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Felice Cimatti
Il taglio
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Quodlibet
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Indice
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7 Premessa
2. La zecca e l’uomo
31 1. «Ambiente» e «mondo»
34 2. Esiste un «ambiente» umano?
39 3. Linguaggio e mancanza
44 4. Angoscia e «mistico»
«Parlessere»
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6 indice
Dalla
parola al corpo
5. Per un’estetica del reale
95 1. Parola e immagine
99 2. E poi?
104 3. A grande a piccolo
109 4. «Un significante nuovo»
133 Bibliografia
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Premessa
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8 premessa
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premessa 9
è superata, la paura non c’è più, il disagio svanisce. Ma non c’è nes-
sun sollievo per la sensazione che si prova quando la parola parla,
ma non riusciamo a capire che dica, in realtà, quella parola. Il dubbio
che produce questa sensazione è senza rimedio. Il piccolo umano ha
bisogno di amore e di parole. Il primo, se lo riceve, lo tranquillizza, le
seconde, che arrivano comunque, lo turbano. Secondo lo psicoanali-
sta Jean Laplanche l’inconscio, nell’animale umano, è ciò che rimane
di incompreso e quindi rimosso delle parole che il neonato riceve, e
non comprende. L’umano ha un inconscio solo perché è un corpo
che parla. L’inconscio è la traccia del linguaggio nel corpo umano. È
il taglio del linguaggio. È un taglio perché, letteralmente, lo taglia in
due: da una parte c’è il corpo che sente, che vede e agisce, così come
è ogni corpo vivente; dall’altro c’è l’inconscio, che è un’incertezza che
nessuna rassicurazione potrà mai placare. L’inconscio è un domanda,
che non è che l’ennesima ripetizione della prima domanda che il pic-
colo umano pose a sé stesso – “che significano queste parole?” – una
domanda che non ammette risposta, perché “sa” istintivamente che
quelle cose sono parole, ma non sa (ancora) quale sia il loro signi-
ficato. Per questo non è una domanda, bensì, propriamente, è un
enigma, cioè appunto una domanda che non ammette risposte. Un
enigma non è altro che un inarrestabile generatore di altre domande,
di altri dubbi, di ulteriori insicurezze. Il corpo umano, il corpo segna-
to dal linguaggio, è il corpo dell’enigma.
All’inizio, allora, c’è – come lo chiama Laplanche – un «messaggio
enigmatico». All’inizio c’è una cosa che rimanda a qualcos’altro, ad
un senso, che tuttavia non è possibile afferrare. Questa prima cica-
trice, perché è dolente come una scottatura, come una ferita aperta,
un altro psicoanalista – Jacques Lacan – la chiama «S[ignificante]1»,
dove quell’uno mette appunto in evidenza che tutto comincia in que-
sto momento, da una parola che parla, e quindi si aspetta una rispo-
sta, e che tuttavia non si comprende, che per questa ragione innesca
– come una reazione a catena – uno «spostamento che non cessa
mai» (Lacan, 1991, trad. it. 2001, p. 181).
L’animale umano, l’animale tagliato del linguaggio, è esattamente
questo «spostamento che non cessa mai». In un ricordo di Kafka – ri-
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10 premessa
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1. Psicoanalisi e natura umana
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1. Homo psycho-analiticus
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sensi; perché se l’adulto non c’è il piccolo non sopravvive, perché non è
necessario che l’adulto sia anche uno dei genitori del piccolo (ciò che è
reso in modo ancora più evidente oggigiorno che le biotecnologie per-
mettono la nascita di esseri umani anche da un corpo che non è quello
della madre, come si sarebbe detto un tempo, naturale). All’inizio c’è
una relazione di cura, un adulto e un neonato della specie umana. Ora,
si chiede Laplanche, che tipo di relazione si stabilisce fra questi due
organismi? Il pregiudizio relazionale (ed ermeneutico) di questi anni
vorrebbe che si trattasse di una relazione reciproca e simmetrica; ma
appunto questo è solo un pregiudizio. In realtà si tratta di una relazio-
ne fortemente e strutturalmente asimmetrica: infatti da un lato c’è un
adulto «che ha un inconscio così come è stato scoperto dalla psicoana-
lisi, un inconscio sessuale, essenzialmente fatto di residui infantili, un
inconscio perverso nel senso dei Tre saggi sulla teoria sessuale» (Ivi, p.
