertura al corpo suggerita dalla teoria peir-
ciana:

il concetto di abitudine come atteggiamento “energetico”, una disposi-


zione somatica insieme astratta e concreta, la forma cristallizzata di sforzi
muscolar-mentali passati, ha il potere di evocare un soggetto toccato dalla
pratica dei segni, un soggetto coinvolto fisicamente, corporalmente nella
produzione di significato, rappresentazione e autorappresentazione20.

La stessa espressione «pratica significante» comporta il riconoscimento


implicito del rapporto tra soggettività e pratiche, ma il dominio della
determinazione linguistica nelle teorie del soggetto ne limita la portata, con
conseguenze potenzialmente negative anche sul discorso femminista. Da
qui la rilevanza teorica della nozione di semiosi, che specifica le reciproche
determinazioni di significato, percezione ed esperienza fondandosi sul
rapporto tra soggettività e pratiche, rapporto all’interno del quale la sessua-
lità «è ciò che definisce la differenza sessuale per la donna, e dà alla
femminilità il suo significato di esperienza di un soggetto femminile».
Sottolineando come l’abitudine (o il cambiamento di abitudine) sia un
«processo somatico-mentale (semiosi) analogo a quello in cui la pulsione,
che nella teoria freudiana è un fatto somatico, energetico, si rende percepi-
bile e significabile attraverso i suoi rappresentanti psichici o mentali» e
come nella semiosi peirciana «la soggettività sta al sociale in un rapporto di
materialità», de Lauretis evidenzia un’affinità concettuale tra soggetto della
semiosi e soggetto psicanalitico: «tanto l’autoattribuzione di genere quanto

20
Teresa de Lauretis, Semiotica ed esperienza, in Id., Sui generiS, cit., p. 127.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 253

la scelta sessuale risultano da una serie ininterrotta di processi semiosici, di


catene di interpretanti che si intersecano, si sovrappongono, si combinano
e si scombinano». La soggettivazione, come la sessualizzazione (la sessua-
lità come processo di strutturazione sessuale), è autoattribuzione di genere,
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è «un accumularsi di effetti di significato – abitudini, disposizioni, rimozioni


e fantasmi – che non si attaccano a un soggetto preesistente o a un corpo
originario, naturale e per natura ingenerato, ma, al contrario, producono
quel corpo e quel soggetto l’uno per l’altro» tramite quell’Io corporeo che
non solo delimita la morfologia di un sé immaginario, ma è «confine
permeabile, una frontiera aperta tra il mondo esterno, il reale, gli altri, le
istituzioni sociali da un lato, e dall’altro il mondo interno della psiche, le
pulsioni, l’inconscio, i meccanismi di difesa. In breve, possiamo divenire
soggetti solo in quanto siamo corpi, ma se ci sentiamo un corpo ingenerato
è solo in quanto siamo soggetti».
Un sapere del corpo, dunque, un corpo che prende coscienza dei suoi
21
desideri . Ma facciamo un passo indietro, mi dico, prima di aprire lo
scrigno dei desideri, facciamo un passo indietro e torniamo al cinema (che
col desiderio ha molto a che fare) e a quegli anni Sessanta e Settanta nel
corso dei quali le potenzialità politiche dell’immagine, a partire dalla
lezione neorealista e dalle esperienze delle nouvelles vagues passando per
gli Stati Generali del Cinema, per il cinema militante fino al Terzo Cinema,
vengono moltiplicate dalla stessa riflessione teorica. Riviste come i «Ca-
hiers» e «Cinéthique» (entrambe influenzate da «Tel Quel»), o come
«Screen», alcuni dei cui redattori si recano dall’Inghilterra in Francia
mettendo cosı̀ in contatto le due aree di ricerca, opere e scritti di cineasti
come Godard, Pasolini, Rocha, Solanas sono pervase da quella nuova
attenzione ai processi di costituzione del soggetto, da Marx a Freud a
Lacan, che il lavoro di Althusser sull’ideologia sollecita, mettendo in luce i
rapporti tra istituzione cinematografica e funzionamento della formazione
sociale. Le analisi testuali condotte già alla fine degli anni Sessanta e nel
decennio successivo da Bellour (in particolare le sue analisi dei film
22
hitchcockiani ) e il lavoro di Heath evidenziano il funzionamento del testo
e individuano nella differenza sessuale il motivo strutturante del cinema
classico, aprendo con ciò un terreno di confronto diretto con la teoria

21
Teresa de Lauretis, Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 131-134.
22
Raymond Bellour, Les Oiseaux: analyse d’une se´quence, «Cahiers du Cinéma», n. 219,
1969; Id., Le Blocage symbolique, «Communications», n. 23, 1975; Id., Hitchcock, the Enunciator,
«Camera Obscura», n. 2, autunno 1977; Id., Psychosis, Neurosis, Perversion, «Camera Obscura»,
n. 3-4, estate 1979.

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254 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

femminista e suscitando non poche feconde riflessioni che si innestano


nella direzione già inaugurata da studiose come Johnston e Cook. I lavori
che le femministe dedicano ai testi del cinema classico presto sottolineano
(già agli inizi degli anni Settanta) come per pensare un controcinema sia
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necessario non soltanto evidenziare il posto di oggetto che il cinema


hollywoodiano ha destinato alla donna, ma anche rintracciare contraddi-
zioni e fessure (quella “tensione interna” al film, scrive Johnston, per cui
«l’ideologia non conserva a lungo un’esistenza indipendente ma è “presen-
tata” dal film. La pressione di questa tensione incrina la superficie del film;
l’ideologia invece di essere semplicemente assunta e quindi virtualmente
23
invisibile, viene rivelata ed esplicitata» , indagare i meccanismi del piacere
della visione (e impadronirsene, come Johnston suggerisce), il lavoro del
desiderio, scrivere una storia del cinema a partire dalle donne, riscoprendo
l’opera delle pioniere o delle cineaste che hanno operato in strutture
produttive di più ampio respiro. Gli interventi di Bergstrom, Suter, Rose,
Copjec, Doane costituiscono, negli anni immediatamente successivi, una
risposta diretta o indiretta al lavoro delle due teoriche e a Bellour (il quale
risponderà direttamente a Rose attraverso l’analisi di Psyco), testimoniando
l’importanza che nella teoria femminista del cinema assumono, accanto a
questioni come quella della rappresentazione, del desiderio, del piacere, lo
svelamento di ciò che presiede al funzionamento del testo (per cui Berg-
strom può contestare a Johnston che le fessure nel testo classico esistono
per essere occultate dal lavoro del film, sono condizione del piacere che la
sua visione procura), la complessità dell’enunciazione filmica, la possibilità
24
di elaborare strategie di resistenza . Anche se, come scrive Patrice Petro,
«nessuna di queste teoriche, con l’eccezione di Johnston, si confronta con la
difficoltà o necessità di pensare al problema dell’autorialità da un punto di

23
Claire Johnston, Dorothy Arzner: Critical Strategies, in The Work of Dorothy Arzner:
Towards a Feminist Cinema, London, British Film Institute, 1975, pp. 1-8, p. 3.
24
Cfr. Claire Johnston, Women’s Cinema as Counter-Cinema, Notes on Women’s Cinema,
«Screen» Pamphlet, n. 2, settembre 1972, poi in in Id. (a cura di), Notes on Women’s Cinema,
London, Seft, 1974; Janet Bergstrom, Rereading the Work of Claire Johnston, «Camera
Obscura», vol. 3, n. 4, estate 1979; Id., Enunciation and Sexual Difference, ivi; Jacquelyn Suter,
Feminine Discourse in Christopher Strong, ivi; Elizabeth Cowie, The Popular Film as Progres-
sive Text. A Discussion of Coma, «mlf», n. 3, 1979, n. 4, 1980; Jacqueline Rose, Paranoia and
the Film System, «Screen», vol. XVII, n. 4, inverno 1976-1977; Mary Ann Doane, Caught and
Rebecca: The Inscription of Femininity as Absence, «enclitic», vol. 5, n. 2, autunno 1981. I saggi
sono adesso raccolti nel volume curato da Constance Penley, Feminism and Film Theory, cit.;
per una ricognizione di questi testi cfr. l’introduzione di Penley al volume stesso (The Lady
Doesn’t Vanish: Feminism and Film Theory, ivi, pp. 1-24).

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 255

vista extratestuale, finendo quindi col non considerare il problema dell’au-


torialità nel suo intersecare questioni come la storia, la biografia, la testuali-
25
tà» .
«Dal cinema alla politica» – tutti i film sono film politici, scriveranno
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Comolli e Narboni: è l’inversione di una freccia, è il testimone dell’unico


“realismo” possibile dopo il neorealismo (un cinema che sfugge di mano
alle istituzioni politiche per consegnarsi/consegnarci a quelle stesse insop-
portabili visioni da cui è stato abbagliato) – cinema come realtà nel senso
deleuziano, non in nome della trasparenza, non in nome della narrazione –,
di una dinamica, non sempre lineare, talvolta sotterranea, comunque non
effimera, che indizia un cambiamento. Come scrive Casetti guardando alle
teorie del cinema negli anni a cavallo del ’68,

se in precedenza l’approccio più consueto al problema era quello di


richiamare una linea politica, definire la natura del cinema, e mostrare
come la seconda si collega alla prima, a partire dal sessantotto l’ordine dei
fattori si inverte, e si cerca innanzitutto di identificare i comportamenti del
cinema, poi di coglierne le implicazioni politiche, infine di proiettare
queste implicazioni sul terreno dell’intera società. Anziché dalla politica al
cinema, si va dal cinema alla politica26.

Credo di non sminuire per nulla il lavoro della Feminist Film Theory
nel momento in cui vi rintraccio, per molti aspetti, un analogo sposta-
mento: ma le domande vengono poste a partire da luoghi e soggetti diversi,
producendone inevitabilmente delle nuove. La Feminist Film Theory (defi-
nizione coniata nel mondo anglosassone che sta per teoria e critica femmi-
nista del cinema) nasce infatti nei primi anni Settanta, quando le femministe
inglesi e nordamericane cominciano a interrogare e a denaturalizzare (e in
questo senso il lavoro di Barthes è un ulteriore punto di riferimento, come
per Cook, Johnston, Cowie) l’immagine che della donna offre il sistema di
rappresentazione del cinema patriarcale (ruoli, iconografie, stereotipi che
pongono la donna al di fuori della storia, e, presto, processi di identifica-
zione e posizione della spettatrice, tentativi di sovversione “dall’interno” da
parte delle cineaste), oltrepassando una lettura puramente “sintomatica” o
simbolica per seguire piuttosto il percorso lacaniano di desiderio e man-

25
Patrice Petro, Feminism and Film History, in Diane Carson, Linda Dittmar, Janice R.
Welsch (a cura di), Multiple Voices in Feminist Film Criticism, Minneapolis, University of
Minnesota Press, 1994, pp. 64-81, p. 73.
26
Francesco Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Milano, Bompiani, 1993, pp. 199-200.

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256 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

canza (cruciale e pionieristico, in questa direzione, lo studio di Cook e


Johnston sul posto della donna nel cinema di Walsh ma anche sul cinema
di Arzner, studio che addita la possibilità di smantellare le strutture del
cinema hollywoodiano dall’interno, individuandone le contraddizioni –
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27
un’autentica re-visione poststrutturalista e femminista della critica auteur ).
Non a caso (perché anche questo fa parte di uno stesso movimento),
Casetti inserisce la teoria femminista del cinema tra quelle teorie di campo
che registrano la «messa in rilievo del rapporto tra osservatore e oggetto
osservato», il dileguarsi di una netta divisione di ruoli tra teorico e cinema –
il teorico «esce allo scoperto, dichiara la propria presenza, giustifica la
maniera in cui guarda al cinema, spesso la relativizza, sempre la rende
28
personale» –, non mancando di sottolineare la «funzione trainante» che
essa avrà rispetto alla teoria del cinema negli anni Settanta e Ottanta. Una
funzione che già Bruno e Nadotti avevano evidenziato come conseguenza,
anche, dell’affermarsi della Feminist Film Theory nell’ambito accademico
ma soprattutto della sua capacità di scavalcare i “campi”, di essere in
qualche modo “avanguardia”, «facendo da specchio ad un mutamento
[allora] in atto nel pensiero nordamericano», cioè la messa in questione
delle forme classiche di rappresentazione e la decostruzione della posizione
29
unitaria del soggetto al suo interno . Ma occorre soffermarsi con più
attenzione sulle parole con cui Casetti chiude le pagine di cui sopra: il
mescolarsi della Feminist Film Theory, sul finire degli anni Ottanta, a sfere
d’interesse sempre più ampie avrebbe come effetto «da una parte di
diventare semplicemente Feminist Theory, dall’altra di sciogliersi nella Film
30 31
Theory» . Uno spostamento che forse è tutt’uno con le dissonanze e gli

27
Pam Cook, Claire Johnston, The Place of Woman in the Cinema of Raoul Walsh, in Raoul
Walsh, pubblicazione a cura dell’Edinburgh Film Festival, 1974, ora in Constance Penley (a
cura di), Feminism and Film Theory, cit., pp. 25-35. Cfr. Patrice Petro, Feminism and Film
History, cit., p. 70. Un concetto, quello di re-visione, il «vedere con occhi nuovi», cruciale per
la teoria femminista e per la stessa “sopravvivenza” delle donne, come ben chiarirà Adrienne
Rich in When We Dead Awaken: Writing as Re-Vision, in Id., On Lies, Secrets, and Silence:
Selected Prose 1966-1978, New York, Norton, 1979, p. 35; [tr. it. Segreti, silenzi, bugie, Milano,
La Tartaruga, 1989].
28
Francesco Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, cit., p. 193.
29
Giuliana Bruno, Maria Nadotti, «Feminist Film Theory»: istruzioni per l’uso, in Giuliana
Bruno, Maria Nadotti (a cura di), Immagini allo schermo. La spettatrice e il cinema, Torino,
Rosenberg & Sellier, 1991, pp. 7-17, pp. 9-10.
30
Francesco Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, cit., p. 158.
31
Scrive Braidotti (Dissonanze, cit., p. 29): «il tempo, questo grande maestro, ci lascia solo
un po’ di spazio in cui tracciare qualche parvenza di continuità con il passato. È lo spazio di
una pagina scritta, ma anche lo spazio morale interno, dove quelle “altre” voci, quelle “altre”

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 257

32
attraversamenti che i soggetti femminili eccentrici e nomadi hanno saputo
ascoltare e fronteggiare, con l’affettività che, deleuzianamente, sposta il loro
essere soggetti pensanti dal piano logocentrico (e fallogocentrico) della
rappresentazione, nel quale la stessa psicanalisi rimane confinata, consen-
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tendo di mostrare la differenza, di individuare all’interno del campo sociale


quelle dinamiche minoritarie – il «divenire minoranza delle donne» – che
sono alla base della coscienza nomadica capace di proporsi come altro
33
rispetto alla Legge e alla Dominazione, alla capacità panoptica del Potere
e indicando cosı̀ una possibilità di rinnovamento generale. Ma questo
spostamento ha anche, e al tempo stesso, a che fare con la necessità, da una
parte, di esprimere, all’interno di campi di sapere condivisi, un punto di
vista “sessuato”, femminile femminista o lesbico o “non-donna” che sia (per
citare solo alcune delle definizioni più accreditate), che costituisce, al di là
della teoria del cinema, il momento più alto del teorizzare – non a caso il
femminile pervade le riflessioni dei pensatori francesi contemporanei su
questioni quali il rifiuto della razionalità e dell’umanesimo, la critica della
dell’unitarietà del soggetto, cui si sostituisce un soggetto decostruito, decen-
trato (il divenire-donna del soggetto) anche se alla rilevanza ch’esso acqui-
sta nel discorso filosofico non corrisponde alcun riconoscimento della
realtà e della storicità del genere – dall’altra di utilizzare strumenti, metodo-
logie, figure anch’esse consolidate all’interno della teoria del film e che
rischiano di confinare l’elaborazione femminista nell’ambito di uno degli
approcci analitici possibili. È proprio la centralità della riflessione sul
soggetto e sulla soggettività nel poststrutturalismo ad alimentare e, per certi
versi, ad assecondare questo movimento contraddittorio: se il pensiero della
decostruzione è comunque un attacco alla struttura fallogocentrica del
patriarcato e della società occidentale, il riconoscimento del Testo come
luogo in cui l’autore e lo stesso lettore, nella sua individualità, rischiano di
scomparire, può anche mettere a repentaglio gli sforzi delle donne verso

presenze possono dirsi liberamente. Ciò che in me è la voce altrui, produce quella
dissonanza interiore che prendo come evidenza della non-unità del soggetto e anche come
garanzia di resistenza contro la formulazione di nuovi discorsi o pseudo-universali, anche
nel femminismo».
32
Definizioni, rispettivamente, di Teresa de Lauretis e Rosi Braidotti: cfr. in particolare
Teresa de Lauretis, Soggetti eccentrici, cit., Rosi Braidotti, Nomadic Subjects, New York,
Columbia University Press, 1994; [tr. it. Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, a
cura di Anna Maria Crispino, Roma, Donzelli, 1995].
33
Ci riferiamo soprattutto alla lettura di Deleuze che Rosi Braidotti propone nel succitato
Dissonanze... (pp. 70-84).

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258 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

nuove soggettività34. Come scrive Raffaella Baccolini, «per la teoria femmi-


nista, la negazione di un’identità unitaria ha significato la decostruzione
della “costruzione” umanistica dell’Uomo occidentale quale soggetto uni-
versale e della Donna quale termine negativo di confronto che garantisce
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all’uomo l’identità»; alla Donna con la maiuscola, subentra una «categoria


“donne”, caratterizzata dalla pluralità e dalle differenze» ed è proprio qui il
punto di convergenza tra femminismo e poststrutturalismo, ciò che li
unisce ma anche al tempo stesso li allontana. Ed è ancora Baccolini a citare
questo passo di Haraway:

I signori che lavorano nelle scienze umane hanno chiamato [il] dubbio
sulla presenza di sé “morte del soggetto”, un singolo punto di coordina-
mento tra verità e coscienza. Mi sembra un giudizio bizzarro. Preferisco
chiamare questo dubbio generativo l’apertura di soggetti non iso-morfici,
agenti e territori di storie non immaginabili dalla posizione dell’occhio
ciclopico, sazio di sé, del soggetto egemone35.

Una restituzione lineare, in termini di “storia”, di questo movimento


contraddittorio forse non è ancora possibile, e non è un caso che concetti
come “plurivocalità”, “plurilocalità”, soggetto “situato” o eccentrico e nuove
36
soggettività come lesbica, nomade, cyborg o mestiza siano oggi concetti
chiave della teoria femminista, rispecchiando in pieno questo nostro vivere
dentro una società globale le cui potenzialità positive possono essere
espresse soltanto da una gestione dal basso, a partire dai mille vissuti che
costituiscono le nostre identità come altre e in divenire, dal nostro nomadi-

34
Anche su questo punto le posizioni delle femministe conoscono accenti molto diversi:
ad esempio Raffaella Baccolini non manca di sottolineare come due posizioni come quelle
di Kamuf e Miller esprimano due punti di vista opposti, ribadendo la prima la posizione
poststrutturalista della “morte dell’autore”, sottolineando la seconda la necessità per il
femminismo di continuare a lavorare sul concetto di identità. Cfr. Raffaella Baccolini,
Introduzione alla sezione La (ri)nascita dell’autrice nel volume Raffaella Baccolini, Maria
Giulia Fabi, Vita Fortunati, Rita Monticelli (a cura di), Critiche femministe e teorie letterarie, cit.,
pp. 137-159, pp. 144-146.
35
Ivi, pp. 140-141. La citazione di Haraway (p. 150) è tratta da Situated Knowledges: The
Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, «Feminist Studies», n. 14,
1988, pp. 575-599; [tr. it. Saperi situati: La questione della scienza nel femminismo e il privilegio
di una prospettiva parziale, in Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano,
Feltrinelli, 1995, pp. 103-134].
36
Baccolini fa infatti riferimento a Kamuf (Peggy Kamuf, Replacing Feminist Criticism,
«Diacritics», n. 12, 1982, pp. 42-47); [tr. it. Sostituire la critica femminista, in Raffaella
Baccolini, Maria Giulia Fabi, Vita Fortunati, Rita Monticelli (a cura di), Critiche femministe e
teorie letterarie, cit., pp. 161-171], Rich, Haraway, Anzaldúa.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 259

smo, come dice Braidotti, da quello scrivere in prima persona, abbattendo i


confini della casa, dello steccato, dei muri, dei continenti, delle lingue, delle
discipline che se non è più solo delle donne trova nei loro corpi, nei loro
gesti, nei loro racconti la sola casa possibile e nella loro soggettività, nelle
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figurazioni di questa soggettività, il luogo di una alternativa alla globalità


del capitale e al “consumo” delle differenze che si propone di mantenere. Se
il femminismo postmodernista prende le distanze da una definizione di
identità ritenuta essenzialista, le donne di colore ribadiscono il loro essere
un gruppo non legato da un’affinità naturale, ma dalla riconcettualizzazione
di termini come esperienza ed identità appunto in quanto espressioni di
relazioni tra donne socialmente e storicamente situate. Il soggetto nomade
si pone allora come soggettività alternativa adeguata alla complessità del
momento storico che stiamo vivendo, una «teoria materialista – che abbia
caratteri mobili e transnazionali – della soggettività femminista impegnata a
37
operare entro i parametri della postmodernità» ... What about the film?
Autrici, detentrici di saperi sempre più differenziati e molteplici, di pratiche
creative articolate, spesso registe-scrittrici-teoriche al tempo stesso, le
donne raccontano in prima persona la loro esperienza femminile del
mondo attraverso quei modi di enunciazione collettiva che caratterizzano la
letteratura e il cinema delle minoranze: cinema di una minoranza (siamo
minoranza non per numero ma per posizione) il cinema delle donne, e
soprattutto il cinema delle donne della diaspora africana e asiatica, non è
facile da visionare al di fuori dei circuiti e dei festival deputati, nonostante il
numero dei film e dei video realizzati dalle filmaker sia ormai considerevole
(il primo festival di cinema delle donne ha luogo nel 1972 a New York e a
Edimburgo). All’interno di singole aree del femminismo si moltiplicano
forme specifiche di produzione e consumo di immagini cui corrispondono
livelli consistenti e complessi di elaborazione teorica e politica. Se ciò che
in questi primi due decenni si teorizza (Mulvey, Kristeva, Kuhn, Johnston,
38
Kaplan ) e si pratica (Duras, Akerman, Mulvey, Potter, Rainer) è un
controcinema che si mostra anzitutto come pratica di avanguardia (guar-
dando a Ejzenštejn, ma anche a Brecht e a Godard, svelando contiguità tra

37
Rosi Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, Roma, Sossella, 2002, p. 10.
38
I testi di Kuhn e Kaplan costituiscono, per il femminismo americano dell’inizio degli
anni Ottanta, una sorta di sintesi dell’approccio psicanalitico e semiotico al cinema, che già
dalla metà dei Settanta aveva visto moltiplicarsi interventi e analisi testuali: Annette Kuhn,
Women’s Pictures: Feminism and Cinema, Boston, Routledge and Kegan Paul, 1982; E. Ann
Kaplan, Women and Film: Both Sides of the Camera, New York, Methuen, 1983. Quest’ultimo
offre anche un vero e proprio dizionarietto di concetti chiave, definizioni, modelli teorici.

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260 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

teoriche femministe e teorici dell’avanguardia)39, che rivisita i generi per


sovvertirli attraverso la psicoanalisi e il marxismo, scegliendo il documenta-
rio, la finzione o entrambi, decostruendo le immagini del cinema patriarcale
e lavorando alla costruzione di un soggetto femminile e di una spettatrice al
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di là del genere stesso, inventando una scrittura femminile a partire dal
40
corpo femminile , il controcinema è solo una piccola parte del gran
numero di film che le donne producono a partire dagli anni Settanta,
spesso criticati per il loro “illusionismo” e ai quali si contrappone, talvolta
sopravvalutandola, la carica sovversiva dei primi (anche se non manca chi,
41
come Kaplan, evidenzia la necessità di superare questo binarismo ), ma che
denotano comunque l’importanza, per le donne, del momento del narrare...
I discorsi delle donne di colore, ma, negli ultimi anni, anche di quelle che si
interrogano sulla loro “bianchezza” (whiteness), delle donne che hanno
vissuto sulla propria pelle altri tipi di emarginazione e di oppressione (di
classe, di razza), oltre che quella maschile, adesso ci portano altrove: nelle
periferie delle grandi metropoli occidentali, dove interi quartieri sono
principalmente abitati da una stessa comunità e dove casa spesso vuol dire
altro e molto di più che il luogo dello sfruttamento e dell’esclusione, ma
anche nel paese d’origine, dove la strada vuol dire esilio, ricordo, ritorno a
volte desiderato e spesso impossibile. I film, i racconti, i diari, le teorie di
queste donne ci parlano della loro ribellione, dei loro mondi immaginati.
Per questo i percorsi delle cineaste spesso si incrociano con quelli del Terzo
Cinema e una larga parte dei women’s studies si allontana dalla genericità dei
gender studies che hanno dominato gli anni Ottanta, all’interno dei quali
anche i maschi cominciano a rivendicare una propria specificità, non
soltanto traendo nuovo sviluppo dai gay, lesbian e queer studies, ma apren-
dosi ai postcolonial studies: è all’interno delle stesse dinamiche diasporiche
delle società postcoloniali (che includono anche quei popoli o nazionalità
oppresse in Europa e Stati Uniti che hanno legami di provenienza con le
geografie del Sud del mondo), che determinano a loro volta flussi culturali

39
Per una ricognizione del dibattito femminista rispetto all’avanguardia cfr. il saggio di
Lisa Cartwright e Nina Fonoroff, Narrative Is Narrative: So What Is New?, apparso nel 1983
in un numero speciale di «Heresies» e aggiornato e ripubblicato nel ’94 nel citato volume a
cura di Diane Carson, Linda Dittmar, Janice R. Welsch, Multiple Voices in Feminist Film
Criticism, pp. 124-139.
40
Cfr. quanto scrive, analizzando le opere di Chantal Akerman, Sally Potter e Mulvey,
Mary Ann Doane in Woman’s in Representation: Filming the Female Body, «October», n. 17,
estate 1981, pp. 23-26.
41
E. Ann Kaplan, Women and Film: Both Sides of the Camera, cit., p. 206.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 261

globali, «entro e attraverso» le «crescenti disgiunture tra etnorami, tecno-


rami, finanziorami, mediorami e ideorami», disgiunture, cioè, tra l’econo-
42
mia, la cultura, la politica , è all’interno della «configurazione frattale» delle
odierne forme culturali – e delle diverse e complesse articolazioni «semanti-
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che e pragmatiche» con cui i soggetti politici e i loro pubblici declinano le


dimensioni suddette, che è possibile verificare, scrive Appadurai, ma anche
indirizzare, un cambiamento. L’immaginazione diviene allora «pratica so-
ciale» che presuppone una negoziazione permanente tra «vite immaginate»
e «mondi deterritorializzati», tra individualizzazione e moltitudine, a partire
43
da una «cultura della disponibilità al rischio e alla creatività» . Gli elementi,
offerti dai mediorami, «(come personaggi, trame e forme testuali), con i
quali è possibile dar forma a sceneggiature di vite immaginate, vite degli
spettatori stessi ma anche di altri che vivono altrove», consentono di
«costruire narrazioni dell’Altro e narrazioni germinali di vite possibili,
fantasie che potrebbero diventare premesse al desiderio di acquisizione e di
44
movimento» . Definire, come fa Mohanty, postcoloniale la nuova soggetti-
vità femminista, significa, scrive Braidotti scrivendo di un soggetto nomade
che non è altro da questa definizione come non lo sono le diverse
definizioni alternative della soggettività femminista, porre in rapporto l’ana-
lisi del genere con «altre tematiche geopolitiche che suggeriscono legami
del femminismo a livello transnazionale», partire da un nuovo tipo di

42
Cfr. Arjun Appadurai, Modernity at Large: Cultural Dimension of Globalization, Minnea-
polis and London, University of Minnesota Press, 1996; [tr. it. Modernità in polvere, Roma,
Meltemi, 2001, p. 57]. Appaduraj individua (cfr. alle pp. 50-65) cinque delle dimensioni
possibili dei flussi culturali globali, adottando il suffisso -scape (-orami) per indicare «la forma
fluida e irregolare di questi panorami» e il loro essere «costrutti prospettici declinati dalle
contingenze storiche, linguistiche e politiche di diversi tipi di attori»: etnorama o «panorama
di persone che costituisce il mondo mutevole in cui viviamo»; tecnorama o «configurazione
globale, anch’essa sempre fluida, della tecnologia e il fatto che la tecnologia [...] si muove ora
ad alta velocità attraverso diversi tipi di confine un tempo malagevoli»; finanziorama o
«disposizione del capitale globale», che deve sempre avere presente le relazioni disgiuntive
tra «movimenti di persone, flusso tecnologico e movimenti finanziari»; mediorami e ideo-
rami sono «panorami strettamente correlati di immagini», i primi «si riferiscono sia alla
distribuzione delle capacità elettroniche di produrre e diffondere informazione [...] sia alle
immagini del mondo create da questi media»; gli ideorami sono «concatenazioni di
immagini, ma sono spesso direttamente politici e hanno di frequente a che fare con le
ideologie degli stati e le controideologie di movimenti esplicitamente rivolti a conquistare il
potere statale o una porzione di esso».
43
Cfr. Ulrich Beck, Was ist Globalisierung? Irrtümer des Globalismus – Antworten auf
Globalisierung, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1997; [tr. it. Che cos’e` la globalizzazione.
Rischi e prospettive della società planetaria, Roma, Carocci, 1999, p. 176].
44
Arjun Appadurai, Modernità in polvere, cit., p. 56.

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262 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

materialismo «incentrato sulla materialità del corpo» al di là di qualsiasi


essenzialismo fondato sul biologico o sul sociale, ma «punto di coincidenza
tra fisico, simbolico e sociologico». Parlare “in quanto” donna non è
soltanto parlare da un luogo di «esperienze molteplici, complesse e poten-
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zialmente contraddittorie», ma è «potenziare la soggettività delle donne,


attivare mutamenti socio-simbolici nella loro condizione», è, insomma,
45
aprire l’orizzonte delle lotte femministe sul mondo .

Parlare la castrazione?

In contrapposizione alla donna come icona, la figura attiva


maschile (l’ideale dell’io del processo di identificazione) richiede
uno spazio tridimensionale, corrispondente a quello del
riconoscimento allo specchio in cui il soggetto alienato
interiorizzava la sua stessa rappresentazione di questa esistenza
immaginaria. Egli è una figura in un paesaggio...

Laura Mulvey, Piacere visivo e cinema narrativo46

Il contributo di Mulvey sul problema della spettatrice e sulle sue possibilità


di identificazione nel cinema classico (Piacere visivo e cinema narrativo,
1975), costituisce un testo fondante per la Feminist Film Theory47, riassu-
mendo «una fase intensamente produttiva del lavoro femminista sul ci-
nema» e inaugurando un dibattito – corrispondente a quella fase della
produzione della Feminist Film Theory battezzata come prima decade –
che, spostando l’attenzione sul problema della visione e della spettatrice,
sarebbe andato incontro a sviluppi e revisioni, anche da parte della stessa
autrice48. D’altra parte, non soltanto il diffondersi di un approccio psicanali-

45
Rosi Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, cit., pp. 12-13.
46
Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», vol. XVI, n. 3, autunno
1975, pp. 6-18, ora in Id., Visual and Other Pleasures, Bloomington, Indiana University Press,
1989; [tr. it. Piacere visivo e cinema narrativo, «Nuova dwf», n. 8, luglio-settembre 1978, pp.
26-41, p. 34].
47
Teresa de Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, London, Basingstoke,
Macmillan, 1984, p. 59. Cfr. anche Constance Penley (a cura di), Feminism and Film Theory,
New York and London, Routledge/British Film Institute, 1988; Tania Modleski, The Women
Who Knew Too Much. Hitchcock and Feminist Theory, London and New York, Methuen, 1988.
48
Cfr. Judith Mayne, Feminist Film Theory and Criticism, in Diane Carson, Linda Dittmar,
Janice R. Welsch (a cura di), Multiple Voices in Feminist Film Criticism, cit., pp. 48-64, p. 48.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 263

tico al cinema si verifica abbastanza più tardi che nel campo degli studi
letterari, ma questo, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, sarà un
approccio tutto sommato “spurio”, in un miscuglio che, come evidenzia
Kaplan nella prefazione all’antologia da lei curata su cinema e psicanalisi,
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spazia dalla semiotica, al poststrutturalismo, a Brecht, ai formalisti russi, ad


Althusser, al femminismo, alla psicanalisi freudiana e lacaniana e che
troviamo sintetizzato in quelle pagine di «Screen» sulle quali la stessa
Mulvey scrive e che tanto avrebbero influenzato la teoria di area anglofona
(basti sfogliare «Camera Obscura», nel cui primo numero, 1976, si teorizza
la via del controcinema come sola pratica filmica sovversiva che il movi-
mento di liberazione delle donne può scegliere per conciliare le istanze del
movimento e quelle antirealiste della nuova teoria, la riflessione althusse-
49
riana) in contemporanea con il diffondersi dei lavori dei teorici francesi .
La posizione di Mulvey è, in questo suo primo suo scritto sulla
questione, quasi un assioma: quanto la teoria femminista del cinema ha fino
a quel momento elaborato rispetto all’immagine della donna nel cinema
classico non può non avere come conseguenza il rifiuto di quest’ultimo in
vista di un cinema «che sia radicale in senso sia politico che estetico, che
50
sfidi i presupposti basilari del cinema tradizionale» , mirando a distruggere
la posizione privilegiata dello spettatore, il suo piacere voyeuristico e
sadico, quei codici cinematografici che, controllando la dimensione spaziale
e temporale, creano «uno sguardo, un mondo, un oggetto, producendo per
51
mezzo di ciò un’illusione tagliata su misura del desiderio» . Uso politico
della psicoanalisi è analizzare i modi in cui l’inconscio della società patriar-
cale ha strutturato la forma del film attivando meccanismi di fascinazione

49
E. Ann Kaplan (a cura di), Psychoanalysis and Cinema, New York and London,
Routledge, 1990, p. 8. La stessa molteplicità di approcci è presente nelle riviste: dall’approc-
cio sociologico e determinista di «Women and Film», prima rivista di critica cinematografica
femminista (Berkeley, 1972-1975), prevalentemente indirizzata alla stesura di una storia del
cinema al femminile, alla fondazione di «Camera Obscura», nel 1974 su iniziativa di una
parte del gruppo redazionale (per quest’ultima vedi Chronology, «Camera Obscura», nn. 3-4,
1979, pp. 6-13); [tr. it. Collettivo Camera Obscura: Cronologia, in Piera Detassis, Giovanna
Grignaffini (a cura di), Sequenza segreta. Le donne e il cinema, Milano, Feltrinelli, 1981, pp.
187-196, pp. 194-195], ai contributi su «Jump Cut» e «Cineaste», alla fondazione di
«Women’s Studies in Communication and Difference», ciò che viene, anche autocritica-
mente, registrato è la mancanza di un consistente retroterra politico-ideologico e, d’altro
canto, il progressivo enuclearsi dell’importanza della posizione del soggetto rispetto all’isti-
tuzione cinematografica, che produce il focalizzarsi dell’attenzione dal contenuto ai codici e
alla struttura narrativa.
50
Laura Mulvey, Piacere visivo e cinema narrativo, cit., p. 28.
51
Ivi, p. 40.

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264 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

che attingono a modelli già socialmente operanti nel soggetto, avendo


come punto di partenza «il modo i cui il film riflette, rivela, o anche mette
in scena fedelmente, l’interpretazione socialmente stabilita dalla differenza
sessuale che controlla le immagini, i modi di guardare erotici, lo spettaco-
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lo». In linea con questo Mulvey sottolinea come un approccio psicoanali-


tico alla teoria del cinema non possa trascurare di considerare come nella
cultura patriarcale la donna funga «da significante per l’altro maschile,
vincolata da un ordine simbolico in cui l’uomo può vivere le sue ossessioni
e fantasie tramite il dominio del linguaggio, imponendole all’immagine
silenziosa della donna, ancora legata al suo posto di portatrice, non
creatrice, di significato», un ordine nel quale essa «parla» nient’altro che la
castrazione. Ma la psicoanalisi – dove lo stesso complesso di castrazione è
visto al di fuori della storia, fase necessaria alla formazione dell’inconscio, e
non come fenomeno culturale e dove il fallo è una fonte positiva di
significato, un termine positivo a partire dal quale, dalla cui assenza, e non a
partire dalla differenza, viene definita la donna come mancanza – è uno
degli strumenti della cultura patriarcale che può essere utilizzato per
comprendere aspetti importanti dell’inconscio femminile ritenuti di scarso
52
rilievo dalla teoria fallogocentrica . Le domande che sorgono intorno al
cinema come sistema di rappresentazione devono riguardare allora i mec-
canismi attraverso i quali l’inconscio struttura i modi della visione e il
piacere (tradizionalmente diviso in maschile/attivo e femminile/passivo)
attraverso lo sguardo. Scopofilia da una parte e narcisismo e identificazione
dall’altra, sono i due aspetti, entrambi indagati da Freud e Lacan – dove la
fase dello specchio è la più rispondente ai processi di identificazione attivati
dal dispositivo cinematografico –, che strutturano il piacere dello sguardo
nella situazione convenzionale della visione: «l’uno implica una separazione
dell’identità erotica del soggetto dall’oggetto sullo schermo (scopofilia
attiva), l’altro esige l’identificazione dell’io con l’oggetto sullo schermo
tramite la fascinazione dello spettatore e il riconoscimento del suo simile. Il
primo è una funzione degli istinti sessuali, il secondo della libido dell’io... »
L’immagine della donna come oggetto dello sguardo dello spettatore,
che ha una lunga storia in un mondo basato sulla differenza sessuale,
rafforza la struttura della rappresentazione e l’ideologia dell’ordine patriar-
cale che trova piena espressione nel cinema narrativo (la divisione del
lavoro eterosessuale attivo/passivo, nota Mulvey, controlla in modo ana-
logo la struttura narrativa). Qui la donna è oggetto non solo dello sguardo

52
Ivi, pp. 26-27.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 265

dello spettatore al quale viene mostrata per il suo piacere (fantasia maschi-
le), ma anche di quello dei personaggi maschili sullo schermo, attraverso il
cui sguardo lo spettatore può acquistare il controllo e il possesso della
donna nella diegesi. L’eroe dello schermo coincide con l’Io ideale del
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riconoscimento originario davanti allo specchio: poiché lo spettatore si


identifica con il protagonista maschile, proietta il suo sguardo su quello del
suo simile, del suo sostituto sullo schermo, cosicché il potere del protagoni-
sta maschile nel controllare gli eventi coincide col potere attivo dello
sguardo erotico (entrambi danno una soddisfacente sensazione di onnipo-
53
tenza)» .
Voyeurismo e feticismo (feticismo già indagato da Johnston nel suo
Women’s Cinema as Counter-Cinema) sono gli esorcismi che il cinema mette
in atto contro la minaccia di castrazione che la donna, con la sua mancanza
del pene, introduce nell’unità della diegesi, fissando lo sguardo dello spetta-
tore e impedendogli di acquistare qualsiasi distanza rispetto all’immagine
che ha di fronte. I film di Hitchcock e di von Sternberg esemplificano le
diverse possibilità di fuga che si aprono all’inconscio maschile rispetto
all’angoscia di castrazione e al perturbante del femminile nel cinema: voyeu-
rismo e sadismo da una parte, feticismo dall’altra, vie sulle quali ritornerà
molta della letteratura successiva della Feminist Film Theory, attraverso
analisi testuali differenziate e non di rado contraddittorie (per esempio il
lavoro di Studlar su Dietrich e von Sternberg, le analisi di Rose e di
Modleski su Hitchcock54).
Se volessi analizzare il testo di Mulvey dal punto di vista della teoria del
film, dovrei anzitutto fare il punto su quell’anno ’75 in cui il volume di Metz
su cinema e psicanalisi non è ancora stato pubblicato, ma che ha visto
all’opera Oudart e Baudry sullo spettatore e sul dispositivo cinematografi-
co55, Kuntzel su lavoro del sogno e lavoro del film e sulle figure del

53
Ivi, pp. 31 e 34.
54
Gaylyn Studlar, In the Realm of Pleasure. Von Sternberg, Dietrich, and the Masochistic
Aesthetic, New York, Columbia University Press, 1988; Jacqueline Rose, Paranoia and the
Film System, «Screen», vol. XVII, n. 4, inverno 1976-1977, pp. 85-104, ora in Constance
Penley (a cura di), Feminism and Film Theory, cit., pp. 141-158; Tania Modleski, Never to Be
Thirty-Six Years Old... Rebecca as Female Oedipal Drama, «Wide Angle», vol. 5, n.1, 1982, pp.
34-41.
55
Cfr. Christian Metz, Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cine´ma, Paris, Union Géné-
rale d’Editions, 1977; [tr. it. Cinema e psicoanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio,
1980]; Jean-Pierre Oudart, La suture, «Cahiers du Cinéma», n. 211, 1969; Id. La suture. II,
«Cahiers du Cinéma», n. 212, 1969; Id., L’effet de re´el, «Cahiers du Cinéma», n. 228, 1971, pp.
19-26; Jean-Louis Baudry, Cine´ma: effets ide´ologiques produits par l’appareil de base, «Cinéthi-
que», n. 7-8, 1970, pp. 1-8 [tr. ingl. Ideological Effects of the Basic Cinematographic Apparatus,

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266 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

dispositivo, proprio a partire dall’approccio lacaniano come strumento


privilegiato per lo studio della rappresentazione e delle sue implicazioni
ideologiche, Heath sul testo e sullo spazio narrativo – cinque anni dopo, de
Lauretis curerà con Heath The Cinematic Apparatus –, Comolli e Narboni
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sull’ideologia e sulle strategie di significazione messe in atto dalla tecnolo-


gia del cinema per attivare il coinvolgimento e i processi di identificazione
dello spettatore attraverso una costruzione ideologica della soggettività,
Wollen sulle possibili forme di resistenza (l’esempio è Brecht) alla traspa-
renza e all’illusionismo del dispositivo e sul lavoro dell’avanguardia (come
accade per altri versi anche negli scritti di Kristeva), che diviene punto di
riferimento nel suo evidenziare la materialità del film attraverso strategie
autoriflessive e di rottura del continuum narrativo non soltanto per un
controcinema femminista ma per molti cinema contro dal secondo dopo-
56
guerra in poi . Ma quello che qui mi interessa è evidenziare gli aspetti più
significativi e/o produttivi del dibattito che il testo suscita – non solo in
termini di polemica, come dimostra quanto Silverman scrive, proprio a
partire da Mulvey a proposito della teoria della sutura (Oudart, Dayan,
57
Heath), che ne verrebbe completata e arricchita –, e gli eventuali apporti
per la teoria del film nel suo complesso. Come afferma Rodowick, il saggio
di Mulvey colpisce nel segno almeno nel suo intento polemico originario di
«porre le problematiche inerenti alla differenza sessuale al centro del
58
dibattito concernente il ricorso della teoria del film alla psicoanalisi» e

«Film Quarterly», vol. XXVIII, n. 2, inverno 1974-1975, pp. 39-47]; Id., Writing, Fiction,
Ideology, «Afterimage», n. 5, primavera 1974, pp. 22-39; Id., Le dispositif: approches me´tapsycho-
logiques de l’impression de re´alite´, «Communications», n. 23, 1975, pp. 56-72; Id., The Appara-
tus, «Camera Obscura», n. 1, 1976, pp. 104-123; Id., L’Effet Cine´ma, Paris, Albatros, 1978;
Thierry Kuntzel, Le travail du film, «Communications», n. 19, 1972; Id., Le travail du film 2,
«Communications», n. 23, 1975; Id., The Treatment of Ideology in the Textual Analysis of Film,
«Screen», XIV, n. 3, autunno 1973, pp. 44-54.
56
Cfr. Stephen Heath, Film/Cinetext/Text, «Screen», vol. XIV, n. 1-2, primavera-estate
1973; Id., The Work of Christian Metz, «Screen», vol. XIV, n. 3, autunno 1973, pp. 5-28; Id.,
The Idea of Autorship, ivi, pp. 86-91; Id., Lessons from Brecht, «Screen», vol. XV, n. 2, estate
1974; Id., Narrative Space, «Screen», vol. XVII, n. 3, autunno 1976, pp. 68-112; Teresa de
Lauretis, Stephen Heath (a cura di), The Cinematic Apparatus, London, Macmillan, 1980;
Peter Wollen, Signs and Meanings in the Cinema, London, Secker and Warburg, 1969; Id.,
Counter Cinema: Vent d’Est, «Afterimage», n. 4, autunno 1972, pp. 6-17; Id., On Ontology and
Materialism in Film, «Screen», vol. XVII, n. 1, inverno 1976, pp. 7-23; Id., The Two
Avant-Gardes, «Edinburgh Magazine», n. 1, 1976.
57
Kaja Silverman, The Subject of Semiotics, cit., pp. 222-236.
58
David N. Rodowick, The Difficulty of Difference. Psychoanalysis, Sexual Difference and Film
Theory, New York and London, Routledge, 1991, p. 4. Il volume riprende il titolo di un

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 267

all’interno delle pratiche filmiche: Ruby Rich si interroga sul da farsi di una
regista o di una regista femminista di fronte a una teoria che, per bocca di
Mulvey, parla di una donna invisibile tra un pubblico percepito come
maschile e, per Johnston, parla di una donna invisibile sullo schermo,
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insistendo comunque su un’assenza della donna pur davanti alla sua presen-
59
za , Doane metterà a fuoco accanto all’opposizione binaria tra passivo e
attivo, quella tra vicinanza e lontananza, controllo e perdita, che situa il
discorso sulla visione direttamente all’interno del problema della differenza
sessuale. La spazialità della visione in Burch, il voyeurismo di Metz, lo
“specifico” femminile in termini di prossimità spaziale delle pensatrici
francesi, lo sviluppo diverso che Freud descrive per il bambino e la
bambina, conducono Doane all’individuazione di uno sguardo femminile
che annulla la distanza alla base del voyeurismo e del feticismo. In questo
senso, la mascherata, in quanto reazione al travestitismo, che presuppone
un diventare uomo per acquistare la necessaria distanza dall’immagine,
opera una sorta di raddoppio della rappresentazione e una simulazione della
distanza: la mascherata, «nell’esibire la femminilità, la tiene a distanza.
Quest’ultima è una maschera che può essere indossata o tolta. La resistenza
del mascheramento alla prospettiva patriarcale sta quindi nella negazione
della femminilità come vicinanza, presenza a se stessa e, precisamente,
come immagine». Attraverso questa destabilizzazione dell’immagine, la
mascherata «mette in crisi la strutturazione maschile dello sguardo e mette
in atto uno straniamento dell’iconografia femminile» (che coincide con la
femme fatale), ed è proprio in questo luogo che viene culturalmente asse-
gnato alla donna che è possibile ipotizzare non soltanto una posizione
diversa della spettatrice rispetto al masochismo o al narcisismo dell’identifi-
cazione, ma anche ipotizzare la sovversione dei rapporti di potere che la
60
stabiliscono .
Quando Rodowick, in più riprese (affrontando quella che definisce la

saggio dello stesso autore, scritto in risposta al lavoro di Mulvey, apparso su «Wide Angle»,
vol. 5, n. 1, 1982, pp. 4-15.
59
Ruby Rich, Women and Film: A Discussion of Feminist Aesthetics, «New German Critique»,
n. 13, inverno 1978, p. 87; Claire Johnston, Towards a Feminist Film Practice: Some Theses,
«Edinburgh Magazine», n. 1, 1976, pp. 50-59.
60
Mary Ann Doane, Film and the Masquerade: Theorising the Female Spectator, «Screen», vol.
XXIII, n. 3-4, settembre-ottobre 1982, pp. 74-87; [tr. it. Cinema e mascheramento: riflessioni
teoriche sulla spettatrice e sullo sguardo femminile, in Maria Teresa Chialant, Eleonora Rao (a
cura di), Letteratura e femminismi. Teorie della critica in area inglese e americana, cit., pp.
309-321, pp. 319-320].

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268 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

“difficoltà” della differenza), criticherà la posizione di Mulvey, pur ricono-


scendone l’importanza, il suo essere «la migliore e più brillante esposizione
della lettura di Freud prodotta dalla teoria del film angloamericana negli
61
anni Settanta» , non sarà soltanto riproponendo alcune delle obiezioni più
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consistenti maturate nell’ambito della stessa Feminist Film Theory (ad


alcune delle quali rinvio direttamente lettrici e lettori in quanto tradotte in
questo volume – ancora Doane, Silverman, Studlar, Friedberg) che conver-
gono nel rimproverarle di non aver indagato le possibilità di desiderio e di
identificazione della spettatrice, di aver relegato la donna al ruolo passivo di
oggetto, mantenendo una posizione di eccessiva conformità rispetto alla
psicoanalisi freudiana e lacaniana, senza tenere in conto quanto le pensa-
trici femministe, come per esempio Irigaray (anche se Speculum. L’altra
donna, un “attacco” allo “specchio” di Lacan, sarà tradotto in inglese, e in
62
parte, solo nel ’79 ), Cixous, Kristeva cominciavano a chiarire in proposito,
ma insistendo appunto sull’impostazione freudiana che Mulvey intende
mantenere. Freud, per Rodowick, non privilegia la logica binaria che
governa il testo di Mulvey (la quale seguirebbe più Lacan, e un suo certo
determinismo, che Freud rispetto alla relazione tra immaginario e simboli-
co), offrendo piuttosto un quadro complesso di relazioni e di pulsioni
mobili e non biologicamente prefissate e rispetto alle quali maschile e
femminile sarebbero definiti principalmente come distinzioni psicologiche e
culturali, generando coppie (voyeurismo/esibizionismo, sadismo/masochi-
smo) impostate sulla loro reversibilità e ambivalenza. Mulvey, nelle conclu-
sioni di Rodowick, non soltanto elide il masochismo, ma la sua definizione
dello sguardo è a misura di uno spettatore di sesso maschile. Rodowick
ricorda come Freud, nell’individuare come polarità basilari della vita men-
tale soggetto-oggetto, piacere-dispiacere, attivo-passivo, metta in guardia,
descrivendone le interazioni che regolano i processi di identificazione, dal
non confondere le relazioni di attività e passività con quelle soggetto-ogget-
63
to . Ciò a cui il saggio sembra in definitiva indirizzarsi è «la questione della

61
David N. Rodowick, The Difficulty of Difference, cit., p. 4.
62
Luce Irigaray, Spe´culum. De l’autre femme, Paris, Minuit, 1974; [tr. it. Speculum. L’altra
donna, Milano, Feltrinelli, 1975].
63
Continua Rodowick (The Difficulty of Difference, cit., pp. 13-14): «perché la vita psichica
dell’Io è sempre caratterizzata da un complesso di relazioni attive e passive motivate dalla
ricezione e dalla reazione a un’informazione percettiva. Tuttavia, le pulsioni guida sono
sempre inerentemente attive nei loro scopi. Nella misura in cui le significazioni psicologiche
sono correlate al significato di mascolinità e femminilità in rapporto ad attività e passività,
non definiscono reciprocamente insiemi esclusivi di opposizioni e sono sempre il prodotto

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 269

specificità dell’immagine corporea della donna, piuttosto che la specificità


dello sguardo femminile o l’identificazione femminile. A loro volta, le
questioni di significazione e identificazione nel film sono strutturate da un
64
sistema di divisione e di esclusione binario che muove da questo corpo» .
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La sola posizione per il soggetto femminile diviene allora quella di


oggetto dello sguardo o presuppone un ritorno alle opposizioni strutturate
del controcinema: il modello dell’avanguardia, che ha il suo “fondamento”
femminista nella teoria di Kristeva, verrà ancora più chiaramente esplicitato
65
da Mulvey in un testo successivo, Feminism, Film and The Avant-Garde . Un
modello che avrà un’importanza cruciale nel dibattito della Feminist Film
Theory e che avrà un suo riscontro (positivo o negativo) anche sul piano
delle diverse pratiche che le cineaste femministe metteranno in atto. Un
punto sul quale Rodowick tornerà non a caso nell’ampio capitolo dedicato
al problema della differenza nel suo The Crisis of Political Modernism.
66
Criticism and Ideology in Contemporary Film Theory , rifocalizzando, a partire
da tale modello, il discorso di Mulvey e cogliendo accanto al paradosso da
lui già evidenziato (per cui la figura femminile nella rappresentazione
patriarcale significa ciò che lo sguardo vuole disconoscere, l’angoscia della
castrazione e il non piacere – dove il governo della contraddizione è
sempre minacciato dall’immagine del corpo femminile e il controllo visivo
è assicurato da trasparenza, continuità, linearità cioè dalle stesse contraddi-
zioni che mette in atto), una figurazione alternativa, da parte di Mulvey, del
femminile come negatività, una forza che può tornare a confondere il
privilegio dell’Io maschile come rovina della rappresentazione patriarcale.
Se Mulvey sembra elidere il problema della spettatrice, «è possibile un’altra
lettura di quest’assenza, cioè il femminile come l’impensato o l’innominato
nella cultura patriarcale e nel suo sistema di rappresentazione». In ciò
Rodowick individua l’influenza tanto del lavoro di Montrelay che di
Kristeva. Per Montrelay il femminile è l’inconscio di ciò che il patriarcato
ha represso per conservare unità e privilegio, un concetto figurato nella
struttura retorica dell’argomento di Mulvey: il femminile nel cinema clas-
sico rappresenta l’ansia e il controllo rispetto alla castrazione, ma è anche

di una variabilità storica e sociale. Similmente, non potrà mai esserci una risposta unilaterale
tra oggetto e soggetto nel corso dell’identificazione».
64
Ivi, p. 15.
65
Laura Mulvey, Feminism, Film and The Avant-Garde, «Framework», n. 10, primavera
1979, pp. 3-10.
66
David Rodowick, The Crisis of Political Modernism. Criticism and Ideology in Contemporary
Film Theory, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 1988.

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270 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

una forza di negazione che minaccia continuamente questo sistema narra-


tivo. Cosı̀, seguendo Kristeva, Mulvey può affermare che se il femminile è il
represso nella società patriarcale, l’irruzione dell’eccesso poetico nel testo
moderno comporta un effetto di jouissance che è femminile ed opposto alla
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repressione. Uno schema binario «maschile: femminile: :attivo: passivo:


:sadismo: masochismo:: voyeurismo: feticismo: :Hitchcock: Sternberg: :se-
quenza: simultaneità:: simbolico: immaginario: :edipico: preedipico» orga-
nizza il lavoro di Mulvey, la quale:

suggerisce la possibilità di interpretare la figurazione del femminile, anche


entro i confini del racconto classico, come dotata di una temporalità
radicalmente altra che può far deragliare la linearità e la continuità della
rappresentazione patriarcale. Questo sistema implicito di polarità, che
aggira la questione del soggetto femminile per evitare la sua identifica-
zione fondamentalmente con il masochismo, conserva allo stesso tempo
una forza di resistenza associata all’immaginario, al preedipico, al corpo
femminile67.

La teorizzazione della negatività e della valorizzazione del semiotico di


Kristeva aprono la psicanalisi – sarebbe questo a interessare Mulvey – a una
contraddizione rispetto a un femminile in cui diventa possibile un discorso
poetico sovversivo. La scrittura femminile può cosı̀ allearsi a un progetto di
decostruzione nel senso più globale divenendo il luogo in cui l’opposizione
codice/decostruzione che contraddistingue il progetto del testo moderno
trova la sua più estrema formulazione nell’opposizione di simbolico e
semiotico. La e´criture e la jouissance delle donne possono dunque, conclude
Rodowick, non soltanto comportare la “rovina della rappresentazione”
(l’enigma della sfinge secondo Montrelay) e una differente articolazione di
soggettività ma anche contribuire allo smantellamento dell’epistemologia
occidentale, dominata dalla logica patriarcale. Una lettura che offre insieme
alla negatività della posizione della spettatrice la «figurazione di una formu-
lazione utopica che preservi nel sito dell’immaginario e della relazione
preedipica con la madre la possibilità di una scrittura adeguata all’espe-

67
Ivi, pp. 228-231. Rodowick non manca di notare come Wollen faccia un’associazione
analoga parlando del film girato con Mulvey: «se la logica binaria dell’argomento di Mulvey
sembra ignorare la spettatrice, questo può essere inteso anche come formulazione di un
particolare spazio utopico in cui la figura del femminile organizza i seguenti concetti: non
piacere, “presenza aliena”, congelamento dell’azione, distrazione, disunità, staticità e, specifi-
camente, antillusione...».

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 271

rienza di femminilità e del corpo femminile, oltre che la rovina della


68
rappresentazione patriarcale» .
Ma possiamo concludere che «lo sguardo è maschile»? A questa do-
manda Kaplan, in un testo dell’83, si sforza di dare una risposta maggior-
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mente articolata. Ribadendo l’utilità dello strumento psicanalitico per la


teoria femminista e facendo riferimento alla formulazione lacaniana del
momento dell’ingresso nel simbolico in cui la donna è designata come
mancanza, Kaplan individua nel masochismo che nasce dalla posizione di
oggetto in cui la donna si trova nel cinema classico la ragione del piacere
che il melodramma procura alla spettatrice (Mulvey ha sottolineato le
implicazioni edipiche del genere, Doane ha analizzato il lavoro di questa
fantasia masochistica). Un posizionamento confermato dal lavoro sulle
fantasie femminili e lesbiche di Nancy Friday, nelle quali, a differenza di
quanto accade nelle fantasie maschili, il modello di dominio-sottomissione
è onnipresente. E tuttavia tale modello non è estraneo alla sessualità
maschile, che, diversamente da quella femminile, può oscillare con più
69
facilità tra controllo e abbandono . La questione centrale rimane allora se il
trovarsi in questa posizione dominante equivalga al trovarsi in una posi-
zione maschile e se una posizione dominante femminile sia qualitativa-
mente diversa dalla forma di dominio maschile o se non ci sia insomma «la
possibilità che i generi di entrambi i sessi occupino le posizioni che
conosciamo come “maschile” e “femminile”». Certamente nell’ambito della
cultura occidentale patriarcale il maschile si colloca in un complesso
dispositivo dello sguardo e il femminile in modelli di dominio-
sottomissione che sul piano della rappresentazione privilegiano il maschio
attraverso i meccanismi di voyeurismo e feticismo (operazioni maschili) e
l’essere attivo del suo desiderio: una struttura, puntualizza Kaplan, che non
appare intaccata dal rovesciamento di posizioni che si verifica nel cinema
contemporaneo cui non corrisponde un analogo ribaltamento dei ruoli e
che fornisce una valvola di sfogo alle tensioni sociali generate dal movi-

68
Ivi, p. 233.
69
E. Ann Kaplan, Women and Film: Both Sides of the Camera, cit., pp. 23-35; Laura Mulvey,
Notes on Sirk and Melodrama, «Movie», nn. 25-26, 1976-1977; Mary Ann Doane, The Woman’s
Film: Possession and Address, intervento alla “Conference on Cinema History”, Asilomar,
Monterey, maggio 1981, poi in Mary Ann Doane, Patricia Mellencamp, Linda Williams (a
cura di), Re-Vision: Feminist Essays in Film Analysis, American Film Institute Monograph
Series, vol. 3, Frederick, Md., University Publication of America, 1984; Nancy Friday, My
Secret Garden: Women’s Sexual Fantasies, New York, Pocket Books, pp. 100-109; Id., Men in
Love, New York, Dell, 1980.

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272 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

mento delle donne. Se non è lo sguardo a essere necessariamente maschile,


«possedere e attivare lo sguardo, dato il nostro linguaggio e la struttura
70
dell’inconscio, è essere in una posizione “maschile”» . Sovvertire questa
condizione è, come asserisce Mulvey, definire una nuova estetica, lavorare a
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un controcinema rispetto al quale il problema cruciale rimane la possibilità


di un piacere femminile o di qualcosa che lo sostituisca. Il paradosso della
critica femminista rischia di essere quello di trarre piacere dalla posizione di
oggetto dello sguardo maschile che ha concorso a evidenziare. Ma l’ap-
porto della psicanalisi, conclude Kaplan, può rivelarsi utile anche nella
elaborazione di strategie volte al cambiamento, come dimostrano le opere
delle registe femministe, nelle quali sono le domande il luogo in cui si tenta
di stabilire un discorso femminista. È nella zona oscura che il discorso
psicanalitico, perpetuando la repressione del femminile, ha prodotto in-
torno al rapporto che la bambina ha con la figura materna, in questa fessura
nella cultura patriarcale, che è possibile, come suggeriscono i lavori di
Horney, Chodorov, Dinnerstein, Rich, Mulvey e Kristeva, porre nuove
domande e tentare di riformulare la nostra posizione di donne. «L’intera
costruzione nel patriarcato della donna come “mancanza” si può dire che
emerga dalla necessità di reprimere la maternità e le tracce di una memoria
dolorosa che essa ha lasciato nell’uomo»: in questo senso la castrazione
potrebbe mascherare una paura più grande legata a questa maternità che ci
accomuna e l’oggettivazione e la feticizzazione, come la divisione sessuale
dei ruoli e i meccanismi di dominio-sottomissione, essere parte del disposi-
tivo destinato a reprimerla. Una maternità che le femministe indagano
come rapporto fondamentalmente narcisistico – una feticizzazione del
bambino come fallo che ripara alla castrazione (l’asse “simbolico paterno”
della maternità, secondo Kristeva) o una feticizzazione di se stesse nel
bambino – ma anche in quanto fessura appunto attraverso cui sovvertire il
patriarcato (per Kristeva, che teorizza questa seconda possibilità, la «causa-
lità non-simbolica, non-paterna» della maternità, il ritorno della donna
madre al corpo di sua madre a cui aspira proprio perché manca del pene).
Questa speranza sovversiva corre, precisa Kaplan, tutti i rischi dell’essenzia-
lismo ponendoci di fronte alla scelta problematica, messa in risalto da
Mulvey, tra «il restare in una unità illusoria con il bambino nel dominio
dell’immaginario» o «entrare nel simbolico dove l’essere madri non si può
“parlare”, non può “rappresentare” una posizione di potere». Ma lo stacco
tra immaginario e simbolico disegna un limite teorico quanto l’opposizione

70
E. Ann Kaplan, Women and Film: Both Sides of the Camera, cit., pp. 28 e 30.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 273

tra essenzialismo e anti-essenzialismo: il primo, come ha ben messo in luce


Doane rispetto alle pratiche filmiche, proponendo un puro riflesso della
donna reale, finisce con il coniugare ancora una volta l’essenza femminile a
quel “naturale” che è la razionalizzazione patriarcale dell’io che pone la
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donna al di fuori dell’agire politico, il secondo conduce all’esclusione del


corpo della donna. Da qui la necessità di una nuova sintassi, di una
ridefinizione anche rispetto a una diversa prospettiva sociologica che i
cambiamenti sociali e la conoscenza di culture diverse impongono, che
vada al di là dei modelli culturali e linguistici consolidati nelle opposizioni
maschile-femminile, attivo-passivo, natura-cultura, ordine-caos,
matriarcato-patriarcato, al di là delle differenze sessuali costruite «attorno
71
alla paura dell’Altro» .
La critica al sistema di rappresentazione del cinema classico che
costituirà lo “zoccolo duro” della Feminist Film Theory – attraverso un
moltiplicarsi di letture testuali che mirano a individuare tanto il funziona-
mento del cinema classico tanto le sue contraddizioni, i ruoli narrativi che i
personaggi femminili svolgono al suo interno, i meccanismi di identifica-
zione ch’esso attiva, la posizione delle spettatrici, le metodologie analitiche
– è già di per sé una messa in discussione della soggettività a partire da una
consapevolezza della sessualizzazione della sua struttura corporea e delle
sue pratiche discorsive e della necessità di esplorarla attraverso il gioco del
testo, è la valorizzazione del legame relazionale come fondamento di una
nuova etica, che, foucaultianamente, traccia i rapporti del soggetto con la
verità e il potere proponendo una nuova genealogia (non solo il “come”,
ma anche il “quando” delle differenze), è il rifiuto di una concezione
normativa del pensiero che corrisponde a una concezione monolitica
dell’essere in quanto Uno governato dalla ragione, in nome, invece – ed è il
pensiero resistente di Deleuze, la sua filosofia politica, il suo guardare agli
eventi nella loro virtualità –, del suo divenire e della sua molteplicità, della
sua coscienza minoritaria e nomadica, è una riscrittura della Storia a partire
dalle pratiche e dall’eterogeneità che si svilupperà a pieno nel decennio
successivo.

71
Cfr. ivi, soprattutto le conclusioni. I testi ai quali Kaplan fa riferimento sono: Dorothy
Dinnerstein, The Mermaid and the Minotaur, New York, Harper, 1977; Nancy Chodorow,
Psychodynamics of the Family, in Id. (a cura di), The Reproduction of the Mothering, Berkeley,
California University Press, 1978, pp. 191-209; Adrienne Rich, Of Woman Born..., cit.; Julia
Kristeva, Motherhood according to Bellini, in Leon S. Roudiez (a cura di), Desire in Language: A
Semiotic Approach to Literature and Art, New York, Columbia University Press, 1980; Mary
Ann Doane, Woman’s Stake in Representation: Filming the Female Body, cit.

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274 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Sconfinamenti

Come per tutte le generazioni


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la tradizione orale si fonda su ogni persona


che ascolta e ricorda una porzione
ed è l’insieme –
tutti noi che ricordiamo cosa abbiamo ascoltato insieme –
che crea l’intera storia
la lunga storia del popolo.
Io ricordo solo una piccola parte.
Ma questo è quello che ricordo.

Leslie Marmon Silko, Storyteller72

Se Chantal Akerman, in De l’autre cote´ (Francia-Belgio, 2002), oggi viaggia


per raccontare e ascolta raccontare (e non solo per bocca delle donne) i
continui sconfinamenti lungo la frontiera messicana, quelli che costano notti
insonni, vite spezzate o perdute (duemila morti in poco più di sei anni per
tremila chilometri di frontiera), la vendita di tutto ciò che si ha per pagarsi
un passaggio e, forse, l’incolumità, quelli che incidono nella carne dei
viaggiatori i segni delle disavventure e del lutto, annunciando al tempo
stesso speranze e la voglia di esserci, frontiera che attraversa paesaggi
differenti, ore differenti, il giorno e la notte, barriera dei progetti perseguiti
o naufragati, simbolo di partenze e di ritorni, uguali a quelli di migranti e
profughi di tutto il mondo, minoranze non per numero ma per condizione,
non è senza ragione, non è senza emozione (non è senza passione, direi con
Braidotti), non è senza un punto di vista...
Ma i nostri racconti, quelli delle donne della mia generazione, hanno
avuto inizio dall’infrangersi storico di un’alleanza che socialismo e marxi-
smo avevano reso possibile, da un’altra barriera, quella tra noi, quella tra
compagni e compagne, compagno e compagna sotto lo stesso rosso delle
bandiere, negli stessi cortei e, dopo e mentre, nelle nostre case, dove
tentavamo modi di vita nuovi e alternativi, dove arrivavano bambini
liberamente scelti e non subiti, ma dove presto, come sempre, il dilemma
sarebbe stato tra essere donna, o meglio ciò che ci si aspetta da una donna,
e essere altro, tra torte di mele e scrittura, tra saperi delle mani e del corpo

72
Leslie Marmon Silko, Storyteller, New York, Seaver Books, 1981, cit. in Christine Welsh,
Women in the Shadows. Reclaiming a Me´tis Heritage, in Laura Pietropaolo, Ada Testaferri (a
cura di), Feminisms in the Cinema, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press,
1995, pp. 28-40, alla p. 29.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 275

73
e saperi della mente, tra “una stanza tutta per sé” , agognata e difesa con le
unghie e coi denti, e le sicurezze incerte del focolare, dubitando di se stesse
e della propria carne... È proprio a partire da questo «essere-avere un
corpo», di cui parla una delle voci più presenti della teoria femminista
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74
italiana, Luisa Muraro , che si costituiscono il sapere e il discorso delle
donne, che scaturisce il bisogno di attivare la produttività simbolica della
nostra soggettività e del nostro desiderio contro quell’ordine patriarcale che
è tutt’uno con quest’ordine sociale che vede oppresse tutte le donne da
parte di tutti gli uomini investendo tutti gli aspetti delle loro vite, contro
quel regime ipermetaforico all’interno del quale si posizionano il linguaggio
della politica e lo schema della rappresentanza. Attraverso la pratica
dell’autocoscienza, il personale, la nostra esperienza di donne, prendeva la
parola nel luogo della Politica.
Se Mulvey potrà scrivere che la teoria femminista italiana, a differenza
dell’approccio sostanzialmente ortodosso dell’area anglofona, si evolve in
stretto rapporto con la pratica e con una «cultura militante fortemente
politicizzata», dove esperienza e immagine sono modi per indagare il
75
desiderio femminile, non è, ugualmente, senza ragione . «Il pensiero ita-
liano della differenza sessuale», scrive Adriana Cavarero, «si sviluppa in
modo originale e, per certi versi, anomalo» ed è l’esperienza dell’autoco-
scienza che si estende internazionalmente nei luoghi del “separatismo”,
76
lavorando a una valorizzazione dell’esperienza delle donne , a favorire nel
femminismo italiano un radicamento della teoria nelle pratiche. L’autoco-
scienza, il simbolico, la disparità, l’affidamento, la relazione, il partire da sé
e il loro incrocio nei diversi contesti:

a dispetto delle accuse di “essenzialismo” e di deriva “metafisica” in cui, per


via della sua carenza di postmodernismo, incorrerebbe in Italia il versante
cartesiano della questione del soggetto e la relativa critica post-strutturalista

73
Da A Room of One’s Own di Virginia Woolf, Harcourt Brace and World, New York and
London, 1929; [tr. it. Una stanza tutta per se´, in Romanzi e altro, Milano, Mondadori, 1978].
Cfr. l’acuto commento di de Lauretis in Sui generiS, cit., pp. 17-35.
74
Cfr. Luisa Muraro, Maglia o uncinetto, Milano, Feltrinelli, 1981, II ed., Roma, manifestoli-
bri, 1998 e L’ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991.
75
Cfr. Laura Mulvey, in Giuliana Bruno, Maria Nadotti (a cura di), Off Screen: Women and
Film in Italy, London and New York, Routledge, 1988, p. XII. Il volume ripropone parte dei
materiali (il contributo italiano) prodotti in occasione del seminario “Italian and American
Directions: Women’s Film Theory and Practice” svoltosi a New York nel dicembre 1984.
76
Cfr. Hester Eisenstein, Contemporary Feminist Thought, cit., p. 38; Alix Kates Shulman,
Sex and Power: Sexual Bases of Radical Feminism, «Signs», vol. 5, n. 4, estate 1980, pp. 590-604.

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276 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

e decostruzionista sono infatti largamente trascurati. Anche il tema del


linguaggio non assurge qui a quel ruolo esclusivo ed onnipotente che
altrove porta la teoria femminista a negare ogni realtà extra-linguistica77.
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A metà degli anni Ottanta Giuliana Bruno e Maria Nadotti, pur


riconoscendo come orizzonte comune della teoria femminista del cinema la
semiotica, la psicanalisi di Freud e Lacan, il poststrutturalismo individuano
l’originalità del contributo italiano in un uso «inconsueto, non ortodosso,
ma non inappropriato del modo psicanalitico» che consente di oltrepassare
il divario teoria/terapia «affermando il potenziale teorico dello strumento
clinico». La pratica politica dei collettivi femministi degli anni Settanta ha
agito, articolando insieme coscienza e autocoscienza, esperienza ed impe-
gno politico da «centro politico di disseminazione del discorso»: che è il
modo del discorso femminista italiano, un discorso al di fuori di ogni
posizione tra intellettuale e politico, accademia e attivismo, pubblico e
privato, che non mira, a differenza di quanto accade oltreoceano, ad
acquisire un «accumulo di conoscenza» che conferisca uno statuto di
«disciplina formale» a un modello di teoria femminista del cinema. La
teoria, per le femministe italiane, non è «metodologia da applicarsi a un
oggetto» ma «mezzo di indagine sull’identità e sul rapporto con il simboli-
co»; uno dei suoi obiettivi è il necessario superamento di un’estetica
negativa fondata su un’identità femminile data come altro. È a questo punto
che «lo sguardo della donna si sposta da se stesso al cinema. Si verifica una
sorta di inversione, in cui, in un processo teorico-clinico, la persona che
analizza e legge il testo filmico è al tempo stesso letta e agita». Lo sguardo
che la donna si trova a volgere a se stessa è insieme «di presenza e assenza,
interno ed esterno», «problematizza l’oggetto problematizzando il sogget-
to». Da qui la centralità del problema della spettatrice e di un piacere
femminile intorno al quale ruotano, nella loro complessità, i rapporti «tra
politica e teoria, dominante e oppresso, maschile e femminile, attivo e
passivo, vedente e visto, rappresentante e rappresentato». Non si può allora
non partire che dal punto di vista della donna impegnata nell’attività critica
e dal suo piacere nel tentativo di «afferrare il rapporto tra sguardo dello
spettatore e verifica critico-scientifica» in una prospettiva che inverta co-
78
stantemente soggetto e oggetto, analista e analizzando . È la rappresenta-

77
Adriana Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in Franco Restaino,
Adriana Cavarero (a cura di), Le filosofie femministe, cit., pp. 111-164, alla p. 138.
78
Giuliana Bruno, Maria Nadotti (a cura di), Off Screen: An Introduction, in Off Screen:
Women and Film in Italy, cit., rispettivamente alle pp. 12, 8, 12, 6, 12-13.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 277

zione del corpo femminile a riprodurre nel cinema, afferma Melchiorri,


soggetto del desiderio e soggetto del linguaggio e a svelare la natura del
rapporto della donna con la propria immagine e con il mondo dei simboli.
Il che è tutt’uno con la comprensione delle valenze femminili incluse nelle
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pratiche filmiche, poiché «il proprio corpo, l’immagine della propria identi-
tà», fronteggiano la donna regista come immagine sullo schermo, come
79
«oggetto dello sguardo, “corpo impossibile”» . D’altra parte le teorie lingui-
stiche hanno mostrato tutta la loro inadeguatezza rispetto «a una marca
sessuale di soggettività». È la convinzione di Violi che, partendo da Benve-
niste, sottolinea la natura linguistica della realtà che costituisce il soggetto e
il carattere trascendentale di un soggetto che, in tutte le teorie strutturaliste
come in Lacan, è sostanzialmente maschile. Ma anche il quadro semiotico
delineato da Eco restringe il soggetto alla semplice dimensione culturale e il
significato al suo aspetto codificato, perché è lo stesso processo semiotico a
definire il soggetto, escludendo ogni processo inconscio, riducendolo alla
sola dimensione di prassi sociale e culturale, privandolo della fisicità, dei
desideri, delle emozioni e dunque di una sessualità. Una prospettiva pre-
freudiana, asserisce Violi con de Lauretis, nel suo riproporre una dicotomia
tra corpo e mente, materia e intelletto. Questa subordinazione del soggetto
alla cultura corrisponde a quella del significato ai codici sociali e in questo
senso la se´miotique di Kristeva, col suo riferirsi a un livello presimbolico,
sembra pervadere maggiormente la vita delle donne e l’esperienza della
differenza, nonostante faccia ricorso a un’ulteriore forma di codificazione
culturale nel suo indirizzarsi soprattutto a pratiche culturali alte o di
avanguardia. La definizione negativa del femminile implicata nel paradigma
teorico del soggetto trascendentale è il limite teorico di gran parte della
teoria femminista e in particolare delle pensatrici francesi: ciò che occorre è
arrivare alla definizione non di un’essenza del soggetto femminile, ma delle
categorie teoriche necessarie all’inquadramento di questioni come la diffe-
renza sessuale e la specificità dell’esperienza, del desiderio, del dolore.
Rispetto al soggetto universale e astratto prodotto di una filosofia occiden-
tale che si oppone all’individuale come categoria cognitiva e percettiva, è
proprio il concetto di individuale a rivelarsi cruciale per una teoria al
femminile. Un individuale che coincide con «la forma comune delle nostre
esperienze, il processo che le struttura e che, in quanto forma, in quanto
processo, può essere descritto» e comparato. Attraverso l’autocoscienza, le
femministe italiane riconoscono nell’esperienza della differenza sessuale un

79
Paola Melchiorri, Women’s Cinema: A Look at Female Identity, ivi, pp. 25-35, p. 27.

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278 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

processo che le accomuna pur strutturando diverse esperienze di vita e che


sta alla base di ogni definizione del soggetto femminile. Una struttura
codificata nel sistema culturale e semiotico di rappresentazione e significato
ma iscritta, anche, nell’inconscio. La riduzione della differenza a dualismo –
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un dualismo nel quale le donne occupano il polo negativo della materia – è


una conseguenza della società patriarcale e non è risolvibile «attraverso la
ricerca di una natura incorrotta per il corpo femminile». L’analisi della loro
esperienza consente alle donne la scoperta di una soggettività femminile
fondata sulla «coesistenza di un doppio registro di funzionamento, un
doppio livello di significato perché le donne non sono fuori dalla struttura
patriarcale, ma al tempo stesso non appartengono del tutto alla sua logica,
ordine, discorso; esse sono sempre al tempo stesso nella storia e altrove».
Guardando al problema del linguaggio da questa prospettiva, conclude
Violi, è possibile evincere i limiti tanto della ricerca di un linguaggio
androgino che tenti di cancellare la differenza, tanto di una negatività
rispetto al discorso maschile, che confina il linguaggio femminile all’as-
senza, all’isteria, al silenzio e l’impraticabilità di una scelta «tra un’emanci-
pazione in cui ogni differenza sia cancellata e il ruolo di uno spettatore
silenzioso in una storia non sua: o identificarsi con il potere del fallo e
rinunciare cosı̀ alla propria forma di soggettività diversa, o regredire indie-
tro all’altro versante dell’ordine simbolico, prima della fase dello specchio,
prima del linguaggio».
Il problema del linguaggio non può limitarsi al campo linguistico ma
deve essere ricollocato a livello teorico: è il punto di intersezione tra
individuale e generale il luogo del femminile, un luogo dal quale il linguag-
80
gio ha già cominciato ad esprimere una sua autonomia .
L’assimilare come esperienza personale «il metodo analitico e critico del
femminismo, la pratica dell’autocoscienza», scrive de Lauretis, «il concepire
la propria condizione personale di donna in termini sociali e politici, e la
costante revisione, rivalutazione e riconcettualizzazione di quella condi-
zione in rapporto al modo in cui le altre donne concepiscono la loro
posizione socio-sessuale genera un’appercezione di tutta la realtà sociale
81
che deriva dalla consapevolezza del genere» .
In questo senso il suo lavoro si pone come una sorta di cerniera,

80
Patrizia Violi, Language and the Female Subject, ivi, pp. 139-148, pp. 143, 144, 145, 146,
147.
81
Teresa de Lauretis, La tecnologia del genere (cap. introduttivo a Technologies of Gender.
Essays in Theory, Film and Fiction, Bloomington, Indiana University Press, 1987), ora in Id.,
Sui generiS, cit., p. 155.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 279

mostrando da una parte la consistenza di un retroterra teorico legato alle


peculiarità dell’esperienza italiana, cominciando ad articolare dall’altra un
pensiero critico che attinge tanto alla scuola francese quanto ai suggeri-
menti metodologici della riflessione di area anglofona: sul numero di
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«Ciné-Tracts» dell’autunno 1978 un suo saggio di apertura, Semiotics, Theory


and Social Practice: A Critical History of Italian Semiotics – che possiamo
considerare insieme al successivo Imaging, ancora su «Ciné-Tracts» autunno
1980, una resa dei conti con la semiotica, prima ancora che un percorso
verso il femminismo –, puntualizza come la tradizione culturale italiana
presessantottesca fosse stata debitrice più di Marx, Hegel, Lukács e Vitto-
rini (come, possiamo aggiungere per quel che ci riguarda più da vicino,
dimostrano anche le riviste di cinema, ma è una precisazione che forse
proprio la lontananza dal marxismo dei teorici americani e la relativa
attenzione che essi dedicavano all’ideologia rendevano necessaria), che di
Freud, Bachelard, Breton o Bataille, di Brecht che di Beckett e come lo
stesso marxismo vi avesse una connotazione più politica che filosofica, in
armonia con il quadro politico entro il quale il paese si accingeva a
riesaminare la propria storia culturale. Se lo strutturalismo aveva offerto la
possibilità di ripensare l’arte rispetto alla produzione e consumo di massa di
oggetti culturali, il coinvolgimento diretto della semiotica nella critica
neomarxista allo strutturalismo consentiva di metterne in discussione la
premessa idealistica di una struttura preesistente al testo, un metodo critico
rivolto alle sue strutture formali, la valenza ideologica di un approccio che
non lo collega ad altre formazioni socioculturali. Il neomarxismo, il dibat-
tito interno alla sinistra letteraria in polemica con le posizioni togliattiane e
con le scelte dell’Unione Sovietica e la presenza di un’avanguardia consi-
stente, nonostante le critiche di Luperini a quest’ultima per la sua incapa-
cità di costituirsi quale alternativa di lavoro intellettuale in una società a
capitalismo maturo, emergono, nella ricostruzione di de Lauretis, come le
componenti più vive del panorama italiano di allora. Mentre in Francia il
82
Maggio (che da molti viene fatto coincidere con la crisi del moderno )
poneva radicalmente in discussione lo strutturalismo, in Italia questa tra-
sformazione era dettata da un consapevole spostamento politico che coin-
volgeva le stesse operazioni di produzione del significato e i loro supporti
83
economici e ideologici . In questo senso de Lauretis considera determi-

82
Cfr. David N. Rodowick, The Crisis of Political Modernism: Criticism and Ideology in
Contemporary Film Theory, II ed., Berkeley, University of California Press, 1994.
83
Teresa de Lauretis, Semiotics, Theory and Social Practice: A Critical History of Italian
Semiotics, «Ciné-Tracts», vol. 2, n. 1, autunno 1978, pp. 1-14, pp. 4-6.

