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Campi della psiche. Filosofie dell’inconscio


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Felice Cimatti
Il taglio
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Linguaggio e pulsione di morte

Quodlibet

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Prima edizione: giugno 2015
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Stampa a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (tn)
isbn 978-88-7462-731-8

Campi della psiche. Filosofie dell’inconscio


Comitato scientifico: Felice Cimatti, Manuela Fraire, Francesco Napolitano, Stefano Velotti

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Indice
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7 Premessa

Dal corpo alla parola


1. Psicoanalisi e natura umana
15 1. Homo psycho-analiticus
18 2. La «situazione antropologica fondamentale»
22 3. Per una storia dell’inconscio
25 4. Inconscio, soggetto e linguaggio

2. La zecca e l’uomo
31 1. «Ambiente» e «mondo»
34 2. Esiste un «ambiente» umano?
39 3. Linguaggio e mancanza
44 4. Angoscia e «mistico»

«Parlessere»

3. Linguaggio e pulsione di morte


55 1. Istinto e pulsione
60 2. Il gioco del rocchetto
62 3. FLN e «coazione a ripetere»
65 4. Chomsky e Lacan sulla natura umana

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6 indice

4. Il paradosso del ricordare


71 1. La tesi di Wander
77 2. Di chi è il ricordo?
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82 3. Il grido nel deserto


87 4. Quei ricordi che nessuno può ricordare

Dalla
parola al corpo
5. Per un’estetica del reale
95 1. Parola e immagine
99 2. E poi?
104 3. A grande a piccolo
109 4. «Un significante nuovo»

6. L’immanenza della vita


15
1 1. Cosa cura la psicoanalisi?
120 2. Lawrence sull’animale umano
124 3. Il trauma del linguaggio
128 4. Diventare un corpo

133 Bibliografia

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Premessa
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All’inizio c’è un corpo, il corpo minuto di un primate, senza peli,


inerme. Questo corpo, come ogni altro corpo vivente, non è fin da
subito equipaggiato di tutto ciò di cui ha bisogno per sopravvivere.
Come ogni altro corpo vivente deve trovare nel suo ambiente delle
integrazioni, degli aiuti. Deve imparare qualcosa, anche se è molto
variabile la quantità di esperienze necessarie per rendere un corpo
vivente autosufficiente, ammesso che esista un corpo del genere. Nes-
sun corpo vivente nasce già pronto per la lotta per la sopravvivenza
(Prochiantz, 1997). In questo senso neanche un insetto nasce già per-
fettamente formato, neanche un filo d’erba. La vita è il movimento –
questa agitazione – generata da questa originaria mancanza: «questa
pura inquietudine della vita» come scrive Hegel nella Fenomenologia
dello spirito (Hegel, 1807, trad. it. 1999, p. 103).
Lo stesso vale, naturalmente, anche per il piccolo corpo dell’ani-
male umano. Anche questo corpo, come ogni altro corpo, non nasce
già formato, già maturo. È un corpo, come tutti gli altri, un corpo
bisognoso, un corpo che da solo non ce la farebbe. Essere un corpo
significa questo, prima di tutto, il corpo è bisognoso. Il corpo del pic-
colo umano ha bisogno di amore, di cibo, di calore, di attenzione. Ma
dall’esterno, sul corpo umano in formazione, arriva molto altro. Ar-
riva ad esempio il desiderio degli adulti. Un desiderio di cui non sono
consapevoli, ma che proprio per questo è più potente, più penetrante,
più invasivo. Arrivano pensieri – che si traducono in gesti, sguardi, esi-
tazioni, slanci – che il piccolo non comprende, ma che tuttavia registra.
Sul piccolo della specie Homo sapiens comincia a formarsi un reticolo
di tracce, di impressioni, di cicatrici. Perché ogni esperienza, come le
estati secche sulle cortecce di un albero, si incide sulla sua carne.
Il piccolo umano si costruisce intorno a queste tracce. Esperienza
vuol dire questo, essere toccato da qualcosa, un qualcosa che lascia,

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8 premessa

sul corpo in formazione, un’impronta. E poi arrivano le parole, i di-


scorsi degli adulti, le loro espressioni. In realtà c’erano anche prima,
prima ancora che il piccolo umano nascesse, e già allora le ascoltava
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(de Boysson-Bardies, 1996; Moon, Lagercrantz, Kuhl 2013). Non ne


capiva il senso, è vero, eppure quei suoni lo colpiscono in modo parti-
colare; il piccolo umano è geneticamente predisposto a prestare atten-
zione in modo particolare ai suoni di una lingua (Kuhl, 2004). Ecco,
il piccolo umano si aspetta il linguaggio, come le ali di un giovane
gabbiano nel suo nido a picco su una scogliera si aspettano il cielo. E le
parole arrivano, e lasciano tracce, si depositano nel suo corpo, come i
solchi della pioggia su un terreno scosceso. Le parole toccano il corpo.
Perché le parole, prima di tutto, sono cose. In realtà sono cose un po’
speciali, perché sono cose che significano qualcosa. Non come una ci-
catrice, che significa qualcosa solo se qualcuno, un medico ad esempio,
la interpreta come segno di una ferita. La corteccia di un albero, a chi
l’osservi con attenzione, “dice” tutta la sua storia, le piogge e le siccità
che ha attraversato, il vento che l’ha scosso e i fulmini che l’hanno col-
pito, gli incontri con gli insetti che ci vivono dentro e con tutti gli altri
animali che lo hanno usato come riparo. La corteccia “parla”, ma non
parla all’albero. L’albero è quella corteccia. Un cane che saltella su tre
zampe ci “dice” che probabilmente è stato investito da un’automobile;
ma il cane ormai è quel corpo con tre zampe. Forse quando sente il
rombo del motore di un’automobile corre via a nascondersi, forse, ma
il suo corpo, ormai, è così, un corpo con tre zampe. Non c’è bisogno
che il cane sappia di essere un corpo senza una zampa, si contenta di
essere quel corpo che è. Una cicatrice non parla da sola, ci vuole qual-
cuno che la interroghi, altrimenti è una cosa come un’altra. La cicatrice
non è di per sé un segno.
Le parole, invece, sono cose che parlano, in ogni caso, anche se
nessuno le vuole ascoltare. Le parole sono segni, cioè sono cose che
significano. Il piccolo umano nasce con questa capacità, si accor-
ge – molto prima di essere in grado di accorgersi di avere questa
capacità – che le parole hanno un senso. Se ne accorge anche, e so-
prattutto, quando quel senso gli sfugge, quando non le comprende,
quando quel senso che non afferra lo disturba, lo inquieta, lo getta
nel dubbio. Perché dev’essere tremendo sentire che c’è qualcosa che
quelle cose vogliono dirci, e non essere in grado di capire quel che ci
vogliono dire. È talmente tremenda, questa condizione, che nessuno

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premessa 9

la vuole ricordare. Ci siamo passati tutti, ma nessuno ne sa nulla.


Il piccolo umano è inerme, ma basta che qualcuno lo abbracci e lo
stringa con affetto, con attenzione, con calore, che quella condizione
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è superata, la paura non c’è più, il disagio svanisce. Ma non c’è nes-
sun sollievo per la sensazione che si prova quando la parola parla,
ma non riusciamo a capire che dica, in realtà, quella parola. Il dubbio
che produce questa sensazione è senza rimedio. Il piccolo umano ha
bisogno di amore e di parole. Il primo, se lo riceve, lo tranquillizza, le
seconde, che arrivano comunque, lo turbano. Secondo lo psicoanali-
sta Jean Laplanche l’inconscio, nell’animale umano, è ciò che rimane
di incompreso e quindi rimosso delle parole che il neonato riceve, e
non comprende. L’umano ha un inconscio solo perché è un corpo
che parla. L’inconscio è la traccia del linguaggio nel corpo umano. È
il taglio del linguaggio. È un taglio perché, letteralmente, lo taglia in
due: da una parte c’è il corpo che sente, che vede e agisce, così come
è ogni corpo vivente; dall’altro c’è l’inconscio, che è un’incertezza che
nessuna rassicurazione potrà mai placare. L’inconscio è un domanda,
che non è che l’ennesima ripetizione della prima domanda che il pic-
colo umano pose a sé stesso – “che significano queste parole?” – una
domanda che non ammette risposta, perché “sa” istintivamente che
quelle cose sono parole, ma non sa (ancora) quale sia il loro signi-
ficato. Per questo non è una domanda, bensì, propriamente, è un
enigma, cioè appunto una domanda che non ammette risposte. Un
enigma non è altro che un inarrestabile generatore di altre domande,
di altri dubbi, di ulteriori insicurezze. Il corpo umano, il corpo segna-
to dal linguaggio, è il corpo dell’enigma.
All’inizio, allora, c’è – come lo chiama Laplanche – un «messaggio
enigmatico». All’inizio c’è una cosa che rimanda a qualcos’altro, ad
un senso, che tuttavia non è possibile afferrare. Questa prima cica-
trice, perché è dolente come una scottatura, come una ferita aperta,
un altro psicoanalista – Jacques Lacan – la chiama «S[ignificante]1»,
dove quell’uno mette appunto in evidenza che tutto comincia in que-
sto momento, da una parola che parla, e quindi si aspetta una rispo-
sta, e che tuttavia non si comprende, che per questa ragione innesca
– come una reazione a catena – uno «spostamento che non cessa
mai» (Lacan, 1991, trad. it. 2001, p. 181).
L’animale umano, l’animale tagliato del linguaggio, è esattamente
questo «spostamento che non cessa mai». In un ricordo di Kafka – ri-

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10 premessa

portato da un suo amico – troviamo una descrizione tremendamente


efficace di questo processo di iscrizione corporea (che ricorda l’«erpice»
del racconto Nella colonia penale, la macchina che incide sulla schiena
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del condannato il testo della norma che non ha rispettato):

Qualche volta la cuoca borbottò: “Sei un ravachol!”. Non sapevo cosa


fosse. Glielo chiesi, ma lei rispose: “Sei tu. Sei proprio un ravachol”. In questo
modo mi fece entrare a far parte di un gruppo di uomini a me sconosciuto.
Mi mise a parte di un oscuro segreto, che mi faceva rabbrividire. Ero un rava-
chol! La parola aveva su di me l’effetto di una terribile formula magica, che
mi gettava in uno stato di tensione insopportabile. Per sfuggirvi, una sera che
i miei genitori giocavano a carte nella sala da pranzo, chiesi loro che cosa era
un ravachol. Mio padre mi rispose, senza alzare lo sguardo dalle carte: “È un
delinquente, un assassino”. Devo avere fatto una faccia meravigliata e stupida,
perché mia madre mi chiese preoccupata: “Dove l’hai sentito?”. Io balbettai
qualche cosa. La consapevolezza che la cuoca aveva riconosciuto in me un
delinquente mi paralizzava la lingua (Janouch, 1968, trad. it. 2014, p. 104).

C’è una parola, una parola qualunque, “ravachol” (dal nome di


un celebre, al tempo, anarchico francese, François Koenigstein Rava-
chol). È un nome come un altro, in questo caso una parola che viene
da un’altra lingua, un suono esotico. Non conta quale parola, conta
che per qualche ragione proprio quella parola incide la carne del cor-
po. Il giovane Kafka non ha idea del significato di questa parola, ma
capisce che comunque lo riguarda. Ma perché lo riguarda? Il giovane
Kafka è forse davvero, come gli dice il padre, un delinquente? In
realtà “ravachol” non è una descrizione, al contrario, è una sorta di
ingiunzione: “se mi chiamano così allora sono davvero un delinquen-
te!” La parola serve solo a dare sollievo ad un dubbio preesistente, al
dubbio originario suscitato dal «messaggio enigmatico» che proviene
dall’adulto. Quel messaggio, affatto incomprensibile, lascia dietro di
sé una sensazione di incertezza, di sospetto, di inquietudine. Ora “ra-
vachol” prende su di sé questo dubbio, ed è quasi un sollievo questa
scoperta: “ecco perché mi sentivo così, non lo sapevo, in realtà sono
un ravachol”:

Il giorno dopo avevo la febbre. Mandarono a chiamare il medico e questi


diagnosticò un’infiammazione della gola. […] Il nome ravachol non venne più
pronunciato da noi, ma restò in me come un aculeo, o meglio come una punta
spezzata di un ago che si muoverà attraverso il corpo. L’infiammazione alla
gola sparì, ma io restai molto malato dentro di me, un ravachol! Esterior-

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premessa 11

mente nulla era cambiato. Mi trattavano come prima, ma io sapevo di essere


un bandito, un delinquente, in poche parole un ravachol. Questo mutò il mio
comportamento. Non partecipai più alle zuffe con gli altri ragazzi e tornavo
sempre a casa da bravo con la signorina. Non ci si doveva accorgere che ero un
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ravachol. “Ma questo non ha senso!” mi sfuggì [è l’amico di Kafka a parlare].


Al contrario – Kafka sorrise dolorosamente ―. Nulla resta attaccato all’anima
quanto un senso di colpa infondato, perché – proprio perché non ha alcun fon-
damento – non c’è penitenza o riparazione che permetta di sbarazzarsene. Per
questo restai un ravachol anche dopo che avevo apparentemente scordato già
da molto tempo l’episodio con la cuoca e conoscevo ormai il vero significato
della parola (Ivi, pp. 104-105).

Il «vero significato della parola» non conta nulla, perché non è


per il suo significato che la parola è stata così potente. Non è stata la
parola “ravachol” a introdurre il senso di colpa nel corpo di Kafka,
perché quella sensazione di inadeguatezza, di disagio, di colpa infi-
ne era già lì prima di quell’incontro. Un senso di colpa rispetto alla
propria inadeguatezza, al non essere capaci di venire a capo dell’o-
riginario «messaggio enigmatico»: quella colpa che si prova quan-
do si sente di mancare al proprio compito. L’epiteto “ravachol” non
racchiude il segreto del giovane Kafka, perché questo segreto non
esiste: è però quell’S1 da cui prende le mosse quello «spostamento
che non cessa mai» che racchiude il movimento di una esistenza. In
effetti nell’incontro con il linguaggio non c’è solo un trauma, ma c’è
anche, e forse soprattutto, una specie di compito. Le tre parti in cui
si articola questo libro – Dal corpo alla parola, «Parlessere» e Dalla
parola al corpo – provano infatti a descrivere il movimento del corpo
umano rispetto al linguaggio. In effetti la questione antropologica
posta dal rapporto fra Homo sapiens e linguaggio è proprio quella
del corpo: perché la prima e fondamentale vittima del taglio operato
dal linguaggio è appunto il corpo. Che cos’è infatti quel senso di col-
pa di cui parla Kafka se non la sensazione di non abitare il proprio
corpo? Di essere separati da esso? L’animale abitato dall’inconscio è
un corpo a disagio, perché in ogni momento percepisce di non essere
tutto lì dov’è: «l’Io non è padrone in casa propria» (Freud, 1917,
trad. it. 1976, p. 663). Se c’è un compito, per l’animale che parla, è
provare a diventare, finalmente, un corpo.
I capitoli 1, 2, 3, 4 e 6 di questo libro sono il risultato di una estesa
rielaborazione di lavori già pubblicati: Psicoanalisi e natura umana è
stato pubblicato sulla «Rivista di psicoanalisi», vol. 58, n. 2, 2012,

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12 premessa

pp. 475-488; La zecca e l’uomo. Antropologia e linguaggio fra Witt-


genstein e Lacan, sulla «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio»,
vol. 7, n. 2, 2013, pp. 38-52; Linguaggio e pulsione di morte ripren-
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de ed amplia in modo sostanziale un capitolo apparso nel volume


Le ragioni della natura. La sfida naturalistica delle scienze della vita.
Scritti in onore di Ninni Pennisi, a cura di Alessandra Falzone, Seba-
stiano Nucera, Francesco Parisi (Corisco Edizioni, Roma-Messina,
pp. 181-191); L’impossibilità di un’esperienza integrale, ovvero il
paradosso del ricordare, è un capitolo del volume La memoria e la
storia, a cura di Paolo Coen e Galileo Violini, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2010, pp. 239-254; L’immanenza della vita. D. H. Lawren-
ce e la psicoanalisi, è apparso su «La psicoanalisi», vol. 51, 2012, pp.
277-295. Ringrazio gli editori e le direzioni delle riviste per avermi
concesso di poter riprendere questi lavori.

