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Tra segni e parole: impatto linguistico, sociolinguistico e culturale


dell'interpretariato lingua dei segni/lingua vocale

Article · January 2011

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2 authors:

Sabina Fontana Amir Zuccala


University of Catania Sapienza University of Rome
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R I V I STA
DI PSICOL I NGU I ST IC A
A PPL IC ATA
xI
3 · 2011

L’INTERPRETARIATO LINGUE VOCALI /


LINGUE DEI SEGNI: QUESTIONI SOCIOLINGUISTICHE,
PSICOLINGUISTICHE, EDUCATIVE

INSIGHTS INTO SIGN LANGUAGE INTERPRETING:


SOCIOLINGUISTIC, PSYCHOLINGUISTIC
AND EDUCATIONAL ISSUES

Numero monotematico a cura di / Special Issue edited by


Maria Antonietta Pinto · Sabina Fontana

P I SA · ROMA
FABRIZIO SERRA EDITORE
MMXII
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sommario / CONTENTS

Maria Antonietta Pinto, Sabina Fontana, Editoriale / Editorial 9

l ’ interpretariato lingue vocali / lingue dei segni :  

questioni sociolinguistiche, psicolinguistiche, educative


insights into sign language interpreting :  

sociolinguistic, psycholinguistic and educational issues

Numero monotematico a cura di / Special Issue edited by


Maria Antonietta Pinto · Sabina Fontana
Elena Antinoro Pizzuto, Isabella Chiari, Paolo Rossini, Representing
Signed Languages : Theoretical, Methodological and Practical Issues

19
Giulia Petitta, Silvia Del Vecchio, Implicazioni linguistiche e strategie tra-
duttive nell’interpretazione dalla LIS all’Italiano e viceversa / LIS : una prospetti-

va semiotica / Linguistic implications and translation strategies in Italian Sign


language interpreting towards Italian and viceversa : a semiotic perspective

47
Sabina Fontana, Amir Zuccalà, Tra segni e parole : impatto linguistico, socio-

linguistico e culturale dell’interpretariato lingua dei segni / Lingua vocale /


Signs and words : linguistic, sociolinguistic and cultural impact in vocal langua-

ges / sign languages interpreting 67


Brenda Nicodemus, Laurie Swabey, Anna Witter-Merithew, Esta-
blishing Presence and Role Transparency in healthcare interpreting : a pedagogi-

cal approach for developing effective practice 79


Maria Del Pilar Fernández Viader, Lidia Lozano Lahuerta, La figura
del intérprete de lengua de signos en España / The role of the sign interpreter in
Spain 95
TRA SEGNI E PAROLE :  

IMPATTO LINGUISTICO, SOCIOLINGUISTICO


E CULTURALE DELL’INTERPRETARIATO
LINGUA DEI SEGNI / LINGUA VOCALE
Sabina Fontana* · Amir Zuccalà**
Università degli Studi di Catania · Ente Nazionale Sordi

Title : Linguistic and sociolinguistic impact of sign language interpreting.


Abstract : Professional sign language interpreting can be paralleled to social interpreting services

for minorities who live in foreign countries (eg : Chinese or African people). However, sign language

interpreting plays a crucial role in promoting Deaf people’s access to the hearing majority and to
information and culture than were not accessible to them. Through Deaf people’s full participation,
sign language interpreting acts on sign language architecture by enlarging the usage dimensions of a
language that so far was used only in familiar, informal contexts.
Keywords : Interpreting - Deaf Community - Social variation - Sociolinguistics - Diglossia.

i. Introduzione

G li studi sulla lingua dei segni e sulla comunità sorda hanno avviato un pro-
cesso di graduale costruzione della consapevolezza non solo da parte della
comunità scientifica, ma soprattutto del gruppo sociale dei sordi, che ha iniziato
ad edificare identità, sentimento di appartenenza e cultura sull’esperienza della
sordità (Spradley & Spradley 1978 ; Batson & Bergman 1976). La peculiare modalità

di esperire il mondo e di comunicare (Lane, Hoffmeister & Bahan 1996) diventa


fondante di una percezione visuo-centrica che si contrappone ad una visione fo-
nocentrica nella rivendicazione politica dell’alterità (Wrigley 1996). Infatti, la let-
teratura scientifica ha messo in evidenza come la lingua dei segni, così come un
approccio visivo/gestuale/corporeo all’esperienza, siano i cardini attorno a cui
ruotano i concetti di ‘cultura sorda’ e ‘comunità sorda’. A partire da questa pro-
spettiva, sono mutate le percezioni non solo relativamente all’autorappresenta-
zione – da singoli minorati uditivi a membri di una comunità – ma anche relativa-
mente alle relazioni con tutta una serie di categorie che hanno da sempre giocato
un ruolo importante nella vita delle persone sorde, tra le quali, in particolare, gli
interpreti/mediatori.
Qui desideriamo evidenziare alcuni aspetti relativi al ruolo dell’interpretariato
lingue dei segni/lingue vocali, che si colloca tra minoranza sorda e maggioranza
udente, con un impatto a livello sociale e sociolinguistico nella costruzione dei con-

-  Ultima versione ricevuta nel settembre 2011.