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280 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

nante il contributo di Eco per il suo porre l’accento sui modi di produzione
del segno e sull’impossibilità di concepire sistemi di comunicazione al di
fuori della funzione sociale della comunicazione, sulla correlazione di tutti
gli elementi di un sistema a un determinato contenuto o significato se-
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condo quelle regole socialmente e culturalmente determinate, ma anche


84
mutevoli, che sono i codici . Una semiotica che, più che porsi come chiave
universale, vuole fornire «una conoscenza critica di ciò che può essere detto
realtà sociale, ad esempio i rapporti di produzione, la circolazione e il
consumo di discorsi sociali (nel senso più ampio) dai quali scaturiscono
85
rappresentazioni, convinzioni e valori» . Uno spostamento che ha tra le sue
cause anche i contemporanei movimenti politici in Europa e in America,
che investono l’intero processo di produzione del significato. Il concetto di
lavoro vivo elaborato dalla sinistra extraparlamentare viene paragonato da
de Lauretis, insieme al salto qualitativo che implica nella concezione delle
forze produttive, al nuovo concetto semiotico di produzione del significato,
in quanto produzione intellettuale attraverso veicoli segno permeati di
fisicità. Uno spostamento dai sistemi di segni come meccanismi che generano
messaggi «al lavoro agitovi attraverso, che costituisce e/o trasforma i
codici», dal soggetto trascendentale dello strutturalismo a un soggetto
storico che, secondo Eco, la semiotica può indagare all’interno di un testo
86
in quanto «modo di guardare al mondo» .
In un decennio, quello dei Settanta, dominato da psicanalisi e semiotica,
non stupisce che de Lauretis, nata in Romagna e laureata alla Bocconi, tenti
di fare quadrare il cerchio di un itinerario politico che è anche itinerario
personale e itinerario di un femminismo, quello italiano, che ha sempre
scelto di collocarsi “a sinistra”. Se il cinema troverà più spazio nel saggio
successivo, continuando a occupare una posizione di rilievo in tutto il
lavoro della studiosa negli Stati Uniti, non possiamo trascurare la centralità
che in quegli anni il dibattito sulla semiotica assume a livello politico anche

84
de Lauretis sottolinea come per Eco, in questo momento, uno dei maggiori punti di
riferimento sia lo studio di Ferruccio Rossi-Landi sul rapporto tra sistemi di segni e
ideologie. Supponendo una omologia tra produzione linguistica e produzione materiale,
fondata sull’omologia tra messaggio e prodotto, Rossi-Landi (traduttore di Morris) muove
verso una semiotica dei codici sociali e verso una loro interpretazione nei termini di lavoro e
produzione. La teoria marxiana del valore e il concetto di alienazione vengono applicati alla
produzione linguistica: equiparando il significato al valore, si ipotizzano una produzione e
una circolazione di beni parallela alla produzione e circolazione di frasi. Cfr. ivi, pp. 13-14.
85
Ivi, p. 8.
86
Ivi, pp. 4 e 11.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 281

nel cinema. Se, infatti, lo “strappo metziano” si colloca alla metà del
decennio precedente, ed è intorno ad esso che si svilupperanno momenti di
coagulo discriminanti e produttivi del dibattito stesso, come i convegni
pesaresi ’65 e ’66 dove la posizione pasoliniana è di per sé una posizione
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politica (come de Lauretis non mancherà di dimostrare, saldando il proprio


debito con la cultura italiana e con Eco e Pasolini in particolare), o il lavoro
delle riviste, con il proliferare di approfondimenti e posizioni che sempre
più spostano l’attenzione dalle strutture alla scrittura, al processo, alle
pratiche significanti, al testo (da Wollen a Kristeva, Bellour, Ropars, Gar-
dies, Chateau, Jost), è all’inizio degli anni Settanta che sulle pagine di
«Screen» accanto alla questione dell’ideologia, nuovamente centrale a par-
tire da Althusser, affrontata da «Cinéthique» e dai «Cahiers», sorge una
rinnovata attenzione per la semiotica, il marxismo e la psicoanalisi e per i
contributi che tali approcci possono dare nella direzione di chiarire i
rapporti tra soggetto e rappresentazione, tra film e spettatore (non più lo
spettatore “pietrificato” del cinema classico, ma implicato nel “piacere del
testo” di cui dice Barthes e comunque oggetto di precise strategie di
interpellazione), di restituire il film al sociale, indagandone tanto gli aspetti
legati alla cultura di massa e promovendo d’altra parte modelli alternativi al
cinema classico e al testo “realista” le cui dinamiche sono non soltanto
87
evidenziate ma messe in discussione (per esempio da Colin Mac Cabe) .
Una “politica della rappresentazione” – per Rodowick, che ne critica gli
esiti formalistici, il dato più saliente del modernismo politico –, nella
convinzione che «l’evidenziazione del processo di significazione possa
condurre l’attenzione dello spettatore sulla materialità dell’immagine attra-
verso la distruzione dell’unità e della trasparenza della forma del film», e in
questo senso la consapevolezza che un cinema d’avanguardia necessiti di
una «“decostruzione” dell’ideologia della forma del film prima di indiriz-
88
zarsi a un contenuto politico» . Un movimento all’interno del quale il
femminismo e la teoria femminista avranno un ruolo tutt’altro che margi-
nale, non limitato alla formulazione di strategie estetiche (come Rodowick
rimprovera al moderno), ma proiettato, più di altre istanze, a un confronto
della teoria del film con la semiologia e la psicoanalisi, come dimostrano le

87
Cfr. Roland Barthes, Le Plaisir du texte, Paris, Éditions du Seuil, 1970; [tr. it. Variazioni
sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Torino, Einaudi, III ed., 1999]; Colin Mac Cabe,
Realism and the Cinema: Notes on Some Brechtian Theses, «Screen», vol. XV, n. 2, estate 1974;
Id., Principles of Realism and Pleasure, «Screen», vol. XVII, n. 3, autunno 1976.
88
David N. Rodowick, The Crisis of Political Modernism: Criticism and Ideology in Contempo-
rary Film Theory, cit.

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282 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

stesse “collaborazioni” Mulvey-Wollen e de Lauretis-Heath, e che sarà ben


riassunto in tutti i suoi sviluppi nell’importante volume di Silverman The
89
Subject of Semiotics (1983) .
L’emergere di una nuova situazione politica, anche a sinistra del partito
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comunista, e di nuove contraddizioni sociali, non sarà, scriveva de Lauretis


l’anno successivo al movimento del ’77, privo di conseguenze per questa
nuova semiotica che dopo il ’68 ha costruito «la possibilità di un’autocritica
e i mezzi per storicizzare il proprio discorso». La politica della semiotica –
è la conclusione di de Lauretis che anticipa molto del suo stesso percorso
successivo – non va confinata al suo oggetto teorico e al suo metodo
analitico ma generalizzata a «tutti i livelli del discorso». Ciò che non era
ancora stato fatto rispetto al movimento delle donne: se l’idealismo aveva
opposto «corpo e anima, materia e mente cancellando non soltanto il
lavoro come produttore di merci, ma anche, fin dall’inizio, il corpo femmi-
nile», il materialismo storico rinchiude il rapporto uomo-donna all’interno
della lotta di classe, non soltanto affermando la sessualità come unicamente
maschile, ma negando alle donne ogni possibilità di esistenza storica, al di
fuori del loro essere – è la posizione di Lévi-Strauss – «merci, segni prodotti
in un discorso sociale da e per l’uomo, e perciò escluse dall’universo delle
produzioni culturali e dal discorso stesso». Una posizione, già indagata,
90
ricorda de Lauretis, da Melandri in L’infamia originaria e che esce raffor-
zata dagli stessi modi in cui la semiotica si è confrontata con la psicoanalisi
91
e con lo strutturalismo .
La «teoria del soggetto e, cosa fondamentale, la differenza sessuale nelle
loro forme storiche e in rapporto ai dispositivi culturali della riproduzione
92
sociale» erano dunque, nel ’77, i nuovi temi che la semiotica si apprestava
ad affrontare. Due anni dopo de Lauretis sceglierà di confrontarsi in modo
più diretto con le problematiche inerenti il modo in cui i significati
vengono legati alle immagini – e il rapporto tra queste ultime e l’articola-
zione del desiderio – e con il senso effettivo di una polarità positivo/nega-
tivo erroneamente istituita intorno all’immagine della donna nel cinema.
Una polarità che presuppone un’assoluta innocenza e un’immediatezza di
ricezione nello spettatore non riscontrabili nella realtà e che lascia la donna

89
Kaja Silverman, The Subject of Semiotics, New York, Oxford University Press, 1983.
90
Lea Melandri, L’infamia originaria, Milano, L’erba voglio, 1977, p. 27.
91
Teresa de Lauretis, Semiotics, Theory and Social Practice: A Critical History of Italian
Semiotics, cit., pp. 11-13.
92
Ivi, pp. 16, 14.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 283

in un vuoto di significato, lo spazio vuoto tra i segni, dove non vi è


domanda possibile e codice disponibile: il posto della spettatrice al ci-
nema, tra lo sguardo della cinepresa (la rappresentazione maschile) e
l’immagine sullo schermo (la rappresentazione speculare, fissata, femmini-
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le), né l’uno né l’altra, ma entrambi, in un’identificazione doppia e opposta.

I dibattiti pesaresi sull’articolazione cinematografica, nel corso dei quali


si erano distinte le ben note posizioni di Metz e Pasolini, si pongono quale
ulteriore e produttivo punto di addensamento nell’indagine sui modi di
codificazione iconica e sulle regole della comunicazione visiva. Ancora una
volta è la posizione di Eco, e la sua proposta di una tripla articolazione, la
più convincente per de Lauretis, che ne mette però in discussione il
concetto di iconico, a favore di testi visivi le cui unità pertinenti sono
stabilite dal contesto in una rete complessa di rapporti in continuo cambia-
mento. Vi sarebbe, nelle conclusioni di Eco, il rischio di un «umanesimo
logico-semiotico», al quale de Lauretis oppone l’attualità e la portata delle
osservazioni pasoliniane a proposito del cinema come lingua scritta della
realtà: l’analogia tra un cinema come rappresentazione conscia di una
pratica sociale e l’idea di cinema teorizzata dai cineasti indipendenti;
l’insistenza sulla translinguisticità del mezzo e dunque sulla sua natura non
di linguaggio ma di pratica significante; quell’essere attori e spettatori della
realtà umana, che mostra più di un punto di contatto con le teorie
dell’esperienza femminile della visione, il contesto delineato da Pasolini non
è solo un contesto discorsivo, ma un contesto di pratica sociale. Né la
percezione né la significazione, infatti, sono semplici riproduzioni: ogni
operazione di mappatura dello spazio visivo e del processo semiotico deve
presupporre la consapevolezza – ed è questa un’ulteriore promettente
conclusione per la teoria femminista – che «se la soggettività è impegnata
nella semiosi a tutti i livelli, non soltanto nel piacere visivo, ma in tutti i
processi cognitivi, la semiosi, a sua volta [...], è implicata nella percezione
93
sensoria, iscritta nel corpo – il corpo del film, il corpo umano» . Un corpo
in cui si inscrive il linguaggio ma anche un corpo che parla, sarà questa la
connotazione più forte del femminismo italiano che si radica nel corpo
politico del movimento delle donne degli anni Settanta: partire dal corpo,

93
Id., Imaging, «Ciné-Tracts», n. 3, autunno 1980, pp. 3-12, pp. 11, 8, 10; per i dibattiti
pesaresi cfr.: «Marcatré», nn. 19-22, aprile 1966; «Nuovi Argomenti» n.s., n. 2, aprile-giugno
1966; Linguaggio e ideologia nel film, Fratelli Cafieri Editori, ora in Mostra Internazionale del
Nuovo Cinema (a cura di), Per una nuova critica. I convegni pesaresi 1965-1967, Venezia,
Marsilio, 1989.

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284 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

dalla sua conoscenza e dalla propria esperienza per fare del corpo il luogo
del pensiero è parlare la differenza, è situarsi nella politica, è lanciare una
delle sfide più grandi al sistema patriarcale.
Partire da se´ rinnovando con questo il movimento della nostra venuta al
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mondo94: ho iniziato il mio cammino nella teoria femminista del cinema


operando diversi sconfinamenti. Rispetto al tempo innanzitutto – scelgo una
prospettiva storica e ne sono scelta a mia volta, trovandomi sempre più in là,
al di là –, rispetto alle definizioni, rispetto al linguaggio, rispetto a una griglia
teorica che continuamente si disfa e che sento di non poter fissare intorno a
termini come cinema classico, controcinema, desiderio, piacere-dispiacere,
sguardo, soggetto, genere, spettatrice, linguaggio, differenza, lesbico, queer,
razza non solo perché, come scrive Cavarero, «presentare, discutere, interpre-
tare il pensiero femminista da un punto di vista “oggettivo” è impossibile»95,
ma anche perché il linguaggio del femminismo – e in questo credo di
dissentire dal prendere le distanze del femminismo italiano dal postmoderni-
smo – e` un linguaggio no border, un linguaggio mestizo. Ma sento di avere
sconfinato anche rispetto a me, al mio femminismo, scoperto negli anni
dell’università e nel corso di altri viaggi, da Sud a Nord e attraverso la politica,
e poi messo da parte ma non dimenticato. Non dimenticare non è fare
appello alla nostalgia, ma dire con la memoria, una «contro-memoria», come
96
dice con Foucault Braidotti , quella che dà un senso alle lotte, che riunisce le
minoranze, che organizza gli oppressi e i popoli, come un senso in più, oltre
l’olfatto, il gusto, l’udito o la vista, quello che ti fa toccare un figlio in un altro
modo, il cibo in un altro modo, una donna, una madre, un’anziana con
ammirazione e tenerezza, che ti fa scegliere una parola anziché un’altra,
un’espressione, una pratica, che ti fa pensare a un altro mondo possibile per
tutte le cose di cui abbiamo bisogno sapendo che le donne avranno più
richieste, più domande e più immaginazione... Per questo il gesto di due
sorelle in Anni di piombo, scambiarsi un indumento di là del vetro di una
prigione, è uno sconfinamento che riassume una storia e la storia, raccon-
tando nessuna verità ma la nostra esperienza del mondo, per questo la voce di
Sanders-Brahms sceglie di raccontare di una figlia e di una madre, per questo
97
la Germania è una pallida Madre .

94
Cfr. Luisa Muraro, Partire da se´ e non farsi trovare..., in AA.VV. (Diotima), La sapienza di
partire da se´, Napoli, Liguori, 1996, pp. 5-21.
95
Adriana Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, cit., p. 112.
96
Rosi Braidotti, Femminismo, corporeità e differenza sessuale, cit., p. 89.
97
Anni di piombo (Die bleierne Zeit, Margarethe von Trotta, 1981); Germania, pallida madre
(Deutschland, bleiche Mutter, Helma Sanders-Brahms, 1979).

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 285

Alice nel labirinto

C’è sempre una sonorità nel filo di Arianna


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Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille Plateaux

Dall’«intuizione originaria del femminismo degli anni Settanta» che alle


donne mancassero «le parole per dirsi a partire da sé invece che dall’imma-
ginario maschile», che «la condizione femminile sia segnata dalla miseria
simbolica più che dalla miseria sociale» scaturiva, come ricorda Ida Domi-
nijanni, una nuova importanza della parola che non trova attuazione «solo
nel nominare la realtà in modo fedele all’esperienza, ma nel modificarla e,
di più, nel ri-crearla, nel “mettere al mondo il mondo”», con la conseguenza
che

tutt’altro che pura decostruzione del posto delle donne (o, peggio, della
Donna) nell’ordine patriarcale, come l’analisi del simbolico viene intesa in
molta teoria femminista angloamericana, la politica del simbolico si confi-
gura cosı̀ nel femminismo italiano della differenza come continua scom-
messa sul regime della dicibilità e sul senso, in un gioco di rilancio che
non ha limiti come non ha limiti la creatività della lingua: o meglio, della
lingua materna, cioè di quella lingua che non si arrende all’ordine morti-
fero del primato metaforico e mantiene vivo il rapporto fra significato ed
esperienza98.

È l’ordine simbolico della madre, che si fonda su quella relazione


madre-figlia che la teoria di Irigaray ha indagato forse più d’ogni altra (fino
a rintracciare nella radice mater di materialismo l’iscrizione del materno
come luogo di origine del soggetto), rielaborandola attraverso la nozione di
genealogia femminile a fondamento di un simbolico marcato dalla diffe-
renza sessuale, un ordine capace di riunire insieme l’esperienza e il linguag-
gio, il solo ad avere, per Luisa Muraro e per larga parte del femminismo
italiano, le potenzialità per opporsi all’ordine simbolico della società pa-
triarcale. Metonimia contro metafora, “maglia o uncinetto”, una proposta la
cui politicità, come sostiene Dominijanni, consiste nell’aprire il testo sociale
«“a ogni voler dire”, in primis al voler dire del corpo sociale selvaggio»,

98
Ida Dominijanni, La parola del contatto, introduzione a Luisa Muraro, Maglia o uncinetto,
II ed., cit., pp. 7-46, alle pp. 26-27.

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286 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

laddove «in fondo alla direttrice metonimica c’è il principio dell’autorità


materna come leva di sovversione dei poteri costituiti nell’ordine sociosim-
99
bolico vigente» . Una posizione che conduce a una critica radicale delle
politiche identitarie nel suo prendere le distanze tanto dall’essenzialismo
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quanto dal «suo rovesciamento postmoderno nelle pluralistiche “politiche


del riconoscimento”» delle teoriche femministe d’oltreoceano, che, «lungi
dal superare la logica dell’identità, si limitano a frantumarla nella geografia
delle differenze sociali, etniche e sessuali, ciascuna garantita dalla propria
100
rappresentanza» .
Una valutazione che pone a sua volta altri interrogativi, che hanno il
loro corrispettivo sul piano della teoria femminista del cinema, chiedendo
di ridiscutere il ruolo del femminismo nell’eclissi del moderno e la sua
influenza sul postmoderno, interrogativi che aprono sul momento attuale
del dibattito teorico femminista, che, pur stretto tra i rischi di un nuovo
essenzialismo da una parte, e, dall’altra di un ritorno a un’innocenza
originaria della biologia con le conseguenti rivalutazione di un passato
matriarcale o allucinazione di una figura femminile forte, dal carattere
mitico, che si dispone con valori propri al di fuori dell’ideologia e della
101
storia , registra nel suo complesso un sostanziale spostamento rispetto a
una concezione binaria della differenza sessuale e al paradigma dominante
della psicoanalisi – semiotica e psicanalisi sono negli anni della nuova
ondata le metodologie più applicate in una prospettiva strutturalista e post
– nella direzione di identità e posizioni spettatoriali multiple e articolate
rispetto a questioni come la razza o le nuove sessualità. Ma di questo
dibattito qui ho inteso sottolineare soltanto un momento (gli anni Sessanta
e Settanta, di nuovo, con qualche “sconfinamento”) e una parola d’ordine,
“il personale è politico”, che rappresenta insieme un punto di addensa-
mento e, per certi versi, l’origine stessa del discorso teorico. Questo
insistere del femminismo sui fili che legano la pratica alla teoria «è tale che
è difficile formulare una “storia delle idee femministe” che non prenda in
considerazione una pratica di valore politico ed epistemologico», cosı̀ come

99
Ivi, p. 28: per «corpo selvaggio» Muraro (L’ordine simbolico della madre, cit., p. 103)
intende «quella parte dell’esperienza umana che esorbita dalle capacità di mediazione di un
dato ordine simbolico-sociale e che, di conseguenza, resta fuori dalla sintesi sociale o vi
entra come oggetto d’interpretazioni e interventi altrui. Prima della politica delle donne,
molta esperienza femminile era corpo selvaggio».
100
Ivi, p. 32.
101
Cfr. Rosi Braidotti, Dissonanze, cit., pp. 32-104; Teresa de Lauretis, La tecnologia del
genere, cit., pp. 159-161.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 287

è velleitario ipotizzare una «tassonomia finale» o una «metodologia defini-


tiva» rispetto al pensiero femminista: il personale, come sottolinea Braidotti,
102
«non è solo il politico, ma anche la base per il teorico» . Una parola
d’ordine, il personale è politico, alla cui generalizzazione corrisponde nel
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movimento di opposizione nel suo complesso la volontà di non separare


più pubblico e privato, arte e vita – un’analoga ispirazione coinvolge la
letteratura e il cinema –, la ricerca insomma di una nuova soggettività (Joan
Kelly e de Lauretis insistono, giustamente, nel ribadire come non sia più
possibile presupporre l’esistenza di due sfere separate della realtà sociale,
ma diversi tipi di rapporti sociali di classe e di razza e di sesso/genere,
rispetto ai quali uomini e donne occupano posizioni diverse anche all’in-
terno dei diversi tipi di rapporti – dalla differenza sessuale alle differenze tra
103
donne ). È il salto teorico che il nuovo femminismo si accinge a compiere
nella seconda fase della sua riflessione: esplorare le origini della differenza,
ma soprattutto definire la differenza e le differenze con le parole delle
donne, esaltandone gli aspetti distintivi, criticandone quelli repressivi (dalla
maternità alla pornografia, al linguaggio, all’eterosessualità: Chodorow,
Rich, Griffin, Dworkin, Spender), ipotizzando e immaginando le possibili
alternative (dal lesbismo all’impegno politico, alla rivalutazione delle diffe-
renze a partire da razza, classe e cultura), fino a rovesciare il senso del
viaggio: guardare l’Altro per tornare a sé, proiettarsi nei molteplici mondi
immaginati della società globale per dare un nuovo senso all’esperienza,
lasciarsi attraversare dalla politica per dire che il movimento delle donne
può riassumere le differenze nella sua differenza perché il bianco – quel
femminismo bianco che per tanto tempo si è posto come istanza domi-
104
nante – adesso è soltanto uno dei colori .

102
Rosi Braidotti, Dissonanze, cit., pp. 105-106.
103
«In tutte le forme storiche assunte dalla società patriarcale (feudale, capitalista, sociali-
sta, ecc.), operano simultaneamente un sistema sesso/genere e un sistema di rapporti
produttivi [...] tesi a riprodurre le strutture socioeconomiche a dominanza maschile di quello
specifico ordine sociale»: Joan Kelly, Women, History and Theory, Chicago, University of
Chicago Press, 1984, p. 61, cit. in Teresa de Lauretis, La tecnologia del genere, cit., pp.
131-163, p. 140. Ma de Lauretis aveva già esposto questa posizione in Aesthetics and Feminist
Theory: Rethinking Women’s Cinema, cit., pp. 154-175.
104
Cfr. Adrienne Rich, Of Woman Born, cit.; Id., Compulsory Heterosexuality and Lesbian
Existence, «Signs», vol. 5, n. 4, estate 1980, pp. 631-660; Nancy Chodorow, The Reproduction
of the Mothering: Psychoanalysis and the Sociology of Gender, Berkeley, University of California
Press, 1978; Dale Spender, Man-Made Language, Boston, Routledge and Kegan Paul, 1980;
Susan Griffin, Rape: The Power of Consciousness, San Francisco, Harper and Row, 1981;
Andrea Dworkin, Pornography: Men Possessing Women, New York, Perigee/G. P. Putnam’s,

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288 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Gli scritti femministi della metà degli anni Settanta, soprattutto in area
anglofona – dove una maggiore formalizzazione tenta costantemente di
coniugare alla scoperta della consistenza teorica dell’esperienza la genera-
lizzabilità dei modelli interpretativi di contro a un certo isolamento produt-
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tivo della teoria femminista italiana e della sua tendenza alla specializza-
zione, dal privilegio accordato all’approccio psicoanalitico alla scoperta
dell’autocoscienza quale pratica intrisa di tutte le potenzialità teoriche che
uno slogan come “il personale è politico” è in grado di contenere, cioè la
valorizzazione del desiderio e dell’esperienza –, svelano la centralità per la
teoria femminista, e per la riflessione sulla rappresentazione che la rifles-
sione sul genere rende necessaria, tanto dei concetti di ideologia e di
interpellanza sviluppati da Althusser, tanto della lezione lacaniana (approc-
cio prevalente nelle teoriche cinematografiche statunitensi), che evidenzia i
rapporti tra sessualità e linguaggio. Ciò aiuta a comprendere come il
cinema possa divenire una «sorta di microcosmo», offrendo, come scrive
Penley, «un modello per la costruzione delle posizioni del soggetto nell’i-
deologia» e consentendo, attraverso l’edipizzazione delle sue narrazioni,
«una lettura dei meccanismi inconsci della differenza sessuale nella nostra
105
cultura» . Una lettura che trova nell’83, in The Subject of Semiotics di Kaja
Silverman una «guida metodologica» a una revisione dei più importanti
contributi sul post-strutturalismo. Ribadendo la centralità dell’apporto psi-
canalitico, Silverman dimostra, attraverso una ricognizione del lavoro di
Peirce sul soggetto come segno e prodotto del linguaggio, della complessità
dei processi di significazione evidenziati da Barthes, Derrida e Benveniste e
un’analisi dei modelli freudiano e lacaniano e delle strategie che presiedono
ai rapporti tra inconscio e significazione (condensazione e spostamento,
paradigma e sintagma, metafora e metonimia), come il soggetto umano sia
in larga misura il soggetto della semiotica, ma anche un luogo concreto in
cui i testi cinematografici e letterari e la teoria vengono posti in relazione
generando modelli speculativi più ampi, a partire da una messa a fuoco
della differenza sessuale (cui sono dedicati due capitoli del volume) come
principio che presiede all’organizzazione «non solo dell’ordine simbolico e
dei suoi “contenuti” (significazione, discorso, soggettività), ma anche della

1981; Lydia Sargent (a cura di), Marxism and Feminism: A Discussion of the Unhappy Marriage
of Marxism and Feminism, Boston, South End Press, 1981; bell hooks, Feminist Film Theory:
From Margin to Center, Boston, South End Press, 1984; E. Ann Kaplan, Looking for the Other.
Feminism, Film and the Imperial Gaze, New York and London, Routledge, 1997.
105
Constance Penley, The Lady Doesn’t Vanish: Feminism and Film Theory, introduzione a
Id. (a cura di), Feminism and Film Theory, cit., pp. 1-24, p. 3.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 289

loro descrizione semiotica». Una messa a fuoco che punta a delineare le


diverse possibilità per il femminismo di sfidare le posizioni del soggetto che
il cinema classico stabilisce per la spettatrice e a riscrivere una soggettività
106
femminile . Questa lettura, per l’importanza degli snodi che propone, si
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rivelerà decisiva per la teoria del cinema: da questo momento in poi si


moltiplicheranno le pubblicazioni, le occasioni di incontro e di dibattito e
lo spazio stesso della Feminist Film Theory all’interno delle università e dei
107
women’s studies .
Come de Lauretis chiarirà nelle prime pagine di Alice Doesn’t, un libro
“storico” per la teoria femminista degli anni Ottanta e per la teoria del
cinema, si trattava di introdursi come Arianna, ma anche come Alice con la
sua palla di stoffa, nel labirinto del linguaggio. Un labirinto, per dirla con
Bakhtin, “popolato dalle intenzioni degli altri” e dal cui dominio le donne
sono sempre state escluse; un labirinto all’interno del quale gli incontri
possibili sono quelli di Alice nel paese delle meraviglie.
Queste le premesse: il femminismo ha la possibilità di affrontare e
ridefinire le problematiche inerenti al contesto, al linguaggio, alla metafora

106
Kaja Silverman, The Subject of Semiotics, cit., p. VIII.
107
Non per nulla Janice R. Welsch (Feminist Film Theory/Criticism in the United States, «The
Journal of Film and Video», vol. 39, n. 2, primavera 1987, pp. 66-82), in una sua ricognizione
ragionata della teoria (e della bibliografia) femminista statunitense, pone immediatamente in
evidenza, quali possibili poli del dibattito, gli approcci di Hester Eisenstein (Contemporary
Feminist Thought, cit.) e di Kaja Silverman, esempi, rispettivamente, di una tendenza alla
rivalutazione marxista delle componenti socioeconomiche generali e delle componenti
inerenti la stessa differenza (razza, classe, cultura) e di una ricerca tesa invece a una vera e
propria riscrittura della soggettività femminile. Alla prima area, che pure mantiene una sua
vitalità, appartengono i primi libri femministi sul cinema – agli inizi degli anni Settanta – e
tra questi i noti Popcorn Venus di Marjorie Rosen, Women and Their Sexuality in the New Film
di Joan Mellen, From Reverence to Rape di Molly Haskell. Un’altra parte consistente
dell’editoria femminista è rappresentata da scritti che raccolgono le esperienze produttive,
dal cortometraggio al film a soggetto, come Women’s Film in Print di Bonnie Dawson,
Woman Who Make Movies di Sharon Smith, alla storia. Seguiranno le antologie, quali Women
and the Cinema: A Critical Antology di Karen Kay e Gerald Peary, le bibliografie, ad esempio
Women and Film: A Bibliography di Rosemary Ribich Kowalki, e infine i saggi incentrati sulla
sessualità, come The Power of the Image: Essays on Representation and Sexuality di Annette
Kuhn, e sulla definizione di un soggetto femminile, come The Subject of Semiotics di
Silverman. Un importante saggio, con il valore di ricognizione tematica prima che bibliogra-
fica – ma siamo ancora negli anni Settanta – è Recent Developments in Feminist Film Criticism,
di Christine Gledhill, apparso su «Quarterly Review of Film Studies», vol. 3, n. 4, autunno
1978. Una successiva e più articolata presentazione viene proposta da Judith Mayne nel già
citato Feminist Film Theory and Criticism. Cfr. anche «Camera Obscura», nn. 20-21, maggio-
settembre 1989.

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290 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

finalmente fuori da ogni logica di appartenenza e all’interno della realtà


delle pratiche, dove il significato stesso è racchiuso in una delle «prime
108
metafore del femminismo: il personale è politico» . In questo nuovo
ambito critico, cresciuto prima sulla critica marxista dell’ideologia, poi sulla
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teoria semiotica che consente di indagare i modi in cui i codici della


rappresentazione cinematografica costruiscono l’immagine femminile, de
Lauretis ipotizza una lettura eccentrica, un confronto tra la teoria e le
pratiche che lavorano alla rappresentazione di una donna vista come
«costrutto irreale, distillato dei diversi ma congruenti discorsi dominanti
nelle culture occidentali, che opera come loro punto di fuga e al tempo
stesso quale loro condizione specifica di esistenza». Vediamo come la
studiosa compia qui una prima operazione di sintesi di teorie ed esperienze
maturate nel corso degli anni Settanta e inizi Ottanta (per certi versi già
operata da Eisenstein e da Silverman, con una maggiore attenzione al
sociale e al politico la prima, a semiotica e psicanalisi la seconda) e dei
diversi approcci analitici: il concetto di differenza comincia a proporsi nella
sua complessità. L’analisi dei modi e gli effetti implicati da una caratterizza-
zione del femminile che è la risultante di un rapporto arbitrario e simbolico,
culturalmente determinato, tra la donna come soggetto storico e la nozione
di donna prodotta dai discorsi dominanti necessita di approcci diversificati
che tengano conto della costruzione ideologica della donna come segno e
indicatore linguistico ed economico dello scambio nella società patriarcale,
di una definizione dell’Altro dal punto di vista fisico, semiotico e politico,
della differenza come assenza o come mancanza. Due obiettivi assumono
particolare rilievo: il primo concerne i modi in cui le donne si rapportano
l’una all’altra e la scoperta e comprensione «dei modelli epistemologici, dei
presupposti e delle implicite gerarchie di valore operanti in ogni discorso o
rappresentazione della donna»; il secondo implica il confronto di questi
testi e discorsi con la teoria femminista rispetto a snodi come «il lavoro del
desiderio nel racconto, le configurazioni dell’investimento affettivo nell’i-
dentificazione cinematografica e nel pubblico, la reciproca determinazione
di significato, percezione ed esperienza». Le strategie di scrittura e di lettura
divengono cosı̀ «forme di resistenza culturale» capaci di ribaltare i discorsi
dominanti scoprendone le stratificazioni e di sfidare la teoria sul suo stesso
terreno di «spazio semiotico costruito nel linguaggio», di potere «fondato
109
sulla conferma sociale di modi di enunciazione e interlocutori stabiliti» .

108
Teresa de Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, cit., p. 3.
109
Ivi, pp. 5-7.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 291

Date queste coordinate, il problema del soggetto non può non acquistare
uno spazio maggiore e delle connotazioni diverse che in precedenza: nel
cinema come nel linguaggio, semiotica e psicanalisi pongono la donna in
una posizione di incoerenza, nello spazio vuoto tra i segni, tra sguardo della
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cinepresa e immagine sullo schermo. Se il cinema come tecnologia sociale


è «dispositivo materiale e pratica significante al tempo stesso, in cui il
110
soggetto è implicato, costruito, ma non esausto» , una teoria semiotica e
materialista della cultura e uno sviluppo di una critica femminista non
possono prescindere dall’analisi del rapporto tra una donna costituita
attraverso la rappresentazione e la donna come soggetto storico – una
posizione che de Lauretis aveva chiaramente espresso già in The Cinematic
111
Apparatus – e da una localizzazione degli approcci all’analisi dei rapporti
tra soggettività, genere e differenza sessuale che scavalchi una visione
semplicistica del linguaggio cinematografico quale momento di riunifica-
zione rispetto a rappresentazione, soggetto e ideologia. Legare cinema e
linguaggio sulla base di un rapporto metonimico, come fa la semiologia
classica, o metaforico, coma fa la psicoanalisi, è comunque, chiarisce de
Lauretis, circoscrivere «un’area teorica del cinema come linguaggio», poi-
ché gli assi ai quali ci si riferisce, derivando da un identico modello
linguistico strutturale, rappresentano un modo dell’operazione discorsiva.
Una teoria materialista della soggettività deve invece confrontarsi con il
112
soggetto attraverso i dispositivi nella loro specificità e concretezza storica .
Asserire, come vuole l’approccio psicanalitico, che i processi inerenti al
soggetto sono all’insegna del fallo che «rappresenta l’autonomia del deside-
rio (del linguaggio) rispetto a una sostanza che è il corpo femminile», non
comporta soltanto l’assimilazione della sessualità femminile a quella ma-
schile, ma anche un’equazione donna-rappresentazione già implicita nella
donna come segno e oggetto di scambio in Lévi-Strauss. Tanto questa
ultima concezione che quella lacaniana sembrano implicare un fondamento
naturale della differenza sessuale, una contraddizione, puntualizza de Laure-
tis, della quale lo stesso Metz appare consapevole e che il ricorso al
significante immaginario di Lacan non risolve, riproponendo in sostanza
una nozione lineare e sistematica analoga a quella linguistica. Pur consen-
tendo di analizzare le operazioni del cinema dominante in quanto disposi-

110
Ivi, p. 15.
111
Cfr. Teresa de Lauretis, Through the Looking-glass, in Teresa de Lauretis, Stephen Heath
(a cura di), The Cinematic Apparatus, cit., pp. 187-202, p. 188.
112
Ivi, p. 31.

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292 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

tivo di rappresentazione sociale, l’approccio psicoanalitico finisce con il


confinare le donne nella sfera sessuale, al tempo stesso sfondo e supporto
della proiezione e dell’identificazione del soggetto. Si potrebbe estrapolare
da qui, operando una generalizzazione, il tipo di rapporto che la maggior
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parte della critica e della teoria femminista costruisce con la psicoanalisi e


che vedremo infatti puntualmente riproposto, sia pure attraverso sfumature
differenti, nei diversi contributi. Il privilegio accordato, nell’approccio laca-
niano, al simbolico come struttura fallica, riflette il posizionamento gerar-
chico del linguaggio come modello universale della semiologia classica,
incompatibile con una teoria materialista della soggettività. Ci sono molti
interrogativi a monte di una qualsiasi definizione del linguaggio come
rappresentativo della formazione del soggetto e tra questi quello della
possibile esistenza di una “visione interiore” del linguaggio, oltre che di un
“discorso interiore” nel film, che ripropone per intero le problematiche
inerenti la percezione, nell’ambito di una nozione di produttività semiotica
che non può prescindere dai suoi modi di produzione. Ciò sposta nuova-
mente il fuoco dal significante a una prospettiva che, come quella di Eco,
assuma in un rapporto di significato il piano dell’espressione e quello del
contenuto, guardando al cinema non come dispositivo tecnico ma come
tecnologia sociale. Già Giovanna Grignaffini, tirando le fila di un lavoro
collettivo svolto dal Centro di documentazione e di ricerca delle donne
nato a Bologna nel 1977, aveva criticato l’eccessiva enfasi posta dalla teoria
femminista su un approccio psicanalitico che trasformava l’istituzione ci-
nema «in un “buon oggetto” per un tipo particolare di spettatrice –
l’analista [...] un gesto simbolico di riappropriazione e riconciliazione, un
gesto che non mette in discussione l’esclusione e la differenza, circoscriven-
dole piuttosto in campi che può controllare». In questo senso l’analisi
testuale, fondando la propria specificità sulle due nozioni chiave di scrittura
e di spettatrice modello, opererebbe in modo doppiamente perverso in
quanto il discorso critico, essendo mediato dalla scrittura, produrrebbe una
«doppia sostituzione dell’oggetto del desiderio». A Bellour Grignaffini op-
pone Foucault e la necessità di interpretare un «significato segreto», di
commentare «un senso implicito». Parlare di un lettore modello equivale
allora a ipotizzare una condizione di anonimità trascendentale molto di-
versa dalla condizione di quel lettore barthesiano che è prodotto «non del
testo analizzato ma del linguaggio che aspira a descriverlo». Rimane,
conclude Grignaffini,

il gesto fondante da cui è nata ogni lettura: ciò e` come e`, qui ed ora, per me.
Può la nozione di autore empirico come quella di lettore empirico,

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 293

perdere anch’essa la sua posizione di principio fondante? E cosa sarà una


storia del cinema che assuma questa perdita come suo punto di partenza?
Quale tipo di esposizione potrebbe trovare al suo interno un discorso sul
“femminile”?
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Ancora Foucault sembra suggerire le possibili soluzioni: un concetto di


autore come funzione variabile e complessa del discorso, una ricerca storica
come analisi storica del discorso. Cinema, storia e storia del cinema
possono allora lavorare insieme per reintrodurre il femminile come punto
di vista da cui guardare alla storia del cinema, ponendo in discussione la
separazione tra economico, politico e simbolico messa in opera dalla
storiografia tradizionale. Parlare di «luoghi e modi di esistenza-produzione-
circolazione-appropriazione» significa spezzare alle radici questa separa-
zione e disporsi a rintracciare nuovi concetti chiave: il fortuito «come
metodo discorsivo strettamente correlato al processo produttivo del cine-
ma»; l’intertestualità «come sistema di citazione che il cinema e i mezzi di
comunicazione più in generale hanno introdotto nell’era della riproducibi-
lità tecnica»; il dispositivo e l’istituzione cinematografica come luogo di
produzione del discorso. La definizione di “visibile” di Sorlin ci consente di
far luce sul ruolo svolto dal dispositivo cinematografico nello stesso pro-
cesso di identificazione, riconsiderando le teorie di Metz e Baudry, la
differenza tra i processi di identificazione primaria e secondaria, “l’andare al
cinema” di cui parla Barthes e di saldare tutto questo al contesto storico e
113
alla specificità del soggetto .
È proprio la diffusione della rappresentazione della donna come imma-
gine, oltre che la loro dipendenza dalla linguistica, a rendere, secondo de
Lauretis, difficilmente praticabili per la teoria femminista le teorie del
soggetto. All’idea di immagine associata al significante e non al significato,
definito come concetto, quale quella prodotta dal sistema saussuriano e
adottata dalla semiologia classica, de Lauretis oppone un significato conce-
pito come immagine mentale, che associ la rappresentazione, presente in
entrambe le componenti del segno, al puramente concettuale. Un processo
di «percezione- rappresentazione- significato», o di «immaginazione», che
non è né linguistico, né iconico, e nel quale «sono coinvolti diversi codici e
modalità di produzione semiotica e la produzione semiotica della differen-
za». Anche l’analisi femminista sul dispositivo non sfugge, in definitiva, alla
logica oppositiva che caratterizza la cultura occidentale e rispetto alla quale

113
Giovanna Grignaffini, Female Identity and Italian Cinema of the 1950s, in Off Screen:
Women and Film in Italy, cit., pp. 111-123, alle pp. 112-116.

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294 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

soltanto il concetto di mappatura sembra offrire «colmando il divario tra


percezione e significazione, la possibilità di interazione e implicazioni tra
114
sfera della soggettività e sfera della socialità» .
Alice nel labirinto, Alice e i suoi incontri, tante mamme alla scoperta di
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sé in quegli anni hanno dato alle loro figlie il nome Alice...

Una teoria della differenza

Penso che sia un film femminista perché do spazio a cose che non
sono mostrate mai, quasi mai, in questo modo, come i gesti
quotidiani di una donna. Essi occupano il posto più basso nella
gerarchia delle immagini dei film... Ma più che per il contenuto, è
per lo stile. Se scegli di mostrare i gesti di una donna con tanta
precisione, è perché li ami. In qualche modo riconosci quei gesti
che sono stati sempre negati e ignorati.

Chantal Akerman a proposito di Jeanne Dielman

L’enigma della Sfinge, che è quello della femminilità, è per de Lauretis


paradigmatico del funzionamento del desiderio come punto d’origine della
narrazione: all’incrocio di due forme storiche, il matriarcato e una società
patriarcale che inaugura il parricidio e la profezia, Edipo, figlio e genero al
tempo stesso, combina in sé, secondo una lettura proppiana, l’emergenza di
ordini diversi. La materialità del cinema diventa obiettivo privilegiato di
una teoria femminista che negli Stati Uniti, più che in Italia, lavora, come
115
bene spiega Johnston , all’accumulo di un patrimonio di conoscenze da
riconvertire in pratiche filmiche incorporanti il problema del desiderio e
che come tali non possono esimersi da un confronto con la logica narra-
tiva. Un confronto che, scrive de Lauretis, implica «un ritorno teorico alla
116
narrazione» – che ha un equivalente anche nelle pratiche cinematografi-
che alternative e d’avanguardia – e un ritorno a interrogativi spesso rimossi
dagli studi semiotici, come dimostrerebbero la sua limitata presenza nella
Grande Sintagmatica di Metz e l’assunto barthesiano di una connessione
imprescindibile tra linguaggio, racconto ed Edipo in un movimento che è

114
Ivi, pp. 35, 56, 57. Teresa de Lauretis, Stephen Heath (a cura di), The Cinematic
Apparatus, cit.
115
Cfr. Claire Johnston, Women’s Cinema as Counter-Cinema, in Id. (a cura di), Notes on
Women’s Cinema, cit.
116
Teresa de Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, cit., p. 107.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 295

quello del desiderio maschile. Lo spostamento teorico incorporato dagli


scritti di Lotman, in un momento in cui si registra l’influenza crescente
della linguistica strutturale e dalla pubblicazione degli scritti di Lévi-Strauss
e Lacan, è, per de Lauretis, il corrispettivo della trasformazione dei miti di
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passaggio, dove l’origine della trama va ricondotta a un meccanismo di


generazione del testo condizionato da un movimento ciclico temporale e
dislocato al centro della cultura rispetto al quale la vita umana si definisce
come ciclo ricorrente che può essere narrato da un qualsiasi punto di
partenza. Funzione di questo testo è stabilire delle distinzioni che rendano
possibile un’immagine del mondo in cui i fenomeni appaiano collegati e gli
eventi riassunti nell’uniformità della regola. Diverso è invece il meccanismo
che presiede alla produzione di un testo che faccia da controparte, stabi-
lendo non leggi ma anomalie. In questa meccanica mitico testuale, precisa
de Lauretis, il protagonista, il soggetto mitico, colui che oltrepassa i confini
e «penetra l’altro spazio», è ancora una volta maschile, «è il principio attivo
della cultura, colui che stabilisce la distinzione, il creatore delle differenze.
La donna è ciò che non è suscettibile di trasformazione, di vita o di morte;
è un elemento dello spazio della trama, un topos, una resistenza, matrice e
materia...».
Ecco allora la soluzione dell’enigma: «il crimine di Edipo è la distru-
zione delle differenze». A Propp che enfatizza lo scambio tra rapporti
materiali sociali e produzione culturale, de Lauretis affianca Freud che,
inscrivendo questi rapporti nella sfera della soggettività, ci consente di
rintracciare nella narrazione l’iscrizione del desiderio e quindi del soggetto
e delle sue rappresentazioni. Nel suo dar senso al mondo, la narrazione ce
lo restituisce «come dramma a due personaggi in cui gli esseri umani
creano e ricreano se stessi rispetto a un altro astratto o puramente simboli-
117
co» . Il senso che muove il dramma, che ordisce ogni cambiamento, è il
movimento del passaggio, la trasformazione attiva dell’essere umano in
uomo. Il desiderio può essere visto come funzione della narrazione e
quest’ultima come processo che impegna il desiderio, la cui funzione può
considerarsi implicita al concetto hegeliano dell’Altro. La storia della fem-
minilità delineata da Freud costituisce, per de Lauretis, insieme al concetto
di identificazione di Metz e alle ipotesi di Heath sul cinema narrativo come
dramma edipico – nelle quali l’immagine della donna, l’immagine narrativa,
ha una funzione di scambio nell’economia del racconto allo stesso modo
che nel sistema di scambio istituito dalla proibizione dell’incesto –, il punto

117
Ivi, pp. 119-121.

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296 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

di partenza per la comprensione dei processi soggettivi implicati nella


posizione della spettatrice. Il racconto del film si mostra come un processo
in cui le immagini «sono raggruppate nelle due zone della differenza
sessuale, dalle quali hanno tratto il loro significato precostituito cultural-
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mente: soggetto mitico e ostacolo, maschile e femminile» e dove il sistema


dello sguardo, riunendo sguardo della cinepresa, sguardo dello spettatore e
sguardo intradiegetico, rende possibile attivare e contenere la tensione tra
sollecitazioni scopiche e necessità narrative. Perché è il luogo dello sguardo,
come dice Laura Mulvey, a definire il cinema e a presiedere alla rappresen-
tazione della donna. Una donna come immagine narrativa secondo una
definizione che suggerisce «il legame tra immagine e storia, l’interconnes-
sione di registri visivi e registri narrativi conseguiti dal dispositivo cinema-
tografico dello sguardo» e che contrasta l’identificazione del cinematogra-
fico con il maschile operata dai teorici del film che adottano un approccio
118
psicanalitico . Non a caso, e appropriatamente, de Lauretis individua
nell’opposizione avanguardia/cinema dominante il principale limite teorico
dello scritto di Mulvey. Teorizzare quale unico cinema politicamente ed
esteticamente alternativo un cinema che sia «analisi, sovversione e nega-
zione totale delle ossessioni di piacere di Hollywood e della sua manipola-
zione ideologica del piacere visivo», significa commisurare lo sforzo di
creare un «linguaggio del desiderio», un cinema alternativo con quanto
poco esso incida sulla distruzione di quel piacere visivo. Ciò che è necessa-
rio è piuttosto mappare lo spazio che separa cinema d’avanguardia e
cinema dominante e conferire anche al linguaggio descrittivo un carattere
oppositivo. Affermare, come fa Mulvey, che i codici creano uno sguardo,
un mondo e un oggetto, producendo un’illusione a misura del desiderio,
non è semplicemente descrivere una tecnologia sociale, il lavoro dei codici,
una pratica significante, una semiosi che impegna il desiderio e il posiziona-
mento del soggetto, ma è inserirsi nel suddetto quadro di opposizioni, per
cui il termine illusione non può che assumere una connotazione negativa.
Una pratica filmica dovrebbe, in quest’ottica godardiano-brechtiana, pro-
dursi necessariamente contro questo cinema, distruggendo il piacere, la
soddisfazione, il privilegio che genera. Ma per le donne, obietta de Lauretis,
è già cosı̀ difficile trarre piacere e soddisfazione al cinema e altrove. Una
conclusione che non trova ovviamente concordi quelle studiose e cineaste
che, come Cartwright e Fonoroff, trovano inadeguata per l’area del cinema
femminista «in cui la narrazione non è mai stata un modo centrale e in cui

118
Ivi, p. 138.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 297

questioni altrettanto critiche sulla rappresentazione sono state affrontate


attraverso un lavoro non narrativo», una strategia che non abbia come
presupposto lo smantellamento della coerenza della rappresentazione e
della “presa” dell’immagine: l’equazione narrativo/piacere, non narrati-
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vo/non piacere non soltanto presuppone una connessione naturale tra


l’immagine e ciò che rappresenta, ma finisce con il non riconoscere altre
possibilità di piacere nella visione e nella realizzazione. Un punto di vista,
preciseranno successivamente le autrici, che oggi va riconsiderato non
soltanto ai fini di una ricostruzione puntuale del dibattito sulla narrazione,
119
ma per le implicazioni che lo legano al cinema politico contemporaneo .
Tuttavia de Lauretis tocca qui uno dei punti di più intensa riflessione della
teoria del cinema e della Feminist Film Theory: indagare le strutture e le
forme della narrazione, mettendone in discussione il presunto realismo e la
naturalezza per svelarne piuttosto l’artificio e l’arbitrarietà e i rapporti
ch’essa stabilisce con lo spettatore e la spettatrice: l’illusione, come ha
mostrato Gombrich, interessa non solo la rappresentazione, ma la percezio-
120
ne . Come il sistema della prospettiva lineare, cruciale anche per l’appa-
recchio fotografico, è molto più che una tecnica per la pittura, il cinema
non è soltanto «un dispositivo tecnico e concettuale discorsivo che produce
l’oggetto della visione, ma una pratica significante, per il pittore e per
l’osservatore, che istituisce la visione stessa come rappresentazione e, più
importante ancora, come visione del soggetto». Narrazione e piacere visivo
«costituiscono il quadro referenziale del cinema, quello che fornisce la
misura del desiderio», sia per l’uomo che per la donna: la differenza
consiste nel fatto che è l’uomo ad avere definito «l’oggetto e le modalità di
visione, piacere e significato sulla base degli schemi percettivi e concettuali
forniti dalle formazioni ideologiche e sociali patriarcali». È l’uomo la misura
del desiderio, «cosı̀ come il fallo è il suo significante e il criterio di visibilità
in psicoanalisi». In questo senso un progetto femminista non può essere
semplicemente distruttivo o alternativo, ma consapevole della necessità di
approfondire l’analisi delle posizioni possibili per la donna nel sociale e nel
cinema, «articolando i rapporti del soggetto femminile con la rappresenta-

119
Lisa Cartwright e Nina Fonoroff, Narrative is Narrative: So What Is New?, cit., pp.
126-128.
120
«L’impressione di realtà imputata al cinema per generale consenso non è l’impronta
fisica degli oggetti e delle forme nel film, la cattura della realtà effettiva nell’immagine,
quanto piuttosto la risultante della capacità del cinema di riprodurre nel film le nostre
percezioni, di riconfermarci aspettative, ipotesi e conoscenza della realtà». Teresa de
Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, cit., pp. 59-63.

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298 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

zione, il significato e la visione e cosı̀ facendo costruire i termini di un altro


quadro referenziale, di un’altra misura del desiderio» e di organizzare la
121
visione «dal luogo “impossibile” del desiderio femminile» .
Le pratiche filmiche femministe del decennio avevano scelto, come
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122
ricorda Kaplan , strategie di opposizione a partire da diversi punti di
riferimento teorico rispetto al rapporto tra Edipo e narrazione: la valorizza-
zione da parte di Kristeva del momento preedipico, prelinguistico che
aveva come esempio il modello, prevalentemente maschile, dell’avanguar-
dia, o anche il suo rimando al carnevalesco e al polifonico di Bakhtin da
contrapporre a un testo fonologico e fallico; Brecht, i formalisti russi e
Althusser (un testo sovversivo, non realista, non narrativo e di avanguardia
contro un testo realista classico che incorpora l’ideologia dominante). Per
le une il moderno e quindi l’avanguardia in quanto strategie che violavano
lo scenario edipico, potevano essere paragonati a un femminile positivo. Ad
altre il moderno appariva invece misogino e problematico perché elitario e
comunque riconducibile a una cultura alta. La vita, da un punto di vista
femminista, non può essere disgiunta dalle pratiche estetiche e non a caso il
concetto di trasgressione, come sottolinea Kaplan, rimane centrale negli
anni Settanta e Ottanta. In questo senso la critica di de Lauretis, che viene
ulteriormente precisata in un testo dell’85, acquista un valore paradigmatico
e la negazione del piacere della spettatrice viene letta come atto di violenza
nel suo pretendere di imporre una sorta di autodisciplina123. Ma anche il
lavoro che alcune studiose portano avanti sui generi del cinema classico o
della cultura popolare come la soap opera, scrive Kaplan, spinge a conclu-
sioni che oltrepassano la semplice dimostrazione che lo scenario edipico
posiziona e reprime la donna: negli interstizi, nelle rotture di questi testi la
spettatrice può comunque recuperare qualcosa per sé (come per il rapporto
madre-figlia) e forse – si sostiene – tutto ciò che il patriarcato definisce
femminile può essere ribaltato e ricondotto ai propri fini. In ogni caso,
conclude Kaplan, la narrazione diviene uno snodo cruciale del discorso e
delle pratiche:

nel primo caso, le registe femministe avevano bisogno della narrazione


come sistema contro il quale creare contronarrazioni che mettessero in

121
Ivi, pp. 66-68.
122
E. Ann Kaplan, Feminism/ Oedipus/ Postmodernism: The Case of MTV, pp. 30-44, in Id. (a
cura di), Postmodernism and Its Discontents. Theories and Practices, London and New York,
Verso, 1988.
123
Ibid.: la citazione di Kaplan fa riferimento a Teresa de Lauretis, Oedipus Interruptus,
«Wide Angle», vol. 7, n. 1-2, 1985, pp. 34-40.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 299

discussione come le donne erano state rappresentate e mettessero in crisi


la rappresentazione stessa; nel secondo le femministe avevano bisogno
della narrazione come forma all’interno della quale posizionare differente-
mente la donna. In quest’ultimo caso il legame del racconto con il
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desiderio è visto come qualcosa che le donne hanno interesse a preser-


vare: rifiutare la narrazione è rifiutare il piacere124.

Mulvey, da parte sua, tornerà direttamente sull’argomento nel 1981: la


«difficoltà della differenza sessuale» viene analizzata in un saggio che vuole
essere un ripensamento e una risposta – ma anche uno spostamento verso
l’analisi del testo (Rodowick evidenzierà non poche affinità tra Mulvey e
Bellour) – rispetto alle critiche che avevano visto in Piacere visivo una
“mascolinizzazione” dello spettatore e nessun posto per la spettatrice,
attraverso un genere, il melodramma, nel quale narrazione e identificazioni
si strutturano intorno a un personaggio femminile (e intorno al quale, come
luogo privilegiato in cui è possibile indagare le conseguenze estetiche della
differenza di genere, ma anche gli intrecci tra classe e sessualità, tra
ambiguità della forma e condizioni di vita delle spettatrici, tra potenzialità
sovversive della forma melodramma e capacità del cinema narrativo di
lavorare sulla differenza per ristabilire un ordine, si moltiplicano le rifles-
sioni delle teoriche femministe: Mulvey, Gledhill, Modelski, Creed, Pollock,
125
Cook, Doane) . L’identità sessuale di Pearl, la protagonista di Duello al sole
(un western, scrive Mulvey, che diventa un melodramma) di King Vidor,
oscilla, come in Stella Dallas, tra femminile/passivo e mascolinità regressiva,
tra l’impossibilità di essere moglie del giusto pretendente (la retta via) –
“diventare una signora” – e l’aspetto regressivo, maschile/femminile, di una
mascolinità, quella dell’altro eroe, che si colloca fuori dall’ordine sociale ma
che le darà la possibilità di agire: «L’identificazione maschile, nel suo
aspetto fallico, riattiva per lei una fantasia di “azione” che una femminilità
corretta richiede venga repressa. L’“azione” fantasticata trova espressione
126
attraverso una metafora della mascolinità» . Se una spettatrice può sen-

124
E. Ann Kaplan, Feminism/Oedipus/Postmodernism: The Case of MTV, cit., p. 32.
125
Cfr. Laura Mulvey, Fear Eats the Soul, «Spare Rib», n. 30, 1974; Id., Notes on Sirk and
Melodrama, «Movie», n. 25, 1977/1978; e l’antologia a cura di Christine Gledhill, Home is
Where the Hearth is: Studies on Melodrama and the Women’s Film, London, British Film
Institute, 1987.
126
Laura Mulvey, Afterthoughts on “Visual Pleasure and Narrative Cinema” inspired by Duel
in the Sun, «Framework», vol. 6, nn. 15-17, estate 1981, pp. 12-15; poi in Id., Visual and
Other Pleasures, cit.; [tr. it. Le ambiguità dello sguardo, «Lapis. Percorsi della riflessione
femminile», n. 7, marzo 1990, pp. 38-42, alla p. 41].

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300 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

tirsi cosı̀ tagliata fuori dalla mascolinizzazione del piacere nel film da
sfuggire alla sua fascinazione, può anche scoprire di «godere segretamente,
quasi inconsciamente, della libertà di azione e di controllo sul mondo
diegetico data dall’identificazione con un eroe maschile». In questo caso,
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all’oscillazione dell’eroina, alla sua «incapacità di acquisire un’identità ses-


suale stabile fa eco il “punto di vista” maschile della donna spettatrice». La
definizione freudiana di una femminilità non in termini di differenza ma di
opposizione (passività) rispetto a un maschile/attivo o di somiglianza (la
fase fallica che nelle donne precede lo sviluppo della femminilità) lascia le
donne oscillare «tra l’opposizione metaforica di “attivo” e “passivo”», dove
la «strada corretta, la femminilità, porta a una crescente repressione dell’“at-
tivo” (la “fase fallica” in termini freudiani)»: «in questo senso i film di genere
hollywoodiani, strutturati intorno al piacere maschile, offrendo un’identifi-
cazione con il punto di vista attivo, consentono alla donna spettatrice di
riscoprire quell’aspetto perduto della sua identità sessuale, il mai piena-
127
mente represso fondamento della nevrosi femminile» .
Ma Mulvey affronta qui anche altri aspetti che riguardano la fascina-
zione e che non sono direttamente legati allo sguardo. In questo senso
figure e situazioni ricorrenti nel racconto mitico e nella fiaba e che hanno
solo parzialmente riscontro nel western consentono un’indagine più appro-
fondita dei meccanismi di identificazione attivati dalla logica narrativa: se
Freud istituisce un parallelo tra l’Io e il concetto narrativo dell’eroe, per cui
lo spettatore può riconoscervi la propria ambizione di dominio, i “sogni a
occhi aperti” delle ragazze, confinati alla sfera erotica, normalmente rappre-
sentata come passiva e con la funzione di chiusura narrativa, non lasciano
alla spettatrice che la possibilità di un’identificazione transessuale con una
figura maschile che, incarnazione del desiderio in termini preedipici, le
consente di riscoprire un aspetto perduto della sua identità sessuale.
Il problema dell’identificazione della spettatrice è uno più complessi e
più affrontati dalla teoria femminista del cinema: l’identificazione stessa è
un movimento, scrive de Lauretis, un processo del soggetto che implica
l’identificazione con qualcos’altro e la trasformazione sulla base del modello
che l’altro offre. In termini psicoanalitici la personalità può costituirsi e
specificarsi proprio attraverso una serie di identificazioni. Ciò che ha spinto
i teorici del film a ignorare, nell’approccio freudiano o lacaniano, il pro-
blema della differenza sessuale nel pubblico identificando il cinematografico
con lo sguardo maschile, è «un’identificazione con lo sguardo che storica-

127
Ibid., [tr. it. pp. 38-39].

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 301

mente e teoricamente è la rappresentazione del fallo e la figura del


desiderio maschile». D’altra parte non si può parlare di identificazione della
spettatrice nei termini di un’alternanza tra sguardo della cinepresa e imma-
gine sullo schermo, poiché questi due termini sono incommensurabili,
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figura il primo, immagine il secondo. Partendo ancora una volta da Freud e


dal suo concepire l’identificazione a un livello narrativo piuttosto che
visivo, per cui maschile e femminile sono posizioni occupate dal soggetto
in rapporto al desiderio, l’attivo e il passivo della libido, all’interno di un
movimento che muove il bambino e la bambina verso lo stadio edipico, de
Lauretis, equiparando questo movimento a quello del discorso narrativo,
può affermare che la spettatrice si identifica «col soggetto e con lo spazio
del movimento del racconto, con la figura del movimento e con quella
della sua chiusura, l’immagine narrativa. Entrambe sono identificazioni
figurali e quindi possibili in uno stesso tempo». Un modo di identificazione
che può sostenere entrambe le posizioni del desiderio, quella dell’altro e
quella di essere desiderato dall’altro: il racconto sollecita il consenso dello
spettatore e «seduce la donna nella femminilità: per mezzo di una doppia
identificazione, un surplus di piacere prodotto dagli spettatori a profitto del
cinema e della società». Secondo Heath è l’identificazione narrativa a
garantire il possesso dell’immagine, e non «l’identificazione primaria con il
soggetto dello sguardo onnipercipiente» teorizzata da Metz. Sarebbero
allora in gioco – e de Lauretis sembra sottoscrivere pienamente il pensiero
di Heath – due gruppi distinti di rapporti di identificazione: il primo,
esplorato dalla teoria del film, riguardante l’identificazione maschile, attiva,
con lo sguardo e l’identificazione passiva, femminile, con l’immagine; e un
secondo, meno indagato e implicito nel primo, in quanto prodotto dal
dispositivo che è condizione della visione, consistente «nella doppia identi-
ficazione con la figura del movimento narrativo, il soggetto mitico, e con la
128
figura della chiusura narrativa, l’immagine narrativa» .
Che l’identificazione della spettatrice non debba necessariamente pas-
sare dall’indossare panni maschili e che lo sguardo non sia soltanto ma-
schile è ormai un punto fermo. Ciò che si discute sono non soltanto le
diverse strategie, ma anche la loro articolazione rispetto alle letture che le
teoriche femministe elaborano delle teorie di Freud e di Lacan. Privilegiare
l’ordine simbolico del padre o, con Kristeva, l’ordine semiotico della madre,
che corrisponde alla fase preedipica, non è la stessa cosa, come non lo è
credere con Cixous nella scrittura femminile o non credervi come fa

128
Teresa de Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, cit., pp. 143-144.

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302 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Kristeva, o pensare a una e´criture che nasce dal corpo della donna, come fa
Montrelay o, ancora, pensare a un corpo femminile che non è il vuoto, la
mancanza, come solo può pensarlo un pensiero fallogocentrico, ma il
pieno, due labbra che si toccano, la donna dello speculum di Irigaray
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contro la donna dello specchio... Per questo le donne possono amare


Rodolfo Valentino, per questo il mascheramento non è un tradimento ma
un tutt’uno con il loro essere soggetti ingenerati. Se è la mascherata a
creare, come dice Doane, la distanza necessaria, la differenza tra il sé della
spettatrice e l’immagine rappresentata sullo schermo, i melodrammi degli
anni Quaranta, destinati a un pubblico femminile, rompono questa distanza,
trasformando, attraverso processi come il masochismo, il narcisismo e
l’isteria, il desiderio attivo di protagoniste e spettatrici nel desiderio passivo
di essere oggetti del desiderio, dimostrando come il dispositivo sia tutt’altro
129
che sessualmente indifferente . Per questo il corpo della vamp, Dietrich o
Garbo, con la sua ambiguità, può essere fonte di piacere per la spettatrice,
evocando il corpo amato della madre nella fase preedipica. Per Studlar, e in
ciò la sua distanza da Mulvey e dalla sua enfatizzazione dei modelli
freudiano e lacaniano, esso è il luogo di un piacere che nasce da processi
psichici assimilabili non al sadismo, che nega la differenza della madre, ma
al masochismo (nel senso deleuziano) che, affondando nella fase orale in
cui la madre «è la figura primaria di identificazione e di potere», mira alla
sovversione della legge fallica del padre, alla fusione con il corpo materno,
un piacere bisessuale, aperto quindi all’uomo e alla donna, nella misura in
cui aspira al ritorno ad una fase fusionale di assoggettamento alla figura
materna. La visione consente di stabilire questa fusione, di riviverla, attra-
verso il desiderio dello spettatore (o della spettatrice) di sottomettersi
all’immagine materna, desiderio che, per la spettatrice, può essere soddi-
130
sfatto attraverso le strategie di aggiramento della mascherata . Insomma,
ciò a cui la Feminist Film Theory sembra tendere, nel corso degli anni

129
Cfr. Miriam Hansen, Babel and Babylon. Spectatorship in American Silent Film, London,
Harvard University Press, 1991; Mary Ann Doane, Film and the Masquerade: Theorising the
Female Spectator, «Screen», vol. XXIII, n. 3-4, settembre-ottobre 1982, pp. 74-87; [tr. it.
Cinema e mascheramento: riflessioni teoriche sulla spettatrice e sullo sguardo femminile, in Maria
Tersa Chialant, Eleonora Rao (a cura di), Letteratura e femminismi. Teorie della critica in area
inglese e americana, cit., pp. 309-321]; Id., The Desire to Desire. The Woman’s Film of the 1940s,
Bloomington, Indiana University Press, 1987.
130
Gaylyn Studlar, Masochism and the Perverse Pleasure of the Cinema, in Bill Nicholls (a
cura di), Movies and Methods, vol. II, Berkeley, University of California Press, 1985, pp.
602-621, p. 607; Id., In the Realm Of Pleasure. Von Sternberg, Dietrich, and the Masochistic
Aesthetic, cit.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 303

Ottanta, non è la definizione di categorie prefissate della differenza, ma una


mappatura dei modi in cui la differenza viene iscritta nella rappresentazione
e dei modi in cui noi spettatrici siamo coinvolte dai meccanismi di
quest’ultima attraverso una serie di relazioni contraddittorie rispetto al
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genere stesso nella sua riconoscibilità e alle nostre singole identità.

Desideri allo specchio

Matilde pronunciò le parole magiche. In quello stesso momento, i


segni tracciati sui bordi dello specchio si animarono e iniziarono a
tracciare nell’aria figure riconoscibili. La superficie di acciaio
lucido sembrò fondersi mostrando agli occhi del monaco un
turbinio di colori e di immagini agitate da vortici potenti. Poi le
cose si disposero secondo il loro naturale aspetto e Ambrosio vide
in miniatura gli stessi tratti di Antonia.

Antonin Artaud, Il monaco

The Desire to Desire è il punto di arrivo di una ricerca sul dispositivo, sulla
posizione della spettatrice e sulle strategie di negazione dello sguardo
femminile attuate dal cinema hollywoodiano che Doane ha condotto
attraverso più saggi, a partire dai modelli freudiano e lacaniano e dall’ap-
proccio semiotico, riposizionando il concetto di mascherata sviluppato da
Johnston, un testo rivelatore rispetto a una soggettività femminile come
prodotto di molteplici discorsi non riducibili al racconto, all’immagine o al
testo e che fa del luogo della visione e dunque della spettatrice un luogo di
“consumo” – «nel desiderio di avere più vicine le cose dello schermo, di
accostarsi all’immagine corporea della star e di possedere lo spazio in cui
essa dimora, la spettatrice vive l’intensità dell’immagine come richiamo ed
131
esemplifica la percezione del consumatore» –, di negoziazione e di
continui spostamenti. Se l’identità femminile è data all’interno di un sistema
patriarcale di posizionamento sessuale, ciò non vuol dire che il femminile si
costruisca necessariamente a misura del desiderio maschile. Occorrerà
allora scoprire quali siano le strategie di posizionamento, ed è proprio il
woman’s film a esibire le tracce di strategie differenti: nel suo rivolgersi a un
pubblico femminile, nel suo volerne catturare lo sguardo, questo genere
non fa appello allo sguardo distanziato del voyeurismo e del feticismo, che

131
Mary Ann Doane, The Desire to Desire. The Woman’s Film of the 1940s, cit., p. 33.

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304 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

privilegia la narrazione e la chiusura negando alla donna ogni possibilità di


identificazione se non attraverso un’identificazione transessuale o attraverso
la mascherata come modo di distanziamento dall’immagine, ma al maso-
chismo nell’accezione freudiana, al narcisismo, all’isteria. Non soltanto
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ribadendo gli stereotipi sulla psicologia femminile, ma producendo, a


partire proprio dall’impossibilità di separare soggetto e oggetto, un’identifi-
cazione con l’immagine più che col movimento narrativo, con un corpo
femminile la cui desessualizzazione allude alla negazione della sua esistenza
e alla negazione del corpo stesso della spettatrice. Quella distanza dal corpo
materno che è, per l’uomo, la condizione del desiderio, preclusa alla donna,
non le lascia altro spazio che quello di essere, come afferma Mulvey,
oggetto, mancanza strutturante del desiderio maschile, o soggetto di un
desiderio passivo, luogo di una posizione masochistica in cui il desiderio è
132
solo desiderio di essere desiderata, desiderare di desiderare . Questa
preoccupazione per la mancanza, come ben chiarisce Silverman, è una delle
pulsioni principali all’interno della teoria, dalle origini (Münsterberg) ai
teorici del realismo come Bazin, a Metz e ai teorici della sutura, alla stessa
Mulvey. Ma per Silverman è l’approccio psicanalitico il più adatto a
indagare questa perdita dell’oggetto nell’esperienza cinematografica e le
difese dello spettatore rispetto a una soggettività lacanianamente subordi-
nata al riconoscimento della distanza che separa il sé dall’altro. Dal mo-
mento che il linguaggio è il luogo in cui si verificano perdita definitiva
dell’oggetto e ritrovamento del soggetto a prezzo del suo stesso sacrificio, il
rapporto indexicale della macchina da presa con il profilmico è apparso
come una sorta di garanzia di restituzione dell’oggetto al soggetto. Tuttavia,
e la complessa ontologia baziniana ne è una dimostrazione tessendo
continuamente una relazione di tipo binario tra soggetto e referente, il
cinema ravviva il desiderio dell’oggetto soltanto per deluderlo, ripetendo il
trauma originario della scomparsa. Se Bazin, Metz e Comolli sono interes-
sati principalmente alla soppressione dell’oggetto, Silverman rintraccia nelle
analisi di Oudart e Dayan un’attenzione particolare all’alienazione dello
spettatore dal luogo della produzione cinematografica, identificando il
trauma della castrazione con il momento in cui lo spettatore riconosce la
propria impotenza discorsiva, la propria subordinazione a un Altro trascen-
dentale. L’impressione di realtà e la creazione di un personaggio-feticcio
suppliscono, nel cinema classico, a questa mancanza di pienezza fenomeno-

132
Id., Film and the Masquerade: Theorising the Female Spectator, cit.; Id., The Desire to Desire.
The Woman’s Film of the 1940s, cit., in particolare alle pp. 12-19.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 305

logica e di controllo del simbolico. Ma ciò che, a suo parere, rimane non
abbastanza chiarito dai teorici della sutura è la codificazione maschile della
rappresentazione compensativa, all’interno di una strategia che evita ogni
confronto con il problema della differenza. Questo, come abbiamo già
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avuto modo di vedere, è uno degli snodi della teoria femminista, insieme
alla corrispondenza che viene tracciata tra gli scritti freudiani sul feticismo e
una presenza della donna nel cinema classico funzionante quale rappresen-
tazione delle perdite che precedono la differenza sessuale e di quelle che
essa stabilisce. L’equivalenza donna-mancanza è una «costruzione seconda-
ria, che copre più antichi sacrifici». In questo senso, conclude Silverman, le
castrazioni preedipiche elencate da Lacan producono un soggetto struttu-
rato dalla mancanza prima della scoperta della differenza e la cui coerenza
e certezza si fondano sulla divisione e sull’alienazione, mentre l’insistenza di
Freud su una creatura femminile mutilata denota un intento difensivo del
soggetto maschile e la volontà di proiettare sul soggetto femminile la
castrazione e la mancanza. Il disconoscimento è governato da un meccani-
smo proiettivo, che induce il soggetto a riconoscere negli altri e nel mondo
esterno ciò che rifiuta di riconoscere in sé. Ed è la proiezione, che la si
interpreti in senso tecnologico o ideologico, a fornire «una inestimabile
metafora per inquadrare la natura involontaria delle proiezioni sessual-
mente differenzianti», le quali sono effetto di una «strutturazione edipica
costantemente rinnovata, che ricolloca la perdita dell’oggetto a livello
dell’anatomia femminile, restituendo al bambino un’integrità immaginaria».
L’obiettivo deve essere allora un capovolgimento del punto di vista, per una
lettura che, partendo da un soggetto maschile che verifica la propria
coerenza e potenza simbolica proponendo l’impotenza simbolica del sog-
getto femminile, interpreti «la perdita e la differenza associate al soggetto
femminile come sintomo della condizione maschile», dimostrando come il
cinema classico abbia «un rapporto più che metaforico con le operazioni
133
che costruiscono la differenza» .
L’importanza del tentativo di stabilire un rapporto teoricamente pro-
duttivo tra strategie dell’avanguardia e pratiche filmiche delle donne
emerge con chiarezza da un saggio di Penley (pubblicato sul n. 2 di
«Camera Obscura» e rispecchiando con ciò la tensione di quella rivista a
ripensare il materiale teorico prodotto sulla sperimentazione)134 che, par-

133
Kaja Silverman, Lost Objects & Mistaken Subjects, «Wide Angle», vol. 8, nn. 1 e 2, 1985,
pp. 14-29, pp. 16, 17, 21, 24, 25, 27, 28.
134
Costance Penley, The Avant-Garde and its Imaginary, «Camera Obscura», n. 2, 1977, pp.
3-33; Scriverà il collettivo redazionale (Collettivo Camera Obscura: Cronologia, cit.): «il nostro

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306 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

tendo da un parallelo tra l’opera di Malcom Le Grice e L’uomo con la


macchina da presa di Vertov, intende confrontarsi con un cinema che sceglie
di essere autoriflessivo. Nei film di Le Grice la messa in evidenza della ma-
terialità del cinema non si concretizza a partire dal presupposto che inter-
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venire sulle risposte percettive dello spettatore possa contribuire ad affer-


marne la realtà. Insistere, come fa Gidal, sulla materialità dell’immagine è
insistere sulla sua assenza, sul suo non essere ancora film, attraverso un
gioco infantile e infinito tra possesso e perdita. Il significante cinematogra-
fico è «l’immaginario nei termini della sua reale costituzione come signifi-
cante», ma «ogni rapporto con l’immagine è immaginario, perché l’io stesso
è costituito da immagini (la prima essendo l’immagine del soggetto allo
specchio) e il resto delle immagini è costituito da doppi di questo doppio».
Se l’identificazione primaria è con lo stesso atto del guardare, al di là di ciò
che le immagini rappresentano, appare abbastanza evidente, per Penley,
l’infondatezza del progetto dell’avanguardia di eliminare dall’immagine
l’associativo e il simbolico, tanto più se si consideri l’onnipresenza delle
strutture del cinema narrativo che nasce dall’impossibilità di eliminare un
punto di vista connesso al regime di continuità delle immagini. La defini-
zione di dispositivo di Baudry – definizione con la quale Penley si confron-
terà più direttamente in un successivo lavoro, chiarendo come il postulare il
piacere come suo obiettivo non tenga conto delle determinanti storiche e
di genere di questo piacere –, che incorpora il desiderio del ritorno
simulato all’altra scena, basilare nel funzionamento della mente umana e
presupposto del funzionamento dell’istituzione cinematografica, mostra
come l’impressione di realtà non sia che una fantasmatizzazione del sog-
getto mentre l’elemento fondante dell’identificazione non è, come per
Metz, lo stesso atto percettivo, ma il dispositivo nel suo complesso. Le
potenzialità conoscitive postulate dai teorici dell’avanguardia e gli esperi-
menti di expanded cinema, che pure si pongono come «ripensamento del
problema del luogo del soggetto nel (del) dispositivo», finiscono col non

progetto di rivedere e rielaborare il materiale teorico contemporaneo prodotto dallo


sperimentalismo nasce proprio dalla esigenza di poter proseguire nel nostro interesse per il
film sperimentale, ma con maggior precisione sia concettuale che storica, evitando cosı̀ di
cadere negli eccessi dell’avanguardismo fine a se stesso. Il primo articolo The Avant-Garde
and its Imaginary, scritto da Constance Penley per il n. 2 di «Camera Obscura», discuteva
alcuni degli scritti teorici prodotti nell’ambito del movimento inglese delle cooperative
indipendenti, in particolare il lavoro di Malcom Le Grice e Peter Gidal. Scegliemmo di
iniziare il nostro progetto con i loro testi proprio perché questi autori si ponevano in modo
esplicito il problema di una pratica di avanguardia allo stesso tempo politica e formale».

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 307

proporre «nient’altro che una moltiplicazione di effetti, tutti tendenti a una


nuova centratura del soggetto, non in un dovunque trascendentale ma nel
corpo del soggetto stesso». Non a caso Baudry individua una continuità tra
cinema e idealismo, in quanto entrambi miranti a un soggetto «posto al
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centro di un universo (perché è il posto da cui deve passare ogni significa-


zione), che crede di aver creato e sul quale ritiene di avere pieno controllo».
Lacan, mostrando come non vi sia alcun reale punto di coincidenza nella
dialettica tra occhio e sguardo, tutt’uno con la dialettica di desiderio e
mancanza presente nell’inconscio, ha formulato la critica più efficace al
concetto idealistico di visione. Uno sguardo che è l’inverso della coscienza,
l’opposto di quella nozione di pienezza che avvolge il soggetto contempla-
tivo, unificato e onnivedente, descrizione del funzionamento della man-
canza al livello della pulsione scopica, dove appunto lo stesso rapporto
immaginario con il sé avviene al prezzo di riconoscere il proprio corpo
riflesso nello specchio come altro. Un discorso, quello di Lacan, dominato
dalla presenza dell’altro: uno sguardo che viene dal fuori «e che preesiste al
soggetto allo stesso modo in cui il simbolico e il “reale” preesistono alla
costituzione del soggetto attraverso l’immaginario». La dipendenza di que-
sta avanguardia dallo sviluppo tecnologico rafforza la tendenza idealistica,
se è vero che, come afferma Baudry, gli strumenti ottici sembrano porsi al
punto di intersezione tra scienza e ideologia e che, come ha dimostrato
Bellour, le macchine, soprattutto quelle che producono immagini, hanno
assunto la funzione di io ideale, introiettabile attraverso una funzione di
verifica della realtà, consentendo agli stimoli esterni di essere percepiti
come aventi origine nel soggetto. Il problema del soggetto e la sua
ridefinizione nell’ambito dei rapporti sociali e sessuali – e qui Penley
conclude con un aggancio chiarificatore il senso della sua ricognizione –
sono lo snodo cruciale di una teoria e di una pratica filmica femminista
come «pratica di avanguardia motivata politicamente». Se quest’ultima,
«come il rituale feticistico, è un’iscrizione dello sguardo nel corpo della
madre, dobbiamo cominciare a considerare possibilità e conseguenze di
135
una madre che restituisca lo sguardo» . In un successivo lavoro Penley
sottolineerà la validità, di fronte alla problematicità di una teoria della
figurazione cinematografica determinata dal privilegio accordato dalla pa-

135
Ivi, in particolare alle pp. 11, 12, 17, 19, 21, 23, 25, 26. Jean-François Lyotard, Discours,
Figure, Paris, Klincksieck, 1971. Cfr. anche Constance Penley, Janet Bergstrom, The Avant-
Garde: Histories and Theories, «Screen», vol. XIX, n. 3, 1978, pp. 113-127; Costance Penley,
Feminism, Film Theory, and the Bachelor Machines, «m/f», n. 10, 1985.