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Dal corpo alla parola

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1. Psicoanalisi e natura umana
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«La teoria psicoanalitica. Questa è metapsicolo-


gia; […] è la teoria dell’essere umano in quanto
è affetto da un inconscio» (Laplanche, 2007,
trad. it. 2007, p. 88).

1. Homo psycho-analiticus

Una teoria della natura umana, lo scrive esplicitamente Freud in


Inibizione sintomo e angoscia (1926), è una teoria di ciò che carat-
terizza in modo specie-specifico l’animale umano. Va precisato che
parlare di “natura umana” non equivale a sostenere che sia inna-
ta o immodificabile (ma nemmeno il contrario, peraltro). “Natura
umana” è ciò che rende un corpo vivente un essere umano, e lo di-
stingue – almeno per alcuni aspetti – dagli altri corpi viventi. Il pro-
blema, con l’animale umano, è complicato dal fatto che è difficile
stabilire (forse è impossibile) quanto la “natura umana” sia inscritta
nel “suo” corpo (nel “suo” DNA) e quanto, invece, sia “imposta”
da una particolare concezione di ciò che sarebbe o dovrebbe essere
“naturale” (non è possibile separare in modo netto, all’interno della
“natura umana”, ciò che è immodificabile e ciò che non lo è, ciò che
è dato e ciò che è costruito, ciò che è invariante e ciò che è storico).
In un certo senso è proprio questa difficoltà, come vedremo, a defi-
nire la “natura umana”: quella di un corpo che non trova in quanto
è specificato nel “suo” genoma tutte le informazioni necessarie per
garantirne la maturazione e lo sviluppo (benché questo valga, anche
se in misura minore, in tutti gli organismi viventi: cfr. Odling-Smee
et al. 2003).

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16 il taglio

In questo senso una teoria psicoanalitica della “natura umana”


è una teoria dello sviluppo umano. La specificità umana infatti ri-
siede, per Freud, nel particolare modo in cui si forma la sua psiche/
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corpo. Freud elenca tre fattori, biologico, filogenetico e psicologico,


che caratterizzano questo processo. Il primo fattore è quello diretta-
mente biologico: «la lungamente protratta impotenza e dipendenza
del bambino piccolo. L’esistenza intrauterina dell’essere umano ap-
pare, in confronto a quella della maggioranza degli animali, relati-
vamente più breve; esso viene mandato nel mondo più incompleto
di loro. L’influenza del mondo esterno reale viene perciò rafforzata.
[…] Questo fattore biologico produce dunque le prime situazioni di
pericolo e genera il bisogno di essere amati: bisogno che non ab-
bandonerà l’uomo mai più» (Freud, 1926, trad. it. 1978, p. 301).
L’animale umano viene al mondo «incompleto»; questo significa che
non nasce con una dotazione naturale di istinti che gli consentano
di cavarsela precocemente da solo. Un agnellino dopo pochi minuti
dalla nascita si alza sulle zampe ed già in grado di seguire la madre
che l’ha appena partorito. È ancora un corpicino gracile e vulnera-
bile, non sa ancora nulla del mondo che l’attende, però sa già, in
modo innato, (quasi) tutto quello di cui ha bisogno per sopravvivere:
dove prendere il nutrimento di cui ha bisogno, dai capezzoli della
madre, in quale direzione dirigersi – dove va la madre – cosa fare se
perde il contatto con lei, emettere un particolare belato. Tutto quello
che serve all’agnellino per sopravvivere è già in funzione, anche se è
presente in una forma ancora immatura e approssimata. Venire al
mondo come organismo «incompleto», al contrario, significa lette-
ralmente nascere ancora privo di alcune componenti necessarie per la
propria sopravvivenza psico-fisica; di conseguenza questo organismo
non è semplicemente immaturo (come nel caso dell’agnellino), è una
psiche/corpo che deve essere riempita/completata. Per questa ragione
avrà necessariamente bisogno di chi si prenda cura di lui. Da qui, an-
che, quel «bisogno di essere amati […] che non abbandonerà l’uomo
mai più», proprio perché l’organismo umano fin dall’inizio non è, né
mai potrà essere, autosufficiente. Il primo fattore della natura umana
per Freud, allora, è collegato alla particolare costituzione biologica
dell’animale umano, alla sua originaria incompletezza (Bolk, 1926).
Il secondo fattore, quello filogenetico (che per Freud sarebbe una
conseguenza della particolare storia evolutiva della nostra specie,

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1. psicoanalisi e natura umana 17

in particolare come conseguenza delle condizioni di vita durante il


periodo delle glaciazioni) ha a che fare con la peculiare sessualità
dell’Homo sapiens: «noi riscontriamo che la vita sessuale dell’uomo
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non si sviluppa con stabilità e regolarità dall’inizio sino alla maturità


come quella degli animali a lui prossimi, ma che dopo un suo primo
fiorire che dura sino al quinto anno di vita, essa subisce una forte in-
terruzione, dopodiché riprende di bel nuovo con la pubertà» (Freud,
1926, trad. it. 1978, p. 302). Questa è la grande scoperta (sempre di
nuovo rimossa) di Freud, i «due tempi» (Freud 1905, trad. it. 1970,
p. 507) della sessualità umana: all’inizio, fino appunto ai cinque anni
circa d’età, la sessualità umana non ha di mira la riproduzione, non è
cioè subordinata all’istinto riproduttivo; è una sessualità, secondo la
sua celebre formula, segnata da una «disposizione perversa polimor-
fa» (Ivi, p. 499). Solo in seguito, alla pubertà, cioè anni dopo, entre-
rà in campo la sessualità biologica, genitale, riproduttiva. Qual è il
significato di questa particolarità filogenetica umana? Torniamo per
un momento all’agnellino che abbiamo lasciato mentre segue ancora
un po’ traballante la madre che bruca sul prato. In questo caso prima
viene il comportamento istintivo, quello innato, e poi quello appre-
so: l’agnellino imparerà, ad esempio, a riconoscere il pastore fra gli
altri umani che gli capiterà di incontrare, oppure imparerà che certe
erbe sono più dolci e morbide rispetto ad altre che sono dure e dal
sapore aspro. L’appreso viene dopo l’innato. Nel caso della sessualità
umana accade propriamente il contrario: «nella sessualità umana e
nel suo sviluppo, l’acquisito sopraggiunge non sulla base dell’innato,
ma prima dell’innato. Questo è molto importante, soprattutto per
la psicologia dell’adolescenza, giacché nel momento in cui l’istinto
entra in scena, il terreno è già interamente “occupato” dalla pulsio-
ne e dal suo supporto, il fantasma» (Laplanche, 1993, 1999, trad.
it. 2000, p. 110). Nel processo di formazione dell’animale umano
è previsto uno spazio libero, non da subito presidiato dall’istinto,
strutturalmente aperto all’influenza esterna; uno spazio, presidiato
invece dalla pulsione, all’interno del quale il piccolo umano prende
forma (Cimatti, 2000; Ludovico, 2006). Vedremo più avanti quali
sono, in particolare, le caratteristiche di questa originaria sessualità
pulsionale, non istintiva; per ora è importante sottolineare che è qui,
in questo intervallo pulsionale, che si costituisce lo specifico corpo/
psiche umano.

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18 il taglio

Il terzo fattore che per Freud definisce la nostra natura è quel-


lo psicologico, che «risiede in una imperfezione del nostro apparato
psichico, la quale si connette propriamente con la differenziazione di
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questo in un Io e in un Es» (Freud, 1926, trad. it. 1978, p. 302). L’Io


non è un’istanza originaria, autonoma e unitaria (ecco perché per
Freud questa è una «imperfezione» dell’Io); deriva dall’Es, e rimarrà
sempre sotto la sua influenza, non se ne staccherà mai del tutto. An-
che l’Io, possiamo aggiungere, è «incompleto», nel senso che non ba-
sta a sé stesso, ha bisogno di integrazioni e complementi che devono
necessariamente giungere dall’esterno, altrimenti semplicemente l’Io
non può formarsi. In questo senso è corretto parlare dell’Io, secondo
l’espressione di Lacan, come di un «taglio» (Lacan, 1973, trad. it.
1979, p. 44).
L’elemento comune fra i tre fattori elencati da Freud, biologico,
filogenetico e psicologico, è quindi l’ampio intervallo che si apre fra
la venuta al mondo del piccolo sapiens e il momento della sua matu-
razione istintiva (in primo luogo corporea e sessuale, ma anche psi-
cologica). È qui, nel lungo intervallo pulsionale che precede l’arrivo
dell’istinto, che secondo Freud e la psicoanalisi dobbiamo cercare
la natura umana, ossia ciò che rende i corpi che siamo corpi umani.

2. La «situazione antropologica fondamentale»

Torniamo alla grande scoperta freudiana. La sessualità specifica-


mente umana, quella cioè che non condividiamo con altri anima-
li, è una sessualità pulsionale (Triebe), non una sessualità istintiva
(Instinkt) e quindi genitale e riproduttiva, questa sì comune a tutti
gli animali. Jean Laplanche, propone di definire la sessualità pulsio-
nale con il termine «sexuale [che] non è il sessuato; è essenzialmen-
te il sessuale perverso infantile» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007,
p. 149). Qui è importante precisare la differenza, che è fondamen-
tale per il tema della natura umana, fra una pulsione e un istinto:
un comportamento istintivo, secondo l’etologia, è «un meccanismo
nervoso, gerarchicamente organizzato, che è sensibile a determinati
impulsi preparatorî, scatenanti e orientanti, di origine interna come
pure esterna, e che risponde a tali impulsi con movimenti coordinati
i quali contribuiscono alla conservazione dell’individuo e della spe-

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1. psicoanalisi e natura umana 19

cie» (Tinbergen, 1951, trad. it. 1994, p. 166). Un comportamento


istintivo ha una immediata ed evidente funzione adattativa: l’istinto
sessuale, ad esempio, è innato, è innescato da certi stimoli interni
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(ormoni) ed esterni (come particolari segnali corporei e/o ambienta-


li), è articolato in una serie di passi piuttosto rigidi, e ha uno scopo
biologico determinato, la riproduzione della specie. Per questa ra-
gione, una volta che lo scopo adattativo è stato raggiunto subentra
una fase di equilibrio istintuale, in cui lo stato di tensione è superato.
Lo schema di funzionamento della pulsione è completamente diver-
so: laddove l’istinto è «innato, atavico e endogeno» la pulsione è
«acquisita ed epigenetica» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 12),
non è «necessariamente adattativa» (Ivi, p. 13), e infine e soprattut-
to «ricerca l’eccitamento anche a costo dell’esaurimento totale» (Ivi,
p. 14). Qui, forse, c’è la differenza maggiore fra il «sexuale» ed il
sessuale: il primo «non è un piacere da acquietamento, è un piacere
da aumento di tensione. Infatti, niente permette di affermare che il
“piacere-desiderio” infantile corrisponda ad una tensione fisiologica
interna e che esiga una scarica» (Ivi, p. 19).
L’aspetto forse più rilevante della scoperta del «sexuale», rispetto
al tema della natura umana, è che introduce una frattura non ricom-
ponibile – quella appunto fra pulsione e istinto – all’interno del cor-
po/psiche umano. Una frattura che non deve essere interpretata come
un’ennesima e ripetitiva variante dell’usurata distinzione fra mente e
corpo, o fra culturale e naturale. La pulsione è la carne dell’umano,
e il fatto che non sia istintiva non la rende per questo meno biolo-
gicamente caratterizzata; al contrario, abbiamo visto con Freud che
l’«incompletezza» è la caratteristica biologica distintiva dell’animale
umano. In questo senso la pulsione è il dispositivo, «al limite fra lo psi-
chico e il corporeo» (Freud, 1905, trad. it. 1970, p. 479), che proviene
dall’esterno, predisposto a colmare quella naturale incompletezza.
Se la pulsione non è endogena, da dove viene, e soprattutto, che
cos’è, propriamente, il «sexuale»? Finora, infatti, abbiamo soltanto
trovato la causa biologica (la costitutiva incompletezza alla nascita
della specie Homo sapiens) che dischiude lo spazio per l’arrivo, dall’e-
sterno, di quel necessario complemento senza del quale l’umanità del
piccolo sapiens non si realizza. Qual è la situazione che troviamo, e non
possiamo non trovare, all’inizio dello sviluppo di ogni animale umano?
In effetti, prima ancora dell’Edipo, c’è quella che Laplanche chiama la

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20 il taglio

«situazione antropologica fondamentale» (Laplanche, 2007, trad. it.


2007, p. 95): un piccolo sapiens e un adulto che si prende cura di lui.
Questa situazione è antropologicamente fondamentale in almeno due
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sensi; perché se l’adulto non c’è il piccolo non sopravvive, perché non è
necessario che l’adulto sia anche uno dei genitori del piccolo (ciò che è
reso in modo ancora più evidente oggigiorno che le biotecnologie per-
mettono la nascita di esseri umani anche da un corpo che non è quello
della madre, come si sarebbe detto un tempo, naturale). All’inizio c’è
una relazione di cura, un adulto e un neonato della specie umana. Ora,
si chiede Laplanche, che tipo di relazione si stabilisce fra questi due
organismi? Il pregiudizio relazionale (ed ermeneutico) di questi anni
vorrebbe che si trattasse di una relazione reciproca e simmetrica; ma
appunto questo è solo un pregiudizio. In realtà si tratta di una relazio-
ne fortemente e strutturalmente asimmetrica: infatti da un lato c’è un
adulto «che ha un inconscio così come è stato scoperto dalla psicoana-
lisi, un inconscio sessuale, essenzialmente fatto di residui infantili, un
inconscio perverso nel senso dei Tre saggi sulla teoria sessuale» (Ivi, p.
95); dall’altro c’è un bambino «che non ha montaggi sessuali genetici,
che non ha attivatori ormonali della sessualità» (Ivi, p. 95). Fra questi
due organismi, al di là di eventuali casi di seduzione patologica, «si
sviluppa un dialogo, una comunicazione adulto-infans» (Ivi, p. 96); un
dialogo non esplicitamente linguistico, tutto corporeo, fatto di gesti e
sguardi. Un dialogo, però, affatto asimmetrico, perché mentre l’adulto
è un organismo «affetto da un inconscio» (Ivi, p. 88), l’infans ne è an-
cora privo. La «situazione antropologica fondamentale» è quella in cui
assistiamo letteralmente ad un «impianto» (Laplanche, 1992, 1997,
trad. it. 2000, p. 451) dell’inconscio dell’adulto nella psiche/corpo del
piccolo sapiens. Un «impianto» che può avvenire proprio perché la
particolare costituzione biologica dell’animale umano ha predisposto
lo spazio – quello che abbiamo definito come intervallo pulsionale
– prima dell’arrivo dell’istinto, all’interno del quale lo potesse acco-
gliere. All’inizio c’è allora un «messaggio» non verbale, implicito, che
arriva dall’adulto, un «messaggio […] parassitato […] disturbato» che
proviene dall’«inconscio infantile dell’adulto, nella misura in cui la
situazione adulto-infans è una situazione che riattiva queste pulsioni
inconsce infantili» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 96).
Per Laplanche l’inconscio del piccolo sapiens nasce in questo
incontro («genesi esogena dell’inconscio», Laplanche, 1992, 1997,

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1. psicoanalisi e natura umana 21

trad. it. 2000, p. 17), un inconscio che non è cioè precedente alla
«situazione antropologica fondamentale». E nasce attraverso questa
«esperienza di seduzione» (Ivi, p. 73) a cui nessun umano sfugge né
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può sfuggire, perché altrimenti non potrebbe diventare umano. E na-


sce a partire da un «messaggio enigmatico dell’adulto», enigmatico
appunto perché «contaminato dal [suo] sessuale» inconscio. Laplan-
che prova a rappresentare la «situazione antropologica fondamenta-
le» con lo schema qui sotto (Ivi, p. 73):

Figura 1

Il corpo/psiche umano che si sta formando è il punto di giunzio-


ne fra il «messaggio enigmatico» che proviene dall’adulto, che viene
impiantato in quello stesso corpo, dando origine così al «sexuale»
dell’infans. Il nocciolo dinamico della natura umana, secondo La-
planche, è colto in questo schema: c’è la «situazione antropologica
fondamentale», cioè c’è una comunicazione adulto-infans; un «mes-
saggio enigmatico […] “compromesso” dall’inconscio» (Ivi, p. 189)
che proviene dall’adulto; prima di questa comunicazione non esiste
ancora, nell’infans, un inconscio; poi avviene l’«impianto», da cui
origina la «neogenesi del sessuale nel bambino» (Ivi, p. 73); la co-
scienza dell’infans, infine, si costruirà proprio nel tentativo di trovare
un senso al «messaggio enigmatico» dell’adulto: «ciò che conta, in
questa situazione, in fin dei conti, è ciò che ne fa il ricettore, ossia,
precisamente, il tentativo di traduzione ed il necessario fallimento di
questo tentativo» (Ivi, p. 73).