95); dall’altro c’è un bambino «che non ha montaggi sessuali genetici,
che non ha attivatori ormonali della sessualità» (Ivi, p. 95). Fra questi
due organismi, al di là di eventuali casi di seduzione patologica, «si
sviluppa un dialogo, una comunicazione adulto-infans» (Ivi, p. 96); un
dialogo non esplicitamente linguistico, tutto corporeo, fatto di gesti e
sguardi. Un dialogo, però, affatto asimmetrico, perché mentre l’adulto
è un organismo «affetto da un inconscio» (Ivi, p. 88), l’infans ne è an-
cora privo. La «situazione antropologica fondamentale» è quella in cui
assistiamo letteralmente ad un «impianto» (Laplanche, 1992, 1997,
trad. it. 2000, p. 451) dell’inconscio dell’adulto nella psiche/corpo del
piccolo sapiens. Un «impianto» che può avvenire proprio perché la
particolare costituzione biologica dell’animale umano ha predisposto
lo spazio – quello che abbiamo definito come intervallo pulsionale
– prima dell’arrivo dell’istinto, all’interno del quale lo potesse acco-
gliere. All’inizio c’è allora un «messaggio» non verbale, implicito, che
arriva dall’adulto, un «messaggio […] parassitato […] disturbato» che
proviene dall’«inconscio infantile dell’adulto, nella misura in cui la
situazione adulto-infans è una situazione che riattiva queste pulsioni
inconsce infantili» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 96).
Per Laplanche l’inconscio del piccolo sapiens nasce in questo
incontro («genesi esogena dell’inconscio», Laplanche, 1992, 1997,
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1. psicoanalisi e natura umana 21
trad. it. 2000, p. 17), un inconscio che non è cioè precedente alla
«situazione antropologica fondamentale». E nasce attraverso questa
«esperienza di seduzione» (Ivi, p. 73) a cui nessun umano sfugge né
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Figura 1
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1. psicoanalisi e natura umana 25
ogni pratica medica. Secondo questa visione della natura umana c’è
un compito, per l’umano. Se all’inizio c’è un messaggio enigmatico,
un messaggio che turba e sollecita una ulteriore domanda, a cui perè
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1. psicoanalisi e natura umana 27
Figura 3
Non sarà un caso, allora, che lo stesso Lacan, per spiegare questa
formula, ricorra all’esempio di un segno enigmatico, cioè un oggetto
che si riconosce come artefatto semiotico, ma il cui senso è incom-
prensibile: «supponete di scoprire nel deserto una pietra coperta di
geroglifici. Voi non dubitate nemmeno per un momento che dietro ci
sia stato un soggetto che li ha scritti. Ma credere che ogni significante
sia indirizzato a voi, è un errore – come prova il fatto che potete non
capirci niente. Invece li definite come significanti, perché siete sicuri
che ciascuno di questi significanti si rapporta a ciascuno degli altri. Di
questo si tratta nel rapporto del soggetto con il campo dell’Altro» (Ivi,
pp. 201-202). C’è un deserto, uno spazio vuoto, e poi appare questo
oggetto, una pietra su cui sono tracciate linee misteriose; qualcuno le
avrà tracciate, queste linee, ci sarà stata un’intenzione, dietro di esse.
Ed ecco che dal soggetto ci muoviamo verso un altro significante, al-
lora. E così, prosegue Lacan, «il soggetto nasce in quanto nel campo
dell’Altro sorge il significante. Ma, per questo stesso fatto, ciò – che
prima non era nulla, se non soggetto a venire – si fissa come signifi-
cante» (Ivi, p. 202). Perché il soggetto è questo movimento, generato
da un significante intradotto, verso un ulteriore significante che possa
servire per disambiguare il primo. Ma questo movimento non è quello
dell’ermeneutica, che si compiace di non essere altro che questo stes-
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2. La zecca e l’uomo.
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1. «Ambiente» e «mondo»
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Krutzen 2009, nel Seminario XVII, lezione del 21 gennaio 1970, nel
Seminario XIX, lezione del 9 febbraio 1972, fra i seminari pubbli-
cati. All’interno di quelli non ancora pubblicati Lacan si riferisce a
Wittgenstein nel Seminario IX, lezione del 15 novembre 1961, e nel
Seminario XIV, lezione del 18 gennaio 1967), quindi non è delle cor-
rispondenze esplicite fra i due autori che ci occuperemo in questo ca-
pitolo. Quello che ci interessa è la vicinanza teorica fra Wittgenstein
e Lacan. Una vicinanza che nasce dal fatto che per entrambi (insieme,
forse, a Heidegger, ma non con la loro stessa nettezza) non c’è umano
senza linguaggio. Wittgenstein e Lacan, in particolare, hanno prova-
to a pensare quello che desidera un corpo segnato dal “no”. Perché
il “no” divide: corpo e mente, soggetto e oggetto, dentro e fuori. Il
desiderio ultimo dell’animale che parla è trovare un modo per uscire
da questa condizione di costitutiva separatezza.
Homo sapiens è un animale come tutti gli altri. E come tutti i
viventi è adattato ad un ambiente particolare (von Uexküll, 1934).