*  Corresponding author : Sabina Fontana, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, via Orfano-

trofio 49, Ragusa ; fontana.sabina@virgilio.it


**  Amir Zuccalà, Ente Nazionale Sordi, via Gregorio VII 120, 00165 Roma ; amir.zuccala@gmail.

com.

« rivista di psicolinguistica applicata », xi, 3/2011


68 sabina fontana · amir zuccalà
fini linguistico-identitari della comunità dei sordi (Zuccalà & Fontana, in stampa) e
nell’edificazione di una percezione positiva della condizione stessa di sordità.
La nostra riflessione non si fonda su categorie certe, che, a nostro avviso, trop-
po spesso vengono costruite per ragioni rivendicative in vista della lotta per il
riconoscimento dei diritti, ma, facendo proprie le ragioni dell’etnometodologia
(Hymes 1974 ; Duranti 1992), preferiamo costruire le nostre categorie interpretative

a partire dagli attori sociali nel corso del loro agire quotidiano, valutando l’inte-
razione delle variabili nell’evento comunicativo come unità di analisi. Tuttavia,
all’interno della prospettiva etnometodologica, la contrapposizione tradizionale
tra variabili interne e variabili esterne alla lingua appare ridondante. Se la lingua
è primariamente un fatto sociale, è inevitabile che si collochi in una dimensione
nell’ambito della quale la struttura linguistica è il risultato dell’interazione delle
componenti dell’evento comunicativo. Pertanto, se, in generale, la lingua inter-
viene nella conduzione della vita sociale, è comunque una scelta metodologica
arbitraria il considerare le variabili sociali come esterne. Ad esempio, nel caso
dei sordi, è innegabile che le dimensioni fondamentali di variazione abbiano esi-
ti importanti sul piano strutturale. Riteniamo che nella costruzione sociale della
sordità entrino in gioco, da un lato, la relazione con la comunità udente e con
una lingua vocale ad altissima circolazione ; dall’altro, la presenza di una lingua

che si presenta come un’alternativa evolutiva unica, poiché rivela la traccia di un


utente con date caratteristiche percettive e sensoriali, e viene trasmessa nella mag-
gior parte dei casi in modo atipico, cioè dai pari piuttosto che dai genitori. Le
lingue dei segni, infatti, tipicamente non sono standardizzate, non sono trasmesse
di generazione in generazione, non sono collocate geograficamente e non sono
dotate di forma scritta, a differenza delle lingue vocali ad altissima circolazione.
Come hanno rilevato Cuxac e Antinoro Pizzuto (2010), la ricerca sulla lingua dei
segni si è orientata prevalentemente su modelli assimilazionisti, cioè costruiti su
lingue vocali dotate di una forma scritta e ad altissima circolazione, rilevando le
somiglianze piuttosto che le differenze, e studiando esclusivamente quella piccola
percentuale costituita da sordi segnanti nativi piuttosto che quei sordi che, nati in
famiglie udenti, apprendevano la lingua dei segni nelle età più diverse. I modelli di
analisi assimilazionisti applicati alle lingue dei segni vanno a caccia di analogie con
le lingue vocali, rilevando e descrivendo caratteristiche comuni alle due lingue piut-
tosto che individuare le peculiarità strutturali collegate alla modalità visivo-gestuale
come invece avviene nei modelli di analisi di Cuxac (2000, 2001), fondati sull’iconicità
come principio semiogenetico. Vari autori (Meier 2002 ; Cuxac & Antinoro Pizzuto,

2010) rilevano come nell’analisi dell’architettura delle lingue dei segni occorre tenere
in considerazione il fatto che i segnanti nativi costituiscono una piccola percentuale
rispetto ai sordi che hanno acquisito la lingua dei segni in diverse fasi della loro vita.
In questo contesto, l’interpretariato tra lingue vocali ad altissima circolazione e
lingue dei segni è un processo interlinguistico e inter-semiotico (Buonomo 2009 ;  

Buonomo & Celo 2010), che coinvolge rispettivamente due sistemi linguistici e
due modalità di comunicazione. 1 La traduzione interlinguistica è già un processo

1  Buonomo (2009) utilizza la griglia interpretativa di Jakobson (1966) e intende il processo tra-
duttivo tra una lingua dei segni e una lingua vocale come traduzione intersemiotica – o trasdu-
zione – anche se nella concezione di Jakobson tale fenomeno avviene tra due sistemi di segni non
linguistici.
tra segni e parole 69
molto complesso poiché, come sostiene Steiner (2004), implica l’attraversamento
di uno spazio storico e sociale, culturale tra varietà sociali di una stessa lingua, o
tra due lingue diverse utilizzate da culture lontane. Se la traduzione è implicita in
ogni atto comunicativo, allora ogni atto semiotico implica una traduzione, poi-
ché, anche nel contesto di un’unica lingua e cultura, occorre ‘tradurre’, nel senso
di convergere verso le esigenze linguistiche dell’altro. È evidente, tuttavia, che il
processo di traduzione tra lingua dei segni e lingua vocale apre nuove prospettive
teoriche, introducendo rinnovati tipi di traducibilità legati a nuovi tipi di pertinen-
za. Per questa ragione, tale processo presenta una serie di peculiarità sulle quali è
interessante soffermarsi in una cornice di natura linguistica e sociolinguistica.