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3. Per una storia dell’inconscio

All’inizio dello sviluppo umano c’è allora un «messaggio enigma-


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tico», questo è il nucleo fondativo di ogni sapiens. La natura umana,


secondo la psicoanalisi (o almeno, questa versione della psicoanalisi:
però una versione, si ammetterà, particolarmente chiara nelle pre-
messe biologiche e nelle conseguenze psichiche), si colloca al di fuori
della psiche/corpo del piccolo sapiens: «i processi in cui l’individuo
manifesta la sua attività» – cioè appunto quelli che segnano la na-
scita della sua coscienza – «sono tutti secondarî rispetto al tempo
originario, che è quello di una passività: la stessa della seduzione»
(Laplanche, 1992, 1997, trad. it. 2000, p. 453).
Si tratta di analizzare più da vicino, a questo punto, che succede,
dell’originario «messaggio enigmatico». Il punto di partenza è che
si tratta di un messaggio che non può essere tradotto e compreso,
almeno in modo integrale. E non può per almeno due ragioni: perché
il piccolo umano non dispone delle risorse linguistiche, e semiotiche
in generale, per tradurlo; perché il messaggio è opaco anche per chi lo
comunica, l’adulto. Il punto di partenza, allora, è che «nella comuni-
cazione originale il messaggio adulto non può essere colto nella sua
totalità contraddittoria», perché «vi si mescolano, per esempio, amo-
re e odio, acquietamento ed eccitamento, latte e seno, seno “conte-
nente” e seno eccitato sessualmente ecc.» (Laplanche, 2007, trad. it.
2007, p. 191). Questa «totalità contraddittoria» non può essere ela-
borata, e tuttavia viene inscritta nel corpo/psiche dell’infans. Questo
«impianto» iniziale è all’origine dell’inconscio del piccolo umano.
Come nasce, allora, l’inconscio? «Indico con questo il fatto che
i significanti apportati dall’adulto» – perché il messaggio enigmati-
co, in quanto enigmatico, non è ancora neanche propriamente inteso
come messaggio, e allora rimangono soltanto il significante, ossia il
corpo materiale del segno, non il significato (Laplanche non smette di
essere allievo di Lacan) – «sono fissati, come in superficie, nel derma
psico-fisiologico di un soggetto nel quale non è ancora differenziata
un’istanza inconscia. Su questi significanti ricevuti passivamente si
effettuano i primi tentativi attivi di traduzione, i cui resti sono il ri-
mosso originario (oggetti-fonte)» (Laplanche, 1992, 1997, trad. it.
2000, p. 454). Arriva il messaggio, un messaggio che non può non
arrivare, perché ogni infans passa per la «situazione antropologica

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1. psicoanalisi e natura umana 23

fondamentale», e parte il tentativo di comprenderne il senso; ma que-


sta operazione è destinata a fallire, in misura più o meno estesa, per-
ché il piccolo umano semplicemente non è in grado di cogliere quel
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senso nella sua «totalità contraddittoria». Qui di seguito presentia-


mo lo schema di Laplanche che cerca di dare conto in senso dinamico
di questa situazione (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 197):

Figura 2

All’inizio c’è l’altro, che però non è «l’Altro metafisico», è, in base


all’impostazione biologica freudiana, «l’altro della seduzione origina-
ria, in primo luogo l’altro adulto» (Laplanche, 1992, 1997, trad. it.
2000, p. 454). Un altro che si prende cura del piccolo infans. Que-
sta operazione, che lo ribadiamo è biologicamente necessaria, non è
semplicemente una relazione di cura, però, come quella che può ac-
cadere fra un animale non umano e la sua prole (ammesso che negli
altri animali vada in modo così semplice). Questa relazione è segnata
dall’inconscio dell’adulto, che rivive in questa situazione quello che lui
stesso aveva vissuto quando era lui l’infans; in questo senso è l’incon-
scio infantile, sostiene Laplanche, ad intromettersi nella sua relazione
con il piccolo umano. Da questa intromissione deriva che il messag-

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24 il taglio

gio che proviene dall’adulto è un messaggio enigmatico. Una parte di


questo enigma rimane intraducibile e incomprensibile, e va a formare
l’«inconscio intercluso». Un’altra parte, quella che il piccolo umano
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riesce in qualche modo a tradurre, dà origine da un lato al «precon-


scio», che appunto coincide con questa operazione di «traduzione»,
e dall’altra, quella composta dai residui non tradotti, all’«inconscio
rimosso». Questa è una vera e propria storia naturale dell’inconscio:

ciò che […] contestiamo è la nozione di un Es primordiale, all’origine della vita


psichica, idea che va direttamente nella direzione contraria alla novità implicata
nella nozione di pulsione, in quanto processo sessuale non adattato (nell’uomo) ad
una meta prestabilita. Se la nozione di Es conserva un senso, è per caratterizzare
l’inconscio rimosso che, per la sua alterità, diventa veramente “qualche cosa in
noi”, un “corpo estraneo”, un “Es” (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 190).

Il nucleo costitutivo dell’umano è rappresentato dal tentativo, che


non può non fallire, ma che allo stesso tempo non può non esse-
re sempre di nuovo ripreso, di tradurre un originario messaggio ed
enigmatico. Il modello della natura umana che stiamo delineando
in queste pagine, il modello psicoanalitico (cercando di mettere in-
sieme Freud, Lacan e Laplanche), dà conto della formazione dell’in-
conscio, del perché della pulsione, e infine di come si formi l’Io: «la
traduzione, o il tentativo di traduzione, ha la funzione di fondare,
nell’apparato psichico, un livello preconscio. Il preconscio – essen-
zialmente l’Io – corrisponde al modo in cui il soggetto si costituisce,
si rappresenta la sua storia. La traduzione dei messaggi dell’altro
adulto è essenzialmente una storicizzazione, più o meno coerente»
(Ivi, p. 192). Una operazione di «storicizzazione» che può riuscire in
molti modi, talvolta non riuscire affatto. È qui che questo modello
colloca il nodo problematico dello sviluppo umano; perché quando
si assiste ad un «fallimento radicale della traduzione» (Ivi, p. 193)
allora l’incombere dell’inconscio diventa invasivo. Qui, ancora, nel
processo di traduzione, si collocano le tecniche medico-culturali che
in vario modo hanno da sempre cercato di tradurre/contenere la pre-
senza inquietante e minacciosa dell’altro dentro di noi, dell’inconscio
(si pensi all’uso psicoanalitico che si potrebbe fare della nozione di
«crisi della presenza» di Ernesto De Martino, 2002).
In questa rappresentazione dell’animale umano è contenuto inol-
tre anche un vettore in qualche modo etico, aspetto inseparabile da

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1. psicoanalisi e natura umana 25

ogni pratica medica. Secondo questa visione della natura umana c’è
un compito, per l’umano. Se all’inizio c’è un messaggio enigmatico,
un messaggio che turba e sollecita una ulteriore domanda, a cui perè
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non potremo mai rispondere, il compito che spetta a ciascun umano,


proprio per diventare umano (ché l’umano coincide con questo ten-
tativo) consiste nello sforzo di tradurre questo messaggio, provare
comunque a tradurlo. O meglio, il compito consiste nel guardare
dritto negli occhi questo enigma. Non è un caso che Freud colle-
ghi strettamente la «pulsione di sapere», è questo il compito di cui
stiamo parlando, alla pulsione sessuale, al «sexuale» di Laplanche:
«nella stessa epoca nella quale la vita sessuale del bambino raggiunge
la sua prima fioritura, dal terzo al quinto anno, subentrano in lui
anche i primordi di quell’attività che si attribuisce alla pulsione di
sapere o di ricerca», una pulsione, continua Freud, particolarmente
«attratta dai problemi sessuali, [che] anzi ne è forse risvegliata per
la prima volta» (Freud 1905, trad. it. 1970, pp. 502-503). Dal mes-
saggio enigmatico dell’altro deriva l’inconscio rimosso, e da questo,
a loro volta, derivano le pulsioni «che si possono considerare […]
come l’ “esigenza di lavoro” imposta al corpo dal suo legame con
i significanti inconsci primari» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p.
193). Il compito dell’animale umano è quindi quello «della messa
in storia e opera» del rimosso, il «movimento della simbolizzazione-
traduzione» dei residui intradotti del messaggio originario (Ivi, p.
276); ed è qui, in questo passaggio, che opera la psicoanalisi, come
scienza che identifica il suo oggetto nel «sexuale».

4. Inconscio, soggetto e linguaggio

Si pone, in questo modello della natura umana, un’ultima que-


stione, il rapporto fra quel che siamo ed il linguaggio. È il problema
che solleva Lacan rispetto ad ogni visione dell’umano che non con-
sideri la realtà della pulsione, e in particolare la differenza che esiste
fra istinto e pulsione: «ciò che la psicoanalisi vuole insegnarci è che,
nell’uomo, il sessuale di origine intersoggettiva, dunque il pulsiona-
le, il sessuale acquisito [cioè il sexuale], cosa assolutamente strana,
viene prima dell’innato. La pulsione viene prima dell’istinto, il fan-
tasma viene prima della funzione; e quando arriva l’istinto sessuale,

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la poltrona è già occupata» (Ivi, p. 22). Ora, cos’è questo «sessuale


di origine intersoggettiva»? L’abbiamo visto, è il sessuale inconscio
adulto, è il suo messaggio ambiguo, enigmatico, è un gesto che non è
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soltanto il gesto che è, carezza o scapaccione, è anche qualcos’altro,


un altro ignoto tanto a chi lo compie che a chi lo riceve. È un gesto,
un movimento del corpo, un significante infine, che richiede che gli
venga assegnato un senso, che richiede una traduzione. L’Io è appun-
to questo tentativo di rendere conto di questo messaggio ambiguo.
«L’inconscio come istinto», scrive Lacan in I quattro concetti fon-
damentali della psicoanalisi, «tutto ciò non ha nulla a che fare con
l’inconscio di Freud» (Lacan, 1973, trad. it. 1979, p. 128). Appun-
to, perché questo inconscio non è quello umano, quello che nasce
dall’incontro con il messaggio enigmatico che proviene dall’altro; al
contrario, se è della natura umana che ci occupiamo, «l’inconscio è la
somma degli effetti della parola su un soggetto, a quel livello in cui il
soggetto si costituisce dagli effetti del significante» (Ibidem). Questa
affermazione, nel quadro che abbiamo finora delineato, è letteral-
mente vera: l’inconscio dell’infans nasce a partire da un significante,
il residuo intradotto di un messaggio che proviene dall’esterno. So-
stenere allora che «l’inconscio» è «fatto di linguaggio» (Ivi, p. 200),
appare quasi come una affermazione zoologica, una descrizione del
modo in cui si costruisce, a partire dalla «situazione antropologica
fondamentale», l’animale umano; e così, continuando su questa linea
argomentativa, «il soggetto, in initio, comincia nel luogo dell’Altro,
in quanto è lì che sorge il primo significante» (Ivi, p. 201). Cos’è
l’Altro, quindi? È il luogo di provenienza del messaggio enigmatico,
un Altro che proprio per questa ragione non sarà mai raggiungibile,
mai del tutto integrabile nel quadro della coscienza. Una coscienza,
peraltro, che come abbiamo visto di fatto coincide con il tentativo di
risalire a questo Altro.
In questa ricostruzione può diventare perspicua un’altra formula
lacaniana, quella per cui «un significante è ciò che rappresenta un
soggetto per […] un altro significante» (Ivi, p. 201). All’inizio c’è
un messaggio, un significante appunto, e poi – solo successivamente
– arriva in campo un soggetto, che si costruisce proprio attorno ad
esso, allo sforzo di integrarlo, di farlo proprio. Tentare questa opera-
zione significa, di fatto, cercare di ricondurre questo significante ad
un altro ed ulteriore significante, attraverso il quale poter spiegare il

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1. psicoanalisi e natura umana 27

primo. Il soggetto è allora ciò che permette il passaggio da un signifi-


cante all’altro; ad esempio, come abbiamo prima visto in Laplanche,
è colui che, dopo aver ricevuto l’«impianto» del sessuale inconscio
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adulto, riproduce a sua volta questa operazione quando viene a con-


tatto con un altro infans. Proviamo ad illustrare questa situazione
nello schema qui sotto:

Figura 3

Non sarà un caso, allora, che lo stesso Lacan, per spiegare questa
formula, ricorra all’esempio di un segno enigmatico, cioè un oggetto
che si riconosce come artefatto semiotico, ma il cui senso è incom-
prensibile: «supponete di scoprire nel deserto una pietra coperta di
geroglifici. Voi non dubitate nemmeno per un momento che dietro ci
sia stato un soggetto che li ha scritti. Ma credere che ogni significante
sia indirizzato a voi, è un errore – come prova il fatto che potete non
capirci niente. Invece li definite come significanti, perché siete sicuri
che ciascuno di questi significanti si rapporta a ciascuno degli altri. Di
questo si tratta nel rapporto del soggetto con il campo dell’Altro» (Ivi,
pp. 201-202). C’è un deserto, uno spazio vuoto, e poi appare questo
oggetto, una pietra su cui sono tracciate linee misteriose; qualcuno le
avrà tracciate, queste linee, ci sarà stata un’intenzione, dietro di esse.
Ed ecco che dal soggetto ci muoviamo verso un altro significante, al-
lora. E così, prosegue Lacan, «il soggetto nasce in quanto nel campo
dell’Altro sorge il significante. Ma, per questo stesso fatto, ciò – che
prima non era nulla, se non soggetto a venire – si fissa come signifi-
cante» (Ivi, p. 202). Perché il soggetto è questo movimento, generato
da un significante intradotto, verso un ulteriore significante che possa
servire per disambiguare il primo. Ma questo movimento non è quello
dell’ermeneutica, che si compiace di non essere altro che questo stes-

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so movimento, perché se è vero che l’inconscio «sono gli effetti della


parola sul soggetto» (p. 151), è altrettanto vero che c’è un «realismo
dell’inconscio» (p. 155). In realtà può esserci un io proprio e solo per-
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ché c’è un inconscio: «l’Es è ciò che nel soggetto ha la possibilità di


diventare, tramite il messaggio dell’Altro, io (je)» (Lacan, 1994, trad.
it. 2007, p. 41). Se l’Es non ci fosse non potrebbe esserci Io. L’Io c’è,
quindi l’Es deve esserci. E l’Es, appunto, «non è una realtà grezza»,
come vorrebbe la lettura semplificatoria e istintuale dell’inconscio,
«né semplicemente quel che è prima, l’Es è già organizzato, articolato,
come organizzato e articolato è il significante» (Ibidem). Qui ritorna la
fondamentale distinzione fra pulsione e istinto da cui sono partite que-
ste osservazioni; una distinzione necessaria proprio perché è la natura
umana che ci interessa, e una visione dell’umano che trascuri la realtà
della pulsione non è biologicamente adeguata:

quel che metto al principio dell’esperienza analitica è la nozione che vi è del


significante già istallato e già strutturato. Vi è una centrale già fatta e che funziona.
E non siete voi ad averla fatta. Questa centrale è il linguaggio, che funziona da
così tanto tempo quanto il vostro ricordo. Letteralmente, non potete ricordarvi
più in là, parlo della storia dell’umanità nel suo insieme. Da quando vi sono dei
significanti che funzionano, i soggetti sono organizzati nella loro psiche dal gioco
proprio di tali significanti. Di conseguenza l’Es, che andate cercando nel profondo,
non è qualcosa di tanto naturale, lo è ancor meno delle immagini (Ivi, p. 45).