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308 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

rola negli studi retorici e linguistici del linguaggio figurativo, della conclu-
sione metziana che una retorica del film sia possibile e dell’evidenziazione,
accanto a ciò, dell’erroneità di alcune categorie, tra cui il collasso lacaniano
di metafora e metonimia in condensazione e spostamento e quello di
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Jakobson in paradigma/sintagma. Ma anche il concetto di fantasia di


Lyotard finisce col coincidere, in quanto metafora del desiderio, «nozione
psicoanalitica che unisce soggetto e rappresentazione», con l’avversata
definizione lacaniana del soggetto136. Alla linea di demarcazione che Lyo-
tard stabilisce tra processi primari e secondari, trattando il linguaggio come
discorso secondarizzato, in una definizione del desiderio come processo
primario operante attraverso il figurale non discorsivo, Metz contrappone
un’onnipresenza del desiderio, e un insieme di secondarizzazioni con
propri livelli di modalità, dove condensazione e spostamento non sono
categorie simmetriche ed esclusive, processi di significazione, ma significa-
zione. Da qui la possibilità teorica di coniugare insieme le strutture psichi-
che e quelle del linguaggio, psicoanalisi e semiologia. Da qui, attraverso il
riesame della metafora lacaniana dell’inconscio come linguaggio, la formu-
lazione di una teoria retorica moderna e di un modello generativo di
figurazione contrapposto alla staticità di una tipologia di figure; una teoria
che, ponendosi come teoria generale di produzione del testo, rappresenta al
tempo stesso un contributo originale alla teoria del soggetto. Premesse
importanti ne sono, per Penley, i lavori di Bellour e Kuntzel, rispetto ai
quali Metz ignorerebbe il problema della differenza sessuale, presente anche
nelle analisi di Heath, Rosolato, Lyotard, Cowie, Rose – le quali ultime
mettono in discussione proprio la lettura metziana dei processi di identifi-
cazione, ma anche un modello di identificazione che come quello di
Mulvey presuppone uno sguardo già dato per lo spettatore e un’identifica-
zione determinata dal genere dei personaggi137 –, delle quali Metz sembra
invece tenere conto quando pone la fantasia edipica all’origine della catena
della figurazione.
Il confronto con le teorie di Lyotard, in un primo momento trascurate,
ha trovato ampio spazio nella teoria femminista statunitense, come nota
Maureen Turim, proprio in rapporto alla diffusione dell’approccio lacania-

136
Costance Penley, Introduction to Metaphor/Metonimy, or the Imaginary Referent, «Camera
Obscura», n. 7, 1981-1982, pp. 7-39, in particolare alle pp. 17-21.
137
Cfr. Elizabeth Cowie, Woman as Sign, «mlf», n. 1, 1978; Jacqueline Rose, Sexuality in the
Field of Vision, London, Verso, 1986.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 309

no138: il concetto di figurale, in quanto «traccia all’interno dei processi


secondari (nella rappresentazione) delle attività dei processi primari» ca-
pace di descrivere un «fluire di forze e affetti in un corpo umano, tra corpi e
tra oggetti e corpi»; il concetto di economia libidica, intesa come visione
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alternativa nel coniugare in un rapporto nuovo le teorie di Marx e Freud,


derivando dalla prima «la critica politica dello scambio di merci», dalla
seconda «il fondamento di una teoria del desiderio e dell’energia in termini
economici». E alla base una teoria politica che coglie la natura libidica delle
pulsioni che intrecciano individui e oggetti e strutture del potere, consen-
tendo di criticarne la canalizzazione capitalistica per il profitto e di indicare
un’alternativa rispetto alle gerarchie istituite dal comunismo moderno.
Infine, con Kant, la coniugazione della teoria politica a una teoria estetica,
che ha quale presupposto un comune scaturire dei rapporti politici e delle
esperienze estetiche dal desiderio. Da qui il dissenso nei confronti di un
ritorno ai principi marxisti nella letteratura e nella critica estetica, fondato
sull’idea che l’opera produca anzitutto significato e che sembra ignorare il
funzionamento libidico dell’oggetto estetico, in un’erronea concezione del
soggetto come entità unitaria definita dalla sua collocazione nell’ambito
dell’economia capitalista. Se l’assunto di Lyotard che la forma più libidica
di arte sia oggi il postmoderno, può contenere, conclude Turim, il rischio
di una connotazione idealistica, occorre anche tener conto che questo
concetto di economia libidica si pone come risposta alle attuali teoria e
pratica del materialismo dialettico. Similmente il suo contributo sull’avan-
guardia consiste nell’aver messo in luce i meccanismi libidici implicati e la
loro pregnanza teorica, bilanciando l’accento posto dall’avanguardia poli-
tica sulla produzione di significato. In realtà l’intera produzione dell’avan-
guardia – qui Turim critica quanto scritto da Wollen a proposito delle “due
avanguardie” – andrebbe riesaminata collocandola in un contesto «storico
139
di produzione e teoria dell’immagine» . In rapporto a quest’ultima istanza
le teorie di Barthes e Schefer, valide rispetto all’indagine dei modi in cui «si
costituiscono le unità di significato nell’immagine e di come l’ideologia sia
costituita da queste unità di significato», si svelerebbero inadeguate. Ma
anche l’eccessiva concentrazione di Lyotard sull’impegno libidico costitui-
sce un possibile limite analitico, tendendo a ignorare il piano della rappre-

138
Maureen Turim, Desire in Arts and Politics: The Theories of Jean François Lyotard,
«Camera Obscura», n. 12, 1983-1984, pp. 91-109, pp. 97-99.
139
Maureen Turim, The Place of Visual Illusion, in Teresa de Lauretis, Stephen Heath (a
cura di), The Cinematic Apparatus, cit., pp. 143-149, pp. 147-149. Cfr. anche Id., Flashbacks in
Film: Memory and History, New York and London, Routledge, 1989.

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310 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sentazione. Soltanto un cinema che, attraverso l’astrazione, si colleghi in


modo diverso a questi processi, potrebbe consentirci di contemplarli nello
spazio della loro interazione, coniugando esperienza e analisi della costitu-
zione del soggetto.
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Le aree privilegiate della Feminist Film Theory nei primi anni Ottanta
sono dunque il soggetto (gli anni Ottanta vengono designati come “il
decennio del soggetto”, intendendo con ciò l’ampliarsi della dimensione
sociale che l’analisi via via assume) e la riformulazione del rapporto tra
rappresentazione e significato, sia pure nella eterogeneità dei contributi e
dei referenti teorici di volta in volta prescelti, dalla psicoanalisi al marxismo
(che, negli Stati Uniti, trova nuovi punti di riferimento negli scritti di
Jameson e Eagleton), alla semiotica, alle teorie della percezione: il cinema
classico, le modalità del racconto, il piacere della visione sono tutte que-
stioni che la teoria femminista sceglie di riaffrontare a partire dalla diffe-
renza per giungere alla determinazione di uno spazio semantico costruito
su una misura diversa del desiderio, con il risultato di evidenziare aree di
convergenza non solo a partire da Freud, Lacan, Saussure, Lèvi-Strauss,
Althusser, Peirce, Eco, Foucault, Benveniste, Barthes o Derrida (com’era
stato nel primo decennio), ma con teorici come Bellour, Kuntzel o Heath.
Janet Bergstrom sottolinea il contributo di questi ultimi ad una mappa
della differenza sessuale e la loro capacità di porgere, insistendo sulla
produzione di significato e non sull’individuazione di strutture o modelli,
una «fondamentale riconcettualizzazione delle strategie interpretative di Bar-
140
thes nei riguardi della specificità del film» . Fondandosi sulla teoria del
testo di Barthes e sulla distinzione metziana tra testo come oggetto fisico e
sistema testuale quale principio di coerenza che garantisce l’intellegibilità
del primo, è possibile instaurare un parallelo tra i sistemi di significato indi-
viduati da Barthes alla base del racconto classico e l’interpretazione dei
sogni di Freud. Il contributo di Bellour in merito all’evidenziazione del
rapporto tra avanzamento dell’azione narrativa e condensazioni e sposta-
menti su differenti livelli tra codici specifici ha reso possibile la successiva
messa a fuoco, da parte dei tre studiosi, della «logica del movimento e della
produzione di significato nel cinema classico e la sua tendenza verso i
sistemi, la simmetria e l’effetto di omogeneità». I loro scritti insistono tutti
sulla necessità di comprendere l’interdipendenza tra teoria del film e analisi
del testo, e quella, meno ovvia, tra teorie del dispositivo e inquadramento

140
Janet Bergstrom, Enunciation and Sexual Difference (Part I), «Camera Obscura» n. 3-4,
1979-1980, pp. 33-65, in particolare alle pp. 33, 34, 53, 55.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 311

dell’effetto finzione, dal momento che la fascinazione prodotta dal cinema


classico sembra scaturire da una coincidenza tra progetto immaginario ed
obiettivi economici all’interno della quale la produzione del desiderio si
concretizza in un investimento sul soggetto. Un’osservazione produttiva per
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un’analisi del potenziale di piacere che il cinema classico, attraverso dina-


miche sadomasochistiche, dischiude al pubblico femminile. Come il mo-
dello e la direzione dell’interazione dei codici producono, inquadratura per
inquadratura, il racconto cinematografico, per cui il sistema testuale, come
sistema astratto, è, per Bellour, «la logica di questa traiettoria, un sistema di
sistemi» e la segmentazione è il processo attraverso il quale è possibile
descrivere lo spezzettamento della catena filmica in unità narrative e
indirizzare l’indagine alle «condizioni di possibilità di enunciazione come
pulsione scopica e di identificazione», allo stesso modo è possibile descri-
vere la frammentazione dell’immagine femminile: un desiderio come ‘‘pro-
blema chiave’’ che narrativizza la differenza; un racconto che riduce l’imma-
gine della sessualità della donna a minaccia, perché soltanto il piacere di
vedere il corpo femminile frammentato può garantire l’integrità e la coe-
renza dell’uomo. Nell’estendere le ragioni dello sguardo dalla percezione al
desiderio e nel distinguere tra spettatrice e spettatore le analisi di Bellour
raggiungono, per Bergstrom, una complessità maggiore di quelle di Mulvey,
anche se rischiano un certo determinismo nel loro proporsi come sistema
completo e logicamente consistente. La maggiore linearità insita in questa
elaborazione complessa dell’identificazione e della differenza sessuale come
specifiche situazioni immaginarie è tuttavia in contraddizione con un
maschile e femminile quali poli stabiliti, nonostante un’oscillazione dello
spettatore tra scelta dell’oggetto e identificazione che presupporrebbe una
«teoria implicita di risposta bisessuale». Jacqueline Rose, con un ulteriore
salto rispetto alla definizione dell’oggetto teorico, definisce paradossale, in
un’analisi che propone quale punto di partenza il problema della differenza,
il ricorso a un approccio psicoanalitico che sembra ignorare sistematica-
141
mente questo stesso problema : una sorta di “punto di fuga” della teoria –
cosı̀ lo definisce Rose – qualora ci si confronti con la sua elisione nell’am-
bito delle teorizzazioni sul dispositivo. Anche l’immaginario metziano
rimane confinato al dibattito sul realismo, riducendo la delusione dello
spettatore di fronte all’irrealtà dell’immagine ad effetto dell’ontologia, men-

141
Jacqueline Rose, The Cinematic Apparatus: Problems in Current Theory, in Teresa de
Lauretis, Stephen Heath (a cura di), The Cinematic Apparatus, cit., pp. 172-186, in particolare
alle pp. 174-176, 178, 179, 182.

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312 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

tre la riproposizione del concetto di disconoscimento nella teoria del film


non soltanto pone la difficoltà di conciliare lo svelamento traumatico della
mancanza nel bambino con l’occultamento da parte del dispositivo della
propria distanza dalla realtà, ma rimane ancorata alle problematiche della
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teoria della percezione nel suo implicare una «concentrazione sul visivo
come semplicemente percettivo». L’illusione dell’identità immaginaria è messa
alla prova dall’irrealtà dell’immagine, su un piano del tutto immaginario che
produce il dissolvimento del concetto di inconscio. Quanto afferma Co-
molli a proposito del disconoscimento come disconoscimento degli aspetti
subordinati all’immagine, nel quadro di una produzione industriale standar-
dizzata di cui il cinema è parte e di una concezione del mondo come
«appropriabile attraverso la visibilità», non è, per Rose, che un’estensione
del discorso metziano nella direzione di rafforzare un’idea di cinema come
«sorta di macchina analogica per la programmazione dell’identità, un
processo scritto nelle origini e nella storia del dispositivo stesso». Allo
stesso modo, la valorizzazione degli aspetti invisibili del processo filmico
rivaluta l’aspetto materiale della realizzazione, enfatizzando quei processi di
identificazione e riconoscimento che ricollocano in primo piano l’identifi-
cazione narrativa definita da Metz come secondaria rispetto a quella con la
cinepresa. Costruire, come fa Comolli, una teoria positiva del cinema che lo
sottragga al feticismo industriale, è possibile, per Rose, soltanto stabilendo
una sequenza riproduzione analogica-disconoscimento-consapevolezza-
cinema politico e ignorando il problema della differenza sessuale. Parlare di
riproduzione analogica, che è solo in parte riproduzione e che come tale
contiene, in potenza, una differenza, è infatti toccare il problema della
donna «come immagine, come garante e sanzione dell’immagine contro il
suo turbamento latente, il panico dello sguardo». Un problema centrale per
la Feminist Film Theory e che propone una rinnovata attenzione su quanto
è stato detto sul corpo. La teorizzazione di uno spazio alternativo del
racconto in rapporto all’immagine femminile non può non spostare l’atten-
zione sul processo stesso, sui modi di rapportarsi all’oggetto rappresentato e
sulla stessa economia psicanalitica, contro una concezione arcaica del
processo filmico che rende innocente la rappresentazione, ponendo la
donna al di fuori del linguaggio come in tutte le forme classiche del
discorso e trascurando l’impossibilità, già intuita da Freud, di assimilare
maschile e femminile ad attivo e passivo, di cancellare la divaricazione
esistente tra soggetto e oggetto del desiderio. D’altro canto, lo spazio di
“visione aperta” teorizzato da Lyotard che presuppone la rimozione del-
l’oggetto, cioè del corpo, non conduce che alla feticizzazione dello sguardo,

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 313

sminuendo le immagini femminili o arcaicizzandole in forma di panico o


confusione. Ridefinire il concetto di disconoscimento in rapporto alla
differenza sessuale significa, per Rose, riconoscere che l’immagine della
donna è strutturata intorno a un riferimento fallico, garantito dalla coesione
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dello spazio cinematografico, rispetto al quale essa è data come estranea. La


questione è posta con chiarezza nel dibattito sul desiderio femminile: da
una parte un desiderio primordiale che l’immagine della donna potenzia,
dall’altra un desiderio reso possibile attraverso un’identificazione maschile.
Da ciò, anche, il problema del desiderio della donna per la propria
posizione di feticcio, in una soggettività divisa tra maschile e femminile, tra
corpo e psiche, per la quale, come ha scritto Mary Ann Doane, «l’esercizio
di uno sguardo attivo, investigativo, da parte della donna può aversi
soltanto simultaneamente al suo essere resa vittima». Infine, il problema del
rapporto tra questa costituzione del femminile e le altre forme di oppres-
sione, tra singolarità dell’esperienza e generalità della storia, tra rappresen-
tazione e inconscio: il lavoro critico, passando attraverso l’analisi dei testi,
diviene, nella prospettiva riassunta da Mayne, suscettibile di trasformazione
e sviluppo, una rilettura della storia «come continuo interagire dei domini
della vita privata e della vita pubblica», cioè del femminile e del maschile, e
la convinzione che sia necessario e possibile, proprio a partire da questa
posizione che consente alla donna di esserne al tempo stesso dentro e fuori,
utilizzare forme e aspetti della società patriarcale trasformandoli in stru-
menti di lotta. Come scrive Christine Gledhill, «la mancanza generalizzata
nella teoria del film di modi di inquadrare i rapporti sociali all’interno dei
quali si è formato un certo tipo di pubblico può condurre a severe
limitazioni delle intenzioni di un’attività culturale sovversiva»142.

142
Cfr. Mary Ann Doane, The ‘‘Woman’s Film’’: Possession and Address, cit.; Judith Mayne,
The Woman at the Keyhole, ivi; Id., Visibility and Feminist Film Criticism, «Film Reader», n. 5,
1982, pp. 120-124, p. 122. Christine Gledhill, Developments in Film Criticism, in Mary Ann
Doane, Patricia Mellencamp, Linda Williams (a cura di), Re-Vision: Feminist Essays in Film
Analysis, cit.

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314 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Soggetti eccentrici, soggetti nomadi:


“non possiamo vivere senza le nostre vite”
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Con l’espressione “il soggetto del femminismo” intendo una


concezione del soggetto (femminile) distinto non solo dalla Donna
con la maiuscola, la rappresentazione di una donna intrinseca a tutte
le donne (che è stata vista come Natura, Madre, Mistero,
Incarnazione del Male, Oggetto del Desiderio e della Conoscenza
(maschile), Eterno Femminino, ecc.), ma distinto anche dalle
donne, gli esseri storici, reali, i soggetti sociali che sono definiti
dalla tecnologia del genere ed effettivamente in-generati nei
rapporti sociali. Il soggetto del femminismo a cui penso è un
soggetto non ancora definito, un soggetto in corso di definizione o
di concepimento in questo come in altri testi critici femministi; e
soprattutto voglio insistere ancora su questo punto, il soggetto del
femminismo, come il soggetto di Althusser, è un costrutto teorico, un
modo di concettualizzare, di comprendere, di dar conto di certi
processi. Tuttavia, a differenza del soggetto di Althusser che,
essendo completamente interno all’ideologia, si crede fuori o libero
da essa, il soggetto che vedo emergere dagli scritti e dai dibattiti
attuali in seno al femminismo è un soggetto che è al tempo stesso
dentro e fuori l’ideologia del genere e ne è consapevole, è
consapevole di questa doppia tensione, di questa divisione e della
sua duplice visione.

Teresa de Lauretis, Sui generiS

È della vita delle donne allora che bisogna scrivere e raccontare... Di fronte
alle mille e mille narrazioni scaturite dal partire da sé le donne hanno
ricucito storie, ritrovato identità, espresso domande e desideri, trascritto
itinerari di oppressione e di liberazione, trasferito esperienze e inaugurato
direzioni, trasgredito e prefigurato nuovi mondi, respingendo pratiche di
dominio e ripensando la politica, inventando nuove forme e rifondando
concetti, hanno guardato il mondo attraverso i propri occhi come avan-
guardia degli oppressi ma nella consapevolezza che le pratiche dell’avan-
guardia e del moderno erano state di segno maschile, hanno immaginato
un’estetica, hanno moltiplicato le differenze indagando la differenza, hanno
teorizzato il separatismo, soggetto collettivo, hanno parlato il linguaggio
delle minoranze da isole, per frammenti, iscrivendo la propria soggettività
nel racconto personale, nel saggio, nella poesia, nel video, nella perfor-
mance, nell’opera, nel cinema. Questo ha comportato molti rischi e molti
momenti di passaggio: i pericoli di essenzialismo, l’astrattezza, il determini-
smo, l’avanguardismo intellettuale, il “quietismo politico” della teoria fem-
minista sono stati messi in luce da più parti. Ma quando il movimento
femminista ha, forse più di altri movimenti, subito, soprattutto in Europa,

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 315

una impasse, il femminismo era tutt’altro che morto e il “movimento dei


movimenti”, nato con le giornate di Seattle, “pensato” nelle giornate di
Porto Alegre e di Genova, oggi ne riassume e ne esprime molte delle
istanze teoriche e politiche. Le battaglie a difesa delle donne e dentro le
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stesse istituzioni universitarie, il movimento lesbico e per i diritti, se hanno


registrato un distacco nel corso degli anni Ottanta dagli altri movimenti
organizzati, sono parte di uno stesso movimento nell’associare il locale al
globale, nella partecipazione alle lotte antirazziste, contro i fondamentalismi
e, sopra ogni cosa, per la pace, nel rifiuto delle rappresentanze, nella
proiezione dei desideri in un nuovo mondo possibile.
Un femminismo diviso, e, con il sorgere di un femminismo nero, un
femminismo che non può non interrogarsi e si interroga sulla propria
“bianchezza”. Un femminismo lesbico che, a partire dalla definizione di un
soggetto in-generato, rifiuta di assumere la “donna” come propria identità.
Una teoria femminista che, come afferma Braidotti, investe la pratica
politica della differenza sessuale in quanto rivendicazione di riconosci-
mento materiale e simbolico da parte di donne politicamente motivate e «il
cui fine è articolare insieme i problemi di identità individuale di genere e le
questioni di soggettività politica, collegando entrambi con il problema della
conoscenza e della legittimazione epistemologica». In questo senso il sog-
getto femminile femminista di de Lauretis è una «nuova entità epistemolo-
gica e politica che deve essere definita e affermata dalle donne nel con-
fronto tra le loro molteplici differenze, di classe, di razza, di scelte
143
sessuali» .
Kathleen Martindale, riferendosi al lavoro di Paul Smith sul soggetto,
nota come egli vi sottolinei il ruolo svolto dal femminismo «nell’articolare
le possibilità di azione del soggetto», l’importanza dell’autobiografia e della
“storia singolare”, per cui teoria e pratica della resistenza devono indagare
gli aspetti temporali della soggettività intesa come processo nel quale le
interpellanze non sempre riescono a produrre un soggetto acquiescente e
dove dunque è possibile lavorare sulle contraddizioni ai fini del cambia-
144
mento . Ma ciò, ribatte Martindale, è già stato fatto dal femminismo. Le
teorie “alte” della soggettività hanno cercato, negli anni Ottanta, crescenti
«possibilità di azione all’interno del soggetto femminile/femminista/lesbi-

143
Rosi Braidotti, Femminismo, corporeità e differenza sessuale, cit., p. 89.
144
Kathleen Martindale, L’in-discreto soggetto lesbico rifiuta di negoziare. Il decennio del
soggetto: teorie, narrazioni, posizionamenti, in AA.VV., Questioni di teoria femminista, cit., pp.
37-60, p. 37; Paul Smith, Discerning the Subject, Minneapolis, University of Minnesota Press,
1987.

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316 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

co», situandolo «più concretamente e specificamente all’interno di partico-


lari conformazioni politiche, modalità estetiche e pratiche sessuali»: teori-
che «antiessenzialiste nel loro femminismo e antirealiste nella loro estetica»,
impegnate politicamente e con un «sovrappiù di teoria per operare su un
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deficit di testi/materiale». Con la conseguenza di un consumo e di una


colonizzazione della cultura “bassa”, come nel caso di testi delle donne del
Terzo Mondo o di testi che cercano di rompere le barriere tra teoria,
scrittura creativa e autobiografia. Le autobiografie lesbiche, come ha spie-
gato Biddy Martin, si negano invece a letture essenzialiste, mettendo in
discussione il rapporto tra identità e politica, potenziando la scrittura e
l’attivismo lesbico e antirazzista più che i dettagli della loro negoziazione
delle posizioni del soggetto. Parlare di negoziazione, «negoziare i propri
posizionamenti di soggetto» è trascurarne le potenzialità di cambiamento,
la materialità: non è il genere la contraddizione primaria da analizzare, ma,
come sostiene Cornel West, la «storicizzazione delle posizioni del sogget-
to», quali siano le conseguenze etiche e politiche di «questo contenuto
morale e di questa identità culturale». Non a caso, conclude Martindale,
negli scritti delle lesbiche butch-femme la parola negoziazione non com-
pare: Joan Nesle, lesbica femme, asserendo che «reclamare la propria storia
è un atto politico diretto che cambia sia la persona che ascolta, sia la
persona che parla», offrendo la «sua soggettività divisa, e quella della
comunità gay e lesbica, in quanto persone sessuate, come un dono al
mondo», rivendica la propria indiscrezione, il suo essere non invisibile e
145
non al di fuori da un posizionamento collettivo del soggetto .
Il rischio di essenzialismo implicato dalla riflessione sul soggetto, che
pervade tutto il pensiero poststrutturalista, con il conseguente allontana-
mento dalla realtà delle pratiche e da un rapporto teoria-politica indirizzato
al cambiamento, più tangibile nelle teorizzazioni del femminismo europeo
degli anni Ottanta (Cixous, Irigaray), il cui ambito è più caratterizzato
rispetto a quell’area dei cultural studies in cui le teoriche americane avevano
trovato più punti di riferimento nel corso degli anni Sessanta e Settanta, si
trova, negli Stati Uniti, a dover fare i conti con le contraddizioni che la
presenza di differenti popoli e culture (e delle loro lotte, dei loro “mondi
immaginati”) innesca all’interno del movimento delle donne e con il valore

145
Ivi, pp. 43, 48, 32. Biddy Martin, Lesbian Identities and Autobiographical Difference(s),
Ithaca, Cornell University Press, 1988; Cornel West, The New Cultural Politics of Difference, in
Russell Ferguson, Martha Gever, Trinh T. Minh-ha, Cornel West (a cura di), Out There:
Marginalization and Contemporary Culture, New York, New York Museum of Contemporary
Art, 1990, p. 35; Joan Nesle, A Restricted Country, Ithaca/N.Y., Firebrand, 1987.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 317

dirompente di istanze spesso in conflitto con il liberalismo e il “riformismo”


che le donne bianche esprimono al suo interno in qualche modo rivendi-
candone un’egemonia. Ecco perché l’esperienza, espressione del vissuto
delle donne, del loro personale e del loro politico, della loro corporeità e
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del loro essere nel mondo, non può ancora una volta non avere un’impor-
tanza decisiva, rimandando a sfere più ampie di esclusione e di oppressione,
che affiancano all’identità di genere altri tipi di identità come la classe
sociale e la razza. «Gli assi di “differenza” e i modi di oppressione che ne
derivano non sono allineati o paralleli ma sovrapposti o imbricati gli uni
negli altri; i sistemi di oppressione sono interconnessi e si determinano
reciprocamente»: è la teoria della «simultaneità delle oppressioni» di Bar-
bara Smith – «una femminista nera, una donna nera e una lesbica nera» – e
146
di altre femministe africaneamericane . Ecco, anche, come è possibile
operare punti di saldatura tra varie aree del movimento: se la psicoanalisi
dà risposte ritenute insoddisfacenti dall’area gay e lesbica e dalle donne di
colore, lo sviluppo dell’analisi del postcolonialismo e la ripresa nell’ambito
dei diaspora studies degli scritti di Fanon, fondamentali per il terzomondi-
smo degli anni Sessanta e Settanta, consentono di riprendere i contatti con
le teorie freudiane. In questo “decennio del soggetto” che sono gli anni
Ottanta, un primo aspetto con cui la riflessione delle donne deve confron-
tarsi è quello del transito da un soggetto privo di genere (quindi maschile)
implicato nel discorso dei “maestri pensatori”, da Althusser, a Lacan, a
Foucault (a Derrida allo stesso Deleuze, come ha mostrato Rosi Braidot-
147
ti ), a un soggetto femminile, femminista, lesbico, resistente. Ma tale
attraversamento non può non fronteggiare, dal momento che «il sistema
sesso/genere è sia un costrutto culturale sia un dispositivo semiotico», un
«sistema di rappresentazione che conferisce significato agli individui all’in-
terno della società», quella che de Lauretis definisce «una contraddizione
logica e inconciliabile della nostra cultura» e cioè che «le donne sono sia
dentro sia fuori del genere, oggetto di rappresentazione ma al tempo stesso
prive di rappresentazione». Due raccolte di testi, rispettivamente del 1981 e
del 1982, sono, come anche de Lauretis ricorda, particolarmente indicative
di questa “svolta” e costituiscono, non a caso, una critica radicale al
femminismo bianco dominante: This Bridge Called My Back: Writings by

146
Teresa de Lauretis, Soggetti eccentrici, cit., p. 41. Il testo cui de Lauretis fa riferimento è
Barbara Smith (a cura di), Home Girls: A Black Feminist Anthology, New York, Kitchen
Table/Women of Color Press, 1983, pp. 272-282.
147
Rosi Braidotti, Dissonanze, cit., pp. 32-104.

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318 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Radical Women of Color, curato da Gloria Anzaldùa e Cherrı́e Moraga, e All


the Women are White, All the Blacks are Men, but Some of Us Are Brave, a cura
148
di Gloria Hull, Patricia Bell Scott, Barbara Smith , raccolte dalle quali
emerge tutta la tensione del femminismo contemporaneo nella direzione di
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una teoria e una pratica di trasformazione radicale, a partire «dalla consape-


volezza e dallo sforzo di analizzare la complicità del femminismo con
l’ideologia in generale» (classismo, liberalismo borghese, razzismo, colonia-
lismo, imperialismo, umanesimo) e con «l’ideologia del genere» (eterosessi-
149
smo) . Il percorso compiuto dalle teoriche femministe del cinema, scrive
de Lauretis riconoscendolo come anche suo in Alice Doesn’t, si è sviluppato
nella direzione di analizzare e criticare l’immagine della donna che il
cinema restituisce sessualizzando il corpo della star, iscrivendolo attraverso
un sistema dello sguardo e una serie di altri codici che lo rendono oggetto
del voyeurismo dello spettatore, luogo della sessualità e del piacere visivo,
di svelare la natura di tecnologia sociale, nel senso foucaultiano (ma de
Lauretis puntualizza come questo movimento parallelo abbia avuto origine
meno da Foucault che da Althusser e Lacan), del dispositivo cinematogra-
fico, vera e propria tecnologia del genere al pari della letteratura, al pari
della teoria, nel suo costruirne la rappresentazione costruendo un rapporto
150
spettatoriale a sua volta «in-generato» . La teoria femminista del cinema,
conclude de Lauretis, non soltanto radica nel genere la sessualità e il
cinema, respingendo la sessualità indifferenziata e androcentrica teorizzata
da Foucault e aprendo con ciò la possibilità di indagare anche le più
complesse posizioni spettatoriali delle donne, ma concorre, insieme ad altri
discorsi e pratiche marginali e di opposizione, alla prefigurazione e alla
(ri)costruzione del genere in termini differenti, ponendo in questione il
concetto stesso di potere e svelandone, accanto alla produttività evidenziata
dal filosofo francese, le forme di oppressione (il riferimento è il lavoro di
Monique Wittig che, insistendo sulla natura costruita della femminilità,

148
Teresa de Lauretis, La tecnologia del genere, cit., pp. 136, 142-143; Cherrı́e Moraga,
Gloria Anzaldúa (a cura di), This Bridge Called My Back: Writings of Radical Women of Color,
Watertown, Mass., Persephone Press, 1981, II ed. New York, Kitchen Table/Women of
Color Press, 1983; G.T. Hull, P. Bell Scott, B. Smith (a cura di), All the Women Are White, All
the Blacks Are Men, but Some of Us Are Brave: Black Women’s Studies, Old Westbury, New
York, The Feminist Press, 1982.
149
Teresa de Lauretis, La tecnologia del genere, cit., p. 143.
150
Non sarà superfluo ricordare, accanto al lavoro coordinato da Teresa de Lauretis e
Stephen Heath, The Cinematic Apparatus, cit., i contributi di Baudry e del gruppo di
«Cinéthique».

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 319

coniugando marxismo e femminismo propone l’abbandono del significante


donna e dunque di una differenza fondata sul determinismo biologico ed
essenzialista in favore di una identità lesbica non donna e perciò sovversiva
151
nel suo liberarsi dai processi di identificazione fallogocentrici) .
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L’accento che de Lauretis pone sul processo dell’ingenerare, come


processo attivo di assumere un’identità da parte di un soggetto multiplo (e
non il soggetto diviso della psicanalisi) che si in-genera (non partendo
dunque da un corpo già sessuato, come de Lauretis chiarirà in più occa-
sioni) attraverso l’esperienza di rapporti si razza e di classe, oltre che
sessuali è per Penley – che nella prefazione a un volume dell’89 fa il punto
sui molteplici aspetti e strategie affrontati dalla teoria femminista e dalla
Feminist Film Theory rispetto al problema della differenza sessuale e ai
limiti che la teoria della differenza enfatizzando un soggetto diviso e
frammentato ha finito con l’imporre al femminismo rendendo difficile
l’articolazione con altre differenze – il più produttivo rispetto alla teoria di
un soggetto che risocializza la differenza sessuale posizionandola tra innu-
merevoli altre differenze. D’altra parte il rischio delle gender-based theories è
quello di ridefinire la differenza sessuale come differenza sociale (sia che il
corpo generato si consideri già sessuato sia che l’identità sessuale sia vista
come risultante di discorsi e rappresentazioni) e dunque di porla sul
medesimo piano di altre differenze. Ecco perché, puntualizza Penley, c’è
stato un rivolgersi, da parte di alcune teoriche americane, a nuove teorie
psicanalitiche essenzialmente sociologiche, che hanno prodotto una teoria
economica delle differenze (Chodorow) che le interpreta come differenze
sociali storicamente determinate. Ma molti interrogativi rimangono aperti:

oggi la teoria femminista è matura abbastanza da mostrarsi capace di


formulare teorie che riconoscono livelli di analisi differenti, differenti
temporalità e differenti tipi di differenza. A questo punto non abbiamo
bisogno di una nuova teoria totalizzante delle differenze, una in cui ogni
differenza sia perfettamente articolabile con le altre. Al contrario, abbiamo
bisogno di teorie di differenza (e) che siano sı̀ costruite, desunte, nego-
ziate, legate, ma con una comprensione di come questi legami abbiano
bisogno di essere forgiati più che scoperti152.

151
Cfr. Teresa de Lauretis, La tecnologia del genere, cit., p. 152; Monique Wittig, The
Straight Mind, «Feminist Issues», n. 1, estate 1980, pp. 106-107, poi in Id., The Straight Mind
and Other Essays, Boston, Beacon Press, 1992.
152
Constance Penley, The Future of an Illusion. Film, Feminism, and Psychoanalysis, London,
Routledge, 1989, pp. XIII e XIX.

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320 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Qual è dunque il posto della teoria femminista e della Feminist Film


Theory nel pensiero della postmodernità e quali sono gli intrecci tra
femminismo, postcolonialismo e postmoderno (un termine in qualche
153
modo “nomadico”, come scrivono Peter e Will Brooker )? Anche qui il
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femminismo, soprattutto quello nordamericano, ha tentato di offrire molte


risposte, interrogandosi sulla tendenza del dibattito teorico sul postmo-
derno a ignorare l’apporto femminista, tendenza che se da una parte ha
generato, tra le femministe, posizioni che lo interpretano come “ulteriore”
invenzione patriarcale indirizzata a escludere le donne, dall’altra (anche da
parte maschile, vedi Owens) riscontra proprio nella centralità, per la teoria
femminista, della differenza e del rifiuto di una sua elaborazione all’interno
del pensiero binario che ha caratterizzato il moderno non soltanto una
compatibilità ma un’istanza dello stesso pensiero postmoderno: un’alleanza,
quella tra femminismo e postmoderno, che consente al femminismo «di
evitare la tendenza a costruire teorie che generalizzino le esperienze delle
154
donne della classe media, bianche, occidentali» . Ripercorrere i momenti
principali della riflessione sulla condizione postmoderna, da Ricoeur a
Lyotard a Jameson è per le pensatrici contemporanee quasi l’occasione per
verificare la generalizzabilità di prospettive critiche, istanze epistemologi-
che, pratiche estetiche elaborate dal movimento femminista, ma anche per
specificare ulteriormente le questioni di soggettività e differenza all’interno
di un pensiero che trova nella crisi del soggetto Uno e delle grandi
narrazioni, nella critica della rappresentazione, nell’esercizio della decostru-
zione e nella pratica di strategie condivise (come la parodia, o il pastiche),
nella creazione di mappe cognitive un denominatore comune. Ma è pro-
prio il concetto di Altro/Altri, centrale nel pensiero postmoderno, ad
acquistare nella riflessione femminista un valore sovversivo e di resistenza,
di contro a un relativismo che si svela come ultima ratio di legittimazione
del sistema patriarcale dominante: come scrive Sandra Harding,

153
Peter Brooker, Will Brooker (a cura di), Postmodern After-Images: A Reader in Film,
Television and Video, London, Arnold, 1997, p. 1.
154
Cfr. Craig Owens, The Discours of Others: Feminist and Postmodernism, in Hal Foster (a
cura di), The Anti-Aesthetics. Essays on Postmodern Culture, New York, The New Press, 1983,
pp. 57-82; Andreas Huyssen, Mass Culture as Woman: Modernism’s Other, in Tania Modleski
(a cura di), Studies in Entertainment: Critical Approaches to Mass Culture, Bloomington, Indiana
University Press, 1986. Richard W. Mc Cormick, Politics of the Self. Feminism and the
Postmodern in West German Literature, Princeton/N.J., Princeton University Press, 1991; cfr.
l’introduzione di Linda Nicholson in Linda J. Nicholson (a cura di), Feminism/Postmodernism,
London and New York, Routledge, 1990, p. 5.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 321

dalla prospettiva delle nostre diverse collocazioni nei rapporti sociali la


realtà può senz’altro sembrare avere numerose strutture differenti, ma
alcune di queste forme sono ideologiche nel senso più forte della parola:
non solo sono opinioni false e “interessate” ma sono anche usate per
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strutturare rapporti sociali universali. Per i gruppi subalterni, una posizione


relativista esprime una falsa coscienza. Accetta l’insistenza del gruppo
dominante sul fatto che avere delle visioni distorte (e, quindi, fare politica
in nome di tutti sulla base di queste visioni) è intellettualmente legittimo155.

Non un Altro indifferenziato ma un altro che, come scrive Braidotti,


contribuisce «alla definizione del soggetto per negazione»:

il marchio della differenza svolge l’importante ruolo di definire e dividere i


soggetti. Ma questo implica anche che gli altri differenti sono struttural-
mente necessari al sistema dominante della significazione. Di conse-
guenza, è importante disincagliare il concetto e le pratiche sociali della
differenza dalla ragnatela di relazioni di potere e dominio nella quale
hanno cosı̀ a lungo funzionato [...] La differenza è troppo importante per
essere lasciata nel territorio del relativismo e della frammentazione: deve
essere considerata come un concetto egemonico e trasformata in base di
partenza per differenti pratiche di differenza156.

Un femminismo resistente
Rifacendosi alla distinzione di Hal Foster tra un postmodernismo conserva-
tore e un postmodernismo resistente, che lavora alla decostruzione del
moderno come status quo a partire da una prospettiva deliberatamente
critica, Ann Kaplan sottolinea quella che a suo parere è un’antinomia
all’interno del suo discorso: trasgressione e postmoderno sono due concetti
teoreticamente incompatibili nella misura in cui il primo si collega a Brecht
e Bakhtin, le cui teorie derivano da pensatori moderni come Hegel,
Nietzsche, Marx, Freud e cioè a paradigmi che si fondano su opposizioni.
Prendendo le distanze dalle posizioni di Baudrillard, che Kaplan definisce
di “consumo”, è più nella direzione segnata da Derrida, e della sua atten-

155
Sandra Harding, The Instability of the Analytical Categories of Feminist Theory, «Signs»,
vol. 11, n. 4, pp. 645-665, p. 657, cit. in Anna Yeatman, A Feminist Theory of Social
Differentiation, in Linda J. Nicholson (a cura di), Feminism/Postmodernism, cit., pp. 281-299, p.
293.
156
Rosi Braidotti, Genere, identità e multiculturalismo in Europa, in Id., Nuovi soggetti nomadi,
cit., pp. 165-201, p. 181.

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322 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

zione al contesto in cui le opere postmoderne vengono prodotte, che è


possibile affermare che

nella sua forma “utopica” il postmoderno è in parte un prodotto del


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femminismo (ad esempio femminismo, decostruzione e psicanalisi laca-


niana insieme hanno introdotto una significativa rottura culturale che
potremmo chiamare postmoderno). Un postmoderno “utopico” comporta
un movimento di cultura e di testi al di là delle oppressive categorie
binarie e non può essere immaginato senza l’opera di, tra gli altri, Bakhtin,
Derrida, Cixous, Kristeva e Roland Barthes. Questa sorta di postmoderno
è stata centrale per alcuni filoni del femminismo nel suo confrontarsi con
dei testi che decentrano radicalmente il soggetto, la sua insistenza su una
serie di diverse posizioni spettatoriali e il suo fuoco su testi in cui i discorsi
non sono ordinati gerarchicamente [...] La richiesta di farla finita con la
“mortifera opposizione binaria maschile e femminile” forse riassume al
157
meglio il postmoderno “utopico” .

Tuttavia, proprio le istanze resistenti e sovversive del femminismo


postmoderno – un concetto, quello di resistenza, che, come precisa Huys-
sen, non può essere circoscritto, come nel pensiero poststrutturalista, al
dominio dell’estetica ma che richiede a sua volta di essere specificato
rispetto ai campi nei quali opera superando una definizione adorniana di
negatività o non-identità158 – pongono all’attenzione questioni tutt’altro che
marginali come quella di una nuova definizione del politico che se è in
attuazione nelle teorie e nelle pratiche dei movimenti di opposizione, come
il movimento no-global o il movimento contro la guerra, richiede anche
una rivisitazione dell’intera storia del movimento femminista a partire dagli
anni Sessanta per tentare di tracciare, appunto, una storia del suo rapporto
con le politiche di opposizione e con la teoria della politica. Non posso
condividere il tipo di approccio del quale per esempio Laura Kipnis si
avvale nel tentare una ricognizione dei rapporti tra marxismo/femmini-
smo/psicanalisi, che collega sostanzialmente a una sconfitta storica della
sinistra marxista/althusseriana e del femminismo, un «epifenomeno di una
tendenza regressiva al modernismo, ancora più problematico in quanto

157
E. Ann Kaplan (a cura di), Postmodernism and Its Discontents. Theories and Practices,
London and New York, Verso, 1988, pp. 1-9.
158
Andreas Huyssen, Mapping the Postmodern, in Linda J. Nicholson (a cura di), Feminism/
Postmodernism, cit., pp. 234-277.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 323

parte di un più ampio impeto verso l’estetizzazione del politico»159, nel


quale rientrerebbero a pieno le strategie della e´criture e il rifiuto della
rappresentazione, della soggettività della storia e una concezione della
teoria come momento autonomo di verifica e per il quale l’introduzione
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della psicanalisi nella teoria femminista e la teorizzazione di un controci-


nema sarebbero il corrispettivo del rifiuto della cultura di massa da parte
della sinistra pro Scuola di Francoforte letta in chiave fallocentrica. Il rifiuto
di una cultura popolare, peraltro “donna” (Modleski, Huyssen), la teorizza-
zione di un’estetica antipopulista sono per Kipnis in contraddizione con lo
smantellamento di un soggetto che conserva però una posizione di primo
piano nel dibattito teorico: la categoria recente di “soggetto decentrato” è il
segno della crisi dei grandi poteri imperiali della modernità e della perdita
traumatica dell’egemonia dell’Occidente, una crisi rispetto alla quale il
femminismo occidentale sembra «sospeso tra una emergente logica politica
postmoderna e un modernismo residuo». Lo stesso concetto di e´criture
implica, secondo Kipnis, l’asserzione di una prassi politica che muova
principalmente attraverso pratiche testuali essenzialmente moderne nel suo
presumere di operare come significato ultimo, trascendentale. In questo
senso, il femminismo europeo, potenzialmente la tendenza politicamente
più radicale del pensiero politico moderno rispetto all’essenzialismo e alla
tradizione liberale del femminismo americano, mostrerebbe gli stessi sin-
tomi di depoliticizzazione del marxismo occidentale: «gli spostamenti reali
nel potere e nella distribuzione economica mondiale hanno poco a che fare
con la jouissance, il preedipico o i fluidi» e denotano una posizione di
privilegio garantita dallo sfruttamento sistematico di altri territori. Una
posizione che non può essere messa in discussione, conclude Kipnis,
attraverso pratiche di avanguardia o il semplice riconoscimento da parte
della teoria dell’esistenza dei margini e delle periferie e la scoperta di spazi
cruciali nei testi piuttosto che nella pratica politica: questo non è che «la
resistenza delle femministe del primo mondo alla pericolosa consapevo-
lezza che in un sistema patriarcale mondiale, retto da una divisione interna-
zionale del lavoro, da uno scambio ineguale e dal Fondo Monetario
Internazionale, noi femministe del primo mondo siamo anche le beneficia-
rie».
Ma è proprio sul piano politico e della politica della rappresentazione

159
Laura Kipnis, Feminism: The Political Consciousness of Postmodernism? , in Andrew Ross (a
cura di), Universal Abandon? The Politics of Postmodernism, Minneapolis, University of Minne-
sota Press, 1988, pp. 149-166, p. 153.

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324 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

che la teoria femminista, nei molteplici punti di vista che esprime, si pone
come istanza autonoma e resistente all’interno di un pensiero postmoderno
con il quale certamente condivide la crisi dell’autorità culturale e quindi
della rappresentazione stessa: il femminismo, scrive Linda Hutcheon, ha
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«radicalizzato il senso postmoderno della differenza e denaturalizzato la


tradizionale separazione storiografica tra privato e pubblico – e del perso-
nale e del politico». In questo senso le pratiche e la riflessione delle
femministe, le loro opere, non soltanto hanno messo in discussione la
concezione moderna dell’artista ma, centrando l’attenzione sulla politica
della rappresentazione e sulla conoscenza e sul potere, svelando i meccani-
smi di posizionamento del genere, hanno posto in primo piano il corpo
della donna (generalmente rappresentato dall’uomo) e i suoi desideri come
160
socialmente e storicamente costruiti attraverso la rappresentazione . Stra-
tegie postmoderne come la parodia, afferma Hutcheon, acquistano nella
pratica femminista, attraverso un distacco critico che consente una eviden-
ziazione ironica della differenza nella somiglianza, potenzialità sovversive
che lo distanziano dalla “complicità” della critica decostruttiva postmo-
derna che ignora la questione della capacità di agire e la necessità di
articolare strategie di resistenza, e che costituiscono una sfida al discorso
161
patriarcale dominante . Barbara Creed ripercorre i testi di Lyotard,
Owens, Jardine e Jameson per tornare nuovamente a Jardine. Quanto
Jameson scrive a proposito del pastiche e della nostalgia nel cinema
postmoderno, non sembra tener conto, secondo Creed, né delle diverse
sollecitazioni in base alle quali il pubblico ama riconoscersi in questi filoni
(la nostalgia è la stessa cosa per gli uomini e per le donne?) in un tempo
che non può essere genericamente il passato, né delle distinzioni di genere:
se, come afferma Lyotard, il sistema patriarcale tenta di mascherare l’as-
senza del significante, bisogna chiedersi se non sia proprio il “passato
scomparso” che sta al centro di questi film a convalidare il significante
paterno (non a caso Jameson sceglierebbe per le sue analisi dei noir –
Chinatown, Il conformista, Body Heat – nei quali la donna fatale costituisce
sempre una continua minaccia all’ordine fallocentrico). Il processo di gynesis
che Jardine evidenzia nel femminismo ma soprattutto negli scritti delle

160
Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, London and New York, Routledge,
1989, V ed. 1995, pp. 141-144. [Il saggio Postmodernism and Feminisms, alle pp. 141-168, è
stato parzialmente tradotto come Postmodernismo e femminismi in Maria Teresa Chialant,
Eleonora Rao (a cura di), Letteratura e femminismi. Teorie della critica in area inglese e
americana, cit., pp. 249-271].
161
Ivi, pp. 167-168.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 325

pensatrici e pensatori francesi contemporanei non è un esclusivo attributo


delle donne, ma un “divenire donna” del pensiero (Deleuze e Guattari), la
valorizzazione del femminile e di ciò che in genere non è attribuibile
all’Uomo, come gli spazi qualsiasi, l’Altro senza storia, la zona che la
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narrazione non riesce più a controllare. Un processo meno presente negli


scritti nordamericani – questo spiegherebbe la posizione di Jameson – dove
il discorso sul femminile sembra esistere soprattutto al livello della rappre-
sentazione, più sul piano delle tematiche che delle pratiche, più nelle forme
di cultura popolare e nel cinema che nella teoria. In questo senso i film
fanta-horror contemporanei, per il loro mettere al centro una figura femmi-
nile in qualche modo penetrata dall’“alieno”, possono essere considerati,
secondo Creed, alla luce delle più recenti tecnologie riproduttive che hanno
importato nel genere una crescente preoccupazione per il processo di
riproduzione, una testimonianza di un’altrettanto crescente apprensione nei
confronti del tema del “divenire donna”, il segno di una vera e propria
metamorfosi. Lo spazio, come ricorda Kristeva, ha sempre avuto una
connotazione femminile, è sempre stato nel nome della madre come colei
che genera mentre è al padre che appartengono il tempo e la storia. Questo
spazio, aggiunge Creed, è lo «sconosciuto, il terrificante, il mostruoso –
qualsiasi cosa che non sia collocata da concetti come Uomo, Verità,
Significato». Il crollo della funzione simbolica, conclude Creed,

dà origine a quella che Jardine descrive come una «incapacità delle parole
di dare forma al mondo», cosa che può senz’altro portare a una lotta per il
controllo di ciò che ha screditato la funzione paterna – lo «spazio che ha
cominciato a minacciare tutte le forme di autorialità». I nuovi discorsi
teorici (femminismo? postmodernismo?) che hanno a cominciato a pren-
dere il posto delle grandi narrazioni, non si vedono più come “un sistema
di prestiti e debiti nei confronti delle grandi verità del passato”, hanno
cominciato, secondo Jardine, a concettualizzare un nuovo spazio, quello
della donna162.

Come Demetra, Ripley, la protagonista di Aliens, fa il suo ingresso nel


mondo sotterraneo per cercare la “figlia” rapita dalla madre aliena: nessuna
relazione biologica tra le tre donne, «le configurazioni delle costellazioni
madre-figlia sono multiple, contraddittorie e simboliche». La madre aliena,

162
Barbara Creed, From Here to Modernity, «Screen», vol. 28, n. 2, 1987, pp. 47-67, ora in
Peter Brooker, Will Brooker (a cura di), Postmodern After-Images: A Reader in Film, Television
and Video, cit., pp. 43-54.

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326 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

nuova sfinge, incorpora l’enigma narrativo: la sua sconfitta, la distruzione


della “stanza della creazione” da parte di Ripley, non libera quest’ultima
dalla sua sostanziale ibridità di soggetto (donna protagonista) che incontra
se stesso come altro (madre generativa), maschile e femminile al tempo
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stesso. Ma se l’androgino, il soggetto neutro, come scrive Lyotard, è una


delle aspirazioni maggiori in una società organizzata sulla continua circola-
zione di oggetti, la sua presenza, conclude Creed, può anche indicare una
non volontà di affrontare i problemi di oppressione legati al genere in una
società patriarcale. Non è detto che la crisi delle grandi narrazioni sia
necessariamente un vantaggio per le donne ed è difficile avanzare delle
previsioni in questo senso. E non è detto, nota ancora Creed, che il debito
che la teoria postmoderna ha nei confronti del femminismo non sia più
grande di quanto non sia disposta ad ammettere: sia Jardine che Braidotti
hanno evidenziato che le più rilevanti rotture epistemologiche nella storia
del pensiero occidentale si sono verificate in quei periodi di cambiamento
163
in cui le donne hanno avuto un ruolo decisivo . Kaplan esprime preoccu-
pazioni analoghe e, in un momento che definisce postfemminista (una
definizione che ha abbastanza seguito) rispetto ai processi di integrazione
che il femminismo ha subito da parte del capitalismo, sottolinea la necessità
di un nuovo paradigma teorico: se le tecnologie riproduttive muovono
verso un’ulteriore appropriazione dei corpi delle donne al punto da mettere
in discussione, come Shulamith Firestone aveva previsto, la pratica e il
concetto stesso della maternità, come ci confronteremo con il processo
psicoanalitico? Per il soggetto storico femminile è sempre più difficile
mantenere una identità in quanto madre e tuttavia la madre nell’inconscio
persiste anche se cresce l’ostilità delle donne per la maternità e verso le
madri. Occorre interrogarsi allora se la maternità non sia oggi luogo di uno
scontento le cui origini di fatto risiedono altrove, se la sua crisi non sia una
costruzione patriarcale per distogliere l’attenzione da problemi sociali,
164
politici e culturali che nessuno sa come curare .
Come mettere insieme, si chiedono Nancy Fraser e Linda Nicholson, lo
scetticismo postmoderno nei confronti delle metanarrazioni e le potenzia-
lità sovversive del femminismo? La risposta, “contro” Lyotard (il cui sostan-
ziale rifiuto di una epistemologia della rappresentazione come ha mostrato

163
Ibid. Per le citazioni da Jardine, cfr. Alice Jardine, Gynesis. Configurations of Woman and
Modernity, Ithaca and London, Cornell University Press, 1985.
164
E. Ann Kaplan, Motherhood and Representation: From Post War Freudian Figurations to
Postmodernism, in E. Ann Kaplan (a cura di), Psychoanalysis and Cinema, cit., pp. 129-142.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 327

chiaramente anche Seyla Benhabib coincide con un relativismo assoluta-


165
mente improduttivo per il femminismo ) è il consolidamento di strumenti
teorici ampi e articolati per affrontare i problemi politici: una teoria
permeata dalla temporalità che faccia i conti con la storia e la specificità di
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diverse società, periodi e gruppi sociali, comparatista e non universalista nel


suo guardare all’intreccio di più culture e momenti della storia, una teoria
che non abbia come presupposto la definizione di un soggetto a partire da
categorie unitarie come donna o identità femminile ma concezioni com-
plesse di identità sociale e dunque una teoria pragmatica che formuli
metodologie e categorie a partire dagli obiettivi che persegue. Sul piano
della pratica politica femminista ciò comporta lo sviluppo di alleanze
piuttosto che la convergenza su un interesse o identità universalmente
condiviso, nella consapevolezza delle differenze che ci uniscono anche
attraverso i conflitti. Come i differenti colori che compongono un arazzo o
un patchwork, concludono Fraser e Nicholson, possiamo parlare al plurale
di una «pratica dei “femminismi”», una pratica

implicitamente postmoderna. Essa può trovare la sua più utile e appro-


priata espressione teorica in una forma di indagine critica femminista-
postmoderna. Un’indagine che si ponga come controparte teorica di una
solidarietà femminista a più livelli, più ampia, ricca e complessa, il tipo di
solidarietà essenziale per superare l’oppressione delle donne nella sua
“infinita varietà e monotona somiglianza”166.

Sandra Harding, affrontando un tema molto dibattuto dal femminismo


nordamericano, che è quello di una scienza e di una epistemologia femmi-
niste, e nella convinzione che una progettualità in questo senso vada difesa
contro le critiche del postmoderno, propone un’ampia ricognizione delle
diverse posizioni a questo riguardo, sostanzialmente riassumibili in una
tendenza empirista e in una teoria del punto di vista, posizioni nelle quali
evidenzia una sostanziale e talvolta consapevole ambiguità rispetto al
moderno e al postmoderno. Ma a una pratica che si limita a descrivere i

165
Seyla Benhabib, Epistemologies of Postmodernism: A Rejoinder to Jean-François Lyotard, in
Linda J. Nicholson (a cura di), Feminism/Postmodernism, cit., pp. 107-130.
166
Nancy Fraser, Linda Nicholson, Social Criticism without Philosophy: An Encounter
between Feminism and Postmodernism, (pubblicato in «Communication», vol. 10, nn. 3 e 4,
1988, pp. 345-366 e in «Theory, Culture and Society», vol. 5, nn. 2 e 3, giugno 1988, pp.
373-394), in Andrew Ross (a cura di), Universal Abandon? The Politics of Postmodernism, cit.,
pp. 83-104, pp. 101-102, poi in Linda J. Nicholson (a cura di), Feminism/Postmodernism, cit.,
alle pp. 19-37.

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328 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

pro e i contro all’interno di questa ambiguità, Harding contrappone la


necessità di una rivendicazione teorica di questa ambivalenza, la sua trasfor-
mazione in un programma positivo che tragga forza dalle contraddizioni e
dalle tensioni tra scientifico e postmoderno che non fanno altro che
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riflettere le reali esigenze politiche e teoriche delle donne nei diversi


contesti. La necessità per le donne di continuare a sviluppare epistemologie
si pone anzitutto contro i discorsi tradizionali di “obiettivismo” e “interpre-
tazionismo”. Una teoria della conoscenza in quanto strategia giustificativa
deve avere un valore decisivo per la vita delle donne e fare delle differenze
tra donna e donna una occasione di crescita, di comprensione, di consape-
167
volezza e di lotta . Le stesse preoccupazioni sembrano pervadere molti
altri scritti femministi degli anni Novanta: Paula Moya ne riassume alcune,
evidenziando i rischi epistemologici e politici della dismissione postmoder-
nista di concetti come identità, differenza ed esperienza (ad esempio, nel
lavoro di Joan Scott, che mette in luce i rischi di “naturalizzazione” che le
168
narrazioni dell’esperienza comportano e dell’adozione di strategie deco-
struttive che minano il progetto di un empowerment delle donne come
produttrici di conoscenza, colpendo soprattutto le donne di colore per le
quali tali concetti continuano ad essere modi di scrittura e di controllo delle
169
proprie rappresentazioni , principi di organizzazione cruciali e mobilitan-
ti). In questo senso, i lavori postmodernisti di Butler e Haraway vengono da
Moya criticati come esempi di questa tendenza e di un processo di
appropriazione delle teorizzazioni di femministe di colore come Cherrı́e
Moraga o Gloria Anzaldúa attraverso il fraintendimento o comunque lo
svincolamento delle politiche identitarie e delle categorie di genere dalla
loro collocazione sociale; nonostante le asserzioni sovversive e antimperia-
liste, il femminismo postmodernista mostra di non avere un concreto

167
Sandra Harding, Feminism, Science, and the Anti-Enlightenment Critiques, in Linda J.
Nicholson (a cura di), Feminism/Postmodernism, cit., pp. 83-106.
168
Joan Wallace Scott, The Evidence of Experience, «Critical Inquiry», n. 17, 1991, pp.
773-797; cfr. anche Linda Alcoff, The Elimination of Experience in Feminist Theory, intervento
presentato al Women’s Studies Symposium, Cornell University, 3 febbraio 1995, cit. in Paula
M. L. Moya, Postmodernism, “Realism”, and the Politics of Identity: Cherrı´e Moraga and Chicana
Feminism, in M. Jacqui Alexander, Chandra Talpade Mohanty (a cura di), Feminist Genealo-
gies, Colonial Legacies, Democratic Futures, New York and London, Routledge, 1997, pp.
125-150.
169
Cfr. a questo proposito e sulla “rivalutazione” dell’esperienza, Shari Stone-Mediatore,
Chandra Mohanty and the Revaluing of “Experience”, in Uma Narayan, Sandra Harding (a cura
di), Philosophy for a Multicultural, Postcolonial, and Feminist World, Bloomington and Indiana-
polis, Indiana University Press, 2000, pp. 110-127.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 329

radicamento nell’esperienza, in quella materialità dei corpi, la “teoria nella


carne” di cui dice Moraga, che consenta di cogliere le differenze e le diverse
forme di oppressione, la differenza tra oppressori e oppressi, per lavorare al
170
cambiamento . Questa “teoria realista” dell’identità – il cui assunto princi-
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pale è che «la nostra capacità di comprendere aspetti fondamentali del


nostro mondo dipenderà dalla nostra capacità di riconoscere e compren-
dere le conseguenze sociali, politiche, economiche ed epistemiche della
171
nostra collocazione sociale» – che Moya ripropone, ribadendo la propria
identità chicana attraverso l’analisi degli scritti di Moraga e Satya Mohan-
172
ty (teoria che non sfugge a sua volta ad accuse di essenzialismo qui
puntualmente respinte), manifesta tutto il suo dissenso nei confronti delle
“idealizzazioni” che conducono Haraway a vedere in tutte le donne di
colore dei cyborg e viceversa a prescindere dalle loro collocazioni, dalle
loro lotte, dalla loro sofferenza. Ma è comunque in questa confusione di
confini, in questo mondo postgenere che Haraway può immaginare e
proporre come istanza teorica e politica del femminismo postmoderno
l’immagine del cyborg come «immagine condensata di immaginazione e
realtà materiale al tempo stesso, i due centri che insieme strutturano
qualsiasi possibilità di trasformazione storica». In questo quadro “l’espe-
rienza delle donne” che il movimento femminista ha costruito come
momento cruciale della sua lotta è insieme una finzione e un fatto, proprio
come il cyborg è finzione ed esperienza vissuta. L’ontologia del cyborg, che
si colloca nella tradizione utopica di immaginare un mondo senza genere
non ha nulla a che fare con «bisessualità, simbiosi preedipica, lavoro non
alienato, o altre seduzioni di una pienezza organica attraverso un’appropria-
zione finale di tutti i poteri delle parti in una unità superiore», ma si affida

170
Paula M. L. Moya, Postmodernism, “Realism”, and the Politics of Identity, cit. I testi di
Butler cui Moya si riferisce sono: Judith Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of
Identity, New York and London, Routledge, 1989; Id., Bodies that Matter. On the Discursive
Limits of “Sex”, cit. e Judith Butler, Joan Scott (a cura di), Feminists Theorize the Political, New
York, Routledge, 1992; per Haraway: A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist
Feminism in the 1980s, «Socialist Review», vol. 15, n. 2, 1985, pp. 65-107, ora in Linda J.
Nicholson (a cura di), Feminism/Postmodernism, cit., pp. 190-233; [tr. it. Un manifesto per
Cyborg: scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo ventesimo secolo, in Manifesto Cyborg.
Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, cit., pp. 39-101].
171
Ivi, p. 137.
172
Cfr. Cherrı́e Moraga, Loving in the War Years: lo que nunca pasó por su labios, Boston,
South End Press, 1983; Cherrı́e Moraga, Gloria Anzaldúa (a cura di), This Bridge Called My
Back, cit.; Satya P. Mohanty, The Epistemic Status of Cultural Identity: On Beloved and the
Postcolonial Condition, «Cultural Critique», n. 24, primavera 1993, pp. 41-80.

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330 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

alla «parzialità, ironia, intimità e perversità. È oppositivo, utopico e comple-


tamente privo di innocenza». Non strutturato dalle polarità pubblico e
privato, fuori dalle relazioni parti-tutto e da un conflitto natura cultura in
termini di appropriazione, il cyborg rompe i confini (e in questo senso
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l’identità delle “donne di colore” può essere definita cyborg) tra umano e
animale, organismo e macchina, fisico e non fisico. Una invenzione e un
mito, perché è attraverso l’invenzione, la critica postmoderna, il materiali-
smo storico che è possibile rispondere a un postmoderno che, come dice
Jameson, non è un’opzione ma una dominante culturale, un mito che
riguarda «trasgressioni di confini, fusioni potenti e pericolose possibilità che
un popolo progressista possa esplorare come una parte del lavoro politico
necessario» – non semplice decostruzione, ma trasformazioni liminali – in
una prospettiva che ribalti l’altra possibile di un mondo cyborg all’insegna
del controllo e dell’orgia maschile della guerra per un mondo cyborg di
realtà socialmente e corporalmente vissute in cui non si abbia timore «di
identità permanentemente parziali e di punti di vista contraddittori». Cy-
173
borg è eteroglossia, epistemologia è conoscere le differenze .
I saggi tradotti in questo volume si pongono appena sulla soglia di
questo movimento che segna il nostro presente. Una soglia sulla quale sono
rimasta, proponendomi di rimettere insieme alcuni pezzi di un percorso. I
corpi delle spettatrici sono molto diversi da quelli delle flâneuses dei grandi
magazzini nelle metropoli novecentesche. Eppure anche il loro guardare, il
loro piacere di guardare trasformato in forme di consumo dai nuovi e
molteplici dispositivi della società capitalistica – dal grande magazzino al
turismo, alle esposizioni, al museo, al cinema e alle esperienze che lo
precedono, contesti sociali e strutture architettoniche che creano spazi
senza tempo, che estendono l’illusione della mobilità spaziale nell’illusione
della mobilità temporale –, è già tutto iscritto nel corpo. Partendo dal
flâneur benjaminiano, Friedberg mostra come, nonostante da Baudelaire a
Jonathan Crary (che polemizza con le teorie del dispositivo per una
soggettività corporea in cui è il corpo a produrre l’esperienza ottica) il
problema del genere venga trascurato, pensare a un soggetto femminile
urbano per il quale la modernità rende disponibili nuove mobilità possa
essere «una determinante cruciale delle trasformazioni del ruolo del genere
174
nella postmodernità» . Il dibattito sul postmoderno, dal quale è spesso

173
Donna Haraway, A Manifesto for Cyborgs, cit.
174
Anne Friedberg, Window Shopping. Cinema and the Postmodern, Berkeley and Los
Angeles, University of California Press, 1994, p. 9 e pp. 15-38.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 331

assente una caratterizzazione di genere con il rischio di un nuovo “assorbi-


mento” ideologico del femminismo, può essere un momento chiave per
una ricontestualizzazione del genere e del discorso femminista. La lettura
jamesoniana è, per Friedberg, la più convincente nel suo sottolineare la
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politicità di questo dibattito, che non può prescindere dalla consapevolezza


della natura sovranazionale del capitalismo odierno. La temporalità nuova,
un “eterno presente”, che caratterizza la condizione del soggetto postmo-
derno, non soltanto ha un corrispettivo nei modi della visione filmica e
televisiva, ma è una «condizione dello sguardo virtuale e mobile della stessa
funzione spettatoriale». Se l’estetica postmoderna non necessariamente
mette in discussione l’autorità, ma può anche confermarla, uno dei compiti
della teoria femminista è ridiscutere i rapporti tra potere e differenza,
indagare la scissione tra negazione e affermazione del passato, la natura
della dipendenza dai modelli che ci si accinge a criticare. Un punto,
quest’ultimo, centrale per il dibattito femminista negli anni Novanta e per le
175
sue tensioni antiessenzialiste .
Pensare a soggetti frammentati in una cultura di immagini frammenta-
rie, e non a immagini di un soggetto unificato, conclude Friedberg, pensare
a un soggetto incarnato, nel quale l’accesso al simbolico passa per un corpo
a sua volta attraversato dal linguaggio, dicono le femministe italiane. I
riferimenti sono Deleuze, Foucault, i corpi-cyborg di Haraway, ma, come
afferma Dominijanni, polemizzando con i women’s studies e con una preoc-
cupazione antiessenzialista che non ha più a suo parere ragione di essere,
anche un corpo che rischia di diventare puro oggetto del pensiero e dello
sguardo. È difficile, dice Dominijanni, scegliere un paradigma della corpo-
reità: un corpo che è interfaccia tra biologico e simbolico, materia e
inconscio, un corpo detto, performato, significato, un corpo che parla
attraverso il sintomo, ma anche un corpo che sempre più si tende a
smaterializzare, a decentrare e del quale il sapere biotecnologico mette
176
costantemente alla prova la capacità di soggettivazione . Se il postmo-
derno rivaluta la sfera del desiderio, le radici inconsce della soggettività, la
ridefinizione del soggetto femminile femminista non può non avere inizio,
scrive Braidotti riferendosi a Rich (per la quale bisogna partire dal «ricono-
scere il nostro posizionamento, dal nominare la terra dalla quale prove-
niamo, dalle condizioni che abbiamo date per scontate», da un soggetto

175
Ivi, pp. 168-177 e appendice.
176
Ida Dominijanni, intervento al convegno “Identità e corpi”, Villa Mirafiori, Roma 2001.

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332 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

situato, appunto ai saperi situati di cui dirà Haraway)177, che dalla rivaluta-
zione delle radici corporee della soggettività, da un corpo come luogo
primario da cui sviluppare «l’aspetto epistemologico della “politica del
posizionamento”, che tende a fondare il discorso prodotto da donne
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femministe su un tessuto di condizioni locali, cioè molto specifiche (sesso,


razza, classe)». Non una categoria biologica o sociologica, ma «punto
d’intersezione tra sfera fisica, simbolico e condizioni materiali e sociali»,
«tra natura e cultura, in una zona di grande turbolenza del potere».
Ereditando la materialità corporea dei post-strutturalisti (specialmente Fou-
cault e Deleuze), che pone l’accento sulla struttura corporea e sessualmente
differenziata del soggetto parlante, le femministe della differenza creano
«una nuova forma di materialismo» (che de Lauretis chiama postmarxista)
in cui è la variabile della sessualità ad essere prioritaria: «nella teoria
femminista si parla in quanto donna, sebbene il soggetto “donna” non sia
un’essenza monolitica, ma piuttosto il luogo di esperienze multiple, com-
plesse, e potenzialmente contraddittorie, definito da variabili che si sovrap-
178
pongono» .
Un materialismo come «materialità in-corporata» per ripensare il sog-
getto pensante e dove ciò che è in gioco attraverso questa «sessualizzazione
estrema del soggetto è una trasmutazione nietzscheana del valore stesso
che diamo all’umano e a una nozione universale di comunanza, di comune
appartenenza» il cui scopo «è arrivare a rispettare la complessità del
soggetto». Un corpo come «interfaccia, una soglia, un campo di interse-
179
zione di forze materiali e simboliche» . Braidotti ripercorre quelle che
sono, lungo questo asse, le più significative posizioni del femminismo agli
inizi degli anni Novanta, da Cixous – il femminile come ricettività, «capa-
cità di ricevere l’alterità come una nuova scienza, affinità rispettosa tra sé e
l’altro», che presuppone un approccio etico, «dove tutta la materia viva è
una rete sensibile di entità reciprocamente ricettive, dove il divino in tutti
gli umani è la capacità di vedere l’interconnessione come modo di essere,
per Cixous «questo accresciuto senso dell’essere è il femminile, è la donna
in quanto forza creatrice» – a Cavarero, Irigaray, Muraro, Lispector dove il
corpo è davvero «soglia di una qualche apertura verso l’infinito». Dietro

177
Adrienne Rich, Notes Toward a Politics of Location, in Id., Blood, Bread, and Poetry:
Selected Prose 1979-1985, New York, Norton, 1986, pp. 210-231. Cfr. anche Donna Haraway,
Saperi situati: La questione della scienza nel femminismo e il privilegio di una prospettiva parziale,
cit.
178
Rosi Braidotti, Femminismo, corporeità e differenza sessuale, cit., pp. 92-93.
179
Ivi, pp. 101-102.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 333

questa urgenza di un soggetto femminile immagine dell’umano e del divino,


dice Braidotti, la necessità che la differenza sessuale comporta di «un
sistema simbolico femminile alternativo», la possibilità di un sistema altro
di rappresentazione rispetto al quale la strategia testuale della mimesi, una
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strategia di rielaborazione delle immagini e rappresentazioni della donna


come alterità create dal soggetto maschile del sapere, appare tra le più
produttive. La donna è allora un “luogo di ancoraggio” dal quale «tramite
ripetizioni strategicamente motivate, si possono far emergere nuove defini-
180
zioni e rappresentazioni. È un processo attivo di divenire» . Il paradosso
della teoria femminista degli anni ’90 è, anche per Braidotti, il suo fondarsi
«su quegli stessi concetti che deve decostruire e deessenzializzare in tutti gli
aspetti: la differenza di sesso/genere». Mentre Irigaray, basandosi su un
concetto di materialità de-essenzializzato, sembra muoversi verso la tra-
scendenza e la materialità incorporea, una nuova umanità femminista,
Wittig e Butler vanno al di là del genere mettendo radicalmente in
discussione il “contratto eterosessuale” che regola e costituisce un soggetto
sociale diversificato in due generi complementari e opposti. Contrappo-
nendo alla teoria della differenza, e all’essenzialismo biologico che a suo
parere comporta, un significante lesbica in quanto non donna, Wittig
propone di risolvere il problema dell’appropriazione maschile dell’univer-
sale attraverso l’espressione di nuovi valori di carattere generale, una
«pratica cognitiva soggettiva» che comporta non solo la coscienza (e la
reazione) all’oppressione, ma «la completa rivalutazione concettuale del
mondo sociale, la sua completa riorganizzazione per mezzo di nuovi
181
concetti, dal punto di vista dell’oppressione» . Una posizione criticata da
Judith Butler che vi scorge un retaggio della filosofia umanista della
pienezza. Non si tratta di sostituire il soggetto lesbico al soggetto fallico, ma
di ridefinire i parametri della soggettività: la lettura post-lacaniana di
Irigaray posiziona il soggetto della differenza, un soggetto femminile fem-
minista, come «entità libidinale, in costante dislocazione nel linguaggio»,
l’umanesimo di Wittig riessenzializza il soggetto ignorando «il punto essen-
ziale del femminismo post de Beauvoir; quello per cui il soggetto non
coincide con la coscienza, ma piuttosto l’inconscio significa impossibilità di
coerenza per il soggetto». Un concetto, quest’ultimo, sul quale, come nota
de Lauretis, hanno insistito molte studiose, e soprattutto Mitchell e Rose,

180
Ivi, pp. 102-103.
181
Monique Wittig, One Is Not Born a Woman, in Id., The Straight Mind and Other Essays,
cit., pp. 18-19.

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334 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

per la quale la nozione di inconscio come eccesso rende possibile coniugare


produttivamente femminismo, psicoanalisi neofreudiana e marxismo, pen-
siero e materialità, interno ed esterno, metodo e pratica politica, relazioni di
genere e di classe, individuale e collettivo, istanze che la teoria femminista,
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182
da Hartsock a MacKinnon, intreccia . Ma Braidotti osserva come Butler
faccia comunque suoi alcuni concetti di Wittig, quali la critica al genere nel
suo creare categorie e forme di identità che pretende di spiegare. Puntare
all’elaborazione di una genealogia critica della categoria donna, che inter-
seca «modalità razziali, etniche, di classe, sessuali e locali di identità
183
costituite discorsivamente» , pone il problema di coniugare la legittima-
zione di un soggetto politico femminile femminista che intanto si destabi-
lizza. Il materialismo, nell’accezione foucaultiana – la materia è sempre
materializzata – impone uno spostamento di posizione da una domanda
«come succede che il genere viene costruito attraverso e con le sembianze
di una certa interpretazione del sesso? (domanda che lascia in sospeso la
“materia” del sesso)» alla domanda «attraverso quali norme regolative il
sesso viene materializzato? E come mai il fatto di considerare la materialità
del sesso come un presupposto postula e rinsalda le condizioni normative
della sua stessa emergenza?». Per questo Butler oppone alla strategia
mimetica di Irigaray la categoria della ripetizione parodistica, in virtù della
sua potenzialità destabilizzante (è attraverso la ripetizione che il sesso ac-
quista il suo carattere naturalizzato ma anche che si schiudono instabilità
costitutive delle costruzioni), come la più adeguata ad allargare il ventaglio
184
delle definizioni dell’identità di genere . Il femminismo, conclude Brai-
dotti, si trova a fronteggiare visioni differenti del materialismo: la ricerca di
un nuovo universale sessuato (essenzialismo strategico), il superamento del
genere, il terzo sesso (neomaterialismo lesbico). Se lo spostamento più
rilevante rispetto all’inizio degli anni ’80 è quello di una generalizzazione
della sfera omosessuale (è la struttura del desiderio ad essere omosessuale

182
Teresa de Lauretis, Soggetti eccentrici, cit., pp. 11-57. Nancy C. M. Hartsock, The
Feminist Standpoint: Developing the Ground for a Specifically Feminist Historical Materialism, in
Sandra G. Harding, Merrill B. Hintikka (a cura di), Discovering Reality. Feminist Perspectives on
Epistemology, Metaphysics, Methodology, and Philosophy of Science, Kluwer Academic Publisher,
II ed., 2003; Juliet Mitchell, Psychoanalysis and Feminism, 1974; [tr. it. Psicoanalisi e femminismo,
Torino, Einaudi, 1976]; Jacqueline Rose, Sexuality in the Field of Vision, cit.; Catherine
MacKinnon, Feminism Unmodified: Discourses on Life and Law, Cambridge, Harvard Univer-
sity Press, 1987.
183
Rosi Braidotti, Femminismo, corporeità e differenza sessuale, cit., p. 103 e Judith Butler,
Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, cit., p. 3.
184
Id., Corpi che contano, cit., pp. 9-10.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 335

perché è la madre il primo oggetto di desiderio) come quadro teorico di


riferimento – da una parte l’omosessualità femminile come teoria fondativa
di una nuova visione della soggettività (differenza sessuale), dall’altra il
lesbismo come teoria anti-fondazionista che conduce al rifiuto finale del
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femminile (neomaterialismo lesbico) –, Braidotti è dalla parte della diffe-


renza (Irigaray, Cavarero): «rielaborare il cumulo di immagini, concetti e
rappresentazioni delle donne e dell’identità femminile, cosı̀ come sono state
codificate dalla cultura in cui viviamo» è la strategia più adeguata. Se
essenza è questo insieme di definizioni incise sulla nostra pelle, questo
«repertorio di narrazioni normative», essa esiste ed è operativa e se questa è
la storia prima di abbandonare il significante “donna” occorre rimpossessar-
sene, rivisitarne le complessità che definiscono l’unica identità, donna, che
ci accomuna. Non si può creare il nuovo con un semplice atto di volontà e
la differenza non è l’effetto della forza di volontà, ma di tante ripetizioni.
Da qui l’importanza delle figurazioni, come ha sottolineato Haraway, e la
loro rilevanza politica: quali immagini usiamo nel definire il progetto del
divenire soggetto delle donne, il tipo di testi che produciamo, il linguaggio
che adottiamo, in quanto «mappe politicamente informate di importanza
cruciale a questo stadio della storia del materialismo corporeo femminista».
Il soggetto femminile femminista è «uno dei termini all’interno di un
processo che non dovrebbe né potrebbe essere modellato in una forma
lineare teleologica di soggettività: è invece il luogo di intersezione del
desiderio soggettivo con la trasformazione sociale volontaria». Con il
contributo di de Lauretis la teoria femminista dà corpo alla sua specifica
differenza che consiste nella «doppia spinta simultanea della negatività
critica (la decostruzione del sapere fallo-logocentrico) e della positività
affermativa della sua politica» e a un soggetto «intensivo e multiplo che
agisce all’interno di una rete di interconnessioni». Compito della teoria
femminista oggi è, per Braidotti, «come pensare l’identità in quanto luogo
delle differenze», come «ristabilire una intersoggettività che consenta alle
differenze di creare un vincolo, cioè un contratto politico tra donne che
influenzi mutamenti politici duraturi». Una nuova epistemologia, un’etica
situata nomade per descrivere nuova modalità del femminismo, che si
muove «tra campi discorsivi diversi», «in transito», in attraversamento,
«creando connessioni laddove le cose erano prima sconnesse o sembravano
185
non collegate, dove sembrava non vi fosse “nulla da vedere”...»

185
Rosi Braidotti, Femminismo, corporeità e differenza sessuale, cit., pp. 108-110.

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336 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Nulla da vedere: Trinh T. Minh-ha in Naked Spaces-Living Is Round


186
filma spazi africani per dirci del vuoto e della sua vitalità...
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Questo ponte e` la mia schiena. Come attraversare le


differenze e, forse, trovare un posto in cui fermarsi...

[...] l’E non è né l’uno né l’altro, è sempre tra i due, è la frontiera,
c’è sempre una frontiera, una linea di fuga o di flusso, soltanto non
la si vede perché è la meno percettibile. Ed è su questa linea di
fuga che le cose accadono, i divenire si fanno, le rivoluzioni si
disegnano...

Gilles Deleuze, Pourparlers

Scrivendo del cinema di Godard, dell’essenzialità del suo uso dell’E – «l’E
non è che una congiunzione o una relazione particolare, che trascina tutte
le relazioni, ci sono tante relazioni quanti E, l’E non fa soltanto oscillare
tutte le relazioni, fa oscillare l’essere, il verbo...», l’E è «l’imbarazzo della
creazione, l’uso straniero della lingua, in opposizione al suo uso conforme e
dominante fondato sul verbo essere» –, Deleuze ci dice di un cinema che
187
vuole esplorare le frontiere . È il cinema del “tra” straubgodardiano di cui
scriveva Daney in La rampe e in virtù del quale «la questione del “punto di
188
vista” diviene a poco a poco un enigma» . È un movimento che investe
molta parte del cinema moderno e del cinema politico contemporaneo. È,
a sua volta, un cinema di confine.