Ogni specie vivente è infatti adattata ad un «ambiente» specifico
(Gibson, 1966). Questo significa che ogni animale viene al mondo
con una serie (innata) di predisposizioni che gli permettono di “in-
castrarsi” in modo efficace al suo interno (come le pinne dei pesci
all’ambiente acquatico (v. Figura 1); da notare che per ora non è
necessario precisare chi sia il vivente e quale sia l’ambiente, perché
questa distinzione, da un punto di vista biologico, è secondaria, ri-
spetto al primato della relazione):
Figura 1
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2. la zecca e l’uomo 33
Figura 2
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tutti i possibili odori e profumi del mondo soltanto uno attira la sua
attenzione, l’acido butirrico appunto, che rappresenta per la zecca
un «segno percettivo» (Merkzeichen) che innesca un comportamento
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Figura 4
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3. Linguaggio e mancanza
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40 il taglio
Vi avevo detto […] che non esiste mancanza nel reale, che la mancanza
può essere colta solo tramite il simbolico. Rispetto alla biblioteca possiamo
dire: Qui, il tale volume manca al suo posto. Si tratta di un posto designato
dall’introduzione preliminare del simbolico nel reale. Per questo, il simbolo
colma facilmente la mancanza di cui sto parlando, in quanto indica il posto,
indica l’assenza, presentifica ciò che non c’è (Lacan, [1962-1963] 2004, trad.
it. 2007, p. 143).
Nel reale «non esiste mancanza». Il reale è pieno, non ci sono la-
cune all’interno del tessuto spazio-temporale. È così che la zecca, o la
formica, percepisce il proprio ambiente, senza soluzioni di continui-
tà, senza desideri o rimpianti, c’è quello che c’è, niente di più niente
di meno. Per riuscire a “vedere” quello che manca, invece, occorre
osservare il reale dal punto di vista del «simbolico», cioè del linguag-
gio. L’esempio di Lacan è molto chiaro: in una biblioteca si trovano
molti libri, ognuno identificato da un numero di collocazione. Su
uno scaffale ci accorgiamo che, dopo il numero n, manca il libro con
il numero n+1, mentre troviamo invece il libro con il numero n+2.
C’è una lacuna nella numerazione, manca qualcosa. In effetti qui è
la sequenza dei numeri – ogni numero progressivo è il contrassegno
di un libro distinto – che determina l’aspettativa che dopo il numero
n segua n+1; siccome non lo troviamo, e saltiamo invece a n+2, ar-
riviamo alla conclusione che manca qualcosa, manca appunto n+1.
Nel regime del «simbolico» ad ogni «significante» ci aspettiamo che
corrisponda qualcosa, anche se questo qualcosa non esiste realmen-
te. Siamo arrivati al «posto» del segno n+1, però sullo scaffale non
troviamo nulla, ecco che sotto i nostri occhi si forma una assenza
(il libro mancante): “il libro n+1 non c’è” diciamo. Eccolo, il «fatto
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2. la zecca e l’uomo 41
scaffali; ma oltre a tutti i libri che ci sono, ci “sono” anche quelli che,
in realtà, non ci sono (non ci sono più, in questo caso): “il libro n+1
non c’è” trova spazio nei nostri pensieri anche se quel libro non c’è,
proprio perché non c’è. Nel «mondo» di quella biblioteca ci sono
molti libri, ma nella sua «realtà» umana ce ne sono di più, ci sono
anche quelli che al suo interno non ci sono.
L’animale umano è quel vivente che costruisce sé stesso a partire
da questa scoperta: mentre la zecca, e ogni altro vivente non segnato
dal linguaggio proposizionale (quello che contiene la negazione), è
alle prese con un mondo in cui c’è solo ciò che effettivamente c’è,
per Homo sapiens c’è anche la «mancanza», che è «radicale, radi-
cale nella costituzione stessa della soggettività» (Ivi, p. 145). Nella
«realtà» umana (distinta dal «mondo») la «mancanza» è “presente”
quanto l’acido butirrico per la zecca, o il gatto per il topo, o la parete
cellulare per un virus.
Una delle prime, e più controintuitive, conseguenze di questa si-
tuazione, è che il linguaggio in realtà non è uno strumento che favo-
risce l’adattamento al mondo (come vorrebbe il luogo comune evo-
luzionistico; cfr. Pinker, Bloom, 1990), al contrario, è un formidabile
agente di disadattamento (Zenoni, 1999). Si pensi ancora una volta
al caso della zecca: nel suo «ambiente» non ci sono sorprese, cioè
non si verificano situazioni affatto impreviste. Possono esserci sor-
prese “locali”, ad esempio l’albero su cui si trova viene abbattuto dal
vento, ma non può accadere nulla che la zecca non possa affrontare.