L’inconscio non è «naturale» nel senso che non è un istinto, non è


qualcosa da cercare «nel profondo», è qualcosa che viene dall’esterno
del corpo, dalla relazione adulto-infans come si stabilisce nella «situa-
zione antropologica fondamentale». Per questo l’inconscio e la pulsio-
ne rimandano ad «un ambiente assai più importante» (per compren-
dere l’umanità dell’animale umano) di quello direttamente biologico
(quello che invece vale per ogni mammifero, Homo sapiens compreso),
«vale a dire a quello legale, l’ordine simbolico» (Ivi, p. 199).
La teoria della natura umana della psicoanalisi si basa su una pre-
messa biologica, la costituiva incompletezza alla nascita dell’infans.
L’umano matura in senso biologico, cioè diventa capace di riprodursi,
molti anni dopo che ha cominciato a svilupparsi psichicamente (l’istin-
to arriva dopo la pulsione). Questa sorta di parentesi istintuale, soprat-
tutto nei primi anni di vita, dischiude lo spazio all’influenza dell’incon-
scio sessuale adulto sul corpo/psiche dell’infans. Questo influsso, che

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1. psicoanalisi e natura umana 29

si impianta nel bambino attraverso i messaggi enigmatici che proven-


gono dall’adulto, è all’origine del suo inconscio. Il soggetto che risulta
da questa combinazione è il «soggetto barrato», l’«$» di Lacan, cioè
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il soggetto «marcato dalla condizione che lo subordina […] all’Altro»


(Lacan, 1988, trad. it. 2004, p. 487). La psicoanalisi è la scienza delle
conseguenze di questo impianto; in particolare il suo oggetto specifico
è il «sexuale», cioè la sessualità non riproduttiva come si costruisce
nella «situazione antropologica fondamentale» (la relazione adulto-
infans). Lo scopo terapeutico della psicoanalisi è di consentire al sog-
getto di abitare questa scomoda ma inevitabile condizione, non pro-
mettendo una via d’uscita che non esiste, piuttosto cercando di trovare
al suo interno inediti e imprevisti spazi di libertà, rimettendo in campo
«il desiderio di desiderare» (Lacan, 1986, trad. it. 2008, p. 358). Il
linguaggio, dapprima non verbale e corporale, successivamente quello
esplicito delle lingue, gioca un ruolo decisivo in tutto questo processo,
perché diventa il corpo stesso dell’animale umano: «la parola [parole]
infatti è un dono di linguaggio, e il linguaggio non è immateriale. È
corpo sottile, ma è corpo» (Lacan, 1966, trad. it. 1974, p. 294).

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2. La zecca e l’uomo.
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«dans tout ce que Freud a apporté de fulgurant en


psychologie [on doit reconnaître] l’effet de cisaille
que le langage apporte dans les fonctions de l’ani-
mal qui parle»
(Lacan, Autres écrits, p. 224).

«Je sais qu’il est très captivant de lire Wittgenstein»


(Lacan, Séminaire XIX, … ou pire, p. 88).

1. «Ambiente» e «mondo»

Mentre «l’animale» non umano – scrive Max Scheler in La posi-


zione dell’uomo nel cosmo (1928) – «vive immerso nella realtà con-
creta […] essere uomini significa», al contrario, «proferire nei con-
fronti di questo tipo di realtà un energico “no”» (Scheler, 1928, trad.
it. 1997, p. 156). In questo lavoro ci occuperemo di questo “no”. Ci
interessa, in particolare, provare a capire quali sono le conseguenze
psichiche ed esistenziali dell’essere un vivente capace di dire “no”
alla «realtà concreta» (in nessun sistema di comunicazione naturale
di animali non umani sembra esistere un segno simile al “no” delle
lingue umane; cfr. Hauser, Konishi, 1999.).
L’antropologia filosofica ha come oggetto specifico proprio questo
atto linguistico originario, perché è da quel “no” che nasce l’animale
umano (senza “no” non può esserci la separazione fra “soggetto”
e “oggetto”, e quindi autocoscienza e “io”). In questo senso il pro-
blema centrale dell’antropologia filosofica è il rapporto fra Homo
sapiens e facoltà del linguaggio (appunto perché “no” è un atto lin-
guistico). Pertanto in questo lavoro ci poniamo questa domanda:
qual è lo stato d’animo fondamentale dell’animale capace di dire

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32 il taglio

“no”? Per provare a rispondere confronteremo alcune proposizioni


del Tractatus di Ludwig Wittgenstein con il pensiero dello psicoana-
lista Jacques Lacan. Lacan si occupa poco di Wittgenstein (secondo
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Krutzen 2009, nel Seminario XVII, lezione del 21 gennaio 1970, nel
Seminario XIX, lezione del 9 febbraio 1972, fra i seminari pubbli-
cati. All’interno di quelli non ancora pubblicati Lacan si riferisce a
Wittgenstein nel Seminario IX, lezione del 15 novembre 1961, e nel
Seminario XIV, lezione del 18 gennaio 1967), quindi non è delle cor-
rispondenze esplicite fra i due autori che ci occuperemo in questo ca-
pitolo. Quello che ci interessa è la vicinanza teorica fra Wittgenstein
e Lacan. Una vicinanza che nasce dal fatto che per entrambi (insieme,
forse, a Heidegger, ma non con la loro stessa nettezza) non c’è umano
senza linguaggio. Wittgenstein e Lacan, in particolare, hanno prova-
to a pensare quello che desidera un corpo segnato dal “no”. Perché
il “no” divide: corpo e mente, soggetto e oggetto, dentro e fuori. Il
desiderio ultimo dell’animale che parla è trovare un modo per uscire
da questa condizione di costitutiva separatezza.
Homo sapiens è un animale come tutti gli altri. E come tutti i
viventi è adattato ad un ambiente particolare (von Uexküll, 1934).
Ogni specie vivente è infatti adattata ad un «ambiente» specifico
(Gibson, 1966). Questo significa che ogni animale viene al mondo
con una serie (innata) di predisposizioni che gli permettono di “in-
castrarsi” in modo efficace al suo interno (come le pinne dei pesci
all’ambiente acquatico (v. Figura 1); da notare che per ora non è
necessario precisare chi sia il vivente e quale sia l’ambiente, perché
questa distinzione, da un punto di vista biologico, è secondaria, ri-
spetto al primato della relazione):

Figura 1

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2. la zecca e l’uomo 33

L’«ambiente» non coincide con il mondo fisico, le rocce gli al-


beri la pioggia e così via. Questo mondo è comune a tutti i viventi,
ma ogni specie prende in considerazione soltanto alcuni aspetti del
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mondo, trascurando tutti gli infiniti altri. L’esempio di von Uexküll è


quello, celebre (ripreso ad esempio da Heidegger), della zecca: que-
sto artropodo rimane in attesa (anche molto a lungo), del passaggio
di un mammifero, che percepisce attraverso una sostanza odorosa
secréta dai follicoli sebacei, l’acido butirrico (è un acido presente nei
grassi animali). La zecca (quella nella Figura 2 è un esemplare di Rhi-
picephalus sanguineus, la zecca del cane) è attratta dai mammiferi
perché ha bisogno del loro sangue per il proprio ciclo vitale.

Figura 2

Ora, come fa la zecca a individuare un mammifero fra tutti gli


altri oggetti, viventi e no, con cui entra in contatto? Si tenga conto
che la zecca è cieca e sorda. Percepisce il cane attraverso l’olfatto,
l’annusa.
Qui è importante notare la differenza fra mondo e «ambiente»:
nel mondo (un’entità che – se seguiamo von Uexküll – possiamo pen-
sare soltanto noi umani) ci sono segnali visivi, ad esempio, che po-
trebbero essere usati dalla zecca per distinguere un cane da una rana.
Per la zecca, però, l’informazione visiva non è pertinente. Il mondo è
pieno di luce, ma non nell’«ambiente» della zecca. In questo senso la
zecca non deve prestare attenzione agli stimoli visivi, ma solo a quelli
odorosi. In realtà l’«ambiente» della zecca è molto più specifico; di

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34 il taglio

tutti i possibili odori e profumi del mondo soltanto uno attira la sua
attenzione, l’acido butirrico appunto, che rappresenta per la zecca
un «segno percettivo» (Merkzeichen) che innesca un comportamento
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altrettanto specifico: quando percepisce questo odore la zecca si la-


scia cadere dal ramo su cui si nascondeva, per cadere sulla pelle del
mammifero. Per questo più sopra abbiamo scritto che ogni organi-
smo vivente si “incastra” in un «ambiente» particolare. Nella Figura
1 abbiamo provato a rappresentare visivamente questa situazione
biologica fondamentale: la sfera è il «segno percettivo» a cui corri-
sponde un altrettanto specifico dispositivo sensoriale “predisposto”
a percepirlo: la superficie concava “è fatta” per accogliere la sfera (e
secondo alcuni biologi vale anche il contrario, la sfera – in un proces-
so coevolutivo fra organismo e «ambiente» – è “fatta” per adattarsi
alla superficie concava; cfr. Odling-Smee, Laland, Feldman, 2003).
Questo schema – nelle sue linee generali – vale per tutti i viven-
ti, Homo sapiens compreso. Ogni vivente infatti nasce con bisogni
e dotazioni corporee determinati che si adattano in particolare ad
un «ambiente» specie-specifico. Si pensi al modo in cui il piccolo
della specie umana presta particolare attenzione agli stimoli lingui-
stici (Kuhl, 2004). Si tratta di una evidente predisposizione innata:
il piccolo della specie Homo sapiens “si aspetta” di trovare nel suo
ambiente naturale degli stimoli particolari, i suoni linguistici. Anche
in questo caso una predisposizione innata si “incastra” in uno stimo-
lo particolare. Uno stimolo specie-specifico, perché lo stesso suono
linguistico non è che un rumore per un gatto.

2. Esiste un «ambiente» umano?

Ma quali sono gli aspetti caratteristici dell’«ambiente» umano: se


la zecca, ad esempio, è adattata all’acido butirrico, c’è qualcosa di
equivalente per l’animale umano? Nel Tractatus Wittgenstein distin-
gue il «mondo» (Welt), che è «la totalità degli stati di cose esistenti»
(§ 2.04) dalla «realtà» (Wirklichkeit), che invece è «il sussistere o
non sussistere di stati di cose» (§ 2.06). La «realtà» è quindi più am-
pia del mondo, nel senso che contiene più “roba” di quella contenuta
nel mondo. Il mondo è «la totalità dei fatti» (§ 1.1), ed un «fatto» è
«il sussistere di stati di cose» (§ 2), cioè «un nesso di oggetti (entità,

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2. la zecca e l’uomo 35

cose)» (§. 2.01). Nella Figura 3 proviamo a rendere visivamente evi-


dente la distinzione fra «mondo» e «realtà»: il primo è la superficie
grigia, la seconda quella più ampia che la contiene.
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Figura 3

Ma se il «mondo» è «la totalità dei fatti», che cos’altro può esserci


nella «realtà» per giustificare questa differenza? Wittgenstein ce l’ha
già detto: la realtà è «il sussistere o non sussistere di stati di cose».
Ma questo vuol dire che nella «realtà» umana oltre agli «stati di
cose» che sussistono (come le nuvole nel cielo in questo momento), ci
sono anche quelli che non sussistono: per Wittgenstein esistono due
tipi di fatti: «il sussistere di stati di cose lo chiamiamo fatto positivo;
il non sussistere, un fatto negativo» (§ 2.06). È questa la differenza
fra «mondo» e «realtà»: mentre nel primo ci sono solo fatti positivi,
effettivamente sussistenti (come appunto la presenza delle nuvole nel
cielo, proprio ora che sto scrivendo queste righe), nella seconda ci
“sono” (ci sono in un senso tutto particolare, evidentemente) anche
i fatti negativi; in questo stesso momento, ad esempio, il cielo sopra
di me non è terso. In questo momento il cielo non è terso, proprio
perché il cielo è annuvolato. Ma il fatto che ora ci siano le nuvole –
cioè che la presenza delle nuvole sia realmente sussistente – apre alla
possibilità logica che le nuvole non ci siano: se ci sono le nuvole il
cielo non è terso, ma proprio perché non è così avrebbe potuto essere
così: infatti «la totalità degli stati di cose sussistenti determina anche
quali stati di cose non sussistono» (§ 2.05).
Ad esempio, l’asserzione “il cielo è pieno di nuvole” implicitamen-
te asserisce anche “il cielo non è terso”. Torniamo per un momento
alla zecca: nel suo «ambiente» esistono soltanto fatti (positivi), come

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36 il taglio

l’odore dell’acido butirrico che proviene dalla pelle di un cane di


passaggio. Se la zecca non viene colpita da una molecola di questa
sostanza non succede niente, rimane ferma sul ramo. Non si può
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neanche dire, propriamente, che la zecca attenda l’odore dell’acido


butirrico: per aspettare qualcosa occorre poter distinguere fra ciò che
si aspetta e ciò che, invece, non si aspetta: ma la zecca non si aspetta
nulla, è lì sul ramo, e se per caso nessun mammifero passerà sotto
di lei finirà per morire su quello stesso ramo. In questo senso tutto il
tempo che la zecca trascorre sul ramo non è un tempo di attesa, non
è un vuoto che aspetta di essere riempito dall’arrivo della molecola
di acido butirrico: è semplicemente un tempo di vita su di un ramo.
La zecca non desidera l’acido butirrico, perché la zecca sul ramo non
manca di niente. Per poter desiderare qualcosa occorre poter percepi-
re lo scarto fra una presenza attuale e un’altra presenza che avrebbe
potuto prendere il suo posto: occorre appunto poter pensare la dif-
ferenza fra un «fatto positivo» ed un «fatto negativo». Solo se può
presentarsi il pensiero “il cielo non è terso” posso desiderare – oggi
che il cielo è nuvoloso – che il cielo sia sgombro dalle nuvole.
L’ambiente (nel senso di von Uexküll) dell’Homo sapiens è quel-
la che Wittgenstein chiama «realtà», cioè l’insieme infinito dei fatti
positivi e dei fatti negativi. È un insieme infinito perché ogni fatto
positivo, ad esempio quello corrispondente alla asserzione “oggi il
cielo è nuvoloso”, è “circondata” da una specie di alone logico di
fatti negativi: “il cielo non è terso”, “il cielo non è limpido”, “il cielo
non è luminoso” e così via. C’è differenza, ovviamente, fra la durezza
e la spigolosità di un fatto positivo (se piove mi bagno davvero), e
la consistenza di un fatto negativo. Eppure anche questi fatti sono, a
loro modo, “reali”. Se si aspettava il sole, e invece ci sono le nuvole,
cambia l’umore, l’abbigliamento, i progetti: un fatto negativo, cioè,
ha effetti reali quanto, e talvolta anche di più, un fatto positivo.
Ma come può essere comparso il «fatto negativo»? Qual è, cioè,
la differenza fra l’ambiente della zecca e quello dell’animale umano?
Per Wittgenstein la risposta è chiara: è l’operatore logico della ne-
gazione (qualunque sia il suo antecedente psicologico; cfr. Cuccio,
2012) che infrange la pienezza del «mondo» animale: «è il mistero
della negazione», scrive in uno dei Quaderni preparatori del Tracta-
tus, «le cose non stanno così, eppure possiamo dire come stanno le
cose che non stanno» (Wittgenstein 1922, trad. it. 1995, p. 164). Par-

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2. la zecca e l’uomo 37

lare una lingua – e quindi disporre della negazione – significa poter


pensare non solo il «mondo» così com’è, ma anche poter pensare alla
«realtà» come potrebbe essere. In una nota precedente Wittgenstein
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scrive: «pensa alla rappresentazione di fatti negativi, mediante mo-


delli come: Così e così due treni non devono stare sui binari. La pro-
posizione, l’immagine, il modello sono – nel senso negativo – come
un corpo solido che restringe la libertà di movimento degli altri; nel
senso positivo, come lo spazio, limitato da una sostanza solida, ove
un corpo ha posto» (p. 163). E quindi aggiunge l’immagine ripro-
dotta nella Figura 4, che chiarisce la strana realtà del fatto negativo:

Figura 4

C’è un fatto, effettivamente sussistente, ma “intorno” ad esso


– un “intorno” logico, benché agli occhi degli umani altrettanto
reale dei dintorni spaziali – c’è l’insieme dei fatti negativi: «che, da
un fatto p», ad esempio dal fatto corrispondente alla proposizio-
ne elementare (p) “oggi il cielo è nuvoloso”, «ne debbano seguire
infiniti altri, ossia ~ ~ p, ~ ~ ~ p, ecc., è, a tutta prima, difficile a
credersi» (§ 5.43); è difficile, per la zecca è impensabile (perché il
suo ambiente è pieno, ossia privo di vuoti e quindi di desideri), ep-
pure l’ambiente umano è ricolmo di fatti negativi. L’animale umano
si confronta, prima ancora che con “il cielo oggi è nuvoloso“ con
il molto più complicato “il cielo oggi non è terso”. Osserviamo il
cielo, appena dopo esserci alzati dal letto: “il cielo oggi è nuvo-
loso” pensiamo; ma questo pensiero (p) è accompagnato – anche
se non ce ne rendiamo conto, perché i dintorni di p sono dintorni
logici – dal pensiero ~ p. Da un lato «la proposizione negativa è
formata indirettamente mediante quella positiva», perché p presup-
pone appunto p; dall’altro, però, «la proposizione positiva deve

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38 il taglio

presupporre l’esistenza della proposizione negativa, e viceversa» (§


5.5151). Pensare il mondo com’è significa anche pensare il mondo
come non è: «la verità o falsità di ogni proposizione àltera qualcosa
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nella struttura generale del mondo» (§ 5.5262).