2. Esperienza quotidiana della sordità


e architettura della lingua
Nonostante la presenza più o meno manifesta di un atteggiamento stigmatizzante
nei confronti della lingua dei segni, 1 la ‘scoperta’ della linguisticità di questa lingua

ha determinato una rivoluzione copernicana, avviando sul piano macrosociolingui-


stico un graduale ampliamento di prospettiva, che naturalmente ha avuto un forte
impatto sul piano micro-sociolinguistico e quindi sull’architettura della lingua. 2 Ap-  

pare chiaro, dunque, che la comunità dei sordi non è una comunità di stranieri ma
è un gruppo sociale senza alcuna collocazione geografica precisa, che si costituisce
intorno alla perdita uditiva, a una lingua, a una prospettiva positiva della sordità.
Infatti, la spinta costitutiva delle comunità dei sordi non è data soltanto dalla man-
canza dell’udito, ma anche dalla condivisione di una prospettiva della sordità diver-
sa e positiva, intesa come appartenenza a una minoranza linguistica. In quest’ottica,
i sordi si impongono primariamente come gruppo sociale che usa una data lingua,
contrapponendosi alla prospettiva medico-patologica, che considera la sordità co-
me una malattia da curare attraverso pratiche di tipo medico e percorsi educativi
‘normalizzanti’, ovverosia che mirano ad un’assimilazione alla cultura della mag-
gioranza attraverso l’educazione alla parola. La situazione socio-linguistica e cultu-
rale nella quale si trova una comunità stratificata che possiede un dato repertorio
linguistico, ove convivono due lingue in contatto linguistico sistematico, come la
lingua dei segni e l’italiano, incide in modo cruciale sul comportamento linguistico
del parlante in un dato evento comunicativo. La costruzione sociale della sordità
avviene, quindi, oltre che attraverso la condivisione della lingua dei segni, anche
in contrapposizione concettuale alla comunità degli udenti, la quale si fa veicolo di
‘oppressione’ ovvero di Audismo, 3 mettendo in atto approcci pietistico-benevolenti

1  L’universo dei sordi è estremamente differenziato al suo interno (Monaghan, Schmaling, Na-
kamura, Turner 2003 ; Leigh 2009) e comprende persone sorde che non sentono alcun senso di

appartenenza a tale distinto ‘mondo sordo’, che non utilizzano la lingua e dei segni, quando non
ne osteggiano apertamente, anche con azioni politiche mirate, l’insegnamento, l’utilizzo e la pro-
mozione, specie se, in discussione, sono strategie educative e modelli di integrazione scolastica
dell’alunno sordo (Bertling 1994).
2 ������������������������������������������������������������������������������������������������������
L’architettura della lingua è l’insieme delle coordinate di variazione sulla base di una serie di fat-
tori intesi come esterni alla lingua stessa, quali la situazione comunicativa, i partecipanti, l’obbiettivo
enunciativo, il canale utilizzato e le lingue del repertorio linguistico (Berruto 2006).
3  Termine attribuito al ricercatore Tom Humphreis, e in uso presso le comunità sorde, che
esprime un concetto complesso : in sintesi, una serie di atteggiamenti e pratiche che stigmatizzano

le persone sorde sulla base di una presunta superiorità dell’udire rispetto al non udire, non promuo-
70 sabina fontana · amir zuccalà
(Lane 1992), pratiche di normalizzazione e mascheramento delle differenze. A dif-
ferenza delle lingue verbali, che sono mantenute vive passando di generazione in
generazione, queste lingue sono conosciute ed utilizzate in prevalenza da sordi, che
nella maggior parte dei casi hanno genitori udenti. 1 Inoltre, spesso per la resistenza

dei familiari e dei centri di riabilitazione, i bambini apprendono la lingua dei segni
in epoca tardiva, anche se utilizzano in modo spontaneo una forma comunicazione
gestuale in associazione alla lingua orale (Caselli, Maragna & Volterra 2006).
I membri della comunità, contrariamente a quanto avviene in qualsiasi comunità
udente di minoranza, acquisiscono o apprendono la lingua dei segni nelle età più
diverse. La natura della trasmissione della lingua dei segni è prevalentemente oriz-
zontale (tra pari) e non verticale (di generazione in generazione). Infatti, la maggior
parte dei sordi apprende la lingua dei segni nella comunità da coetanei o da altri
adulti sordi. Soltanto una piccola percentuale della comunità è costituita da nativi,
che acquisiscono la lingua dai genitori nei tempi e nei modi dei bambini udenti. Si
potrebbe ipotizzare un continuum di varianti della lingua dei segni, tutte ugualmen-
te accettabili, che portano in qualche modo il segno del percorso educativo compiu-
to dall’utente e dell’età di accesso e di acquisizione/apprendimento della lingua dei
segni. Infatti, la lingua dei segni è una lingua con pochi bambini e questo, a nostro
avviso, ha un impatto sull’elaborazione di un concetto univoco di lingua dei segni e
di norma (Cuxac & Antinoro Pizzuto 2010). Nel repertorio linguistico della comuni-
tà, oltre alla lingua dei segni o a diverse varietà di lingua che portano in sé la traccia
dell’epoca di acquisizione, vi è anche l’italiano, una lingua che sfrutta una modalità
di comunicazione non accessibile per il sordo. L’italiano non è soltanto la lingua
della maggioranza, ma anche lingua dell’istruzione e della cultura, con un ruolo,
uno status e una funzione istituzionale riconosciuti, in cui le persone sorde svilup-
pano una competenza diversificata in base alle variabili in gioco, e cioè in base alla
natura della sordità e all’efficacia del percorso logopedico ed educativo in generale.
Nella maggior parte dei casi, i sordi non hanno una competenza paragonabile a
quella dei parlanti nativi nella lingua italiana poiché l’apprendimento di quest’ul-
tima è avvenuto in condizioni di input linguistico ristretto. 2 La definizione della