186
Trinh T. Minh-ha, Feminism, Filmaking and Postcolonialism: An Interview with Trinh T.
Minh-ha, a cura di Judith Mayne, «Feminisms», settembre-ottobre e novembre-dicembre
1990; «Afterimage», vol. 18, n. 5, dicembre 1990; ora con il titolo From a Hybrid Place, in Id.,
Framer Framed, New York and London, Routledge, 1992, pp. 137-149. Il volume contiene
anche la sceneggiatura del film. L’autrice fa riferimento all’importanza che gli “spazi
negativi” hanno nel suo cinema, evocando il concetto del Vuoto delle filosofie asiatiche: «la
gente spesso non sa di che stai parlando quando menzioni la vitalità del Vuoto nei rapporti
tra oggetto e non oggetto o tra Io e non Io. Ancora una volta si può pensare a una forma di
mistificazione. È il problema del pensiero oggettivante, binario: il vuoto qui non è mera-
mente opposto al pieno o alla oggettività; è il luogo reale che rende possibile forme e
contenuti – cioè anche inseparabili» (p. 142).
187
Gilles Deleuze, Trois questions sur Six Fois Deux, in Pourparlers. 1972-1990, Paris, Les
Éditions de Minuit, 1990, pp. 55-66, alle pp. 64-66; [tr. it. Pour parler. 1972-1990, Macerata,
Quodlibet, 2000].
188
Serge Daney, La rampe. Cahier critique 1970-1982, Paris, Cahiers du Cinéma-Gallimard,
1996, p. 78.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 337

Quelle delle donne sono state da sempre visioni di confine: dalla soglia
della casa o dalle soglie dei corpi, dagli spazi in cui eravamo e siamo
confinate e da quelli rivendicati per noi, dai ruoli in socialità imposta e
preordinata, dalle barriere del genere e della differenza, della classe, del
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colore della pelle – la “linea del colore” –, della nazione. Le donne hanno
sempre raccontato, custodito, ricordato, inventato mentre scorgevano negli
specchi se stesse e molto altro, perché «lo specchio non solo riproduce le
189
immagini [...], le contiene e le assorbe» , hanno vissuto la perdita e tessuto
legami d’amore, si sono offerte conservando la loro bellezza. Hanno viag-
giato aspettando chi viaggia e riempiendo l’attesa con le cose che restano e
con quelle immaginate, sono fuggite o sono state messe in fuga, hanno
seguito i compagni o i fratelli in città lontane e affrontato viaggi senza
ritorno. Nomadismo, ma anche diaspora, esilio. L’esilio non ha come solo
riscontro il privilegio della libertà. Anch’io ho lasciato la mia città pagando
il prezzo di essermene allontanata una volta. Una città del Sud, dove i
palazzi costruiti dalla mafia hanno cancellato il mare. Ho riconosciuto i
miei concittadini maschi in una metropoli industriale del Nord grazie agli
apprezzamenti fatti sul mio corpo e dai quali mi sono difesa parlando il
nostro dialetto, una forma di riconoscimento che va al di là (almeno certe
volte) delle classi – io studentessa, allora, loro figli di proletari immigrati. La
mia città mi esclude, ne ho abitate altre. In tutte mi abituo a tutte mi
affeziono. Ma vorrei dire a Braidotti, che di questo nomadismo è maestra,
che non sempre è possibile abitare alle porte, accamparsi come i nomadi
che cantano le mappe del deserto. Anche chi sceglie l’esilio liberamente ne
è in qualche modo prigioniero e il ritorno è comunque incerto e difficile.
Non tutti lo scelgono liberamente... Come scrive Radhika Mohanram,
Braidotti non fa abbastanza i conti con quegli immigranti neri in attesa di
un impossibile permesso nella zona transiti dell’aeroporto internazionale di
Parigi che pure scorge e menziona: si può valorizzare il nomadismo e
debiologizzare il corpo ma

molte donne nere non possono essere percepite al di là del corpo.
L’aspetto letterale del nomadismo – la scioltezza e il diritto alla mobilità –
è riservato alle donne con passaporti forti. Le donne con passaporti deboli
di solito sono confinate dentro le loro frontiere. La scioltezza di movi-
mento di Braidotti attraverso i confini palesa il corpo europeo non
marcato. Questo aspetto del nomadismo è in definitiva una metafora per
l’accesso a una coscienza nomadica. Per molte donne non privilegiate le

189
Gloria Anzaldúa, Terre di confine/La frontera, cit., p. 76.

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338 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

tradizioni e le nazioni sono spesso il solo lasciapassare [...] Nonostante


Braidotti indichi una non stabilità, riproduce una stabilità senza marchi nel
suo trascurare che a un qualche livello è anche la realtà materiale del
corpo a fissare il corpo razzialmente, culturalmente e socialmente. Questa
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fissità rivela sempre una certa posizione, una occupazione di un certo


spazio di terra [...] il corpo della donna è codificato non solo razzialmente,
socialmente, culturalmente ma anche nazionalmente, incorporando anche
la nazione, portando su e attraverso di sé i marchi della posizione
occupata dalla nazione nella gerarchia tra le nazioni...190

Possiamo parlare tutte le lingue del mondo e inventarle di nuovo,


traducendo attraverso un lavoro inesausto tutte le nostre emozioni, i nostri
dolori, le nostre speranze ma non dimenticheremo mai da dove siamo
partite. Certo, potremo innamorarci della nostra erranza e farne uno stile di
vita e guardare con ammirazione a Londra la nostra vicina che si proclama
indiana pur essendovi nata da madre indiana e da padre africano, potremo
indovinare i suoi pensieri e i suoi desideri, rispettare e contattare la sua
identità, ma noi... Potremo munirci di un’antenna satellitare e guardare ogni
sera il TG 3 e mettere una pianta di basilico alla finestra... Ma in che modo
discutere di noi? Interrogare la nostra bianchezza, suggerisce Braidotti, e
riflettere sulle potenzialità di un’Europa scalzata dai suoi secolari poteri e
attributi, che si proponga di scegliere una via diversa da quella di un’impos-
sibile revanche capovolgendo con una scelta antirazzista il punto di vista di
191
chi vorrebbe farne una fortezza . Può darsi. Ma come conciliare questa
nostra certezza, questo nostro desiderio, o anche, questa nostra passione,
con le ragioni dell’accademia, con le lezioni universitarie, con la mancanza
di spazi sociali altri nei quali esprimerci, con un respiro del mondo che è
molto più veloce di quello che le donne sono abituate a respirare? Il
pensiero femminista, scrive Braidotti, riflettendo sull’identità e la soggetti-
vità, ha dato e può dare un grande contributo in questa direzione:

partendo dall’assunzione della priorità dell’esperienza, altrimenti detta


politica della vita quotidiana, ha l’indubbio vantaggio di sottolineare il
ruolo dell’affettività, del desiderio, della sessualità e dei molti, complessi e
potenzialmente contraddittori modi nei quali si intersecano con il potere,
le questioni della titolarità, dell’inclusione e dell’esclusione, del dominio, la
seduzione, il consenso e la resistenza192.

190
Radhika Mohanram, Black Body. Women, Colonialism and Space, Minneapolis and
London, University of Minnesota Press, 1999, pp. 82-83.
191
Cfr. Rosi Braidotti, Genere, identità e multiculturalismo in Europa, cit.
192
Ivi, p. 183.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 339

Sono profondamente convinta che i movimenti di opposizione più


avanzati (tra i quali il movimento antirazzista e le associazioni contro la
guerra) e non soltanto la riflessione teorica e accademica oggi debbano
molto al movimento femminista. Eppure questo giusto e necessario biso-
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gno di riflettere sulla nostra identità di europee non mi sembra solo una
risposta positiva alle posizioni essenzialiste o, dall’altro lato, alle critiche più
che fondate di “espropriazione” che ci vengono da parte delle donne
africane, asiatiche, africaneamericane o chicane: mi sembra piuttosto un
sintomo della nostra decostruzione, della nostra indeterminatezza, che
richiedono come riscontro non un ritorno alle Grande Teoria ma certo
l’articolazione di strategie di resistenza e cambiamento. Non sono una
filosofa e insegno storia del cinema, eppure non mi basta parlare delle mie
radici mostrando La terra trema, Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo e di
questo mondo globalizzato e di diaspore, di un cinema, come scrive Naficy,
193
accented , proiettando La promesse, Sankofa o i film di Isaac Julien, Mai
Masri e Khleifi. Vorrei pensare all’università come un luogo in cui io e gli
studenti mettiamo in contatto le nostre soggettività e, per qualche tempo, ci
disponiamo a metterle, insieme, in discussione... Come fare i conti con un
nuovo modello educativo, con nuovi saperi, con altre soggettività in costru-
zione? L’immigrazione in Italia è ancora un fatto relativamente recente
eppure ogni giorno sotto i nostri occhi proliferano master nuovi e accatti-
vanti sull’immigrazione, sui diritti, su un nuovo concetto di cittadinanza.
Per interrogare tutto questo non bastano le videocamere di pochi volente-
rosi o modelli di informazione alternativa che, al di là dell’input tecnolo-
gico, non hanno molto di diverso dalla controinformazione militante e per
militanti sperimentata negli anni Settanta. L’università rimane un corpo
separato ed è questo che bisogna comprendere quando si tenta di resistere
a una trasformazione del sistema universitario che guarda sempre più alla
privatizzazione e ai bisogni delle imprese. In che senso allora il personale
può essere politico, in che cosa il mio essere docente-femminista-donna
rende diverso il mio modo di insegnare? Una progettualità non può essere
definita tale se non ha gambe per camminare e la sola passione rischia di
essere fraintesa... I nomadi stanno davvero accampati nei “campi” o alle
porte delle città e c’è sempre qualcuno pronto a mandarli via... Preferisco
allora parlare di diaspore e di emigrazione, ma parlare tutte le lingue, di
tutti i popoli, è ancora un privilegio... Ecco perché credo nella forza delle

193
Hamid Naficy, An Accented Cinema: Exilic and Diasporic Filmaking, Princeton/N.J.,
Princeton University Press, 2001.

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340 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

immagini, delle figurazioni, delle metafore, della memoria, dei corpi, della
trance, della creatività e degli incontri... Un vestitino da battesimo arrivato
su un bastimento, agli inizi del secolo, dalla Sicilia ad Ellis Island, che la
nazione che continua a proporsi come la più democratica del mondo,
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nonostante le guerre, espone come memoria della propria magnanima


accoglienza ma che per me non è altro dal vestito delle nozze che una
donna curda morta nelle traversie di una traversata clandestina aveva
portato con sé, le fotografie, le lettere, la scrittura, i video, i siti web che
mantengono i legami con le geografie di provenienza generando nuove
comunità immaginate, i mondi immaginati di cineasti come Rocha, Güney,
Cissé, Khleifi, Suleiman, Julien, Julie Dash, Trinh T. Minh-ha, Claire Denis,
Pratibha Parmar, “tricontinentali”, internazionalisti, diasporici, postcolonia-
li...
Come Gloria Anzaldúa, anche se non lesbica, non chicana e transfron-
tera come lei, mi sposto tra le diverse coscienze che ho di me e intendo,
desidero, stringere alleanze. Come lei, amo pensare alla storia come movi-
mento serpentino piuttosto che come a una narrazione lineare, la sua
Coatlicue azteca, la, più mia, Medusa: «Coatlicue rappresenta il contraddit-
torio. Nella sua figura sono integrati tutti i simboli importanti nella reli-
gione e nella filosofia degli Aztechi. Come Medusa, la Gorgone, è un
simbolo della fusione degli opposti: l’aquila e il serpente, il paradiso e gli
inferi, la vita e la morte, la mobilità e l’immobilità, la bellezza e l’orrore».
Ecco allora la mia soggettività in viaggio – si può essere nomadi anche non
uscendo dalla stanza, scrive Braidotti –, il mio essere costantemente me
stessa e altro: «ogni incremento di coscienza, ogni passo avanti è una
travesı´a, un attraversamento. Sono di nuovo una aliena in un nuovo
territorio. E di nuovo, e di nuovo. Ma se sfuggo alla consapevolezza
194
cosciente, se sfuggo dal “conoscere”, non mi muoverò»...
«Il lavoro della mestiza», scrive ancora Anzaldúa, «consiste nel far
saltare il dualismo soggetto-oggetto che imprigiona e nel rivelarne il
trascendimento nella sua carne e nelle immagini del suo lavoro». Creare è
uno stato di trance, la “facoltà”, l’acutezza dei sensi, proiettare le immagini
sullo schermo della mente prima di trasformarle in parole, sperimentarle
con il corpo – «escribo con la tinta del mi sangre», «todo pasaba por esa boca, el
195
viento, el fuego, los mares y la Tierra» , la sua risposta è la creatività:

194
Gloria Anzaldúa, Terre di confine/La frontera, cit., pp. 83, 85.
195
Ivi, pp. 123, 113, 116.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 341

in quanto mestiza, non ho paese, la mia patria mi ha esclusa; eppure tutti i


paesi mi appartengono, perché di ogni donna sono la sorella o l’amante
potenziale (in quanto lesbica non ho razza, il mio stesso popolo non mi
riconosce; ma sono tutte le razze, perché in ogni razza c’è il diverso in
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me). Sono senza una cultura perché, in quanto femminista, sfido le


credenze collettive cultural/religiose di origine maschile tanto degli indo-
ispanici quanto degli anglos; eppure sono piena di cultura perché partecipo
alla creazione di una cultura ulteriore, di una nuova storia che spieghi il
mondo e la nostra presenza in esso, di un nuovo sistema di valori le cui
immagini e simboli ci connettono le une alle altre ed al pianeta...196

«In questa città in cui non faccio più parte della maggioranza per colore
o per cultura», scrive Minnie Bruce Pratt, una donna bianca, «ogni giorno
mi dico»:

in questo mondo non sei la razza o la cultura superiore e dovunque,


qualsiasi cosa sei costretta a pensare: sei pronta a vivere in questo mondo?
E mi rispondo: sto provando a imparare come si vive, come si parla per
andare oltre la parola del momento, come si agisce per cambiare le
circostanze ingiuste che ci impediscono di essere capaci di parlare l’uno
all’altro; sto provando ad avvicinarmi un po’ a quel mondo tanto deside-
rato ma non realizzato, dove a tutti sia possibile vivere, ma non provando
a rendere qualcuno meno di noi, non attraverso il sangue o il dolore di
qualcun altro: sı̀, questo è quello che sto cercando di fare ora con la mia
vita...

Un corpo che si sposta e attraversa nuove geografie, un corpo deterrito-


rializzato e che tuttavia abita, interrogandosi, come scrivono Biddy Martin
e Chandra Talpade Mohanty, su cosa voglia dire «“casa”, identità e pro-
spettiva politica»: geografia, demografia, architettura organizzano il testo
«dando alla narrazione un movimento e una specifica concretezza. A sua
volta, la narrazione politicizza la geografia, la demografia e l’architettura di
queste comunità – le case di Pratt in momenti diversi della sua storia –
197
scoprendo storie locali di sfruttamento e di lotta» .

196
Ivi, pp. 123-124.
197
Biddy Martin, Chandra Talpade Mohanty, Feminist Politics: What’s Home Got to Do with
It?, in Teresa de Lauretis (a cura di), Feminist Studies/Critical Studies, cit., pp. 191-211. La
citazione dal testo di Pratt (Minnie Bruce Pratt, Identity: Skin Blood Hearth, in Elly Bulkin,
Minnie Bruce Pratt, Barbara Smith, Yours in Struggle: Three Feminist Perspectives on Anti-
Semitism and Racism, Brooklyn/N. Y., Long Haul Press, 1984) a p. 190. Come scrive Tania
Modleski (Feminism Without Women. Culture and Criticism in a “Postfeminist” Age, New York
and London, Routledge, 1991, alla p. 20), Pratt, da femminista bianca del Sud, cerca di
rispondere alle domande di altre donne (di colore, femministe ebree, lesbiche) non appro-

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342 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

“Pensare globalmente, agire localmente” è lo slogan del femminismo


globale e dei nuovi movimenti di opposizione: è da una mappatura e da
un’analisi, da una metodologia comparativa, dei rapporti tra locale e globale
che determinano la posizione delle donne lavoratrici diversamente situate
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che è possibile articolare, scrive Mohanty, una più efficace strategia di


resistenza «ancorata geograficamente»: le lavoratrici del Terzo Mondo nei
loro paesi e le lavoratrici immigrate e indigene negli Stati Uniti e in Europa
«occupano una posizione sociale specifica nella divisione internazionale del
lavoro che illumina e spiega aspetti cruciali dei processi di sfruttamento e di
198
dominio del capitalismo» .
Ancora corpi che si spostano: nel postmoderno, nota Modleski, sfug-
giamo ai limiti del corpo (da Baudrillard a Deleuze al cinema), è la figura
della trapezista, la trascendenza nell’immanenza, il corpo femminile come
unico corpo ingenerato (Lyotard) che funziona come luogo in cui proiet-
tare una mancanza. Se Valie Export scrive dell’anoressia come modo per
sfuggire al corpo, per la fine del corpo ingenerato, Bhabha, pur fondandosi
su materiali elaborati dalla teoria femminista – la lettura di Irigaray di Freud
e di Platone – trascura nel suo importante contributo sulle dinamiche
psicosociali del colonialismo e del razzismo il genere e il lavoro delle
199
femministe . Sono le donne di colore, scrive ancora Modleski, ad avere
avuto un «ruolo di avanguardia nel riconcettualizzare la nozione di identità,
che è cosı̀ diventata un termine più flessibile, capace di includere l’espe-
rienza della gente che (come nella raccolta This Bridge Called My Back)

priandosi delle loro esperienze – spesso la nozione di esperienza ha operato in termini di


esclusività – ma apprendendo riferimenti e linguaggi, riconoscendo la dualità o molteplicità
di identità e oppressioni in un mondo dominato dalla cultura bianca e cristiana.
198
Chandra Talpade Mohanty, Women Workers and Capitalist Scripts: Ideologies of Domina-
tion, Common Interests, and the Politics of Solidarity, in M. Jacqui Alexander, Chandra Talpade
Mohanty (a cura di), Feminist Genealogies, Colonial Legacies, Democratic Futures, cit., pp. 1-29,
pp. 6-7; cfr. anche Lorraine Code, How to Think Globally: Stretching the Limits of Imagination,
in Uma Narayan, Sandra Harding (a cura di), Philosophy for a Multicultural, Postcolonial, and
Feminist World, cit., pp. 67-79.
199
Tania Modleski, Feminism Without Women. Culture and Criticism in a “Postfeminist” Age,
cit., p. 120. Modleski fa riferimento ai seguenti testi: Jean-François Lyotard, Can Thought Go
on Without a Body?, «Discourse», vol. 11, n. 1, autunno-inverno 1988-8, p. 84; Valie Export,
The Real and Its Double: The Body, ivi, p. 25; Homi K. Bhabha, Of Mimicry and Man: The
Ambivalence of Colonial Discourse, «October», n. 28, primavera 1984, p. 132 e The Other
Question: Difference, Discrimination and the Discorse of Colonialism, in Francis Barker, Peter
Hulme, Margaret Iversen, Diana Loxley (a cura di), Literature, Politics and Theory: Papers from
the Essex Conference 1976-1984, London, Methuen, 1986.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 343

possiede alleanze culturali multiple e, spesso, patisce innumerevoli tipi di


200
oppressione» .
Cherrı́e Moraga e Gloria Anzaldúa, curatrici di This Bridge Called My
Back, riassumono, nell’introduzione al volume, quelli che considerano i
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punti di forza del movimento delle donne del Terzo Mondo (una tra le
definizioni possibili: Sud del mondo, postcolonialismo, diaspora, ecc.):

1) come la visibilità/invisibilità in quanto donne di colore forma il nostro


radicalismo; 2) i modi in cui le donne del Terzo Mondo fanno derivare
una teoria politica femminista a partire dal nostro retroterra e dalla nostra
esperienza di razza/cultura; 3) gli effetti distruttivi e demoralizzanti del
razzismo nel movimento delle donne; 4) le differenze culturali, di classe e
di sessualità che dividono le donne di colore; 5) la scrittura delle donne
del Terzo Mondo come strumento di autoconservazione e di rivoluzione;
e 6) i modi e i mezzi di un futuro femminista nel Terzo Mondo201.

Un movimento che le identifica come minoranza, in quanto donne e in


quanto donne del Terzo Mondo, sottolineando il carattere aperto e con-
202
traddittorio della loro enunciazione . Per questo dialogismo ed eteroglos-
sia – un approccio, quello di Bakhtin le cui potenzialità sono state più volte
evidenziate nell’ambito degli studi postcoloniali e sul cinema postcoloniale
203
(per esempio da Robert Stam) e che studiose femministe come Welsh e
Mellencamp fanno proprio esaltandone gli aspetti sovversivi – possono
essere uno strumento per confrontarsi con il linguaggio delle donne in
quanto gruppo ai margini, minoranza come le minoranze dei Sud del
mondo e del Primo mondo che non sono tali numericamente ma rispetto

200
Ivi, p. 19.
201
Cherrı́e Moraga, Gloria Anzaldúa (a cura di), This Bridge Called My Back, cit., p. 24.
202
Cfr. le posizioni divergenti di Trinh T. Minh-ha, hooks e Suleri, la quale, per esempio,
considera riduttive molte delle strategie delle donne del Terzo Mondo, come quella
dell’autenticità o dell’autobiografismo: Sara Suleri, Woman Skin Deep: Feminism and the
Postcolonial Condition, «Critical Inquiry», estate 1992, pp. 756-769.
203
Cfr. Patricia Mellencamp, Uncanny Feminism, in Peter Brooker, Will Brooker (a cura di),
Postmodern After-Images: A Reader in Film, Television and Video, cit., pp. 265-279; Ella Shohat,
Robert Stam, The Cinema after Babel: Language, Difference, Power, «Screen», n. 3-4, maggio-
agosto 1985, pp. 35-58 e Robert Stam, Subversive Pleasures: Bakhtin, Cultural Criticism, and
Film, Baltimore, John Hopkins University Press, 1989. Cfr. anche Clyde Taylor, Black Cinema
in the Post-aesthetic Era, in Jim Pines, Paul Willemen (a cura di), Questions of Third Cinema,
London, British Film Institute, 1989, pp. 99-110; cfr. Mikhail Bakhtin, The Dialogical
Imagination, Austin, University of Texas Press, 1981 e Speech Genres and Other Late Essays,
Austin, University of Texas Press, 1986.

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344 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

al potere economico e decisionale del capitalismo postfordista, capace di


204
evidenziarne il «potenziale politico e la forza ideologica» .
Le possibilità discorsive rappresentate dall’intersecarsi di differenti ele-
menti di opposizione (sesso, razza, imperialismo) si moltiplicano mettendo
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in discussione un femminismo occidentale che, lavorando soprattutto sul


genere, esercita a sua volta una colonizzazione “discorsiva” rapportandosi
205
alla loro differenza come fattore immodificabile e fuori dalla storia . Una
differenza usata, secondo Trinh T. Minh-ha, come «strumento di auto-
difesa e di conquista», e all’interno della quale l’immagine della donna
coincide con quella della nativa nel contesto dell’antropologia neocoloniali-
206
sta . Ciò non significa che il genere non conservi una sua validità come
soggetto di un cinema postcoloniale che vuole mettere a fuoco e ridefinire
il problema dell’identità e nella riflessione sul volto patriarcale (e bianco)
del colonialismo e del neocolonialismo: destabilizzare il genere non è
soltanto una sfida alla “naturalizzazione” della subordinazione delle donne,
ma è destabilizzare la posizione stessa del colonizzatore. Da un Terzo
Mondo rivendicato in quanto definizione che corrisponde a un’autoaffer-
mazione –

il termine non indica semplicemente un rapporto culturale ed economico


di tipo gerarchico tra paesi del “primo” e del “terzo” mondo, ma sottolinea
intenzionalmente una storia di colonizzazione e i rapporti attuali di
dominio strutturale tra popoli del primo e del terzo mondo. Attingendo
alla storia delle lotte antirazziste e antimperialiste nel mondo, il termine
terzo mondo è anche una forma di autorafforzamento207–

204
Janice R. Welsch, Bakhtin, Language, and Women’s Documentary Filmaking, in Diane
Carson, Linda Dittmar, Janice R. Welsch (a cura di), Multiple Voices in Feminist Film Criticism,
cit., pp. 162-175, p. 163.
205
Cfr. Cheryl Johnson-Odim, Common Themes, Different Contexts: Third World Women and
Feminism, in Chandra Talpade Mohanty, Ann Russo, Lourdes Torres, Third World Women
and the Politics of Feminism, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 1991,
pp. 314-327; Chandra Talpade Mohanty, Introduction Cartographies of Struggle. Third World
Women and the Politics of Feminism, ivi, pp. 2-47 e Under Western Eyes: Feminist Scholarship and
Colonial Discourse, «Boundary», vol. 2, n. 12-13, estate-autunno 1984, ora ivi, pp. 51-80; [tr. it.
Sotto gli occhi dell’Occidente: Saperi femministi e discorsi coloniali, in Maria Teresa Chialant,
Eleonora Rao (a cura di), Letteratura e femminismi. Teorie della critica in area inglese e
americana, cit., pp. 357-367].
206
Trinh T. Minh-ha, “Difference”: A Special Third World Woman Issue, «Discourse», n. 8,
autunno-inverno 1986-1987, pp. 10-37, cit. in Nicola Graves, Third World and Third World
Women, primavera 1996, www.emory.edu/english/bahri/thirdworld.html
207
Dalla prefazione al volume a cura di Chandra Talpade Mohanty, Ann Russo, Lourdes
Torres, Third World Women and the Politics of Feminism, cit., pp. IX-XI, p. X.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 345

le femministe respingono ogni definizione essenzialista o specularmente


opposta alle categorie del femminismo occidentale proponendo dei modelli
aperti, a partire dalle proprie narrazioni. Ed è qui, in questa nuova politiciz-
zazione del personale, che in qualche modo, per il momento, forse solo per
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un momento, si chiude il cerchio. L’orizzonte della teoria e quello della


politica coincidono nuovamente a cavallo del nuovo millennio, quando da
tutti i continenti, da tutti i mondi (compreso il Quarto, che vede i popoli
indigeni prendere in mano le videocamere per raccontare e difendere la
loro identità) sorgono voci di protesta e gesti di ribellione contro le scelte
del capitalismo globale. In questo senso, molte parole d’ordine e molti
concetti accomunano il movimento femminista e gli altri movimenti di
opposizione, la teoria femminista e gli studi sul postmoderno e sul postco-
lonialismo, due realtà, queste ultime, che non solo convivono ma direi
convergono se solo adottiamo un punto di vista resistente: il concetto di
“comunità immaginata” spezza le gerarchie e genera alleanze tra le donne
del Terzo Mondo «come categoria politica e analitica» (e dunque non
come soggetto monolitico, quale è assunta da alcuni testi del femminismo
208
occidentale ) in lotta «contro il razzismo, il sessismo, il colonialismo,
l’imperialismo e il capitale monopolistico», alleanze il cui potenziale poli-
tico è molto lontano da determinanti di tipo biologico o da “indicatori
sociali” non adatti a interpretare le loro vite. Cosı̀, scrive Chandra Talpade
Mohanty, le donne delle comunità nere e del Terzo Mondo in Inghilterra
teorizzano a partire dalla “linea del colore”, un colore comune, condividen-
done alcune questioni decisive, un contesto comune di lotta, la necessità di
esprimere la propria alterità collettiva rispetto a un contesto oppressiva-
209
mente unificante come quello della nazione britannica . Comunità attra-
versate da stesse motivazioni e stessi desideri e che trovano nel loro modo
di vivere, di organizzarsi e di pensare ulteriori motivazioni e collegamenti
che sono parte di uno stesso pensare il potere coloniale non come entità
ma come processo attraverso il quale è possibile stabilire motivazioni e
strategie. La complessa “cartografia” sviluppata da Talpade Mohanty, rin-
traccia negli scritti delle donne del Terzo Mondo una serie di snodi
condivisi e decisivi:

208
Cfr. Chandra Talpade Mohanty, Sotto gli occhi dell’Occidente, cit., p. 357.
209
Chandra Talpade Mohanty, Indroduction. Cartographies of Struggle. Third World Women
and the Politics of Feminism, cit., pp. 4-6 e 9. Rispetto al suo progetto di teorizzazione del
femminismo, l’autrice riconosce il proprio debito nei confronti di de Lauretis e Sylvia
Winter.

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346 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

1) l’idea della simultaneità delle oppressioni come fondamentale per


l’esperienza della marginalità politica e sociale e il radicamento della
politica femminista nelle storie del razzismo e dell’imperialismo; 2) il ruolo
cruciale di uno stato egemonico nel circoscrivere le loro/nostre vite e le
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lotte per la sopravvivenza quotidiana; 3) l’importanza della memoria e


della scrittura nella creazione di un’agenzia oppositiva; e 4) le differenze, i
conflitti, le contraddizioni interne alle organizzazioni e alle comunità delle
donne del Terzo Mondo. In più esse hanno insistito sulla complessità dei
rapporti tra femminismo, antirazzismo e lotte nazionali. Di fatto, la sfida
delle donne del Terzo Mondo al femminismo bianco, occidentale, è
consistita in questo imprescindibile legame tra femminismo e movimenti
di liberazione210.

Se il controcinema delle donne negli anni Settanta e Ottanta articola le


211
sue strategie e ipotizza un’estetica alternativa, sperimentale , a partire dall’e-
sperienza delle avanguardie e in quanto movimento di opposizione, il salto
che le femministe del Terzo Mondo impongono è teorico e politico al
tempo stesso. Certo è un salto che non sarebbe stato possibile senza la
costruzione di un nuovo soggetto sociale, le donne, e, per quanto ci
riguarda qui più da vicino, senza le strategie implicate in questa stessa
costruzione: un’opera, un testo, un film che, come scrive de Lauretis, si
rivolgono al suo lettore/spettatore in quanto donna. Per questo ancora de
Lauretis, correndo il rischio di polemiche antirealiste, può definire Jeanne
Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles un ritratto «di esperienza
femminile, di durata, percezioni, eventi, relazioni e silenzi sentiti come im-
mediatamente e indiscutibilmente veri». Cogliendo il senso profondo di
questa opposizione estetica/politica messa in luce da numerose pensatrici
(Bovenschen, Mulvey, le cineaste d’avanguardia), un’opposizione che vede
imprigionata nel paradigma teorico hegeliano o lacaniano soggetto/og-
getto, de Lauretis ribadisce la necessità teorica di una ridefinizione dell’este-
tica, delle condizioni e delle forme di visione per un altro soggetto sociale,
in continuità con una tensione che attraversa tutti i testi femministi sul
cinema per la quale «la questione di un linguaggio filmico o di un’estetica

210
Ivi, p. 10.
211
Cfr. Lisa Cartwright e Nina Fonoroff, Narrative is Narrative: So What Is New?, cit., p.
137: «proponendo una pratica femminista, proponiamo una pratica necessariamente speri-
mentale», scrivono le autrici, analizzando una serie di strategie sovversive all’interno della
pratica filmica, dalla citazione allo spostamento del significante attraverso la presenza di
identità “elusive”, di apparenze o archetipi organizzati da un testo che rende ambiguo il
processo di identificazione, alle alterazioni nello sviluppo della narrazione, agli slittamenti
diegetico/non diegetico.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 347

femminista è sempre stata articolata fin dall’inizio in rapporto al movi-


mento delle donne». In questo senso quella che è potuta apparire una
dissociazione tra teoria e pratica o tra formalismo e attivismo è, per de
212
Lauretis, l’inclinazione produttiva ed eterogenea del femminismo . Se il
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problema, come scrivono Doane, Mellencamp, Williams, è «vedere diversa-


mente la differenza», spostare il fuoco dall’“immagine” delle donne all’asse
stesso della visione, dalla differenza come oppressione alla differenza come
possibilità di cambiamento, questo cambiamento, conclude de Lauretis
ribadendo un’istanza sempre presente nel suo discorso sul genere – e
raccogliendo le sollecitazioni delle femministe nere che, come bell hooks e
Barbara Smith, mettono radicalmente in discussione gli assunti del femmi-
nismo bianco che sembrano ignorare le diverse esperienze di oppressione
all’interno di gruppi sociali o di comunità etniche –, deve estendere la
comprensione della differenza non solo in quanto differenza tra i sessi ma
in quanto differenza tra donne: «ci sono diverse storie di donne: ci sono
donne che si mascherano e donne che indossano il velo; donne invisibili
per gli uomini nelle loro società, ma anche donne invisibili per le altre
213
donne, nella nostra società» . Mentre tutte le categorie delle scienze sociali
vengono riformulate a partire dalla definizione di soggetti sociali ingenerati,
gli stessi soggetti che sono iscritti nei testi del cinema femminista, e il
cinema femminista si sposta da un’«estetica di sovversione moderna o di
avanguardia» alla focalizzazione di una serie di questioni inerenti la rappre-
sentazione che possono o meno essere definite estetiche postmoderne o
postmoderniste (perché molti dei termini che usiamo «quando parliamo
della costruzione del soggetto sociale donna nella rappresentazione filmica
portano nella loro forma visiva il prefisso de- per segnalare la decostruzione
o la destrutturazione, se non la distruzione, della cosa stessa da rappresen-
tare»), la teoria femminista non ha ancora sufficientemente messo a fuoco
questo processo del guardare a noi stesse. Ma un elemento sicuramente
nuovo e promettente, conclude de Lauretis, è lo spostamento da un’estetica
centrata sul testo e sui suoi effetti sullo spettatore a un’estetica della

212
Teresa de Lauretis, Rethinking Women’s Cinema: Aesthetics and Feminist Theory, in Diane
Carson, Linda Dittmar, Janice R. Welsch (a cura di), Multiple Voices in Feminist Film Criticism,
cit., pp. 140-161, p. 148. Per una precedente versione del saggio vedi nota 17.
213
Ivi, p. 149: de Lauretis fa riferimento a quanto scrivono Mary Ann Doane, Patricia
Mellencamp e Linda Williams in Re-Vision: Feminist Essays in Film Analysis, cit., p. 4,
Adrienne Rich, On Lies, Secrets, and Silence, cit., p. 35, Barbara Smith, Toward a Black Feminist
Criticism, in G.T. Hull, P. Bell Scott, B. Smith (a cura di), All the Women Are White, All the
Blacks Are Men, but Some of Us Are Brave, cit.

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348 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

ricezione che si differenzia da un’analoga pulsione presente nel moderno


nel momento in cui concepisce il pubblico «nella sua eterogeneità e alterità
214
rispetto al testo» . Ecco perché hooks può scrivere rispetto alle posizioni
di Mulvey e alla sua definizione di “attivo/maschile e passivo/femminile”
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come sistema degli sguardi nel cinema dominante che le spettatrici nere, a
partire dalla consapevolezza della politica della razza e del razzismo,
possono sviluppare uno «sguardo oppositivo» scegliendo attivamente di non
identificarsi con il soggetto immaginario del film perché tale identificazione
è disabilitante. Non identificandosi né con la vittima né con il carnefice,
hanno creato uno spazio critico in cui l’opposizione binaria “donna come
immagine, uomo come portatore dello sguardo” viene continuamente
decostruita. Una teoria, quella di Mulvey, radicata in una «cornice astorica-
mente psicanalitica che, privilegiando la differenza sessuale, sopprime il
riconoscimento di razza, riattivando e rispecchiando la cancellazione della
femminilità nera che si verifica nei film e mettendo a tacere ogni discus-
sione sulla differenza razziale o sulla differenza sessuale razzializzata». In
questo senso anche la definizione di “spettatore resistente” avanzata da
Diawara (e da altri studiosi neri postcoloniali) non è, per bell hooks,
adeguata per le spettatrici del cinema femminista nero:

noi creiamo testi alternativi che non sono semplicemente reazioni. I film
delle femministe nere offrono nuovi spazi di riconoscimento incorporando
la visione di Stuart Hall di una pratica critica che riconosce che questa
identità è costituita «non fuori ma dentro la rappresentazione» e che ci
invita a vedere il film non come «uno specchio di seconda qualità
chiamato a riflettere ciò che già esiste, ma come forma di rappresenta-
zione capace di costituirci come nuovi tipi di soggetti e che dunque ci
consente di scoprire ciò che siamo»215.

Quando Radhika Mohanram parla di «cartografie dei corpi», parla


ancora del nero opposto al bianco: non per ridare fiato al binarismo della
vecchia visione essenzialista ma per guardare al nero come «pratica discor-
siva esercitata dalla confluenza di storia, cultura, economia, geografia e
linguaggio, che condiziona la funzione enunciativa». Nero non soltanto
come schiavitù, ma come resistenza e decolonizzazione, nero come «corpi
di donne che intrecciano luogo, razza e genere», il “continente nero” di

214
Ivi, pp. 158 e 154.
215
bell hooks, Black Looks. Race and Representation, London, Turnaround, 1992, pp.
122-124 e 128-131.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 349

Freud, nero come identità diasporica e identità indigena, «l’identità della


donna nella nazione e la costruzione spaziale della femminilità, l’identità
del corpo nero e la sua relazione naturale con la natura e il paesaggio come
opposti a quella del corpo bianco e nel suo rapporto con la conoscen-
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216
za»... Come per Fanon non può darsi uomo nuovo che a partire dal
rifiuto di una radice che affonda nell’assolutismo culturale di una mitologia
colonialista fondata sul predominio di un gruppo predestinato, di una
cultura presentata come una iscrizione che «privilegia i fondamenti (fisico e
discorsivo insieme) di ordine e tassonomia nel territorio e nei corpi dei
colonizzati», e dalla creazione di una «politica di identità che nascano dalle
decisioni del soggetto» per la quale l’opposizione alla cultura coloniale
diviene «lotta in un territorio libero da radici», «perché non c’è permanenza
possibile quando s’inaugura una nuova forma di nomadismo», «una cultura
217
disponibile alle molteplicità e alle linee di fuga» , cosı̀ per le femministe
nere (o non bianche) è possibile parlare di una nuova estetica, una controe-
stetica a partire appunto dalla molteplicità della loro enunciazione. Come fa
bell hooks: alla prospettiva “post-estetica” di Taylor, per il quale l’estetica
avendo funzionato come un linguaggio all’interno del quale codificare le
opere va considerata come un «sistema di eredità culturale che legittima i
possessori e delegittima gli spossessati», un sistema che per essere “parlato”
richiede una conoscenza della cultura occidentale e del suo retroterra
teorico, per cui è necessario spostarsi dalle estetiche alternative degli anni
Sessanta, che inscrivevano nuovi contenuti in categorie preesistenti senza
che queste ultime fossero messe in discussione a una «scienza dei sistemi
umani», capace di recuperarne le dimensioni represse, quelle creatività che
hanno, come scrive Jacques Maquet, «loci diversi in società diverse, e che
sono disposte, percepite e valutate in situazioni culturali in cambiamen-
218
to» , hooks oppone una controestetica che ponga «in discussione le
nozioni estetiche del moderno, senza tuttavia rifiutare il discorso sull’esteti-
ca», una «pratica, per sua natura interdisciplinare, sensibile a forme culturali
politicamente impegnate (ad esempio l’arte femminista) o radicate nel
vernacolo – vale a dire forme che negano l’idea di una sfera estetica privi-

216
Radhika Mohanram, Black Body. Women, Colonialism and Space, cit., pp. XIII-XV.
217
Alejandro De Oto, “Escapes” and Displacements: Notes on Frantz Fanon’s Oppositional
Discourse, El Colegio De México, CEAA, www.thecore. nus.edu.sg/landow/post/poldi-
scourse/fanon/escapes3.html
218
Clyde Taylor, Black Cinema in the Post-aesthetic Era, cit., pp. 97-98. In particolare Taylor
fa riferimento a quanto a tale proposito scrive Sylvia Winter (The Ceremony Must Be Found:
After Humanism, «Boundary», n. 2, primavera-estate 1984, pp. 19-70).

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350 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

legiata», fuori dalla storia, senza obiettivi, e che si limiti a guardare il mondo
come una totalità simbolica: la cultura bianca non è “il” luogo di origine
219
della discussione sull’estetica, ma solo «un luogo tra gli altri» .
Il femminismo contemporaneo, dunque, estende quella dimensione
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geopolitica del cinema che, nata dall’esperienza terzomondista e tricontinen-


tale (come la definiva Rocha) del Terzo Cinema, raccogliendo e svilup-
pando il pensiero di Césaire, Fanon, Gilroy, Bakhtin, Appadurai, Said,
Clifford, Bhabha, enfatizzando le esperienze di un cinema politico di
“minoranza” nel senso deleuziano, le cui pratiche sono pratiche di attraver-
samento di identità e confini, atti di fabulazione, di enunciazione collettiva,
ha teorizzato modelli alternativi e dinamici di sincretismo e un approccio
translinguistico capaci di ridefinire i rapporti tra testo e contesto, autore e
spettatore nel segno della differenza e delle differenze. In questo senso è
possibile, come fa per esempio Shohat, ripercorrere la storia del discorso
coloniale e postcoloniale nel cinema assumendo come punto di vista quello
dei rapporti tra i generi: tutto il discorso occidentale ed eurocentrico sulla
civiltà e sulla “civilizzazione”, dove le metafore di genere – il non-
occidentale come vergine, femminile, “terra incognita” da scoprire, nomi-
nare, penetrare, civilizzare – hanno un ruolo cruciale «nel costruire il “su-
220
balterno” coloniale», è, nel suo stesso generarsi, fallocentrico . In questo
senso, anche, il contributo della Feminist Film Theory agli studi sul postco-
lonialismo mantiene una propria originalità e autonomia nel momento in
cui trasforma in nuovo strumento analitico le teorie sulle strutture dello
sguardo maschile ponendole in parallelo con quelle dello “sguardo imperia-
le”. Fanon, Bhabha, Stuart Hall, Stam e Spence hanno mostrato come lo

219
bell hooks, Yearning: Race, Gender and Cultural Politics, London, Turnaround, 1991; [tr.
it. (estratto) in Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Milano, Feltrinelli, 1998, pp.
56-57]: «lavorando da una posizione dove differenza e alterità sono riconosciute come forze
che intervengono nella teorizzazione occidentale sull’estetica a riformulare e trasformare i
termini della discussione, gli africani-americani sono legittimati a rompere con vecchi modi
di vedere la realtà secondo i quali ci sarebbe un solo pubblico per le nostre opere e un solo
metro estetico per misurarne il valore. Liberandoci dalla camicia stretta del nazionalismo
culturale, ci lasciamo alle spalle anche il postulato razzista in base al quale le produzioni
culturali dei neri possono avere una rilevanza e un significato “autentici” solo per un
pubblico di neri».
220
Cfr. Ella Shohat, Gender and Culture of Empire: Toward a Feminist Ethnography of the
Cinema, «Quarterly Review of Film and Video», nn. 1-3, 1991, pp. 45-84, ora in Matthew
Bernstein, Gaylyn Studlar (a cura di), Visions of the East. Orientalism in Film, New Brun-
swick/N.J., Rutgers University Press, 1997, pp. 19-68; cfr. anche Robert Stam, Ella Shohat,
Unthinking Eurocentrism. Multiculturalism and the Media, London and New York, Routledge,
1994.

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TRAVERSARE LE DIFFERENZE 351

sguardo destabilizzante dell’Altro è direttamente in rapporto con il deside-


rio: un desiderio, chiarisce Kaplan, che va inteso come processo e come
relazione interculturale, «poiché la fascinazione dello sguardo ha a che fare
con la proibizione storica nelle culture occidentali del guardare interrazzia-
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221
le», del sesso interrazziale . Lo sguardo interrazziale, scrive ancora Kaplan,
è inseparabile dalle specificità culturali locali e globali e dalla formazione
delle soggettività: interrogarsi sulla natura di questo sguardo è fare i conti
con soggetti ibridi e multipli, i soggetti-tra, i soggetti ai margini di cui
dicono le cineaste e i cineasti indipendenti, è fare i conti con il viaggio. È
scoprire che termini come cultura e nazione acquistano un significato
diverso, e un nuovo mondo immaginato in cui «la bianchezza è irrilevante»
e l’«immaginazione è un processo, una relazione piuttosto che uno sguar-
222
do» . Un’estetica diasporica, una pratica dialogica: raccontare, scrive Trinh
T. Minh-ha, una storia

che non finisce mai di cominciare o di finire. Che appare senza capo né
coda perché è costruita su differenze. La sua (in)finitezza sovverte ogni
nozione di completezza e la sua cornice rimane non totalizzabile. Le
differenze che porta con sé sono differenze non solo nella struttura, nel
gioco di strutture e di superfici, ma anche nel timbro e nel silenzio. Noi –
tu e io, lui e lei, noi e loro – siamo diversi nel contenuto delle parole, nella
costruzione e tessitura delle frasi ma soprattutto, credo, nella scelta e nella
mescolanza di pronunce, usi, toni, velocità, tagli, pause. La storia circola
come un dono; un dono vuoto che ognuno può avanzare il diritto di
riempire a piacimento, ma che non può mai possedere veramente. Un
dono costruito sulla molteplicità. Che rimane inesauribile dentro i suoi
stessi limiti. Le sue partenze e arrivi. La sua quiete223.

Genealogie... Più volte ho tirato il fiato, ho ripreso e interrotto più volte


questo saggio che avrei voluto raccontare e che forse non poteva essere
raccontato... Non è storia e non è cinema, non ha il rigore dell’una e la
carica dirompente dell’altro, teso com’è tra l’ansia cognitiva dei concetti e il
loro valore politico. La comprensione è un evento e gli eventi si costrui-
scono politicamente. Deleuze l’ha mostrato una volta per tutte, come bene
mette in luce Shapiro ricordando con Foucault che la critica in senso
postkantiano è etica e politica al tempo stesso: resistere a una resa cognitiva

221
E. Ann Kaplan, Looking for the Other. Feminism, Film, and Imperial Gaze, cit., p. XIX.
222
Ivi, p. 14.
223
Trinh T. Minh-ha, Woman, Native, Other. Writing Postcoloniality and Feminism, Bloo-
mington and Indianapolis, Indiana University Press, 1989, p. 2.

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352 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

della temporalità degli eventi-come-attualizzazione è resistere al dogmati-


smo, cioè alla pretesa che il pensiero sia affine alla verità. I pensieri
esprimono gli eventi, per questo sono lontani dall’esercizio del senso co-
mune. Resistendo alla rappresentazione e al riconoscimento il pensiero,
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dandoci un senso non comune, ci mette in condizione di mappare e


224
trattare criticamente le forze che informano il tempo e il valore . Forse
questa è una mappa, una mappa che ho tentato di tracciare resistendo alle
mie stesse resistenze, forse perché so, intuisco, che gli attraversamenti
spesso conducono a punti di non ritorno...
Per la terza notte la guerra accende di nuovo il cielo di Bagdad. Sono
contro la guerra, sono per la pace. Da adolescente, era il ’66 o il ’67, la
guerra stava coi miei quattordici anni sulla maglietta nuova “non faccio la
guerra faccio l’amore” comprata contrassegno, la guerra erano stati i ricordi
di mia madre, la guerra adesso si chiamava Vietnam...
E ancora un pensiero: il libro di Hardt e Toni Negri, uno dei più
discussi sull’Impero, termina con una chiusa francescana; il saggio di
Kristeva, al quale ci siamo ispirate per il titolo di questo volume, si
conclude cosı̀:

GIACCHÉ L’ETICA ERETICA DISSOCIATA DALLA MORALE, L’E-


RETICA, ALTRO FORSE NON È SE NON CIÒ CHE, NELLA VITA,
RENDE I LEGAMI, IL PENSIERO E DUNQUE IL PENSIERO DELLA
MORTE, SOPPORTABILE: ESSA È A-MORTE, AMORE... EIA MA-
TER, FONS AMORIS...225

Palermo, Parigi, Londra, Roma, Palermo, 21 marzo 2003, primo giorno


di primavera...

224
Michael J. Shapiro, Cinematic Political Thought: Narrating Race, Nation and Gender,
Edinburgh, Edinburgh University Press, 1999, pp. 1-7, in particolare a p. 7.
225
Michael Hardt, Antonio Negri, Empire, Cambridge/Mass. and London, Harvard Uni-
versity Press, 2000; [tr. it. Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002].
Julia Kristeva, He´re´tique de l’amour, «Tel Quel», n. 74, 1977; [tr. it. Eretica dell’amore, in Eretica
dell’amore, cit., pp. 5-30, p. 30].

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RICONOSCERE/RAPPRESENTARE

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L’IMMAGINE E LA VOCE:
APPROCCI ALLA CRITICA CINEMATOGRAFICA
MARXISTA-FEMMINISTA

di Christine Gledhill

Una delle principali preoccupazioni di ogni gruppo oppresso impegnato


nella lotta politica è quella di contestare la rappresentazione dei mezzi di
comunicazione. La teoria marxista-femminista del film e dei mezzi di
comunicazione si è sviluppata lungo due filoni, a volte sovrapposti e a volte
divergenti, che enfatizzano rispettivamente l’immagine e la voce. Il presente
saggio esamina questi due filoni, concludendo con alcune ipotesi riguar-
danti i futuri sviluppi.

Immagine e realtà
Negli anni Sessanta, la politica di sinistra ha mostrato un crescente interesse
per la cultura come luogo di lotta ideologica, sviluppando il concetto
dell’ideologia per spiegare l’apparente fallimento della rivoluzione della
classe operaia profetizzata dal marxismo. Una definizione elementare del
termine ideologia la identifica come qualsiasi sistema particolare di cre-
denza usato per spiegare la società. Marx, però, ha fatto notare che,
possedendo i mezzi di produzione, la classe dominante controlla non solo
1
la ricchezza della società ma anche la produzione delle sue idee . Le idee

Image and Voice: Approaches to Marxist-Feminist Film Criticism, in Diane Carson, Linda
Dittmar, Janice R. Welsch (a cura di), Multiple Voices in Feminist Film Criticism,
Minneapolis, University of Minnesota Press, 1994, pp. 109-123.
1
Karl Marx, Friedrich Engels, The German Ideology, London, Lawrence and Wishart,
1974; [tr. it. L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1958].

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356 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

costituite della società borghese rappresentano in modo distorto i rapporti


di classe, facendo apparire naturale il predominio della classe dominante:
da qui il concetto dell’ideologia dominante e il suo corollario, la falsa
coscienza, per cui la classe operaia accetta l’ineguaglianza come parte
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dell’ordine naturale.
Ai suoi inizi, la politica culturale femminista si concentrò sulle immagini
delle donne che circolavano nei mezzi di comunicazione. Le femministe
attaccarono la presentazione di un’immagine falsata, sostenendo che la
creazione di uno stereotipo del genere esprimeva e al tempo stesso norma-
lizzava l’ineguaglianza sessuale patriarcale. In queste polemiche, la micidiale
combinazione di fantasia patriarcale e capitalismo consumistico trasforma
la donna in quanto oggetto sessuale in un congegno di compra-vendita.
Questo processo non è stato analizzato solo in ambito pubblicitario ma
anche nei film hollywoodiani che, attingendo dagli stereotipi di genere pro-
fondamente radicati e esponendo la cornucopia del capitalismo, mostrano
la donna come oggetto del desiderio maschile e al contempo invitano il
pubblico femminile a consumare. Contro l’immagine, lo stereotipo, l’og-
getto sessuale e la fantasia, la prima critica femminista chiedeva la rappre-
sentazione di “donne vere”, di donne come sono o come potrebbero essere
nella realtà. Il problema ideologico veniva individuato nella produzione
commerciale hollywoodiana di intrattenimento di massa. Il cinema d’arte
europeo, organizzato intorno all’artista creativo e a un pubblico della classe
media, appariva libero di trattare il film come una forma d’arte capace di
esplorare i rapporti umani reali. Da tale contrapposizione emerse la ricerca
di immagini positive delle donne – realistiche ma anche liberate – per
2
contestare gli stereotipi negativi dei mezzi di comunicazione di massa .
Questa doppia contrapposizione, ossia positivo/realista contro negati-
vo/stereotipato, in seguito si rivelò problematica.
In primo luogo, il marxismo contesta le concezioni idealiste e essenzia-
liste della realtà. Il materialismo marxista non analizza la realtà in quanto
esperienza individuale, fenomeni empirici o percezioni spirituali, bensı̀
come produzione storica di forze socioeconomiche contraddittorie. Un
primo modello marxista di società prevedeva una “base” economica che
3
reggeva una “sovrastruttura” culturale/ideologica . Mentre l’umanesimo li-

2
Vedi la rivista cinematografica femminista degli inizi «Women & Film»; per es. Christine
Mohanna, A One-Dided Story: Women in the Movies, «Women & Film», n. 1, 1972.
3
Vedi Sylvia Harvey, Ideology: The “Base and Superstructure” Debate, in Terry Dennett, Jo
Spence (a cura di), Photography/Politics: One, London, Photography Workshop, 1979.

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L’IMMAGINE E LA VOCE 357

berale sostiene che il progresso della civiltà risiede nello sviluppo di idee da
parte di individui ispirati, Marx afferma l’inverso: le forme sociali e culturali
sono determinate dai mezzi con cui una data società produce la vita
materiale. Le contraddizioni che si sviluppano tra forze e rapporti sociali di
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produzione forniscono la dinamica del cambiamento storico e dello svi-


luppo. Per esempio, lo sfruttamento dei materiali e dei processi di produ-
zione industriale si fonda sull’accumulo di una forza lavoro i cui interessi
collettivi contraddicono la proprietà privata e il profitto. Gli effetti di queste
contraddizioni possono essere sentiti nella vita quotidiana – per esempio,
negli scioperi e nelle serrate – ma la loro azione e le loro interrelazioni
all’interno di una totalità sociale possono esser comprese solo in teoria.
Similmente, se l’esperienza personale di oppressione porta le donne a
interrogare alcuni aspetti del nostro mondo e a opporsi ad essi, solo la
struttura teorica del femminismo che si sta sviluppando ci consentirà di
analizzare le forze storiche del patriarcato e quindi di formulare gli stru-
menti per il cambiamento. In questo senso, il significato della donna non è
immanente al mondo e in attesa di essere rivelato. La “donna” è una
dinamica socio-sessuale prodotta dalla storia.
Un cambiamento nella concezione della realtà richiede un cambia-
mento corrispondente nelle pratiche estetiche che cercano di rappresen-
tarla. Il primo modello marxista di una sovrastruttura culturale determinata
da una base economica, però, perpetuava il modello “riflessivo” umanista
liberale dei rapporti tra cultura e società piuttosto che sfidarlo. Tuttavia,
mentre gli approcci idealisti presumono che la cultura rifletta la verità, il
primo marxismo sostiene che la cultura borghese, invertendo il rapporto tra
idee e società, offra riflessi distorti. Di conseguenza, con l’attenzione posta
all’inizio sulle “immagini” delle donne si contestava la cultura borghese per
ciò che rifletteva piuttosto che per la premessa della riflessione stessa. Per
esempio, spesso si afferma che il fascino della star del cinema riflette una
distorsione della femminilità richiesta dal consumismo e dal patriarcato; o
che la donna fatale del film noir, minacciosamente indipendente e ritual-
mente esorcizzata dalla trama, riflette il bisogno del capitalismo postbellico
di allontanare la donna dalla produzione industriale. Si sosteneva che in
genere tali stereotipi sessisti rispecchiavano il dominio maschile dei mezzi
di comunicazione. Un corollario di questa visione esigeva che, per cambiare
l’immagine delle donne, le donne controllassero i mezzi di comunicazione.
Tale approccio venne messo in discussione dall’estetica neo-marxista
degli anni Settanta. In primo luogo, esso alimenta l’idea che i produttori dei
mezzi di comunicazione cospirano consapevolmente per indottrinare un

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358 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

pubblico di massa in larga misura passivo. Comunque le descrizioni delle


relazioni sociali reali offerte dai marxisti o dalle femministe raramente
dissolvevano la falsa percezione inculcata dai mezzi di comunicazione.
Secondo le femministe questo valeva in modo particolare per l’ideologia
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patriarcale, in cui l’amore romantico, la famiglia, la maternità uniscono i


sessi in un rapporto diseguale a livello sia emotivo sia economico. Alla base
dell’opposizione, qui implicata, tra ideologia e realtà, stereotipi e donne
reali, verità e fantasia, vi sono tre assunti problematici: primo, che la
comprensione femminista del mondo reale può essere promossa facendo
appello alle esperienze che si presume siano condivise da tutte le donne;
secondo, che il linguaggio e la forma siano trasparenti, agendo da veicoli
per una riflessione accurata della realtà; e terzo, che la rappresentazione
della realtà dovrebbe essere il fine principale dell’arte e dello spettacolo. Nel
corso degli ultimi due decenni di estetica marxista-femminista, ciascuno di
questi assunti è stato messo in discussione ed è stato proprio il terzo a
rivelarsi più resistente.

Il mondo reale, la produzione di fiction e l’ideologia


All’inizio la sfida è emersa dal cambiamento del centro d’interesse della
stessa teoria del film, che alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta
si spostò gradualmente dall’autore al genere. Cercando di considerare
Hollywood come spettacolo di massa, la teoria di genere ridimensionò
l’estetica realista umanista che supportava la centralità attribuita dalla teoria
4
dell’autore alla visione personale dell’artista creativo . Mentre il realismo
esige vita reale, verità, autenticità e credibilità, la produzione di genere è
stata in larga misura respinta in quanto fonte di convenzioni, stereotipi,
5
trame secondo formula, cliché e ideologie . Secondo le femministe, i generi
hollywoodiani producevano eroi virili e un posto subordinato, reificato per
6
le donne . La nuova critica di genere, però, ha messo in rilievo l’importanza
della dimensione formale e codificata del film a soggetto, dove le conven-
zioni di genere si evolvono secondo le proprie storie e logiche interne e

4
Vedi in particolare Lawrence Alloway, Violent America, New York, Museum of Modern
Art, 1971 e Iconography of the Movies, in Ian Cameron (a cura di), Movie Reader, London,
November Books, 1972.
5
Judith Hess, Genre Film and the Status Quo, in Barry Grant (a cura di), Film Genre: Theory
and Criticism, Metuchen/N.J., Scarecrow Press, 1977.
6
Jacqueline Levitin, The Western: Any Good Roles for Women?, «Film Reader», n. 5, 1982.

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L’IMMAGINE E LA VOCE 359

offrono al regista un differente tipo di risorsa estetica. Da questo punto di


vista è inappropriato giudicare le convenzioni della trama e i tipi di
personaggio di genere a fronte del mondo reale. Se i generi si rapportano
solo indirettamente alla realtà, per i marxisti e le femministe la domanda
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che si poneva era a quale livello poter individuare i loro significati ed effetti
ideologici.
Questa domanda richiedeva una rottura con la tradizione letteraria
umanista, la quale presume che i dispositivi artistici e le strutture narrative
siano i veicoli di significati che riflettono la condizione umana. In tale
tradizione la forma esprime metaforicamente la visione della vita dell’arti-
sta. L’interpretazione letteraria umanista dipende dal realismo psicologico
manifestato nel personaggio a tutto tondo, complesso e individualizzato, in
opposizione allo stereotipo o al tipo sociale. I personaggi vengono analiz-
zati sulla base di come noi pensiamo che la gente reagisca e si comporti
nella vita reale. Studenti e critici diventano psicologi dilettanti. La riabilita-
zione delle convenzioni nella critica di genere che ha posto in primo piano
la presenza e il ruolo di regole e codici di fiction ha messo in discussione
l’idea del cinema come riflesso diretto del mondo o della visione dell’artista.
Questa messa in discussione è stata rafforzata dalla riscoperta della
critica formalista russa da parte della teoria del film, nonché dallo sviluppo
della semiotica e dello strutturalismo. Il formalista Viktor Šklovskij, per
esempio, sosteneva che la funzione della forma estetica non è di riflettere
ma di distorcere o straniare gli aspetti normali, quotidiani. Il dispositivo
artistico blocca il riconoscimento automatico e ci consente di vedere in
7
modo diverso . La semiotica va oltre, affermando che parole e immagini
sono segni che hanno significato non perché rispecchiano una realtà
preesistente, ma per la loro collocazione e funzione strutturale in un
8
sistema linguistico o semiotico . Il mondo non fornisce parole e immagini
con un significato; piuttosto sono i linguaggi verbali e visivi che, artico-
lando e nominando, danno significato al mondo. Cosı̀ il significato non è
riflesso ma prodotto.
Lo scopo di questo nuovo progetto critico era in primo luogo un
maggior rigore, che esigeva che prima di valutare il contenuto di un film si
prestasse più attenzione alle specificità della produzione filmica e in parti-

7
Viktor Šklovskij, Art as Tecnique, in Russian Formalist Criticism, a cura di Less T. Lemone
Marion J. Reis, Lincoln, University of Nebraska Press, 1965; [tr. it. L’arte come procedimento,
in Tzvetan Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968].
8
Terence Hawkes, Structuralism and Semiotics, rist. London, Routledge, 1991.

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360 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

colare a come il personaggio fosse prodotto dalle operazioni testuali come


racconto, trama e messa in scena. Ma questo implicava anche l’analisi di un
diverso ordine di significato. La sostituzione del termine riflesso con il
termine produzione creò un nesso concettuale tra l’analisi marxista della
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struttura sociale e l’analisi formale di strutture semiotiche, narrative e


generiche. Al posto del riflesso artistico della vita emerse il concetto di
produzione di fiction e con esso il suggerimento che l’ideologia borghese e
patriarcale fosse incorporata nelle forme della rappresentazione stessa.
Il cambiamento nel modo di intendere la rappresentazione raccoglieva
il pensiero del filosofo marxista francese Louis Althusser, che metteva in
discussione il modello gerarchico base/sovrastruttura che subordinava la
cultura all’economia. Althusser concepiva la formazione sociale come com-
prendente sfere o livelli di pratica sociale diversi, semiautonomi ma intera-
genti, ciascuno governato da una storia e un processo di sviluppo propri:
l’economico, il politico, l’ideologico. Quest’ultimo comprendeva a sua volta
una serie di pratiche, tra cui l’educazione, la famiglia, la religione, i mezzi di
comunicazione. Le differenti sfere di pratica sociale non si sviluppavano
necessariamente una dietro l’altra, ma in ogni dato momento una di esse
poteva essere più importante di un’altra per lo sviluppo della formazione
sociale nel suo complesso. Ancora più radicalmente, Althusser sosteneva
che l’economico determina il rapporto tra le sfere solo indirettamente e «in
9
ultima istanza» . L’effetto di questo nuovo modello della formazione sociale
fu quello di invalidare l’idea di una cultura che rifletteva una base econo-
mica. Esso conferiva un ruolo più ampio alla determinazione ideologica
attraverso la pratica culturale ed estendeva all’arte il concetto di contraddi-
zione. Significativamente, Althusser ha rielaborato il concetto di ideologia
includendo non solo idee pienamente formulate ma anche giudizi, imma-
gini, miti, rappresentazioni del senso comune. La forza dell’ideologia risiede
nel fatto che essa non opera semplicemente sotto forma di idee nella testa,
bensı̀ attraverso gli assunti culturali che forgiano il modo in cui facciamo le
cose. In questo senso l’ideologia è “materializzata” nelle attività abituali
della vita quotidiana. Le ideologie sono sistematizzate nelle pratiche istitu-
zionali di casa, scuola, chiesa e mezzi di comunicazione, e nelle pratiche
professionali e rappresentative del giornalismo, della fiction, del cinema,

9
Louis Althusser, Marxism and Humanism, in For Marx, Harmondsworth, England,
Penguin, 1969; [tr. it. Per Marx, Roma, Editori Riuniti, 1967]; e Ideology and Ideological State
Apparatuses, in Lenin and Philosophy and Other Essays, London, New Left Books, 1971; [tr. it.
Lenin e la filosofia, Milano, Jaca Book, 1969].

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L’IMMAGINE E LA VOCE 361

della televisione, della pubblicità. Per esempio, la trasmissione dei notiziari


avviene all’insegna della regola istituzionale dell’“equilibrio”, che costruisce
in modo efficace la posizione di compromesso come norma politica ed
emargina i gruppi che minacciano la stabilità dello status quo.
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Questa concezione dell’ideologia concordava con le considerazioni


strutturaliste e semiotiche sul potere costruttivo del linguaggio e dei sistemi
di segni. Più che un mezzo di espressione trasparente, il linguaggio filmico
e le forme del film costituiscono sistemi culturali con storie e strutture
specifiche e dunque con una capacità formativa di produrre significati ed
effetti ideologici. Il realismo, come tendenza particolare, si fonda sull’ade-
renza a convenzioni specifiche della storia che “significano” la realtà
(piuttosto che “rifletterla”). Platoon (Id.), per esempio, può apparirci più
convincente che The Green Berets (Berretti verdi), non perché mettiamo a
confronto immagine e realtà, ma perché riconosciamo le convenzioni del
filmare in una zona di guerra – ad esempio, una ripresa traballante,
l’immagine sgranata del 16mm, la colonna a vuoto – derivate dai cinegior-
nali. Tali convenzioni si modificano a loro volta in base ai cambiamenti
della tecnologia, degli atteggiamenti sociali verso la guerra, del desiderio di
riempire le sale e quant’altro. Cosı̀ il personaggio convincente, l’episodio
rivelatore o l’immagine realistica del mondo non sono un semplice riflesso
della vita reale ma una produzione fortemente mediata di pratica filmica.
Da questa prospettiva, il significato è prodotto dall’interazione dinamica
dei vari processi estetici, semiotici e ideologici che costituiscono il “lavoro”
del film. Cosı̀ il neo-marxismo muta il progetto critico, facendolo passare
dalla scoperta del significato alla messa allo scoperto dei mezzi della sua produ-
zione. Per le femministe che cercano di decostruire la cultura patriarcale, la
domanda pertinente non è tanto «che cosa significa il film?» quanto «come
si produce il significato?». L’assunto che il significato sia già costituito nel
mondo o stia nascosto nell’opera d’arte in attesa di essere dischiuso,
convalida l’ideologia che costruisce la donna come altro inconoscibile, fuori
dalla storia, nel regno della natura e della verità eterna. La seconda
domanda mira a individuare dietro ai temi manifesti di un film un altro
livello di significato che risiede nei rapporti strutturali del testo. Dispositivi
come il primo piano o la voce fuori campo generano un significato meno
per ciò che mostrano o dicono che per il modo in cui organizzano
l’immagine femminile in una posizione patriarcale, o, al contrario, offrono
opportunità testuali di resistenza. Ciò non rivela verità immanenti sulle
donne, piuttosto un aspetto di come funziona il patriarcato. Spiega, per
esempio, la “realtà” riconoscibile di stereotipi che tramutano gli effetti della

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362 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

condizione specifica della vita delle donne – per esempio, l’instabilità come
adattamento alle esigenze conflittuali della vita domestica – in una spiega-
10
zione della natura femminile – per esempio, il mutismo .
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Realismo e antirealismo
Centrale per la concezione marxista della formazione sociale è il ruolo della
contraddizione. La forza motrice della storia risiede nel conflitto tra le forze
materiali e i rapporti sociali di produzione e la conseguente divisione della
formazione sociale in interessi di classe opposti. L’ideologia borghese ha il
compito di mascherare queste contraddizioni di classe mediante la loro
unificazione illusoria, facendo ricorso a concetti quali la “natura umana”,
l’“interesse comune”, o la “nazione”; oppure spostandole su opposizioni
idealiste che sono passibili di soluzione, come il conflitto tra individuo e
società. Cosı̀ i lavoratori in sciopero spesso sono rappresentati non come
compatrioti ma come estremisti che tengono in ostaggio la nazione. I
lavoratori che si astengono dallo sciopero non sono descritti come persone
prive di solidarietà di classe ma come rispettabili padri di famiglia che
proteggono i loro diritti di individui. Tali concetti servono a “naturalizzare”
le forze storiche in conflitto, ponendole fuori dal controllo umano e quindi
11
fuori dal cambiamento .
La teoria del film degli anni Settanta ha sviluppato un modello di “testo
realista classico” per analizzare questo processo attraverso i mezzi di
comunicazione, dai film di genere hollywoodiani al cinema d’essai europeo,
12
ai drammi televisivi, all’attualità e al documentario . La narrazione realista
è investita sul singolo protagonista e su un modello narrativo di rottura,
conflitto e soluzione, reso autentico da ambientazioni riconoscibili che
connotano la vita reale. Si è sostenuto che tale struttura non maschera solo
i processi sociali che producono la realtà, ma anche i processi semiotici di
rappresentazione. Cosı̀, il testo realista classico rende naturali le costruzioni
sociali e ideologiche del capitalismo e del patriarcato e al contempo nega la
produzione culturale del significato. Il realismo, come ha paradossalmente

10
Vedi Tessa Perkins, Rethinking Stereotypes, in Michele Barrett e altri, Ideology and Cultural
Production, London, Croom Helm, 1979.
11
Vedi Stuart Hall, Culture, the Media and the “Ideological Effect”, in James Curran e altri,
Man communication and Society, London, Edward Arnold, 1977.
12
Vedi Colin MacCabe, Realism and the Cinema: Notes on Some Brechtian Theses, «Screen»,
n. 15, estate 1974.

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L’IMMAGINE E LA VOCE 363

asserito Roland Barthes, produce il mito13. Questa tesi si opponeva alle


precedenti istanze, da parte di marxismo e femminismo, al realismo quale
fine responsabile dell’arte e dello spettacolo che cerca di contrastare i falsi
stereotipi della cultura capitalista e patriarcale. La pratica alternativa ha
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sposato un antirealismo combattivo. Per usare le parole di Jean Luc


Godard, il compito del cinema radicale non era quello di riflettere la realtà
14
ma di esporre la realtà alla riflessione .

Realismo e genere
Sebbene questo modello descrivesse l’ambizione dell’ideologia dominante,
non riusciva però a tener conto delle ideologie contraddittorie o resistenti e
delle pratiche estetiche che potevano impedirne la realizzazione. Tuttavia
la critica di genere aveva dato rilievo a procedimenti filmici che, a causa dei
bisogni economici dello studio system, necessariamente evidenziavano la
loro sistematica convenzionalità piuttosto che occultarla. I generi filmici
forniscono il materiale per la produzione dell’intrattenimento di massa. Da
un lato, le trame, gli stereotipi e le convenzioni riconoscibili dei vari generi
consentono all’industria di standardizzare pratiche di studio, di prevedere la
domanda di mercato e di stabilizzare in tal modo la produzione. Dall’altro,
la richiesta di novità è soddisfatta dal gioco innovativo con le convenzioni.
Il pubblico va a vedere l’ennesimo western non per scoprire “cos’altro sta
per accadere” – in effetti, lo sa già – bensı̀ “come”. Vi è cosı̀ una tensione
sottesa tra il bisogno del film di genere di evidenziare le proprie formule e
convenzioni e l’esigenza del racconto classico di un realismo illusorio, che
si fonda sulla conquista della sospensione dell’incredulità del pubblico.
La critica femminista si è interessata di questo potenziale antagonismo.
Le convenzioni di genere e gli stereotipi della Hollywood classica sono
codici piuttosto visibili che possono essere messi in gioco l’uno contro
l’altro o contro i temi ideologici del film. In questo processo, è possibile
illustrare e persino sovvertire le contraddizioni la cui unificazione è il
progetto ideologico del film. Pertanto, una critica femminista che opera
secondo una prospettiva contrastante con l’ideologia prescelta come “mes-
saggio” o “visione del mondo” del film può riuscire a suscitare tali effetti per

13
Roland Barthes, Myth Today, in Mythologies, New York, Hill and Wang, 1972; [tr. it. Il
mito, oggi, in Id., Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974].
14
Jean Luc Godard, Vent d’Est, 1970.

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364 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

produrre una lettura sovversiva di un film apparentemente reazionario o


una lettura ideologica di un film apparentemente progressista.
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Il marxismo incontra la psicanalisi


Nel successivo incontro della critica cinematografica femminista neomarxi-
sta con la psicanalisi, lo smascheramento dell’ideologia patriarcale ha finito
col diventare predominante. Estendendo il concetto di ideologia dalle
convinzioni politiche fino a includere i giudizi di senso comune e la vita
quotidiana, Louis Althusser ha discusso il ruolo determinante delle convin-
zioni inconsce nel modo in cui facciamo le cose. Attingendo alle teorie
dello psicanalista francese Jacques Lacan, Althusser ha illustrato non solo il
modo profondamente inconscio con cui l’ideologia dominante si infiltra
nella vita di ogni giorno, ma anche il modo in cui controlla le nostre
identità di “soggetti”, la comprensione quotidiana di se stessi al centro del
mondo. Questa discussione ha spostato l’attenzione da Marx, via Lacan, a
Freud e ai rapporti molto dibattuti tra marxismo e psicanalisi.
Il legame tra i due, si sosteneva, risiede nel linguaggio. Il marxismo
analizza la storia sociale come interazione dialettica tra forze sociali ed
economiche contraddittorie: tesi>antitesi>sintesi, che diviene la tesi succes-
siva e cosı̀ via. Il linguista Ferdinand de Saussure ha sostenuto in modo
analogo che il significato si produce nelle interazioni strutturali tra una serie
15
di differenze sociolinguistiche . Cosı̀ come la differenza tra t e d ci consente
di distinguere tin da din (ossia latta da baccano), il significato di lamb
(agnello), per esempio, cambia a seconda che ci si riferisca alla pecora o al
montone. Il significato di lamb (agnello) risiede non nella parola, l-a-m-b, o
in un concetto verbale effettivamente assegnato alla parola, ma nella
differenza rispetto a un concetto contiguo. Nella loro formazione iniziale,
sia il marxismo che la linguistica strutturale avevano assunto come data
l’identità psicologica degli agenti del processo storico e del linguaggio sotto
forma di soggetti di classe della storia o di singolo utilizzatore del linguag-
gio, ossia l’‘‘Io’’ linguistico. Lacan, però, stabilı̀ il nesso concettuale tra i
processi del linguaggio e la psiche, attingendo all’analogo ruolo della
differenza tra sé ed altro nella produzione dell’identità per concludere che
“sé” ed “altro” sono il prodotto inconscio di posizioni linguistiche – “Io”,

15
Ferdinand de Saussure, A Course in General Linguistics, London, Fontana, 1974; [tr. it.
Corso di linguistica generale, Roma e Bari, Laterza, 1967].

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L’IMMAGINE E LA VOCE 365

“tu”, “essi” – create nel linguaggio. La soggettività è il prodotto di significati


generati attraverso il gioco di strutture linguistiche. In altre parole, il
linguaggio, il significato, la soggettività, in modi diversi dipendono tutti
dalla “differenza”. Il momento fondante che per la psicanalisi lacaniana
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unisce strettamente queste istanze in un rapporto di determinazione reci-


proca è derivato dalla teoria freudiana del complesso di Edipo, che è
scatenato dalla percezione traumatica edipica da parte del bambino (ma-
schio) della differenza sessuale nel corpo materno come castrazione. Se-
condo Lacan, tale percezione è insieme essenziale perché il bambino
diventi soggetto nel linguaggio e impossibile da riconoscere se si vuole
raggiungere una soggettività e un uso del linguaggio coerenti. La consape-
volezza della differenza è repressa a favore di un’identità unificata che si
esprime nella padronanza apparente della posizione linguistica del sog-
getto, “Io”. Tuttavia questa padronanza è illusoria; la differenza continua ad
16
esercitare un controllo dall’inconscio .
L’intuizione della psicanalisi lacaniana che l’identità, come il significato,
è insieme produzione e processo, basata sulla dinamica della differenza,
echeggia il concetto marxista del processo dialettico della storia basato sulla
contraddizione. Pertanto, si è sostenuto, l’ideologia borghese non soltanto
maschera le contraddizioni sociali e nega il significato come costrutto, ma
reprime anche il ruolo della differenza e dell’altro nella produzione dell’i-
dentità. Il neomarxismo usa la psicanalisi lacaniana per sfidare la centralità
del soggetto, sia individuale sia di classe, concepito come fonte autonoma
di significato.
Per il femminismo questo discorso ha voluto dire un allontanamento
dal marxismo in direzione della psicanalisi freudiana e di una teoria della
rappresentazione patriarcale. Le femministe hanno concentrato il loro
interesse sul fatto che la differenza chiave, essenziale per la formazione del
soggetto patriarcale e per l’attività del linguaggio, è la differenza sessuale.
Ciò che il momento edipico reprime per il soggetto patriarcale è la
femminilità. La donna, si sosteneva, funziona come altro non solo nel
contenuto della fantasia maschile, ma anche nella strutturazione stessa del
linguaggio e della rappresentazione. Nel cinema, la fotografia e la narra-

16
Vedi Steve Burniston e Christine Weedon, Ideology, Subjectivity and the Artistic Text,
«Working Papers in Cultural Studies», n. 10, Birmingham, Centre for Contemporary
Cultural Studies, 1977, e Steve Burniston e altri, Psychoanalysis and the Cultural Acquisition of
Sexuality and Subjectivity, in Women’s Studies Group (a cura di), Women Take Issue: Aspects of
Women’s Subordination, Birmingham University Centre for Contemporary Cultural Studies,
London, Hutchinson, 1978.

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366 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

zione predispongono l’immagine della donna per uno sguardo maschile


che ripete gli elementi fondanti dell’identità patriarcale. L’immagine della
donna non può rappresentare la donna reale né dal punto di vista visivo né
da quello narrativo, perché nell’evocare il desiderio maschile essa parla
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anche di castrazione. L’immagine della donna, dunque, è costruita come


feticcio attraente o analizzata voyeuristicamente e punita. Entrambe le
strategie reprimono la differenza rappresentata dalla femminilità che minac-
17
cia la coerenza e il controllo dell’identità patriarcale .
Queste discussioni hanno focalizzato l’attenzione sullo spettatore. Un
film include nella sua struttura le posizioni dalle quali deve essere visto e
compreso. Il protagonista maschile è l’agente principale della narrazione.
La posizione della macchina da presa, la messa in quadro e il montaggio
offrono allo spettatore posizioni di identificazione con lo sguardo di lui e,
attraverso questo sguardo, accesso alla donna. Al centro del quadro e della
narrazione, la donna è fotografata per essere guardata. Lo spettatore creato
18
dal testo è di sesso maschile . Cosı̀ l’identificazione, la nozione stessa di
19
identità, è stata considerata un meccanismo patriarcale . Di conseguenza,
per la spettatrice dell’immagine della donna la spettatorialità produce iden-
tificazioni masochistiche o narcisistiche. Le donne in quanto donne non
potevano essere rappresentate. Al contempo, la concettualizzazione della
soggettività in termini di differenza, negatività e instabilità portava a un’e-
quazione tra femminilità e differenza. La critica e la pratica filmica progres-
siste, si sosteneva, dovrebbero cercare di distruggere le illusioni e i piaceri
del riconoscimento realista, dell’identificazione con i personaggi in un
mondo fittizio coerente, dissolvendo il soggetto in un gioco infinito di
differenza radicale. Per la realizzazione di film femministi questo implicava
20
strategie antirealiste, decostruttive e di avanguardia .

17
Vedi Claire Johnston, Woman’s Cinema as Counter Cinema, in Notes on Women’s Cinema,
London, Society for Education in Film and Television, 1973, ora anche in Bill Nicholls (a
cura di), Movies and Methods, Berkeley, University of California Press, 1976, ed Elisabeth
Cowie, Women, Representation and the Image, «Screen Education», n. 23, estate 1977.
18
Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», vol. 16, autunno 1975,
pp. 6-18; [tr. it. Piacere visivo e cinema narrativo, in «Nuova dwf», n. 8, luglio-settembre 1978,
pp. 26-41].
19
Anne Friedberg, Identification and the Star. A Refusal of Difference, in Christine Gledhill
(a cura di), Star Signs, London, British Film Institute Education Department, 1982; una
versione più aggiornata di questo saggio è pubblicata e tradotta in questa antologia con il
titolo A Denial of Difference: Theories of Cinematic Identification (Il diniego della differenza: teorie
dell’identificazione filmica) (N.d.t.).
20
Vedi Claire Johnston, Femininity and the Masquerade, in Claire Johnston, Paul Willemen

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L’IMMAGINE E LA VOCE 367

In definitiva, tuttavia, questa conclusione si è dimostrata intellettual-


mente e politicamente indifendibile per le femministe che cercano di
comprendere le strutture sociali e psichiche al fine di cambiarle. In qualsiasi
movimento politico, la prima fase implica il riconoscimento delle nuove
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identità politicizzate e l’identificazione con esse. Le nuove pratiche filmiche


erano accessibili solo a una minoranza istruita, mentre il piacere che la
maggior parte delle donne trae dai principali mezzi di comunicazione (e
che anche le femministe spesso non ignorano del tutto) rimaneva escluso
dalla battaglia culturale. Il lavoro psicanalitico femminista dell’ultimo de-
cennio si è incentrato sul problema urgente della spettatrice, sulla forma-
zione dell’identità femminile nel triangolo edipico e sul rapporto della
femminilità col linguaggio come mezzo per comprendere l’identificazione e
il piacere della donna. Accanto alla teorizzazione psicanalitica dell’imma-
gine e della rappresentazione, si è però sviluppata anche una linea di ricerca
diversa, incentrata meno sull’immagine della donna che sulla sua voce e sul
suo discorso, ed è questa linea dell’analisi marxista-femminista che voglio
esaminare in questo luogo.

Le voci delle donne: teorie del discorso


Mentre l’essenzialismo del soggetto maschile o femminile borghese può
essere facilmente messo in discussione, le femministe hanno difficoltà
proprio ad abbandonare la categoria di “donne”. La specificità delle donne
scaturisce dal diverso posizionamento rispetto agli uomini nella formazione
sociale. Le donne fanno l’esperienza del lavoro, della maternità e di
rapporti personali eterosessuali e familiari in modi caratteristici del genere.
Tali differenze non scaturiscono da una femminilità essenziale ma dalle
diverse condizioni socioculturali e psichiche della vita delle donne, che
spesso contraddicono le costruzioni patriarcali. Per esempio, il culto della
maternità degli anni Cinquanta era una cosa, viverla, come ha mostrato il
movimento emergente delle donne, era invece tutt’altra cosa. Ciò indica
l’esistenza di un divario tra lo spettatore testuale teorizzato dalla psicanalisi
del cinema e il pubblico sociale. La teoria femminista ha cercato sempre
21
più di colmare questo divario .

(a cura di), Jacques Tourneur, Edinburgh-Scotland, Edinburgh Film Festival, 1975, e Towards
a Feminist Film Practice: Some Theses, «Edinburgh Magazine», n. 1, 1976.
21
Annette Kuhn, Women’s Genres: Melodrama, Soap Opera and Theory, in Christine Gledhill
(a cura di), Home Is Where the Heart Is: Studies on Melodrama and the Woman’s Film, London,
British Film Institute, 1987.