La negazione, e quindi il linguaggio, trasforma il «mondo» in «re-
altà»; comprendere una lingua, scrive Wittgenstein, significa «sapere
che cosa accade se essa è vera. (Dunque, una proposizione la si può
comprendere senza sapere se essa è vera)» (§ 4.024). Una qualun-
que proposizione p ha senso indipendentemente che noi si sappia
se è vera (e quindi corrisponda ad un fatto positivo), oppure è falsa
(se niente nel «mondo» corrisponde ad essa). Più in generale, ogni
proposizione «è una immagine della realtà» (§ 4.01), cioè è la raffi-
gurazione (un modello) di un possibile stato di cose del mondo. Ad
ogni proposizione corrisponde una situazione possibile: «il pensiero
contiene la possibilità della situazione che esso pensa. Ciò che è pen-
sabile è anche possibile» (§ 3.02).
Qui si mostra in assoluta evidenza la differenza biologica fra l’am-
biente della zecca e quello dell’animale umano: mentre la zecca può
pensare soltanto a ciò che si manifesta direttamente al suo apparato
sensoriale, per un qualunque Homo sapiens capace di usare una lin-
gua «ciò che è pensabile è anche possibile». Quello che era il solido
e confortevole ambiente della zecca, nel passaggio alla «realtà» uma-
na, letteralmente esplode in una miriade di frammenti. Mentre gli og-
getti dell’«ambiente» della zecca sono tutti perfettamente reali, sono
tutte cose fisicamente esistenti, quelli dell’«ambiente» umano con-
tengono, oltre a quelli materiali, anche fatti negativi; e questi sono
infinitamente di più di quelli. Qualunque progetto di antropologia
filosofica che non tenga conto di questa caratteristica della «realtà»
umana è sostanzialmente inutile. Nella tabella qui sotto proviamo a
riassumere le differenze fra l’«ambiente» della zecca e quello umano,
quello che Wittgenstein chiama «realtà» («il sussistere o non sussi-
stere di stati di cose»):

Zecca pienezza reale atemporalità

Homo sapiens fatti: positivi e reale + possibile desiderio/rimpianto


negativi

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2. la zecca e l’uomo 39

L’ambiente della zecca, che è privo della negazione, è pieno, senza


lacune. La vita della zecca è tutta nel momento che sta vivendo. Non po-
tendo fare esperienza del possibile non ha rimpianti né desideri. La sua
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vita coincide completamente con quello che le succede. Un essere uma-


no, al contrario, può fare esperienza dei «fatti negativi», quindi può fare
esperienza anche di ciò che non è effettivamente presente: l’ambiente
umano è l’ambiente del possibile. Se la zecca, tutta schiacciata nel reale,
vive fuori dal tempo (sebbene sia una creatura temporale e temporanea),
l’umano, al contrario, è una creatura intrinsecamente temporale. E quin-
di vive del ricordo, del rimpianto, del desiderio. La zecca non conosce la
trascendenza, l’umano – attraverso il linguaggio – è sempre proiettato
oltre di sé, nella trascendenza appunto (Cimatti, 2009).
«Il linguaggio comune», scrive ancora Wittgenstein, «è una parte
dell’organismo umano, e non meno complicato di questo»; e poi an-
cora, più avanti: «le tacite intese per la comprensione del linguaggio
comune sono enormemente complicate» (§ 4.002). Difficoltà e com-
plicazione che si presenta perché non si tiene conto dell’impatto del
linguaggio sul «mondo» umano, che ha come effetto principale – come
abbiamo appena visto – di trasformarlo in una «realtà» intessuta da
fatti positivi e da fatti negativi. L’essenza del linguaggio umano consi-
ste, prima ancora che nel riferimento (anche le api, ad esempio, sono
capaci di usare un segno per riferirsi ad un fiore; cfr. von Frisch, 1946),
nella negazione. E la negazione è un operatore logico-linguistico. Tra-
scurare l’effetto trasformativo del linguaggio sul mondo umano, si-
gnifica non cogliere la differenza che esiste fra l’ambiente della zecca e
quella di un qualunque esemplare di Homo sapiens. In questo senso, e
cominciamo il confronto con Jacques Lacan, per comprendere la spe-
cificità umana occorre partire da una premessa linguistica: «il linguag-
gio, prima di essere una funzione di comunicazione di contenuti men-
tali individuali, determina una nuova realtà e una nuova corporeità
rispetto all’esperienza animale» (Zenoni, 1999, p. 41).

3. Linguaggio e mancanza

Torniamo ancora una volta all’«ambiente» della zecca; è un mon-


do pieno, abbiamo visto più sopra. Questo non significa che non ci
possano essere dei buchi, al suo interno, ad esempio una cavità nel

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40 il taglio

tronco dell’albero a cui è aggrappata. Ma una cavità non è ancora la


mancanza di qualcosa. Immaginiamo una formica che, arrampican-
dosi lungo il tronco, arrivi al bordo di una cavità: con le antenne ne
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esplora i contorni, poi si introduce al suo interno. Dal suo punto di


vista non ha mai smesso, sotto le sue zampe, di esserci una superficie
piena e continua. Una cavità è una forma particolare, ma di per sé
non implica la mancanza di qualcosa che, prima, la riempisse. Occor-
re uno sguardo diverso, per “vedere” nella trama del pieno la man-
canza di qualcosa; quello sguardo è appunto lo sguardo dell’animale
umano, l’animale del linguaggio:

Vi avevo detto […] che non esiste mancanza nel reale, che la mancanza
può essere colta solo tramite il simbolico. Rispetto alla biblioteca possiamo
dire: Qui, il tale volume manca al suo posto. Si tratta di un posto designato
dall’introduzione preliminare del simbolico nel reale. Per questo, il simbolo
colma facilmente la mancanza di cui sto parlando, in quanto indica il posto,
indica l’assenza, presentifica ciò che non c’è (Lacan, [1962-1963] 2004, trad.
it. 2007, p. 143).

Nel reale «non esiste mancanza». Il reale è pieno, non ci sono la-
cune all’interno del tessuto spazio-temporale. È così che la zecca, o la
formica, percepisce il proprio ambiente, senza soluzioni di continui-
tà, senza desideri o rimpianti, c’è quello che c’è, niente di più niente
di meno. Per riuscire a “vedere” quello che manca, invece, occorre
osservare il reale dal punto di vista del «simbolico», cioè del linguag-
gio. L’esempio di Lacan è molto chiaro: in una biblioteca si trovano
molti libri, ognuno identificato da un numero di collocazione. Su
uno scaffale ci accorgiamo che, dopo il numero n, manca il libro con
il numero n+1, mentre troviamo invece il libro con il numero n+2.
C’è una lacuna nella numerazione, manca qualcosa. In effetti qui è
la sequenza dei numeri – ogni numero progressivo è il contrassegno
di un libro distinto – che determina l’aspettativa che dopo il numero
n segua n+1; siccome non lo troviamo, e saltiamo invece a n+2, ar-
riviamo alla conclusione che manca qualcosa, manca appunto n+1.
Nel regime del «simbolico» ad ogni «significante» ci aspettiamo che
corrisponda qualcosa, anche se questo qualcosa non esiste realmen-
te. Siamo arrivati al «posto» del segno n+1, però sullo scaffale non
troviamo nulla, ecco che sotto i nostri occhi si forma una assenza
(il libro mancante): “il libro n+1 non c’è” diciamo. Eccolo, il «fatto

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2. la zecca e l’uomo 41

negativo» di cui parlava Wittgenstein: nel linguaggio il «simbolo […]


indica il posto, indica l’assenza, presentifica ciò che non c’è». Ci sono
tantissimi libri, nella biblioteca, c’è un pieno di materia su quegli
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scaffali; ma oltre a tutti i libri che ci sono, ci “sono” anche quelli che,
in realtà, non ci sono (non ci sono più, in questo caso): “il libro n+1
non c’è” trova spazio nei nostri pensieri anche se quel libro non c’è,
proprio perché non c’è. Nel «mondo» di quella biblioteca ci sono
molti libri, ma nella sua «realtà» umana ce ne sono di più, ci sono
anche quelli che al suo interno non ci sono.
L’animale umano è quel vivente che costruisce sé stesso a partire
da questa scoperta: mentre la zecca, e ogni altro vivente non segnato
dal linguaggio proposizionale (quello che contiene la negazione), è
alle prese con un mondo in cui c’è solo ciò che effettivamente c’è,
per Homo sapiens c’è anche la «mancanza», che è «radicale, radi-
cale nella costituzione stessa della soggettività» (Ivi, p. 145). Nella
«realtà» umana (distinta dal «mondo») la «mancanza» è “presente”
quanto l’acido butirrico per la zecca, o il gatto per il topo, o la parete
cellulare per un virus.
Una delle prime, e più controintuitive, conseguenze di questa si-
tuazione, è che il linguaggio in realtà non è uno strumento che favo-
risce l’adattamento al mondo (come vorrebbe il luogo comune evo-
luzionistico; cfr. Pinker, Bloom, 1990), al contrario, è un formidabile
agente di disadattamento (Zenoni, 1999). Si pensi ancora una volta
al caso della zecca: nel suo «ambiente» non ci sono sorprese, cioè
non si verificano situazioni affatto impreviste. Possono esserci sor-
prese “locali”, ad esempio l’albero su cui si trova viene abbattuto dal
vento, ma non può accadere nulla che la zecca non possa affrontare.
Per i problemi che pone l’«ambiente» esiste già una soluzione; la zec-
ca non deve inventare nulla, essere una zecca significa appunto saper
già, prima ancora di nascere, come risolvere il tipo di problemi che le
pone il suo «ambiente» naturale. Con l’entrata in campo del «fatto
negativo», al contrario, si presentano all’animale umano situazioni
sempre nuove e imprevedibili; la selezione naturale può “prevedere”
il problema della riproduzione per la zecca, ma non può prevedere
come affrontare il “problema” posto dalla proposizione “oggi il cielo
non è terso”. Il tipico problema umano non ha a che fare con quel
che c’è, bensì con quel non c’è. L’antropologia filosofica comincia
con la constatazione della «distinzione radicale tra il mondo e il luo-

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42 il taglio

go in cui le cose, fossero anche le cose del mondo, arrivano a dirsi.


Tutte le cose del mondo arrivano a mettersi in scena secondo le leggi
del significante, leggi che non possiamo in alcun modo considerare di
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primo acchito omogenee a quelle del mondo» (Lacan, [1962-1963]


2004, trad. it. 2007, p. 37).
È l’omogeneità fra corpo e «ambiente» la caratteristica distinti-
va dell’esperienza della zecca (v. Figura 1), mentre è invece la diso-
mogeneità quella dell’esperienza umana: «le leggi del significante»,
cioè appunto del linguaggio, non corrispondono a quelle del mondo.
Questo è pieno e compatto, mentre la «realtà» umana è “piena” di
buchi, mancanze, lacune (i fatti negativi di Wittgenstein); e quindi
sarà “piena” di rimpianti (per un pieno che non c’è più, o non c’è mai
stato) e desideri (per un pieno che un giorno tornerà). In questo senso
il linguaggio proposizionale è profondamente disadattativo, perché
non favorisce il contatto con l’«ambiente», al contrario, lo rende so-
stanzialmente impossibile. Per descrivere la vita umana, scrive Lacan:

i riferimenti biologici, i riferimenti al bisogno sono certamente essenziali.


Non si tratta di rifiutarli, a condizione però di accorgersi che la più primitiva
differenza strutturale vi introduce, di fatto, delle rotture, dei tagli, vi introduce
dunque subito la dialettica significante. […] La dimensione del significante non
è nient’altro […] che ciò in cui si trova preso un animale all’inseguimento del
suo oggetto. In modo tale che l’inseguimento di tale oggetto lo conduce su un
altro campo di tracce, dove l’inseguimento stesso perde il suo valore introdut-
tivo per divenire il suo fine (Ivi, p. 73).

Per la zecca l’acido butirrico è segno della presenza di un mam-


mifero; la funzione della traccia è di condurla alla pelle (e solo alla
pelle), sotto cui scorre il sangue di cui ha bisogno per sopravvivere.
Quando la traccia ha assolto la sua funzione svanisce. All’animale
umano succede il contrario: la traccia non è un mezzo, bensì il fine.
Il «significante» non è la traccia che ci porta alla cosa, piuttosto è ciò
che ce ne allontana (Lacan, nel Seminario XVIII, definisce questo si-
gnificante senza significato «sembiante»: [1971] 2006, p. 14). “Oggi
il cielo non è terso”, diciamo; un pensiero che apre la strada a rap-
presentarci non quel che realmente c’è – un cielo coperto – bensì quel
che non c’è, che potrebbe esserci, che ci sarebbe piaciuto ci fosse, che
una volta ci piacque tantissimo quando ci fu. Un «fatto negativo» è
solo il primo di una serie di altri pensieri, che non si arrestano nella

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2. la zecca e l’uomo 43

cosa (come la zecca quando arriva al sangue), al contrario, pensieri


che portano ad altri pensieri, e poi altri ancora, e così via. E così
«l’inseguimento […] perde il suo valore introduttivo per divenire il
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[…] fine», cioè per trasformarsi in «quella catena indefinita di signifi-


cazioni che si chiama destino» (Ibidem). Al «destino» non si sfugge,
perché quel destino coincide con la costituzione biologica dell’anima-
le umano, che è fatta di carne e linguaggio.
Questa è la differenza fra la zecca e l’Homo sapiens; e qui ritrovia-
mo Wittgenstein. Quello che Lacan chiama «destino» per il filosofo
austriaco è racchiuso nel concetto di «operazione». Così scrive in
uno dei Quaderni che accompagnano la stesura del Tractatus: «il
concetto di operazione è, parlando in termini generalissimi, quello
secondo il quale possono costruirsi segni secondo una regola» (Witt-
genstein, 1922, trad. it. 1995, p. 237). L’«operazione» è il dispositivo
logico originario che produce segni a partire da altri segni: «il concet-
to “e così via”, in segni “…”, è uno dei più importanti e, come tutti
gli altri, infinitamente fondamentale», perché «senza questo concetto
ci fermeremmo ai segni primitivi e non potremmo andare oltre, an-
dare “via”» (Ibidem). Per la zecca ci sono soltanto «segni primitivi»,
come l’acido butirrico rispetto alla pelle di un mammifero; un segno
primitivo non può esistere se non corrisponde ad una cosa (è un in-
dizio). Al contrario, un segno linguistico non ha bisogno di essere
attaccato ad una cosa (perché può riferirsi a qualcosa che non c’è, il
«fatto negativo»); con l’«operazione» del «“e così via”» ogni segno
può generarne altri: «dopo il segno d’operazione segue il segno “…”,
il quale significa che il risultato dell’operazione può essere preso a
sua volta a base della stessa operazione, e “e così via”» (Ibidem).
L’analogo linguistico dell’operatore “e così via” è la capacità sem-
pre presente di aggiungere un enunciato ad uno preesistente: “c’è il
sole, oggi, e c’è vento”, e così via, appunto. Un qualunque enuncia-
to p è circondato da un alone di enunciati possibili che lo possono
estendere in modo indefinito. Entrare nel linguaggio significa entrare
in uno spazio letteralmente senza confini. È per questo che l’operato-
re del «“e così via”» diventa un destino: il segno “…” rende poten-
zialmente illimitata la catena segnica, la estende oltre ogni riferimen-
to alle cose realmente esistenti. Lo spazio dei pensieri dell’animale
umano non conosce confini.