situazione linguistica dei sordi ha suscitato un ampio dibattito in letteratura, sin


da quando Stokoe, nel 1969, ipotizzò per essa una situazione di diglossia. Secondo
Ferguson (1959) una situazione diglottica si configura come :  

“una situazione linguistica relativamente stabile in cui, (…) vi è una varietà sovrapposta
molto divergente e altamente codificata (spesso grammaticalmente più complessa), veicolo
di un vasto e rispettato ‘corpus letterario’, (…) che viene appresa in larga parte per mezzo
dell’istruzione formale (…) ma che non è mai usata da nessun settore della comunità per la comu-
ne conversazione”. (Ferguson 1959)

vono l’abbattimento delle barriere della comunicazione e la diffusione delle lingue dei segni ma si
concentrano ossessivamente sul “parlare bene”, sul residuo uditivo e la labiolettura, diffondono una
visione prettamente patologica e negativa della sordità.
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Nel 90% dei casi i sordi nascono in famiglie di udenti, in Italia come nel resto dei paesi occiden-
tali (Maragna 2000).
2  L’apprendimento della lingua verbale avviene attraverso una lunga terapia logopedica e non
attraverso l’esposizione naturale, come nel caso dei bambini udenti. Inoltre, non è possibile para-
gonare tale processo all’apprendimento di una L2, proprio perché si tratta del caso unico di due
lingue che viaggiano su due diversi canali di comunicazione, uno dei quali è deficitario nel soggetto
apprendente.
tra segni e parole 71

Stokoe (1969) evidenziò come, nel repertorio linguistico della comunità, fossero
presenti sia l’American Sign Language, utilizzata nelle situazioni più informali, sia
il Manual English, cioè la lingua vocale supportata da segni, riservato a contesti più
formali, ma percepito come pedante e artificiale, se usato nella normale conversa-
zione. In effetti, se partiamo da una definizione di bilinguismo come compresenza
di due o più lingue nel repertorio linguistico della comunità « che si trovano su un

piano di reale parità sociale e non in rapporto verticale di lingua dominante a lin-
gua dominata » (Sgroi 1981, p. 223), la situazione dei sordi si può senz’altro definire

diglottica.
Tuttavia, nella descrizione della situazione linguistica della comunità sorda, si
dimentica spesso la natura artificiale dell’apprendimento dell’italiano, che avviene
attraverso un lungo iter logopedico e non attraverso una naturale esposizione alla
lingua. Per questa ragione, l’italiano dei sordi presenta alcune caratteristiche ricor-
renti che consistono in una certa rigidità lessicale, nella difficoltà nel padroneggia-
re alcune regole morfologiche e sintattiche della lingua. Inoltre, un accesso preclu-
so o difficoltoso alle informazioni ostacola ulteriormente o rende problematica la
comprensione della lingua, in particolare dei testi scritti (cfr. Caselli, Maragna &
Volterra, 2006 ; Maragna & Favia 1995). 1
   

Secondo Fontana (1998, 1999, 2009), a causa dell’artificialità dell’apprendimento


della L2, il repertorio sociolinguistico non può essere descritto come ‘bilinguismo
sociale’, ovvero come convivenza simmetrica di due lingue distinte ed elaborate
con differenze funzionali irrilevanti, ma rientra nel ventaglio delle ‘diglossie’ de-
scritte da Berruto (2004), configurandosi come ‘dilalia’ piuttosto che come diglos-
sia. In una situazione dilalica, le due varietà possono essere, come nella situazione
diglottica, lingue tipologicamente lontane o varietà con un grado variabile di dif-
ferenza strutturale. A differenza della diglossia, nella dilalia le due varietà vengo-
no usate nella conversazione quotidiana e presentano una chiara specializzazione
funzionale, poiché la varietà alta ‘A’ è anche la lingua presente in situazioni formali.
Nel caso del repertorio dei sordi, la varietà A dovrebbe essere l’italiano, mentre la
varietà bassa ‘B’ coincide con la lingua dei segni. Contrariamente a quanto ipotiz-
zato da Stokoe, la varietà A non può coincidere con la lingua vocale supportata da
segni, come l’italiano manuale o l’inglese manuale, 2 poiché non tutti i sordi pos-

siedono la necessaria competenza nella lingua vocale. Proprio per questo, in realtà,
è possibile descrivere l’italiano dei sordi in termini di varietà di apprendimento o
‘interlingua’, che si sviluppa nel contesto dell’apprendimento spontaneo di una
seconda lingua (Giacalone Ramat 1986). Le interlingue sono varietà di apprendi-