Per i problemi che pone l’«ambiente» esiste già una soluzione; la zec-
ca non deve inventare nulla, essere una zecca significa appunto saper
già, prima ancora di nascere, come risolvere il tipo di problemi che le
pone il suo «ambiente» naturale. Con l’entrata in campo del «fatto
negativo», al contrario, si presentano all’animale umano situazioni
sempre nuove e imprevedibili; la selezione naturale può “prevedere”
il problema della riproduzione per la zecca, ma non può prevedere
come affrontare il “problema” posto dalla proposizione “oggi il cielo
non è terso”. Il tipico problema umano non ha a che fare con quel
che c’è, bensì con quel non c’è. L’antropologia filosofica comincia
con la constatazione della «distinzione radicale tra il mondo e il luo-
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4. Angoscia e «mistico»
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Figura 5
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tutto quello che posso pensare, e siccome la forma dei miei pensieri
è «“<p> dice p”», io sono tutto ciò che posso dire. Il soggetto è que-
sta coincidenza di linguaggio e pensiero; per questa ragione, perché
non rimane nient’altro di psicologico, «il soggetto non è parte, ma
limite del mondo» (§ 5.632). Il soggetto non è una cosa nel mondo,
come invece è la zecca sull’albero; il soggetto arriva fin dove arriva il
suo linguaggio (e quindi i suoi pensieri), per questo è un «limite». Il
soggetto allora svanisce: «appare qui che il solipsismo, svolto rigoro-
samente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae
in un punto inesteso e resta la realtà ad esso coordinata» (§ 5.64).
Il soggetto «si contrae in un punto inesteso»: c’è un qualcosa che
non è niente. È la stessa conclusione a cui giunge Lacan, e non sor-
prende, visto che la sua premessa è identica a quella di Wittgenstein:
non c’è Homo sapiens senza linguaggio (ad una conclusione analoga
arriva, peraltro, chiunque, ad esempio Vygotskij, leghi strettamente
corpo e linguaggio). Nella simbologia lacaniana questo «punto ine-
steso» viene indicato con la lettera a. Lacan parla di a piccolo in con-
trapposizione ad un A grande, che è il linguaggio (il Simbolico), che
è sempre altro rispetto al soggetto (nel senso che lo precede, a partire
dal fatto elementare che ogni umano riceve un nome prima di na-
scere). In effetti anche per Wittgenstein il soggetto è in una relazione
di completa subordinazione rispetto al linguaggio. Senza linguaggio
non ci sarebbe nessun soggetto, infatti:
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2. la zecca e l’uomo 47
l’angoscia è questo taglio – questo taglio netto senza il quale la presenza del
significante, il suo funzionamento, il suo solco nel reale sono impensabili –, è
questo taglio che si apre e lascia apparire […] l’inatteso, la visita, la notizia, ciò
che il termine presentimento esprime così bene. Questo non è semplicemente
da intendere come il presentimento di qualcosa, ma anche come il pre-senti-
mento, ciò che precede la nascita di un sentimento (Ivi, pp. 82-83).
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3. Linguaggio e pulsione di morte
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1. Istinto e pulsione
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schema riproduttivo per intero. Il maschio si insedia nel territorio e i suoi eri-
trofori [cellule che contengono granuli di pigmento rosso] si espandono; esso
reagisce agli estranei combattendo e comincia a costruirsi un nido. Però, men-
tre tanto la costruzione del nido quanto il combattimento dipendono dall’at-
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tivazione della pulsione riproduttiva nel suo insieme, nessun osservatore può
predire quale dei due schemi sarà esibito in un dato momento. Il combattimen-
to, ad esempio, deve essere scatenato da uno stimolo specifico, e cioè “maschio
rosso nell’atto di invadere il territorio”. La costruzione del nido non è attivata
da tale situazione, ma dipende da altri stimoli (p. 155).
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3. linguaggio e pulsione di morte 57
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3. linguaggio e pulsione di morte 61
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62 il taglio
però allo stesso tempo rende ogni cosa come evanescente e mortale
(Agamben, 1982; Green, 1993; Oberst, 2009; Cimatti, 2010; Han-
sen, 2011; D’Alonzo, 2013). I viventi muoiono da prima che esista
il linguaggio, non è questo che ha introdotto la mortalità nel mondo
della vita. Il linguaggio però rende gli umani plasticamente consape-
voli della radicale caducità di tutto ciò che avrebbero tanto preferito
pensare come eterno e indistruttibile. Basta un “non”, ed anche un
bambino si accorge che nulla resiste alla corrosione del tempo. La
madre del nipote di Freud comincia a morire la prima volta che il
figlio gioca con il suo terribile “o–o–o”; ma non solo la madre, anche
il figlio comincia a morire in quello stesso istante. In questo senso
anche l’esperienza della temporalità comincia con il linguaggio (Ci-
matti, 2013). È terribile il prezzo che Homo sapiens paga per il fatto
di parlare (Crow, 1997; Mufwene, 2004; Pennisi, Falzone, 2010; Ci-
matti, 2011; Pagliardini, 2011).