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44 il taglio

4. Angoscia e «mistico»

La zecca sul ramo dell’albero, quando viene colpita da una mo-


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lecola di acido butirrico si lascia andare, perché ha buone possibi-


lità di cadere sulla pelle di un mammifero. La zecca, anche se forse
non ne è consapevole, si “fida” del corpo che è; se c’è questo odore,
allora qua sotto dev’esserci anche un cane (sulla mente “olfattiva”
v. Jacobs, 2012). Ci interessa, ora, proprio questo punto: che tipo
di mente sarà, invece, quella che deve confrontarsi con l’esistenza
del «fatto negativo»? Partiamo proprio dall’enunciato che ci ha così
spesso occupati finora, “oggi il cielo non è terso”. Siccome nel cielo
ci sono delle nuvole, chi parla del “cielo terso” non lo sta vedendo,
al contrario, sta vedendo delle nuvole. Mentre possiamo farci una
idea (peraltro molto approssimativa) di quello che può passare per
la mente di una zecca mentre percepisce l’odore dell’acido butirrico
(sulla mente degli artropodi cfr. Ranganathan, 2004), è molto più
complicato farsi una idea di come sia possibile pensare a qualcosa
che ha una esistenza soltanto linguistica. Il cane (dalla posizione della
zecca) è percepibile, mentre all’enunciato “oggi il cielo non è terso”
non corrisponde niente, dal momento che il cielo oggi è appunto
coperto di nuvole.
Wittgenstein affronta, e risolve, questo problema con una mossa
radicale, perché d’un solo colpo si sbarazza di ogni presupposizione
psicologistica: «ma è chiaro che “A crede che p”, “A pensa che p”,
“A dice p” sono della forma “<p> dice p”» (Wittgenstein, 1922,
trad. it. 1995, § 5.542). Pensare p, ad esempio “oggi il cielo non è
terso”, significa letteralmente essere quell’enunciato, essere “p”. La
mente umana non è come la mente della zecca più la capacità di par-
lare: il pensiero umano, in quanto è specificamente umano, coincide
con la capacità di usare una lingua. In questo senso la forma generale
di questi enunciati è «“<p> dice p”», cioè “dentro” e “fuori” siamo
alle prese comunque con una proposizione linguistica (ciò che rende
superflua la distinzione fra dentro e fuori). Quello che per la psico-
logia ingenua (ma spesso anche per quella scientifica) è il soggetto
(misteriosa entità e metafisica), per Wittgenstein è la capacità di pen-
sare nella lingua. Homo sapiens incarna la lingua che parla: «il segno
proposizionale applicato, pensato, è il pensiero» (§ 3.5), quindi «il
pensiero è la proposizione munita di senso» (§ 4). Data questa radi-

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2. la zecca e l’uomo 45

cale identità fra pensiero e linguaggio (proposizionale) – e questa è la


premessa dell’antropologia filosofica e della psicoanalisi – possiamo
farci una idea di come sia possibile pensare ciò che non è, cioè il
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«fatto negativo». È umana una mente capace di pensare oggetti che


hanno una esistenza soltanto linguistica. E la mente umana è questa
stessa capacità, non è nient’altro (in quanto mente umana, non di
mammifero). In questo senso è una mente completamente marchiata
dal linguaggio. Per questo oltre al linguaggio «il soggetto che pensa,
che immagina, non v’è» (§ 5.631), e non c’è bisogno che ci sia, pos-
siamo aggiungere.
La mente umana è completamente impregnata di linguaggio. Witt-
genstein prova a illustrare questa idea della soggettività attraverso un
confronto con il campo visivo umano. Più in particolare, il confronto
è in negativo, serve a mostrare come il campo visivo non è: «il cam-
po visivo non ha, infatti, una forma così» (v. Figura 5; § 5.6331). Il
campo visivo è un campo continuo, appunto, non c’è al suo interno
una posizione privilegiata per l’occhio. In realtà il campo visivo si
offre come una pura visibilità, come un campo d’azione, come uno
spazio di possibilità, «e nulla […] fa concludere che esso sia visto da
un occhio», perché «nel campo visivo […] l’occhio, in realtà, tu non
lo vedi» (§ 5.633). Il campo visivo non è diviso in due, l’occhio da
una parte e l’oggetto visto dall’altro: il campo visivo si presenta come
una visibilità unitaria. Il vedere coincide con il campo visivo, l’occhio
che vede non è separabile da quello che viene visto. Nella Figura 5, al
contrario, l’occhio sembra collocato all’esterno del campo visivo, ma
è proprio questa idea che Wittgenstein critica:

Figura 5

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46 il taglio

La stessa situazione vale per il soggetto psicologico, che coincide


con lo spazio dei suoi pensieri, e quindi della sua lingua («i limiti del
mio linguaggio significano i limiti del mio mondo»; § 5.6). Io sono
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tutto quello che posso pensare, e siccome la forma dei miei pensieri
è «“<p> dice p”», io sono tutto ciò che posso dire. Il soggetto è que-
sta coincidenza di linguaggio e pensiero; per questa ragione, perché
non rimane nient’altro di psicologico, «il soggetto non è parte, ma
limite del mondo» (§ 5.632). Il soggetto non è una cosa nel mondo,
come invece è la zecca sull’albero; il soggetto arriva fin dove arriva il
suo linguaggio (e quindi i suoi pensieri), per questo è un «limite». Il
soggetto allora svanisce: «appare qui che il solipsismo, svolto rigoro-
samente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae
in un punto inesteso e resta la realtà ad esso coordinata» (§ 5.64).
Il soggetto «si contrae in un punto inesteso»: c’è un qualcosa che
non è niente. È la stessa conclusione a cui giunge Lacan, e non sor-
prende, visto che la sua premessa è identica a quella di Wittgenstein:
non c’è Homo sapiens senza linguaggio (ad una conclusione analoga
arriva, peraltro, chiunque, ad esempio Vygotskij, leghi strettamente
corpo e linguaggio). Nella simbologia lacaniana questo «punto ine-
steso» viene indicato con la lettera a. Lacan parla di a piccolo in con-
trapposizione ad un A grande, che è il linguaggio (il Simbolico), che
è sempre altro rispetto al soggetto (nel senso che lo precede, a partire
dal fatto elementare che ogni umano riceve un nome prima di na-
scere). In effetti anche per Wittgenstein il soggetto è in una relazione
di completa subordinazione rispetto al linguaggio. Senza linguaggio
non ci sarebbe nessun soggetto, infatti:

designare questo a piccolo con il termine oggetto è fare un uso metaforico


di questo termine, poiché esso è tratto dalla relazione soggetto-oggetto, da cui
il termine oggetto si costituisce. Quest’ultimo è sicuramente appropriato per
indicare la funzione generale dell’oggettività, ma ciò di cui dobbiamo parlare
usando il termine a è, per l’appunto, un oggetto esterno a qualsiasi definizione
possibile dell’oggettività (Lacan, [1962-1963] 2004, trad. it. 2007, p. 95).

L’oggetto non oggettuale a piccolo è ciò che «resta, dopo il taglio»


(Ivi, p. 108) operato dal linguaggio. Non è qualcosa, eppure qualcosa
è, come “oggi il cielo non è terso” (quando il cielo è coperto di nu-
vole) indica qualcosa anche se ciò che indica non esiste. L’«oggetto a
si pone al centro del nostro discorso» dice Lacan, e «l’angoscia è la

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2. la zecca e l’uomo 47

sua sola traduzione soggettiva» (Ivi, p . 109). Lacan esplicita quello


che in Wittgenstein rimaneva implicito: di questa soggettività come
«limite», come «punto inesteso», come «taglio» rimane qualcosa,
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l’angoscia, che è il tono emotivo fondamentale dell’animale umano,


cioè di quel vivente che propriamente non è, perché è soltanto un
«limite»:

l’angoscia […] svolge la funzione di segnale rispetto a qualcosa. Io dico che


questo segnale è in rapporto a quello che succede riguardo alla relazione del
soggetto con l’oggetto a in tutta la sua generalità. Il soggetto non può entrare
in questa relazione se non nella vacillazione di un certo fading, la quale viene
indicata dalla notazione S barrata (Ivi, p. 94).

Il soggetto, segnato da questa «vacillazione» rispetto a sé stes-


so (perché sa di essere un fatto che non sussiste), è (come indica la
«notazione S barrata») un $, ossia un Soggetto difettoso, cancellato,
barrato appunto, incapace di tenersi in piedi da solo. Il movimento,
il «destino» come scriveva più sopra Lacan, di questo soggetto è al-
lora segnato: «$ desiderio di a» (Ivi, p. 109). Se la zecca è sempre a
casa nel suo «ambiente», perché non potrà mai arrivare una sorpresa
che metta in crisi quella certezza in cui il suo stesso corpo consiste,
$ invece è sempre fuori luogo, perché incarna il suo stesso dissidio.
Per questo «$ [è] desiderio di a», cioè il (vano) tentativo di riempire
quella lacuna che egli stesso rappresenta, desiderio di sé stesso. Se è
la sorpresa ciò che manca nel mondo della zecca, nella «realtà» del $
è invece la certezza ad essere esclusa:

l’angoscia è questo taglio – questo taglio netto senza il quale la presenza del
significante, il suo funzionamento, il suo solco nel reale sono impensabili –, è
questo taglio che si apre e lascia apparire […] l’inatteso, la visita, la notizia, ciò
che il termine presentimento esprime così bene. Questo non è semplicemente
da intendere come il presentimento di qualcosa, ma anche come il pre-senti-
mento, ciò che precede la nascita di un sentimento (Ivi, pp. 82-83).

L’angoscia non è un sentimento come gli altri, è un «pre-sentimen-


to», quello che viene prima di tutti gli altri, e che li rende possibili.
L’angoscia è lo stato d’animo specifico (proprio in senso biologico)
dell’animale umano. Ma è da questa situazione, infine, che si apre
la possibilità per un ulteriore confronto fra Wittgenstein e Lacan. Il
Tractatus si chiude con le pagine che cercano di delineare la possibili-

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48 il taglio

tà di una esperienza collocata oltre il linguaggio, in quello spazio che


Wittgenstein chiama il «Mistico». Solo un animale affatto attraver-
sato dal linguaggio, e segnato dall’angoscia che ne deriva, può desi-
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derare di liberarsi della causa del suo disagio, il linguaggio appunto.


È esattamente lo stesso obiettivo che Lacan pone alla psicoanalisi:
arrivare al «reale» (usando i termini di Wittgenstein: trasformare la
«realtà» in «mondo»), ossia liberarsi del «simbolico».
Anche se nessuno dei due autori ha dedicato riflessioni specifiche
al tema dell’animalità – nonostante gli animali sono molto presen-
ti nei loro scritti (Frongia, 1996; Macola, Brandalise 2007) – qui
entrambi costeggiano il tema della possibilità di una forma di vita
oltre il linguaggio: ossia l’animalità, cioè appunto una forma di vita
affrancata dal “no” del linguaggio (Cimatti, 2013).
«L’angoscia», scrive Jacques-Alain Miller nel suo commento al
Seminario X di Lacan, è l’effetto dell’«operazione mortifera del signi-
ficante […] l’effetto principale del linguaggio sul godimento» (Miller
2006, p. 114). Quel «punto inesteso» che è il $, non ha mai cono-
sciuto la condizione della zecca, perché quando non c’era il linguag-
gio non c’era ancora l’umano. Se da un punto di vista evolutivo la
specie umana si può essere formata gradualmente, da un punto di
vista strutturale l’umanità comincia quando nel suo ambiente appare
il «fatto negativo». In questo senso la condizione umana non è qual-
cosa di più, o di meno, rispetto a quella della zecca, è qualcosa di
completamente diverso. Per questa ragione il «Mistico» di Wittgen-
stein come il «reale» di Lacan si collocano oltre e dopo il linguaggio.
Non c’è prelinguistico nell’umano. D’accordo, ma come liberarsi del
linguaggio, se è il linguaggio ciò che definisce l’umano come umano?
Anche in questo caso Wittgenstein affronta il problema in nega-
tivo: ciò che è oltre il linguaggio è evidentemente indicibile (se non
lo fosse non sarebbe oltre il linguaggio): data l’identità di pensiero e
linguaggio si tratta allora di «delimitare l’impensabile dall’interno
attraverso il pensabile» (Wittgenstein, 1922, trad. it. 1995, § 4.114),
e così si potrà alludere al«l’indicibile rappresentando chiaramente
il dicibile» (§ 4.115). Scartiamo subito una ipotesi sbagliata (anche
se ricorrente): non si può raggiungere l’indicibile attraverso mezzi
diversi dal linguaggio, ad esempio l’intuizione (qualunque cosa sia
l’intuizione). Abbiamo visto che non c’è alcuna sostanza psicologica
nel soggetto. Se togliamo il linguaggio non c’è soggetto, e quindi non

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2. la zecca e l’uomo 49

c’è nemmeno intuizione. La zecca non si preoccupa dell’indicibile


non perché sia pigra o ottusa, bensì perché non essendosi mai mossa
dal suo ambiente non desidera nemmeno tornarvi. L’intuizione rien-
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tra nel prelinguistico, e non c’è prelinguistico.