1 �������������������������������������������������������������������������������������������������
La lingua verbale è una lingua artificiale per i sordi, nel senso che utilizza un canale di comu-
nicazione che non è integro, cioè il canale acustico-vocale. Perché abbia successo un’interazione
con altri udenti questa richiede, oltre ad una buona competenza nella lingua verbale, il coinvol-
gimento di non più di due persone, che dovranno prendere la parola senza sovrapposizioni, una
scansione attenta dei vari elementi dell’enunciato, che dovrà mantenersi costante per tutta la durata
dell’interazione, una grande attenzione a non inserire elementi troppo colloquiali – o peggio dial-
ettali – e ad evitare movimenti o elementi che possano disturbare la lettura labiale. Tutto questo
richiede una grande attenzione, sia da parte dell’interlocutore che da parte dell’emittente, che al-
tera la spontaneità che caratterizza uno scambio comunicativo naturale.
2  L’inglese segnato ha la struttura della lingua parlata ma è supportata da segni della lingua dei
segni.
72 sabina fontana · amir zuccalà
mento che si sviluppano nel corso dell’apprendimento di una seconda lingua. Que-
sti sistemi si strutturano sulla base delle ipotesi dell’apprendente sulla L2 e sono
fortemente dinamici, poiché vengono ristrutturati nel caso in cui una data ipotesi,
ai vari livelli linguistici (fonologico, morfologico, sintattico, semantico) non venga
confermata. Nel caso dei sordi, poiché la lingua vocale viene acquisita in situazione
artificiale attraverso la logopedia, le competenze nella L2 sono diversificate in base
alla natura della perdita uditiva, all’efficacia del percorso di educazione logopedica
e scolastica e alla qualità e quantità delle interazioni con persone udenti. Si potreb-
be ipotizzare un continuum in cui, da una parte, si rappresenta la totale assenza di
competenza nella lingua vocale e, all’estremo opposto, una competenza parago-
nabile a quella dei nativi udenti. In questo continuum, la varietà di ogni sordo si
colloca in vari punti, a seconda del suo livello di competenza (Fontana 1998 ; 1999).  

Pertanto, a nostro avviso, nella definizione del repertorio linguistico a disposizione


dei sordi, occorre tenere in considerazione il fatto che ogni sordo utilizza una sua
varietà di apprendimento con caratteristiche diversificate. A differenza delle inter-
lingue descritte per le persone udenti, la varietà usata dai sordi presenta un grado
marcato di fossilizzazione proprio per l’inaccessibilità del canale acustico vocale
per il sordo. In altre parole, rispetto gli apprendenti udenti una L2, le persone sor-
de hanno meno input di lingua vocale e quindi minori possibilità di riformulare il
proprio sistema sulla base delle interazioni con i nativi udenti. 1 Inoltre, occorre

collegare la nozione di diglossia con sfumatura dilalica ad uno status sociale di


prestigio di una data varietà in uso presso una comunità.
“C’è diglossia (versus bi- e pluri-linguismo) ogni qualvolta un idioma (dialetto, lingua, parla-
ta alloglotta etc.) del repertorio di una comunità gode, soggettivamente ed oggettivamente,
di uno status sociale diverso, superiore rispetto agli altri (…). Come si vede, il concetto di
diglossia non è neutro 2 poiché è legato allo status sociale di un idioma che garantisce l’avan-

zamento sociale, in quanto di prestigio” (Sgroi 1981 : 214). 

La misurazione dello status sociale di una lingua avviene non soltanto attraverso le
funzioni della stessa (lingua letteraria e scientifica, oltre che lingua delle istituzioni
e dell’istruzione), ma anche attraverso gli atteggiamenti dei parlanti nei confronti
delle due lingue. Come si è detto, allo stato attuale, molti sordi non possiedono la
consapevolezza che la loro lingua sia una vera e propria lingua, né che la comunità
a cui appartengono sia una minoranza linguistica. Inoltre, esiste una grande va-
riabilità e stratificazione all’interno della comunità stessa, 3 nell’ambito della quale

la storia individuale dell’apprendimento della lingua dei segni varia persona per
persona. Un ulteriore aspetto di cui occorre tenere conto, nel momento in cui si
guarda all’equilibrio tra le due varietà nella situazione dilalica dei sordi, è la lingua
di socializzazione primaria, ovvero la lingua materna. Tipicamente, nelle situa-
zioni dilaliche classiche, la lingua di socializzazione primaria è la varietà A, ma in