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368 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Il concetto di discorso delle donne non si focalizza sull’immagine della


donna centrata nel personaggio o nel feticcio psichico, ma sulla “voce delle
donne” che si sente a intermittenza tra i discorsi sociali inglobati nel testo
di un film. Il discorso definisce un gruppo socialmente costituito di persone
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parlanti ed è usato da esso. Comprende tutti i termini – estetici, semantici,


ideologici, sociali – che parlano per o fanno riferimento a tutti coloro a cui
il discorso appartiene, controllando ciò che può o non può essere detto.
Nell’analisi testuale, il discorso viene distinto dal punto di vista, in quanto
quest’ultimo è attribuito a un dato personaggio o a una posizione dell’au-
tore, mentre un discorso si stende attraverso il testo con una varietà di
articolazioni delle quali il personaggio è soltanto una. Non occorre che sia
continuo: può essere spezzato da intervalli o silenzi durante i quali discorsi
contrastanti possono interrompere o sostituirsi.
L’importanza di questo concetto sta nel fatto che esso evita la riduzione
umanista della produttività testuale al personaggio o all’immagine e supera
il divario tra testo e società, consentendo cosı̀ di far riferimento alla vita
sociale fuori del testo senza cadere nella trappola della riflessività. Co-
struendo un mondo fittizio riconoscibile, un film inserisce i discorsi che
circolano nella società e in altre forme culturali nella struttura del film. La
moda è un esempio evidente. Altri esempi comprendono i discorsi della
maternità (Mildred Pierce [Il romanzo di Mildred]), di classe (Stella Dallas
[Amore sublime]), del focolare domestico (Craig’s Wife [La moglie di Craig]);
ma anche, più recentemente, di liberazione delle donne (Coma [Coma
profondo]) o di femminismo nero (The Color Purple [Il colore viola]). Un testo
filmico è quindi composto da una serie di discorsi diversi che possono
essere disposti su linee di classe, etniche, di genere e sessuali. La coerenza
del testo realista classico deriva dall’organizzazione gerarchica dei suoi
discorsi, attraverso la quale il dominio ideologico è conquistato da quel
discorso che ha il potere di porre e definire la “verità” degli altri, ossia, nel
film di fiction di larga diffusione, il “discorso patriarcale”. Ciò indica un
potenziale conflitto tra discorsi, e le femministe hanno cercato proprio quei
momenti in cui, nella tensione tra le convenzioni del genere e la necessità
del realismo di ottenere il riconoscimento di un pubblico femminile, il
discorso patriarcale perde il controllo; la voce della donna lo spezza,
facendo apparire “strani” i suoi assunti. Claire Johnston e Pam Cook hanno
22
analizzato questo approccio in rapporto all’opera di Dorothy Arzner . Da

22
Vedi i saggi di Claire Johnston e Pam Cook in Claire Johnston (a cura di), The Work of
Dorothy Arzner: Towards a Feminist Cinema, London, British Film Institute, 1975. Vedi anche
Pam Cook, “Exploitation” Films and Feminism, «Screen», n. 17, estate 1976.

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L’IMMAGINE E LA VOCE 369

questa prospettiva le domande che le critiche femministe pongono sono:


Che cosa si sta dicendo qui sulla donna? Chi sta parlando? E per chi?
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Ideologia e negoziazione
Ogni area di attività sociale può essere analizzata come pratica discorsiva.
Nell’ambito degli studi culturali, si è adottata l’“analisi del discorso” per
esaminare le sottoculture vissute, esplorando al contempo la vita del testo
nella società. Charlotte Herzog e Jane Gaines, per esempio, analizzano il
modo in cui i costumi indossati dalle star forniscono il materiale di
23
partenza per la pratica discorsiva della sartoria . Tali considerazioni solle-
vano l’importante questione del pubblico, della lettura e delle condizioni di
ricezione. Per le femministe, interessate alla produttività della teoria per la
vita delle donne, il lavoro con il pubblico è stato cruciale.
L’analisi della ricezione attinge a un concetto di ideologia revisionato,
reso possibile da un ritorno all’opera del marxista italiano Antonio Gram-
24
sci . Sebbene il modello althusseriano della formazione sociale riconosca le
contraddizioni tra le sue pratiche e i suoi livelli diversi, la concezione
dell’ideologia dominante, che opera inconsciamente per interpolare il sog-
getto nelle sue strutture, restringe notevolmente le possibilità produttive
della contraddizione. Al posto dell’ideologia e dell’interpolazione domi-
nante, gli studi culturali marxisti utilizzano concetti di egemonia e negozia-
zione. Secondo Gramsci il potere ideologico in una democrazia sociale,
essendo una questione tanto di persuasione quanto di forza, non è mai
assicurato in modo definitivo. Il consenso al ruolo della classe dominante
deve essere continuamente riconquistato in una lotta tra gruppi conten-
denti. L’egemonia descrive la negoziazione tra le forze socioeconomiche,
ideologiche e politiche attraverso le quali il potere è mantenuto e conte-
stato. Le industrie della cultura hanno un ruolo in questa negoziazione.
La cultura democratica borghese, nel suo tentativo di rendere coerente
la società, deve rivolgersi costantemente a gruppi subalterni appellandosi e
manipolando i discorsi attraverso i quali essi si riconoscono. Questo apre
alla negoziazione i processi di produzione del significato all’interno e tra i

23
Charlotte Cornelia Herzog, Jane Marie Gaines, “Puffed Sleeves Before Tea-time”: Joan
Crawford, Adrian and Women Audiences, in Christine Gledhill (a cura di), Stardom: Industry of
Desire, London, Routledge, 1991.
24
Antonio Gramsci, Selections from the Prison Notebooks, London, Lawrence and Wishart,
1971; [cfr. Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975].

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370 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

livelli di intersezione di produzione e ricezione. Mentre le industrie della


cultura devono cercare un valore di scambio come fonte di profitto, il
25
pubblico cerca un valore d’uso . Se il valore d’uso di una lavatrice o di
un’automobile può essere più o meno definito dai progettisti e dai disegna-
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tori industriali, il valore d’uso dei prodotti culturali (che risiede in un


insieme di piaceri e significati) è più difficile da prevedere e da controllare.
Esiste una dislocazione tra le finalità economiche e ideologiche dell’indu-
stria e il pubblico. Inoltre, il personale “creativo” interviene tra produttore e
prodotto con fini professionali e personali propri. La popolare serie TV
“New York, New York” esemplifica questi conflitti. Mentre i suoi sceneg-
giatori, ispirati dalle critiche femministe ai film che raccontano amicizie
maschili, hanno concepito un duo femminile al centro della loro serie
poliziesca, la società di produzione, preoccupata dei pubblicitari conserva-
tori, ha cercato di dissipare qualsiasi sospetto di lesbismo. L’aver cambiato
attrice non è servito a risolvere le contraddizioni sulla sessualità femminile,
poiché Sharon Gless, convenzionalmente più attraente, era già diventata un
cult per le lesbiche. Inoltre, una forte complicità femminile al centro del
genere poliziesco maschile, se vuole essere riconosciuta dal pubblico in un
periodo di lotte pubbliche sulla liberazione delle donne, nel corso della
trama deve incontrare il sessismo. La serie si rivolgeva a un articolato
pubblico femminile della classe media il cui vigoroso sostegno l’ha tenuta in
vita per qualche tempo dopo che i produttori avevano tentato di soppri-
26
merla . Il significato, dunque, non è imposto da una classe dominante o
dalla cospirazione dei mezzi di comunicazione né è assorbito passivamente
da un pubblico interpolato inconsapevolmente, ma scaturisce da un con-
flitto o da una negoziazione tra motivazioni concorrenti e quadri di
riferimento ai tre livelli della produzione, del testo e del pubblico.
A tale riguardo, il concetto di negoziazione avvicina gli studi culturali
alle intuizioni dell’analisi testuale semiotica e psicanalitica, che pone l’ac-
cento su un significato e un’identità sempre in corso, mai raggiunti o
stabiliti in modo definitivo. Nella sua enfatizzazione della chiusura narra-
tiva, l’analisi testuale psicanalitica, cosı̀ come il modello del testo realista
classico, ha teso a frenare la produttività di tali intuizioni. Da questa
prospettiva, la fiction dominante si avvale della classe, del genere o delle

25
Terry Lovell, Ideology and “Coronation Street”, in Richard Dyer e altri (a cura di),
Coronation Street, «Television Monograph 13», London, British Film Institute, 1981.
26
Julie d’Acci, The Case of Cagney and Lacey, in Helen Baher, Gillian Dyer (a cura di),
Boxed In: Women and Television, London, Pandora, 1987. Il titolo originale del telefilm è
Cagney and Lacey, ma in Italia è andato in onda con il titolo New York, New York (N.d.t.).

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L’IMMAGINE E LA VOCE 371

differenze etniche come mezzi di rottura narrativa solo per disconoscerli in


finali di recupero che ripresentano la repressione edipica, sottoponendo
nuovamente l’eroina resistente al controllo patriarcale. Tuttavia, il concetto
di recupero considera il film come un oggetto fissato, presumendo che
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anche la chiusura narrativa “fissi” l’esperienza del pubblico e la memoria del


film.
L’importanza della negoziazione sta nel suo riconoscere le diverse e
concorrenti determinazioni, pratiche professionali e tradizioni culturali ope-
ranti in tutti gli scambi mediatici che potenzialmente “destabilizzano” il
testo. Queste tradizioni comprendono anche il realismo che la negozia-
zione ammette come un’esigenza della cultura e al contempo relativizza
come luogo di battaglia culturale. Pur criticando il progetto realista in
quanto ideologia borghese, la teoria del film non è mai sfuggita all’episte-
mologia realista: semplicemente, il reale si è spostato dalle apparenze
fenomeniche alle realtà sottostanti svelate dal marxismo althusseriano-
lacaniano: i rapporti reali della produzione, le strutture reali del linguaggio,
le condizioni reali della soggettività. I concetti di egemonia e negoziazione
rendono possibile una teorizzazione diversa della produzione sociale della
realtà e del significato e quindi un approccio diverso alle questioni del
realismo e dell’identità. Nella formulazione gramsciana la formazione so-
ciale è concepita come una lotta per l’egemonia tra posizioni e identità
diverse, socialmente posizionate e storicamente determinate.
Se il reale è prodotto in modo costante, il realismo deve essere visto
come facente parte di questo processo. I conflitti relativi alla rappresenta-
zione contribuiscono alla costruzione, alla decostruzione e alla riforma del
reale. Seguendo un filo simile, il recente lavoro femminista ed etnico
sull’identità interroga la concezione dell’identità e dell’altro come posizioni
che si escludono reciprocamente. L’analisi femminista della posizione della
bambina nel triangolo edipico sostiene che essa aggiunge il padre all’origi-
nale diade materna. Questo suggerisce un’estensione delle identità piuttosto
27
che la loro repressione sotto una singola identità . Cosı̀ i soggetti entrano

27
Vedi Janet Walzer, Feminist Critical Practice: Female Discourse in Mildred Pierce, «Film
Reader», n. 5, 1982; Jackie Byars, Gazes, Voice, Power, in E. Deidre Pribram (a cura di), Female
Spectators: Looking at Film and Television, London, Verso, 1988 e All That Hollywood Allows,
Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1981. Entrambe le autrici utilizzano Nancy
Chodorow, The Reproduction of Mothering: Psychoanalysis and the Sociology of Gender, Berkeley,
University of California Press, 1978, [tr. it. La funzione materna, Milano, La Tartaruga, 1991];
e Carol Gilligan, In a Different Voice, Cambridge/Mass., Harvard University Press, 1982, [tr.
it. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli, 1987].

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372 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

ed escono da identità diverse costruite da etnicità, classe, genere, orienta-


mento sessuale e cosı̀ via. Similmente, i prodotti culturali offrono una
gamma di posizioni per l’identificazione spesso contrastanti. Con questo
non si vuole suggerire che le identità siano liberamente disponibili per
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essere scelte come in una sorta di supermercato culturale. L’identità, come


il reale, è un luogo di negoziazione e competizione sociale e culturale.
Alcuni recenti studi etnografici analizzano tali negoziazioni e le condizioni
28
sociali e discorsive che le permettono . Una simile concezione del realismo
e dell’identificazione non presume soggetti liberi che si determinano da sé;
al tempo stesso non esclude l’agente umano. I soggetti sono situati social-
mente, culturalmente, ma reagendo alle contraddizioni della vita quotidiana
possono contestare le determinazioni dominanti. Dunque il realismo e
l’identità non sono ideologicamente predeterminati, statici, investiti nello
status quo, ma coinvolti nel processo di cambiamento storico, nel quale,
operando da posizioni sociali e politiche specifiche, possiamo intervenire in
quanto soggetti.

Conclusione: il progetto di critica femminista


Se accettiamo la natura eterogenea e inesauribile del prodotto culturale
come luogo in cui le diverse voci, le tradizioni estetiche e le ideologie
lottano per imporre o sfidare, negoziare o spostare definizioni e identità,
allora la critica femminista apre le negoziazioni del testo per animarne le
contraddizioni, per entrare nelle polemiche della negoziazione culturale
trascinando il testo in un’orbita femminile o femminista. Una simile critica
culturale non si preoccupa del carattere progressista o reazionario del testo,
ma vuole estrarne l’energia culturale, rendendolo produttivo per il dibattito
e per la pratica femminista.

28
Vedi, per esempio, Dorothy Hobson, “Crossroads”: The Drama of a Soap Opera, London,
Methuen, 1982; Charlotte Brunsdon, “Crossroads”: Notes of a Soap Opera, in E. Ann Kaplan (a
cura di), Regarding Television: Critical Views – an Anthology, Los Angeles, American Film
Institute, 1982; Ien Ang, Watching Dallas, London, Methuen, 1985; Ellen Seiter e altri,
Remote Control, New York and London, Routledge, 1991.

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE»:


AMORE SUBLIME E IL MELODRAMMA MATERNO

di Linda Williams

Oh, Dio! Non dimenticherò mai quell’ultima scena, quando sua figlia si sta
sposando dentro la grande casa circondata dall’alto recinto di ferro e lei è
in piedi lı̀ fuori – non riesco neanche a ricordare di chi si trattasse, l’ho
vista quando ero una bambina e non sono mai riuscita a ricordarla bene.
Ma la ricordo comunque – mi aveva fatto un’impressione enorme – si
trattava forse di Barbara Stanwyck. Sta lı̀ in piedi e fa freddo e piove e lei
ha indosso un cappottino leggero e ha i brividi e la pioggia le cade sulla
povera testa e le scorre sul viso insieme alle lacrime e lei sta lı̀ in piedi a
guardare le luci e ad ascoltare la musica e poi semplicemente si allontana.
Come sono riusciti a farci acconsentire al nostro stesso sradicamento! Non
mi faceva semplicemente pena; provavo quello shock del riconoscimento
– hai presente, quando ti accorgi che ciò che senti è il tuo destino lassù
sullo schermo o sul palcoscenico. Si può dire che ho passato la vita intera
a cercare di predisporre un destino differente!1

A pronunciare queste parole di avvertimento, orrore e fascino è Val,


personaggio di madre anch’essa nel romanzo del 1977 di Marilyn French
The Women’s Room. Esse sono particolarmente interessanti perché permet-
tono di comprendere la risposta di una spettatrice all’immagine del proprio
«sradicamento». La scena in questione è tratta dal finale di Stella Dallas
(Amore sublime), il remake di King Vidor del 1937 del film di Henry King
del 1925. La scena rappresenta la conclusione del film: il momento in cui la
buona e ambiziosa puttanella proletaria Stella, sacrifica il suo unico legame

«Something Else Besides a Mother»: Stella Dallas and the Maternal Melodrama, «Cinema
Journal», vol. 24, n. 1, autunno 1984, pp. 2-27.
1
Marilyn French, The Women’s Room, New York, Summit Books, 1977, p. 227.

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374 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

con la figlia per spingerla in un mondo alto-borghese di unità familiare


surrogata. Sono tali i messaggi compositi – di gioia nel dolore, di piacere
nel sacrificio – che tipicamente risolvono i conflitti melodrammatici del
woman’s film.
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Non è sorprendente, quindi, che il personaggio della madre di Marilyn


French, tentando di resistere a un simile modello sacrificale di maternità,
abbia una memoria cosı̀ selettiva del conflitto di emozioni con il quale il
film si conclude. Val ricorda soltanto le lacrime, il freddo, la patetica
alienazione della madre dal trionfo della figlia dentro la «grande casa con
l’alto recinto di ferro», l’umiliante solitudine della donna che non può far
parte di quel luogo e cosı̀ «semplicemente si allontana». La storia di Val, le
sue scelte, la hanno spinta a dimenticare il perverso trionfo della scena:
Stella che indugia per un ultimo sguardo anche quando un poliziotto la
esorta ad allontanarsi; la sua gioia quando la sposa e lo sposo si baciano; il
volume della musica che aumenta mentre Stella non «si allontana semplice-
mente», ma marcia trionfante verso la macchina da presa e verso un primo
piano che rivela una madre profondamente orgogliosa e felice che stringe
un fazzoletto tra i denti.
È come se il compito della narrazione fosse stato quello di trovare un
“lieto” fine che esalti un ideale astratto della maternità pur mentre priva la
madre reale del legame umano sul quale quell’ideale è basato. Qui poggia
«lo shock del riconoscimento» di cui parla la madre-spettatrice di French.
L’espediente di svalutare e svilire la figura reale della madre mentre si
santifica l’istituzione della maternità è tipico del woman’s film in generale e
2
del sottogenere del melodramma materno in particolare . In questi film è

2
Un’interessante ed esauriente introduzione a questo sottogenere si può trovare in
Christian Viviani, Who is Without Sin? The Maternal Melodrama in American Film, 1930-1939,
«Wide Angle», vol. 4, n. 2, 1980, pp. 4-17. Viviani traccia la storia del melodramma materno
nei film americani a partire dal dramma originale francese Madame X su una donna adultera
che espia il suo peccato rinunciando per sempre a un figlio la cui ascesa sociale verrebbe
messa in pericolo dalla rivelazione del suo rapporto con lui. Due versioni filmiche di
successo degli anni Venti hanno rappresentato un modello per molti imitatori. Tra di essi
Viviani individua due differenti “vene” di questo sottogenere melodrammatico: i film con
ambientazioni europee in cui la madre originariamente colpevole cade nell’anonimato, e i
film con ambientazioni americane in cui la madre più “rooseveltiana” dimostra maggiori
energia ed autonomia prima di cadere nell’anonimato. Viviani suggerisce che Amore sublime
di King Vidor è “l’archetipo” di questa vena americana più energica di melodramma
materno. Egli aggiunge anche che sebbene Stella non sia realmente colpevole di niente, la
sua riluttanza a superare completamente le sue origini proletarie agisce come una sorta di
peccato originale che la fa sembrare colpevole agli occhi di suo marito e in definitiva anche
ai suoi. B. Ruby Rich ed io abbiamo anche affrontato brevemente il genere di questi

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 375

veramente considerevole la frequenza con la quale il sacrificio volontario


della madre riguarda il legame con i suoi figli – per il proprio o per il loro
bene.
Per quanto riguarda l’aspetto madre-figlia di questa relazione, Simone
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de Beauvoir ha notato, molto tempo fa, che a causa della svalutazione


patriarcale delle donne in generale, una madre tenta frequentemente di
usare la propria figlia per compensare la propria presunta inferiorità ren-
3
dendo «una creatura superiore quella che lei considera il suo doppio» .
Chiaramente, l’impari vicinanza e somiglianza della madre con la figlia
determina una situazione di significativo rispecchiamento che in questi film
è evidente. Un effetto di questo rispecchiamento è che, anche se acquisisce
una sorta di superiorità vicaria dal contatto con una figlia superiore, la
madre comincia inevitabilmente a sentirsi inadeguata nei confronti di un
essere cosı̀ superiore e perciò, alla fine, a sentirsi inferiore. Nonostante siano
coinvolte in un rapporto che è cosı̀ intimo, madre e figlia sembrano
destinate a perdersi proprio a causa di questa vicinanza.
Scritti più recenti sulla letteratura e sulla psicologia delle donne si sono
focalizzati sulla problematica del rapporto madre-figlia come paradigma
4
della relazione ambivalente che la donna ha con se stessa . In Nato di donna
Adrienne Rich scrive: «la perdita della figlia per la madre, della madre per
la figlia, è la tragedia femminile per essenza. Noi riconosciamo in Lear
(scissione padre-figlia), Amleto (figlio e madre) e Edipo (figlio e madre) le
grandi incarnazioni della tragedia umana, ma attualmente non c’è nessun
duraturo riconoscimento della passione e dell’estasi madre-figlia». Nessun
equivalente tragico e di alta cultura, forse. Ma Rich non è del tutto nel
giusto quando prosegue sostenendo che «questo reciproco investimento tra
madre e figlia – essenziale, distorto, abusato – è la grande storia non
5
scritta» .

melodrammi materni sacrificali nei nostri sforzi di rintracciare il contesto del film femmini-
sta d’avanguardia di Michelle Citron, Daughter Rite. Il film di Citron è da molti punti di vista
il rovescio del melodramma materno, che articola la mescolanza di rabbia e amore della
figlia di fronte all’atteggiamento sacrificale della madre. The Right of Re-vision: Daughter Rite
di Michelle Citron, «Film Quarterly», vol. 35, n. 1, autunno 1981, pp. 7-22.
3
Simone de Beauvoir, The Second Sex, tr. ingl. H. M. Parshley, New York, Bantam, 1961,
pp. 488-89; [tr. it. Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 1984].
4
Un’eccellente introduzione a questa area di studi che si sta sviluppando rapidamente è il
saggio critico di Marianne Hirsch, Mothers and Daughters, «Signs: Journal of Women in
Culture and Society», vol. 7, n. 1, 1981, pp. 200-222. Vedi anche Judith Kegan Gardiner, On
Female Identity and Writing by Women, «Critical Inquiry», vol. 8, n. 2, inverno 1981, pp.
347-361.

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376 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Se questa tragica storia resta non scritta, è perché si è sempre presunto


che la tragedia sia universale; parlando per e a presumibilmente tutto il
“genere umano”, non è stata in grado di parlare per e alle “donne”. Ma il
melodramma è una forma che non pretende di parlare a tutti. È chiara-
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mente indirizzata a una particolare classe borghese e spesso – in lavori


diversi come Pamela, Uncle Tom’s Cabin (La Capanna dello zio Tom), o nel
woman’s film – allo specifico genere della donna.
In L’immaginazione melodrammatica Peter Brooks afferma che il melo-
dramma del tardo diciottesimo secolo e del diciannovesimo secolo com-
parve per riempire il vuoto di un mondo postrivoluzionario in cui i
tradizionali imperativi della verità e dell’etica erano stati violentemente
messi in questione e nel quale tuttavia c’era ancora bisogno della verità e
dell’etica. La forma estetica e culturale del melodramma tenta cosı̀ di far
valere gli imperativi etici di una classe che ha perso il mito trascendente di
6
una comunità gerarchica divinamente ordinata con scopi e valori comuni .
Poiché l’universo ha perso il suo basilare ordine religioso e morale e i
suoi tragicamente divisi ma potenti protagonisti sovrani, la forma estetica
del melodramma si è assunto il fardello di ricompensare la virtù e punire il
vizio di personaggi indivisi e relativamente privi di potere. Il modello
melodrammatico ha quindi assunto un’intensa capacità di realizzare il
desiderio, mettendo in atto la risoluzione narrativa dei conflitti derivati
dalla sfera economica, dalla sfera sociale e dalla sfera politica nella sfera
privata e sentimentalmente primaria della casa e della famiglia. Martha
Vicinus nota, per esempio, che in gran parte del melodramma teatrale del
diciannovesimo secolo la casa è la scena di questa «riconciliazione dell’irri-
7
conciliabile» . La sfera domestica dove predominano le donne e i bambini

5
Adrienne Rich, Of Woman Born, New York, Bantam, 1977, pp. 240, 226; [tr. it. Nato di
donna, Milano, Garzanti, 1977].
6
Peter Brooks, The Melodramatic Imagination: Balzac, Henry James, Melodrama and the
Mode of Excess, New Haven, Yale University Press, 1976; [tr. it. L’immagine melodrammatica,
Parma, Pratiche, 1985].
7
Martha Vicinus, nello scrivere sul melodramma del diciannovesimo secolo, suggerisce
che i finali “propri” del melodramma, offrono «una temporanea riconciliazione degli
irriconciliabili». L’interesse è tipicamente non nei riguardi di ciò che è possibile o reale ma
di ciò che è desiderabile. Helpless and Unfriended: Nineteenth Century Domestic Melodrama,
«New Literary History», vol. 13, n. 1, autunno 1981, p. 132. Peter Brooks sottolinea una
caratteristica simile di realizzazione del desiderio nel melodramma, sostenendo anche che la
psicoanalisi offre una sistematica realizzazione dell’estetica basilare del genere: «se è vero
che la psicoanalisi è quasi divenuta un equivalente moderno della religione, (dopotutto è una
forma di cura dell’anima), è anche vero che il melodramma è una tappa nel cammino verso

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 377

come protagonisti, il cui unico potere deriva da sofferenze morali, appare


cosı̀ come un’importante fonte di realizzazione di desideri specificamente
femminili. Ma se le spettatrici e le lettrici si sono a lungo identificate con le
virtuose sofferenti del melodramma, il significato liberatorio oppure oppres-
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sivo di tale identificazione non sempre è stato chiarito.


Molta critica femminista cinematografica recente ha diviso la narra-
zione filmica in forme maschili e forme femminili: narrazioni “maschili”
lineari e piene d’azione che incoraggiano l’identificazione con personaggi
prevalentemente maschili che “dominano” il loro ambiente; e narrazioni
“femminili” meno lineari che incoraggiano l’identificazione con eroine
8
passive e sofferenti . Non c’è dubbio che parte dell’enorme popolarità di
Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred) tra la critica cinematografica femmini-
sta poggia sul fatto che esso illustra lo scacco della protagonista (la
madre-eroina del film, poco assennata e estremamente paziente, che è
troppo infatuata di sua figlia) nell’articolare un punto di vista personale,
9
anche quando la sua voce fuori campo introduce flashback soggettivi . Il
romanzo di Mildred è stato un film importante per le femministe proprio
perché il suo stile “maschile” da film noir offre un rovesciamento tanto
evidente del tentativo della madre di raccontare la storia della sua relazione
con sua figlia.
Il fallimento di Il romanzo di Mildred nell’offrire sia alla protagonista che
alla spettatrice una comprensione individuale della narrazione del film lo ha
reso un esempio affascinante del modo in cui i film possono costruire
posizioni del soggetto patriarcali che sovvertono il loro tema apparente. Più
al nocciolo del rapporto madre-figlia, comunque, c’è un film come Amore

questo status, un’indicazione provvisoria di come si possono concepire conflitto, rappresen-


tazione e terapia in un mondo secolarizzato». (p. 202, [tr. it. pp. 263-264]).
8
Più in vista tra questi sono Claire Johnston Women’s Cinema as Counter Cinema, in Claire
Johnston (a cura di), Notes on Women’s Cinema, BFI pamphlet, vol. 2, settembre 1972, [tr. it.
Cinema delle donne come controcinema, «Nuova dwf», n. 8, luglio-settembre 1978, pp. 56-67]; e
Laura Mulvey Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», vol. 16, n. 3, autunno 1975, pp.
6-18, [tr. it. Piacere visivo e cinema narrativo, «Nuova dwf», n. 8, luglio-settembre 1978, pp.
26-41].
9
La lista dei lavori femministi su questo film è consistente. Essa include: Pam Cook,
Duplicity in Mildred Pierce, in E. Ann Kaplan (a cura di), Women in Film Noir, London, BFI,
1978, pp. 68-82; Molly Haskell, From Reverence to Rape: The Treatment of Women in the
Movies, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1973, pp. 175-180; Annette Kuhn, Women’s
Pictures: Feminism and Cinema, London, Routledge and Kegan Paul, 1982, pp. 28-35; Joyce
Nelson, Mildred Pierce Reconsidered, «Film Reader», vol. 2, gennaio 1977, pp. 65-70; e Janet
Walker, Feminist Critical Practice: Female Discourse in Mildred Pierce, «Film Reader», vol. 5,
1982, pp. 164-171.

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378 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sublime, che ha recentemente iniziato a suscitare interesse come lavoro


centrale nella crescente critica del melodramma in generale e del melo-
10
dramma materno in particolare . Certamente la popolarità del romanzo
originale, delle versioni filmiche del 1925 (Henry King) e del 1937 (King
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Vidor), e infine della più recente soap opera radiofonica di lunga durata,
indica il particolare carattere duraturo di questa storia d’amore madre-figlia
nell’arco di tre decadi di pubblico femminile. Ma è in particolare nelle sue
versioni filmiche, specialmente nella versione di King Vidor con Barbara
Stanwyck, che ci imbattiamo in un interessante caso che costituisce un
precedente per molte teorie recenti sul modo in cui il cinema rappresenta
la soggettività femminile e sulla spettatrice.
Dal momento che gran parte di ciò che è stato chiamato cinema
narrativo classico riguarda soggetti maschili la cui visione definisce e
circoscrive oggetti femminili, la mera esistenza in Amore sublime di uno
“sguardo” femminile come caratteristica centrale della narrazione, è degna
di un’indagine specifica. Esattamente, cosa c’è di diverso nell’economia
visiva di un film simile? Che cosa accade quando una madre e una figlia,
che si identificano cosı̀ strettamente che le abituali distinzioni tra soggetto e
oggetto sono inapplicabili, si scelgono a vicenda come oggetto primario del
desiderio? Cosa accade, in altre parole, quando lo sguardo del desiderio
articola un’economia visiva abbastanza differente del possesso e dello
spossessamento madre-figlia? Cosa accade, infine, quando anche lo spetta-
tore privilegiato di un tale dramma è una donna? Per rispondere esauriente-
mente a queste domande dobbiamo compiere una deviazione attraverso
parte del pensiero psicanalitico recente sulla formazione di soggetti femmi-

10
Molly Haskell menziona solo brevemente il film nel suo capitolo sul woman’s film, in
From Reverence to Rape, cit., pp. 153-188; Da allora il film è stato analizzato da Christian
Viviani, in Who is Without Sin?, cit.; Charles Affron in Cinema and Sentiment, Chicago,
University of Chicago Press, 1983, pp. 74-76; Ben Brewster, A Scene at the Movies, «Screen»,
vol. 23, n. 2, luglio-agosto 1982, pp. 4-5; e E. Ann Kaplan, Theories of Melodrama: A Feminist
Perspective, «Women and Performance: A Journal of Feminist Theory», vol. 1, n. 1,
primavera-estate 1983, pp. 40-48. Kaplan ha anche scritto un articolo più lungo sul film, The
Case of the Missing Mother: Maternal Issues in Vidor’s Stella Dallas, «Heresies», vol. 16, 1983,
pp. 81-85. Anche Laura Mulvey menziona brevemente il film nel suo Afterthoughts on “Visual
Pleasure and Narrative Cinema” Inspired by Duel in the Sun (King Vidor, 1946), «Framework»,
nn. 15-16-17, estate 1981, pp. 12-15, [tr. it. Le ambiguità dello sguardo, «Lapis», n. 7, marzo
1990, pp. 38-42], – ma solo nel contesto del western di Vidor molto più orientato al
maschile. Cosı̀, nonostante Amore sublime continui a venir fuori nel contesto delle discussioni
sul melodramma, sul sentimento, la maternità e il pubblico femminile, non è stato ancora
oggetto dell’accurato esame complessivo che merita, tranne che da parte di Kaplan, della
quale affronto molti argomenti nel presente lavoro.

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 379

nili e sulla sua relazione con la teoria cinematografica femminista. Ci


troveremo allora in una posizione migliore per sciogliere il nodo madre-
figlia di questo particolare film. Quindi abbandoneremo per ora Stella
Dallas nella sua desolata situazione sotto la pioggia, mentre guarda sua
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figlia attraverso la grande immagine della finestra – l’enigma dello sguardo


femminile ai e nei film.

Teoria cinematografica femminista e teorie della maternità


Molta teoria e molta critica cinematografica femminista recenti sono incen-
trate sulla descrizione e sull’analisi degli scenari edipici in cui, come ha
scritto Laura Mulvey, la donna è un’immagine passiva e l’uomo è l’agente
11
attivo dello sguardo . L’impulso maggiore di queste forme di critica femmi-
nista ha riguardato meno l’esistenza di stereotipi femminili che dei loro
mezzi di produzione ideologici, psicologici e testuali. Per Claire Johnston,
la realtà stessa della rappresentazione iconica dell’immagine cinematogra-
fica garantisce che le donne verranno ridotte a oggetti di uno sguardo
erotico maschile. Johnston conclude che la «donna in quanto donna» non
può essere rappresentata affatto all’interno dell’economia rappresentativa
12
dominante . La ragione basilare di questa conclusione è l’ipotesi che
l’incontro visivo con il corpo femminile produce nello spettatore un biso-
gno costante di essere rassicurato sulla propria unità fisica.
È come se il maschio produttore e consumatore dell’immagine non
riesca mai ad andare oltre il fatto perturbante della differenza sessuale e cosı̀
produca e consumi costantemente immagini di donne disegnate per rassi-
curarlo sulla sua unità minacciata. In questo e in altri modi, la teoria
cinematografica femminista si è appropriata di alcuni concetti chiave dalla
psicanalisi lacaniana per spiegare perché la soggettività sembri essere sem-
pre prerogativa del maschio.
Secondo Lacan, attraverso il riconoscimento della differenza sessuale di
un “altro” femminile a cui manca il fallo che è il simbolo del privilegio
patriarcale, il bambino ottiene l’accesso all’ordine simbolico della cultura

11
Laura Mulvey, Visual Pleasure..., cit., p. 11. Vedi anche la maggior parte dei saggi in
Mary Ann Doane, Patricia Mellencamp e Linda Williams (a cura di), Re-Vision: Essays in
Feminist Film Criticism, Los Angeles, AFI Monograph Series, 1983.
12
Claire Johnston, per esempio, scrive in Women’s Cinema as Counter Cinema, cit.: «nono-
stante l’enorme enfasi posta sulle donne come spettacolo nel cinema, la donna in quanto
donna ne è largamente assente». p. 26, [tr. it. p. 59].

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380 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

umana. Questa cultura produce poi narrazioni che reprimono la figura della
mancanza che la madre – precedente figura della pienezza – è diventata.
Data questa situazione, la questione per la donna diventa, nei termini di
Christine Gledhill: «le donne sono in grado di parlare, e le immagini delle donne
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13
possono parlare per le donne?» . La risposta di Laura Mulvey, e la risposta di
molta critica femminista, sembrerebbero negative:

il desiderio della donna è assoggettato alla sua immagine di portatrice


della ferita sanguinante; ella può esistere soltanto in rapporto alla castra-
zione, non può trascenderla. Trasforma il proprio figlio nel significante del
suo stesso desiderio di possedere un pene (condizione, lei immagina,
dell’accesso al simbolico). Dovrà cedere garbatamente alla parola, al
Nome del Padre e alla Legge, oppure lottare per trattenere con sé suo
figlio nella penombra dell’immaginario. La donna, quindi, nella cultura
patriarcale funge da significante per l’altro maschile, vincolata da un
ordine simbolico in cui l’uomo può vivere le sue fantasie e ossessioni
tramite il dominio del linguaggio, imponendole all’immagine silenziosa
della donna, ancora legata al suo posto di portatrice, non creatrice, di
significato14.

Questa descrizione del «piacere visivo del cinema narrativo» delinea


due vie di fuga che hanno la funzione di sollevare lo spettatore dalla
minaccia dell’immagine della donna. Lo schema ora familiare elaborato da
Mulvey di queste due forme primarie di controllo attraverso le quali
l’inconscio maschile supera la minaccia di un incontro con il corpo femmi-
nile, è parallelo ai due piaceri perversi associati al maschile – il dominio
sadico del voyeurismo e il più benevolo disconoscimento del feticismo.
Entrambi sono modi di non-vedere, che sia mantenersi a distanza di
sicurezza da o misconoscere quello che c’è da vedere della differenza della
donna.
Lo scopo dell’analisi di Mulvey è di «accostarsi maggiormente alle
radici» dell’oppressione della donna per spezzare quei codici che non
riescono a produrre una soggettività femminile. Il suo obiettivo finale è,
quindi, una pratica di cinema d’avanguardia che rompa con il voyeurismo e
con il feticismo del cinema narrativo cosı̀ da «liberare lo sguardo della
macchina da presa nella sua materialità nello spazio e nel tempo» e lo

13
Christine Gledhill, Developments in Feminist Film Criticism, in Mary Ann Doane, Patricia
Mellencamp e Linda Williams (a cura di), Re-Vision, cit., p. 31. Originariamente pubblicato
in «Quarterly Review of Film Studies», vol. 3, n. 4, 1978, pp. 457-493.
14
Laura Mulvey, Visual Pleasure..., cit., p. 7; [tr. it. p. 27].

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 381

«sguardo del pubblico nella dialettica e nel distacco appassionato»15. Per


Mulvey, solo la radicale distruzione delle principali forme del piacere
narrativo completamente impegnato nel considerare le donne come oggetti
può offrire speranza a un cinema che sarà in grado di rappresentare non la
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donna come differenza ma le differenze delle donne.


È stato spesso notato che ciò che manca nell’influente analisi di Mulvey
del piacere visivo nella narrazione filmica è una qualsiasi disamina della
posizione della spettatrice. Sebbene numerosi lavori femministi di critica
cinematografica abbiano indicato questa assenza, pochissimi si sono azzar-
16
dati a colmarla . È un compito comprensibilmente più semplice rifiutare
del tutto i modelli di rappresentazione “dominanti” o “istituzionali” piutto-
sto che scoprire all’interno di questi modelli esistenti indizi di una soggetti-
vità femminile più “autentica” (il termine stesso è in effetti problematico).
Eppure io credo che quest’ultimo sia un approccio più fruttuoso, non solo
come mezzo per identificare che tipo di piacere le spettatrici traggano del
cinema narrativo classico, ma anche come mezzo per sviluppare nuove
strategie rappresentative, che parleranno più compiutamente al pubblico
femminile. Perché tale discorso deve essere formulato in un linguaggio che,
sebbene circoscritto all’interno dell’ideologia patriarcale, sia riconoscibile e
comprensibile per le donne. In questo modo, nuovi film femministi pos-
sono imparare a edificarsi sui piaceri del riconoscimento che esistono
all’interno dei modelli filmici già familiari alle donne.

15
Ivi, pp. 7, 18; [tr. it., pp. 27, 41].
16
Le poche femministe che hanno iniziato questo lavoro difficile ma importante sono:
Mary Ann Doane, Film and the Masquerade: Theorizing the Female Spectator, «Screen», vol. 23,
n. 3-4, settembre-ottobre 1982, pp. 74-87, [tr. it. Cinema e mascheramenti: per una teoria della
spettatrice, in Giuliana Bruno e Maria Nadotti (a cura di), Immagini allo schermo, Torino,
Rosenberg & Sellier, 1991, pp. 63-82, ora, con il titolo Il film e la mascherata: teorie sulla
spettatrice, in Mary Ann Doane, Donne fatali. Cinema, femminismo, psicoanalisi, Parma, Prati-
che, 1995]; Gertrude Koch, Why Women Go to the Movies, «Jump Cut», vol. 27, luglio 1982,
tr. ingl. Marc Silberman, pp. 51-53; Judith Mayne, The Woman at the Keyhole: Women’s
Cinema and Feminist Criticism, in Mary Ann Doane, Patricia Mellencamp e Linda Williams (a
cura di), Re-Vision..., cit., pp. 44-66, e Mulvey stessa in Afterthoughts on “Visual Pleasure and
Narrative Cinema”..., cit., pp. 12-15; B. Ruby Rich, in Michelle Citron e altri, Women and
Film: A Discussion of Feminist Aesthetics, «New German Critique», vol. 13, 1978; pp. 77-107; e
Tania Modleski, Loving With a Vengeance: Mass Produced Fantasies for Women, Hamden/
Connecticut, Archon Books, 1982. Da quando ho scritto questo articolo sono apparsi due
importanti nuovi libri su donne e cinema. Entrambi tengono decisamente conto dei processi
attraverso i quali la spettatrice si identifica con le immagini sullo schermo. Essi sono: E. Ann
Kaplan, Women and Film: Both Sides of the Camera, New York, Methuen, 1983, e Teresa de
Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, Bloomington, Indiana University Press,
1984.

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382 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Invece di distruggere i codici cinematografici che hanno collocato al


loro centro le donne come oggetti dello spettacolo, ciò che serve, e che ha
già iniziato a verificarsi, è un riconoscimento teorico e pratico dei modi in
cui le donne parlano realmente tra di loro nel patriarcato. Christine
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Gledhill, per esempio, organizza una causa convincente contro la tendenza


di tanta critica cinematografica femminista semiotica e psicanalitica a
criticare la rappresentazione realista per complicità ideologica nella sop-
pressione della differenza semiotica. Tale argomentazione tende a credere
che il semplice rifiuto delle forme di rappresentazione realista compirà
l’atto rivoluzionario di rendere consapevole lo spettatore di come vengono
prodotte le immagini. Gledhill afferma che questa consapevolezza non è
abbastanza: la costruzione sociale della realtà e delle donne non può essere
definita solo in termini di pratica significante. «Se un’ideologia radicale
come il femminismo viene definita come un mezzo per fornire una cornice
all’azione politica, si deve infine mettere il dito sulla bilancia, impegnarsi in
17
un qualche tipo di epistemologia realista» .
Ma di quale tipo? Ogni tentativo di costruire eroine forti e potenti ci
lascia vulnerabili, come nota Gledhill, all’accusa dell’identificazione ma-
schile: «Per quanto proviamo a spogliarci delle nostre potenziali identifica-
zioni femminili, tutte le posizioni disponibili sono già costruite dal posto
dell’altro patriarcale in modo da reprimere la nostra differenza “reale”. Cosı̀
l’indicibile rimane sconosciuto, e il dicibile riproduce ciò che noi cono-
18
sciamo, la realtà patriarcale» . Una soluzione al dilemma è la «individua-
zione di quegli spazi in cui le donne, al di fuori delle loro differenze
19
socialmente costruite in quanto donne, possono resistere e resistono» .
Questi includono discorsi prodotti principalmente per e (spesso, ma non
sempre) dalle donne e che si rivolgono alle contraddizioni che le donne
incontrano sotto il patriarcato: colonne di pubblicità per le donne, fiction
da rivista, soap opera, e «women’s films» melodrammatici. Sono tutti posti
in cui le donne parlano l’una all’altra in linguaggi che nascono dai loro
20
specifici ruoli sociali – come madri, governanti, custodi di tutti i generi .
L’affermazione di Gledhill secondo cui i discorsi sugli interessi sociali,
economici e emotivi delle donne vengono consumati da un pubblico preva-
lentemente femminile, potrebbe essere completata dall’ulteriore asserzione

17
Christine Gledhill, Developments in Feminist Film Criticism, cit., p. 41.
18
Ivi, p. 37.
19
Ivi, p. 42.
20
Ivi, pp. 44-45.

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 383

che alcuni di questi discorsi sono anche scritti in modo differente per
rendere necessaria una lettura molto diversa, femminile. Questo è ciò che
spero di mostrare a proposito di Amore sublime. La mia argomentazione,
quindi, non è solo che alcuni melodrammi materni si sono storicamente
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rivolti a pubblici femminili su questioni di interesse primario per le donne,


ma che questi melodrammi hanno anche strutturate nei loro testi posizioni
di lettura che richiedono una pratica di lettura femminile. Questa pratica
deriva dal modo differente in cui le donne assumono la propria identità
sotto il patriarcato ed è un risultato diretto della funzione sociale della
maternità femminile. È quindi con l’intenzione di applicare il significato
della costruzione sociale dell’identità femminile alle posizioni femminili
costruite dal melodramma materno che intendo fornire il seguente rapido
sommario delle recenti teorie femministe dell’identità e della maternità
femminile.
Sebbene Freud fosse stato costretto, almeno nei suoi scritti più tardi, ad
abbandonare la teoria della crescita parallela di maschio e femmina e a
riconoscere la maggiore importanza del legame preedipico della bambina
con la madre, egli poteva solo considerare una tale situazione come una
deviazione dal sentiero di separazione e individuazione “normali” (ad
21
esempio, maschile eterosessuale) . Il risultato era una teoria che lasciava le
donne in uno stato apparente di legame regressivo con le loro madri.
Ciò che Freud considerava come una mancanza deplorevole nella
crescita personale della bambina ora viene considerato dalle teoriche fem-
ministe meno infamante. Non importa in quale modo possano dissentire
sull’importanza della maternità, molti concordano sul fatto che essa con-
sente alle donne non solo di rimanere in connessione con i loro primi
oggetti d’amore, ma di estendere il modello di questa connessione a tutte le
22
altre relazioni con il mondo .

21
Freud inizia questo spostamento nel saggio del 1925, Some Psyichological Consequences of
the Anatomical Distinction Between the Sexes, «Standard Edition of the Complete Psychologi-
cal Works», Hogarth Press, 1953-1974, vol. XIX; [tr. it. Alcune conseguenze psichiche della
differenza anatomica tra i sessi (1925), in Sigmund Freud, Opere, vol. X, Torino, Bollati
Boringhieri, 1966-1980]. Egli continua nel saggio del 1931, Female Sexuality, vol. XXI; [tr. it.
Sessualità femminile (1931), in Opere, cit., vol. XI].
22
Il saggio critico di Marianne Hirsch, Mothers and Daughters, «Signs: Journal of Women
in Culture and Society», vol. 7, n. 1, autunno 1981, pp. 200-222, offre un eccellente riassunto
dei diversi fili del continuo riesame del rapporto madre-figlia. Hirsch esamina le teorie su
questo rapporto nella psicologia anglo-americana neofreudiana delle relazioni con l’oggetto
(Chodorow, Miller, Dinnerstein), nella critica junghiana del mito, e nelle teorie femministe
francesi sviluppatesi dallo strutturalismo, dal post-strutturalismo e dalla psicanalisi lacaniana.

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384 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

In La funzione materna la sociologa americana Nancy Chodorow tenta


di rendere conto del fatto che «le donne, in quanto madri, generano figlie
con capacità materne e con il desiderio di diventare madri»23. Ella mostra
che né la biologia né un ruolo didattico intenzionale possono spiegare
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l’organizzazione sociale dei ruoli di genere che relega le donne alla sfera
privata della casa e della famiglia e gli uomini alla sfera pubblica che ha
permesso loro di dominare. Il desiderio e la capacità di fare da madre sono
prodotti, con la mascolinità e la femminilità, all’interno di una divisione del
lavoro che ha già collocato le donne nella posizione di custodi primarie.
Sovrapposte a questa divisione del lavoro sono le due «asimmetrie edipi-
che»24 che Freud ammette: che le bambine entrano nella relazione edipica
triangolare più tardi dei maschi; che le bambine hanno una relazione
simbiotica preedipica con la madre di maggiore continuità.
In altre parole, le bambine non interrompono mai del tutto la propria
relazione originale con la madre, perché la loro identità sessuale come
donne non dipende da tale rottura. I bambini, in ogni caso, devono
interrompere la propria identificazione primaria con la madre per identifi-
carsi come maschi. Ciò significa che i bambini si definiscono come maschi
per via di negazione, differenziandosi dal loro custode primario che (in una
cultura che ha tradizionalmente considerato le donne innanzitutto come
madri) è femminile.
Il bambino si separa dalla madre per identificarsi con il padre e
assumere un’identità maschile di maggior autonomia. Dall’altra parte, la
bambina assume la sua identità di donna in un processo positivo in cui
diventa come, non differente da, sua madre. Sebbene alla fine debba
trasferire prima su suo padre e poi sugli uomini in generale la sua originaria
scelta d’amore, se è destinata ad essere una donna eterosessuale, non
spezzerà mai il vincolo originale con la madre come fanno i maschi.
Aggiungerà semplicemente l’amore per suo padre e infine l’amore per un
uomo (se diventa eterosessuale), alla propria relazione originaria con sua
madre. Ciò significa che un bambino sviluppa la propria identificazione di

Un recente studio di come il legame femminile incide sullo sviluppo morale femminile è:
Carol Gilligan, In a Different Voice, Cambridge, Harvard University Press, 1982; [tr. it. Con
voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli, 1987].
23
Nancy Chodorow, The Reproduction of Mothering: Psychoanalysis and the Sociology of
Gender, Berkeley, University of California Press, 1978, p. 7; [tr. it. La funzione materna.
Psicoanalisi e sociologia del ruolo materno, Milano, La Tartaruga, 1991].
24
Ivi, p. 7. «Asimmetrie edipiche» è un termine di Chodorow.

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 385

genere maschile in assenza di una relazione continua e in corso con suo


padre, mentre una bambina sviluppa la propria identità di genere femminile
in presenza di una relazione in corso con la persona concreta della propria
madre.
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In altre parole, la posizione del soggetto maschile è basata sul rifiuto di


una connessione con la madre e sull’adozione di un ruolo di genere
identificato con uno stereotipo culturale, mentre la posizione del soggetto
femminile si identifica con una madre concreta. La connessione delle
donne e il diniego della connessione da parte dell’uomo sono a loro volta
appropriati alla divisione sociale dei loro ruoli nella nostra cultura: al ruolo
dell’uomo come produttore al di fuori della casa e al ruolo della donna
25
come riproduttrice all’interno di essa .
L’analisi di Chodorow della connessione del legame madre-figlia ha
aperto la strada a un nuovo valore incentrato sull’identità femminile multi-
pla e continua capace di spostarsi con fluidità tra l’identità della madre e
26
quella della figlia . Diversamente da Freud, ella non presuppone che la
separazione e l’autonomia del processo di identificazione maschile siano
una norma dalla quale le donne deviano. Suppone, piuttosto, che il corrente
patto sociale dell’esclusiva maternità femminile abbia preparato gli uomini a
prendere parte a un mondo lavorativo spesso alienato, con una capacità
27
limitata di raggiungere l’intimità .
28
Cosı̀ Chodorow e altri hanno interrogato i reali parametri di unità e
autonomia attraverso i quali l’identità umana è stata specificatamente
misurata. E hanno fatto ciò senza ricorrere a un’essenza femminile biologi-
29
camente determinata .

25
Ivi, p. 178.
26
Marianne Hirsch esamina l’importanza di questo punto nel suo saggio critico Mothers
and Daughters, cit., p. 209. Cosı̀ fa anche Judith Kegan Gardiner in On Female Identity and
Writing by Women, «Critical Inquiry: Writing and Sexual Difference», vol. 8, n. 2, inverno
1981, pp. 347-361.
27
Nancy Chodorov, The Reproduction of Mothering, cit., p. 188.
28
Questi altri comprendono: Dorothy Dinnerstein, The Mermaid and the Minotaur: Sexual
Arrangements and the Human Malaise, New York, Harper e Row, 1976; Jessie Bernard, The
Future of Motherhood, New York, Dial Press, 1974; e Jean Baker Miller, Toward a New
Psychology of Women, Boston, Beacon Press, 1976.
29
Questo è il vero passo avanti delle teorie di Chodorow rispetto a quelle della
generazione precedente di psicoanaliste femministe. Karen Horney, per esempio, trova
necessario, come segnalano Juliet Mitchell e Jane Gallop, fare ricorso a dichiarazioni
espresse in termini generali sulla natura essenziale e biologicamente determinata delle
donne, non lasciando cosı̀ alcuna possibilità di cambiamento. Karen Horney, On the Genesis

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386 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Come Nancy Chodorow, la psicoanalista femminista francese Luce


Irigaray si rivolge ai problemi dell’originario tentativo di Freud di tracciare
identici stadi di sviluppo sia per i maschi che per le femmine. In Speculum.
L’altra donna, Irigaray riecheggia l’interesse di Chodorow per le «asimme-
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trie edipiche». Ma ciò che Irigaray mette in evidenza è la natura visiva dello
scenario di Freud – il fatto che la differenza sessuale venga originariamente
percepita come assenza dei genitali maschili piuttosto che come presenza
dei genitali femminili. In un capitolo intitolato Punti ciechi di un vecchio
sogno di simmetria, il “punto cieco” consiste in una visione maschile intrap-
polata in un “destino edipico” che non può vedere il sesso della donna e
perciò può solo rappresentarlo nei termini dell’altro originario e comple-
30
mentare del soggetto maschile: la madre .
“La donna” all’interno di questo sistema è rappresentata sia come la
madre onnipotente (fallica) dell’immaginario preedipico del bambino che
come la madre privata del potere (castrata) del suo immaginario simbolico
postedipico. Ciò che resta fuori da un tale sistema di rappresentazione è la
totalità del piacere della donna – un piacere che non può essere misurato in
termini fallici.
Ma ciò che Freud svalutava e reprimeva nel corpo femminile, Irigaray e
altre femministe impegnate nello «scrivere il corpo femminile» in una
31
e´criture feminine , sono determinate ad enfatizzarlo. In Questo sesso che non e`
un sesso Irigaray celebra i piaceri multipli e diffusi di un corpo femminile e
di un sesso femminile che non è solo una cosa, ma parecchie. Ma quando è
costretta ad entrare nella “economia scopica dominante” del piacere visivo
[la donna] viene immediatamente relegata, come anche Mulvey ha eviden-
ziato per quanto riguarda il cinema, nella posizione passiva del “bell’ogget-
32
to” .

of the Castration Complex in Women, «International Journal of Psychoanalysis», vol. V, 1924,


pp. 50-65.
30
Luce Irigaray, Spe´culum de l’autre femme, Paris, Éditions de Minuit, 1974; [tr. it. Speculum.
L’altra donna, Milano Feltrinelli, 1974].
31
Altre femministe francesi impegnate in questa “scrittura femminile” sono Hélène
Cixous, Monique Wittig, Julia Kristeva e Michèle Montrelay. Un’introduzione critica a
queste scrittrici si può trovare in Ann Rosalind Jones, Writing the Body: Toward an
Understanding of l’e´criture feminine, e Helene Vivienne Wenzel, The Text as Body/Politics: An
Appreciation of Monique Wittig’s Writings in Context, entrambi in «Feminist Studies», vol. 7, n.
2, estate 1981, pp. 247-287.
32
Luce Irigaray, Ce sex qui n’en est pas un, Paris, Éditions de Minuit, 1977, tr. ingl. Claudia
Reeder, in Elaine Marks e Isabelle de Courtivron (a cura di), New French Feminism, Amherst,
University of Massachusetts Press, 1980, pp. 100-101; [tr. it. Questo sesso che non e` un sesso,
Milano, Feltrinelli, 1978, in particolare al saggio Delle merci, tra loro, pp. 159-163].

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 387

33
Bisogna ammettere che la soluzione utopica di Irigaray al problema di
come le donne possono arrivare a rappresentarsi a se stesse è tuttavia
importante. Perché se le donne non possono stabilire la connessione tra i
loro corpi e il linguaggio, rischiano o di dover rinunciare a tutto il
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linguaggio del corpo – in una repressione familiare puritana di una sessua-


lità femminile eccessiva – o rischiano una celebrazione essenzialista di una
determinazione puramente biologica. Irigaray perciò propone una comu-
nità di donne che si mettono in relazione e parlano l’una con l’altra al di
fuori delle costrizioni di un linguaggio maschile che riduce tutto al proprio
bisogno di unità e di identità – un’“omosessualità femminile” opposta alla
“omosessualità maschile” dominante che governa abitualmente le relazioni
34
sia tra uomini e uomini, che tra uomini e donne .
Un’“economia femminile omosessuale” sfiderebbe cosı̀ l’ordine domi-
nante e renderebbe possibile alla donna di rappresentarsi a se stessa. Questa
argomentazione è simile a quella di Adrienne Rich nel suo articolo Eteroses-
sualità compulsiva e esistenza lesbica. Rich afferma che il lesbismo è un’im-
portante alternativa all’economia maschile del dominio. Che le preferenze
sessuali della donna siano o meno realmente omosessuali, il mero fatto
“dell’esistenza lesbica” dimostra che è possibile resistere ai valori dominanti
del maschio colonizzatore con una relazione più amorosa ed empatica
35
simile alla maternità . Il corpo femminile come luogo di partenza è tanto
necessario per Rich quanto lo è per Irigaray.
La critica di Adrienne Rich della psicoanalisi è basata sul concetto che i
suoi fondamentali presupposti patriarcali impediscono di ipotizzare rela-
zioni tra donne al di fuori del patriarcato. Il ricorso di Irigaray al corpo
femminile riecheggia ironicamente quello di Rich ma è costruito dall’interno
della teoria psicoanalitica. L’importanza di entrambe non sta semplice-
mente nel fatto che vedono il lesbismo come rifugio da un’economia fallica
oppressiva – sebbene certamente di questo si tratti per molte donne – ma

33
Le femministe angloamericane sono state perciò critiche nei confronti delle nuove
femministe francesi per due differenti ragioni: le femministe americane hanno criticato un
essenzialismo che sembrerebbe precludere il cambiamento (vedi, per esempio, il saggio di
Jones, citato nella nota 31); le femministe inglesi hanno criticato il loro apparente fallimento
nel rendere conto del modo in cui il corpo femminile è mediato dal linguaggio (vedi, per
esempio, Beverly Brown e Parveen Adams, The Feminine Body and Feminist Politics, «m/f», n.
3, 1979, pp. 35-50).
34
Luce Irigay, Ce sex qui n’en est pas un, cit., pp. 106-107; [tr. it. vedi in particolare il saggio
Delle merci, tra loro, pp. 159-163].
35
Adrienne Rich, Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence, «Signs», vol. 5, n. 4,
estate 1980, pp. 631-660.

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388 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

che è una soluzione teorica del legame del corpo femminile non-
rappresentato e non-rappresentabile.
L’eccitazione generata quando le donne stanno insieme, quando vanno
al mercato insieme «per giocare il proprio valore tra di loro, per parlarsi,
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36
per desiderarsi», non deve essere sottovalutata . Perché è solo imparando a
riconoscere e poi a rappresentare una differenza che non è differente per le
altre donne che le donne possono iniziare a vedersi. Il trucco, comunque, è
di non fermarsi lı̀; la donna che riconosce se stessa nel corpo delle altre
donne fa soltanto un primo passo necessario ad una comprensione dell’in-
37
terazione di corpo e psiche e della distanza che li separa .
Forse il più significativo tentativo di comprendere questa interazione è
il lavoro di Julia Kristeva sul corpo materno e sulla sessualità preedipica.
Come Irigaray, Kristeva tenta di esprimere le relazioni preedipiche della
donna con la donna. Ma, diversamente da Irigaray, lo fa con la consapevo-
lezza che tale linguaggio non è mai interamente autentico, mai interamente
libero dall’influenza fallica del linguaggio simbolico. In altre parole, sottoli-
nea la necessità di esigere un luogo da cui le donne possano parlare in
prima persona, ammettendo tutto il tempo che tale luogo non esiste. Cioè,
non può essere concepito o rappresentato al di fuori del linguaggio simbo-
38
lico che definisce le donne per via negativa .
Perciò, ciò che propone Kristeva è una dialettica autocosciente tra due
forme imperfette di linguaggio. Il primo lo chiama “emiotico”: un linguag-
gio preverbale e materno del ritmo, del tono e del colore connesso al
contatto del corpo con la madre prima che il bambino sia differenziato
dall’ingresso nel simbolico. Il secondo è il “simbolico” propriamente detto,
39
caratterizzato dalla logica, dalla sintassi e dall’astrazione fallocratica . Se-
condo Kristeva, tutti gli esseri umani si sviluppano attraverso l’interazione
di queste due modalità. Il valore di questa concezione sta nel fatto che non
ci troviamo più rinchiusi nell’indagine delle differenti identità sessuali, ma
siamo invece liberati nell’indagine delle differenziazioni sessuali – posizioni
del soggetto che sono associate alle funzioni materne o paterne.

36
Luce Irigay, Ce sex qui n’en est pas un, cit., p. 110; [tr. it. p. 163].
37
Mary Ann Doane, Woman’s Stake: Filming the Female Body, «October», vol. 17, estate
1981, p. 30.
38
Il lavoro di Kristeva è stato tradotto in due volumi: Desire in Language: A Semiotic
Approach to Literature and Art, tr. ingl. Thomas Gora, Alice Jardine, Leon S. Roudiez, New
York, Columbia University Press, 1980; e About Chinese Woman, tr. ingl. Anita Barrows, New
York, Horizon Books, 1977.
39
Alice Jardine, Theories of Feminine: Kristeva, «Enclitic», vol. 4, n. 2, autunno 1980, p. 13.

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 389

Parlando dalla posizione della madre, Kristeva mostra che la maternità


è caratterizzata dalla divisione. La madre è posseduta da un’eterogeneità
interna che va al di là del suo controllo: «le cellule si fondono, si spaccano e
proliferano; i volumi aumentano, i tessuti tirano, e i fluidi corporali cam-
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biano ritmo, accelerandolo o rallentandolo. All’interno del corpo, cre-


scendo come un innesto, indomabile, c’è un altro. E nessuno è presente, in
quello spazio contemporaneamente doppio e alieno, a significare cosa stia
40
accadendo. “Accade, ma io non sono lı̀”» .
Ma anche se parla da questo spazio della madre, Kristeva nota che è
vacante, che non c’è nessun soggetto unificato presente lı̀. Parla ancora,
comunque, riconoscendo consapevolmente l’illusione patriarcale della ma-
dre onnipotente e tutta fallica. Per Kristeva ad essere importante è la
dialettica tra due inadeguate e incomplete posizioni del soggetto sessual-
mente differenziate. La dialettica tra un corpo materno che è troppo diffuso,
contraddittorio, polimorfo per essere rappresentato e un corpo paterno che
è incanalato e represso in un singolo significato rappresentabile fa sı̀ che la
donna non venga rappresentata affatto.
Cosı̀, come nota Jane Gallop, le donne non sono a tal punto primaria-
mente ed esclusivamente corpo da dover rimanere eternamente irrappre-
41
sentabili . Ma la dialettica tra ciò che è puro corpo e quindi sfugge alla
rappresentazione e ciò che è una rappresentazione finita e stabilita rende
possibile un tipo diverso di rappresentazione che sfugge alla rigidezza di
un’identità stabilita. Con questa nozione di una dialettica tra il non-
rappresentabile materno e il paterno già-rappresentato, possiamo iniziare a
cercare una soluzione al vincolo teorico della rappresentazione delle donne
nel cinema e al modo in cui le spettatrici probabilmente leggono Amore
sublime e la sua ambivalente scena finale.

«Qualcos’altro oltre che madre»


La storia di Stella inizia con i suoi tentativi di attrarre l’attenzione dell’alto
borghese Stephen Dallas (John Boles), che si è seppellito nella piccola città
di Milhampton dopo che uno scandalo nella sua famiglia aveva rovinato i

40
Julia Kristeva, Motherhood According to Giovanni Bellini, in Desire in Language, cit., pp.
237-270.
41
Jane Gallop, The Fallic Mother: Freudian Analysis, in Id., The Daughter’s Seduction:
Feminism and Psychoanalysis, Ithaca, New York, Cornell University Press, 1982, pp. 113-131.

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390 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

suoi progetti di matrimonio. Come ogni ambiziosa ragazza proletaria che


ha come unica risorsa un bell’aspetto, Stella tenta di migliorare inseguendo
un uomo dell’alta borghesia. Per farsi notare da lui, porta di proposito il
pranzo a suo fratello nella fabbrica di cui Stephen è il capo, recitando
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falsamente il ruolo della madre protettiva. La ricercatezza che mette in


questo ruolo la distingue dalla sua tetra, stacanovista e servile madre
(interpretata da Marjorie Main, senza il suo abituale tocco comico).
Durante il loro breve corteggiamento, Stella e Stephen vanno al ci-
nema. Sullo schermo vedono coppie che danzano in un ambiente elegante
seguite da un abbraccio da lieto fine. Stella è coinvolta dalla storia e alla
fine piange. Fuori dal cinema ella rivela a Stephen il suo desiderio di «essere
come i personaggi dei film che fanno ogni cosa in modo educato e
raffinato». Immagina che tutto il mondo di lui somigli a questa scena
favolosa. La sua storia, in un certo senso, si trasformerà nel tentativo fallito
di situarsi nella scena del film senza perdere quell’originale piacere spettato-
riale di stare a guardare da lontano.
Una volta sposato Stephen, Stella sembra vicina a realizzare questo
sogno. Nella piccola città che una volta la ignorava ora può andare al
“River Club” e unirsi al bel mondo. Ma interviene la maternità, costringen-
dola sfortunatamente a rinchiudersi durante i lunghi mesi della gravidanza.
Uscita finalmente dall’ospedale, insiste per una serata al country club con il
bel mondo che per tanto tempo l’ha evitata. (In realtà la maggior parte di
loro sono volgari nuovi ricchi, che Stephen, da snob alto-borghese quale è,
disprezza profondamente). Nei suoi strenui sforzi di partecipare al diverti-
mento dei ricchi, Stella dà spettacolo di se stessa agli occhi di Stephen. Egli
la vede per la prima volta come la donna proletaria che è e la giudica
aspramente, ricordandole che una volta voleva essere qualcosa di più di ciò
che era. Lei, a sua volta, critica la sua rigidezza e gli chiede di fare alcune
delle mediazioni necessarie per realizzare un cambiamento.
Quando Stephen chiede a Stella di andare con lui a New York per
ricominciare come la signora Dallas veramente alto borghese, lei rifiuta di
lasciare l’unico mondo che conosce. In parte la sua ragione deve essere che
lasciare questo mondo significherebbe anche lasciare l’unica identità mai
acquisita per diventare di nuovo nessuno. Nella piccola città industriale
dove Stephen si era rifugiato per dimenticare se stesso, Stella può trovare se
stessa misurando la distanza percorsa tra la sua giovinezza proletaria e la
sua condizione di signora alto-borghese. È come se avesse bisogno di poter
misurare questa distanza per prendere possesso del suo nuovo io a partire
dal punto d’osservazione della ragazza che era una volta con Stephen al
cinema.

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 391

Senza la memoria di questo io precedente che la città le assicura, Stella


perde il già precario possesso della propria identità.
Quando Stephen si allontana da lei, Stella si immerge in un altro
aspetto della sua identità: la maternità. Dopo la sua resistenza iniziale, è un
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ruolo che trova sorprendentemente attraente. Ma non si rassegna mai ad


essere solo una madre. In assenza di Stephen continua a cercare un piacere
innocente ma vivo – soprattutto con lo sguaiato Ed Mann. Quando sua
figlia Laurel cresce, assistiamo a molteplici scene che compromettono
Stella agli occhi di Stephen (in quelle rare occasioni in cui lui torna a casa)
e dei membri più puritani della comunità. In ognuna delle circostanze Stella
è colpevole soltanto di cercare di divertirsi un po’ – sia suonando e
bevendo con Ed o facendo scherzi su un treno con la polverina che dà
prurito. Ogni volta ci vengono confermati l’impegno primario di Stella nei
confronti della maternità e le sue numerose buone qualità come madre.
(Arriva a dichiarare a Ed Mann, in risposta a una sua esplicita proposta:
«non credo che ci sia un uomo vivente che possa farmi perdere ancora la
testa»). Ma ogni volta le ripercussioni dell’incidente che si verifica sono
l’isolamento della madre e della figlia dal mondo alto borghese al quale
aspirano di appartenere, ma per il quale si rivela adatta solo Laurel. Un
momento particolarmente commovente è la festa di compleanno di Laurel
in cui la madre e la figlia ricevono, uno dopo l’altro, il rifiuto degli invitati.
La figlia innocente paga quindi per i “peccati” di gusto e di classe della
madre. Il risultato finale, comunque, è un legame più profondo tra le due
poiché ognuna tristemente ma generosamente finge un’espressione serena a
beneficio dell’altra ed entra risolutamente in sala da pranzo per festeggiare
il compleanno in solitudine.
In ciascuna delle occasioni in cui Stella contravviene al comportamento
appropriato, c’è un momento in cui prima vediamo il punto di vista
innocente di Stella e poi il punto di vista della comunità o del distaccato
42
marito che la considera una cattiva madre . Il loro giudizio poggia sul fatto
che Stella insiste nel rendere la sua maternità un’esperienza piacevole
condividendo la scena con sua figlia. L’unica cosa che non farà, per lo
meno fino alla fine, è di ritirarsi sullo sfondo.
Uno dei conflitti basilari del film cosı̀ ruota intorno alla presenza
eccessiva del corpo e dell’abbigliamento di Stella. Ella ostenta sempre più

42
Ann Kaplan in The Case of the Missing Mother, cit., p. 83, enfatizza questo “strappo” dal
punto di vista filmico di Stella ai valori dell’alta borghesia e ai punti di vista di Stephen e
degli abitanti della città.

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392 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

una presenza esageratamente femminile che la comunità offesa preferisce


non vedere. (La recitazione enfatizzata di Barbara Stanwyck contribuisce a
questo effetto. Non riesco a pensare nessun’altra star cinematografica del
periodo cosı̀ spontanea nell’eccedere sia i confini del buon gusto che del
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sex-appeal in un’unica performance). Ma più Stella indossa balze di pizzo,


piume, pellicce e gioielli appariscenti, più accentua la sua patetica inadegua-
tezza.
La sua strategia può solo avere l’effetto opposto agli occhi dell’alta-
borghesia il cui ritegno la porta ad apprezzare un’ideale di femminilità
aggraziato e ricercato. Per questi occhi Stella rappresenta una parodia, una
mascherata eccessiva di ciò che significa essere una donna. Nell’elegante
albergo in cui Stella e Laurel si recano per godersi insieme la vita alto-
borghese, uno studente di college, alla vista di Stella, esclama: «questa non
è una donna, è un albero di Natale!». Stella, comunque, non potrebbe mai
comprendere questa tendenza alla moderazione, cosı̀ come non capisce i
tentativi del marito alto-borghese di attenuare l’impatto violento della sua
presenza invitandola a correggere il suo inglese e ad adottare un abbiglia-
mento più discreto. Lei risponde agli sforzi di lui con l’insolente afferma-
zione: «sono sempre stata nota per avere un sacco di stile!».
«Stile» è la pittura di guerra che lei stende a strati più spessi ad ogni
nuovo attacco alla sua legittimità di donna e di madre. Una scena partico-
larmente toccante la mostra seduta davanti allo specchio della sua toilette
mentre Laurel le racconta dell’eleganza e bellezza “naturali” di Helen
Morrison, la donna che ha preso il posto di Stella nell’affetto di Stephen. La
sola risposta di Stella è di mettersi ancora più crema emolliente. Quando
accidentalmente fa cadere un po’ di crema sulla fotografia che ha Laurel
dell’ideale signora Morrison, Laurel ne è contrariata ed esce di corsa per
pulirla. La cosa più commovente della scena è la complicità emotiva di
Laurel, che capisce subito fino a che punto la sua descrizione ha ferito la
madre e in silenzio si concentra nel lavoro di applicare più perossido ai
capelli di Stella. La scena termina con la madre e la figlia davanti allo
specchio che tacitamente comunicano attraverso lo strumento della ma-
schera femminile – ognuna con addosso un’espressione serena a beneficio
dell’altra, proprio come avevano fatto alla festa di compleanno.
«Un sacco di stile», strati di make-up, vestiti, gioielli – questi sono,
naturalmente, i tipici equipaggiamenti della donna feticizzata. Tuttavia tale
feticizzazione sembra fuori posto in un woman’s film indirizzato a un
pubblico prevalentemente femminile. Più specificamente, l’interesse del
woman’s film per una femminilità vittimizzata e sofferente ha portato, come

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 393

ha mostrato Mary Ann Doane, a rendere isterici i corpi delle donne e ad


assoggettarli al discorso medico dell’afflizione o alla paranoia del pertur-
43
bante .
Potremmo chiedere, quindi, quale effetto abbia un’immagine femminile
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feticizzata nel contesto di un film «indirizzato» alle e «posseduto dalle»


donne? Certamente questa è una situazione in cui non sembra verosimile
che il corpo della donna costituisca una minaccia di castrazione – dal
momento che gli spettatori significativi del (e all’interno del) film sono tutte
donne. In termini psicanalitici, il feticcio è ciò che disconosce o che
compensa la mancanza del pene della donna. Come abbiamo visto prima,
per lo spettatore il feticcio efficace distoglie l’attenzione da ciò che manca
“realmente” richiamando l’attenzione su altri aspetti (sopravvalutati) della
differenza della donna. Ma allo stesso tempo esso inscrive anche la donna
44
in una «mascherata della femminilità» che ruota perennemente intorno
alla «mancanza» di lei. Cosı̀, in ultima analisi, l’intero corpo femminile
diventa un sostituto feticcio del fallo che lei non possiede. La bella donna
(feticizzata con successo) rappresenta in tal modo un’essenza eterna della
femminilità biologicamente determinata costruita dal punto di vista, per
cosı̀ dire, del fallo.
In Amore sublime, la feticizzazione della Stella di Stanwyck non ha
successo; la mascherata della femminilità è fin troppo evidente; e il punto
di vista significativo su tutto ciò è femminile. Per esempio, nel ricercato
albergo in cui fa di se stessa uno spettacolo da «albero di Natale», Stella è
più inconsapevole che mai dell’effetto scioccante provocato dalla sua appa-
rizione. Ma Laurel si vergogna dello scherno dei suoi amici. La scena in cui
Laurel prova questa vergogna è una parodia grottesca del sogno più
appassionato di Stella, quello di essere come i personaggi affascinanti dei
film. Stella ha impegnato tutte le sue energie e le sue risorse per adeguarsi a
questa immagine favolosa. Ma a causa di un raffreddore, come un tempo
della gravidanza, è costretta a rimanere fuori dalla scena, mentre Laurel
suscita un’impressione favorevole. Quando finalmente fa la sua grande
entrata in scena, Stella viene osservata da Laurel e dai suoi amici in un
grande specchio sopra un chiosco delle bibite. Lo specchio funziona come
lo schermo incorniciato che riflette la parodia dell’immagine del fascino a

43
Mary Ann Doane, The Woman’s Film: Possession and Address, in Mary Ann Doane,
Patricia Mellencamp e Linda Williams (a cura di), Re-Vision, cit., pp. 67-82.
44
Il termine – originariamente usato da Joan Riviere – è utilizzato in Mary Ann Doane,
Film and the Masquerade, cit., pp. 74-87; [tr. it. Il film e la mascherata, cit.].

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394 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

cui una volta Stella aspirava. Per non confessare la loro parentela, Laurel
fugge fuori. Più tardi, insiste perché partano. Sul treno verso casa, Stella
sente per caso le amiche di Laurel scherzare sulla volgare signora Dallas. È
allora che decide di mandare Laurel a vivere con Stephen e la signora
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Morrison e di rinunciare a Laurel per il suo bene. È significativo, comun-


que, che Stella senta per caso la conversazione nello stesso momento in cui
la sente Laurel – si trovano nelle cuccette superiore e inferiore del treno,
ognuna sperando che l’altra dorma, ognuna fingendo con l’altra di essere
addormentata. Cosı̀ Stella non sperimenta solo la propria umiliazione; vede
per la prima volta la parodia che è diventata condividendo l’umiliazione di
sua figlia.
Vedendo se stessa attraverso gli occhi di sua figlia, Stella vede anche
qualcosa di più. Per la prima volta Stella vede la realtà della sua situazione
sociale dal punto d’osservazione del sistema di valori, comprensivo ma
sempre più alto borghese, di sua figlia: lei è una donna senza istruzione che
lotta per affermarsi e che fa del suo meglio con le risorse a sua disposizione.
Ed è questa visione, attraverso gli occhi indulgenti e amorevoli di sua figlia
– occhi che percepiscono, comprendono e perdonano il fatto che Stella
manchi di attrattive sociali – che le fa decidere di mettere in scena la
mascherata che alienerà Laurel per sempre dimostrandole ciò che il patriar-
cato sostiene da sempre: che non è possibile combinare il desiderio
femminile con il dovere materno.
È a questo punto che Stella rivendica, falsamente, di voler essere
«qualcos’altro oltre che madre». L’ironia è non solo che ormai non c’è in
realtà nient’altro che lei voglia essere, ma anche che fingendo questo con
Laurel deve mettere in atto una dolorosa parodia del suo io feticizzato. Ella
risuscita cosı̀ il personaggio della donna dei “bei tempi” che una volta
voleva diventare (ma che non era mai riuscita interamente ad essere) solo
per convincere Laurel di essere una madre indegna. In altre parole, lei
dimostra proprio la sua indegnità di madre (il suo desiderio di benessere
materiale e sociale per sua figlia) costruendo uno scenario palesemente
falso di egocentrismo narcisistico – finge di ignorare Laurel mentre poltri-
sce in négligé, fumando una sigaretta, ascoltando il jazz e leggendo una
rivista intitolata «Love».
In questa scena l’immagine convenzionale della donna feticizzata as-
sume una piega peculiare, perfino parodistica. Perché se la mascherata
convenzionale della femminilità può essere letta come un tentativo di
nascondere “mancanze” presumibilmente biologiche con un eccesso com-
pensatorio di gesti, abbigliamento ed equipaggiamenti peculiarmente fem-

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 395

minili, qui la feticizzazione funziona come un disconoscimento sfacciata-


mente patetico di mancanze sociali molto più pressanti – di soldi,
educazione e potere. Lo spettacolo che Stella mette in scena per gli occhi
di Laurel, disloca cosı̀ le reali cause sociali e economiche della sua presunta
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inadeguatezza come madre in un preteso desiderio di realizzazione come


donna – di essere «qualcos’altro oltre che madre».
All’inizio del film Stella finge una preoccupazione materna che in realtà
non ha (quando porta il pranzo al fratello per flirtare con Stephen) per
trovare una sistemazione migliore. Ora finge una mancanza della stessa
preoccupazione per assicurare a Laurel una situazione migliore. Entrambi i
ruoli sono palesemente falsi. E benché nessuno dei due ci consenta di
vedere la donna “autentica” sotto la maschera, la successione dei ruoli che
termina nella straordinaria rinuncia finale della scena della finestra – in cui
Stella abbandona tutte le sue maschere per diventare lo spettatore anonimo
del ruolo di sua figlia come sposa – consente di intravedere le realtà sociali
ed economiche che hanno prodotto tali ruoli. La vera colpa di Stella, agli
occhi della comunità che le fa un ostracismo cosı̀ spietato, è di aver provato
a interpretare entrambi i ruoli contemporaneamente.
Dobbiamo concludere, quindi, che il film semplicemente la punisca per
queste inopportune resistenze al ruolo che le compete? E. Ann Kaplan ha
sostenuto che è proprio cosı̀ e che in tutto il film il punto di vista di Stella
viene ignorato da quelli della comunità alto borghese – Stephen o la gente
snob della città – che disapprovano il suo comportamento. Kaplan nota,
per esempio, che una scena può cominciare con il punto di vista di Stella,
ma va poi slittando, come nel caso del party improvvisato con Ed Mann,
45
verso il punto di vista più critico di Stephen .
Vorrei ribattere, comunque, che questi punti di vista multipli, spesso
conflittuali – inclusa l’incapacità di Laurel di interpretare il gesto di sua
madre – impediscono una visione cosı̀ monolitica del soggetto femminile.
Kaplan sostiene, per esempio, che il film punisce Stella per le sue resistenze
a una corretta visione patriarcale della maternità, trasformandola prima in
spettacolo per lo sguardo di disapprovazione dell’alta borghesia e poi infine
in mero spettatore, tagliato fuori dall’azione nella scena finale della finestra
46
con la quale termina il film .
Certamente questa scena finale ha la funzione di cancellare Stella,
anche se glorifica il suo atto sacrificale di amore materno. Autoesiliata dal

45
E. Ann Kaplan, The Case of the Missing Mother, cit., p. 83.
46
Ibid.

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396 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

mondo nel quale sua figlia sta andando sposa, Stella perde sia sua figlia che
il suo (precedentemente feticizzato) sé per diventare un ideale astratto (e
assente) del sacrificio materno. Significativamente, per la prima volta in
questa scena, Stella appare spogliata dei segni ridondanti di femminilità – il
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trucco eccessivo, le pellicce, le balze di pizzo, i gioielli appariscenti e i


vestiti arricciati – che sono stati le armi della sua provocatoria affermazione
che un donna può essere «qualcos’altro, oltre che madre».
Sarebbe possibile fermarsi qui e prendere questo finale come l’ultima
parola di Hollywood sulla madre, come prova della sua definitiva non
rappresentabilità se non in termini patriarcali. Certamente se ricordiamo
Stella solo come appare qui alla fine del film, come la ricorda Val in The
Women’s Room di French, allora la vediamo solo nel momento in cui
diventa rappresentabile nei termini di una “economia fallica” che idealizza
la donna in quanto madre e cosı̀ facendo, come afferma Irigaray, sopprime
ogni altra cosa che la riguardi. Ma sebbene il momento finale del film
“risolva” la contraddizione del tentativo di Stella di essere una donna e una
madre sradicandoli entrambi, i centootto minuti che portano a questo
momento presentano il tentativo eroico di vivere al di fuori della contraddi-
47
zione .
Sembra plausibile, quindi, che la spettatrice tenda a vedere anche
questo finale come ha visto il resto del film: da una molteplicità di differenti
posizioni del soggetto. In altre parole, la spettatrice tende a identificarsi con
la contraddizione stessa – con le contraddizioni situate nel cuore dei ruoli
socialmente costruiti di figlia, di moglie e di madre – piuttosto che con la
singola persona della madre.
A questo proposito, il ruolo di Helen Morrison, la madre vedova alto
borghese che Stephen sarà libero di sposare quando Stella esce di scena,
assume una particolare importanza. Helen è tutto ciò che Stella non è:
raffinata, discreta, schiva e comprensiva con i problemi di tutti – inclusi
quelli di Stella. Ella è, per esempio, l’unica persona nel film a comprendere
lo stratagemma di Stella per allontanare Laurel. Ed è lei che, conoscendo
gli istinti più nobili di Stella, lascia aperte le tende per permettere a Stella di
guardare il matrimonio di Laurel nella sua elegante casa.
Nello scrivere della forma narrativa delle soap opera dei nostri giorni,
Tania Modleski ha osservato che il pubblico prevalentemente femminile

47
Molly Haskell, nel suo studio pionieristico From Reverence to Rape, cit., p. 31, nota
questa tendenza del pubblico femminile a lasciare il cinema con il ricordo di una rivolta
eroica, piuttosto che con il senso di sconfitta con il quale finiscono tanti film.