«Tutte le proposizioni», cioè l’insieme del linguaggio umano,
«sono di pari valore» (§ 6.4). È così perché l’«infinitamente fonda-
mentale» operazione «“e così via”» permette di generare quante pro-
posizioni vogliamo; si tratta di un dispositivo sempre all’opera, per-
tanto non c’è una proposizione finale del linguaggio, così come non
si arresta la serie dei numeri naturali (c’è sempre un +1). Come ogni
numero è soltanto un altro numero, così ogni nuova proposizione
linguistica non è che un’altra proposizione. Questo a dire che dentro
il linguaggio, nel dicibile, non c’è nessun atto linguistico che valga
in modo speciale, appunto perché non è che un evento linguistico
qualunque. Bisogna allora trovare qualcosa che sfugga al linguaggio,
l’indicibile appunto, ma che non sia “fuori” del linguaggio, perché in
quello spazio un animale umano non può andarci. Occorre trovare il
“fuori” nel linguaggio stesso.
E quindi: «il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo
tutto è come è, e tutto avviene come avviene: non vi è in esso alcun
valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore» (§ 6.41). È evidente che
dal linguaggio non si esce, se non smettendo di essere umani. Si tratta
allora di cambiare il modo di stare al mondo, rimanendo tuttavia
con i piedi ben piantati dentro il mondo: «non come il mondo è, è il
Mistico, ma che esso è» (§ 6.44). Il che del mondo è la presa d’atto
che il mondo c’è, e basta. Il «Mistico» si mostra (ricordiamo che è
indicibile) quando il soggetto ($) riesce a tirarsi fuori dall’«“e così
via”» del linguaggio (cioè dalla domanda su come è il mondo: ad
esempio “oggi il cielo è nuvoloso”, “oggi il cielo non è terso”, “oggi
il cielo è plumbeo” e così via, senza fine). Questo significa non la-
sciarsi trascinare da «quella catena indefinita di significazioni che si
chiama destino», come scriveva Lacan.
Rispetto al linguaggio si possono assumere due posizioni fonda-
mentali: o assecondare la deriva del significante (implicita nell’“e così
via” costitutivo del funzionamento dei segni linguistici), oppure af-
ferrarlo come un tutto: «la visione del mondo sub specie aeterni è la
visione del mondo come totalità delimitata. Il sentimento del mondo
come totalità delimitata è il sentimento mistico» (§ 6.45). Il «Misti-

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50 il taglio

co» non è lo straordinario stato d’animo di chi intuisce una verità


sovrasensibile; al contrario, il «Mistico» è la condizione di chi riesce
a vivere il linguaggio (cioè la «realtà», e quindi l’insieme infinito dei
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fatti positivi e di quelli negativi) come se fosse un «mondo» (che


invece è l’insieme di tutto ciò che è sussistente), e quindi qualcosa di
pieno, sicuro, affidabile. Si apre lo possibilità del «mistico» quando
la «realtà» diventa «mondo», cioè quando il dispositivo angoscioso
del linguaggio (c’è sempre un altro numero, un’altra proposizione,
un altro «fatto negativo») viene “immobilizzato”, e la serie infinita
appare – miracolosamente – come unitaria. Il «mistico» è quando il
sapiens per un istante vede il mondo come lo vede la zecca.
Per Wittgenstein, come dice nella Conferenza sull’etica, si tratta
dell’«esperienza […] di sentirsi assolutamente al sicuro. Intendo lo
stato d’animo in cui si è portati a dire: “Sono al sicuro, nulla può
recarmi danno, qualsiasi cosa accada”» (Wittgenstein, 1967, p. 13).
Si tratta dell’esperienza più vicina a quella della zecca che un umano
possa provare: solo che mentre la zecca non ha mai dubitato del suo
«ambiente» (questo significa essere una zecca, non essere mai sfio-
rato dal dubbio), l’animale umano parte dall’angoscia: la certezza
che cerca non l’ha mai conosciuta, perché questo significa essere un
Homo sapiens, non avere mai conosciuto l’esperienza dell’essere a
casa. Rimanere nel linguaggio uscendone, in questa contraddizione
consiste, per Lacan, la cura analitica: «dissociare a da A, riducendo
il primo a qualcosa che appartiene all’immaginario e l’altro a qual-
cosa che fa parte del simbolico» (Lacan [1972-1973] 1975, trad. it.
2011, p. 77). Coincidere con l’a piccolo significa appunto non essere
più trascinato da A grande, dal linguaggio, dalla sua deriva. Significa
coincidere con quella mancanza che il linguaggio scava in ogni corpo
umano (è questo l’«immaginario» di cui parla Lacan), e quindi uscire
dalla dinamica senza fine mancanza – rimpianto – desiderio: «non si
può dire la verità; se non si è ancora assoggettato sé stessi. Non la si
può dire; ma non perché non si è ancora abbastanza intelligenti. Può
dirla solo colui che già in essa riposa; non chi è ancora nella non ve-
rità, e solo una volta fuori dalla non verità le stende la mano» (Witt-
genstein, 1977, trad. it. 1980, p. 72). Solo chi nella verità «riposa»,
può dire la verità. Ma a quel punto non ha più bisogno di dire nulla,
perché desidera dire la verità solo chi ancora non la incarna, chi si
trova ancora al di fuori della verità. Se piove e dico “oggi piove” quel

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2. la zecca e l’uomo 51

che dico è vero, ma si tratta di un enunciato che mi allontana dalla


pioggia, che mi separa dal mondo, che presuppone la distinzione fra
chi parla e ciò di cui si parla. La zecca non si pone il problema di dire
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qualcosa, la zecca si bagna, se piove. La zecca è nel mondo, è tutta


lì nel mondo. Quello Wittgenstein chiama il «mistico» è quello che
il Lacan degli ultimi anni della sua vita indicava come la via d’usci-
ta dall’analisi, il reale inteso come «la mancanza della mancanza»
(Lacan, 2001, p. 573). Ossia stare nella «realtà» come se fosse un
«mondo»: questo significa riposare nella verità. Essere un animale
linguistico, che vive in modo non linguistico. Essere un sapiens, ma
vivere come una zecca.

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«Parlessere»

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3. Linguaggio e pulsione di morte
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Quando la parola è schiava, tutto è schiavo


(Ellul, 1977, trad. it. 2009, p. 74).

1. Istinto e pulsione

In questo capitolo provo a rispondere a questa domanda: cosa è,


propriamente, quella «pulsione di morte» di cui Freud comincia a
parlare in Al di là del principio di piacere? Per provare a rispondere
occorre partire dalla distinzione fra «istinto» e «pulsione»: ogni in-
dagine sulla natura umana comincia da questa distinzione (Lewontin
et al. 1984, Zenoni, 1999; Laplanche, 2000; Virno, 2003). Un istin-
to, secondo Nikolaas Tinbergen (Burkhardt, 2014), è «un meccani-
smo nervoso, gerarchicamente organizzato, che è sensibile a deter-
minati impulsi preparatorî, scatenanti e orientanti, di origine interna
o esterna, e che risponde a tali impulsi con movimenti coordinati i
quali contribuiscono alla conservazione dell’individuo e della specie»
(Tinbergen, 1951, trad. it. 1994, p. 166). Un istinto è un dispositivo
non appreso che permette ad un organismo vivente, in presenza dello
stimolo (interno o esterno) appropriato (che rientra nel cosiddetto
«Meccanismo Scatenante Innato»), di reagire all’ambiente in modo
adeguato fin dal primo tentativo. La sopravvivenza di un organismo
vivente dipende dalla sua dotazione istintiva. Prendiamo un esempio
diventato celebre, quello di un pesce, lo spinarello maschio:

in primavera, il graduale allungarsi delle giornate mette i maschi in una


condizione di accresciuta motivazione riproduttiva che li spinge a migrare in
acque dolci poco profonde. Qui […] un aumento della temperatura e assieme
una situazione di stimolo visivo, fornita da un territorio adatto, scatenano lo

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56 il taglio

schema riproduttivo per intero. Il maschio si insedia nel territorio e i suoi eri-
trofori [cellule che contengono granuli di pigmento rosso] si espandono; esso
reagisce agli estranei combattendo e comincia a costruirsi un nido. Però, men-
tre tanto la costruzione del nido quanto il combattimento dipendono dall’at-
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tivazione della pulsione riproduttiva nel suo insieme, nessun osservatore può
predire quale dei due schemi sarà esibito in un dato momento. Il combattimen-
to, ad esempio, deve essere scatenato da uno stimolo specifico, e cioè “maschio
rosso nell’atto di invadere il territorio”. La costruzione del nido non è attivata
da tale situazione, ma dipende da altri stimoli (p. 155).

Il suo comportamento è di volta in volta innescato da uno stimolo


preciso: l’aumento della temperatura primaverile “accende” l’istinto
riproduttivo; la vista di un particolare habitat acquatico lo porta a
costruire un nido per la futura prole; un ventre rosso “significa” un
maschio rivale, vista che scatena l’istinto aggressivo, e così via. La
questione che si pone è se qualcosa del genere esista anche per gli ani-
mali umani (Ridley, 2003; Toga, Thompson 2005; Fox Keller, 2010).
La strettissima parentela genetica fra Homo sapiens e i mammiferi in
genere, e i primati in particolare (Prüfer et al., 2012) porta ad aspet-
tarci di trovare degli istinti umani. C’è però un problema, che rende
questa aspettativa vana: un umano che si trovasse nella situazione
ormonale dello spinarello di Tinbergen potrebbe sempre fermarsi e
chiedersi: “Ma che sto facendo? Perché me la prendo con quest’uo-
mo che ha la sola colpa di portare un maglione rosso?”. Nel mo-
mento in cui si ponesse questa domanda, immediatamente potrebbe
anche fermarsi, e dissociarsi dal proprio stesso istinto. Lo spinarello è
“agito” dall’istinto; lo stesso istinto, nell’animale umano, può essere
controllato perché chi ne subisce la spinta può rendersi conto di que-
sta spinta (qui interessa che questa possibilità esista, non quanto sia
effettivamente praticata o praticabile). C’è una enorme differenza fra
essere trascinati da una corrente impetuosa, e sapere di essere trasci-
nati da una corrente impetuosa. In questo secondo caso forse c’è un
modo per non essere travolti da quella stessa corrente, nell’altro no.
La differenza fra «pulsione» e «istinto» è tutta (ed è davvero una
differenza radicale) in questa diversità: «le pulsioni», diceva Jacques
Lacan nel Seminario XXIII, «sono l’eco nel corpo del fatto che ci sia
un dire» (Lacan, 2006, trad. it. 2005, p. 16). Il corpo e l’istinto sono
potenti e trascinanti tanto nello spinarello quanto nell’uomo; il pun-
to che è che in quest’ultimo quelle stesse forze possono essere pensa-
te, rielaborate, attutite, fino al punto che diventa possibile deviarne

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3. linguaggio e pulsione di morte 57

la direzione di movimento. Essere in grado di parlare, sostiene Lacan,


modifica non soltanto il modo di comunicare di un corpo, modifica
lo stesso corpo. Il linguaggio si intrufola, modificandolo, nell’intera
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costituzione biologica dell’Homo sapiens (Cimatti, 2000; Lo Piparo,


2003). La pulsione, allora, è una forza corporea, potente e trascinan-
te, che tuttavia è impregnata di linguaggio. E che quindi eredita la
flessibilità e mobilità del linguaggio. Di fronte ad un gatto sul tappeto
(Searle, 1978), non c’è un solo modo per parlarne, come sarebbe il
caso se il linguaggio fosse un istinto (Cimatti, 2007): nel dispositivo
linguistico è implicita una libertà e una variabilità che l’istinto non
permette. La pulsione, allora, è un istinto passato attraverso il filtro
del linguaggio, cioè un istinto liberato e non più univoco (che quindi,
di fatto, cessa di essere un istinto). Secondo Freud:

la “pulsione” […] appare come un concetto limite tra lo psichico e il soma-


tico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’in-
terno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che
vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella
corporea (Freud, 1915a, trad. it. 1976, p. 17).

Il campo della pulsione (Trieb) ha a che fare con il corpo, come


anche l’istinto (Instinkt), ma allo stesso tempo ha a che fare anche
con la psiche, diversamente da quello che succede con l’istinto, che
è soltanto corporeo. La pulsione infatti è il «rappresentante psichi-
co» degli stimoli che provengono «dall’interno del corpo» quando
appunto «pervengono alla psiche». Che succede all’istinto, allora,
quando diventa pulsione? Torniamo per un momento all’esempio
dello spinarello durante la stagione riproduttiva. Quando vede un
oggetto rosso, ad esempio, gli si scaglia contro con estrema violenza.
Lo stimolo scatenante innato è una macchia rossa; per lo spinarello
non fa differenza se la macchia è sul petto di un altro maschio op-
pure se è il colore di un furgoncino postale che vede attraverso la
finestra del laboratorio dentro cui si trova la vasca di vetro dove vive
(un caso realmente accaduto a Tinbergen). La visione di qualcosa di
rosso mette in movimento il comportamento aggressivo; lo spinarello
in realtà non ha alcun controllo sul suo corpo, subisce la visione del
rosso come una foglia subisce la forza del vento.
Per Freud sono quattro gli elementi che compongono una pulsio-
ne: la «fonte», ossia «il processo somatico» da cui prende avvio tutto

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58 il taglio

il movimento pulsionale (p. 19); la «spinta» cioè il suo «elemento


motorio» (le azioni che si devono mettere in atto per soddisfarlo); la
«meta» che è sempre la stessa per tutte le pulsioni, ossia il «soddi-
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sfacimento che può essere raggiunto soltanto sopprimendo lo stato


di stimolazione alla fonte della pulsione», ed infine l’«oggetto […]
ciò in relazione a cui, o mediante cui, la pulsione può raggiungere la
sua meta» (p. 18). Ciò che caratterizza una pulsione, rispetto ad un
istinto, è la estrema variabilità dei modi che conducono dalla fonte
alla meta. È il vasto campo e imprevedibile dei «destini» a cui può
andare incontro una pulsione. Si prenda il caso «delle pulsioni che
hanno come mete il guardare e il mostrarsi» (p. 25). Se fossero degli
istinti il loro percorso sarebbe lineare: nel primo caso – il guardare
– il vettore sarebbe dall’occhio del soggetto all’oggetto cercato, così
come il colore rosso, durante la stagione riproduttiva, è l’oggetto che
soddisfa la meta dell’istinto aggressivo dello spinarello; nel secondo –
il mostrarsi – il vettore andrebbe dall’occhio altrui al proprio corpo.
Per le pulsioni, invece, secondo Freud ci sono almeno quattro «de-
stini» alternativi: «la trasformazione nel contrario; il volgersi sulla
persona stessa del soggetto; la rimozione; la sublimazione» (p. 22).
Secondo il primo destino, ad esempio, «al posto della meta attiva
([…] contemplare) viene instaurata quella passiva ([…] essere con-
templato)» (Ibidem). Qui il movimento dello sguardo viene rovescia-
to esattamente come un enunciato attivo può essere trasformato in
uno passivo: da “io guardo te” a “io sono guardato da te”. Al posto
della rigidità dell’istinto subentra la plasticità del linguaggio. Una
operazione analoga per la pulsione sadica, che può trasformarsi nel
suo contrario: «a) il sadismo consiste nell’esercizio della violenza e
della forza contro un’altra persona assunta quale oggetto; b) questo
oggetto viene abbandonato e sostituito dalla propria persona. Con il
volgersi della pulsione sulla propria persona si compie pure la con-
versione della meta pulsionale attiva in meta pulsionale passiva; c)
viene nuovamente cercata, quale oggetto, una persona estranea, la
quale deve assumere, in seguito al cambiamento determinatosi nella
meta, il ruolo di soggetto» (p. 23).
In questi casi il corpo diventa direttamente logica, e l’istinto si
modifica in base alle possibilità grammaticali della lingua. In que-
sto senso la «pulsione» è la grammaticalizzazione del corpo. Come
un’entità sintattica è mobile e combinabile, così il corpo “grammati-

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3. linguaggio e pulsione di morte 59

calizzato” è altrettanto mobile e modificabile. Non ci sarebbe «pul-


sione» se non ci fosse la facoltà del linguaggio. Se ora torniamo alla
definizione di Freud, rimane da chiarire cosa intenda, propriamente,
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quando scrive che la pulsione è il «rappresentante psichico» degli


stimoli che provengono «dall’interno del corpo». È qui che vedremo
fino a che punto il linguaggio faccia presa sul corpo dell’animale che
parla. Per Freud, infatti, la coscienza umana – più precisamente l’au-
tocoscienza – è un fenomeno completamente linguistico, che sarebbe
impossibile senza linguaggio:

la rappresentazione conscia [di un qualunque contenuto] comprende la rap-


presentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente [a
quel contenuto], mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta.
Il sistema Inconscio contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto
cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Preconscio nasce
dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al
suo nesso con le relative rappresentazione verbali. Abbiamo il diritto di supporre
che siano tali sovrainvestimenti a determinare una più alta organizzazione psi-
chica, e a rendere possibile la sostituzione del processo primario con il processo
secondario che domina nel Preconscio (Freud, 1915b, trad. it. 1976, p. 85).

Il processo primario inconscio è costituito dalle «rappresentazioni


di cosa», cioè tutti quei fenomeni psichici che hanno origine dalle
esperienze con il mondo (processo che Homo sapiens ha in comune
con tutti gli altri viventi); nel processo secondario, invece, la rap-
presentazione di cosa viene sovrainvestita da una rappresentazione
verbale, cioè viene associata alla rappresentazione interna del suono
linguistico che le corrisponde, ad esempio. Poniamo che nella mente
di qualcuno si formi il pensiero di un gatto. Se questo qualcuno è in
grado di parlare, allora insieme alla immagine del gatto, o alla sensa-
zione della mano che ne carezza il pelo, si accompagna anche il suo-
no linguistico “gatto”. Pensa al gatto, e intanto ascolta nella mente
la parola che designa quel pensiero. Questa doppia e contemporanea
rappresentazione mentale di uno stesso contenuto permette non solo
di essere cosciente del gatto, ma anche di essere cosciente del fatto di
essere cosciente del gatto. L’autocoscienza, per Freud, significa lette-
ralmente parlare e ascoltare sé stessi. L’animale umano è quel vivente
in grado di passare dall’istinto alla pulsione. Il processo secondario
è letteralmente quello che lo psicologo sovietico Vygotskij chiamava
«pensiero verbale» (Vygotskij, 1934).