1  Fontana (1998 ; 1999) sostiene che la fossilizzazione dei sistemi di apprendimento delle persone

sorde dipende anche dalla natura e dalla qualità dell’input delle persone udenti, i quali tendenzial-
mente si rivolgono alle persone sorde utilizzando un registro semplificato o foreigner talk.
2 ���������������������������������������������������������������������������������������������
“Si può dare bilinguismo senza diglossia quando le due lingue diverse siano usate nella comu-
nità sullo stesso piano, senza significative e costanti differenze funzionali” (Berruto 1974, p.80)
3  Ogni Sordo ha una storia diversa che include variabili quali : il grado di sordità, la famiglia,

l’accettazione o meno della disabilità, il tipo di scelta educativa – se oralista o aperta alla lingua dei
segni – la scuola e gli insegnanti, la terapia logopedica, i contatti con i sordi, per citarne solo alcune.
tra segni e parole 73
questo caso, poiché l’italiano è lingua appresa in un contesto formale e artificiale,
la varietà B possiede le potenzialità di diventare lingua materna nel caso in cui la
trasmissione è naturale e quindi verticale (di generazione in generazione), piutto-
sto che orizzontale (tra pari) (Fontana 2009).
Come si vede, dunque, la comunità dei sordi è estremamente stratificata nella
percezione e nell’uso della lingua dei segni. Accanto ai sordi segnanti nativi, i quali
costituiscono una minoranza ristretta, vi sono sordi che hanno acquisito la lingua
dei segni in momenti ed in contesti diversi. Alcuni sordi hanno vissuto all’interno
delle scuole speciali, altri hanno sperimentato l’inclusione nelle classi delle scuole
comuni. In generale, ancora oggi la percezione della linguisticità della lingua dei
segni nei vari membri della comunità è notevolmente diversificata, e si può riassu-
mere anch’essa attraverso un continuum. Da una parte, si colloca una prospettiva
estremamente negativa (lingua dei segni come ‘non lingua’), che si riscontra spes-
so sia fra gli utenti di LS che fra coloro che sono stati inseriti in programmi oralisti
normalizzanti. All’estremità opposta, si colloca una percezione della lingua dei se-
gni come diritto, che si traduce spesso in una politica di lobby molto attiva.
Pertanto, in estrema sintesi, le peculiarità della situazione sociale e linguistica
disegnano uno scenario atipico in relazione ad una serie di variabili collegate ai vari
livelli di uso della lingua nel contesto micro e macro-sociolinguistico, in relazione
ad altre lingue eventualmente presenti nel repertorio linguistico della comunità, e
in relazione, infine, ad un concetto di status e di prestigio, nel contesto del quale,
come si è detto, la figura dell’interprete riveste un ruolo che va al di là della tra-
duzione.

3. Il ruolo dell ’ interpretariato nella costruzione


dell ’ architettura della lingua
La nascita dell’interpretariato di lingua dei segni come professione entra in gio-
co in modo complesso in un percorso di rivendicazione linguistico-culturale delle
persone sorde. Dal senso di appartenenza ad un gruppo sociale e dalla contrappo-
sizione ad una collettività percepita come opprimente (Lane 1992 ; 2005 ; Ladd 2003)
   

nasce l’ipotesi della comunità, la cui identità culturale viene collettivamente ‘in-
ventata’ (Wagner 1992 ; Remotti 1996 ; Zuccalà 2000 ; Bauman & Bauman 2003). In
     

quest’ottica, l’interpretariato è prima di tutto un indicatore di processo, cioè indica


il livello di consapevolezza e di autodeterminazione che ha maturato la comunità
stessa. Infatti, prima di divenire professione, il ruolo dell’interprete è stato ricoper-
to generalmente dal familiare – in particolare i figli dei genitori sordi – e da colle-
ghi, amici, conoscenti, con il generico compito di facilitare, mediare e sostenere la
comunicazione con il mondo udente circostante e maggioritario. In uno scenario
in cui la persona sorda è inserita quotidianamente in un sistema comunicativo/
relazionale di forte svantaggio, i rapporti di potere divengono evidenti e orien-
tano l’interazione con la società di maggioranza, poiché riflettono una costante
dipendenza da figure che non si limitano alla ‘traduzione’ di discorsi – operazione
già tutt’altro che neutra – ma orientano, supportano, riempiono vuoti di senso,
spiegano e chiariscono contesti e situazioni. Tali figure, pur conoscendo ‘i gesti
e la mimica’ che i sordi usano per comunicare, operano come trait d’union con il
mondo degli udenti, non possedendo, però, quella preparazione necessaria al man-
tenimento di una posizione quanto più neutrale e di non intervento nei processi
74 sabina fontana · amir zuccalà
informativi e decisionali della persona sorda. L’assistente-traduttore, inoltre, non
sempre possiede una solida competenza in lingua dei segni, ma semplicemente un
maggiore controllo della modalità visivo-gestuale, che lo rende in grado di facilita-
re la comunicazione tra la persona sorda e le persone udenti.
Negli anni, la comunità sorda ha intrapreso un percorso di affrancamento da tale
commistione di ruoli, obiettivi e competenze. Gradualmente, infatti, sono andati
delineandosi il ruolo, l’attività, le norme e i contesti in cui tale recente professione
opera, anche in virtù delle attività delle associazioni di categoria 1 che investono

su di una sempre maggiore professionalizzazione dell’Interprete di Lingua dei Segni