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 397

delle soap non si identifica con un personaggio principale dominante nel


modo in cui si identificano le spettatrici di forme narrative più classiche. La
forma stessa della soap opera incoraggia l’identificazione con punti di vista
multipli. In un dato momento, le spettatrici si identificano con una donna
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che sta insieme al suo amante, in un altro con le sofferenze della rivale di
lei. Mentre l’effetto dell’identificazione con un singolo protagonista domi-
nante è di dare allo spettatore la sensazione del potere, l’effetto dell’identifi-
cazione multipla nelle interminabili soap opera è di spogliare lo spettatore
del potere, ma di aumentare l’empatia. «Il soggetto spettatore delle soap, si
potrebbe dire, è concepito come una sorta di madre ideale: una persona
dotata di maggiore saggezza di tutti i suoi figli, la cui indulgenza è grande
abbastanza da comprendere le richieste conflittuali della sua famiglia (lei si
identifica con tutti loro) e che non ha rivendicazioni o richieste per se
48
stessa (non si identifica esclusivamente con un singolo personaggio)» .
In Amore sublime Helen rappresenta chiaramente questa madre idealiz-
zata, empatica, ma impotente. Ann Kaplan ha affermato che le spettatrici
imparano dall’esempio di Helen Morrison che è il suo il ruolo appropriato
a una madre; che fino ad ora Stella si è illecitamente accaparrata lo
schermo. Dopo che Stella ha compiuto il suo sacrificio ed è diventata mera
spettatrice dell’apoteosi di sua figlia, la sua gioia per il successo della figlia
ci assicura, con le parole di Kaplan, «la sua soddisfazione di essere stata
ridotta a spettatore [...] Mentre lo spettatore cinematografico prova una
certa tristezza al posto di Stella, si identifica anche con Laurel e con la sua
conquista di ciò che tutti noi, insieme a lei, abbiamo desiderato; cioè un
matrimonio romantico nell’alta borghesia. In questo modo, noi approviamo
49
la necessità del sacrificio di Stella» .
Ma è proprio cosı̀? Come nota Kaplan stessa, la spettatrice si identifica
con una molteplicità di punti di vista conflittuali come nelle soap opera
televisive: Stella, Laurel, Helen e Stephen non possono risolvere i loro
conflitti senza che qualcuno ne rimanga ferito. Laurel perde sua madre e
soffre visibilmente per questa perdita; Stella perde sua figlia e la sua identità,
Helen ottiene Stephen ma, privata di qualsiasi possibilità di intervento,
soffre per tutti inclusa se stessa (quando Stella aveva rifiutato di divorziare
da Stephen). Alla fine solo Stephen è completamente libero dalla soffe-

48
Tania Modleski, The Search for Tomorrow in Today’s Soap Opera: Notes on a Feminine
Narrative Form, «Film Quarterly», vol. 33, n. 1, autunno 1979. Una versione più lunga di
questo articolo si può trovare nel libro di Modleski, Loving With a Vengeance: Mass Produced
Fantasies for Women, cit., pp. 85-109.
49
E. Ann Kaplan, Theories of Melodrama, cit., p. 46.

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398 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

renza, ma questo accade proprio perché egli è, per carattere, dimentico
delle sofferenze altrui. Percepire il finale del film come risolutivo di tutti i
problemi, significa identificarsi con questo punto di vista che è il meno
sensibile e, quindi, il meno comprensivo.
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Invece, ci identifichiamo, come la spettatrice madre ideale delle soap,


con tutti i punti di vista conflittuali. Siccome la stessa Helen è una madre di
questo tipo, diventa un fulcro importante, ma non esclusivo, dell’identifica-
zione spettatoriale. Ella diventa, per esempio, la testimone significativa del
sacrificio di Stella. La sua unica azione in tutto il film è di lasciare aperte le
tende – un atto che aiuta a mettere Stella nella stessa posizione passiva e
impotente di spettatrice che è propria di Helen. Ma se questo confina-
mento nella posizione dello spettatore fuori dall’azione risolve la narra-
zione, è una soluzione insoddisfacente per tutte le protagoniste femminili.
Cosı̀, laddove Kaplan considera la fine di Amore sublime come adempi-
mento delle richieste patriarcali di repressione degli aspetti attivi e com-
plessi del ruolo della madre e come insegnamento alle spettatrici di
ottenere i loro piaceri ambigui da questa posizione empatica al di fuori
dell’azione, io sono propensa a sostenere che il finale poggi su un’identifica-
zione troppo multipla e troppo dialettica, nel senso di Julia Kristeva della
lotta tra le forme di linguaggio materna e paterna, per incoraggiare una
risposta di questo tipo. Certamente il film ha costruito immagini definitive
della maternità – prima la Helen raffinata e infine una Stella dimessa – a
favore di un maggior potere e benessere del padre. Ma a causa del fatto che
l’empatia spettatoriale del padre stesso è cosı̀ scarsa – qui Stephen è in gran
parte ciò che era con Stella al cinema, presente ma non identificato in sé
stesso – noi non possiamo vederla in questo modo. Notiamo invece le
contraddizioni tra ciò che la soluzione patriarcale del film ci chiede di
vedere – la madre “al suo posto” di spettatrice, che rinuncia alla sua
precedente posizione nella scena – e ciò che, in quanto spettatrici femminili
empaticamente partecipi e identificate, non possiamo fare a meno di sentire
– la perdita della madre per la figlia e della figlia per la madre.
Questa doppia visione sembra tipica dell’esperienza della maggior parte
delle spettatrici cinematografiche. Una spiegazione di ciò, potremmo ricor-
dare, è la teoria di Nancy Chodorow in base alla quale l’identità femminile
si forma attraverso un processo di doppia identificazione. La ragazza si
identifica con il suo oggetto d’amore primario – sua madre – e poi, senza
mai abbandonare la prima identificazione, con il padre. Secondo Chodo-
row, il senso di sé della donna è basato su una continuità di rapporto che in
definitiva la prepara al ruolo empatico e identificatorio della madre. Diver-

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 399

samente dal maschio, che deve costantemente distinguersi dal suo oggetto
originario di identificazione per assumere un’identità maschile, la capacità
della donna di identificarsi con una molteplicità di posizioni differenti del
soggetto la rende un tipo molto diverso di spettatore.
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Le teoriche cinematografiche femministe tendevano a vedere questo


potere identificatorio multiplo della spettatrice con un po’ di diffidenza. In
un articolo sulla spettatrice, Mary Ann Doane ha suggerito che quando la
spettatrice guarda l’immagine filmica di una donna, si trova di fronte a due
possibilità basilari: può o iperidentificarsi (come nei drammi masochisti
tipici del film della donna) con la donna sullo schermo e cosı̀ perdere se
stessa nell’immagine, facendo di questa donna il proprio oggetto narcisi-
stico del desiderio; oppure può identificarsi temporaneamente con la posi-
zione del voyeur maschio e sottoporre questa stessa donna a uno sguardo
50
di controllo che sottolinea la distanza e la differenza tra di loro . In questo
caso, essa diventa temporaneamente, come osserva Laura Mulvey, un
51
travestito . Nell’uno e nell’altro caso, secondo Doane, perde se stessa.
Doane afferma che il solo modo in cui la spettatrice può evitare di
perdere se stessa in questa iperidentificazione è negoziando una distanza
dall’immagine della donna a cui sente di assomigliare – leggendo questa
immagine come un segno invece di un’immagine iconica che non richiede
alcuna lettura. Quando la spettatrice osserva un corpo femminile imprigio-
nato in una mascherata eccessiva della femminilità si imbatte in un segno
che richiede una lettura di questo tipo. Abbiamo visto che nel corso di una
buona parte di Amore sublime questo è ciò che Stella fa riguardo al proprio
corpo. Per Doane, quindi, una soluzione al dilemma della iperidentifica-
zione femminile con l’immagine sullo schermo è che questa immagine
metta in scena una mascherata della femminilità che crei una distanza tra lo
spettatore e l’immagine, per «generare una problematica all’interno della
52
quale la donna sia in grado di manipolare, produrre e leggere l’immagine» .
In altre parole, Doane pensa che le spettatrici abbiano bisogno di
prendere in prestito un po’ della distanza e della separazione dall’immagine
che sperimentano gli spettatori. Ritiene che numerose pratiche d’avanguar-
dia di distanziamento possano produrre questa distanza necessaria. Questo
ci riporta all’argomentazione di Mulvey secondo la quale il piacere narra-
tivo deve essere distrutto da pratiche d’avanguardia. Io vorrei invece

50
Mary Ann Doane, Film and the Masquerade, cit., p. 87; [tr. it. Il film e la mascherata, cit.].
51
Laura Mulvey, Afterthoughts on ‘‘Visual Pleasure and Narrative Cinema’’..., cit., p. 13; [tr. it.
p. 39].
52
Mary Ann Doane, Film and the Masquerade, cit., p. 87; [tr. it. p. 42].

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400 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

affermare che questa creazione di distanza, questo voyeurismo femminile-


con-una-differenza, è un aspetto di ogni sguardo della spettatrice di fronte
all’immagine della propria simile. Perché piuttosto che adottare o la di-
stanza e il dominio del voyeur maschio o la iperidentificazione della donna
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di Doane che perde se stessa nell’immagine, la spettatrice è costantemente


nella condizione di fare la giocoliera con tutte le posizioni contemporanea-
mente.
Ruby Rich ha scritto che le donne fanno esperienza dei film in modo
molto più dialettico degli uomini. «Una volta Brecht ha descritto l’esule
come l’ultimo dialettico perché vive la tensione di due differenti culture. È
precisamente in questo senso che la spettatrice si trova in una posizione
dialettica altrettanto inevitabile»53. Lo sguardo della spettatrice si risolve
perciò in una dialettica tra due posizioni differenziate del soggetto, (in se
stesse) inadeguate e incomplete (dal punto di vista sessuale e dal punto di
vista sociale). Proprio come ha dimostrato Julia Kristeva, e cioè che a
rendere possibile la rappresentazione delle donne è la dialettica di un corpo
materno incanalato e represso in un singolo e univoco significato, cosı̀ una
dialettica analoga informa le spettatrici quando un punto di vista femminile
è genuinamente inscritto nel testo.
Abbiamo visto come in Amore sublime la mediazione dello sguardo
reciproco tra madre e figlia alteri radicalmente la rappresentazione di
entrambe. Abbiamo anche visto che lo spettatore non può scegliere un
singolo punto di identificazione “dominante” ma deve oscillare tra un certo
numero di punti di vista conflittuali, nessuno dei quali può essere riconci-
liato in modo soddisfacente. Ma la scena della finestra alla fine del film
sembrerebbe rappresentare certamente il momento in cui tutte le contrad-
dizioni di cui si è parlato precipitano in una singola visione patriarcale della
madre come pura spettatrice (spogliata della sua eccessiva presenza fisica) e
della figlia come oggetto della visione (ora adeguatamente feticizzato).
Sebbene sia vero che questo finale, separando madre e figlia, le collochi
all’interno di un’economia visuale che le definisce dalla prospettiva del

53
Ruby Rich, in Michelle Citron e altri, Women and Film: A Discussion of Feminist
Aesthetics, «New German Critique», vol. 13, 1978, p. 87. Sebbene Rich si spinga oltre nel
suggerire che questa dialettica comporti o la scelta di «identificarsi o con Marilyn Monroe o
con l’uomo dietro di me che pianta le sue ginocchia contro lo schienale della mia poltrona»,
io penso che il senso più appropriato della frase sarebbe di interpretarla come un conflitto e
una tensione continui che informano la visione femminile e che in molti casi non consen-
tono di compiere la scelta fra le due alternative.

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 401

patriarcato, lo sguardo proprio della spettatrice su ognuna di loro non


acconsente a una tale economia visuale fallica di voyeurismo e di feticismo.
Perché di fronte a Stella che guarda sua figlia attraverso una finestra che
54
somiglia fortemente a uno schermo cinematografico , la spettatrice non
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vede e non crede nello stesso modo di Stella. In questa scena finale, Stella
non è diversa dalla ingenua spettatrice che era quando da giovane andava
al cinema con Stephen. Per giustificare il suo sacrificio, lei deve credere nella
realtà dell’illusione cinematografica che vede: la sposa e lo sposo inginoc-
chiati davanti al prete, il padre orgoglioso che li guarda. Noi, comunque,
conosciamo l’artificio e la sofferenza dietro tutto ciò – la delusione di Laurel
poiché la madre non ha partecipato al matrimonio; la manipolazione della
scena da parte di Helen che permette a Stella di guardare; la precedente
manipolazione della stessa Stella in modo che Laurel la veda come una
madre “cattiva”. Cosı̀ quando osserviamo Stella che guarda il “film” favo-
loso e artificiale della vita della figlia, non possiamo, come Stella, credere
ingenuamente alla realtà del lieto fine più di quanto crediamo alla realtà
delle sequenze mute e dei gesti stereotipati dei film affascinanti che un
tempo Stella andava a vedere.
La spettatrice, proprio perché ha visto quanto sia costato a Laurel e a
Stella l’ingresso della figlia nell’inquadratura, il suo essere diventata l’imma-
gine correttamente feticizzata della femminilità, non può, come Stella,
credere nella felicità di entrambe. Lo sa meglio perché ha visto ciò a cui
ognuna delle due ha dovuto rinunciare per assumere questi ruoli finali. Ma
non è proprio tale equilibrio di conoscenza e credenza (della frase contrad-
55
dittoria del feticista «so molto bene, ma ciononostante...») ad aver

54
Ben Brewster in A Scene at the Movies, «Screen», vol. 23, n. 2, luglio-agosto 1983, pp. 4-5,
ha citato i molti riferimenti cinematografici del romanzo originale come indicazione di
quanto l’illusione cinematografica sia diventata efficace come richiamo alla realtà.
55
La teoria di Freud, che sostiene che il bambino crede nel fallo materno anche dopo
aver acquisito maggiore consapevolezza perché ha visto con i propri occhi che esso non
esiste, è stata descritta da Octave Mannoni come un’affermazione contraddittoria che
contemporaneamente afferma e nega la castrazione della madre. In questo «Je sais bien mais
quand mème» («so molto bene, ma ciononostante), il «ciononostante» è il disconoscimento
feticista. Vedi Octave Manoni, Clefs pour l’imaginaire, Paris, Seuil, 1969, pp. 9-30. Christian
Metz applicò in seguito questa struttura feticista del disconoscimento all’istituzione del
cinema in quanto creatore di credibili rappresentazioni di esseri umani percettibilmente
reali, che sono tuttavia assenti dalla scena. In tal modo il cinema rivolge tutte le sue capacità
tecniche al disconoscimento della mancanza sulla quale è basato il suo «significante
immaginario». Vedi Christian Metz, The Imaginary Signifier: Psychoanalysis and the Cinema, tr.
ingl. Celia Britton, Annwyl Williams, Ben Brewster e Alfred Guzzetti, Bloomington, Indiana

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402 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

caratterizzato il sofisticato gioco acrobatico dell’ideale spettatore cinemato-


grafico?
Il modello psicanalitico del piacere cinematografico si è basato sul
fenomeno del disconoscimento feticistico: il gesto contraddittorio di credere
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in un’illusione (l’immagine cinematografica, il pene femminile), eppure di


sapere che è un’illusione, un significante immaginario. Questo modello
provoca una situazione in cui la donna diventa una sorta di feticista fallita:
essendo sprovvista di pene essa manca del fondamento biologico per
impegnarsi nel sofisticato gioco acrobatico di presenza e assenza nella
rappresentazione cinematografica: da qui la sua presunta iperidentifica-
56
zione, la sua mancanza di consapevolezza dell’illusione e i risultanti uno,
due e tre film lacrimevoli. Ma la spettatrice di Amore sublime trova se stessa
mettendo in equilibrio un tipo di sapere e di credenza molto differente dalla
mera esistenza o non esistenza del fallo femminile. Lei sa che le donne non
possono trovare nessuna autentica forma di rappresentazione sotto le
strutture patriarcali della visione voyeuristica o feticistica perché ha visto
Stella perdere se stessa come donna e come madre. Ma, nello stesso tempo,
crede che le donne esistano al di fuori di questa economia fallica, perché ha
intravisto momenti di resistenza in cui due donne sono state in grado di
rappresentarsi a se stesse attraverso la mediazione dei propri sguardi.
Questa è una forma di disconoscimento molto diversa. Si tratta, in-
sieme, di un riconoscimento consapevole dei limiti della rappresentazione
della donna nel linguaggio patriarcale e di una contraria credenza nell’illu-
sione di uno spazio pre-edipico tra le donne libero dal potere e dal
controllo dello sguardo maschile. La contraddizione è inevitabile tanto per
la donna quanto per il maschio feticista, ancor di più perché non è basata
sulla presenza o sull’assenza di un organo anatomico, ma sulla dialettica
della posizione della donna socialmente costruita sotto il patriarcato.
È in un senso molto differente, quindi, che i concetti psicoanalitici di
voyeurismo e di feticismo possono informare una teoria femminista del
pubblico cinematografico – non inscrivendo totalmente la donna nella
parte dell’oggetto passivo che viene esclusivamente guardato, come Mulvey
e altri hanno cosı̀ autorevolmente affermato, ma esaminando le contraddi-
zioni che animano i modi di guardare molto attivi e frammentati delle
donne.

University Press, 1982, pp. 69-76; [tr. it. Christian Metz, Cinema e Psicanalisi, Venezia,
Marsilio, 1980].
56
Mary Ann Doane, Film and the Masquerade, cit., pp. 80-81; [tr. it. Il film e la mascherata,
cit.].

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 403

Non vorrei spingermi fino al punto di affermare che queste contraddi-


zioni funzionano per la spettatrice in ogni film che parli di rapporti tra
donne. Ma lo scopo di focalizzarsi su un film che si indirizza al pubblico
femminile e contemporaneamente contiene importanti strutture dello
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sguardo tra le donne, è di suggerire che esso non apre una breccia
femminista radicale e consapevole nell’ideologia patriarcale per rappresen-
tare gli aspetti contraddittori della posizione della donna sotto il patriar-
cato. Esso non impiega neanche i dispositivi di distanziamento ironico, per
esempio, del melodramma sirkiano per generare una sorta di risposta attiva
e critica in grado di vedere il lavoro dell’ideologia nel film. Laura Mulvey
ha scritto che i finali ironici del melodramma sirkiano sono progressisti
nella loro sfida di unità e di chiusura:

è come se il fatto di avere un punto di vista femminile che domina la


narrazione producesse un eccesso che preclude la soddisfazione. Se il
melodramma offre una possibilità di fuga fantastica per le donne del
pubblico che si identificano, l’illusione è cosı̀ fortemente segnata da
trappole riconoscibili, reali e familiari che la fuga è più simile a un sogno a
occhi aperti che a una storia di fate. I pochi film hollywoodiani pensati per
un pubblico femminile evocano le contraddizioni piuttosto che la riconci-
liazione, con l’alternativa di una resa muta alle aperte pressioni della
società frustrata dalle sue leggi inconsce57.

Sebbene qui Mulvey parli primariamente dell’ironico melodramma


sirkiano, la sua descrizione delle contraddizioni incontrate dalla spettatrice
è applicabile in modo leggermente differente al nient’affatto ironico Amore
sublime. A mio parere Amore sublime è un film progressista non perché sfidi
sia l’unità che la chiusura, ma perché la chiusura del suo finale non produce
nessuna unità parallela nello spettatore. E dal momento che il film ha
concepito il suo spettatore nella posizione di un soggetto femminile chiuso
in un’identificazione primaria con un altro soggetto femminile, per questo
spettatore è possibile, come per Val – la madre spettatrice di The Women’s
Room la cui reazione al film è citata all’inizio di questo saggio –, imporre la
propria lettura radicale e femminista del film. Senza tali posizioni del
soggetto femminile inscritto all’interno del testo, il personaggio stereotipato
della madre che si sacrifica si appiattirebbe nella mera essenza materna
delle tante figure materne del melodramma.
Amore sublime è un melodramma materno classico rappresentato con

57
Laura Mulvey, Notes on Sirk and Melodrama, «Movie», n. 25, inverno 1977/1978, p. 36.

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404 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

estrema franchezza. Le sue ambivalenze e contraddizioni non sono alimen-


tate con l’intento di rivelare il lavoro dell’ideologia patriarcale all’interno di
esso. Ma come ogni melodramma che offra un minimo di realismo ma si
58
conformi alla «riconciliazione degli irriconciliabili» adatta al genere , deve
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necessariamente produrre, quando affronta i conflitti tra le donne, ciò che


Val chiama «shock del riconoscimento». Questo shock non è il riconosci-
mento piacevole di una verosimiglianza che genera una credenza ingenua,
ma lo shock di vedere, come spiega Val, «come ci hanno spinto ad
acconsentire al nostro stesso sradicamento». Val e altre spettatrici general-
mente non acconsentono a tali sradicamenti. Loro, e noi, resistiamo nel solo
modo in cui possiamo farlo, lottando con le contraddizioni inerenti a
queste immagini di noi stesse e della nostra situazione. È una terribile
sottovalutazione della spettatrice presumere che venga interamente sedotta
da una ingenua fede in queste immagini masochiste, che abbia permesso a
queste immagini di metterla al suo posto nello stesso modo in cui i film
mettono i propri personaggi femminili al loro posto.
Sembra, quindi, che il significativo appello di Adrienne Rich a lavori
che possano incarnare «l’essenziale tragedia femminile» della passione,
dell’estasi e della perdita madre-figlia sia incauto, ma solo riguardo alla
forma tragica. Spero di aver iniziato a dimostrare che questa perdita trova
espressione sotto il patriarcato negli investimenti “distorti” e “abusati” del
melodramma materno. Perché diversamente dalla tragedia, il melodramma
non riconcilia il suo pubblico con una sofferenza inevitabile. Piuttosto che
infuriarsi con un destino che il pubblico ha imparato ad accettare, l’eroina
spesso accetta un destino che il pubblico, almeno in parte, mette in dubbio.
La spettatrice divisa si identifica con la donna il cui trionfo stesso è
spesso nella propria vittimizzazione, ma critica anche il costo di uno
“sradicamento” trascendente che la vittima-eroina deve pagare. Perciò,
sebbene la tendenza del melodramma verso l’immancabile “lieto fine” di
solito collochi l’eroina in una posizione finale di subordinazione, la “le-
zione” per il pubblico femminile è certamente quella di non diventare a sua
volta analogamente sradicato. Per tutto il suo masochismo, per tutta la sua
frequente svalutazione della persona della madre (opposta all’ideale astratto
della maternità), il melodramma materno presenta una rappresentazione
riconoscibile della posizione ambivalente della donna sotto il patriarcato,
che è stata un’importante fonte di riflessioni realistiche sulla vita delle
donne. Questo potrebbe essere il motivo per cui i film femministi più

58
Martha Vicinus, Helpless and Unfriended, cit., p. 132.

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«QUALCOS’ALTRO OLTRE CHE MADRE» 405

efficaci degli anni recenti sono stati quelli – come Thriller di Sally Potter,
Daughter Rite di Michelle Citron, Jeanne Dielman di Chantal Akerman... e
anche Ce´line et Juliette vont en bateau (Ce´line e Julie vanno in battello) di
Jacques Rivette – che lavorano all’interno e contro le aspettative dell’abnega-
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zione femminile vissuta nel melodramma materno.

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LEGGENDO ATTRAVERSO IL TESTO:


LA DONNA NERA COME PUBBLICO

di Jacqueline Bobo

Il romanzo The Color Purple (Il colore viola, 1982) è una componente critica
della tradizione letteraria delle donne nere. Esso porta avanti lo sforzo delle
scrittrici di colore di dare alle donne nere una visione che conferisca loro
potere. Il problema centrale del film The Color Purple (Il colore viola, 1985)
sta nella neutralizzazione degli aspetti che danno potere alle donne nere
forti e nella cancellazione delle dimensioni esatte della dominazione pa-
triarcale. Nella produzione di Steven Spielberg la donna nera protagonista è
stata rimossa dal centro della storia, che diventa la cronaca del viaggio di
un uomo nero arrogante verso la comprensione di se stesso. Il film lo
trasforma da persona malvagia in persona perplessa e confusa. Il film
accorda al protagonista maschile la salvezza perché ha predisposto un lieto
fine per la donna di cui egli ha abusato durante tutto il film. Questa è
l’antitesi della fine del romanzo, che ruota intorno a una donna nera
abusata che inizia a riconoscere il proprio valore e a diventare economica-
mente indipendente.
Sebbene il film abbia spostato l’enfasi della storia dalle vicende di una
donna nera alla paura di un uomo nero, ci sono sempre più testimonianze
che molte donne nere abbiano promosso una lettura positiva del film. In un
precedente studio ho esaminato gli animati dibattiti che hanno circondato
il film, come anche l’apparentemente travolgente risposta favorevole delle
donne nere. Ho indagato sulle reazioni delle donne nere guardando e
ascoltando i talk show televisivi e radiofonici e leggendo articoli di giornali

Reading Through the Text: The Black Woman as Audience, in Manthia Diawara (a cura di),
Black American Cinema, New York and London, Routledge, 1993, pp. 272-287.

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408 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

e di riviste. Inoltre, le reazioni delle donne nere venivano valutate attraverso


conversazioni informali e, formalmente, attraverso diverse serie di interviste
non strutturate. Mi sono convinta che un numero significativo di donne
nere avesse avuto una reazione favorevole al film e che esso fosse significa-
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1
tivo nella loro vita .
Questa analisi è rivolta alla lettura empatica che le donne nere danno di
un film che, in superficie, sembrava presentare la storia di una donna nera,
ma che conteneva un sottotesto ampiamente differente. Il film, cosı̀ come
strutturato da Spielberg, rimanda a precedenti ritratti negativi di donne nere
in lavori creativi. Esaminerò il film dalla prospettiva della sua costruzione
ideologica delle donne nere e della sua struttura formale come è stata
sviluppata da Steven Spielberg. La reazione favorevole delle donne nere al
film verrà allora valutata. Lo scopo è di rendere conto del modo in cui un
2
significativo numero di donne nere «leggono attraverso il testo» per
ricavare significati soddisfacenti da un prodotto culturale tradizionale
creato da un cineasta maschio bianco.

Costruzione ideologica
Il progetto ideologico delle scrittrici nere durante l’intera storia dei loro
sforzi creativi era di produrre una trasformazione culturale presentando una
versione differente della storia sociale e culturale delle donne nere. L’in-
tento ideologico della rappresentazione della vita delle donne nere fatta dai
media è di mantenere lo status quo riesumando precedenti immagini
umilianti di quelle donne. Il processo ha una storia nel modo in cui i media
hanno rappresentato la gente di colore. Michael Winston in Racial Con-
sciousness and the Evolution of Mass Communication in the United States
(“Consapevolezza razziale ed evoluzione delle comunicazioni di massa
negli Stati Uniti”), traccia l’evoluzione dei codici dei media nell’affrontare
tematiche razziali. Si trattava di punti di vista convenzionali che presenta-

1
Vedi Jacqueline Bobo, The Color Purple: Black Woman as Cultural Readers, in E. Deidre
Pribram (a cura di), Female Spectators Looking at Film and Television, London and New York,
Verso, 1988, pp. 90-109, e Sifting Through the Controversy: Reading The Color Purple,
«Callaloo: A Journal of Afro-American and African Arts and Letters», vol. 12, n. 2,
primavera 1989, pp. 242-332.
2
L’idea che il pubblico dei media possa trarre significati da testi mainstream a prescindere
dalle intenzioni dei film maker è discussa in Ellen Seiter e altri (a cura di), Remote Control:
Television, Audiences and Cultural Power, New York, Routledge, 1989.

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LEGGENDO ATTRAVERSO IL TESTO 409

vano una realtà sociale che veniva percepita come irreale. I codici diven-
nero saldamente radicati durante la Ricostruzione come legittimazione
delle forze sociali, legali, istituzionali ed economiche che venivano usate
per negare ai neri il pieno ingresso come gente libera in un mondo che il
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loro lavoro aveva reso ricco. I codici razziali furono perfezionati e suppor-
tati per sostenere la segregazione legale che riduceva al minimo i contatti
tra neri e bianchi. Come risultato, questa (ir)realtà sociale mass-mediatica
venne riprodotta in forme culturali successive; perciò le immagini dei
media della gente di colore venivano continuamente ricostruite dalle prece-
denti rappresentazioni dei media: prima la stampa, poi la radio, il cinema e
3
la televisione .
I codici avevano la funzione specifica di produrre una tolleranza di
“buon senso” per coloro che avrebbero forse potuto minacciare l’ordine
stabilito. Tutto ciò che poteva essere visto come un correttivo ideologico
doveva essere neutralizzato e circoscritto. Come parte di un continuum di
romanzi di scrittrici nere che tentano di ripudiare ideologie negative di
4
vecchia data, Il colore viola era particolarmente sovversivo . Per esempio, le
immagini della giovane Celie che viene trattata come una schiava e abusata
sessualmente sono simili a quelle presentate nella precedente letteratura di
scrittrici nere. Our Nig (1859) di Harriet Wilson, Incidents in the Life of a
Slave Girl (1861) di Harriet Jacobs/Linda Brent, e il romanzo contempora-
neo sugli schiavi Jubilee (1966) di Margaret Walker, tutti ritraggono donne
nere che venivano sessualmente sfruttate e abusate dai padroni di schiavi.
Questi lavori scritti dalla prospettiva di una donna nera costituivano una
decisa replica alle diffuse descrizioni della donna nera sessualmente promi-
scua.
Costruzioni negative della sessualità delle donne nere sono state la
pietra angolare di molte ideologie oppressive che vengono usate per
mascherare idee capitaliste, razziste e sessiste. Come conseguenza, le scrit-
trici nere alla svolta del secolo erano limitate nella loro esplorazione della
sessualità delle donne nere. Le scrittrici successive non sono state altret-
tanto reticenti. Il dialogo aperto di Shug e Sofia sulle loro sensazioni di
natura sessuale in Il colore viola, si ripresenta nel tentativo fatto da altre

3
Michael R. Winston, Racial Consciousness and the Evolution of Mass Communications in the
United States, «Daedalus: Journal of the Academy of Arts and Sciences», vol. 3, n. 4, autunno
1982, pp. 171-182.
4
Per un esame più dettagliato dell’eredità delle scrittrici nere, vedi Black Women Novelists
(1980) di Barbara Christian, Invented Lives (1987) di Mary Helen Washington, e Reconstruc-
ting Womanhood (1987) di Hazel Carby.

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410 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

scrittrici di illustrare l’intera gamma della sessualità delle donne nere.


Barbara Christian osserva che le scrittrici nere contemporanee hanno
sviluppato la sessualità delle donne nere come fonte di acquisizione di
potere, perché la sua soppressione è un’altra forma dell’oppressione delle
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5
donne nere . Esempi sono presenti in Passing (1929) di Nella Larsen, Their
Eyes Were Watching God (Con gli occhi rivolti al cielo) (1937) di Zora Neale
Hurston e Sula (1973) di Toni Morrison.
Un altro esempio del modo in cui Il colore viola trae immagini da lavori
passati e conferisce loro forza è quando descrive la ragazza nera “comune”
che lotta contro le opinioni della società secondo le quali a causa della sua
pelle scura e dei capelli crespi non può essere apprezzata. Questo viene
esemplificato dal personaggio di Celie in Il colore viola e in precedenti
romanzi di donne nere: la novella Maud Martha (1953) di Gwendolyn
Brooks e The Bluest Eye (L’occhio più azzurro, 1970) di Morrison.
In questi lavori, benché vi siano intense descrizioni di abusi e di
oppressione, non mancano occasioni in cui i protagonisti resistono alle
condizioni sociali loro imposte. In Our Nig Frado impedisce alla signora
Bellmont di picchiarla; Harriet Jacobs/Linda Brent dedica la sua vita a
opporre resistenza alla schiavitù. Lei scrive: «la guerra della mia vita era
cominciata; e benché fossi una delle creature di Dio più indifese, ho deciso
6
che non sarei mai stata conquistata» . In Jubilee, la figlia Viry di sorella
Hetta intraprende una lotta silenziosa per proteggere la sua famiglia du-
rante la schiavitù e il periodo postbellico. E, nel romanzo di Hurston, Janie
Crawford sopporta due matrimoni violenti; interrompe il secondo per
difendere la propria vita.
La versione filmica di Il colore viola presenta una visione delle donne
nere che è in opposizione diretta con questi lavori precedenti. Le storie
raccontate nei romanzi delle donne nere erano il prodotto di uno sforzo
conscio di ritrarre personaggi multidimensionali che tentavano di ottenere
un qualche controllo sulla propria vita. Nel film, le donne nere forti sono
rimpiazzate da immagini negative standardizzate. Sofia, un modello di forza
e resistenza, diventa la figura matriarcale autoritaria. Invece di essere colei

5
Barbara Christian, From the Inside Out: Afro-American Women’s Literary Tradition and The
State, in Wlad Godzich, Nancy Kobrin e Dayna Anderson (a cura di), Center for Humanistic
Studies Occasional Papers, 21 voll., Minneapolis, University of Minnesota Press, 1987, p. 16.
6
Harriet Jacobs (Linda Brent), Incidents in the Life of a Slave Girl, Written By Herself, a cura
di L. Maria Child, Boston, stampato privatamente, 1861, introdotto e curato da Jean Fagan
Yellin, Cambridge, Harvard University Press, 1987, p. 19.

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LEGGENDO ATTRAVERSO IL TESTO 411

che resiste al dominio del marito Harpo, Sofia appare come quella che lo
tiranneggia.
La Shug Avery del film viene presentata come una vittima del suo
insaziabile appetito sessuale piuttosto che come una donna che esercita gli
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stessi privilegi degli uomini, incluso soddisfare il suo desiderio di dormire


con chiunque le piaccia. Come corollario, Shug è privata del suo potere
poiché desidera l’approvazione del padre predicatore. Il padre predicatore
di Shug è un personaggio che è stato inventato per il film. In esso, Shug è
dipinta come una persona che rimpiange la vita che ha vissuto e che trova
giusta l’opinione che gli altri hanno di lei, che è cioè una donna immorale.
La sua costante richiesta di assoluzione da parte del padre le toglie la fonte
centrale di potere del romanzo: che fa ciò che vuole e ha i mezzi
economici per farlo.
La rappresentazione di Celie nel film è volta a mostrarla come una
disgraziata che nessuno ama. Ciò che il film non prende in considerazione,
comunque, è una chiara descrizione del perché lei sia cosı̀. Celie è una
vittima del razzismo, del sessismo e del privilegio patriarcale. Nel film la
triste condizione di Celie è il risultato di una stranezza del destino, ma
questa è la misura della sua oppressione. Celie non rappresenta le donne
nere che condividono la sua condizione di repressione. È presentata come
un essere umano che soffre le avversità ma che alla fine conquista il favore
della sorte. Siccome nel romanzo Celie e Shug rappresentano gli estremi
della disperazione e della forza, la sezione seguente esaminerà come il loro
impatto venga ridimensionato nel film.

Shug
Il personaggio filmico Shug considera l’opinione che il padre predicatore
ha di lei più importante del proprio bisogno di uno stile di vita “edonisti-
co”. Anziché una donna nera sicura di sé che vive la sua vita secondo i
dettami del suo sistema di valori (come viene presentata nel romanzo), la
versione filmica di Shug è ossessionata dal desiderio di ottenere l’approva-
zione paterna. Nel romanzo, quando Celie fa il bagno a Shug convalescente
dalla sua malattia, le chiede se le mancano i suoi figli. Shug risponde che a
lei non manca niente.
Nel film, mentre Celie fa il bagno a Shug, le domanda se ha figli. Shug è
stesa nella vasca da bagno e la scena è girata in modo tale che ciò che noi
vediamo è la parte posteriore della testa di Shug e le sue mani che si
muovono di qua e di là tenendo una bottiglia di liquore e una sigaretta.

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412 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Vediamo Celie di fronte. Shug risponde alla domanda di Celie che i suoi
figli sono con sua madre e suo padre. C’è uno stacco su Shug stesa nella
vasca da bagno. Appare addolorata e triste. Dice: «i figli non vengono mai
su bene dove non c’è un uomo in casa». C’è uno stacco sull’inquadratura
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della reazione di Celie che è occupata a mescolare gli oli da bagno per
versarli nella vasca. Celie guarda Shug in modo innocente. Appena tor-
niamo su di lei, Shug si lamenta: «i figli un padre lo devono avere». Poi
Shug si tira su nella vasca e chiede a Celie: «Tuo padre ti vuole bene? Pa’ a
me vuole bene». Dice quest’ultima cosa con orgoglio. «Pa’ ancora mi vuole
bene», dice lei, poi inizia a piangere. «Ancora mi vuole bene. Solo che non
lo sa. Non lo sa». A questo punto è sopraffatta e inizia a piangere più forte.
«Pa’ ancora mi vuole bene», dice Shug, nonostante il fatto che non
abbia vissuto secondo i canoni morali di lui, come il film lascia intendere.
In caso che il punto sia sfuggito, più avanti nel film il vecchio Mister viene
a fare una visita mentre Shug si sta riprendendo dalla sua malattia. Il
vecchio Mister si avvicina alla casa e lo vediamo di schiena in campo lungo
mentre Albert (Mister) esce dalla casa. Si fissano e girano uno intorno
all’altro descrivendo un cerchio davanti all’altalena della veranda. Per tutto
il tempo i due si guardano senza parlare. Albert sorride a suo padre e si
siede sull’altalena. C’è uno stacco su un primo piano del piede del vecchio
Mister tra le gambe di Albert. Vediamo Albert sopra la spalla del vecchio
Mister mentre il vecchio Mister si china per parlargli. Il vecchio Mister dice
che Albert non si darà pace finché non avrà Shug nella sua casa. Con uno
stacco si torna al piede del vecchio Mister tra le gambe di Albert; il vecchio
Mister spinge l’altalena con il piede. Il vecchio Mister chiede ad Albert:
«Che ha di speciale questa Shug Avery? È nera come la pece. Ha i capelli
crespi. Ha le gambe che sembrano due bastoni». Celie è in casa e sta
portando al vecchio Mister un bicchiere di acqua. Guarda i due attraverso
la finestra. In voce over Celie dice: «il vecchio Mister dice porcherie su
Shug. Alla gente non piace chi è troppo orgoglioso o troppo libero».
Il vecchio Mister sta ancora parlando sotto la voce over. Dice che Shug
è una baldracca da vendere, e che non è nemmeno pulita, «ho sentito
anche dire che ha quella brutta malattia delle donnacce». A questo punto
Celie sputa nel bicchiere d’acqua del vecchio Mister. C’è uno stacco su
Albert mentre dice al vecchio Mister che non riesce a capire perché ami
Shug. Albert dice che l’ha sempre amata e l’amerà sempre, «la dovevo
sposare quando potevo». Il vecchio Mister risponde che Albert avrebbe
gettato via la sua vita insieme a una gran parte dei soldi del vecchio Mister.
Il vecchio Mister dice che tutti i figli di Shug hanno padri diversi. Albert

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LEGGENDO ATTRAVERSO IL TESTO 413

risponde che può garantire che i bambini di Shug hanno tutti lo stesso
padre. Il vecchio Mister replica, in un passaggio che è diverso dal romanzo,
«tu non puoi garantire niente. Shug Avery ha fatto aumentare di parecchio
la popolazione della contea di Hotwell. Tu sei solo uno dei tanti galli,
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ragazzo». Albert non dice niente, ha l’aria di uno che vuole dire qualcosa
ma ha paura di farlo. Quando Celie esce sulla veranda con il bicchiere di
acqua, il vecchio Mister le dice: «Celie, hai tutta la mia comprensione. Non
sono mica molte le mogli che terrebbero in casa la puttana del marito».
Nel film Shug non è presentata come una persona con una normale
vita sessuale, ma come una donna lasciva dal sangue caldo. Il dialogo che è
stato aggiunto alla storia, quando il vecchio Mister dice che Shug è una
«baldracca da vendere» e una che va a letto con molti uomini della città,
esemplifica questo fatto. Un altro esempio è nel momento in cui Shug va a
fare visita a Mister e Celie dopo il suo matrimonio con Grady. I due uomini
stanno discutendo di Shug, mentre la vediamo che ascolta da un’altra
stanza. Mister dice a Grady che entrambi l’hanno avuta a loro modo, «ma
l’abbiamo avuta». Shug ascolta questa conversazione con un sorriso com-
piaciuto sul viso come se non le importasse che si parli di lei come di una
che si sono passata da un uomo all’altro.
Nel romanzo Shug ha un sistema di valori attentamente ponderato.
Vive la sua vita secondo i propri canoni ed è libera di farlo perché non
dipende da nessuno sentimentalmente o economicamente. Nel film è
controllata da tutti gli uomini legati a lei: Mister, suo padre, Grady. Non è
la donna padrona di sé del romanzo, ma una che è trascinata dai vincoli
della propria sessualità e della propria insicurezza sul modo di vivere la sua
vita. Il film esprime un giudizio morale su Shug e la conseguenza che lascia
intendere è che quelli che seguono l’esempio di Shug possono non essere
fortunati quanto lei. Nel film, quando Shug va alla chiesa di suo padre a
cantare una canzone di pentimento, egli finalmente la accetta. Lei gli dice:
«pa’ vedi, anche i peccatori hanno un’anima», e lui la abbraccia in un gesto
di assoluzione.
Siccome il personaggio filmico di Shug non è una presenza forte, la sua
relazione con Celie si stempera in un rapporto costruito come tipica
meschinità femminile. Il suo modo di trattare Celie, evidente all’inizio nel
commento «che brutta che sei», e il modo in cui dà ordini a Celie dicendo
ad Albert «dı̀ a quella cosa di farmi da mangiare», diventano più aspri e più
meschini di quanto non fossero nel romanzo. I suoi gesti insulsi nella vasca
mentre Celie le fa il bagno sono in contrasto con ciò che ella rappresenta
sia per Mister che per Celie. Dal momento che Shug viene presentata come

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414 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

una donna debole con principi morali discutibili, il significato della lotta di
Celie per valorizzare se stessa è svilito. Nel romanzo, Celie rappresenta
quelle donne a cui non è mai stata data importanza. Sono ragazze insignifi-
canti, povere, dalla pelle scura. Non prima di scoprire il suo vero poten-
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ziale, raggiunto attraverso gli esempi delle donne intorno a lei, Celie trova
la forza di rigettare i meccanismi della sua oppressione: l’immagine di sé,
l’eterna violenza di Mister e la sua incapacità di mantenersi economica-
mente. Siccome Shug nel romanzo è forte, Celie diventa forte. Siccome nel
film Shug viene presentata come una donna meschina e gelosa, Celie viene
vista come il brutto anatroccolo, la sorellastra non amata. Ciò che rappre-
senta è una persona specifica con un problema specifico piuttosto che un
gran numero di donne nere che si affannano in circostanze simili.

Celie
In due rappresentazioni della sottomissione delle donne tra le meno riuscite
del film vediamo la giovane Celie usata come cavallo da soma, prima,
quando il patrigno la dà a Mister e i due si recano in viaggio alla fattoria di
Mister. Mister è sul cavallo e Celie arranca dietro. Ella è carica della sua
roba, chiaro simbolo di un mulo, nel senso in cui Zora Neale Hurston ha
descritto lo status delle donne nere. Questo stesso ritratto di Celie cavallo
da soma è riproposto quando Shug parte per andare in tour con la sua
band. Mister e Shug vengono ripresi mentre camminano con le braccia
dell’uno intorno all’altra verso i membri della band che aspettano in
macchina. Celie cammina dietro di loro, di nuovo trascinando tutto ciò che
nessun altro vuole portare.
La rappresentazione delle donne nere come muli non significa soltanto
che esse fossero bestie da soma, ma anche che non potessero esercitare
alcuna scelta nella vita. Erano ritenute stolte e sconsiderate tanto quanto gli
animali stupidi. Che la stessa scena sia rappresentata di nuovo con Shug in
qualità di oppressore invalida il primo caso, poiché Celie è vista come la
vittima indifesa delle ingiuste circostanze della vita piuttosto che nella sua
incapacità di trovare un modo per sottrarsi al dominio di Mister.
L’incapacità di Steven Spielberg di capire le condizioni storiche da cui
sono scaturiti temi e personaggi di Alice Walker non solo ha prodotto
un’esplorazione semplicistica della vita di una donna nera, ma ha anche
minato gli sforzi revisionisti delle precedenti scrittrici nere. Il film elude il
processo che è iniziato con le narrazioni degli schiavi e con la cronaca della
vita delle donne nere usate come allevatrici, beni mobili e contenitori

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LEGGENDO ATTRAVERSO IL TESTO 415

sessuali. Ignora il periodo nel quale è stato ridefinito il modo in cui veniva
percepita la sessualità della donna nera. Il film ignora il momento di
transizione in cui alla ragazza nera comune veniva assegnato un posto
importante. Le scrittrici all’interno della tradizione di scrittura della donna
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nera hanno ricostruito la percezione della donna di colore come figura


della cultura e della storia. I loro sforzi vengono sabotati nella versione
filmica di Il colore viola. Cosı̀ com’è stato costruito da Steven Spielberg, il
film risuscita personaggi creati in precedenza dai media e conferisce loro
una patina più attuale. Shug diventa la dissoluta cantante di cabaret, Sofia
l’amazzone castrante e Celie diventa una Annie orfana.

Struttura formale
Steven Spielberg è il regista di maggior successo nella storia di Hollywood.
I suoi tre film maggiori, Jaws (Lo squalo, 1975), E.T. (Id., 1982) e Indiana
Jones and the Temple of Doom (Indiana Jones e il tempio del destino, 1984)
hanno messo insieme quasi un miliardo di dollari.
Spielberg ha dichiarato di aver girato Il colore viola perché da lungo
tempo voleva fare un tipo diverso di film, che non fosse «un tipico film alla
Spielberg». Voleva fare un film che fosse incentrato su un personaggio
piuttosto che puntare eccessivamente sugli effetti speciali: «volevo lavorare
nella stessa arena di registi come Sidney Lumet e Sidney Pollack – e Paddy
Chayefsky, nei termini di ciò che ha fatto come drammaturgo e scrittore»7.
Spielberg era d’accordo con coloro che dicevano che i suoi precedenti di
regista di successo avessero aiutato ad ottenere l’aiuto finanziario per fare il
film: «penso che sia solo grazie a quello che sono oggi, con l’aggiunta dei
miei successi passati, che lo studio mi direbbe sı̀, fai tutto quello che vuoi.
8
Se ti va fai l’elenco del telefono» .
Il film Il colore viola è stato realizzato in linea con le esperienze, il
background culturale e la visione del mondo sociale e politica di Steven
Spielberg. Stuart Hall scrive delle «politiche egemoniche» in cui i produttori
di cultura costantemente iscrivono significati che godono di un privilegio
quasi esclusivo nei loro lavori creativi9. Un regista di successo come

7
Glenn Collins, Spielberg Films The Color Purple, «The New York Times», 15 dicembre
1985, sezione 2, p. 23.
8
Alice Walker and The Color Purple, videocassetta, regia Samira Osman, narrazione
Susannah York, BBC, 1986.
9
Discusso in Lawrence Grossberg, History, Politics and Postmodernism: Stuart Hall and
Cultural Studies, «Journal of Communication Inquiry», vol. 10, n. 2, 1986, pp. 61-75.

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416 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Spielberg sembrerebbe avere la libertà di strutturare il suo film in qualsiasi


modo ritenga opportuno. Ma la sensibilità di Spielberg è stata plasmata da
forze differenti rispetto a quelle che hanno prodotto il romanzo. Questa è la
ragione principale per cui ha fatto il film nel modo in cui lo ha fatto. Ha
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attinto alla sua coscienza e alle sue esperienze e ha realizzato un lavoro che
rifletteva la sua visione del mondo. È per questa ragione che Spielberg ha
potuto affermare che il romanzo di Walker non è sulla razza, che se il
romanzo fosse stato sul conflitto razziale «io non sarei stato il regista adatto
10
al progetto e non avrei fatto il film» .
La visione di Spielberg del romanzo, che la razza non fosse cioè la sua
caratteristica predominante, solleva la questione di come egli l’abbia consi-
derato. Egli ha visto la storia come quella di una giovane ragazza non
11
amata e sola, come “dickensiana” . Questa è una considerazione impor-
tante perché rivela molto della struttura, delle sottili allusioni razziste e
soprattutto del tono del film. Il riferimento di Spielberg a Charles Dickens
(e forse alle versioni filmiche dei suoi romanzi) rivela perché il film sia stato
realizzato all’interno del genere melodrammatico, come lo erano le opere
di Dickens, perché il centro della storia sia stato spostato dalla prospettiva
femminile a quella della soggettività maschile e perché molte delle azioni
dei personaggi siano state rappresentate in maniera convenzionalmente raz-
zista.
Una tecnica melodrammatica consente ad un artista di stabilire una
connessione con il pubblico seguendo un modello familiare e stabilendo un
codice riconoscibile per l’interpretazione. Essa enfatizza drastici cambia-
menti di tono, ritmi ampiamente differenti e una mescolanza di stili.
Secondo Thomas Elsaesser in Racconti di rumore e furore: osservazioni sul
melodramma familiare, i romanzi di Charles Dickens nel diciannovesimo
secolo rivelavano discontinuità e improvvisi cambiamenti dall’orrore alla
beatitudine per enfatizzare le contraddizioni sociali nel tessuto morale
12
dell’Inghilterra .
Il colore viola ha la struttura di un melodramma convenzionale di
intensa emotività indotta dalla musica e da momenti che colpiscono al

10
Alice Walker and The Color Purple, documentario della BBC, 1986.
11
Glenn Collins, Spielberg Films The Color Purple, cit., p. 23.
12
Thomas Elsaesser, Tales of Sound and Fury: Observations on the Family Melodrama, in Bill
Nichols (a cura di), Movies and Methods, vol. II, Berkeley, University of California Press,
1985, p. 170; [tr. it. Storie di rumore e furore: osservazioni sul melodramma familiare, in Alberto
Pezzotta (a cura di), Forme del melodramma, Quaderni di Filmcritica, Roma, Bulzoni, 1992,
pp. 65-109].

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LEGGENDO ATTRAVERSO IL TESTO 417

cuore. Il film dura due ore e trentaquattro minuti e contiene quasi due ore
di musica. Le parti del film che non sono accompagnate dalla musica
hanno precedentemente registrato suoni naturali, come il cinguettio degli
uccelli, il gracidio delle rane e il sibilo del vento tra gli steli del granturco.
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Una scena potenzialmente forte viene sempre giustapposta a una scena


di routine comica. La transizione avviene bruscamente perché il film si
serve di stacchi da scena a scena invece che di dissolvenze. Le sovrapposi-
zioni nei passaggi sono quelle sonore: voci, musica, o in alcuni casi ruote di
treni e mani che applaudono. È questo aspetto del progetto del film che gli
conferisce una qualità ambivalente. A volte esso sembra mantenere il tono
del romanzo, come quando il duro trattamento della giovane Celie da parte
di Mister è presentato espressivamente. Il momento si perde, comunque,
quando c’è un brusco stacco sulla buffoneria, molta della quale ha origine
dal personaggio di Harpo. Le pagliacciate comiche del personaggio e la
loro collocazione strategica riducono la forza dei momenti sovversivi, come
esempi dell’abuso di Celie da parte di Mister, e dei momenti che mostrano
la solitudine e l’isolamento di lei. Spiccano due sequenze in particolare.
La prima riguarda la scena della rasatura con la giovane Celie e Mister.
Questa sequenza si svolge subito dopo che Mister ha costretto Nettie a
lasciare la sua fattoria. Mentre se ne va punta il dito e dice che niente
tranne la morte potrà impedirle di scrivere a Celie. Celie sta in piedi vicino
allo steccato piangendo e invocando il nome di Nettie. C’è uno stacco su
una sedia vuota sulla veranda. Sentiamo il suono dei passi di Celie che si
avvicinano alla sedia. Lei entra dalla parte destra dello schermo, Mister
entra dalla parte sinistra. Quando Celie inizia a fare la barba a Mister egli le
afferra la mano e le dice che se lo taglia la ucciderà. Celie è spaventata a
morte. Mentre sta rasando Mister, Celie lo graffia, lui salta su e alza il
braccio pronto a colpirla. Si sente il suono del postino che si avvicina e
Mister corre alla cassetta delle lettere. Celie entra in casa e si piega sul
lavandino, tirando respiri profondi. Sa di averla scampata per miracolo,
perché se non fosse arrivato il postino Mister l’avrebbe colpita.
Dopo aver letto che Shug non verrà, Mister urla a Harpo di sellare il
suo cavallo ed entra in casa dove Celie sta rannicchiata. Lei chiede di poter
vedere se è arrivata una lettera da Nettie. Questo è un campo medio di
Celie e Mister. Celie volta le spalle alla macchina da presa. Questa organiz-
zazione dello spazio la fa sembrare molto vulnerabile e piccola, mentre
Mister sembra molto più imponente e più vecchio. Mister dice a Celie che
non vuole mai vederla alla cassetta della posta, che lui ha stabilito cosı̀ in
modo da poter dire se «qualcuno ci ha messo le mani». Durante tutta

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418 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

questa tirata egli preme un dito su Celie, spingendola indietro. Le grida:


«capito!». La sequenza è di puro terrore per Celie e noi cogliamo il senso
della brutalità di Mister. Immediatamente c’è un brusco stacco su Harpo
che cerca di sellare il cavallo e tutto l’impatto dell’azione con Celie si perde.
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Un altro esempio della struttura grossolana del film che si fa portatore


di un messaggio che mescola rabbia e commedia riguarda un momento in
cui Celie viene interrotta dalle pagliacciate di Harpo. Dopo un interludio
comico della Celie adulta che aiuta Mister a vestirsi per l’arrivo di Shug,
egli parte e lei comincia a pulire la casa. Trova un pezzetto di carta su cui è
scritta la parola «cielo». Questo le riporta alla memoria ricordi di Nettie che
le insegnava a leggere. Celie è in piedi alla finestra in primo piano, mentre
guarda fuori con il pezzo di carta stretto nella mano. In voce over dice: «ha
detto che scriveva, ma non ha mai scritto. Ha detto che solo la morte glielo
poteva impedire. Forse è morta». Il momento si prolunga mentre Celie
inizia a piangere. È un ritratto emozionante della profondità della perdita di
Celie, annientato dal successivo passaggio sull’arrivo di Harpo e Sofia che
camminano lungo la strada verso casa per incontrarsi con Mister.
L’improvviso spostamento su Harpo non solo mina la forza delle scene
che precedevano le sue azioni, ma risulta convenzionalmente razzista. Più
che le frequenti cadute dal tetto, sono i sottili cambiamenti nel linguaggio
di Harpo a rimandare alle caricature della gente di colore di passati lavori
razzisti. Quando egli cerca di sellare per la prima volta il cavallo, lo manca
completamente e dice: «ora ci riesco, ora ci riesco». Lo spettatore è stato
preparato al linguaggio dei personaggi e in molti casi alcune delle parole
sono articolate in modo diverso da come vengono usate nel libro. Per
esempio la parola «mammina» viene usata di rado. Nel romanzo il patri-
gno, Fonso, usa la parola mammina diverse volte. Nel film dice «mamma»
piuttosto che «mammina». Ciò sta a indicare il parziale sforzo di Spielberg
di usare il meno possibile parole comunemente considerate negative. Il
cambiamento nelle parole di Harpo può quindi essere visto solo come
intenzionale. Quando l’Harpo cresciuto sella il cavallo dice «sı̀ pa’, sı̀. Lo
dicevo che ci sarei riuscito. Lo dicevo che ci sarei riuscito». Da nessuna
parte nel romanzo viene usato un linguaggio simile. Alice Walker usa con
prudenza quello che lei classifica come «linguaggio popolare» dei neri per
mostrare come la gente di colore parlasse in un particolare momento e in
un ambiente specifico e in molti casi parla ancora. Non fa mai ricorso a
parole e frasi stereotipate del tipo Joel Chandler Harris, eppure nel film i
personaggi, soprattutto Sofia, Shug e Harpo occasionalmente scivolano in
espressioni di questo genere. Questo è particolarmente vero per Harpo.

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LEGGENDO ATTRAVERSO IL TESTO 419

Quando Mister porta Shug a casa nel carro, Harpo chiede ripetutamente:
«chi è questa pa’. Pa’ chi è questa?». Nel romanzo dice semplicemente: «chi
è questa?».
Il tentativo di Spielberg di emulare le convenzioni melodrammatiche di
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Charles Dickens non solo ha creato una struttura disarticolata, ma ha


rimosso Celie da fulcro della storia. Spielberg ha realizzato tre scene per
mostrare la connessione con Dickens e il risultato è stato che Mister è
diventato il personaggio principale del film. Le scene coinvolgono Celie
e/o Nettie e il romanzo di Dickens Oliver Twist (1837).
La prima scena instaura la connessione con il romanzo. In essa Nettie
sta insegnando a Celie a leggere. Il libro che stanno leggendo è Oliver
Twist. La sequenza inizia con un campo medio di Celie e Nettie in piedi su
un’altalena. Ne vediamo soltanto le scarpe. Celie legge in modo incerto dal
libro, inciampando molte volte nelle parole. Quando arriva alla parola
«sistematico», chiede a Nettie cosa significhi. Nettie dà una spiegazione che
Celie può mettere in relazione con qualcosa che fa nella sua vita. Nettie
dice è «quando fai una cosa in un certo modo e ogni volta la fai nello stesso
modo». Dice a Celie che è simile al modo in cui loro stendono le lenzuola
per prime cosı̀ da poter (e qui Celie si unisce a lei e lo dicono contempora-
neamente) «mettere le calze nei buchi vuoti».
La scena successiva ha luogo quando Mister insegue Nettie sul cavallo
mentre sta andando a scuola. Quando la sequenza inizia c’è una sovrappo-
sizione di suoni che segna il passaggio dalla scena precedente quando Celie
e Nettie giocano al loro gioco di battimani. Quando cominciano a battere
sempre più veloce, c’è uno stacco su Nettie che cammina con i libri di
scuola in mano. Il suono del battimani sfuma nel suono degli zoccoli del
cavallo che trotta sempre più veloce per raggiungere Nettie. Lei si volta a
guardare Mister sul cavallo che le si avvicina, e intanto si affretta sempre di
più lungo un pendio. La macchina da presa sale fino a un’inquadratura
dall’alto cosicché noi vediamo Nettie che scappa via da Mister a cavallo. La
sensazione guardando questa scena è che lei sia vulnerabile e indifesa. C’è
uno stacco su Mister a cavallo che trotta accanto a Nettie che lo guarda ter-
rorizzata per scoprire cosa farà. Mister compie una serie di divertenti ma-
novre. Appena la prospettiva si sposta dal punto di vista di Nettie a quello
dello spettatore, c’è uno stacco sul cavallo con la sella vuota. Nettie si
ferma, guarda, poi Mister le compare davanti. Si toglie il cappello e ci sono
petali viola sulla sua testa. Mister afferra le mani di Nettie e inizia un’allegra
danza. Mentre lei cerca di sottrarsi, Mister la trascina ballando verso i
cespugli. C’è uno stacco su un’inquadratura del cavallo che pascola e il

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420 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

suono di un colpo secco. Mister geme a voce alta, il cavallo fa un salto e


Nettie esce dai cespugli urlando e agitando furiosamente i libri. Nel fare ciò
i libri le volano via di mano e c’è un primo piano del libro Oliver Twist. C’è
uno stacco su Nettie che corre via in lontananza, poi Mister cade nell’in-
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quadratura tenendosi l’inguine. Mister si volta e dice: «ti faccio, ti faccio


vedere io».
L’intento di superficie di questa sequenza è di portare lo spettatore ad
un’associazione col romanzo di Dickens. Il messaggio sottostante trasmette
qualcosa di diverso. Esso mette in evidenza chi sia secondo Spielberg il
personaggio principale del film. Proprio nel momento che la maggioranza
delle donne riterrebbero un incubo che diventa realtà, quello che viene
privilegiato è il suono di Mister che viene colpito all’inguine, un’immagine
del cavallo che fa un salto e, mentre Nettie scappa via, Mister che cade
nell’inquadratura con le mani fra le gambe. Ciascuna delle tre volte che ho
visto il film al cinema, la maggior parte del pubblico ha reagito con più
forza al dolore di Mister che alla scena che era stata rappresentata, quella di
una ragazza quasi stuprata.
La scena è simile a quella dell’inizio del film dopo che Celie è stata
picchiata con una pietra e Mister sta facendo sesso con lei. La scena inizia
con un’inquadratura di cinghie che la legano alla testata del letto. La
macchina da presa lentamente s’inclina verso il basso, passa oltre una
fotografia di Shug sul tavolinetto e si chiude su un primo piano di Celie
stesa sul letto con la testa avvolta in una fasciatura insanguinata. C’è un
suono ritmico familiare amplificato dalle cinghie che sbattono violente-
mente contro la testata del letto. Mentre guardiamo Celie, c’è il suono di un
grugnito di Mister e Celie è spinta verso l’alto. Il braccio di Mister entra
nell’inquadratura, colpisce la testata, percorre il viso di Celie fin oltre le sue
labbra. Si sente la voce di Celie fuori campo: «Io non piango. Stavo ferma lı̀
pensando a Nettie mentre lui mi era sopra. Chissà se Nettie è al sicuro. E
penso anche a quella bella donna della fotografia. Io so che quello che fa a
me lo ha fatto anche a lei. Chissà se a lei piaceva».
La macchina da presa panoramica sulla fotografia di Shug, torna
indietro su un primo piano di Celie, si sofferma su di lei, poi Mister entra
nell’inquadratura dicendo: «Gesù» ad indicare il suo stato fisico a compi-
mento del rapporto sessuale con Celie.
Quella che sarebbe dovuta essere un’immagine di repulsione diventa
un’immagine che enfatizza la gratificazione di Mister. Entrambe le scene
descritte sopra sono scene di insensata crudeltà che vengono neutralizzate
dal modo in cui sono rappresentate e dal fatto che vengono privilegiate le
reazioni di Mister piuttosto che quelle delle vittime.

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LEGGENDO ATTRAVERSO IL TESTO 421

La terza scena di Oliver Twist è la sequenza di transizione in cui la


giovane Celie diventa adulta. Questa scena segue da vicino quella del
giovane Harpo che sella il cavallo. Mister grida a Celie che vuole la cena
quando torna. Vediamo Celie in primo piano mentre risponde penosa-
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mente: «si, certo». Sullo sfondo c’è l’ombra di una sedia. Celie si gira, va
verso la sedia, vediamo la sua ombra sul muro mentre raccoglie il libro, si
siede e comincia a leggere il romanzo di Dickens. In voce over la sentiamo
leggere mentre ci sono inquadrature di un volantino viola spinto dal vento
sui campi, sulla cassetta delle lettere, sulla veranda, in cima alla casa. Infine
si attacca a una porta, con la scritta in su. Il volantino annuncia l’atteso
arrivo di Shug. C’è un taglio sulla Celie adulta che legge baldanzosamente il
passo dal libro. Legge in modo tale che il pubblico comprenderà il
simbolismo che è stato prospettato, che la sua non è una bella vita e che il
destino non le è stato favorevole. Ella legge: «Negli otto o dieci mesi che
seguirono Oliver fu la vittima di un sistematico accavallarsi di tradimenti e
delusioni. Era stato allevato artificialmente. Lo stato di indigenza e di fame
dell’orfano in fasce...» (in questo punto la voce di lei sfuma sull’azione in
corso).
Il significato che Spielberg dà al romanzo Il colore viola, che la vita di
una ragazza nera cresciuta in un modo in cui non ha accesso al potere fino
a che non se ne mette in grado lei stessa è equivalente alla vita di Oliver
cosı̀ com’è raccontata da Dickens (o resa nelle versioni filmiche dei suoi
romanzi), rivela molto sul tono generale del film. È un film di «dolcezza e
luminosità» piuttosto che di orrore e male: è stilizzato e artificioso, e gioca
troppo sugli elementi comici della vita invece di occuparsi essenzialmente
di questioni emotive. Alcuni osservatori hanno dato lo stesso giudizio su
Dickens, che sembrava mostrare la vita comune dell’ambiente vittoriano,
ma era una facciata di realismo che enfatizzava gli aspetti comici e
13
conteneva quelli artificiosi delle convenzioni melodrammatiche . A volte il
film risulta frustrante per chi guarda, quando passa da scene che sono
emotivamente travolgenti a scene incomprensibili. Questo è un difetto non
solo del film, ma anche del genere melodrammatico. Secondo Ellen Seiter
in The Promise of Melodrama: Recent Women’s Films and Soap Opera (“La
promessa del melodramma: recenti women’s film e soap opera”), il melo-
dramma introduce l’ingiustizia, il male e il caos nel suo mondo dramma-
tico, ma non risolve le questioni che descrive eccetto che attraverso un

13
M. H. Abrams e altri (a cura di), The Norton Anthology of English Literature, vol. II, New
York, Norton, 1968, p. 744.

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422 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

«tipo di narrazione da gioco di prestigio». Seiter osserva: «il melodramma


non rappresenta solo un mondo turbato; il suo messaggio stesso è pertur-
bante. Nel rivelare il male e nell’interessarsi del soggetto della sofferenza,
esso solleva contraddizioni che non può risolvere in modo coerente e
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14
considerevole» . Seiter afferma che una questione critica riguardante il
genere del melodramma è se esso avrà un effetto sovversivo sul pubblico,
incitando i suoi membri a «riconoscere l’oppressione e l’ingiustizia sociale»,
o se funzionerà solamente come un mezzo di fuga.
Dal momento che Spielberg ha strutturato il film secondo i canoni del
melodramma, questo allo stesso tempo trascina il pubblico nella storia
mentre mimetizza i suoi ritratti inadeguati e indeterminati delle tre princi-
pali protagoniste nere: Shug, Celie e Sofia. I momenti di humour del film
garantiscono distensione comica, ma il brusco taglio dal drammatico al
comico neutralizza i momenti di forza. La musica onnipresente sotto le
scene emozionanti è in molti casi intrusiva, ma serve a commuovere molti
spettatori a dispetto di se stessi. Come conseguenza, l’uso di Spielberg del
melodramma insieme accresce l’effetto del film e rende il suo messaggio
sfuggente da comprendere. Questo riguarda soprattutto il modo in cui sono
presentate le donne.

La risposta delle donne nere


La studiosa di letteratura Deborah McDowell afferma che Alice Walker
abbia scritto deliberatamente e consciamente per un pubblico di donne
nere. McDowell offre a sostegno la struttura e l’intreccio del romanzo,
15
basato su due sorelle nere che intrattengono una corrispondenza . McDo-
well riconosce anche che il romanzo di Alice Walker mette in evidenza,
attraverso la sua scelta di soggetti e immagini, che le precedenti scrittrici
nere avevano scritto senza un pubblico «capace di accettare e apprezzare
che l’intera gamma, grezza e non mediata, della storia della donna nera
potesse essere un argomento adatto per l’arte». Secondo McDowell, Alice
Walker in Il colore viola è in grado di portare a termine la sua «missione
revisionista» grazie alle «realtà sociali e alle circostanze letterarie della sua

14
Ellen Seiter, The Promise of Melodrama: Recent Women’s Films and Soap Opera, tesi di
laurea, Northwestern University, 1981, p. 9.
15
Deborah E. Mc Dowell, “The Changing Same”: Generational Connections and Black Women
Novelists, «New Literary History», vol. 18, n. 2, 1987, p. 297.

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LEGGENDO ATTRAVERSO IL TESTO 423

zona e della sua epoca»16. In altre parole, nel momento in cui Il colore viola
fu pubblicato c’erano altre donne nere che lavoravano attivamente per
riabilitare l’immagine della donna nera e per modificare sostanzialmente le
oppressive condizioni di vita delle donne nere.
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Le preoccupazioni e gli interessi delle attiviste e delle scrittrici nere


riecheggiano le vite di molte donne nere. Come tali, le questioni che esse
prendono di mira possono essere viste come costituenti un serbatoio di
conoscenza di base che le donne nere hanno usato come strategia discor-
siva per interpretare la costruzione del film Il colore viola. Ciò non significa
che le donne coinvolte positivamente dal film fossero consapevoli di questa
eredità di attivismo delle donne nere. Ciò significa che le questioni che
queste donne hanno considerate importanti erano pervasive nella vita delle
donne nere; perciò, le donne potevano essere interpellate, o celebrate, da
un lavoro creativo in cui questi elementi fossero presenti17.
Paradossalmente, il film Il colore viola è stato costruito sulla base dei
valori correnti; i significati introdotti nel film sono quelli profondamente
radicati in questa cultura. La lotta per resistere alla forza d’attrazione del
film e per estrarre significati progressisti, è la stessa lotta che è stata
necessaria per resistere al dominio e all’oppressione nella vita di tutti i
giorni. Questa non è una nuova battaglia per le donne nere. La loro
competenza culturale (il repertorio di strategie discorsive messo in campo
per convalidare l’interpretazione di un testo) scaturisce dall’essere cresciute
nere e donne in una società che riconosce poco valore alla loro condizione.
Toni Morrison, alla fine di L’occhio più azzurro, a proposito dei ricordi
che Claudia e Frieda MacTeer hanno della lotta contro l’immagine svilente
che la società ha di loro, scrive: «o forse non ricordavamo; semplicemente
sapevamo. Da sempre ci difendevamo contro tutto e tutti, ogni discorso era
per noi un codice da distruggere, ogni gesto era da sottoporre ad analisi
attente; eravamo divenute ostinate, subdole e arroganti. Nessuno ci dava
importanza, cosı̀ eravamo noi a darcene moltissima»18.

16
Ivi, p. 296.
17
C’è un processo complesso di negoziazione che interviene quando gli spettatori
guardano un film o un programma televisivo. Gli spettatori interpreteranno un testo
basandosi su elementi del proprio background che li indurranno a respingere ciò che è stato
presentato, ad accettarlo, o a spostarsi ininterrottamente tra le due alternative. Per una
discussione di questo processo vedi David Morley, Texts, Readers, Subjects, in Stuart Hall,
Dorothy Hobson, Andrew Lowe, Paul Willis (a cura di), Culture, Media, Language: Working
Papers in Cultural Studies 1972-79, London, Hutchinson, 1980, pp. 163-173.
18
Toni Morrison, The Bluest Eye, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1970;

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424 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Nel prestare valida attenzione a un film in cui erano raffigurati aspetti


delle loro storie, le donne nere erano in grado di estrarre immagini forti e
metterle in relazione con la loro vita. Nel migliore di tutti i mondi possibili,
le donne nere sarebbero in grado di vedersi rappresentate in film diretti da
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donne nere. Purtroppo, non ci sono donne nere a cui è concesso (inten-
dendo cioè finanziato) di disporre del tipo di produzione assegnata a Il
colore viola.
Il film di Spielberg esiste; questo non può essere cambiato. Altri film sui
neri e sulle donne nere prodotti da artisti conformi alla tradizione continue-
19
ranno ad essere realizzati . La questione critica allora diventa quella di
come influire sulla ricezione di questi lavori cosicché non siano considerati
isolati ma siano messi in relazione con il complesso delle vite della gente di
colore. Questi lavori creativi che sono sfacciatamente e irreparabilmente
razzisti dovrebbero essere contestati per il danno che fanno. Anche quelli
con le migliori intenzioni ma con un atteggiamento condiscendente e
negativo dovrebbero essere criticati. Comunque, un lavoro che riesce a
mettere insieme un pubblico che lo approvi e lo usi produttivamente
dovrebbe essere analizzato e valutato per i vantaggi che possono derivarne.
Critici e studiosi come anche gli attivisti dei media dovrebbero intervenire
sul messaggio del film in modo tale che il pubblico possa usare il prodotto
culturale come uno strumento per cambiare gli altri aspetti della propria
vita.

ristampato New York, Simon & Schuster, 1972, p. 149; [tr. it. L’occhio più azzurro, Milano,
Frassinelli, 1998, pp. 217-218].
19
Questa particolare questione sta cominciando ad essere caldamente contestata man
mano che al cinema e alla televisione vengono adattati sempre più lavori di scrittori neri.
Diversi scrittori stanno insistendo perché i loro lavori vengano diretti da neri dal momento
che gli altri registi non hanno dimostrato la capacità di tradurre le specificità della cultura
nera. Il drammaturgo nero August Wilson rivela il suo desiderio di un regista nero per
l’adattamento cinematografico della sua commedia Fences, «Spin», vol. 6, n. 7, ottobre 1990,
pp. 70-71. La drammaturga nera Lorraine Hansberry ha analoghe riserve a permettere che
la sua commedia A Raisin in the Sun abbia un adattatamento cinematografico, ed è stata in
grado di scrivere la sceneggiatura da sola. Per i suoi punti di vista sull’argomento vedi
Lorraine Hansberry, What Could Happen Didn’t, «New York Herald Tribune», 26 marzo,
1961, p. 8.

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SCONFINARE

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE)


A FIOR DI PELLE

di B. Ruby Rich

L’amore che non osa pronunciare il proprio nome ha un nome nuovo con
un suono vecchio: razza. Immaginate il contesto in cui questo articolo è
stato concepito: l’anno era il 1991, il luogo New York, la stagione l’estate.
Nei cinema si proiettava Jungle Fever (Id.) e How I Became Hettie Jones era
stato appena pubblicato in edizione economica. L’articolo stava lı̀, in un
angolo, aspettando di essere scritto. Anche allora l’economia continuava a
peggiorare e la parola recessione veniva pronunciata a voce sempre più
alta; e la razza era il punto di ebollizione, la valvola sulla pentola a
pressione che continuava a soffiare e ad esplodere (Bensonhurst, Central
Park, Atlantic Beach, St. John’s).
Orrore dopo orrore, anno dopo anno, continuando, intensificandosi,
mentre gli anni Ottanta cedevano il posto ai Novanta. Razza e sesso
(etero). Incrocio di razze. Menziono i casi particolari di New York City (e
non gli episodi più recenti come le sommosse di Crown Heigths, l’assassi-
nio di Julio Rivera a Jackson Heights o il verdetto di Rodney King e le
rivolte di Los Angeles), perché ognuno dei quattro episodi di New York
contiene qualche scintilla di sessualità interrazziale, minimizzata quanto il
sospetto infondato di un appuntamento o esagerata quanto uno stupro di
1
gruppo .

When Difference Is (More Than) Skin Deep, in Martha Gever, John Greyson, Pratibha
Parmar (a cura di), Queer Looks. Perspectives on Lesbian and Gay Film and Video, New
York and London, Routledge, 1993, pp. 318-339.
1
Nell’episodio di Bensonhurst, la morte di un giovane nero fu causata dall’errata supposi-
zione che egli si stesse recando a un appuntamento con un’adolescente italiana ambita da
uno dei suoi assalitori; in realtà stava andando ad acquistare un’auto. Nel caso di St. John’s,
una donna nera, studentessa di legge, denunciò alcuni studenti bianchi per violenza di

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428 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

La politica razziale è presente come non mai, ma i rapporti tra le razze


sembrano essere i peggiori da molti anni a questa parte, forse della mia o
della vostra vita. Le razze si scontrano! Ma, il più delle volte non lo fanno.
Separatismo, autodeterminazione e segregazione vecchio stampo – sia
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rafforzati sia scelti – hanno reso le sfere sociali sempre più monorazziali.
Questo nello stesso momento in cui s’innalza il vessillo del “multiculturali-
smo”, un cerotto sopra una ferita aperta.
L’indiscutibile fenomeno della mescolanza delle razze, e una realtà
dell’identità multirazziale quale i promotori del crogiuolo di razze non
avevano mai previsto, hanno avuto scarso impatto sul ritorno demagogico
alla purezza razziale come ultima e disperata manovra ideologica. Naziona-
lismi e comunità di origine sono accolti e ravvivati come fonti d’identità,
mentre una nuova generazione mista (prodotto di un’epoca più ottimista) è
alla ricerca di spazi in cui inserirsi o addirittura di una nuova collocazione
2
come cittadini .
Il popolo omosessuale non è esente da varie forme di razzismo matu-
rate negli anni Ottanta e Novanta. Ma la questione della razza è diversa per
lesbiche e gay, e credo che lo sia già da un bel pò di tempo, pur essendosi
modificata, nel corso dei decenni, per quanto riguarda il tipo di differenza.
Come la classe molto tempo fa circoscriveva un tropo della pratica gay
maschile (“scambio duro”) e l’età un altro (“falchetto”), cosı̀, più di recente,
la razza nei suoi aspetti più superficiali ha dato origine a una varietà di
etichette per gay (il “cacciatore di safari”, la “regina del riso”). Si tratta di
nomi usati in modo sottoculturale, alcuni come celebrazione ironica, altri
per affermare l’autorità su e contro l’uomo bianco, che è venuto a chiamare
cercando l’Altro. Gli approcci nell’universo omosessuale differiscono per
genere, come ha notato Jackie Glodsby: «Le lesbiche politicizzano la razza,
3
i gay la erotizzano...» . Certo, tra le lesbiche bianche la storia tendeva ad
essere diversa: tanto “antirazzismo” a parole, un’inclusione simbolica nella
rubrica della vita, un impegno ideologico spesso genuino derivato dalla
politica femminista... ma, in generale, una socializzazione con persone della
stessa razza (e, se si escludono le avventure sessuali nel mondo gay

gruppo. Divenne oggetto di calunnia e la sua vita fu svalutata al fine di ottenere l’assoluzione
degli imputati. Si trattò di uno strano preludio all’esperienza di Anita Hill, dove l’opinione
pubblica ancora una volta negò a una donna nera il diritto alla virtù.
2
Cfr., per esempio, Andrew Parker, Mary Russo, Doris Sommer, Patricia Yaeger (a cura
di), Nationalism and Sexualities, New York and London, Routledge, 1992.
3
Jackie Goldsby, What It Means to Be Colored Me, «Outlook: National Gay and Lesbian
Quarterly», n. 9, estate 1990, p. 11.

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 429

maschile, normalmente il sesso con persone della stessa razza) e uno stile di
vita da lesbica attinto fin troppo dalla cultura bianca WASP (bianco,
anglosassone, protestante).
Tra le lesbiche afroamericane e latine vi era una decisa protezione dell’i-
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dentità e del territorio, a partire da antologie miliari come Home Girls: A Black
Feminist Anthology, All the Women are White, All the Blacks Are Men, But Some of
Us Are Brave e This Bridge Called My Back, e le opere successive di Jewelle
Gomez, Gloria Anzaldúa, Cherrı́e Moraga, Cheryl Clarke, Barbara Smith e
molte altre, ovviamente precedute dalla madre di tutte loro/noi, Audre
Lorde. In genere, il tema delle loro opere era: l’identità razziale, l’identità le-
sbica, e ciò che accade quando la propria persona le contiene entrambe. Fatta
eccezione per Zami di Audre Lorde, la dissonanza che si ottiene intersecan-
4
dole, in genere, non era presentata come un elemento centrale .
Ho iniziato a notare che qualcosa non andava nei vari discorsi mentre
lavoravo su un testo precedente sulla sessualità femminista in generale nel
corso degli anni Ottanta, un periodo di lotta che mi piace definire “guerre
5
sessuali” . Mi sembrava che le pratiche sessuali che stavano al centro delle
controversie che dividevano le comunità lesbiche, per ragioni al contempo
giuste e sbagliate – sopra/sotto e mascolina/femminile – fossero chiara-
mente dei tentativi di introdurre la “differenza” nelle coppie dello stesso
sesso come strategia per conservare l’eros. Nonostante le discussioni susci-
tate a livello ideologico, i ruoli avevano un senso sul piano della strategia.
Che cosa dire, però, per quanto riguarda la razza? In questo saggio, mi
propongo di affermare che gli omosessuali hanno il potenziale per un
rapporto diverso con la razza e il razzismo, proprio per la natura dei desideri
e delle pratiche sessuali con persone dello stesso sesso. Parlo qui di
potenziale, non di garanzia; ipotetico, provvisorio, e tuttavia possibile in
modo peculiare. Dalla mia vita e dalle altre che ho osservato nel corso di
diversi decenni, è emerso in modo evidente che molte coppie lesbiche
incrociano le razze per ragioni che sono in linea con le altre strategie
appena sottolineate: creare un’unione basata sulla differenza, sostituendo
alla differenza di genere della coppia eterosessuale una differenza razziale
che controbilanci l’uguaglianza di genere. Giustamente si è dedicata molta

4
Una importante eccezione è il classico Zami: A New Spelling of My Name, di Audre Lorde,
(Watertown/Mass., Persephone Press, 1982). In questa “biomitografia” Lorde indaga a lungo
nella complessità della razza e delle coppie miste sulla scena lesbica degli anni Cinquanta e
Sessanta, vista attraverso la lente della propria vita.
5
B. Ruby Rich, Feminist Sexuality in the 80s, «Feminist Studies», vol. 12, n. 3, autunno
1986, pp. 525-562.