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3. linguaggio e pulsione di morte 63
risposta, che è anche la più frequente, quella che vede il senso del gioco
nel fatto che in questo modo il bambino è attivo e non si limita a subire
il trauma, non è quindi del tutto soddisfacente. In effetti il carattere
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ripetitivo del gioco del bambino dice qualcosa che va oltre la sua sog-
gettività, la sua scelta, il suo stesso desiderio. Il gesto compulsivo attra-
verso il quale il bambino è costretto a ripetere il movimento di andata e
ritorno del rocchetto testimonia che in lui agisce una forza impersonale
che è di gran lunga più potente e originaria della sua volontà.
In che consiste, allora, il gioco del rocchetto? Riduciamolo alla sua
forma più elementare: uno schema, una specie di enunciato atomico,
composto da un primo segno, “o–o–o”, seguito da un altro segno,
“da”, e poi di nuovo “o–o–o”, e così via. Una sorta di catena, in cui
ogni maglia è saldata alla seguente, senza che apparentemente esista
un’ultima maglia. Di fatto ad un certo punto il bambino si stancherà
di ripetere il gioco, oppure sarà distratto da qualcos’altro, o semplice-
mente la madre sarà tornata, ciò che bloccherà la sequenza. Il punto da
notare, però, è che di per sé la sequenza potrebbe continuare a ripetersi
in modo indefinito. Non c’è nulla, al suo interno, che la arresti, perché
una “fine naturale” non è prevista. Si ferma perché qualcosa, in modo
contingente, la ferma, ma non perché debba fermarsi.
La sequenza, cioè, si ripete indipendentemente dalla volontà del
bambino. Qui è importante sottolineare il carattere impersonale di
questa operazione: è la sequenza che si ripete, attraverso la bocca del
bambino, non è lui che ripete la sequenza. Il soggetto logico e causale
è la sequenza, non il bambino, che è soltanto il soggetto grammati-
cale (è un finto agente). È la lingua che parla, attraverso il bambino,
non è il bambino che usa le parole per esprimersi. Il bambino di
Freud mostra che la lingua parla, indipendentemente dalle intenzioni
del parlante. Sembra di sentire le parole di Chomsky, nelle Strutture
della sintassi: «la grammatica di una lingua L è così un dispositivo
[device] che genera tutte le sequenze grammaticali di L» (Chomsky,
2002, p. 17). In questa definizione Chomsky non menziona il par-
lante, né le sue intenzioni, e nemmeno la semantica: il parlante, in
particolare, è previsto solo in modo implicito: la lingua, e quindi
la grammatica sottostante, ci sarebbe anche senza di lui, perché «la
grammatica […] è indipendente dalla semantica» (Ivi, p. 106), cioè
appunto dalle intenzioni di chi usa la lingua.
Si tratta di una definizione potentissima: secondo una tradizio-
ne secolare la lingua è uno strumento al servizio degli esseri umani
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3. linguaggio e pulsione di morte 69
ne» (Lacan, 2014, p. 38). Chi “parla”, chi “prende” le decisioni, chi
“vuole” non è altro che «un topo preso in trappola». E la trappola è
il linguaggio: «il soggetto viene fabbricato tramite un certo numero
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il nostro soggetto così com’è, il soggetto che parla, se volete, può ben ri-
vendicare il primato, ma non sarà mai possibile considerarlo puramente e sem-
plicemente come libero iniziatore del suo discorso, dal momento che, essendo
diviso, esso è legato a quell’altro soggetto che è il soggetto dell’inconscio e
risulta dipendente da una struttura di linguaggio. È questa la scoperta dell’in-
conscio (Ivi, p. 51).
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4. Il paradosso del ricordare
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1. La tesi di Wander
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4. il paradosso del ricordare 73
non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. […] Noi sopravvissuti siamo una
minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o
abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gor-
gone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i “mussul-
mani”, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto
il significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione (Levi, 1986, p. 64).
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noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapien-
za, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei
sommersi, appunto: ma è stato un discorso “per conto di terzi”, il racconto di
cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a
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termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai
tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e
penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima
di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto
la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in
loro vece, per delega (Ivi, p. 65)
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4. il paradosso del ricordare 75
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2. Di chi è il ricordo?