Italiana e sulla definizione e standardizzazione dell’iter formativo abilitante. Allo
stesso tempo, l’avvio di un processo di consapevolezza linguistica e di empowerment
della comunità sorda ha determinato un passaggio da ‘assistito’ a ‘utente’, con un
conseguente slittamento di prospettiva, che va rendendo la persona sorda meno
dipendente dal contingente, più consapevole delle proprie scelte e valutazioni in
merito alla designazione di professionisti ritenuti più competenti di altri e/o più
‘vicini’ allo stile comunicativo del committente.
Un esempio di questo fenomeno di transizione si può trovare in Riley (1991, p.
846) nell’ambito di un’analisi del processo dell’interpretariato dal punto di vista
dell’utente : 

“As more and more Deaf people become involved in conferences, meetings etc, it’s now
coming to light that many interpreters are, sadly to say, inadequate to do justice to the Deaf
persons’ presentation. This could be because the interpreter is unable to comprehend the
Deaf person as they may be using BSL [British Sign Language] or even SSE [Support Signed
English] with new vocabulary. Their choice of English may be of poor standard. It’s been
the case where my English has been better than the interpreters’”.
Fino ai primi anni ’80, la maggior parte dei membri della comunità sorda non
riconosceva la propria lingua come tale, ma come una forma di comunicazione
tanto necessaria quanto inadeguata rispetto alle lingue vocali. L’effetto di questa
percezione si traduceva nel limitare l’uso della lingua dei segni alla comunicazio-
ne informale tra sordi, mentre, in contesti più formali, si tendeva a scegliere una
forma segnata, ovvero una lingua vocale supportata da segni che ricorreva alla dat-
tilologia (cioè l’alfabeto manuale) quando si trovava davanti ad un vuoto lessicale.
In altre parole, l’uso della lingua dei segni non era sentito appropriato in situazioni
informali, perché era diffusa la convinzione che la lingua dei segni non avesse una
struttura. Soltanto recentemente, con la graduale crescita di una consapevolezza
linguistica, si sono moltiplicati i contesti nei quali è stata utilizzata la lingua dei
segni per garantire, attraverso l’interpretariato, l’accesso ai contenuti trasmessi.
Pertanto, il mutamento di percezione della lingua dei segni da parte degli stessi
utenti che, da ‘sistema di gesti’ senza neanche un nome (Corazza & Volterra 2008)
diviene lingua della comunità sorda, pur con una identità nazionale condivisa con
gli udenti, determina una rivoluzione nella stratificazione sociale della lingua stes-
sa che, come si è detto, era appiattita al livello informale. I dislivelli nel lessico delle
due varietà sembrano avere caratterizzato per lungo tempo le lingue dei segni a

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Associazioni di Interpreti della Lingua dei Segni Italiana, Associazioni Internazionali di In-
terpreti di Lingua dei Segni e Associazioni che tutelano le persone Sorde come l’Ente Nazionale
Sordi
tra segni e parole 75
causa della emarginazione sociale e culturale, dei sordi. Oggi, un maggiore acces-
so all’educazione e alla vita sociale e culturale ha consentito ai sordi di accedere a
informazioni che prima sembravano essere solo appannaggio degli udenti, con un
benefico arricchimento della lingua.
Attraverso l’ampliamento delle dimensioni d’uso della lingua dei segni, l’archi-
tettura della lingua si è arricchita di nuove dimensioni della comunicazione segna-
ta che, sull’asse formale/informale, prevedono una molteplicità di variabili legate
alla situazione, al livello socio-culturale e al livello diatopico.
La lingua dei segni viene utilizzata sempre di più in contesti formali, ponendo
costantemente l’interprete di fronte all’urgenza di colmare i vuoti lessicali di una
lingua finora confinata al livello informale. Di fronte a questa impellente necessità,
per evitare scelte traduttive improprie e poco accettabili sul piano strutturale, all’in-
terno dei servizi di interpretariato ad alto contenuto professionale 1 si è stabilizzata

l’abitudine di coinvolgere l’utente nell’atto traduttivo. Pertanto, nell’espansione


del vocabolario, la coniazione di nuovi segni nasce attraverso un confronto e uno
scambio tra interprete e fruitore del servizio, il quale viene sistematicamente coin-
volto nel processo di traduzione e di mediazione intersemiotica nella scelta della
soluzione traduttiva, a differenza di quanto accade nell’interpretariato tra due lin-
gue vocali ad alta circolazione. Prima di effettuare il servizio di interpretariato, l’in-
terprete sottoporrà alla persona sorda eventuali difficoltà legate alla traduzione di
quei lessemi per i quali non esiste, ad esempio, un equivalente lessicale, o di quegli
enunciati particolarmente problematici perché di natura metaforica, ad esempio.
In questo senso, la traduzione è un processo che modella i tratti di entrambe le lin-
gue coinvolte. Tradurre significa riconfigurare sia la lingua di partenza che quella
di arrivo, poiché, mettendole in correlazione, si compie un’azione pertinentizzan-
te degli elementi della L1 per esemplificarli nella L2 e, così facendo, si introducono
nella L1 elementi della L2 (Hagège 1985). Se pensiamo alla traduzione di trolley in
italiano come ‘valigia con le ruote’, ci rendiamo conto che la trasformazione pro-
dotta dalla traduzione non agisce solo sul significante ma anche e soprattutto sul
significato, conducendo a sua volta ad una riformulazione del significante stesso.
Allo stesso modo, l’azione prodotta dalla traduzione tra lingua dei segni e lingua
vocale, da una parte, agisce come pressione evolutiva sulla lingua dei segni, col-
mando vuoti lessicali e ampliando le dimensioni d’uso ; dall’altra, retroagisce sulle