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430 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

attenzione agli effetti nocivi del razzismo sul piano istituzionale e interper-
sonale. Purtroppo, però, se ne è dedicata molto poca all’attrazione, che
continua a sopravvivere e che trascende le differenze razziali per fondere
nell’unione il sé e l’altro. Alle volte, si ha l’impressione che i dibattiti siano
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considerati sicuri solo se condotti al livello dell’ideologia o dell’azione


politica, della coalizione o della teoria, della dimostrazione o della rappre-
sentazione, ma non al livello intimo e personale dei rapporti, nella carne,
nel cuore, nelle ossa... Mentre cerco delle citazioni per ancorare questi
pensieri, mi è difficile individuare testi che risalgano a dopo la fine delle
fantasie di integrazione degli anni Sessanta, quando varcare i confini razziali
era, in poche parole, considerato tanto radicale quanto superare i confini di
proprietà del sesso all’interno del matrimonio per dare vita alle unioni di
“amore libero”; in generale, gli anni Settanta si sono sforzati di ignorare la
razza, gli Ottanta di abbracciarla (per sé) o di problematizzarla (per gli
6
altri), ma difficilmente di varcarne i confini .
Ho condotto gran parte della mia vita di lesbica attraversando linee di di-
visione razziali e culturali, sempre attratta dal richiamo di culture che erano di
gran lunga più intatte e infuse di storie più ricche rispetto a quelle che mi po-
teva offrire l’amnesia assimilazionista della mia famiglia. Per me il desiderio è
sempre stato indissolubilmente legato alle differenze, dapprima da posizioni
di ignoranza e fascino inevitabili, infine da posizioni più evolute di cono-
scenza e identificazione. La fase dello specchio non mi ha mai attratta: l’iden-
tità raddoppiata non mi è mai apparsa sexy, né ho mai provato la bruciante
necessità di vedermi riflessa in una copia di me stessa. Piuttosto, è stata la dif-
ferenza a possedere una carica magnetica, una carica che non è sempre stata
semplice o automatica, bensı̀ una sfida da raccogliere e una serie crescente di
compromessi da accettare, in cui il piacere è sempre stato restituito.
Paradossalmente questa stessa differenza può diventare una nuova via
di ritorno al sé, poiché nulla appare più ovvio. Il groviglio tra ciò che è
individuale e ciò che è culturale, la dissezione del luogo dove finisce
l’individualità e inizia la struttura sociale, dove gli stereotipi immaginati si

6
Eccezioni degne di nota, di cui qui non tengo conto avendo scelto di dare rilievo ai film
e ai video non teatrali, a basso budget, sono i film basati sugli scritti di Hanif Kureishi: My
Beautiful Laundrette (My Beautiful Laundrette – Lavanderia a gettone) e Sammie and Rosie Get
Laid (Sammy e Rosie vanno a letto). Con la loro insistenza nel costituire comunità di
trasgressione che attraversano l’identità razziale e culturale per affermare le attrazioni
reciproche, essi evocano la liberazione utopica del passato. Indubbiamente My Beautiful
Laundrette ha costituito un precedente per molte opere successive sulle due sponde
dell’Atlantico.

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 431

fondono in comportamenti reali o scompaiono in proiezioni erronee, deve


essere affrontato solo quando amanti di razza, cultura, religione o classe
diversa si trovano di fronte ad aspetti politici nella sfera personale. È lı̀ che
il desiderio deve essere trascinato alla luce del giorno. Si tratta di un
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esercizio di alto equilibrismo senza rete, in cui ogni partner cerca di andare
oltre l’empatia e raggiungere una sorta di identificazione, senza cadere nel
limbo del travestitismo culturale.
È quindi solo perché la mia vita di lesbica negli anni Novanta si è
definita attraverso le culture, quella messicana e quella ebrea, che cerco un
significato nel paradigma interrazziale? Un fattore che appare anche in
un’altra realtà: il mio attuale rapporto familiare con dei bambini che si
uniscono secondo un insieme di differenze ancora diverso, in parte messi-
cano, in parte etnico europeo, cercando altri le cui identità siano fuse in
alchimie simili di elementi nazionali una volta ben distinti.
È una ricerca per il loro presente, per il loro futuro? Certo, non si può mai
ignorare la propria biografia, né si può darla per scontata o ritenerla
innocente... eppure, ben al di là del mio personale reperto A, so che la razza
costituisce un punto centrale nelle coppie omosessuali, poiché essa è sempre
un fattore presente tra e in mezzo alle persone, una fonte di identificazione e
di differenziazione, anche (specialmente?) se non viene mai menzionata.
La razza occupa il posto lasciato vacante dal genere. La non-
uguaglianza di colore, lingua o cultura evidenzia una differenza in relazioni
altrimenti caratterizzate dall’uguaglianza di genere. La razza è una presenza
costruita di coppie dello stesso genere, una presenza che consente una
distinzione delle identità, la quale può evitare sia l’essenzialismo delle
aspettative razziali imposte sia l’artificiosità di paradigmi interamente auto-
costruiti. Esiste, quindi, la possibilità di un tipo di compromesso tra identità
che non si riscontra altrove, di ciò che Kobena Mercer, scrivendo dello
“sguardo” quale si vede nei ritratti di uomini neri di Robert Mapplethorpe,
ha definito “elemento di reversibilità”. Analizzando il rapporto tra soggetto
e oggetto in queste fotografie, osserva che «certo, lo sguardo implica un
elemento di oggettivazione erotica ma, come in una inquadratura sogget-
tiva nella pornografia gay maschile, è reversibile. La gerarchia di genere di
vedere/essere visto non è altrettanto rigidamente codificata nelle rappre-
sentazioni omoerotiche, perché l’uguaglianza sessuale liquida l’opposizione
7
associativa tra soggetto attivo e oggetto passivo» .

7
Kobena Mercer, Skin Head Sex Thing: Racial Difference and the Homoerotic Imaginary,
nell’edizione Bad Object Choices (a cura di), How Do I Look? Queer Film and Video, Seattle,
Bay Press, 1991, p. 182. È bene notare che l’intera sfera dell’erotismo tra razze è cosı̀ poco

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432 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Gli omosessuali che incrociano la razza in un’unione che non mette a


proprio agio nessuna delle comunità coinvolte possono scoprire che sono
in gioco questioni diverse da quelle indicate nelle memorie di Hettie Jones
o nel film di Spike Lee. A volte è la differenza razziale stessa che sembra
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dover ricorrere al lesbismo come spiegazione necessaria. La storica dell’arte


Linda Nochlin, per esempio, una volta ha fatto notare un meccanismo
simile nella pittura orientalista francese del diciannovesimo secolo, in cui
«la congiunzione di corpi femminili neri e bianchi, scuri e chiari, nudi o
nelle vesti di serva e padrona, tradizionalmente significava lesbismo», anche
in assenza di qualsiasi gesto manifesto che supportasse una tale interpreta-
8
zione . Al contrario, la presenza del lesbismo può di per sé suggerire
l’incrocio di razze diverse, anche se questo non accade. Nel suo recente
studio sulla rappresentazione dell’omosessualità nella rivista «Jet» negli anni
Cinquanta, Alycee J. Lane ha scoperto che l’intervistatore e il redattore
creavano una distinta presenza bianca dentro il profilo di due lesbiche nere
(sottintendendo che il rifiuto dell’uomo nero implicito nella reciproca scelta
delle donne fosse, per esclusione, un’alleanza con l’uomo bianco, che era
perciò inserito ben in vista – attraverso le foto del loro avvocato e del loro
9
ministro e con commenti del tutto gratuiti su entrambi) .
Leggendo gli scritti che costituiscono le cronache delle guerre sessuali,
sono rimasta colpita dalla scarsa attenzione riservata ai numerosi modi in
cui le donne hanno scelto di strutturare la differenza nelle coppie lesbiche.
Le soluzioni evidenti come inter-classe, madre-figlia, grassa-magra e, so-
prattutto, l’attrazione tra razze diverse, riscontrabili in ogni locale o quar-
tiere di omosessuali, venivano virtualmente ignorate, nonostante le diffuse
lamentele per la “morte nel letto lesbico” causata dall’eccessiva fusione, dal
dissolvimento di sé nell’altro (troppo simile). Qui, le relazioni di potere
paritarie, che sono possibili (sebbene non garantite) nel rapporto omoses-
suale, possono essere ordinate in modo da alterare le dinamiche della
coppia omosessuale. Infatti, alcuni amici che hanno partecipato alle sfilate
del Gay Pride negli ultimi anni, hanno riferito di aver visto molte più
coppie multirazziali, specialmente tra i giovani, rispetto a quelle che s’in-
contrano tra la popolazione eterosessuale.

articolata e cosı̀ emotivamente complessa che il testo di Mercer rappresenta una modifica
radicale della propria posizione su Mapplethorpe, espressa in un lavoro precedente.
8
Linda Nochlin, The Imaginary Orient, «Art in America», maggio 1983, p. 126.
9
Alycee J. Lane, Hegemonies Within: «Jet» Magazine and Its Construction of “the” Black
Homosexual, presentazione del comitato, Fifth Annual Lesbian and Gay Studies Conference,
Rutgers University, 2 novembre 1991. Basato sulle note dell’autrice.

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 433

In generale, i film sull’omosessualità non si sono avventurati in questo


specifico territorio. A metà degli anni Ottanta, tuttavia, qualcosa è cambiato
e sono apparsi tre lungometraggi, stilisticamente sperimentali e tematica-
mente visionari, due fatti da donne, uno da un uomo, che trattano delle
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interazioni tra le razze – con risultati radicalmente diversi. Lizzie Borden ha


realizzato Born in Flames nel 1983. Gus Van Sant ha girato Mala Noche nel
1986. Sheila McLaughlin è l’autrice di She Must Be Seeing Things, del 1987.
Insieme, questi tre film possono essere visti retrospettivamente come punto
di partenza per un’analisi filmica delle dinamiche interrazziali di lesbiche e
gay.
Born in Flames (1983) di Lizzie Borden ha rappresentato una fase
fondamentale in quello che ritengo che sia un discorso collettivo su razza e
(omo)sessualità nel campo del cinema indipendente. Unisce documentario
e fiction in una visione utopica di donne nere e bianche che si amano e
lavorano insieme, lottando contro un nemico comune (il patriarcato, lo
Stato). Invece di assumere l’unità intrinseca di un documentario come Word
Is Out, o la simbiosi problematizzata di Mala Noche, il film di Borden
circoscrive il proprio terreno di unità nella differenza per mezzo di un
gruppo di ragazze bianche e uno di ragazze nere che si uniscono a
vantaggio dei loro scopi rivoluzionari (e a personale vantaggio delle loro
leader, completato da una scena nella doccia).
Ma che cosa è accaduto? Quando il film fu proiettato nel corso di una
conferenza all’Università di Milwaukee nell’aprile 1985, molte donne pre-
senti tra il pubblico lo attaccarono. Vi fu uno scambio di accuse e contrac-
cuse di razzismo e omofobia. Due mesi dopo, il film fu al centro di una
tavola rotonda in occasione della conferenza della Society for Cinema
Studies di New York e anche in tale occasione fu fatto oggetto di una serie
di attacchi, questa volta riguardanti la tecnica e l’estetica. Pur essendo
impossibile dimostrarlo, è però possibile che la miscela di unioni lesbiche e
interrazziali nel film fosse esplosiva e abbia funto da catalizzatore per
queste reazioni appassionate. Lo stile “diretto” del film, pre hip-hop e reale,
che come un DJ mescola diversi motivi su un piatto, ha assicurato una
presentazione “bollente”... e una risposta altrettanto calda.
Senza conoscere né il metodo di lavoro né l’autobiografia di Borden, gli
accademici potrebbero considerare il film ingenuo o cooptante. Borden ha
realizzato il film attraverso un processo semi-collettivo, attraverso la colla-
borazione con un gruppo vasto e crescente di donne e uomini bianchi e
neri. Al Santana, il direttore della fotografia afroamericano, è uno dei
cameraman il cui contributo è stato formalmente riconosciuto; Flo Ken-

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434 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

nedy, attivista di lunga data e agitatrice sempre, è la protagonista. Tuttavia,


sia a livello narrativo sia a livello dell’immagine, il personaggio centrale del
film è Honey, l’allora compagna di Borden, che nel film interpreta la leader
di Radio Phoenix. È lei la donna afroamericana, il cui volto sorrideva al
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pubblico dai manifesti che tappezzavano tutta Lower Manhattan e ogni


altro luogo in cui veniva proiettato il film. È lei che per un po’ ha
accompagnato Borden alle proiezioni dei festival, che ha vissuto la vita
delle squallide strade di Williamsburg, che ha recitato con la compagnia di
Spit Britches, che ha composto il tema principale del film. Indubbiamente
questi sono dettagli extra filmici e dunque non rientrano nel discorso
dell’analisi testuale. Per quanto la biografia e il processo di lavorazione
possano essere importanti per un dato film, la teoria del film non ha ancora
trovato il modo di includere il genere di materiale offerto abitualmente
dalla stampa nelle rubriche sul cinema.
Tuttavia, data la natura della realizzazione dei film in un’era autoriale,
la realizzatrice è a tutti gli effetti Borden e il film va considerato come un
riflesso di tale autorialità, ossia di una prospettiva bianca. Nelle interviste di
allora, Borden parla degli sforzi compiuti perché il film fosse visto da un
pubblico più vasto rispetto a quello abituale del mercato dei film d’arte e, in
effetti, almeno a New York la sua opera è riuscita a raggiungere una serie di
circuiti alternativi e ad attirare un pubblico composto da tutte le razze (e
generazioni). Da allora, in aggiunta alla sua popolarità presso il pubblico
10
come film di culto, la pellicola ha acquisito un importante valore critico .
Visto dalla prospettiva degli anni Novanta, Born in Flames appare inno-
cente, persino utopico, nella sua visione della comunicazione e dell’unione
tra razze diverse, nonché nella messa in scena della politica di guerriglia.
Altrettanto impressionante è, oggi, la misura in cui l’aspetto politico
sussume quello personale, al punto che il film rappresenta i personaggi
come agenti politici e mai come individui. Nei termini di questa mia analisi
della razza come fattore costitutivo nell’ambito dell’omosessualità, il film ha
dunque poco da dire. La razza viene presentata come problema collettivo e
politico, con la summenzionata scena trasgressiva della doccia tra una
donna bianca e una nera, proposta come un atto apparentemente non
complicato, privato piuttosto che pubblico, al sicuro nel regno della sessua-

10
Vedi, per esempio, Teresa de Lauretis, Rethinking Women’s Cinema: Aesthetics and
Feminist Theory, in Id., Technologies of Gender, Bloomington, Indiana University Press, 1987;
[tr. it. La Tecnologia del genere, in Teresa de Lauretis, Sui generiS. Scritti di teoria femminista,
Torino, Einaudi, 1996].

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 435

lità “naturale” (per quanto “innaturale” possa essere apparsa agli spettatori
al momento della visione del film).
La distribuzione di Mala Noche di Gus Van Sant ha rappresentato un
passo avanti nella direzione opposta, quella dell’ambito personale, met-
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tendo a nudo il fascino, più che sottoculturale e meno che subliminale, che
il protagonista bianco esercita sui ragazzi messicani dalla pelle scura, i quali
giungono nel quartiere malfamato di Portland in cerca di un’opportunità.
Sebbene il film non penetri mai l’autentico senso della reale soggettività (o
l’economia) che muove gli oggetti delle voglie del protagonista, va più in là
di ogni altra opera dopo Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte) di
Rainer Werner Fassbinder nel condurre lo spettatore dentro a quel partico-
lare campo magnetico che governa le persone che capovolgono la consueta
equazione uguale/diverso: genere corrispondente, ma razza (o classe) di-
versa.
Il protagonista di Van Sant non ignora le contraddizioni della propria
situazione, dal momento che egli stesso si trova al margine della società di
Seattle a causa della sua identità sessuale e del suo lavoro in seno a una
comunità di immigrati, braccianti messicani, prostitute, e altri emarginati
sociali. Tuttavia il film mostra in modo evidente che il suo rapporto
frustrato con un giovane messicano non può sfuggire alla dinamica di
sfruttamento coloniale, dettata dallo schema globale del loro incontro.
Questa prospettiva infonde un surplus di significato a ogni fotogramma del
film, poiché Van Sant mostra, più di quanto probabilmente intendesse fare
con il particolare lavoro di ripresa che dà corpo alla soggettività del
11
protagonista bianco, l’alter ego del regista . Questo personaggio riesce a
vedere il proprio desiderio nei due giovani, mai i loro desideri; non
s’interroga mai sul “perché” della loro presenza nella sua città nativa, sul
“chi” delle loro soggettività, fuori dallo sguardo strutturante del suo inte-
resse naturale. Infine, la morte inattesa e ingiustificata di uno dei giovani
incrimina il protagonista, mettendo sotto accusa il suo essere completa-
mente preso dai propri desideri e mostrando con la natura definitiva della
morte che la razza non è un gioco occasionale e che può essere fatale. Van
Sant riesce a rappresentare le contraddizioni tragiche della situazione in cui
si trova il suo protagonista, ma non possiede un linguaggio per mutarla.
L’importanza dell’opera di Van Sant consiste nell’aver dato inizio a
un’analisi della soggettività del desiderio interrazziale, sebbene da un unico

11
La frase “alter ego” non va presa troppo alla lettera. Il film in realtà è basato su una
storia autobiografica di uno scrittore di Portland che è stata adattata da Van Sant.

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436 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

punto di vista, prevedibilmente bianco. Prima di allora questo tema non era
mai stato affrontato come serio progetto filmico. Certo, erano stati fatti dei
documentari – The Word Is Out, Before Stonewall – che, riprendendo la
storia e l’identità gay e lesbica, avevano incluso persone di colore (sebbene
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con quell’avvicendarsi che è diventato troppo presto sinonimo di “multicul-


turalismo”, in entrambi i progetti, realizzati collettivamente, era possibile
trovare le persone di colore davanti alla cinepresa ma non dietro). In questi
documentari, la questione razziale veniva vista come una componente dell’i-
dentità gay piuttosto che come una sfida alla nozione dell’inclusività gay
alla quale erano dedicati, e in nessuno dei due veniva approfondito in
modo particolare il tema dell’attrazione tra persone di razza diversa.
La distribuzione di She Must Be Seeing Things nel 1987 ha mostrato
come Sheila McLaughlin abbia fuso alcune delle preoccupazioni emerse dai
film di Borden e di Van Sant nel ritrarre una coppia lesbica – bionda regista
l’una, avvocato brasiliano l’altra (interpretata da un’attrice afroamericana) –,
che cerca di scegliere il proprio cammino attraverso un campo minato di
questioni che chiaramente in quel momento impegnavano le comunità
lesbiche, femministe e cinematografiche. Il progetto del film è incentrato
principalmente sull’identità lesbica, minacciata da un lato dalla fantasia
eterosessuale, dall’altro dalla paranoia gelosa. Le questioni messe in evi-
denza, riguardanti soprattutto i rapporti di potere e i modi di dominio tra
donne, avevano rilevanza per le questioni razziali, ma il motivo centrale del
film non è né la razza né il rapporto interrazziale tra donne. La loro
relazione è in gioco, ma non in questi termini. McLaughlin stessa ha
ammesso che la razza ha avuto un ruolo nella messa in scena più che nel
racconto.

Non credo che quella razziale sia la differenza più importante tra le due
protagoniste. A me interessava che fossero il più possibile diverse, e la
razza fa parte di questo... gli attori neri desiderano dei buoni ruoli nei film
e non vogliono essere ingaggiati solo perché sono neri. Certo, la razza è
sempre un problema, ma io ho sentito il dovere e l’interesse di iniziare ad
affrontarlo. Ritengo che sia una cosa veramente difficile e importante da
12
fare .

12
Alison Butler, She Must Be Seeing Things: An Interview with Sheila McLaughlin,
«Screen» vol. 28, n. 4, autunno 1987, pp. 24-25.

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 437

La maggior parte delle spettatrici, femministe e lesbiche (di solito


prevalentemente bianche), tendevano ad accogliere il film – e a voce alta –
solamente in base alle proprie “zone calde” di sessualità inaccettabile. Cosı̀,
la sua proiezione fu interrotta su uno schermo inglese quando la folla locale
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di “donne contro la pornografia” lo denunciò come film S-M. Un’altra parte


del pubblico, invece, lo rifiutò perché osava ritrarre le fantasie e le tenta-
13
zioni eterosessuali delle lesbiche . Il film ricevette però anche una critica
favorevole e un’accoglienza positiva da parte del pubblico (venne proiettato
con successo al Film Forum di New York e anche altrove, a livello
14
nazionale e internazionale) .
In realtà le questioni razziali non hanno avuto la possibilità di emergere
nel film, vista la maggiore attenzione dedicata alla presentazione del genere,
all’identità e alla natura del desiderio lesbico. Tuttavia il film si apre a una
simile lettura perché (a differenza di Van Sant) McLaughlin ritrae la
soggettività dell’Altro e (a differenza di Borden) porta la politica a un livello
intensamente personale: il politico è personale in She Must Be Seeing Things.
Sotto alcuni aspetti il film era in anticipo sui tempi, riprendendo le
problematiche della razza, dei ruoli assunti nella coppia lesbica e del S-M in
un epoca in cui le rappresentazioni visive non avevano ancora raggiunto il
livello della saggistica e delle tavole rotonde, e pagando un prezzo per il
fatto di essere all’avanguardia.
Dal punto di vista razziale, uno dei momenti centrali del film si verifica
quando la protagonista brasiliana, temendo un tradimento eterosessuale da
parte della sua amante, chiede consiglio a un’amica afroamericana lesbica,
che le dice: «che cosa ti aspettavi? Sapevi che era eterosessuale quando hai
iniziato la tua storia con lei». La stessa McLaughlin ha raccontato la
reazione degli spettatori afroamericani durante la discussione che è seguita
15
alla proiezione: tutti le avevano corretto questa battuta . Quel genere di
personaggio avrebbe guardato alla razza e non all’identità sessuale. La
correzione: «che cosa ti aspettavi mettendoti con una donna bianca?».
Questo dialogo immaginario è fondamentale per una discussione sulla

13
Vedi Susan Ardill, Sue O’Sullivan, Sex in the Summer of ’88, «Feminist Review», n. 31,
primavera 1989, pp. 126-134 per un resoconto del «noto scandalo» in cui «una piccola
minoranza di donne» nella scuola estiva nel 1988 chiedeva una «totale messa al bando» del
film. Vedi, anche, Victoria Brownworth, Dyke S/M Wars Rage in London, «Coming Up!»,
ottobre 1988, pp. 14-15.
14
Vedi, per esempio: Teresa de Lauretis, Guerilla in the Midst: Women’s Cinema in the ’80s,
«Screen», vol. 31, n. 1, primavera 1990, pp. 6-25.
15
Da una conversazione con l’autrice.

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438 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

razza proprio perché nella versione originale non è centrale l’identifica-


zione razziale bensı̀ quella sessuale16. McLaughlin considera questa partico-
lare battuta un errore di sceneggiatura da parte sua, ma è comunque
sintomatico delle grandi difficoltà che ogni regista deve affrontare quando
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tenta di superare le divisioni razziali in un momento in cui i modelli da


seguire sono pochi e gli errori che si possono compiere sono infiniti.
Poiché la questione della razza non costituisce un tema del film, le
differenze che possono emergere tra i personaggi delle due amanti non
vengono presentate sotto il profilo razziale. Proprio l’intenzione di impre-
gnare entrambi i personaggi di eguale soggettività e di racchiudere il
racconto dentro i termini dei dibattiti dominanti nelle comunità lesbiche
newyorkesi hanno fatto sı̀ che McLaughlin indicasse ancora una volta il
bianco come luogo in cui risiede l’autorità, l’essenza innominata e tuttavia
tangibilmente responsabile. Come ha fatto Van Sant. Come ha fatto Borden
(anche se il suo metodo, ossia la collaborazione mediante l’improvvisa-
zione, ha dato al film un’autorialità più eterogenea nonostante nella sfera
extra filmica della attenzione dei media verso l’autore sia emersa in modo
più evidente la sua autorità).
Questi tre film sono importanti poiché sono pionieristici nell’iniziare ad
articolare un’analisi filmica delle storie d’amore tra persone di razze diverse.
Il fatto che il loro soggetto parta da una posizione “bianca” è stato messo in
evidenza da un recente studio del soggetto curato dalla scrittrice Jackie
Goldsby:

Sono innamorata di una donna bianca e sono la sua compagna da quattro


anni. Abbiamo analizzato con attenzione le ragioni che ci hanno spinte ad
unirci e posso dire, a chiunque lo chieda, che la nostra attrazione è “sana”
e che nessuna di noi due, io in particolare, soggiace a un razzismo
interiorizzato. Diciamo questo anche a noi stesse, sebbene sappiamo che
le cose stanno diversamente: dove, nel contesto del discorso politico
lesbico sulla razza, possiamo ammettere che il fatto di varcare consapevol-

16
Il problema di dove risieda l’autorità per scegliere di fare una simile affermazione o
messa a fuoco è reale. La battuta è messa in discussione solo perché McLaughlin è bianca?
L’autorità deve estendersi fino alla generalizzazione, al cosiddetto essenzialismo, al naziona-
lismo culturale? Un cineasta di colore sarebbe messo in discussione allo stesso modo per la
costruzione dei personaggi? Certo che sı̀, come hanno indicato le risposte all’opera di Isaac
Julien. Incrociare le razze è pericoloso per chiunque. Vedi la discussione sul film, seguita alla
prima presentazione di Teresa de Lauretis del suo saggio Film and the Visible, come è
riportata nell’antologia How Do I Look?, alle pp. 264-276.

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 439

mente i confini di razza e classe e` parte del nostro reciproco desiderio


erotico?17

Se domanda e risposta possono essere postulate come una forma di


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ricezione da parte del pubblico, le riflessioni di Goldsby dovrebbero essere


considerate l’inizio di una risposta alle questioni sollevate da questi film,
mentre le comunità omosessuali incominciano a occuparsi della sfida, a
lungo passata sotto silenzio, che la scrittrice sottolinea.
Recentemente, altri registi hanno iniziato a produrre opere che toccano
il discorso dell’interazione tra razze diverse sul fronte dell’erotismo. Noc-
turne di Joy Chamberlain, più di ogni altro film recente, mette in evidenza
le trappole in cui i registi bianchi omosessuali possono cadere quando
creano personaggi di altre razze o culture. In questo dramma fantastico, una
borghese repressa torna a casa dopo la morte della madre, solo per trovarvi
due giovani donne omosessuali della classe operaia (una bianca, una nera),
che intrudono nella sua vita e decidono di ottenere qualcosa da lei, il che
infine le darà piacere. La storia sembra una favola sulla classe e sul sesso
con ovvi toni lawrenziani. Tuttavia, la parte della donna nera cambia il suo
senso di marcia, prima verso l’incoerenza (quando il racconto passa dalla
storia scherzosa tra le due ragazze al loro incontro con l’ospite) e poi verso
una terrificante coerenza (quando la donna nera viene progressivamente
spinta in una situazione di subordinazione dal gioco di dominazione delle
due donne bianche).
La scelta dei personaggi di Chamberlain dimostra i limiti di ogni
approccio “daltonico” al cinema o ai rapporti lesbici. La sua esplorazione
della classe e della sessualità trasgressiva finisce col riscrivere la peggior
sorta di stereotipi razziali, con il personaggio nero che viene comandato,
infantilizzato, emarginato e, infine, reso capro espiatorio, tutto in nome
della liberazione (cioè, della donna bianca repressa). Si è tentati di conside-
rare le mancanze del film come mancanze della sceneggiatura, o della
difficoltà insita in questo tipo di fiction allegorica, in cui ambiguità e
simbologia tendono a condensare il significato in modi complessi e impre-
18
vedibili . Tuttavia, è altrettanto evidente che in questo caso la vera man-

17
Jackie Goldsby, What It Means to Be Colored Me, cit., p. 11.
18
Infatti, Chamberlain ha dichiarato, alla proiezione al Festival di New York, che in
origine la sceneggiatura non era stata scritta per includervi una donna nera, ma di essersi
impegnata ad ampliare le opportunità di ruoli per le donne di colore e di aver pertanto
attribuito la parte di conseguenza. È questo il tipo di “soluzione” che trovo problematica.
Precedentemente, nella forma serrata, più maneggevole della soap opera, Chamberlain aveva

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440 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

canza riguarda la situazione razziale: toccare aree cosı̀ esplosive senza


un’adeguata conoscenza extra filmica della politica razziale significa, per
una donna bianca, spalancare le porte ai pericoli impressi sullo schermo da
Nocturne.
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Certamente le soggettività lesbiche devono essere esaminate dalla pro-


spettiva razziale. L’ideale, però, sarebbe che la costruzione di questi perso-
naggi immaginari fosse il momento culminante dell’opera di un regista e
del suo pensiero sulla razza, e non l’inizio. Nella seconda metà degli anni
Ottanta, le registe femministe bianche hanno iniziato a rispondere ai
dibattiti sul razzismo e sul “solipsismo bianco”, che si era rafforzato e aveva
acquisito autorevolezza nel corso del decennio. Per le femministe bianche
che avevano a cuore questi principi, il passaggio alla fiction diventava un
modo di impegnare il dibattito a un livello più profondo. Ogni soluzione,
però, porta alla luce un’altra serie di problemi e questa non ha fatto
eccezione. Soprattutto per quei cineasti le cui vite sono largamente mono-
razziali è pericoloso tentare una simile strategia di rappresentazione nel
cinema se non possiedono una sfera più ampia di esperienza o di impegno
politico che li aiuti ad ambientare un tale lavoro. In Privilege, per esempio,
Yvonne Rainer ha tentato di lavorare attraverso la propria ambivalenza e il
suo senso di responsabilità nel rappresentare le razze, ma ha finito per
suscitare risposte altrettanto ambivalenti: Michele Wallace le ha contestato
il suo modo di presentare i neri, mentre la rivista «Variety» ha fatto sfaldare
i livelli del film, confondendo il personaggio di “Yvonne Washington” (la
regista afroamericana del film, interpretata da Novella Nelson) con Rainer
stessa e recensendo Privilege come film diretto da una regista afroamerica-
19
na .
Ancora più difficile è quindi la rappresentazione della sessualità lesbica
da parte di registe bianche che tentano descrivere i rapporti interrazziali nei
racconti erotici lesbici; indubbiamente tendono più a rafforzare che a
infrangere gli stereotipi. Quando Cindy Patton ha mostrato Current Flow,
un video lesbico di “sesso sicuro” di Jean Carlomusto, alla conferenza “How
Do I Look?” a New York nel 1989, c’è stato un esteso dibattito, formale e
informale, su come il video ritraeva il personaggio afroamericano secondo
lo stereotipo preferito – lo stallone – che provvede all’amante bianca con

fatto molto meglio: il personaggio nero di Domestic Bliss (1984), opera pilota per una serie
televisiva mai prodotta, era interessante, vivace e credibile.
19
Vedi Michelle Wallace, Multiculturalism and Oppositionality, «Afterimage», vol. 19, n. 3,
ottobre 1991, pp. 6-9.

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 441

infallibile, inesauribile energia sessuale20. Similmente, il popolare spettacolo


di porno lesbici di Suzie Bright non esamina il retaggio di stereotipi razziali
della pornografia, limitandosi a celebrare tutte le manifestazioni di sessualità
come intrinsecamente liberatorie senza andare oltre un elementare atteggia-
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mento da Primo Emendamento per criticare l’inserimento del corpo in un


insieme articolato di significati e valori con una gerarchia razziale. Tuttavia,
in molte delle risposte allo spettacolo di Bright le ansie sessuali tendono a
superare le preoccupazioni razziali: i dibattiti si sono tendenzialmente
incentrati sugli attuali fronti della battaglia sessuale (censura, S-M, omofo-
bia, repressione) e purtroppo, ancora una volta, prevedibilmente il tema
21
dello stereotipo razziale è stato rimandato . La risposta di Isaac Julien a
Current Flow è emblematica a questo proposito: «nel tentare di visualizzare
il sesso sicuro o il desiderio sessuale, la creazione di video porno è un
campo minato se si cerca di venire alle prese con le diverse dicotomie
22
costruite intorno alla differenza razziale» .
Solitamente la totale assenza di rappresentazioni degli incroci di razze
nel cinema gay o lesbico di ogni genere evitava queste preoccupazioni.
Certo, vi sono state anche delle eccezioni, come The Gold Diggers (Cercatori
d’oro) di Sally Potter, in cui il personaggio interpretato dall’attrice nera
Colette Lafonte entra a cavallo in una sala da ballo e porta via con sé Julie
Christie. L’assenza generale, negli anni Ottanta, di opere sui rapporti
interrazziali, non riguarda solo i lavori delle cineaste bianche, ma anche i
documentari e i lungometraggi diretti da donne di colore. Non che man-
cassero le donne di colore che realizzavano film: sin dagli anni Settanta,
quando il cinema femminista aveva preso una strada quasi interamente
bianca dai documentari fino agli inizi della fiction, sono emerse in modo
costante delle donne di colore – asiaticoamericane, latine, messicane, afroa-
mericane – come realizzatrici di immagini proprie e produttrici di film e
video che finalmente iniziavano a rappresentare quella diversità di espe-
rienze e soggettività che l’“arte” dovrebbe rispecchiare.
Non sorprende, però, che l’ultima cosa ad interessare la maggior parte
di queste cineaste fosse l’inserimento di donne bianche nei loro lavori, che

20
Per la discussione del video e gli argomenti sollevati dalla pornografia tra persone di
razze diverse, dibattuti da Gregg Bordowitz, Jean Carlomusto, Cindy Patton, Richard Fung e
altri, vedi anche How Do I Look?, pp. 51-63.
21
Goldsby, tuttavia, tocca precisamente questo punto (vedi sopra). Il suo articolo,
unitamente ad altri racconti pubblicati o aneddotici, è alla base di questa analisi dal
momento che non ho visto lo spettacolo di Bright.
22
Dalla medesima discussione How Do I Look? (vedi sopra), p. 62.

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442 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

di solito trattavano prevalentemente l’identità e gli interessi (storia, famiglia,


arte, lavoro) delle donne di colore, sia nei documentari sia nelle fiction. Vi
sono però alcuni film di donne di colore che si occupano della sessualità
eterosessuale tra persone di razze diverse: non c’è però da stupirsi che il
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soggetto sia soffuso di note negative, inevitabili date le dinamiche di potere


maschile/femminile e la storia dell’abuso di questo potere verso l’altra
razza. In Illusions di Julie Dash, per esempio, che tratta il soggetto di una
donna in uno studio hollywoodiano durante la guerra e il suo legame con
una giovane cantante dalla pelle scura, uno dei principali intrecci secondari
sono le molestie sessuali che lei subisce da parte di uno sgradevole ufficiale
bianco. Nice Colored Girls di Tracey Moffat pone in primo piano le
interazioni tra persone di razze diverse, ma rifiuta l’immolazione rove-
sciando il potere del punto di vista: la sua cinepresa segue alcune giovani
aborigene durante una nottata in città. Lo sfruttamento finanziario, da parte
loro, di un lascivo australiano ubriaco è rappresentato come magra ricom-
pensa per lo sfruttamento coloniale e neocoloniale e per l’esotizzazione
23
sessuale del loro popolo da parte degli inglesi .
Alcune cineaste iniziarono a raccontare le vite delle lesbiche di colore o
a trattare il tema del corteggiamento tra persone di razze diverse. Negli
anni Ottanta, Michelle Parkerson negli Stati Uniti, Pratibha Parmar nel
Regno Unito e Midi Onodera in Canada avevano già dato inizio a un’inda-
gine filmica sulle lesbiche di colore, esercitandosi con la macchina da presa
sia su se stesse sia (più spesso) su altre. Flesh and Paper, il ritratto di Parmar
presentato da Suniti Namjoshi, include anche una scena formale artificiosa
in cui la poetessa indiana e la sua amante inglese bianca leggono le loro
poesie nella lussuosa santità di un palazzo di pseudo-piacere. Sebbene qui la
razza sia presente come linea di demarcazione all’interno della coppia, nella
narrazione del film essa è più un’assenza strutturata che una presenza
analizzata, poiché il vero soggetto dell’indagine è Namjoshi stessa. In 10
Cents a Dance (Parallax), Onodera usa la razza come un elemento quasi
comico di sessualità lesbica, al punto da partecipare essa stessa nel ruolo di
corteggiatrice esitante nella scena di un appuntamento ambientata in un

23
Più di recente, Camille Billops e James Hatch hanno prodotto Finding Christa. Mentre il
film è incentrato sulla storia di Billops che dà in adozione la figlia per poi ritrovarsi, anni
dopo, nuovamente in contatto con lei, vi è una consistente trama secondaria che narra
l’incontro e l’unione tra Billops e Hatch come un primo esempio di “integrazione” e come
scelta controversa, sebbene inconsapevole (in quanto tale) da parte di entrambi, cosı̀ come
viene raccontata dalle famiglie e dagli amici (loquacemente da parte di quelli di Hatch, quasi
silenziosamente da parte di quelli di Billops).

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 443

ristorante di sushi. Tuttavia, nel suo documentario autobiografico The


Displaced View, Onodera elide il tema della propria sessualità per concen-
trarsi sulle questioni della razza e della nazionalità. Al termine delle riprese,
l’autrice ha parlato delle difficoltà incontrate durante la produzione nel
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riconciliare la sua identità di donna asiatica con la sua identità di lesbica,


sebbene il solo fatto di parlarne sia servito per iniziare a colmare il divario.
«Mi preoccupo davvero quando sento che parliamo di amore interrazziale
come se fosse solo un’aberrazione, suggerendo che i ruoli naturali di
bianchi e neri devono essere sempre antagonisti e contaminati da crudeltà e
24
indegnità» .
Looking for Langston di Isaac Julien ha segnato un nuovo progresso nel
trattamento filmico dell’eros tra persone di razze diverse, anche se la sua
riabilitazione storica di Langston Hughes ha esasperato l’antagonismo
omofobico degli amministratori patrimoniali del poeta. Il film di Julien è
ambientato storicamente nel Rinascimento di Harlem. Questo non lo
riconduce solo a un momento d’intensa definizione del sé in seno alla
comunità culturale afroamericana, ma anche a un momento di un più libero
mescolarsi di razze diverse tra gli intellettuali bohemien che ne costitui-
scono il mondo. Tuttavia, al momento stesso in cui Julien inserisce l’uomo
bianco nella sua visione di un nuovo mondo nero, continua a interrogarsi
sulla sua presenza benevola o malevola: i termini dello scambio sono
definiti sempre dal “bell’uomo nero” che occupa il centro della scena e ha
l’ultima parola.
Julien accetta le verità delle politiche dell’identità come un punto di
accesso necessario, ma mette sempre in discussione i limiti del nazionali-
smo culturale. Coglie in uno sguardo la spirale del razzismo, in un cenno
l’odore del commercio, ma dirige le scene fino in fondo, cercando delle vie
d’uscita. Smussa sia le nozioni di identità sessuale normativa sia quelle della
razza come elemento totalizzante o unidimensionale; i suoi film varcano i
confini di razza e genere con lo stesso passaporto, senza privilegiare né
l’una né l’altra.
È una visione elegantemente rigorosa, ma necessariamente offuscata dai
veli del tempo. Il film successivo di Julien, Young Soul Rebels, ha reso
esplicito ciò che nel lavoro precedente era solo implicito: la forza d’attra-
zione tra nero e bianco, nonostante le barriere. Aprendo il suo universo
filmico a una varietà di personaggi, Julien riesce qui a decostruire i piaceri e
le pene – e i pericoli fatali – insiti nel superamento dei confini razziali, pur

24
Essex Hemphill, Choice, «Gay Community News», 6-12 maggio 1999, pp. 9-13.

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444 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

concentrandosi in modo risoluto sui problemi dell’identità maschile nera,


che sono il tema centrale. In effetti, il film è ambientato nel 1977, l’anno del
venticinquesimo anniversario dell’incoronazione della Regina. Questo con-
sente a Julien di collocare il suo racconto nel relativo pluralismo razziale
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della scena del ragazzo soul nelle discoteche di allora e di mostrare al


contempo la frenesia delle scene di strada, che appaiono sempre ai limiti di
una guerra di razza/classe.
Gli elementi della narrazione filmica spaziano dai continui attacchi
della polizia all’assassinio, dalla storia d’amore alle tendenze musicali alla
politica, ma nulla può reggere il confronto con la scena a letto, nero su
bianco, tra Billibud e Caz.
È il momento più sexy del film, e quindi chiaramente il suo momento
culminante (drammatico), nonostante le scene d’azione (anticlimax) che
seguono. Julien identifica il potere erotico della differenza e lo usa. Ma non
minimizza i conflitti. Caz disapprova l’ingenua politica da teppista bianco
di Billibud e, in diversi momenti, entrambi vengono criticati perché stanno
insieme. Il contrasto dei valori è riflesso anche nelle difficoltà di Billibud a
scegliere la musica giusta per farlo. Julien sa che queste tensioni spiegano
anche l’eccitazione ed è abbastanza onesto da mostrarlo.
Per Marlon Riggs, il confine tra le razze è meno permeabile. Tongues
Untied non è una celebrazione ma un ripudio del legame tra persone di
razze diverse. Riggs colloca la propria immagine in prima linea, con un
discorso in prima persona e un’immediatezza superiore al normale, un
linguaggio che esce dallo schermo con la stessa sicurezza delle figure che si
avvicinano alla macchina da presa. Ricorrendo a una struttura esplicita-
mente autobiografica, Riggs traccia una mappa del viaggio picaresco da
Castro ad Oakland, che porta fuori dalla trappola dell’attrazione tra razze
diverse (completa di foto di un precedente amante bianco) e conduce
dentro la comunità prescelta e l’autorealizzazione, illustrata chiaramente
dalla controversa didascalia finale: «L’uomo nero che ama l’uomo nero è
l’atto rivoluzionario».
È dunque inevitabile che la questione dell’amore tra persone di razze
diverse finisca con l’essere sollevata lontano dallo schermo? Il primo
manifesto di omosessualità classe-nazionalità, Tongues Untied, è stato larga-
mente diffuso e molto apprezzato. Nel 1991 e nel 1992 l’ingresso del film
nel circuito televisivo pubblico ha avuto come conseguenza la sua demo-
nizzazione, in primo luogo da parte dei poteri di censura della destra
religiosa che hanno indotto molte stazioni locali a cancellarne la program-
mazione, poi dalle ambizioni elettorali del candidato presidenziale Pat

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 445

Buchanan, che ha sistemato alcune scene in modo da poterle utilizzarle


come attacco ai diritti di gay e lesbiche. La necessità di difendere il film
contro le forze reazionarie ha fatto accantonare e dimenticare un’altra
controversia interna alla comunità gay. Tale controversia, esposta sulle
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pagine di «Gay Community News», s’incentrava su aspetti extra filmici – in


particolare sulla domanda se la biografia del regista (cioè, il suo compagno
bianco) non contraddicesse il messaggio apparente della pellicola. In un
film pieno del coraggio di venire allo scoperto in tema di omosessualità,
sembrava che Riggs si fosse tenuto ben al riparo per quanto riguarda la
25
razza (come oggetto di affetto e non d’identità) .
La complessità delle congiunzioni razza/sesso ha reso difficile il dibat-
tito. Per esempio, una collega afroamericana mi disse che il film sarebbe
stato rifiutato dalla comunità afroamericana che voleva raggiungere se dal
testo fosse emerso che il regista aveva un amante bianco. Intanto il dibattito
proseguiva nella rubrica della corrispondenza di «GCN» e diventava nazio-
nalistico, interessandosi non tanto alla questione se Riggs avrebbe potuto
estendere l’aspetto autobiografico dell’opera fino a includervi la propria
relazione attuale, quanto a quella se avesse ancora il diritto di parlare con
autorità ora che era stato smascherato.
Infine Essex Hemphill tentò di portare un po’ di buon senso nelle
pagine di «GCN». Ammettendo di parlare da una posizione contraddittoria
data la sua preferenza per i rapporti all’interno della razza, egli citò gli
esempi di Langston Hughes, James Baldwin, Lorraine Hansberry, Bayard
Rustin e Pat Parker, tutti omosessuali neri con amanti bianchi26.

25
Vedi, per esempio, la recensione di Tongues Untied a cura di Cary Alan Johnson su «Gay
Community News», 25 febbraio-3 marzo 1990, in cui l’autore definisce il film «ingannevole»
perché nasconde che Riggs ha un amante bianco. Vedi anche la risposta di Hempill, Choice,
e l’intervista a Marlon Riggs, Speaking Out About «Tongues Untied», a cura di Phil Harper, in
un numero successivo di «Gay Community News». Più recentemente, Hilton Als ha usato le
pagine del «Village Voice» per mettere in discussione Isaac Julien perché attratto dall’uomo
bianco. Purtroppo lo stesso Riggs ha contribuito allo schieramento delle parti. Nella sua
intervista su «Release Print» (Film Arts Foundation) del marzo 1990, ha aspramente criticato
il film di Julien: «Tutti gli uomini sono belli, generalmente di pelle chiara, ben vestiti, in
smoking, raffinati. Volevo evitare, come si dice, quel tipo di trappola, quella sorta di
costruzione di un nuovo stereotipo nel tentativo di spezzare lo stereotipo dell’uomo gay
nero e dell’esperienza gay nera. Questo accade spesso quando i gruppi emarginati tentano di
acquistare i favori della cultura dominante nonché di definire se stessi».
26
Nel suo articolo su «GCN», Hemphill ammetteva: «ho detto spesso, ai miei amici più
stretti, che non avrei mai potuto amare un bianco in America. Non credo di poter
sopportare le sfide che devono affrontare le coppie interrazziali solo per amore». Ma
sosteneva anche un atteggiamento da laissez-faire, citando la canzone di Billie Holiday Ain’t
Nobody’s Business If I Do.

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446 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Voglio corteggiare fuori dalla razza,


fuori dalla classe, fuori dalle attitudini –
ma amore è una parola pericolosa
in questa piccola città27.
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Richard Fung, il videoartista canadese, ha seguito percorsi simili a


quelli di Onodera e di Riggs, producendo una serie di opere dedicate alla
scoperta delle proprie identità e alla promozione del dialogo con quelle
comunità di base alle quali sente di appartenere. In Chinese Characters, Fung
alza la posta affrontando direttamente il rapporto dei gay asiatici con la
pornografia commerciale (sia come consumatori del prodotto sia come
oggetti di consumo negli scenari sessuali). Alcuni uomini asiatici parlano
delle loro attrazioni, delle loro esperienze sessuali, oltrepassando le divisioni
razziali, nonché della loro convinzione che la società occidentale domi-
nante neghi la sessualità all’uomo asiatico (in particolar modo se cinese). E
poiché il video contiene vera pornografia e un’analisi della stessa, Fung
riesce a sessualizzare i suoi “personaggi cinesi” per questo pubblico e non
solo a parlare della sua assenza.
Fung mostra che, nella pornografia, l’uomo asiatico come protagonista
attivo (rispetto a quello passivo) è talmente raro da poter pubblicizzare il
video dicendo: «Sum Yung Mahn passa alla storia come primo uomo
28
asiatico che scopa un non asiatico» . Ma Fung è cauto riguardo alle
soluzioni nell’ambito della pornografia.

La risposta liberale al razzismo è che abbiamo bisogno di integrare tutti –


tutti dovrebbero diventare color caffè, o tutti dovrebbero far sesso con
tutti. Ma un programma simile spesso non tiene conto della specificità dei
nostri desideri. Ho visto pochi porno prodotti da una mentalità integrazio-
nista che affermano il mio desiderio. È talmente facile scoprire che le mie
fantasie corrispondono ai piaceri di uno spettatore bianco. In tal senso, il
porno è molto utile a rivelare i rapporti di potere29.

Certo, il porno ha costituito l’ispirazione ma non lo scenario dell’im-


pianto “Those Fluttering Objects of Desire”, ideato da Shu-Lea Cheang
quale prodotto della collaborazione tra donne di colore sul tema della
sessualità e presentato alla Exit Art Gallery di New York nella primavera

27
Il verso compare su «GCN» all’inizio di Choice di Hemphill.
28
Citato da Fung da «International Wavelength News» 2, n. 1, gennaio 1991.
29
La risposta ad hoc di Richard Fung al commento seguito alla presentazione formale
pubblicata in How Do I Look?, cit., p. 166.

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 447

del 1992. Tutti i video erano stati realizzati per essere mostrati su piccoli
monitor nella galleria d’arte, e sarebbero entrati in funzione solo quando il
visitatore vi avesse inserito un quarto di dollaro. Inoltre, dei comandi
manuali permettevano di cambiare canale. L’intenzione era quella di imi-
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tare l’interattività di una porno cabina sovvertendone però la funzione


abituale al fine di potere esaminare l’intersezione tra sesso e razza. I nastri
realizzati da e sulle lesbiche che oltrepassavano i confini razziali hanno
rappresentato un contributo particolare a questo scenario; si potrebbe dire
che, venendo utilizzati nella porno cabina come luogo di proiezione, essi
hanno partecipato alla costruzione di ciò che Jennifer Terry ha definito
30
«controsorveglianza vendicativa» .
Il contributo di Cheryl Dunye a tale impianto è stato Vanilla Sex, un
video che riprende il discorso del sesso e riflette economicamente il suo
tema nel titolo. Dunye fa un primo piano della differenza razziale in seno
alla mitica comunità lesbica attraverso la reinterpretazione di un luogo
comune, mettendo cosı̀ in scena ciò che Terry ha descritto come «sistema
della staffetta epistemica» che costringe le lesbiche a negoziare e a tradurre
sempre «dalle regole della corte alla semiotica della strada o dalla cono-
31
scenza autorevole all’esperienza» . Dunye ricorda di avere descritto una
tavola rotonda (conoscenza autorevole) alle sue amiche (esperienza): nel
dibattito, le lesbiche bianche usavano l’espressione “sesso alla vaniglia” per
indicare un sesso che non fosse S-M, ma le sue amiche nere usavano la
stessa immagine per riferirsi a quando le donne nere andavano a letto con
quelle bianche. Il breve video riesce a proiettare le immagini a tempo con
l’aneddoto: la frase più incisiva è anche il finale del video. La nuova
interpretazione è lasciata allo spettatore.
Adriene Jenik e J. Evan Dunlap hanno collaborato a What’s the Diffe-
rence Between a Yam and a Sweet Potato? per il suddetto impianto, pren-
dendo a cuore le indicazioni date riguardo al sesso: Jenik e Dunlap si
rotolano nel letto con le loro domande, le loro immagini si alternano sullo
schermo, in movimento o fisse (attraverso il fermo immagine, tecnica che
Cheang ha usato in tutti i nastri) mentre le loro voci mettono in discus-
sione gli assunti razziali che le uniscono e al tempo stesso le dividono.

30
Jennifer Terry, Theorizing Deviant Historiography, «Differences», vol. 3, n. 2, estate 1991,
p. 59. In realtà Terry impiega questa espressione più specificatamente per indicare un
processo di ricerca e recupero storici, ma si presta con tanta forza alla descrizione di
quest’opera e alla sua struttura che mi prendo la libertà di estendere le parole dell’autrice in
questa direzione anche se diversa da quella da lei intesa.
31
Ivi, p. 70.

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448 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Secondo Jenik e Dunlap il contesto stesso dell’impianto, ossia il fatto di


sapere di essere due di sedici donne che vi contribuivano, è stato liberato-
rio: «ci ha consentito di concentrarci sul piacere». Alleggerite del peso di
dovere essere l’opera rappresentativa su razza e sesso, hanno potuto gio-
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care: tra di loro, con il soggetto, con il corpo e il colore della carne e anche
con i semplici (ma non tanto) nomi del cibo che lo nutre. E il gioco, come
il sesso, può tracciare un percorso sicuro attraverso i fondali poco profondi
della razza.

Per me, è importante cominciare a mettere in discussione la collocazione


della sessualità quale significante trascendente. Dobbiamo iniziare a impe-
gnarci in uno spazio sessuale razziale che ci rispecchi. M’interessa molto
questo spazio – uno spazio liberatorio contraddittorio, nel quale tutti
possiamo essere vulnerabili e tutti possiamo interrogare appieno la razza,
il genere e la classe per rivendicare una nostra soggettività sessuale
completamente decolonizzata32.

Il personale è politico: è questa la frase più usata e tuttora valida del


linguaggio femminista. Per gli omosessuali che tentano di realizzare delle
opere che trattano le forze esplosive della razza e delle unioni tra persone
di razze diverse il giorno è lungo e il lavoro non finisce mai. Questo saggio
è un’analisi molto introduttiva e vuole, almeno spero, iniziare a sollevare le
domande poste dall’identità in questo tempo multiculturale. Altrettanto
introduttiva è la mia idea che vi sia qualcosa riguardo agli omosessuali e alla
razza che possa dirci qualche cosa di nuovo su come la differenza è
costituita e quali funzioni essa assolve in assenza del genere.
Forse il dialogo attorno alle unioni interrazziali che si è interrotto in
seguito al fallimento dell’integrazione negli anni Sessanta può essere ri-
preso, imparando dagli anni e dalle battaglie intercorsi, e ridefinito come
negoziazione tra identità diverse o addirittura in conflitto e non come mito
del crogiuolo di razze dei primi tempi. Il vantaggio di far partire l’impegno
politico dalla rampa di lancio del romanticismo è che contiene in sé
l’ottimismo, forse proprio quel po’ che basta per andare avanti in questi
tempi di odio razziale e di ricerca di capri espiatori. Nelle lesbiche e nei gay
vi è la possibilità di un genere di fiducia, di fronte all’AIDS e al cancro, alle
parole d’odio e ai crimini dovuti a pregiudizi, che osa tener testa alla stessa
mortalità.
Il desiderio di dialogo, rappresentazioni e teorie sull’attrazione tra razze

32
Lyle Ashton Harris, Revenge of a Snow Queen, «Out/Look», n. 13, estate 1991, pp. 8-9.

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QUANDO LA DIFFERENZA È (PIÙ CHE) A FIOR DI PELLE 449

diverse non è né individuale né frivolo. Young Soul Rebels mostra che cosa
accade quando non si permette all’attrazione per l’Altro di avere altra
espressione che la violenza; Jeffrey Dahmer ha mostrato una versione
33
diversa . Il numero delle violenze contro gay e lesbiche sta crescendo
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inesorabilmente, dalle strade di Queens ai monti Appalachi. Lo stesso vale


per le violenze nei confronti della gente di colore. Come ha dimostrato
chiaramente il processo Clarence Thomas, spesso la combinazione di razza
e sesso può essere esplosiva, e l’incapacità del pubblico di offrire un
contesto o un’analisi di questo incrocio va invariabilmente contro l’integrità
della gente di colore, delle donne e, soprattutto, delle donne di colore. Se
non ti colpiscono sulle strade di Bensonhurst, prova al Senato o alla Corte
Suprema degli Stati Uniti.
La combinazione di omosessualità e differenza razziale, però, ha una
sua volatilità. Finché non iniziamo a comprendere le componenti psichiche
del desiderio tra razze e ad analizzare gli interstizi sia dell’attrazione
sessuale sia della repulsione su base razziale, rischiamo di far proseguire
queste tragedie. Mentre nelle nuove generazioni continuano a nascere
ragazzi di razze sempre più mescolate, pieni di crisi d’identità proprie,
occorrono urgentemente nuove strutture che riconoscano apertamente
l’indivisibilità delle identità complesse. Il tempo della Nazione contro il
postmodernismo? Nulla di cosı̀ binario. Piuttosto, la necessità di una
dialettica di incroci razziali e sessuali, una mappa per il futuro della
rappresentazione, un richiamo a tutte le questioni che occorre risolvere
prima di potere avere una qualsiasi risposta.
Il popolo omosessuale ha delle tracce importanti. Come l’omosessualità
in passato veniva presentata come ultima sfida alla famiglia patriarcale
borghese (ecc., ecc., ecc.) oggi si potrebbe parlare dell’omosessualità, nella
sua immagine esterna, come laboratorio potenziale per una nuova negozia-
zione dei rapporti tra le razze, come luogo in cui le oppressioni possono
essere combinate in modo produttivo e non ordinate secondo una gerar-

33
Dahmer è il serial killer di Milwaukee che ha ucciso dei giovani dopo averli imprigio-
nati nel suo appartamento; la maggior parte delle vittime erano nere o asiatiche. L’omicidio
più noto è quello di un quattordicenne laotiano che era riuscito a fuggire in strada. Alcune
donne nere che avevano assistito alla scena chiamarono la polizia; i poliziotti bianchi
restituirono il ragazzo a Dahmer, che quindi lo uccise. Sulla scia della mostruosa scoperta
dei crimini a Milwaukee vi furono dei tumulti contro il razzismo della risposta della polizia:
la mancanza d’interesse per la scomparsa di ragazzi di colore seguita dal fatto di aver
ignorato i timori fondati della donna nera che aveva chiamato il 911 solo per essere derisa.
Grazie per l’aiuto lungo il cammino, alle varie stazioni della via crucis, a: John Greyson,
Martha Gever, Rosa Linda Fregoso, Isaac Julien e, come sempre, Lourdes Portillo.

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450 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

chia. I film e i video dell’ultimo decennio discussi in questo saggio sono i


primi passi, giustamente incerti, in tale direzione. Come pubblico e critico
e, inevitabilmente, come depositaria di esperienza vissuta, aspettando con
impazienza un passaggio alla fermata dell’autobus della mia situazione
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soggettiva, attendo con ansia l’arrivo del prossimo mezzo.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA:
GENERE, NAZIONE E IL CINEMA

di Ella Shohat

In un momento in cui i grands re´cits dell’Occidente sono stati raccontati e


riraccontati ad infinitum, quando un certo postmodernismo (Lyotard) parla
di una “fine” delle metanarrazioni, e quando Fukayama parla di una “fine
della storia”, dobbiamo chiederci: la narrazione e la storia di chi si procla-
1
mano giunte alla “fine”? L’Europa egemonica può chiaramente aver ini-
ziato ad esaurire il suo repertorio strategico di storie, ma le popolazioni del
Terzo Mondo, le comunità minoritarie del Primo Mondo, le donne e i gay
e le lesbiche hanno soltanto cominciato a raccontare e decostruire le
proprie. Per il “Terzo Mondo” questo contro-racconto filmico è iniziato
fondamentalmente con il collasso postbellico degli imperi europei e con
l’emergere di stati-nazione indipendenti. Di fronte alla storicizzazione euro-
centrica, il Terzo Mondo e le sue diaspore nel Primo Mondo hanno
riscritto le proprie storie, assunto il controllo delle proprie immagini,
parlato con le proprie voci, rivendicando e riaccentuando il colonialismo e
le sue ramificazioni nel presente in un vasto progetto di rimappatura e

Post-Third-Worldist Culture: Gender, Nation, and the Cinema, in M. Jacqui Alexander,


Chandra Talpade Mohanty (a cura di), Feminist Genealogies, Colonial Legacies,
Democratic Futures, New York and London, Routledge, 1997, pp. 183-209.
Vorrei ringraziare Robert Stam per avermi generosamente permesso di utilizzare del
materiale comune dal libro Unthinking Eurocentrism (New York, Routledge, 1994) di
cui siamo coautori. Sono grata anche alle curatrici di questo volume, Chandra
Talpade Mohanty e Jacqui Alexander, per i loro utili suggerimenti e acuti commenti
e per il loro spirito realmente dialogico.
1
Lyotard, nonostante il suo scetticismo sulle “metanarrazioni”, ha sostenuto la guerra del
Golfo in un manifesto collettivo pubblicato su «Libération», appoggiando cosı̀ la metanarra-
zione di George Bush di un “Nuovo Ordine Mondiale”.

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452 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

rinominazione. Da parte loro, le femministe del Terzo Mondo, hanno


partecipato a queste contronarrazioni, evidenziando che il colonialismo e la
resistenza nazionale hanno influito in maniera diversa su uomini e donne e
che l’atto di rimappare e rinominare non può essere senza fessure e senza
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contraddizioni.
Sebbene di numero relativamente ridotto, registe e produttrici del
“Terzo Mondo” hanno già giocato un ruolo nella produzione filmica nella
prima metà di questo secolo: Aziza Amir, Assia Daghir e Fatima Rushdi in
Egitto; Carmen Santos e Gilda de Abreu in Brasile; Emilia Saleny in
Argentina; e Adela Sequeyro, Matilda Landeta, Candida Beltran Rondon e
Eva Liminano in Messico. Comunque, i loro film, anche quando erano
centrati su protagoniste femminili, non erano esplicitamente femministi nel
senso di un progetto politico dichiarato per dare potere alle donne nel
contesto sia del patriarcato che del (neo)colonialismo. Nell’era della postin-
dipendenza o postrivoluzione, le donne, nonostante il loro crescente contri-
buto ai diversi aspetti della produzione filmica, sono rimaste meno visibili
degli uomini nel ruolo di registe. Inoltre, i cinema rivoluzionari del Terzo
Mondo in luoghi quali Cina, Cuba, Senegal e Algeria non sono stati in
genere informati da un immaginario femminista anticoloniale. Come nel
caso del cinema del Primo Mondo, la partecipazione delle donne al cinema
del Terzo Mondo non è stata affatto centrale, sebbene la loro crescente
produzione nel corso dell’ultimo decennio corrisponda a un movimento di
fioritura mondiale del lavoro indipendente delle donne, reso possibile da
nuove tecnologie di comunicazione video a basso costo. Ma in parte
prescindendo da questa relativa democratizzazione dovuta alla tecnologia,
la storia della postindipendenza, con l’eclissi graduale del nazionalismo
posterzomondista e lo sviluppo delle organizzazioni locali di base delle
donne, aiuta anche a comprendere l’emergere di ciò che definisco cinema e
2
video femminista “posterzomondista” .
In questa sede, ciò che mi interessa è esaminare lavori cinematografici e
video femministi recenti nel contesto di una cultura cinematografica poster-

2
Propongo qui il termine “posterzomondista” per mettere in rilievo un movimento al di
là dell’ideologia del Terzo Mondo. Laddove il termine “postcoloniale” implica un movi-
mento al di là dell’ideologia nazionalista anticoloniale e un movimento al di là di un punto
specifico della storia coloniale, posterzomondista trascina con sé un movimento “al di là” di
una specifica ideologia-nazionalismo terzomondista. Una prospettiva posterzomondista as-
sume la validità fondamentale del movimento anticoloniale, ma interroga anche le fessure
che lacerano la nazione Terzo Mondo. Vedi Ella Shohat, Notes on the Post-Colonial, «Social
Text», nn. 31-32, primavera, 1992.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 453

zomondista come critica simultanea sia del nazionalismo anticoloniale


terzomondista che del femminismo eurocentrico del Primo Mondo. Sfi-
dando la teoria e la pratica cinematografiche femministe bianche che sono
emerse in maniera predominante negli anni Settanta nelle metropoli del
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Primo Mondo, i lavori femministi posterzomondisti hanno rifiutato l’uni-


versalizzazione eurocentrica della “femminilità” e anche del “femminismo”.
Astenendosi da un discorso di universalità, tali femminismi rivendicano un
3
“posizionamento” , sostenendo specifiche forme di resistenza in relazione a
diverse forme di oppressione. Consapevoli della posizione vantaggiosa delle
donne bianche all’interno dei sistemi (neo)colonialisti e razzisti, le lotte
femministe nel Terzo Mondo (inclusa quella nel Primo Mondo) non hanno
avuto come premessa un facile discorso di sorellanza globale e sono state
spesso fatte nel contesto delle lotte anticoloniali e antirazziste. Ma la
crescente critica femminista dei nazionalismi del Terzo Mondo traduce
quelle molteplici speranze deluse per l’acquisizione di potere delle donne
riposte in una trasformazione nazionale terzomondista. Navigando tra la
scomunica da parte del nazionalismo patriarcale come “traditrici della
nazione” e “traditrici della razza” e le fantasie imperiali di salvataggio delle
donne clitoridectomizzate e velate offerte dal femminismo eurocentrico, le
femministe posterzomondiste non si sono improvvisamente trasformate in
femministe “occidentali”. Fin dall’inizio, le femministe di colore sono state
impegnate in analisi e attivismo sull’intersezione nazione/razza/genere.
Perciò, nell’opporre ancora resistenza alla situazione corrente di (neo)colo-
nizzazione della loro “nazione” e/o “razza”, le pratiche culturali femministe
posterzomondiste si distaccano anche dalla narrazione della “nazione”
come entità unificata, in modo da articolare una storia contestualizzata per
le donne in specifiche geografie dell’identità. Tali progetti femministi, in
altre parole, sono spesso postulati in relazione a posizionamenti etnici,
razziali, geografici, regionali e nazionali.
Il lavoro femminista all’interno dei movimenti nazionali e delle comu-

3
Per un approfondimento del concetto di “posizionamento” vedi, per esempio, Chandra
Talpade Mohanty, Feminist Encounters: Locating the Politics of Experience, «Copyright 1»,
autunno 1987; Michele Wallace, The Politics of Location: Cinema/Theory/Literature/Ethnici-
ty/Sexuality/Me, «Framework», n. 36, 1989; Lata Mani, Multiple Mediations: Feminist Scholar-
ship in the Age of Multinational Reception, «Inscription 5», 1989; e Inderpal Grewal, Autobiogra-
phic Subjects and Diasporic Locations: Meatless Days and Borderlands, e Caren Kaplan, The
Politics of Location as Transnational Feminist Practice, in Inderpal Grewal e Caren Kaplan (a
cura di), Scattered Hegemonies: Postmodernity and Transnational Feminist Practice, Minneapolis,
University of Minnesota Press, 1994.

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454 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

nità etniche non è entrato a far parte dell’agenda il più delle volte monocul-
turale dell’euro-“femminismo”. Negli studi sul cinema, quella che è stata
chiamata “Feminist Film Theory” a partire dagli anni Settanta ha spesso
soppresso le contraddizioni storiche, economiche e culturali tra le donne.
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Prestigiose riviste cinematografiche femministe hanno troppo spesso igno-


rato l’impegno accademico e culturale che le femministe hanno portato
avanti in relazione a specifici contesti mediatici nazionali e razziali terzo-
mondisti; l’impegno delle femministe volto a dare potere alle donne all’in-
terno dei confini delle loro comunità del Terzo Mondo è stato liquidato
come meramente nazionalista, non “ancora abbastanza” femminista. L’uni-
versalizzazione dei parametri del femminismo e l’uso di categorie psicanali-
tiche astoriche quali “desiderio”, “feticismo” e “castrazione” hanno portato a
una discussione del “corpo femminile” e della “spettatrice” disancorata dalle
molteplici differenti – persino opposte – esperienze, agende, visioni politi-
che delle donne. Ogni dialogo con le studiose o le cineaste femministe che
perseveravano nel voler lavorare da e all’interno di specifici posizionamenti
era cosı̀ inibito. È una coincidenza che per tutti gli anni Settanta e per gran
parte degli anni Ottanta siano stati gli incontri cinematografici e la pro-
grammazione di film del Terzo Mondo a dare per primi risalto alle cineaste
terzomondiste (per esempio, la guadalupegna Sarah Maldoror, la colom-
biana Marta Rodriguez, la libanese Heiny Srour, la cubana Sara Gomez, la
senegalese Safi Faye, l’indiana Prema Karanth, la singalese Sumitra Peries, la
brasiliana Helena Solberg Lad, l’egiziana Atteyat El-Abnoudi, la tunisina
Selma Baccar, la portoricana Ana Maria Garcia) piuttosto che i programmi
e gli incontri cinematografici femministi? Una discussione del documenta-
rio La Operacio´n di Ana Maria Garcia, un film che si incentra sulla
sterilizzazione imposta dagli Stati Uniti a Portorico, per esempio, rivela le
aporie storiche e teoriche di concetti quali “il corpo femminile” quando
non affrontati nei termini di razza, classe e (neo)colonialismo. Mentre un
“corpo femminile” bianco potrebbe subire la sorveglianza della macchina
riproduttiva, il “corpo femminile” scuro è soggetto a un apparato dis-
riproduttivo all’interno di un’agenda demografica nascosta e razzialmente
codificata.
In effetti, negli anni Settanta e in gran parte degli anni Ottanta,
prestigiose riviste cinematografiche femministe hanno prestato poca atten-
zione all’intersezione di eterosessismo con razzismo e imperialismo; quel
compito è stato svolto da alcuni accademici del “cinema del Terzo Mondo”
che pubblicavano quelle riviste culturali e cinematografiche di sinistra che
concedevano spazio al cinema alternativo del Terzo Mondo (per esempio,

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 455

«Jumpcut», «Cineaste», «The Independent», «Framework» e «Critical


Arts»). Facendo seguito a visibili dibattiti pubblici su razza e multiculturali-
smo, la task force sulla “razza” (istituita nel 1988) dalla Società per gli Studi
Cinematografici, insieme con la crescente rappresentazione effettiva del
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lavoro delle donne di colore da parte di Women Make Movies (una


importante casa di distribuzione newyorchese per il lavoro indipendente di
registe di film e video), ha iniziato ad avere un impatto sulle studiose di
cinema femministe bianche, alcune delle quali sono arrivate gradualmente a
riconoscere e persino a trattare le tematiche del genere nel contesto della
razza. I discorsi sul genere e sulla razza ancora tendono a non essere
compresi all’interno di una storia anticoloniale, comunque, mentre le di-
verse pratiche femministe terzomondiste cinematografiche e video recenti
tendono ad essere comodamente classificate come una mera “estensione” di
una teoria e pratica femminista “universali”. Applicare vecchi paradigmi a
nuovi oggetti (scuri) implica, in una certa misura, “il lavoro di sempre”. Le
pratiche femministe posterzomondiste ora tendono ad essere assorbite nelle
preoccupazioni delle teorie femministe eurocentriche all’interno della cor-
nice omogeneizzante della critica condivisa nei confronti del discorso
patriarcale. Esaminare le recenti pratiche culturali femministe del Terzo
Mondo solo in relazione alle teorie sviluppate da ciò che è conosciuto
come “Feminist Film Theory” riproduce una logica eurocentrica, i cui
esordi narrativi per il femminismo inevitabilmente risiederanno sempre
nelle teorie e pratiche culturali “occidentali” viste come “femminismo” asso-
lutamente puro, diversamente dai femminismi del Terzo Mondo, conside-
rati “appesantiti” dalle identità nazionali ed etniche unite da un trattino. Le
nozioni di nazione e razza, insieme con il lavoro basato sulla comunità,
sono implicitamente liquidate perché insieme troppo “specifiche” per quali-
ficarsi per il regno teorico della “Feminist Film Theory” e troppo “inclu-
sive” nella loro preoccupazione per nazione e razza da aver verosimilmente
“perso di vista” il femminismo.
Piuttosto che “estendere” meramente un preesistente femminismo del
4
Primo Mondo, come avrebbe voluto certo euro-“diffusionismo” , le teorie e
le pratiche culturali posterzomondiste creano uno spazio più complesso per
i femminismi aperto alla specificità delle cultura e storia della comunità. Per
opporsi ad alcuni degli atteggiamenti arroganti verso le cineaste femministe
(post) Terzo Mondo – le donne scure che ora fanno anche la “cosa

4
Vedi J. M. Blaut, The Colonizer’s Model of the World: Geographical Diffusionism and
Eurocentric History, New York and London, Guilford Press, 1993.

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456 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

femminista” – è necessario contestualizzare il lavoro femminista nei discorsi


nazionali/razziali inscritti localmente e globalmente all’interno di oppres-
sioni e resistenze multiple. Le storie femministe del Terzo Mondo possono
essere considerate femministe se viste in congiunzione con il lavoro di
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resistenza che queste donne hanno attuato nello loro comunità e nazioni.
Ogni discussione seria sul cinema femminista deve perciò affrontare la
complessa questione del “nazionale”. I film terzomondisti sono spesso
prodotti all’interno dei codici legali dello stato-nazione, spesso in linguaggi
nazionali (egemonici), riciclando intertesti nazionali (letterature, narrazioni
orali, musica), proiettando immaginari nazionali. Ma se i cineasti del Primo
Mondo hanno dato l’impressione di fluttuare “sopra” insignificanti preoccu-
pazioni nazionaliste, è perché danno per scontata la proiezione di un
potere nazionale che facilita la realizzazione e la disseminazione dei loro
film. Il posizionamento geopolitico delle nazioni-stato del Terzo Mondo
continua ad implicare che i loro cineasti non possono assumere un sostrato
di potere nazionale.
Qui, sono interessata ad esaminare il lavoro contemporaneo delle
cineaste e videomaker femministe posterzomondiste alla luce della critica in
corso sull’ineguaglianza razziale della distribuzione geopolitica delle risorse
e del potere come modo di guardare alle dinamiche di rottura e continuità
nei confronti dell’antecedente cultura cinematografica terzomondista. So-
stengo che questi testi sfidano i contorni maschilisti della “nazione” allo
scopo di portare avanti una decolonizzazione femminista della storiografia
terzomondista, cosı̀ come portano avanti una decolonizzazione multicultu-
rale della storiografia femminista. Il mio tentativo di plasmare l’“inizio” di
una narrazione posterzomondista per il recente lavoro cinematografico e
video di diverse femministe del Terzo Mondo, multiculturali e diasporiche
non intende essere un’indagine esaustiva dell’intero spettro delle pratiche
generiche. Piuttosto, nel mettere in luce i lavori incuneati nell’intersezione
tra genere/sessualità e razza/nazione, questo saggio tenta di situare tali
pratiche culturali. Esso guarda ad un momento di rottura e continuità
storica, quando le macronarrazioni della liberazione delle donne sono da
lungo tempo declinate e tuttavia predominano il sessismo e l’eterossessimo
e ad un’età in cui le metanarrazioni della rivoluzione anticoloniale si sono
da lungo tempo eclissate e tuttavia persistono il (neo)colonialismo e il
razzismo. Quali sono, dunque, alcuni dei nuovi modelli di un’estetica di
resistenza femminista multiculturale? E in quali modi essi continuano e
interrompono simultaneamente la precedente cultura filmica terzomondi-
sta?

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 457

L’eclisse del paradigma rivoluzionario


I film terzomondisti realizzati dalle donne assumevano che la rivoluzione
fosse cruciale per l’acquisizione di potere da parte delle donne, che la
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rivoluzione fosse tutt’uno con le aspirazioni femministe. Il corto di Sarah


Maldoror Monangambe (Mozambico 1970) racconta il viaggio fatto da una
donna angolana per vedere il marito incarcerato dai portoghesi, mentre il
suo lungometraggio Sambizanga (Mozambico 1972), basato sulla la lotta del
MPLA in Angola, rappresenta una donna che acquista una coscienza
rivoluzionaria. Il documentario di Heiny Srour Saat al Tahrir (L’ora della
liberazione, Oman 1973) privilegia il ruolo delle donne combattenti nel
guardare alla lotta rivoluzionaria in Oman mentre Leila wal dhiab (Leila e i
lupi, Libano 1984), della stessa autrice, si incentra sul ruolo delle donne nel
Movimento di Liberazione Palestinese. Nicaragua Up From the Ashes (USA
1982) di Helena Solberg Ladd mette in primo piano il ruolo delle donne
nella rivoluzione sandinista. Il noto film di Sara Gomez De cierta manera
(Cuba 1975), spesso considerato parte dei dibattiti posterzomondisti dei
tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta sul ruolo delle donne nei
movimenti rivoluzionari, intreccia documentario e fiction sperimentando
una critica femminista della rivoluzione cubana. Da una prospettiva decisa-
mente pro-rivoluzionaria, il film utilizza immagini di costruzione e di
edilizia per metaforizzare il bisogno di ulteriori cambiamenti rivoluzionari.
La cultura machista è sezionata e analizzata all’interno delle storie culturali
occultate (africana, europea e cubana), nei termini della necessità di rivolu-
zionare le relazioni di genere nell’epoca postrivoluzionaria.
Già nei tardi anni Sessanta e nei primi anni Settanta, sulla scia della
vittoria vietnamita sui francesi, la rivoluzione cubana, l’indipendenza alge-
rina, l’ideologia cinematografica terzomondista era cristallizzata in un’on-
data di manifesti militanti – Estetica della fame di Glauber Rocha (1965),
Verso un terzo cinema (1969) di Fernando Solanas e Octavio Getino, e Per un
cinema imperfetto di Julio Garcı́a Espinosa – e in dichiarazioni da parte dei
festival del Terzo Mondo che facevano appello a una rivoluzione triconti-
nentale in politica e a una rivoluzione estetica e narrativa nella forma
5
cinematografica . Nello spirito di un’autorialità politicizzata, Rocha recla-
mava un cinema “affamato” di “film tristi e brutti”; Solanas e Getino

5
I vari festival cinematografici – all’Havana, Cuba (dedicato al Nuovo Cinema Latino
Americano), a Cartagine, Tunisia (per i cinema arabo e africano), a Ougadoogoo, Burkina
Faso (per i cinema africano e afro-disporico) – hanno dato ulteriore espressione a questi
movimenti.

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458 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sollecitavano documentari di guerriglia militanti e Espinosa propugnava un


cinema “imperfetto” reso vitale dalle forme “basse” della cultura popolare.
Ma le pratiche resistenti di tali film non sono né omogenee né statiche, esse
variano nel corso del tempo, da regione a regione e, in genere, dal dramma
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epico in costume ai documentari personali a basso costo. Le loro strategie


estetiche spaziano tra il “realismo progressista”, il decostruttivismo brech-
6
tiano, l’avanguardia, il tropicalismo, il postmoderno resistente . Nella loro
ricerca di un’alternativa allo stile hollywoodiano dominante, tali film condi-
videvano una certa preoccupazione con i film femministi indipendenti del
Primo Mondo che ricercavano immagini alternative delle donne. Il pro-
getto di scavare nelle “storiedilei” implicava la ricerca di nuove forme
filmiche e narrative che sfidassero sia i documentari canonici che i film di
fiction di larga diffusione, sovvertendo la nozione di “piacere narrativo”
basata sullo “sguardo maschile”. Come nel caso del cinema terzomondista e
delle produzioni indipendenti del Primo Mondo, i film e i video femministi
posterzomondisti conducono una lotta su due fronti, insieme estetico e
politico, condensando storiografia revisionista e innovazione formale.
Il periodo iniziale dell’euforia terzomondista ha capitolato di fronte al
collasso del comunismo, all’indefinito differimento della sinceramente desi-

6
In relazione al cinema, il termine “Terzo Mondo” è andato acquisendo potere in quanto
richiama l’attenzione sulle produzioni filmiche collettivamente vaste dell’Asia, dell’Africa e
dell’America Latina, come anche sul cinema minoritario del Primo Mondo. Mentre alcuni,
come Roy Armes (1987), definiscono il “Cinema del Terzo Mondo” in generale come
l’insieme dei film prodotti dai paesi del Terzo Mondo (compresi i film prodotti prima che
l’idea stessa di Terzo Mondo fosse attuale), altri, come Paul Willemen (1989), preferiscono
parlare di “Terzo Cinema” come di un progetto ideologico (cioè, come un corpo di film che
aderiscono a un certo programma politico e estetico, che siano o non siano prodotti dai
popoli stessi del Terzo Mondo). Finché non vengono considerati come entità “essenziali”
ma come progetti collettivi da essere forgiati, sia il “Cinema del Terzo Mondo” che il “Terzo
Cinema” conservano importanti vantaggi tattici e polemici per una pratica culturale decli-
nata politicamente. In termini puramente classificatori, potremmo immaginare cerchi di
denotazione sovrapposti: 1) un cerchio principale di film “terzomondisti” prodotti dai popoli
del Terzo Mondo (non importa dove si vengano a trovare queste persone) e aderenti ai
principi del “Terzo Cinema”; 2) un cerchio più ampio delle produzioni filmiche dei popoli
del Terzo Mondo (definite come tali retrospettivamente), che i film aderiscano o meno ai
principi del Terzo Cinema e prescindendo dal periodo della loro realizzazione; 3) un altro
cerchio consistente nei film fatti dai popoli del Primo o del Secondo Mondo a sostegno dei
popoli del Terzo Mondo e aderenti ai principi del Terzo Cinema; e 4) un cerchio finale, in
qualche modo di status anomalo, allo stesso tempo “dentro” e “fuori”, comprendente recenti
film ibridi diasporici (per esempio, quelli di Mona Hatoum o Hanif Kureishi), entrambi
costruiti sulle e interroganti le convenzioni del “terzo cinema”. Vedi Shohat/Stam, Unthin-
king Eurocentrism, cit.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 459

derata “rivoluzione tricontinentale”, alla comprensione che i “dannati della


terra” non sono unanimemente rivoluzionari (né necessariamente alleati tra
di loro), alla comparsa di una schiera di despoti del Terzo Mondo e al
riconoscimento che le geopolitiche internazionali e il sistema economico
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globale hanno costretto anche il “Secondo Mondo” ad essere incorporato


nel capitalismo transnazionale. Gli anni recenti sono anche stati testimoni
di una crisi sul termine “Terzo Mondo” stesso; ora è ritenuto una reliquia
scomoda di un periodo più militante. Alcuni hanno sostenuto che la teoria
del Terzo Mondo sia una interpellanza ideologica aperta che cela l’oppres-
sione di classe in tutti e tre i mondi, mentre limita il socialismo all’oggi non
esistente Secondo Mondo7. La teoria dei tre mondi non solo appiattisce le
eterogeneità, maschera le contraddizioni ed elide le differenze, ma oscura
anche le similarità (per esempio, la presenza comune di popoli del “Quarto
Mondo” o indigeni sia nei paesi del “Terzo Mondo” che in quelli del
“Primo Mondo”). Le critiche femministe del Terzo Mondo come Nawal
El-Saadawi (Egitto), Vina Mazumdar (India), Fumari Jayawardena (Sri
Lanka), Fatima Mernissi (Marocco) e Lelia Gonzales (Brasile) hanno
esplorato queste differenze e somiglianze da una prospettiva femminista,
indicando i limiti di genere del nazionalismo del Terzo Mondo.
Ma anche all’interno dell’attuale situazione di “egemonie disperse”
(Arjun Appadurai)8, lo storico filo o inerzia del dominio del Primo Mondo
rimane una presenza potente. Nonostante l’embricatura di Primo e Terzo
Mondo, la distribuzione globale del potere tende ancora a rendere i paesi
del Primo Mondo “trasmettitori” culturali e i paesi del Terzo Mondo
“ricevitori”. (Un prodotto di questa situazione è che le “minoranze” del
Primo Mondo hanno il potere di proiettare le loro produzioni culturali in
giro per il pianeta). Mentre il Terzo Mondo è inondato dai film nordameri-
cani, dalle serie Tv, dalla musica popolare e dai programmi di informa-
zione, il Primo Mondo riceve pochissimo della vasta produzione culturale
del Terzo Mondo e ciò che riceve è solitamente mediato dalle corporazioni

7
Vedi Aijaz Ahmad, Jameson Rhetoric of Otherness and the National Allegory, «Social Text»,
n. 17, autunno 1987, pp. 3-25; Julianne Burton, Marginal Cinemas, «Screen», nn. 3-4,
maggio-agosto 1985.
8
Vedi Arjun Appadurai, Disjuncture and Difference in the Global Cultural Economy, «Public
Culture», vol. 2, n. 2, 1990; [tr. it. Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale, in Id.,
Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001]. Un concetto simile, “egemonie disseminate”, è
avanzato da Inderpal Grewal e Caren Kaplan, che offrono una critica femminista delle
relazioni globale-locale nella loro introduzione a Scattered Hegemonies, cit.