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4. il paradosso del ricordare 85
nostra mente e solo per noi, battezziamo con il segno “s” una deter-
minata sensazione (è la procedura dell’ostensione), si stabilisce una
connessione diretta, e quindi infallibile, fra segno e oggetto: «sono
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no, non è possibile. E non perché il gatto non abbia buona memoria,
ma perché se per “ricordo” intendiamo quello che è un “ricordo”
per noi umani, allora il gatto non dispone dei mezzi attraverso i quali
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4. il paradosso del ricordare 91
ma del “non-senso” non sappiamo che farcene, perché non riusciamo a ve-
dere oltre il senso. Sempre ci rivolgiamo al senso: al di là di esso, siamo costret-
ti a cedere […]. “Il corpo” è dove si cede. “Non senso” non indica qui qualcosa
come l’assurdo, né un senso alla rovescia o contorto (non è in Lewis Carroll
che arriviamo a toccare i corpi); ma indica che non c’è senso o che si tratta di
un senso che nessuna figura del “senso” può avvicinare. Senso che ha senso là
dove, per il senso, è il limite. Senso muto, chiuso, autistico: ma non c’è autós,
non c’è “sé stesso”. L’autismo senza autós del corpo, che lo rende infinitamente
meno di un “soggetto”, ma anche infinitamente diverso da esso: gettato e non
“soggettato”, ma anche duro, intenso, inevitabile e singolare come un soggetto
(Nancy, 1992, trad. it. 1995, pp. 14-15).
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5. Per un’estetica del reale
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1. Parola e immagine
C’è un luogo comune, riguardo a Lacan, che alla fine riduca tutto
al linguaggio. È un luogo comune. Per di più sbagliato. Il proble-
ma, clinico e teorico, di Lacan è come trovare una via d’uscita dal
linguaggio, verso il reale (il terzo elemento della tripartizione con
cui comincia, propriamente, il suo lavoro teorico nel 1953: immagi-
nario, simbolico, e appunto reale). È un problema clinico, perché la
talking cure può avere effetti terapeutici solo a condizione di portare
oltre la parola, perché altrimenti non si uscirebbe mai dal gioco delle
interpretazioni (in cui ognuna rimanda ad un’altra, senza fine; «la
stolida idea di un’interpretazione infinita», Agamben, 2014, p. 36).
È un problema teorico, perché il rapporto con il linguaggio segna la
natura umana, e quindi non riguarda soltanto il nevrotico. Il proble-
ma del reale è il problema di come un vivente che è impregnato di
linguaggio possa fare esperienza di qualcosa che non è linguistico.
In questi termini il problema di Lacan pare facilmente risolvibile,
perché sembrano molte le attività umane non toccate dal linguaggio:
l’immaginazione, la pittura, l’espressività non verbale, per non fare
che i primi e più ovvii esempi. Si esce dal linguaggio quando entra in
scena il corpo. Il punto è che il linguaggio e le lingue non interrompo-
no la loro azione quando la voce tace. Si rimane nel linguaggio anche
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5. per un’estetica del reale 97
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ni, con una forma determinata, una certa tessitura, e un colore caratte-
ristico; un oggetto, soprattutto, ha un nome. Viene da chiedersi se un
animale non umano veda mai “oggetti”, come ad esempio quelli che
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2. E poi?
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104 il taglio
3. A grande a piccolo
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5. per un’estetica del reale 105
e tutti gli spazi. Il reale ha così due caratteristiche che sembrano fra
loro contraddittorie: è una totalità spazio-temporale che non manca
di nulla, ma è anche istantaneo, è l’evento che accade proprio ora, e
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non esiste mancanza nel reale, […] la mancanza può essere colta solo trami-
te il simbolico. Rispetto alla biblioteca possiamo dire: Qui, il tale volume man-
ca al suo posto. Si tratta di un posto designato dall’introduzione preliminare
del simbolico nel reale. Per questo, il simbolo colma facilmente la mancanza
di cui sto parlando, in quanto indica il posto, indica l’assenza, presentifica ciò
che non c’è (Ivi, p. 143).
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parlare vuol dire comunicare. Parlare implica l’altro, gli altri. Radicaliz-
zando questa concezione, diciamo che il dire è quello dell’altro, poiché ci si
esprime nel linguaggio dell’altro per essere intesi da lui. A tal punto che si può
anche arrivare a dire […] che questo dire viene dall’altro stesso (Ivi, p. 158).
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5. per un’estetica del reale 107
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5. per un’estetica del reale 109
un amore che passa per l’Altro, un amore che il soggetto può trovare
solo fuori di sé, nel modello paterno; è un amore della trascendenza,
perché questo Altro è sempre oltre, al di là del soggetto, irraggiun-
gibile. L’«amore dell’Un-corpo», invece, è nella immanenza assoluta
del corpo, che non deve più uscire da sé, per poter essere reale: «l’Un-
corpo […] è la “sola consistenza” del parlessere» (Ivi, p. 223).