lingue vocali in termini di riflessione sul significato delle parole. Infatti, nel proces-
so di traduzione, si rimodellano i significanti per il semplice fatto che, in qualche
modo, la traduzione introduce i tratti di un’altra lingua che usa un’altra modalità.
L’impatto di tale processo è piuttosto complesso : da una parte, determina l’am-

pliamento delle opzioni lessicali della lingua dei segni e, parallelamente, l’accesso
a nuovi contenuti da parte dei sordi ; dall’altra, avvia, in un contesto micro-sociale,

una riflessione metalinguistica congiunta, mettendo a confronto l’interprete e il


sordo nell’analisi e nella sostenibilità dei percorsi strutturali di espansione del voca-
bolario (vedi anche Petitta e Del Vecchio su questo volume). Tali operazioni sono
estremamente contingenti e legate a un bisogno traduttivo che emerge nello spa-

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Da distinguere rispetto all’impatto dei servizi di interpretariato ancora oggi effettuati da per-
sone poco competenti, che non sempre possiedono la necessaria consapevolezza teorica e com-
petenza nella lingua dei segni per affrontare problemi di natura semiotica e semantica.
76 sabina fontana · amir zuccalà
zio di un convegno, un seminario, etc., o, più generale, di un contesto formale, ma
producono nelle persone sorde utenti del servizio, nei sordi coinvolti nel servizio e
negli interpreti, effetti a lungo termine se la scelta traduttiva si rivela felice, poiché
tale segno viene legittimato dal consenso sociale e accolto nel sistema. Pertanto,
da atto individuale, la scelta traduttiva transita nella dimensione collettiva della
lingua attraverso il moltiplicarsi delle occasioni e dei contesti di interpretariato.
L’interpretariato contribuisce a quel processo di standardizzazione che passa an-
che attraverso la presenza in TV, anche se timida, di spazi e traduzioni in lingua dei
segni e l’ampliamento delle possibilità di incontro e di scambio tra i membri della
comunità, sia mediante la partecipazione ad eventi sociali che attraverso i sistemi
di videocomunicazione (software per le video chat : ooVoo, Skype), videosharing (vlog-

sordi ; youtube), social network (Facebook ; Twitter).


   

La crescita delle dimensioni di uso della lingua aumenta in modo esponenziale


le possibilità di crescita sociale della comunità e quindi delle dimensioni di varia-
zione sociale della lingua sull’asse diafasico, formale/informale, diastratico (colto/
incolto) e infine diatopico, favorendo la standardizzazione di questa lingua su tutto
il territorio nazionale. I problemi posti dall’interpretariato ‘costringono’ le persone
sorde e gli interpreti ad una continua riflessione metalinguistica, che, a sua volta,
ha una serie di ripercussioni importanti non soltanto sul piano della percezione
della lingua, coinvolgendo i sordi stessi come protagonisti nell’espansione lessicale
della loro lingua, ma anche sul piano didattico, nell’insegnamento della lingua dei
segni e nella formazione di nuovi interpreti.

4. Conclusioni
Oltre a svolgere una funzione cruciale nelle dinamiche di definizione dei confini
della comunità e di rivendicazione dei diritti, l’interpretariato gioca un ruolo im-
portante nel processo di riflessione metalinguistica e nella crescita delle dimensioni
sociali della lingua in cui sono coinvolti utenti ed interpreti a confronto con il pro-
cesso traduttivo. L’interpretariato tra la lingua dei segni e la lingua vocale è un pro-
cesso che coinvolge non soltanto due culture di scala diversa (minoranza linguistica
e maggioranza) ma anche due lingue fatte di materia diversa (vocale e gestuale).
Non si tratta soltanto di un evento interlinguistico, ma anche intersemiotico e tran-
sculturale (cfr Buonomo 2009). L’interprete, quindi, è risorsa di inclusione e accessi-
bilità anche nella misura in cui diviene strumento politico per evidenziare un’alte-
rità subordinata ad una maggioranza udente e dominante, veicolo per tentare un
rovesciamento di prospettiva e riequilibrare i rapporti di potere, attenuando la forza
magica della parola (Ong 1970) mediante la ‘proposta visiva’ di un interlocutore non
più disabile/deficitario da assistere, curare e normalizzare, ma di uno ‘straniero’,
utente di una lingua ‘altra’, e con una propria specifica identità e ricchezza culturale.

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