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460 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

multinazionali9. Questi processi non sono interamente negativi, natural-


mente. Le stesse corporazioni multinazionali che diffondono insensati
blockbuster e sitcom inscatolate fanno circolare per il mondo anche musica
afro-diasporica, come reggae e rap. Il problema non sta nello scambio ma
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10
nei termini ineguali sui quali lo scambio si fonda .
Allo stesso tempo, la tesi dell’imperialismo mediatico, che era domi-
nante negli anni Settanta, necessita di una drastica riforma. Primo, è
semplicistico immaginare un Primo Mondo attivo unicamente imponendo i
suoi prodotti su un Terzo Mondo passivo. Secondo, la cultura globale di
massa non tanto rimpiazza la cultura locale quanto coesiste con essa,
11
fornendo una lingua franca culturale rimarcata da un accento “locale” .
Terzo, ci sono potenti correnti contrarie rappresentate da un numero di
paesi del Terzo Mondo (Messico, Brasile, India, Egitto) che dominano i
12
propri mercati e diventano anche esportatori culturali . Dobbiamo distin-
guere, inoltre, tra la proprietà e il controllo dei media – una questione di

9
Nel cinema, questo processo egemonizzante si è intensificato subito dopo la Prima
Guerra Mondiale, quando le compagnie di distribuzione cinematografiche americane (e, in
secondo luogo, le compagnie europee) hanno iniziato a dominare i mercati del Terzo
Mondo, ed è stato ulteriormente accelerato dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la
crescita delle corporazioni di media internazionali. L’ininterrotta dipendenza economica dei
cinema del Terzo Mondo li rende vulnerabili alle pressioni neocoloniali. Quando i paesi
dipendenti provano a rafforzare le proprie industrie cinematografiche erigendo barriere
commerciali, per esempio, i paesi del Primo Mondo minacciano ritorsioni in qualche altra
area economica come la determinazione del prezzo o l’acquisto di materie prime. I film
hollywoodiani, inoltre, spesso coprono i propri costi nel mercato domestico e possono
perciò essere proficuamente “scaricati” nei mercati del Terzo Mondo a prezzi molto bassi.
10
Sebbene l’amministrazione coloniale diretta sia in larga misura cessata, gran parte del
mondo rimane intrappolata nella globalizzazione neocoloniale. In parte come risultato del
colonialismo, la scena globale contemporanea è ora dominata da un circolo ristretto di
potenti stati-nazione, che constano prevalentemente di Europa occidentale, Stati Uniti e
Giappone. Questo dominio è economico (il “Gruppo dei Sette”, il Fondo Monetario
Internazionale, la Banca Mondiale, l’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio
Estero), politico (i cinque membri possessori di veto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite), militare (la nuova NATO “unipolare”) e tecno-informativo-culturale (Hollywood,
UPI, Reuters, France Press, CNN). Il dominio neocoloniale è rafforzato attraverso condizioni
di commercio sfavorevoli e “programmi di austerità” attraverso i quali la Banca Mondiale e
il Fondo Monetario Internazionale, spesso con la compiacente complicità delle elite del
Terzo Mondo, impongono regole che i paesi del Primo Mondo non tollererebbero mai.
11
Per un argomento simile, vedi l’introduzione a Scattered Hegemonies, cit., di Grewal e
Kaplan.
12
La versione Tv indiana del Mahabharata ha ottenuto il 90% dello share degli spettatori
domestici in un periodo di tre anni, e il brasiliano Rede Globo ora esporta le sue telenovela
in più di ottanta paesi del mondo.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 461

economia politica – e il tema specificamente culturale delle implicazioni di


questo dominio per i popoli all’estremità ricevente. La teoria dell’“ago
ipodermico” è tanto inadeguata per il Terzo Mondo quanto lo è per il
Primo Mondo: ovunque gli spettatori si impegnano attivamente nei testi e
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le comunità specifiche contemporaneamente incorporano e trasformano le


13
influenze straniere . In un mondo di comunicazioni transnazionali, il pro-
blema centrale diventa quello della tensione tra l’omogeneizzazione cultu-
rale e la eterogeneizzazione culturale, in cui le tendenze egemoniche, ben
documentate da analisti marxisti come Mattelart e Schiller, sono simulta-
neamente “indigenizzate” all’interno di una economia culturale globale
complessa e disgiuntiva. Allo stesso tempo, persino in un mondo “multipo-
lare” le “fluidità” sono incanalate da modelli discernibili di dominio; la
stessa egemonia che unifica il mondo attraverso network globali di beni
circolanti e informazioni li distribuisce anche in base a strutture di potere
gerarchiche, anche se queste egemonie sono ora più sottili e disperse.
Sebbene tutte le pratiche culturali siano da un certo punto di vista
prodotti di contesti nazionali specifici, i cineasti del Terzo Mondo (uomini
e donne) sono stati costretti a impegnarsi nella questione del nazionale
precisamente perché ad essi manca quel potere dato per scontato agli
stati-nazione del Primo Mondo. Al tempo stesso, il topos di una nazione
unitaria spesso camuffa le possibili contraddizioni tra i differenti settori
della società del Terzo Mondo. Gli stati nazione di Americhe, Africa e Asia
spesso “coprono” l’esistenza non solo delle donne, ma anche delle nazioni
indigene (Quarto Mondo) al loro interno. Per di più, l’esaltazione del
“nazionale” non garantisce alcun criterio per distinguere esattamente cosa
valga la pena di mantenere della “tradizione nazionale”. Una difesa senti-
mentale delle istituzioni sociali patriarcali semplicemente perché esse sono
“nostre” può difficilmente essere vista come emancipatoria. In realtà, alcuni
film del Terzo Mondo criticano esattamente tali istituzioni: Xala (1990)
critica la poligamia; Finzan (1989) e Fire Eyes (1993) criticano la mutila-
zione genitale femminile; film come Allah Tanto (1992) si incentrano sulla
repressione politica esercitata persino da un eroe panafricanista come

13
Per Appadurai, la situazione culturale globale è ora più interattiva; gli Stati Uniti non
sono più il burattinaio di un sistema mondiale di immagini, ma solo un nodo di una
costruzione transnazionale complessa di “panorami immaginari”. In questa nuova congiun-
tura, egli sostiene, l’invenzione della tradizione, dell’etnicità e di altri marcatori dell’identità
diventa «disagevole, dato che la ricerca di certezze è sistematicamente frustrata dalla fluidità
della comunicazione transnazionale». Vedi Appadurai, Disjuncture and Difference in the Global
Cultural Economy, cit.; [tr. it. p. 66].

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462 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Sekou Touré; e Guelwaar di Sembène satireggia le divisioni religiose


interne alla nazione del Terzo Mondo. Terzo, tutti i paesi, inclusi i paesi del
Terzo Mondo, sono eterogenei, insieme urbani e rurali, maschili e femmi-
nili, religiosi e secolari, nativi e immigrati. Il considerare la nazione unitaria
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smorza la “polifonia” delle voci sociali e etniche all’interno delle culture


eteroglotte. Specialmente le femministe del Terzo Mondo hanno messo in
luce i modi in cui il soggetto della rivoluzione nazionalista del Terzo
Mondo sia stato velatamente postulato come maschile e eterosessuale.
Quarto, la precisa natura dell’“essenza” nazionale che si dovrebbe recupe-
rare è elusiva e chimerica. Alcuni la individuano nel passato precoloniale o
nell’entroterra rurale del paese (per esempio, il villaggio africano), o in un
precedente stadio di sviluppo (il pre-industriale), o in una etnia non
europea (per esempio, l’indigeno o le stratificazioni africane nello stato-
nazione delle Americhe); e ogni narrazione delle origini ha avuto le sue
implicazioni di genere. Dibattiti recenti hanno enfatizzato i modi in cui
l’identità nazionale è mediata, testualizzata, costruita, “immaginata”, proprio
14
come sono “inventate” le tradizioni valorizzate dal nazionalismo . Ogni
definizione di nazionalità, quindi, deve intendere la nazionalità come par-
zialmente discorsiva per natura, deve prendere in considerazione classe,
genere e sessualità, deve garantire la differenza razziale e l’eterogeneità
culturale e deve essere dinamica, considerando la “nazione” come un
costrutto immaginario in evoluzione piuttosto che come un’essenza origi-
naria.
Il declino dell’euforia terzomondista, che ha segnato film femministi
come One Way or Another, The Hour of Liberation, e Nicaragua Up From the
Ashes, ha indotto un ripensamento delle possibilità politiche, culturali ed
estetiche, quando la retorica della rivoluzione ha cominciato ad essere
salutata con un certo scetticismo. Nel frattempo, le lotte di liberazione
nazionale di stampo socialista degli anni Sessanta e Settanta venivano
vessate economicamente e militarmente, violentemente scoraggiate dal
diventare modelli rivoluzionari per società postindipendenza. Una combi-
nazione di pressione, cooptazione e “guerra a bassa intensità” del Fondo
Monetario Internazionale ha obbligato anche i regimi socialisti a fare una
sorta di pace con il capitalismo transnazionale. Alcuni regimi hanno

14
Vedi Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflexions on the Origins and Spread of
Nationalism, London, Verso, 1983; [tr. it. Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionali-
smi, Roma, manifestolibri, 1996], e E. J. Hobsbawm e Terence Ranger, a cura di, The
Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 463

represso quelli che volevano andare oltre una rivoluzione borghese pura-
mente nazionalista per ristrutturare classe, genere, religione e relazioni
etniche. In seguito alle pressioni esterne e alle domande interne che si è
posto, anche il cinema ha dato espressione a questi mutamenti, con la
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spinta anticoloniale dei primi film che cedeva gradualmente il passo a temi
e prospettive più diversificati. Questo non vuol dire che gli artisti e gli
intellettuali divennero meno politicizzati ma che la critica culturale e
politica assunse nuove e differenti forme. Le pratiche culturali contempora-
nee del post Terzo Mondo e delle femministe multiculturali intervengono
in una precisa congiuntura nella storia del Terzo mondo.

Terzomondismo sotto gli occhi femministi


In larga misura prodotti dagli uomini, i film terzomondisti in genere non
erano interessati ad una critica femminista del discorso nazionalista. Sa-
rebbe un errore idealizzare le politiche sessuali dei film terzomondisti
anticoloniali come il classico La battaglia di Algeri, per esempio. A un
livello, è vero che alle donne algerine viene riconosciuta la capacità di agire
da rivoluzionarie. In una sequenza, tre combattenti algerine riescono a
passare per francesi e, conseguentemente, ad infiltrarsi nei posti di controllo
francesi con le bombe nelle loro ceste. I soldati francesi trattano gli algerini
con disprezzo e sospetto discriminatorio ma salutano gli europei con
amabili “bonjour”. Il sessismo dei soldati li porta a scambiare le tre donne
per francesi e provocanti quando, in realtà, sono algerine e rivoluzionarie.
La battaglia di Algeri perciò sottolinea i tabù razziali e sessuali del desiderio
all’interno della segregazione coloniale. In quanto algerine, le tre donne
sono oggetti sia dello sguardo militare che di quello sessuale; esse sono
pubblicamente desiderabili per i soldati, tuttavia, solo quando si masche-
rano da francesi. Le donne utilizzano la loro conoscenza dei codici degli
europei per ingannarli, servendosi dei loro stessi “sguardi” e dello “sguardo”
(e incapacità di vedere) dei soldati a scopo rivoluzionario. (La mascherata
giova anche ai combattenti algerini, che indossano il velo come donne
algerine per nascondere meglio le loro armi). All’interno delle psicodinami-
che dell’oppressione il colonizzato conosce la mente dell’oppressore, men-
tre non è vero il contrario. In La battaglia di Algeri, le donne utilizzano
questa asimmetria cognitiva a proprio vantaggio, manipolando consapevol-
mente gli stereotipi etnici, nazionali e di genere a servizio della loro lotta.
A un altro livello, tuttavia, le donne nel film eseguono in gran parte gli
ordini dei rivoluzionari maschi. Certamente appaiono eroiche, ma solo

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464 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

nella misura in cui compiono il loro incarico sacrificale per la “nazione”. Il


film non fa appello alla natura bifronte della loro lotta all’interno di una
15
rivoluzione nazionalista ma ancora patriarcale . Nel privilegiare la lotta
nazionalista, La battaglia di Algeri elide il genere, la classe e le tensioni
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religiose che hanno creato fessure nel processo rivoluzionario, non riu-
scendo a comprendere che, nei termini di Anne McClintock, «i nazionali-
smi sono fin dall’inizio fondati sul potere di genere» e che «le donne a cui
non viene dato il potere di organizzare durante la lotta non avranno il
16
potere di organizzare dopo la lotta» . L’inquadratura finale di una donna
algerina che balla sventolando la bandiera algerina e schernendo le truppe
francesi, accompagnata da una voce over che annuncia: «2 luglio 1962:
Indipendenza. È nata la nazione algerina», fa “portare” alla donna l’allegoria
della “nascita” della nazione algerina. Ma il film non solleva le contraddi-
zioni che hanno afflitto la rivoluzione sia prima che dopo la vittoria. La
rappresentazione nazionalista del coraggio e dell’unità poggia sull’imma-
gine della donna rivoluzionaria precisamente perché la sua figura potrebbe
altrimenti evocare un anello debole, il fatto di una rivoluzione lacerata in
cui l’unità faccia a faccia con il colonizzatore non preclude le contraddi-
zioni tra i colonizzati. I film terzomondisti hanno spesso preferito lo spazio
generico e di genere degli scontri eroici, ambientati sia nelle strade, nella
casbah, nelle montagne o nella giungla. La minima presenza delle donne
corrispondeva al luogo assegnato alle donne sia nelle rivoluzioni anticolo-
nialiste che all’interno del discorso del Terzo Mondo, lasciando ignorate le
lotte delle donne per la propria terra. Saltuariamente le donne portavano le
bombe, come in La battaglia di Algeri, ma solo in nome della “Nazione”.
Più spesso, alle donne veniva fatto portare il “fardello” dell’allegoria nazio-
nale: la donna che balla con la bandiera in La battaglia di Algeri, la
prostituta argentina la cui immagine è sottolineata dall’inno nazionale in La
hora de los hornos (L’ora dei forni), la giornalista mestiza in Cubagua, come
incarnazione della nazione venezuelana, o resa capro espiatorio come le
personificazioni dell’imperialismo, per esempio la figura allegorica della
“puttana di Babilonia” nei film di Rocha. Le contraddizioni di genere sono

15
Pontecorvo è tornato ad Algeri nel 1991 per girare Gillo Pontecorvo ritorna a Algeri, un
film sull’evoluzione dell’Algeria durante i venticinque anni che sono trascorsi da quando La
battaglia di Algeri era stata filmata, e focalizzato su temi quali il fondamentalismo islamico, lo
stato di subordinazione delle donne, il velo e cosı̀ via.
16
Anne McClintock, No Longer in a Future Heaven: Women and Nationalism in South Africa,
«Transition», n. 51, 1991, p. 120.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 465

state subordinate alla lotta anticoloniale: ci si aspettava che le donne


“attendessero il proprio turno”.
Un recente film tunisino, Saimt al Qusur (Les silences du palais, 1994) di
Moufida Tlatli, una montatrice che ha lavorato nei maggiori film tunisini
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della postindipendenza, la generazione del “Cinema Jedid” (Nuovo Cine-


ma), e che ha ora diretto il suo primo film, esemplifica alcune delle critiche
femministe alla rappresentazione della “nazione” nei film rivoluzionari
anticoloniali. Piuttosto che privilegiare incontri diretti e violenti con i
francesi, che dovrebbero necessariamente essere ambientati in spazi di
battaglia dominati da uomini, il film presenta donne tunisine degli anni
Cinquanta, al culmine della lotta nazionale, nel loro essere confinate nella
sfera domestica. Tuttavia, esso sfida anche gli assunti borghesi della sfera
domestica appartenente alla moglie-madre isolata di una coppia (eteroses-
suale). Les silences du palais racconta di donne proletarie, le domestiche dei
ricchi, l’elite Bey filo-francese, soggiogate ad una servitù senza speranza,
compresa a volte la servitù sessuale, ma per le quali la vita all’esterno del
palazzo, senza la garanzia di un rifugio e di cibo, significherebbe una
miseria ancora peggiore, per esempio, della prostituzione. Sebbene siano
costrette al silenzio su ciò che vedono e di cui sono a conoscenza
all’interno del palazzo, il film ne sottolinea la sopravvivenza come comu-
nità. Come una famiglia alternativa, la loro vicinanza emotiva nelle crisi e
nella felicità e il loro appoggio morale nelle decisioni da prendere mostrano
i loro modi di far fronte ad una situazione senza uscita. Diventano una
famiglia non patriarcale all’interno di un contesto patriarcale. Sia che
cantino mentre cucinano per un banchetto esibizionista, o preghino mentre
una di loro cura un bambino che si è ammalato, sia che ballino o mangino
in un momento di gioia, il film rappresenta donne che non hanno piazzato
bombe ma la cui posizione sociale si trasforma in una critica a quelle che
nell’era postcoloniale appaiono speranze rivoluzionarie fallite. Le informa-
zioni sulle battaglie contro i francesi assediatori arrivano mediate dalla
radio e dai venditori, che riferiscono alle donne sempre “assediate” ciò che
potrebbe condurre ad una trasformazione nazionale onnicomprensiva.
Tuttavia, questo periodo di lotta anticoloniale è concepito in forma di
narrazione dei ricordi di una cantante, la figlia di una delle serve, che fa
luce sulle continue pressioni esercitate sulle donne della sua classe. (Con
alcune eccezioni, nel Medio Oriente l’attività di cantanti/ballerine è ancora
considerata solo poco al di sopra di quella disonorevole della prostituzio-
ne). L’oppressione di genere e di classe a cui ha assistito da adolescente
nella Tunisia colonizzata l’ha portata a credere che le cose sarebbero

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466 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

differenti in una Tunisia indipendente. Speranze incoraggiate dalle pro-


messe fatte da un intellettuale borghese, un tutore della dinastia Bey, che
afferma che nella nuova Tunisia il fatto che lei non conosca il nome di suo
padre non sarà una barriera per stabilire una nuova vita. La loro relazione
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appassionata nell’ardore della rivoluzione, dove il “nuovo” è sul punto di


nascere, è tagliata dalla narrazione che la incornicia. La sua storia di
domestica senza padre e il suo status basso di cantante ossessionano la sua
vita nell’era postindipendenza; il tutore vive con lei ma non la sposa,
tuttavia le dà la protezione di cui ha bisogno come cantante. Il film si apre
sul suo viso triste e malinconico che canta una famosa canzone di Um
Kulthum degli anni Sessanta, “Amal Hayati” (“La speranza della mia vita”).
Um Kulthum, un’egiziana, era la principale cantante araba del Ventesimo
secolo. Grazie al suo inusuale talento musicale – inclusa la sua profonda
conoscenza dell’arabo “fusha” (letterario) – emerse dal suo piccolo villaggio
per diventare “kawkab al sharq” (la star dell’Est). Le sue canzoni accompa-
gnarono il mondo arabo in tutte le sue aspirazioni nazionali e catalizzarono
il senso di una unità araba che riuscı̀ a trascendere, almeno a livello
culturale, le tensioni sociali e i conflitti politici. Era strettamente associata al
governo carismatico di Gamal Abdul Nasser e alla sua agenda antimperiale
pan-araba, ma l’ammirazione, il rispetto e l’amore che aveva suscitato
continuarono ben oltre la sua morte nel 1975. La straordinaria posizione di
Um Kulthum, comunque, nel mondo arabo non è stata condivisa da molte
cantanti o star.
La protagonista di Les silences du palais inizia la sua rappresentazione
pubblica su invito dei signori del palazzo. Questo invito arriva in parte a
causa del suo talento come cantante ma non meno a causa delle attenzioni
sessuali di cui comincia ad essere oggetto appena uno dei signori si accorge
che la bambina è diventata una giovane donna. La madre, che cerca di
proteggere la figlia dalle molestie sessuali, viene stuprata da uno dei signori.
Nel giorno della prima esibizione importante della figlia ad una festa nel
palazzo, la madre muore per emorragia in seguito a complicazioni mediche
intervenute nel tentativo di abortire il prodotto dello stupro. In scene
parallele, la madre urla per il dolore atroce e la figlia grida coraggiosamente
l’inno tunisino proibito. La sequenza termina con la morte della madre e
con la figlia che lascia il palazzo per il promettente mondo esterno della
giovane Tunisia. Nella Tunisia postindipendenza, il film ci dice, la situa-
zione della figlia è in qualche modo migliorata. Non è più una serva ma una
cantante che si guadagna da vivere, tuttavia ha bisogno della protezione del
suo fidanzato dalle umiliazioni basate sul genere. Accanto alla tomba di

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 467

sua madre, la figlia esprime, in voce over, la sua consapevolezza di alcuni


miglioramenti nelle sue condizioni di vita a paragone con quelle di sua
madre. Nonostante il suo desiderio di diventare madre, la figlia ha subito
numerosi aborti per salvaguardare la sua relazione con il fidanzato – l’uomo
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rivoluzionario che non trascende la classe a scopo di matrimonio. Alla fine


del film, confessa sulla tomba di sua madre che questa volta non può lasciar
andare questo pezzo di se stessa. Se, in apertura, le parole della canzone di
Um Kulthum trasmettono il desiderio che il sogno non finisca – “Khalini,
gambak, khalini/fi hudhni albak, khahlini/oosibni ahlam bik/Yaret Zamani
ma yesahinish” (Lasciami dalla tua parte/nel tuo cuore/e fammi sognare/ il
tempo del desiderio non mi sveglierà) – il film finisce con un risveglio sulle
speranze irrealizzate con la nascita della nazione. La nascita, qui, non è più
allegorica come in La battaglia di Algeri ma concreta, intrappolata in tabù e
ostacoli, con una narrazione dal finale aperto, lontana dalla chiusura
euforica della Nazione.

Il cinema del dislocamento


Il discorso nazionalista del Terzo Mondo ha spesso assunto un’identità
nazionale incontestata, ma la maggior parte degli stati-nazione contempo-
ranei sono formazioni “meticce”. Un paese come il Brasile, opinabilmente
Terzo Mondo sia in termini razziali (una maggioranza mestiza) che econo-
mici (dato il suo status economicamente dipendente), è ancora dominato
da un’elite europeizzata. Gli Stati Uniti, un paese del “Primo Mondo”, che
ha sempre avuto le sue minoranze nativo americane e afroamericane, sta
diventando ora anche più “terzomondizzato” da ondate di migrazioni
postindipendenza. La vita contemporanea degli Stati Uniti intreccia i
destini del Primo e Terzo Mondo. La canzone di Sweet Honey in the Rock
Are My Hands Clean (Sono pulite le mie mani ) traccia le origini di una blusa
in vendita da Sears al cotone in El Salvador, il petrolio in Venezuela, le
raffinerie a Trinidad, le fabbriche ad Haiti e nella Carolina del Sud. Perciò,
non c’è Terzo Mondo, nell’efficace formulazione di Trinh T. Minh-ha,
senza il suo Primo Mondo, e non c’è Primo Mondo senza il suo Terzo
Mondo. La lotta Primo Mondo/Terzo Mondo ha luogo non solo tra le
nazioni ma anche al loro interno.
Un numero di recenti film e video diasporici collega questioni di
identità postcoloniale a questioni di estetiche e ideologie posterzomondiste.
La produzione del Sankofa The Passion of Remembrance (“La passione della
rimembranza”, 1986) di Maureen Blackwood e Isaac Julien tematizza i

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468 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

discorsi e le identità diasporiche fratturate – in questo caso, l’identità nera


inglese – mettendo in scena un “polilogo” tra il radicale nero degli anni
Sessanta nella (piuttosto puritana) voce della militanza nazionalista e le
“nuove”, più gioiose voci dei gay e delle lesbiche, tutti interni a un’estetica
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riflessiva irreale. Lavori cinematografici e video come Nouba Nisa al Djebel


Chenoua (“Il nouba delle donne del monte Chenoua”, 1977), After the
Earthquake (“Dopo il terremoto”, 1979) di Lourdes Portillo, Canto a la vida
(“Canto alla vita”, 1990) di Lucia Salinas, Measures of Distance (“Misure della
distanza”, 1988) di Mona Hatoum, Khush (1991) di Pratibha Parmar,
Surname Viet Given Name Nam (“Cognome Viet nome Nam”, 1989) e Shoot
for the Content (“Gira per il contenuto”, 1991) di Trinh T. Minh-ha,
Unbidden Voices (“Voci spontanee”, 1989) di Prajna Palamita Parasher e Den
Ellis, Sex and the Sandinistas (“Il sesso e i sandinisti”, 1991) di Lucinda
Broadbent, Honored by the Moon (“Onorata dalla luna”, 1990) di Mona
Smith, Knowing Her Place (“Conoscendo il suo posto”, 1990) di Indu
Krishnan, Be Good My Children (“Siate buoni bambini miei”, 1990) di
Christine Chang, Mujeria (1992) di Teresa Osa e Hidalgo de la Rivera,
Home is the Struggle (“Casa è la lotta”, 1991) di Marta N. Bautis si distaccano
dalle prime macronarrazioni della liberazione nazionale, ri-immaginando la
nazione come una molteplicità di traiettorie eteroglossiche. Pur rimanendo
anticolonialisti, questi film sperimentali richiamano l’attenzione sulla diver-
sità delle esperienze all’interno e attraverso le nazioni. Dal momento che il
colonialismo ha contemporaneamente aggregato comunità lacerate da dif-
ferenze culturali vistose e separato comunità segnate da consonanze ugual-
mente vistose, questi film suggeriscono come numerosi stati-nazione del
Terzo Mondo fossero entità largamente artificiali e contraddittorie. I film
prodotti nel Primo Mondo, in particolare, sollevano questioni sulle identità
dislocate in un mondo segnato in maniera crescente dalla mobilità di beni,
idee e popoli concomitante alla “multinazionalizzazione” dell’economia
globale.
I terzomondisti hanno spesso plasmato la loro idea dello stato-nazione
sul modello europeo, rimanendo in questo senso complici della narrazione
illuminista eurocentrica. E gli stati-nazione che hanno costruito non sono
riusciti a mantenere le loro promesse. Nei termini di razza, classe, genere e
sessualità, in particolare, molti di loro sono rimasti, nel complesso, etnocen-
trici, patriarcali, borghesi e omofobici. Allo stesso tempo, una visione del
nazionalismo del Terzo Mondo come mera eco del nazionalismo europeo
ignora la realpolitik internazionale che ha fatto coincidere la fine del
colonialismo con l’inizio dello stato-nazione. La formazione degli stati-

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 469

nazione del Terzo Mondo ha spesso implicato un doppio processo, da una


parte, di unione di diverse etnie e regioni che erano state separate sotto il
colonialismo e, dall’altra, di divisione di regioni in un modo che ha
costretto a una ridefinizione regionale (Iraq/Kuwait) e a uno scompagina-
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mento di popolazioni (Pakistan/India, Israele/Palestina). Inoltre, le geogra-


fie politiche e i confini degli stati non coincidono sempre con ciò che
Edward Said chiama “geografie immaginarie”, da cui l’esistenza di emigrati
interni, nostalgici, ribelli (cioè, gruppi di gente che condivide lo stesso
passaporto ma i cui rapporti con lo stato-nazione sono conflittuali e
ambivalenti). Nel contesto postcoloniale di un costante flusso di persone,
l’affiliazione con lo stato-nazione diventa altamente parziale e contingente.
Mentre la maggior parte dei film terzomondisti hanno assunto la
fondamentale coerenza dell’identità nazionale, con l’espulsione dell’intruso
coloniale a pieno completamento del processo del divenire nazionale, i film
postnazionalisti richiamano l’attenzione sulle linee carenti di genere, classe,
etnicità, regione, partizione, migrazione ed esilio. Molti film esplorano le
identità complesse generate dall’esilio – dalla propria geografia, dalla pro-
pria storia, dal proprio corpo – all’interno di strategie narrative innovative.
Forme filmiche frammentate corrispondono alla smaterializzazione cultu-
rale. Le osservazioni di Caren Kaplan su una letteratura “minore” ripensata
come isolamento deromanticizzato e riscrittura delle «connessioni tra le
diverse parti del sé allo scopo di creare un mondo di possibilità dall’espe-
17
rienza del dislocamento» , sono squisitamente appropriate ai due film
autobiografici di palestinesi in esilio, Homage by Assassination (1992) di Elia
Suleiman, e Measures of Distance di Mona Hatoum. Homage by Assassination
fa la cronaca della vita di Suleiman a New York durante la Guerra del
Golfo, mettendo in primo piano i molteplici insuccessi della comunica-
zione: gli sforzi abortiti di un annunciatore radiofonico di raggiungere il
cineasta per telefono; i tentativi falliti del cineasta di parlare con la sua
famiglia a Nazareth (Israele/Palestina); il suo sguardo impotente alle vec-
chie fotografie di famiglia; e scherzi disperati nella segreteria telefonica sulla
situazione palestinese. Il glorioso sogno di nazionalità e ritorno prende qui
la forma della bandiera palestinese su un monitor televisivo, la terra quella
di una mappa su una parete e il ritorno (awda) quella del tasto “return”
sulla tastiera del computer. A un certo punto, il cineasta riceve un fax da
un’amica che narra la sua storia familiare di araba-ebrea, i suoi sentimenti

17
Caren Kaplan, Deterritorializations: The Rewriting of Home and Exile in Western Feminist
Discourse, «Cultural Critique», n. 6, primavera 1987, p. 198.

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470 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

durante il bombardamento dell’Iraq e gli attacchi degli Scud su Israele, e la


storia del suo spostamento dall’Iraq, attraverso Israele/Palestina, e poi negli
18
Stati Uniti . I mezzi di comunicazione diventano i mezzi imperfetti attra-
verso i quali popoli dislocati lottano per mantenere il proprio immaginario
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nazionale, combattendo contemporaneamente per un posto in un nuovo


contesto nazionale (gli Stati Uniti, l’Inghilterra), in paesi le cui politiche
estere hanno concretamente investito le loro vite. Homage by Assassination
invoca le diverse spazialità e temporalità che segnano l’esperienza dell’esi-
lio. Un’inquadratura di due orologi, a New York e a Nazareth, indica la
doppia cornice temporale vissuta dal soggetto diasporico, una doppiezza
temporale sottolineata da un intertitolo che dice che, a causa degli attacchi
degli Scud, la madre del cineasta sta aggiustando la sua maschera antigas in
quel preciso momento. Similmente la lettera dell’amica accentua la perce-
zione frammentata dello spazio-tempo di chi è negli Stati Uniti identifican-
dosi nel frattempo con i parenti sia in Iraq che in Israele.
In Measures of Distance l’artista palestinese di video e performance
Mona Hatoum esplora il rinnovamento dell’amicizia tra se stessa e sua
madre durante una breve riunione di famiglia in Libano nei primi anni
Ottanta. Il film riporta le memorie frammentate di diverse generazioni: i
racconti della madre sulla Palestina “dei tempi andati”, l’infanzia di Hatoum
stessa in Libano, la guerra civile in Libano, e l’attuale dispersione delle figlie
in Occidente. (Si dovrebbe notare che il cinema, da The Sheik passando per
Il re ed io a La mia Africa ha in genere preferito mostrare donne occidentali
che viaggiavano in Oriente piuttosto che donne orientali che viaggiavano
in Occidente).
Mentre immagini delle lettere arabe scritte a mano dalla madre alla
figlia sono sovrimposte alle dissolvenze delle diapositive a colori che la
figlia ha di sua madre nella doccia, ascoltiamo una cassetta delle loro
conversazioni in arabo, insieme ad estratti delle loro lettere tradotte e lette
dalla cineasta in inglese.
La voce over e la sceneggiatura di Measures of Distance narrano uno
stato paradossale di distanza geografica e vicinanza emotiva. Il gioco
testuale, visivo e linguistico tra l’arabo e l’inglese sottolinea le dislocazioni
seriali della famiglia, dalla Palestina al Libano, alla Gran Bretagna dove
Mona Hatoum ha vissuto dal 1975, svelando gradualmente la dispersione
dei palestinesi in geografie molto diverse. Le lettere, le fotografie e le
cassette messe in primo piano richiamano l’attenzione sui mezzi attraverso

18
L’amica in questione è Ella Habiba Shohat.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 471

i quali i popoli in esilio negoziano l’identità culturale. Nella voce over della
madre, la frase ripetuta «mia cara Mona» evoca le diverse “misure della
distanza” implicite nel titolo del film. Nel frattempo, il dialogo di sotto-
fondo in arabo, richiamando le loro conversazioni su sessualità e Palestina
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durante il loro riunirsi, registrate nel passato ma ascoltate nel presente, è


messo in parallelo alle foto della madre sotto la doccia, anch’esse fatte nel
passato ma guardate nel presente. La moltiplicazione delle temporalità
continua nella lettura da parte di Hatoum di una lettera in inglese: ai
momenti della spedizione e dell’arrivo della lettera è associato il momento
in cui la voce over di Hatoum la traduce per lo spettatore inglese. Ogni
strato di tempo evoca una distanza insieme temporale e spaziale, storica e
geografica; ogni dialogo è situato, prodotto e ricevuto in circostanze
storiche precise.
Anche il gioco linguistico marca la distanza tra madre e figlia, mentre la
loro separazione esemplifica l’esistenza frammentata di una nazione.
Quando gli inesorabili bombardamenti impediscono alla madre di spedire
la sua lettera, lo schermo dissolve sul nero, suggerendo una brusca interru-
zione della comunicazione. Tuttavia la lettera alla fine arriva via corriere,
mentre la voce over narra le difficoltà dell’esule di mantenere contatti con
la propria cultura(e). La negoziazione di tempo e spazio è qui assoluta-
mente cruciale. La voce over della video maker che legge le lettere di sua
madre nel presente si interpone al dialogo registrato nel passato in Libano.
Le conversazioni di sottofondo in arabo danno un senso di immediatezza
del tempo presente, mentre la più predominante voce over inglese parla
della stessa conversazione al passato. Lo speaker arabo lavora per focaliz-
zarsi sulla conversazione in arabo e leggere la scrittura araba, ascoltando nel
frattempo anche l’inglese. Se lo spettatore non di lingua araba manca alcuni
registri testuali del film, lo spettatore di lingua araba è sopraffatto da
immagini e suoni in competizione. Questo rifiuto strategico di tradurre
l’arabo ha il suo eco in Homage by Assassination di Suleiman in cui il regista
(in persona) scrive proverbi arabi sullo schermo di un computer, senza
fornire nessuna traduzione. Questi cineasti esiliati perciò provocano sottil-
mente nello spettatore la stessa alienazione vissuta da una persona dislo-
cata, ricordandoci, attraverso l’inversione, dell’asimmetria del potere sociale
tra gli esiliati e le loro “comunità ospitanti”. Al tempo stesso, essi cataliz-
zano un senso della comunità per le comunità linguistiche minoritarie, una
strategia particolarmente suggestiva nel caso dei cineasti diasporici, che
spesso vanno a finire nel Primo Mondo precisamente perché il potere
coloniale/imperiale li ha trasformati in persone dislocate.

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472 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

Measures of Distance esplora anche i temi della sessualità e del corpo


femminile in una sorta di etnografia del sé, la sua retorica nostalgica
interessata meno alla “sfera pubblica” della lotta nazionale che alla “sfera
privata” di sessualità, gravidanza e bambini. Le conversazioni delle donne
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sulla sessualità lasciano il padre spiazzato da ciò che liquida come “scioc-
chezze delle donne”. Le fotografie della madre nuda fatte dalla figlia lo
mettono profondamente a disagio, come se la figlia, cosı̀ scrive la madre,
“fosse sconfinata nel suo possesso”. Riprendere con il video tali conversa-
zioni private non è una pratica comune nel cinema mediorientale o, in
quanto a ciò, in ogni cinema. (Il pubblico occidentale spesso chiede come
Hatoum abbia ottenuto da sua madre il consenso di usare fotografie del suo
nudo e come abbia toccato l’argomento della sessualità). Paradossalmente,
la distanza dell’esilio dal Medio Oriente autorizza l’esposizione dell’intimità.
Il dislocamento e la separazione rendono possibile un ritorno trasformativo
al santuario interno della casa; madre e figlia sono di nuovo insieme nello
spazio del testo.
Nella cultura popolare occidentale, il corpo femminile arabo, sia nella
forma delle donne velate e dal petto nudo che hanno posato per i fotografi
francesi sia in quella degli harem orientali e delle danzatrici del ventre, ha
funzionato come un segno dell’esotico. Ma piuttosto che adottare una
strategia patriarcale o censurare semplicemente la nudità femminile, Ha-
toum utilizza le immagini diffusamente sensuose, quasi divisioniste, di sua
madre nuda per raccontare una storia più complessa con implicazioni
nazionaliste. Usa diverse strategie per velare le immagini dallo scrutinio
voyeurista, immagini già indistinte sono nascoste dal testo (frammenti della
corrispondenza della madre, scritte in arabo) e sono difficili da decifrare. Le
parole sovrimposte scritte in arabo servono ad “avvolgere” la sua nudità.
“Rigando” il corpo, la sceneggiatura ne metaforizza l’inaccessibilità, ta-
gliando visivamente l’intimità espressa verbalmente in altri registri. La
natura frammentata dell’esistenza in esilio è perciò sottolineata da fram-
mentazioni sovrimposte: frammenti di lettere, dialogo e il corps morcele´ della
madre (presentato come mani, petto e ventre). Le immagini sfocate e
frammentate evocano la collettività dispersa della famiglia nazionale stes-
19
sa . Piuttosto che evocare il desiderio per una casa ancestrale, Measures of

19
O nei termini della lettera: «Questa guerra maledetta porta mia figlia nei punti più
remoti del mondo». Questo riferimento alla dispersione della famiglia, come metonimia e
metafora del dislocamento di un popolo, è particolarmente ironico dato che il discorso
sionista stesso ha spesso immaginato il proprio carattere nazionale attraverso la nozione del
«raccolto degli esuli dai punti più remoti della terra».

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 473

Distance come Homage by Assassination, afferma il processo di ricreazione


20
dell’identità nella zona liminale dell’esilio . Le stratificazioni video consen-
tono a Mona Hatoum di catturare le identità fluide e multiple del soggetto
diasporico.
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Interrogando il regime estetico


L’esilio può anche prendere la forma dell’esilio dal proprio corpo. I media
dominanti hanno diffuso a lungo l’estetica egemonica bianco-è-bello eredi-
tata dal discorso colonialista, un’estetica che ha esiliato le donne di colore
dai loro stessi corpi. Fino ai tardi anni Sessanta, la schiacciante maggio-
ranza dei giornali di moda, dei film, degli spettacoli televisivi e delle
pubblicità anglo-americani hanno promosso una nozione canonica di bel-
lezza all’interno della quale le donne bianche (e, secondariamente, gli
uomini bianchi) erano i soli legittimi oggetti del desiderio. Nel fare ciò, i
media hanno consolidato una valorizzazione filosofica della bianchezza di
lunga durata. La scrittura europea è piena di omaggi all’ideale della bellezza
bianca, svalutando implicitamente l’aspetto delle persone di colore. Per
Gobineau, la «razza bianca ha originariamente posseduto il monopolio di
21
bellezza, intelligenza e forza» . Per Buffon, «[La natura] nei suoi tentativi
22
più perfetti ha fatto gli uomini bianchi» . Friedrich Bluembach ha chiamato
gli europei bianchi “caucasici” perché riteneva che le montagne del Cau-
23
caso fossero il luogo originario delle specie umane più belle .
Il razzismo di genere ha lasciato il segno sull’estetica dell’Illuminismo.
Le misure e le classificazioni caratteristiche delle nuove scienze vennero
combinate ai giudizi di valore estetico tratti da una lettura apolloniana di
una Grecia tolta all’influenza di Dioniso. Perciò, arianisti come Carl Gustav
Carus misurarono il divino nell’umanità attraverso la somiglianza con le
statue greche. Anche la religione aurata dell’arte, nel frattempo, adorava il

20
In questo senso, Measures of Distance va contro la tendenza criticata da Hamid Naficy
che trasforma la nostalgia in un diniego ritualizzato della storia. Vedi The Poetics and Practice
of Iranian Nostalgia in Exile, «Diaspora», n. 3, 1992.
21
Citato in Brian V. Street, The Savage in Literature, London, Routledge and Kegan Paul,
1975, p. 99.
22
Georges-Louis Leclerc de Buffon, The History of Man and Quadrupeds, tr. ingl. William
Smellie, London, T. Cadell and W. Davies, 1812, p. 422.
23
George Mosse, Toward the Final Solution: A History of European Racism, London, Dent,
1978, p. 44.

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474 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

sacrario della bianchezza. Clyde Taylor, Cornel West, bell hooks, tra gli
altri, hanno denunciato lo sguardo normativo che ha sistematicamente
24
svalutato l’aspetto e le estetiche non europee . Dove se non tra i caucasici,
ha chiesto retoricamente il chirurgo inglese Charles White, è possibile
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trovare: «quella testa nobilmente arcuata, contenente una tale quantità di


cervello [...] In quale altro quarto del globo potremmo trovare il rossore
25
che inonda i dolci connotati delle belle donne europee» . Nonostante le
descrizioni ampollose di White chiaramente mettano i cervelli maschili in
posizione gerarchica rispetto alla bellezza femminile, in definitiva includono
le donne bianche in virtù della loro appartenenza genetica alla famiglia
dell’Uomo (bianco). In questo spirito, innumerevoli romanzi avventurosi
coloniali, per non citare film quali Trader Horn (1930) e King Kong (1933),
mostrano i “nativi” in palese adorazione del feticcio della bellezza bianca. È
solo sullo sfondo di questa lunga storia di glorificazione della bianchezza e
di svalutazione della nerezza che si può apprezzare la forza emotiva della
contro-espressione “nero è bello”.
Se il cinema stesso ha tracciato la sua parentela con le attrazioni e le
fiere popolari, il cinema etnografico e l’etnografia hollywoodiana erano gli
eredi di una tradizione di esibizioni di oggetti umani “reali”, una tradizione
che risale all’importazione in Europa da parte di Colombo di nativi del
“Nuovo Mondo” a scopi di studio scientifico e intrattenimento di corte. Le
esibizioni organizzarono il mondo come uno spettacolo all’interno di
26
un’estetica ossessivamente mimetica . Africani e asiatici venivano esibiti
come figure umane in rapporto di consanguineità con specifiche specie
animali, rendendo cosı̀ letterale lo zeugma coloniale che accoppia “nativo”
e “animale”, il fatto stesso dell’esibizione in gabbie a implicare che gli
occupanti delle gabbie fossero meno che umani. Lapponi, Nubiani, Etiopi
27
venivano esibiti in Germania in spettacoli antropologici-zoologici . La

24
Vedi Cornel West, Phrophesy Deliverance: An Afro-American Revolutionary Christianity,
Philadelphia, Westminster, 1982; Clyde Taylor, Black Cinema in the Post-Aestethic Era, in Jim
Pines and Paul Willemen, (a cura di), Questions of Third Cinema, London, BFI, 1989; e bell
hooks, Black Looks: Race and Representation, Boston, South End Press, 1992.
25
Charles White, Account of the Regular Gradation in Man, citato in Stephen Jay Gould,
The Mismeasure of Man, New York, Norton, 1981, p. 42.
26
Ad un’esposizione orientalista gli egiziani rimasero stupefatti scoprendo che i dolci
egiziani in vendita erano autentici. Vedi Tim Mitchell, Colonizing Egypt, Berkeley, University
of California Press, 1991, p. 10.
27
Vedi Jon Pietersie, White on Black: Images of Africa and Blacks in Western Popular Culture,
New Haven, Yale University Press, 1992. Sul safari coloniale come una sorta di minisocietà
viaggiante, vedi Donna Haraway, Teddy Bear Patriarchy: Taxidermy in the Garden of Heaven,
New York City, 1908-1936, «Social Text», n. 11, inverno 1984-85.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 475

congiunzione di «darwinismo, barnumismo, [e] puro e semplice razzismo»


risultò nell’esibizione di Ota Benga, un pigmeo proveniente dalla regione
28
del Kasai, accanto agli animali dello zoo del Bronx . La fiera mondiale di
Anversa del 1894 presentò un villaggio congolese ricostruito popolato da
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sedici abitanti “autentici”. In molti casi le persone esibite morivano o si


ammalavano gravemente. Anche gli “spettacoli di mostri” ostentavano
davanti agli occhi stupefatti dell’Occidente una varietà di patologie “esoti-
che”. Un video recente di Coco Fusco e Paula Heredia, The Couple in the
Cage: A Gautinaui Odissey (1993), “risponde” reindirizzando la nozione di
patologia ai suoi “mittenti” scienziati. Il video si basa su una performance
satirica di Guillermo Gomez-Peña e Coco Fusco che si erano chiusi in una
gabbia in piazze e musei pubblici rappresentando due Gautinaui di un’isola
nel Golfo del Messico appena scoperti. Il video giustappone risposte degli
spettatori, molti dei quali scambiarono per “reali” gli umani in gabbia, con
riprese d’archivio tratte da film etnografici in una sorta di jujitsu mediatico
che restituisce lo sguardo coloniale.
Uno dei casi più conosciuti di esibizione di una donna africana è quello
di Saartjie Baartman, la “Venere degli Ottentotti”, che fu esibita nel circuito
29
di intrattenimento inglese e francese . Sebbene le sue natiche prominenti
fossero l’attrazione principale, a richiamare le folle furono anche le peculia-
rità dei suoi genitali di cui si faceva un gran parlare, una “anomalia”
30
razziale/sessuale che veniva costantemente associata all’animalità . Lo zoo-
logo e anatomista George Cuvier la studiò intimamente e presumibilmente
in maniera imparziale, e paragonò le sue natiche a quelle dei «mandrilli e
babbuini femmina [...] che in certe fasi della loro vita sono soggetti a uno
31
sviluppo veramente mostruoso» . Dopo la sua morte all’età di venticinque
anni, Cuvier ricevette l’autorizzazione officiale per condurre un esame

28
Vedi Phillips Verner Bradford e Harvey Blume, Ota Benga: The Pygmy in the Zoo, New
York, St. Martins, 1992.
29
Il vero nome della “Venere degli Ottentotti” rimane sconosciuto dal momento che non
è mai stato comunicato da coloro che la studiarono.
30
Per una ulteriore discussione sulla scienza e il corpo razziale/sessuale, vedi Sander
Gilman, Black Bodies, White Bodies: Toward an Iconography of Female Sexuality in Late
Nineteenth-Century Art, Medicine, and Literature, «Critical Inquiry», vol. 12, n. 1, autunno
1985; e in connessione con il cinema delle origini, vedi Fatimah Tobing Rony, Those Who
Squat and Those Who Sit: The Iconography of Race in the 1895 Films of Louis Regnault, «Camera
Obscura», n. 28, 1992, un numero speciale su Imaging Technologies, Inscribing Science, a cura di
Paula A. Treichler e Lisa Cartwright.
31
Flower and Murie on the Dissection of a Bushwoman, «Anthropological Review», vol. 5,
luglio 1867, p. 268.

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476 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

anche più ravvicinato delle sue parti private, e la sezionò per produrre una
descrizione dettagliata del suo corpo, da cima a fondo32. I suoi genitali sono
tuttora conservati su uno scaffale nel Musée de l’Homme a Parigi accanto ai
genitali di “une negresse” e “une peruvienne”33, monumenti a una sorta di
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necrofilia imperiale. Un coronamento ironico, questa collocazione finale


delle parti femminili in un patriarcalmente denominato “Museo dell’Uo-
mo”.
Un collage dell’artista Renée Green sul tema la “Venere degli Otten-
totti” guarda ironicamente a questa specifica forma di colonizzazione del
corpo femminile nero. La denominazione verosimilmente ossimorica di
“Venere degli Ottentotti” era aggressiva ed eurocentrica. Il collage rivolta
questo stesso “ossimoro” contro i suoi artefici. L’opera giustappone una
fotografia di un uomo bianco che guarda attraverso la macchina fotogra-
fica; un frammento di un disegno del diciannovesimo secolo di un torso di
una donna bianca con una gonna a crinolina; un frammento di un altro
torso, questa volta dell’Ottentotta nuda; e infine un’immagine delle Grand
Tetons. Un testo che accompagna il collage richiama l’attenzione sulle
sottocorrenti del desiderio all’interno dell’impresa scientifica:

il sottointerprete era sposato con una persona affascinante, non solo


un’ottentotta nell’aspetto, ma a questo riguardo una venere tra gli otten-
totti. Ero assolutamente stupefatto dal suo sviluppo. Professo di essere un
uomo di scienza ed ero eccessivamente ansioso di ottenere misure accu-
rate della sua figura.

Il collage evoca una gerarchia di potere. L’uomo che guarda richiama


Cuvier, lo scienziato che ha misurato la storica Venere Ottentotta. Fram-
mentando le natiche della donna africana, Green esagera ciò che per lo
scienziato bianco era già esagerato. Giustapponendo questa immagine a
una raffigurazione frammentata di una donna bianca la cui gonna a crino-
lina alla moda dà a sua volta forma artificialmente a natiche enormi,
l’autrice vuol dire che tanto la donna africana che quella europea sono state
costruite per i piaceri maschilisti: l’una come acme di una ritrosa bellezza

32
Richard Altick, The Shows of London, Cambridge and London, Harvard University
Press, 1978, p. 272.
33
Stephen Jay Gould, The Flamingo’s Smile, New York, W. W. Norton & Co., 1985, p. 292.
In una visita recente al Musée de l’Homme non ho trovato tracce della “Venere degli
Ottentotti”; né il catalogo ufficiale, né i funzionari stessi hanno riconosciuto la sua esistenza.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 477

virginale, adornata da fiori e da un ventaglio tenuto delicatamente; l’altra,


nuda, immaginata come esempio di volgare corporalità da guardare verosi-
milmente senza piacere, solo per amore dell’austera disciplina della scienza.
Entrambi i disegni slittano facilmente nell’immagine della Natura, le Grand
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Tetons. La lettera “A” appare accanto alla donna bianca, “B” accanto alla
nera, e “AB” vicino alle Grand Tetons, e una spiritosa “C” (“see = vedere”)
vicino all’uomo bianco con la macchina fotografica. L’uso strategico di rap-
presentazioni europee di una donna africana per sottolineare le ironie
sociali su sessualità, genere e razza utilizza una tecnica a boomerang; una
discendente degli africani letteralmente re-inquadra le immagini pregiudi-
ziali di una sua antenata africana come forma di accusa postuma.
L’egemonia dello sguardo eurocentrico, diffusa non solo dai media del
Primo Mondo ma a volte anche da quelli del Terzo Mondo, spiega perché le
donne morena a Portorico, come le donne arabe-ebree (sefardite) in Israele, si
tingono i capelli di biondo e perché le pubblicità televisive brasiliane fanno
pensare più alla Scandinavia che ad un paese a maggioranza nera e perché i
concorsi di “Miss Universo” possono eleggere “regine bionde” anche in paesi
nordafricani e perché le donne asiatiche si sottopongono a chirurgia estetica
per apparire più occidentali. (Non sto mettendo in questione la parziale
“capacità di azione” implicata in tali trasformazioni ma sottolineando i
modelli che informano l’azione esercitata). Le femministe multiculturali
hanno criticato l’esilio interiorizzato delle euro-“aspiranti” (che si trasfor-
mano attraverso la chirurgia estetica o tingendosi i capelli) allo stesso tempo
cercando un approccio aperto, non essenzialista alle estetiche personali. Le
norme mitiche delle estetiche eurocentriche giungono ad abitare l’intimità
della consapevolezza di sé, lasciando gravi ferite psichiche. Un sistema
patriarcale che è riuscito a generare insoddisfazione personale nevrotica in
tutte le donne (da cui l’anoressia, la bulimia e altre patologie legate all’aspet-
to), diventa particolarmente oppressivo per le donne di colore, escludendole
dal regno di legittime immagini del desiderio.
Ambientato in uno studio hollywoodiano negli anni Quaranta, Illusions
(1982) di Julie Dash sottolinea queste pratiche di esclusione mettendo in
primo piano una cantante nera che presta la sua voce a una star hollywoo-
diana bianca. Come il classico hollywoodiano Singin’ in the Rain (Cantando
sotto la pioggia), Illusions si incentra riflessivamente sulla tecnica cinemato-
grafica della postsincronizzazione, o doppiaggio. Ma mentre il primo film
mostra l’appropriazione intraetnica con cui la regina del cinema muto Lina
Lamont (Jean Hagen) si appropria della voce melliflua di Kathy Selden
(Debbie Reynolds), Illusions rivela la dimensione razziale implicita nella

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478 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

costruzione di immagini erotizzate delle star femminili. Il film rappresenta


due donne nere “sommerse”: Mingon Duprée (Lonette McKee), invisibile
in quanto dirigente di studio afroamericana “che passa per bianca”, e Esther
Jeeter (Rosanne Katon), la cantante invisibile assunta per doppiare le parti
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cantate per la star cinematografica bianca (Lila Grant). Jeeter esegue le parti
vocali per un ruolo cinematografico che le è negato dal razzismo istituzio-
nale hollywoodiano. Il talento e l’energia neri sono sublimati in un’imma-
gine bianca aureolata. Ma riconnettendo la voce nera con l’immagine nera,
il film rende “visibile” e perciò “udibile” la presenza nera, dipingendo l’ope-
razione della cancellazione e rivelando l’indebitamento del film con la per-
formance nera. Ma se Gene Kelly può esporre l’ingiustizia e portare
l’armonia nel mondo di Cantando sotto la pioggia, Lonette McKee – che è
lontana dall’essere una “mulatta tragica” ed è ritratta come una donna che
ha capacità di agire e lotta per riscrivere la storia della sua comunità – non
ha un tale potere in Illusions, in uno studio cinematografico significativa-
mente chiamato “studio nazionale”. Illusions fa riferimento alla comparsa
graduale dell’immagine afroamericana nell’intrattenimento euro-americano,
suggerendo che mentre i suoni neri erano spesso i benvenuti (per esempio
alla radio) le immagini nere rimanevano tabù, come se, dopo tale lungo
atto di sparizione, la loro presenza iconica fosse divenuta incendiaria.
La vita esistenziale del corpo razzializzato è stata dura, soggetta non
solo alle indegnità della messa all’asta, dello stupro, della marchiatura, delle
frustate, delle pistole per stordire e di altri tipi di abuso fisico, ma anche al
tipo di cancellazione culturale attaccata alla stigmatizzazione estetica. Molti
progetti femministi cinematografici e video del Terzo Mondo e minoritari
offrono strategie per fare fronte alla violenza fisica inflitta dalle estetiche
eurocentriche, richiamando l’attenzione sul corpo sessualizzato/razzializ-
zato come sito sia di oppressione brutale che di resistenza creativa. La
creatività nera ha trasformato il corpo, in quanto forma singolare di
“capitale culturale”, in ciò che Stuart Hall chiama una «tela di rappresenta-
zione»34. Un numero di film e video recenti indipendenti – Hairpiece: A Film
for Nappy-Headed People (“Parrucchino: un film per persone dai capelli
crespi”, 1985) di Ayoka Chenzira, Coffee Coloured Children (“Bambini color
caffè”, 1988) di Ngozi A. Onwurah, Slaying the Dragon (“Uccidendo il
dragone”, 1988) di Deborah Gee, Color Schemes (“Schemi di colore”, 1989)

34
Stuart Hall, What Is This “Black” in Black Popular Culture?, in Gina Dent, (a cura di),
Black Popular Culture, Seattle, Bay Press, 1992, p. 27.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 479

di Shu Lea Cheang, Two Lies (“Due bugie”, 1989) di Pam Tom, Perfect
Image? (“Immagine perfetta?”, 1990) di Maureen Blackwood, Sally’s Beauty
Spot (“Il neo di Sally”, 1990) di Helen Lee, Older Women and Love (“Le
donne più anziane e l’amore”, 1987) di Camille Billop, A Question of Color
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(“Una questione di colore”, 1993) di Kathe Sandler – meditano sul corpo


razzializzato/sessualizzato allo scopo di narrare le questioni dell’identità.
Questi testi semiautobiografici collegano le identità diasporiche frammen-
tate a questioni più ampie di rappresentazione, recuperando esperienze
complesse di fronte alla condiscendenza ostile della cultura di massa
eurocentrica. Perfect Image?, ad esempio, satireggia l’ideale mass-mediatico
di una “immagine perfetta” focalizzandosi sulla rappresentazione e autorap-
presentazione di due donne nere inglesi, una dalle pelle chiara, l’altra scura,
deridendo il sistema che genera insoddisfazione personale in donne molto
diverse, che si vedono tutte come “troppo” qualcosa – troppo scure, troppo
chiare, troppo grasse, troppo alte. Il loro costante cambiamento di perso-
naggio evoca una diversità di donne e cosı̀ previene ogni stereotipizzazione
essenzialista basata sulle linee del colore nella comunità afro-diasporica.
Le sindromi patologiche di rifiuto di se stessi – pelli nere/maschere
bianche – costituiscono la fuoriuscita psichica dell’egemonia razziale. Data
la costruzione dei corpi scuri come brutti e bestiali, la resistenza prende la
forma dell’affermazione della bellezza nera. Il movimento del Potere Nero
degli anni Sessanta, per esempio, trasformò i capelli crespi in orgogliosi
capelli afro. A Question of Color individua le tensioni che ci sono intorno alla
consapevolezza del colore e al razzismo interiorizzato nella comunità
afroamericana, un processo richiamato alla mente nel detto popolare: “vai
bene, se sei bianco/sta’ tranquillo, se sei giallo/non t’allontanar, se sei
marrone/ma se sei nero, stai indietro”. (Tali tensioni hanno costituito il
soggetto della composizione musicale di Duke Ellington Black, Brown and
Beige). Le norme egemoniche del colore della pelle, della struttura dei
capelli e delle caratteristiche facciali sono espresse anche all’interno della
comunità attraverso eufemismi quali “bei capelli” (cioè, capelli lisci) e “bei
lineamenti” (cioè, lineamenti stile europeo) e in locuzioni induttivamente
pregiudizievoli come “scuro ma bello” o in ammonizioni di non “somigliare
a un Ubangi”. Il film registra l’impatto del movimento “Nero è bello”,
considerando il momento attuale come il luogo dell’afrocentrismo risor-
gente di certa musica rap che va di pari passo con tracce persistenti di
vecchie norme. Una intervista mette in scena un chirurgo nigeriano che
de-africanizza l’aspetto delle donne nere, mentre il film riflette sulla valoriz-
zazione delle donne nere dalla pelle chiara nei video rap e su MTV. Sandler

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480 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

indaga anche i rapporti intimi allo scopo di esporre le patologie sociali


radicate nelle gerarchie del colore; coloro che hanno la pelle più scura si
sentono svalutati e desessualizzati, quelli che la hanno più chiara – nella
misura in cui la loro stessa comunità assume che si sentano superiori ad
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essa – sono obbligati a “dimostrare” la propria nerezza. Stillando dalle


posizioni di dominio, le gerarchie cromatiche seminano tensione tra fratelli
e amici, tutti catturati dalla regia eccezionalmente sensibile di Sandler.
In tutti questi film, modelli interiorizzati di bellezza bianca diventano
l’oggetto di una critica corrosiva. Non a caso, molti dei film prestano
straordinaria attenzione ai capelli in quanto scena sia dell’umiliazione
(“brutti capelli”) che della auto acconciatura creativa, una «forma d’arte
popolare» che articola «soluzioni estetiche», nelle parole di Kobena Mercer,
35
per i «problemi creati dalle ideologie di razza e razzismo» . Già, a partire
dallo stile di capelli afro dei tardi anni Sessanta e Settanta ma soprattutto di
recente, ci sono state correnti opposte legate al ruolo centrale degli afroa-
mericani nella cultura mass-mediatica: bianchi che si ingrossano le labbra e
36
sfoggiano dreadlocks, fades o cornrows . Da una prospettiva femminista
multiculturale, queste trasformazioni transculturali (chirurgia estetica, tin-
tura dei capelli) ad un livello sono esempi di “esilio interno” o “appropria-
zione”. Ma ad un altro livello evocano la possibilità di un approccio aperto,
non essenzialista agli sguardi e all’identità. Il corto animato di dieci minuti
di Ayoka Chenzira Hairpiece: A Film for Nappy-Headed People chiama in
causa i capelli e le loro vicissitudini allo scopo di narrare la storia afroame-
ricana dell’esilio dal corpo come anche dell’utopia dell’acquisizione del
potere attraverso la consapevolezza afro. In una società dominante in cui i
bei capelli sono quelli “increspati dal vento”, Hairpiece suggerisce un iso-
morfismo tra i capelli vitali e ribelli che rifiutano di conformarsi alle norme
eurocentriche e la gente vitale e ribelle che “indossa” i capelli. La musica di
Aretha Franklin, James Brown e Michael Jackson accompagna un collage
di facce nere (da Sammy Davis a Angela Davis). Le melodie motown
sottolineano un rapido inventario visivo di stiranti, gel e arriccianti, stru-

35
Kobena Mercer, Black Hair/Style Politics, «New Formations», n. 3, inverno 1987.
36
Dreadlocks, fades e cornrows sono particolari stili di capigliatura molto comuni tra i neri. I
dreadlocks, che sono la pettinatura tradizionale dei rasta, sono costituiti da ciocche di capelli
attorcigliate tra di loro in modo da ottenere una sorta di corda. Fade è quell’acconciatura
che prevede capelli rasati ai lati che sfumano gradualmente (fade) verso la sommità della
testa in capelli tagliati molto corti. I cornrows sono trecce preparate in modo tale da restare
attaccate alla testa, dove formano linee dritte. Il termine cornrows deriva dalla disposizione
delle file di grano nei campi coltivati (N.d.T.).

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 481

menti dolorosamente familiari alla gente nera e particolarmente alle donne


nere. Potrebbe sembrare che la voce over e il “lieto fine” del film implichino
un’affermazione essenzialista della “naturale bellezza africana”, ma come
evidenzia Kobena Mercer in un altro contesto, i “capelli naturali” non sono
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37
in se stessi africani; sono un costrutto sincretico . Le acconciature afro-
diasporiche, da quella afro ai dreadlocks, non sono emulazioni degli stili
africani “reali” ma piuttosto proiezioni neologistiche dell’identità diasporica.
Gli stili esibiti nel finale del film, lungi dall’essere esempi di capelli “politica-
mente corretti”, affermano piuttosto una cornucopia degli sguardi diaspo-
rici, un’espressione potente di un corpo collettivo variegato. Satireggiando
l’interiorizzazione nera di modelli estetici bianchi, il film provoca una
catarsi comica per gli spettatori che hanno vissuto il terrore e la pietà
38
dell’auto-colonizzazione .
Coffee Coloured Children, il film lirico semi-autobiografico di Ngozi A.
Onwurah, intanto, descrive il corpo nero come accerchiato dal razzismo.
Figlia di una madre bianca e di un padre nigeriano assente, la narratrice
ricorda il dolore di crescere in un quartiere inglese totalmente bianco. La
sequenza d’apertura dimostra immediatamente il tipo di molestie razziste
subite dalla famiglia: un giovane neonazista insozza la loro porta d’ingresso
con escrementi, mentre la madre, in voce over, si preoccupa di proteggere i
suoi figli dal sentirsi in qualche modo responsabili per la violenza diretta
contro di loro. La narrazione trasmette il traumatico odio per se stessi
provocato dai paradigmi imposti. In una scena, la figlia si toglie una
parrucca bionda e del trucco bianco di fronte a uno specchio, nel tentativo
di emulare una bianchezza desiderata. Se La battaglia di Algeri faceva dello
specchio uno strumento rivoluzionario, qui esso diventa lo speculum di
un’identità traumatizzata, letteralmente quella di una pelle nera mascherata
di bianco. Il semplice atto di guardare in uno specchio si rivela essere
molteplicemente speculare, dal momento che si guarda persino se stessi
attraverso gli occhi di molti altri – la propria famiglia, i propri coetanei, i
propri altri razziali, come anche gli occhi pan-ottici della cultura dei mass
media e consumistica. Le cicatrici inflitte sulle vittime di questa egemonia
estetica sono intensamente suggerite da una sequenza in bagno in cui i
bambini, utilizzando prodotti di pulizia, cercano di strofinare via fre-

37
Ibid.
38
Non sorprendentemente, il film è stato proiettato in musei e chiese e anche a lavoratori
sociali e parrucchieri, come contemplazione provocativa dell’intersezione di moda, politica e
identità.

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482 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

neticamente una nerezza vissuta come sporcizia39. La voce over del narra-
tore che descrive il rituale di pulizia è sovrapposta a un’inquadratura
ravvicinata di una rapida strigliatura, sfocata in modo da suggerire una
perdita di sangue, un’immagine adatta al retaggio coloniale inscritto nel
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corpo dei bambini, un testamento per i marchi interiorizzati di un regime


estetico devastante.

Riscrivere il corpo esotico


Sebbene le donne minoritarie del Terzo Mondo e del Primo Mondo
abbiano sperimentato diversi regimi storici e sessuali, hanno però condiviso
uno status comune di esotico coloniale. Sono state ritratte come corpi che
si dimenano agghindati con cappelli Tutti Frutti, come occhi scuri lascivi
che occhieggiano da dietro i veli, come corpi scuri piumati che entrano in
trance sulla scorta di ritmi frenetici. In contrasto con l’immaginario orienta-
lista dell’harem, gli spazi tutti al femminile sono stati rappresentati in
maniera molto differente nel cinema indipendente femminista, in gran parte
diretto da donne arabe. Documentari quali Ahlam Mumkina (“Sogni leciti”,
Egitto, 1989) di Attiat El-Abnoudi e Hidden Faces (“Volti nascosti”, Gran
Bretagna, 1990) di Claire Hunt e Kim Longinotto, esaminano la capacità di
agire femminile in un contesto patriarcale. Entrambi i film mettono in
scena sequenze in cui le donne egiziane, conversando delle loro vite nel
villaggio, narrano in termini ironici dei loro sogni e delle loro lotte con il
patriarcato. Attraverso la sua visione critica della femminista egiziana
Nawal el Saadawi, Hidden Faces esplora i problemi delle donne che lavo-
rano insieme per creare istituzioni alternative. The Veiled Revolution (“La
rivoluzione velata”, 1982) di Elizabeth Fernea mostra le donne egiziane che
non solo ridefiniscono il significato del velo ma anche la natura della
propria sessualità. E Bab Ila Sma Maftouh (“Una porta per il cielo”, 1988), il
lungometraggio della cineasta marocchina Farida Benlyazid, dà una patina
positiva alla nozione di spazio tutto al femminile, contrapponendo femmi-
nismo islamico e fantasie orientaliste.
Bab Ila Sma Maftouh racconta la storia di una donna marocchina,
Nadia, che ritorna da Parigi alla casa di famiglia a Fez. Il suo arrivo in

39
Questa associazione è particolarmente ironica dato il retaggio coloniale della schiavitù e
servitù in cui gli uomini neri (custodi) e le donne (cameriere) erano obbligati a rimettere in
ordine il “caos” creato dagli europei bianchi.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 483

Marocco con abiti e pettinatura punk ci fa ipotizzare un racconto ironico


su un’araba occidentalizzata che si sente spaesata nella sua terra d’origine.
Ma al contrario, Nadia riscopre il Marocco e l’Islam e giunge ad apprezzare
il mondo comunitario delle sue parenti, come anche la sua vicinanza con
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suo padre. È introdotta alla fede da una donna più anziana, Kirana, che ha
un approccio flessibile all’Islam: «ciascuno comprende attraverso la propria
mente e la propria epoca». Nel corso del suo risveglio spirituale, Nadia
inizia a vedere gli aspetti oppressivi della società occidentale. Al tempo
stesso, vede la società araba/musulmana come un possibile spazio di
appagamento. Nel rispetto della tradizione islamica delle donne che usano
la propria ricchezza per la carità sociale, trasforma parte della casa di
famiglia in rifugio per donne abusate. Il film non è acritico nei confronti
degli abusi patriarcali dell’Islam – per esempio, le leggi che considerano le
donne come “mezze-persone” e che sistematicamente favoriscono gli uo-
mini nelle questioni di matrimonio e divorzio. L’estetica del film, tuttavia,
privilegia ritmi contemplativi e spirituali, in movimenti di macchina lenti
che accarezzano l’architettura araba dai contorni delineati di cortili e
fontane e di rilassanti spazi interni. Dedicato a una donna musulmana
storica, Fatima Fihra, fondatrice nel decimo secolo di una delle prime
università del mondo, Bab Ila Sma Maftouh prefigura un’estetica che affermi
la cultura islamica corredata da una coscienza femminista, offrendo un’al-
ternativa sia all’immaginario occidentale che alla rappresentazione fonda-
mentalista islamica delle donne musulmane. Laddove i documentari con-
temporanei mostrano i raduni di sole donne come uno spazio di resistenza
al patriarcato e al fondamentalismo, Bab Ila Sma Maftouh utilizza spazi
totalmente femminili per indicare un progetto liberatorio basato sul dissot-
terramento della storia delle donne all’interno dell’Islam, una storia che
include spiritualità, profezia, poesia e creatività intellettuali femminili, come
40
anche rivolta, potere materiale, e leadership sociale e politica .
La negoziazione tra il presente e il passato appare anche in Nice
Coloured Girls (“Ragazze di colore carine”) di Tracey Moffat, che intreccia
racconti sulle donne aborigene dell’Australia urbana contemporanea e sui
loro “capitani” (vecchi danarosi che mantengono giovani amanti) con
racconti di donne aborigene e uomini bianchi che risalgono a più di
duecento anni prima. Moffat interroga le trite convenzioni del “film abori-
geno”, proponendo invece lo sperimentalismo formale di Nice Coloured

40
Vedi Fatima Mernissi, The Forgotten Queens of Islam, tr. ingl. Mary Jo Lakeland,
Minneapolis, University of Minnesota Press, 1993.

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484 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

41
Girls stesso . E in netto contrasto con la costruzione coloniale del “corpo
femminile aborigeno” visto come estensione metaforica di una terra esoti-
cizzata, Nice Coloured Girls colloca le donne aborigene dinamiche, irrive-
renti, intraprendenti al centro della narrazione, offrendo una prospettiva
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multitemporale sulle loro azioni “indecenti” – forme blande di prostituzione


e raggiri per spingere gli uomini bianchi australiani a spendere soldi.
Facendo la spola tra l’Australia del presente e testi, voci, immagini del
passato, il film contestualizza il loro funzionamento in relazione agli scambi
asimmetrici tipici degli incontri coloniali. Due cornici temporalmente e
spazialmente distinte ma concettualmente interconnesse – una associata
alle immagini del mare (o alla sua rappresentazione pittorica) e ambientata
nel passato, l’altra ambientata in un pub nell’Australia contemporanea –
contestualizzano l’incontro. In una iniziale sequenza nel pub, un uomo e
una donna aborigeni vanno dietro a una porta opacizzata per fumare uno
spinello. Mentre le loro silhouette da film noir ondulano alla musica
diegetica del pub, una voce over maschile dall’accento inglese legge da un
giornale storico estratti descriventi il petto, i denti e il viso di una donna
aborigena. L’evocazione di un precedente incontro storico condiziona la
percezione dello spettatore degli incontri degli ultimi tempi.
Piuttosto che cercare una cultura aborigena “autentica”, Nice Coloured
Girls costruisce una “genealogia” della criminalità. Mentre dal punto di vista
del decorum eurocentrico le donne aborigene sono raggiratrici amorali, il
contesto storico del colonialismo dei conquistatori e le sue relazioni di tipo
sessuale sia con la terra che con le donne modificano la valenza etica ed
emotiva. Nel pub, le donne dimostrano la loro elastica capacità di sopravvi-
vere e di farsi beffe della marginalizzazione. Se le immagini del passato
sono ambientate in una barca o di giorno sulla spiaggia, quelle del presente
sono ambientate nella città notturna, alludendo alla “neonizzazione”, per
cosı̀ dire, dello spazio aborigeno. Il film può perciò essere visto come una
narrazione “vendicativa” in cui le donne aborigene convincono con l’in-
ganno gli uomini euro-australiani a fantasticare uno scambio “equo” di
sesso e merci, poi prendono i loro soldi e scappano.

41
È poco probabile che la giustapposizione di diari/scritti etnografici e immagini abori-
gene in Nice Coloured Girls sia casuale, dal momento che le prime rappresentazioni
fotografiche e cinematografiche degli aborigeni hanno riflesso l’etnografia legata alla cultura
dei coloni bianchi. (Le riprese del 1901 di Walter Baldwin Spencer della tribù Arrente che
mette in scena una danza del canguro e una cerimonia della pioggia segnano l’inizio storico
del film etnografico sugli aborigeni). Vedi Karl C. Heider, Ethnographic Film, Austin,
University of Texas Press, 1976, p. 19.

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 485

I rapporti razziali e sessuali del passato (l’incontro iniziale tra europei e


aborigeni, nel 1788) e del presente (1987) sono intrecciati attraverso la
sovrapposizione di immagini, musica, testi e voce over. La sequenza di
apertura sovrappone un testo di uno dei primi “esploratori” inglesi ad uno
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scuro grattacielo urbano, accompagnato dal suono dei remi e di un respiro


ritmico difficile. Mentre la voce over maschile narra eventi tratti dai giornali
della “scoperta” dell’Australia nel 1788, i sottotitoli trasmettono i pensieri
delle donne aborigene del presente. Mentre la voce over è in prima
persona, i sottotitoli propagano una voce collettiva. Le immagini rafforzano
la versione sottotitolata offrendo la prospettiva delle donne sui “capitani”
intrappolati, decostruendo i giornali non attraverso la correzione del docu-
mento storico ma piuttosto attraverso una critica discorsiva del loro orien-
tamento razzista e maschilista.
Il titolo stesso di Nice Coloured Girls è ironico, prefigurando la sovver-
sione operata dal film dell’immagine “positiva” di ragazze di colore “carine”
in qualità di oggetti dell’esotizzazione coloniale e la valorizzazione dell’im-
magine “negativa” della “indecenza”. Gli incontri storici sono ricostruiti in
uno stile antirealista minimalista, un’evocazione simbolica piuttosto che una
raffigurazione “realistica”. Mettendo riflessivamente in primo piano l’artifi-
cio della sua produzione attraverso set stilizzati, stile di rappresentazione
eccessivo e sottotitoli ironici il film mina ogni aspettativa di rappresenta-
zioni sociologicamente “autentiche” o etnicamente “positive”. Immagine,
suono e testo si amplificano e si contestualizzano a vicenda, militando
contro qualsiasi storia autoritaria. I cambiamenti costanti del registro di-
scorsivo – macchina a mano stile-vérité, testi etnografici in voce over,
narrazioni orali sottotitolate, musica soul americana di status diegetico
oscuro – insidiano qualsiasi modello univoco di narrazione storica. Nice
Coloured Girls sfida un’intera serie di tradizioni discorsive, generiche e
disciplinari. Guardando al discorso ufficiale anglo-australiano attraverso gli
occhi decostruttivi delle donne aborigene, questo testo densamente stratifi-
cato deride la morbosa fascinazione “etnografica” per la sessualità abori-
gena. Piuttosto che rovesciare la dicotomia di donne sessualizzate del
Terzo Mondo e donne europee virginali proponendo un’immagine ugual-
mente virginale delle donne aborigene, il film rifiuta del tutto il modello
binario. Trovando il nucleo delle relazioni di potere contemporanee nel
passato coloniale, Nice Coloured Girls mostra l’“indecenza” come una rispo-
sta creativa ad una specifica congiuntura economica e storica.
Ho cercato di sostenere che un discorso che sia “puramente” femmini-
sta o “puramente” nazionalista non può cogliere le identità stratificate e

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486 ERETICHE ED EROTICHE. LE DONNE, LE IDEE, IL CINEMA

dissonanti dei soggetti femministi diasporici o postindipendenti. I film


diasporici e posterzomondisti degli anni Ottanta e Novanta, in questo
senso, non tanto rifiutano la “nazione” quanto interrogano le sue repres-
sioni e i suoi limiti, facendo passare il discorso nazionalista attraverso le
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griglie di classe, genere, sessualità e identità diasporiche. Sebbene spesso


radicati nell’autobiografico, essi non sempre sono narrati in prima persona,
né sono “meramente” personali; piuttosto, i confini tra il personale e il
collettivo, come i confini generici tra documentario e fiction, il biografico e
l’etnografico, sono costantemente resi indistinti. La forma del diario, la voce
over, il testo scritto personale, ora testimoniano una memoria collettiva di
violenza coloniale e dislocamento postcoloniale. Mentre i primi film terzo-
mondisti documentavano storie alternative attraverso riprese d’archivio,
interviste, testimonianze e ricostruzioni storiche, limitando generalmente la
loro attenzione alla sfera pubblica, i film degli anni Ottanta e Novanta
usano la macchina da presa meno come un’arma rivoluzionaria che come
un monitor dei regni del personale e del domestico influenzati da genere e
sessualità, visti come aspetti integrali ma repressi della storia nazionale. Essi
mostrano un certo scetticismo nei confronti delle metanarrazioni della
liberazione ma non necessariamente abbandonano la nozione che vale la
pena combattere per l’emancipazione. Piuttosto che fuggire le contraddi-
zioni, installano dubbi e crisi nel loro stesso nucleo. Piuttosto che una
grandiosa metanarrazione anticoloniale, essi prediligono proliferazioni ete-
roglossiche della differenza all’interno di narrazioni poligeneriche, viste non
come incarnazioni di una singola verità ma piuttosto come stimolanti
forme politiche ed estetiche di auto-costruzione comunitaria.
Dal momento che tutte le lotte politiche dell’era postmoderna passano
attraverso il regno fantasmatico della cultura di massa, i media sono
assolutamente centrali per ogni discussione delle pratiche femministe multi-
culturali e transnazionali posterzomondiste. Ho cercato di mettere in rap-
porto i dibattiti spesso ghettizzati riguardanti politiche razziali e identitarie
da una parte, e nazionalismo e discorso postcoloniale dall’altra, nel tenta-
tivo parziale di far dialogare, per cosı̀ dire, diverse critiche femministe
posterzomondiste. La natura globale del processo di colonizzazione e la
portata globale dei media contemporanei obbligano virtualmente il critico
culturale ad andare oltre la struttura restrittiva dello stato-nazione. All’in-
terno della cultura postmoderna, i media non solo fissano gli ordini del
giorno e costruiscono i dibattiti ma modulano anche desiderio, memoria e
immaginazione. I media contemporanei plasmano l’identità; anzi, molti
sostengono che essi si trovino ora accanto al nucleo stesso della produ-

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CULTURA POSTERZOMONDISTA: GENERE, NAZIONE E IL CINEMA 487

zione dell’identità. In un mondo transnazionale caratterizzato dalla circola-


zione globale di immagini e suoni, beni e persone, il pubblico dei media ha
un impatto complesso sull’identità nazionale, l’appartenenza comune e le
affiliazioni politiche. Facilitando un impegno mediato con genti distanti, i
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media “deterritorializzano” il processo di immaginare le comunità. E se i


media possono distruggere comunità e dare forma alla solitudine trasfor-
mando gli spettatori in consumatori atomizzati o monadi che si intratten-
gono da sole, possono anche modellare comunità e affiliazioni alternative.
Proprio quando possono erotizzare e deformare culture, essi hanno il
potere potenziale non solo di offrire rappresentazioni compensative ma
anche di aprire spazi paralleli per la trasformazione femminista anti-
razzista. In questo momento storico di intensa globalizzazione e immensa
frammentazione, il pubblico alternativo istituito dal tipo di lavori cinemato-
grafici e video che ho discusso qui può mobilizzare desiderio, memoria e
immaginazione, dove le identità non sono solo il dato scontato del da dove
si viene ma anche l’identificazione politica con il dove si sta cercando di
andare.

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Studi sull’identità
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1. M. Graziosi, La donna e la Storia. Identità di genere e identità collettiva nell’Italia liberale


e fascista
2. Maternità, identità, scelte. Percorsi dell’emancipazione femminile nel Mezzogiorno, a c. di
A. Oppo, S. Piccone Stella, A. Signorelli
3. Proprietarie. Avere, non avere, ereditare, industriarsi, a c. di A. Arru, L. Di Michele, M.
Stella
4. Eretiche ed erotiche. Le donne, le idee, il cinema, a c. di G. Fanara e F. Giovannelli

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