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110 il taglio
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5. per un’estetica del reale 111
colui che parla, l’animale parlante, il parlessere, colui che trae il suo essere
dal parlare, paradossalmente, s’imbroglia con il simbolico. Il fenomeno di im-
brogliarsi non appare […] come un incidente, un accidente, ma, al contrario,
come quel che nomina il rapporto fondamentale del parlessere con il linguag-
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5. per un’estetica del reale 113
Sta di fatto che Joyce sceglie. E in questo egli è […] un eretico. […] Occorre
scegliere per quale via prendere la verità. Tanto più che, una volta fatta la scel-
ta, si può sempre sottoporla a verifica, vale a dire essere eretici nel modo giusto.
Il modo giusto è quello che, dopo aver riconosciuto la natura del sinthomo,
non rinuncia a servirsene logicamente, ovvero a usarlo fino a raggiungere il suo
reale. A quel punto ne avrà a sazietà (Lacan, 2005, trad. it. 2006, pp. 13-14).
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6. L’immanenza della vita
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6. l’immanenza della vita 117
essere ancora più sicuro, ho inoltre stabilito che alle regole di questa
lingua privata potrò accedere soltanto io, pertanto le imparerò a me-
moria. Dopodiché comincio ad usare l’idioletto, e quindi decido che
tutte le volte che proverò la particolare sensazione che sto provando
oggi scriverò “S” sul mio diario. L’indomani provo di nuovo la stessa
sensazione, e quindi sul diario scrivo nuovamente “S”. Ma qui sorge
subito un problema, come faccio a sapere che è proprio “S” il segno
giusto, e non, ad esempio, il segno“P” che avevo deciso di usare per
una sensazione simile ma comunque diversa? Non basta dire, come
fanno tutti, “sono sicuro di non sbagliarmi, è proprio S che devo
usare, non P”, perché questa rassicurazione non è sufficiente.
Posso sentirmi sicuro, ma posso anche sbagliarmi, non c’è un
modo per scartare la possibilità che mi stia sbagliando. La regola
privata che stabiliva il nesso fra la sensazione ed il segno “S” non è
affatto affidabile. Ma se non sono sicuro che sia proprio “S” il segno
che devo usare, come posso fidarmi della mia lingua privata? E se
non posso esserne sicuro, come posso affidare a questa lingua le note
sulle mie sensazioni? Una regola privata non è una regola, proprio
perché è privata. Quello di cui il mio idioletto manca è un controllo
esterno. In una lingua pubblica, se ad esempio mi viene un dubbio su
quale sia la corretta ortografia di una parola, cerco in un dizionario,
e il dubbio viene risolto. Il dizionario non l’ho scritto io, perché è
pubblico, e proprio per questo me ne posso fidare, perché le regole
sono controllate da più persone, in particolare da esperti della lingua.
Tutto questo, nel mio idioletto, non c’è.
Ma allora il paradosso del linguaggio privato è che un idioletto,
se esiste, non lo può usare nessuno, nemmeno chi l’ha inventato. Un
idioletto non lo capisce nessuno. Un idioletto non è, propriamente,
una lingua. Per questo quella di Wittgenstein è una confutazione lo-
gica della tesi dell’esistenza di una lingua privata: una lingua o è pub-
blica o non è una lingua (Cimatti, 2004). Ma in questo modo Witt-
genstein ci pone di fronte ad un dilemma: se vogliamo salvaguardare
la singolarità che incarniamo, cioè il nostro impossibile idioletto, sia-
mo costretti a rinunciare alla possibilità di stabilire una relazione con
gli altri; se, al contrario, vogliamo salvare questa possibilità, siamo
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6. l’immanenza della vita 119
li; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene
sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazioni verbali.
Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrainvestimenti a determinare
una più alta organizzazione psichica, e a rendere possibile la sostituzione del
processo primario con il processo secondario che domina nel Prec (Ibidem).
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6. l’immanenza della vita 121
qual è allora il vero inconscio? Non un’orma fumosa derivata dalla mente.
È la spontanea pulsione alla vita in ogni organismo. Da dove ha origine? Co-
mincia dove comincia la vita. Ma questo è troppo vago. Non ha senso parlare
della vita e dell’inconscio alla rinfusa. Si può parlare dell’elettricità, perché è
una forza omogenea, concepibile separatamente da qualsiasi incorporamento.
Ma la vita è inconcepibile come oggetto generico. Esiste solo nelle creature
viventi. Cosicché la vita ha inizio, oggi come allora, in una individuale creatura
vivente. All’inizio dell’individuale creatura vivente c’è l’avvio della vita, sempre
e ogni volta, e la vita non ha altro inizio. Ogni tentativo di un’ulteriore genera-
lizzazione ci porta semplicemente oltre la considerazione della vita, nella regio-
ne della forza meccanica e omogenea (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 167).
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124 il taglio
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6. l’immanenza della vita 127
eppure noi dobbiamo conoscere, anche se solo per imparare a non cono-
scere. La suprema lezione della coscienza umana è di imparare come non co-
noscere. Vale a dire, come non interferire. Ancora, come vivere dinamicamente
[…] e non staticamente come macchine guidate da idee e principi che partono
dalla testa, o automaticamente, a partire da un unico desiderio fisso (Lawren-
ce, 1922, trad. it. 1995, p. 69).
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4. Diventare un corpo
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6. l’immanenza della vita 129
sca nel primato della mente sul corpo, a prezzo di sacrificare il nucleo
di individualità che incarna ogni vita umana. La critica di Lawrence
forse non è indirizzata tout court alla psicoanalisi, ma forse solo ad
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130 il taglio
quanto esso è fatto di lalingua» (Lacan, 1975, trad. it. 2011, p. 132).
Dove c’è lalingua non ci sono soggettività, e quindi non c’è nemmeno
comunicazione; lalingua è il flusso impersonale al qua di “io” e “tu”.
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Per questa ragione lalingua sconcerta, e infatti «il linguaggio è quel che
si cerca di sapere circa la funzione di lalingua» (Ibidem).
Lalingua è lo spazio di movimento e libertà che si può aprire, alla
fine dell’analisi, quando l’analizzato ha smesso di chiedere il perché
dei suoi sintomi; finché il sintomo è inteso come un segno non lo si
prende per qualcosa di reale, ma appunto soltanto come il rappre-
sentante di qualcosa d’altro. È questo altro, che interessa, il sintomo
è soltanto un modo per arrivarci. Ma il sintomo è il corpo, questo
corpo qui. Finché il corpo è soltanto sintomo, in realtà il corpo non
ci interessa per niente. Quello che ci interessa, invece, è il discorso sul
corpo, è cioè la mente che si compiace di essere separata dal corpo.
Per Lacan il compito dell’analisi, invece, consiste nell’andare nella di-
rezione contraria, dalla mente al corpo, dal simbolico al reale. Lacan
è d’accordo con Lawrence, la meta è l’immanenza, e allora «lasciamo
che il sintomo sia quel che è: un evento del corpo» (Lacan, 2001, trad.
it. 2012, p. 561). Per far meglio cogliere questo passaggio, dal sinto-
mo come segno al sintomo come «evento del corpo», Lacan ricorre ad
un espediente grafico: il sintomo non semiotico è un «symptôme» (La-
can, 2005). Il punto centrale è che per Lacan il «symptôme» è legato
al «godimento» (Lacan, 2001, trad. it. 2012, p. 570). Finché il corpo
è l’altro della mente, il godimento è interdetto, e può essere raggiunto
solo aggirando questo interdetto, e quindi attraverso il sintomo. Il sin-
tomo è infatti un modo per soddisfare il godimento, ma senza che la
mente lo sappia, di nascosto, furtivamente. Quando il sintomo diven-
ta «symptôme», quando cioè l’analizzato ha imparato, come diceva
Lawrence, a non voler più imparare (quando è il reale che cerca, non
più il simbolico), allora gli è possibile stare nel corpo, semplicemente.
Ora il corpo è, ed è tutto quello che ha da esserci. In questo senso il
«symptôme», scrive Colette Soler, «è il nome dell’identità del sogget-
to, il suo vero nome proprio che detronizza il patronimico» (Soler,
2009, p. 92), che invece è il nome che viene dall’Altro, dal linguaggio.
Questo nuovo nome, al contrario, non è propriamente un nome, per-
ché coincide con il corpo stesso: «identificarsi con il symptôme è […]
riconoscersi» (Ivi, p. 111). Un riconoscimento che non significa però
vedersi da fuori, perché questo processo sarebbe ancora un allonta-
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6. l’immanenza della vita 131
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132 il taglio
«il verbo non è altro che una zanzara che morde di sera. L’uomo è tor-
mentato dalle parole come dalle zanzare e lo seguono dritto alla tomba. Ma
non possono andare al di là della tomba. Ora, sono passato al luogo in cui le
parole non possono più mordere e l’aria è chiara, non c’è niente da dire, e sono
solo, all’interno della mia stessa pelle che è il muro di recinzione di tutto ciò
che possiedo».
Così guariva delle sue ferite e si godeva la sua immortalità di essere vivo,
senza inquietudine, poiché nella tomba si era liberato di quel cappio che noi
chiamiamo preoccupazione. Nella tomba aveva lasciato la parte di sé che com-
batte, che si preoccupa e che si autoafferma. Ora la parte di sé indifferente
guariva e diventava intera all’interno della pelle ed egli sorrise a sé stesso con
pura solitudine, che è una sorta di immortalità (Ibidem).
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Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del
xx secolo
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lettere. ultracontemporanea
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scienze del linguaggio
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