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2. Il gioco del rocchetto

Ma cosa allora è la «pulsione di morte» di cui parla Freud in Al


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di là del principio del piacere, questa strana «spinta, insita nell’orga-


nismo vivente, a ripristinare uno stato precedente al quale quest’esse-
re vivente ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze proveniente
dall’esterno» (Freud, 1920, trad. it. 1983, p. 222)? Intanto è da scar-
tare ogni ipotesi interpretativa che preveda una misteriosa e univer-
sale forza biologica che spingerebbe «a ritornare allo stato inanima-
to» (Ivi, p. 224) (cfr. Laplanche, 1972; Sulloway, 1982; Green, 1991;
Weatherill, 1999; Mills, 2006; Razinsky, 2013). Si tratta piuttosto di
vedere qual è il dispositivo, proprio della natura umana (Hauser et
al. 2002; Cimatti, 2011), che può essere all’origine di quei fenome-
ni che Freud spiega postulando appunto l’esistenza, accanto ad una
«pulsione di vita», di una «pulsione di morte». La manifestazione
principale di questa pulsione è la cosiddetta «coazione a ripetere»
(Wiederholungszwang) (Freud, 1920, trad. it. 1983, p. 209). Il pri-
mo esempio, e migliore, di questa pulsione è il comportamento di un
bambino (il nipote di Freud, all’età di un anno e mezzo), che:

aveva l’abitudine […] di scaraventare lontano da sé in un angolo della stan-


za, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi
[…]. Nel fare questo emetteva un “o–o–o” forte e prolungato, accompagnato
da un’espressione di interesse e soddisfazione; […] questo suono non era un’in-
teriezione, ma significava “fort” [“via”]. Finalmente mi accorsi che questo era
un gioco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a “get-
tarli via”. Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bam-
bino aveva un rocchetto di legno attorno a cui era avvolto del filo […] tenendo
il filo a cui era attaccato, gettava […] con grande abilità il rocchetto oltre la
cortina del suo lettino in modo di farlo sparire, pronunciando al tempo stesso
il suo espressivo “o–o–o”; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e
salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il
gioco completo – sparizione e riapparizione – (pp. 200-201).

Secondo Freud attraverso questo gioco il bambino inscena un


doppio movimento “simbolico”: l’allontanamento della madre – il
gesto con cui il rocchetto viene scagliato via – e il suo ritorno, quan-
do il rocchetto viene di nuovo riportato sul letto. In entrambi i casi
è il linguaggio a marcare questi due movimenti: via dal bambino,
“o–o–o”, vicino a lui “da”. Il bambino non si limita a gettare via

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3. linguaggio e pulsione di morte 61

qualcosa, un gesto comune a molti viventi (come quando un gatto


scarta qualcosa che non vuole, ad esempio un cibo che non gradisce).
Il gesto del bambino è un gesto simbolico, non sta allontanando da sé
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un oggetto che non vuole, sta allontanando da sé ciò che quell’ogget-


to significa. Il rocchetto non è un vero rocchetto, è un segno.
Una parola scaccia via un oggetto, secondo Freud la madre, un’al-
tra parola la riaccoglie vicino a sé. La parola qui non è un semplice
accompagnamento di un gesto non linguistico: al contrario, senza la
parola l’intera sequenza non sarebbe un gioco, non avrebbe il valore
di una messa in scena rappresentativa. Perché è solo attraverso la
parola che qualcosa di presente, il rocchetto, viene allontanato; e
perché solo attraverso una parola che qualcosa di assente – la madre
– può essere trasformata in qualcosa di presente. Il linguaggio umano
è esattamente questa doppia possibilità: rendere presente una assenza
(Marconi, 1997), rendere assente una presenza (Freud, 1925; Cuc-
cio, 2011; Virno, 2013). Una parola, “da”, infatti si riferisce a qual-
cosa che non è presente, come il rocchetto alla madre assente, che
quindi attraverso di essa è in qualche modo presente; un’altra parola,
“o–o–o” rende assente – come la negazione – qualcosa che invece è
presente (il rocchetto-madre viene negato, e quindi allontanato).
Con due sole parole, in realtà, nel gioco del rocchetto viene messa
in scena la potenza straordinaria del linguaggio umano (Sabbatini,
2010): capace di dare consistenza a ciò che non presente, perché ba-
sta l’evocazione di una parola perché ciò a cui si riferisce si presenti
alla mente, anche se fisicamente non ce n’è traccia; capace allo stes-
so tempo di rendere in qualche modo assente ciò che è davanti agli
occhi. “Questa non è una pipa” scrive René Magritte mentre ce ne
mostra l’immagine. Cos’è che vediamo, allora, una pipa o no? O
è soltanto una immagine della pipa? Ma già vedere qualcosa come
immagine significa vederla come una specie di segno (non è affatto
sicuro, infatti, che un animale non umano, cioè non linguistico, veda
un’immagine in quella che noi chiamiamo immagine; cfr. Weisman,
Spetch 2010).
Ciò che è fisicamente presente diventa incerto e aperto al dubbio,
perché la parola è più potente della cosa. “Non c’è un gatto sul tap-
peto”, dice qualcuno, e in effetti non ci sono gatti nella stanza, però
subito è proprio ad un gatto che pensiamo, anche se non ne vediamo
nessuno. La parola rende presente l’assente, la parola rende assente

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62 il taglio

ciò che è presente. Il linguaggio è questa potenza. Che fin dall’inizio


svela quindi un doppio carattere: estende il potere della nostra imma-
ginazione, perché ci permette di pensare anche a ciò che non esiste;
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però allo stesso tempo rende ogni cosa come evanescente e mortale
(Agamben, 1982; Green, 1993; Oberst, 2009; Cimatti, 2010; Han-
sen, 2011; D’Alonzo, 2013). I viventi muoiono da prima che esista
il linguaggio, non è questo che ha introdotto la mortalità nel mondo
della vita. Il linguaggio però rende gli umani plasticamente consape-
voli della radicale caducità di tutto ciò che avrebbero tanto preferito
pensare come eterno e indistruttibile. Basta un “non”, ed anche un
bambino si accorge che nulla resiste alla corrosione del tempo. La
madre del nipote di Freud comincia a morire la prima volta che il
figlio gioca con il suo terribile “o–o–o”; ma non solo la madre, anche
il figlio comincia a morire in quello stesso istante. In questo senso
anche l’esperienza della temporalità comincia con il linguaggio (Ci-
matti, 2013). È terribile il prezzo che Homo sapiens paga per il fatto
di parlare (Crow, 1997; Mufwene, 2004; Pennisi, Falzone, 2010; Ci-
matti, 2011; Pagliardini, 2011).

3. FLN e «coazione a ripetere»

Che cosa è, propriamente, la «coazione a ripetere»? Abbiamo ap-


pena visto il bambino ripetere il gioco che mette in scena simbolica-
mente l’allontanamento della madre ed il suo ritorno. Un gioco che
il bambino non si stanca di ripetere. È proprio questa ripetizione che
deve essere spiegata. Anche se la ripetizione del gioco, infatti, può aiu-
tare il piccolo umano a sopportare l’esperienza dolorosa dell’assenza
della madre, ci si chiede perché sempre di nuovo ripeterla. Perché una
volta che il gioco è riuscito, e la madre-rocchetto è tornata, il bambino
sente ancora il bisogno di ricominciare da capo? Una prima risposta è
contenuta nell’essenza stessa del linguaggio come fenomeno simbolico:
il rocchetto è un segno della madre, non è la madre in carne ed ossa. Il
bambino vuole la madre, non la rappresentazione della madre.
In questo senso il sollievo dal dolore che procura il gioco dura
poco, e quindi di nuovo occorre ripetere la sequenza «sparizione e ri-
apparizione». Una sequenza, però, che lo costringe ogni volta anche a
rivivere l’esperienza traumatica della separazione dalla madre. Il gioco
del rocchetto tanto produce sollievo quanto produce dolore. Questa

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3. linguaggio e pulsione di morte 63

risposta, che è anche la più frequente, quella che vede il senso del gioco
nel fatto che in questo modo il bambino è attivo e non si limita a subire
il trauma, non è quindi del tutto soddisfacente. In effetti il carattere
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ripetitivo del gioco del bambino dice qualcosa che va oltre la sua sog-
gettività, la sua scelta, il suo stesso desiderio. Il gesto compulsivo attra-
verso il quale il bambino è costretto a ripetere il movimento di andata e
ritorno del rocchetto testimonia che in lui agisce una forza impersonale
che è di gran lunga più potente e originaria della sua volontà.
In che consiste, allora, il gioco del rocchetto? Riduciamolo alla sua
forma più elementare: uno schema, una specie di enunciato atomico,
composto da un primo segno, “o–o–o”, seguito da un altro segno,
“da”, e poi di nuovo “o–o–o”, e così via. Una sorta di catena, in cui
ogni maglia è saldata alla seguente, senza che apparentemente esista
un’ultima maglia. Di fatto ad un certo punto il bambino si stancherà
di ripetere il gioco, oppure sarà distratto da qualcos’altro, o semplice-
mente la madre sarà tornata, ciò che bloccherà la sequenza. Il punto da
notare, però, è che di per sé la sequenza potrebbe continuare a ripetersi
in modo indefinito. Non c’è nulla, al suo interno, che la arresti, perché
una “fine naturale” non è prevista. Si ferma perché qualcosa, in modo
contingente, la ferma, ma non perché debba fermarsi.
La sequenza, cioè, si ripete indipendentemente dalla volontà del
bambino. Qui è importante sottolineare il carattere impersonale di
questa operazione: è la sequenza che si ripete, attraverso la bocca del
bambino, non è lui che ripete la sequenza. Il soggetto logico e causale
è la sequenza, non il bambino, che è soltanto il soggetto grammati-
cale (è un finto agente). È la lingua che parla, attraverso il bambino,
non è il bambino che usa le parole per esprimersi. Il bambino di
Freud mostra che la lingua parla, indipendentemente dalle intenzioni
del parlante. Sembra di sentire le parole di Chomsky, nelle Strutture
della sintassi: «la grammatica di una lingua L è così un dispositivo
[device] che genera tutte le sequenze grammaticali di L» (Chomsky,
2002, p. 17). In questa definizione Chomsky non menziona il par-
lante, né le sue intenzioni, e nemmeno la semantica: il parlante, in
particolare, è previsto solo in modo implicito: la lingua, e quindi
la grammatica sottostante, ci sarebbe anche senza di lui, perché «la
grammatica […] è indipendente dalla semantica» (Ivi, p. 106), cioè
appunto dalle intenzioni di chi usa la lingua.
Si tratta di una definizione potentissima: secondo una tradizio-
ne secolare la lingua è uno strumento al servizio degli esseri umani

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per consentirgli di esprimere i proprî pensieri. Chomsky, in questo


nessuno più di lui ha seguito l’insegnamento di de Saussure, ribal-
ta completamente questa tradizione: la lingua, in particolare la sua
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(della lingua) grammatica, è indipendente da chi la parla (anche per


questa ragione, per Chomsky, è innata). La lingua intransitivamente
parla, appunto. Il parlante c’è, certo che c’è, ma l’unico parlante di
cui questa grammatica ha bisogno è una idealizzazione, un costrutto
teorico necessario per la completezza della teoria, non è un essere
umano in carne ed ossa: «la teoria linguistica in primo luogo si oc-
cupa di un parlante-ascoltatore ideale, in una comunità linguistica
del tutto omogenea, che conosce perfettamente la sua lingua e non
è influenzato da condizioni grammaticalmente irrilevanti come limi-
tazioni di memoria, cambiamenti di attenzione e interesse, ed errori
(casuali o caratteristici) nella applicazione della sua conoscenza della
lingua nell’uso effettivo» (Chomsky, 1965, p. 3). Tutto quello che ha
a che fare con il parlante reale, con il suo corpo e la sua psicologia,
è del tutto irrilevante per capire cosa è una lingua, la sua inquietante
essenza grammaticale. Una teoria scientifica della lingua non ha bi-
sogno dei parlanti. Per spiegare quello che succede al nipote di Freud
non occorre cercare nelle sue intenzioni o nei suoi pensieri: quello che
occorre è attenersi a quello che si dice (nel senso che propriamente
non c’è nessuno che lo dice, c’è un dire qui, c’è un parlare che parla
in modo autonomo), alla sequenza linguistica “o–o–o”–“da”.
Nel 2002, in un saggio che ha avuto una enorme diffusione,
Chomsky ed altri individuano, all’interno della facoltà del linguag-
gio, quella che definiscono FLN (Faculty of Language in Narrow
Sense), «un sistema computazionale (sintassi in senso ristretto) che
genera rappresentazioni interne» (Hauser et al. 2002, p. 1571), a cui
in seguito vengono associate rappresentazioni semantiche e fonolo-
giche. Il linguaggio è un dispositivo computazionale, cioè una spe-
cie di automa, che per conto suo produce rappresentazioni astratte,
indipendentemente dal fatto che qualche altro sistema cognitivo le
possa in seguito associare ad un suono e ad un significato. Il «sistema
computazionale» macina rappresentazioni astratte, è questo il suo
compito, tutto il resto (semantica, psicologia, pragmatica) non conta.
La funzione più importante della FLN è la ricorsività, che è una
operazione che si applica al risultato di una precedente applicazione
di quella stessa operazione: in questo modo la «FLN» a partire da

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3. linguaggio e pulsione di morte 65

«un insieme finito di elementi […] produce una matrice potenzial-


mente infinita di espressioni discrete.
Questa capacità della FLN genera l’infinità discreta (una proprietà
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che caratterizza anche i numeri naturali)» (Ibidem). Dato un nume-


ro naturale n, attraverso l’applicazione dell’operazione successore (in
base al secondo assioma di Peano per i numeri naturali), otteniamo il
numero n+1; l’operazione può essere ripetuta quante volte si vuole,
così come non c’è limite alle volte che il nipote di Freud può far seguire
“da” a “o–o–o”, e così via. Tornando alla grammatica del linguag-
gio: «gli enunciati sono fatti di unità discrete: ci sono enunciati di sei
parole e di sette parole, ma non di 6,5 parole. Non esiste l’enunciato
più lungo di tutti […] così come non c’è un limite superiore non arbi-
trario alla lunghezza di un enunciato. In questo senso, il linguaggio è
direttamente l’analogo dei numeri naturali. Nel caso minimo, la FLN
include la capacità ricorsiva» (Ibidem). L’esempio dei numeri naturali
è particolarmente suggestivo: applicando ricorsivamente l’operazione
successore al precedente risultato della stessa operazione si dà inizio
(in modo del tutto impersonale) alla sequenza potenzialmente infinita
1, (1)+1, (1+1)+1 … È in questo dispositivo che è intrappolato il nipote
di Freud. Questa è l’essenza del linguaggio, che coincide con la coazio-
ne a ripetere. Ed è questa la pulsione di morte.

4. Chomsky e Lacan sulla natura umana

In realtà – anche se una volta, durante un’intervista, ad una do-


manda su Lacan Chomsky avesse risposto rudemente “quite frankly
I thought he was a total charlatan” – i due condividono, al di là di
tutte le ovvie differenze che li separano, una idea simile del linguag-
gio (che entrambi, probabilmente, ricavano dall’insegnamento di
Saussure; cfr. Chomsky, 1969, p. 174), e quindi della natura umana:
la lingua è qualcosa che se ne sta per conto suo, che non ha bisogno
del parlante, al contrario, di cui il parlante (per Lacan il Soggetto)
subisce impotente gli effetti. È la lingua che parla, non chi ingenua-
mente crede di usarla per i suoi scopi. «Per lingua» scrive Chomsky,
«si intende […] un insieme di frasi, tutte costruite a partire da un al-
fabeto finito di fonemi (o lettere). Queste frasi possono essere prive di
significato, in qualsiasi senso indipendente dall’espressione, e non ne-

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cessariamente devono essere state usate dai parlanti la lingua» (Ivi, p.


36). Non è l’uso che definisce una lingua, cioè non sono i parlanti, le
loro intenzioni, i loro scopi comunicativi: la lingua è quel particolare
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“oggetto” che esiste anche indipendentemente dai nostri corpi (in-


fatti le frasi della lingua «possono essere prive di significato», e che
ce ne facciamo noi di una lingua priva di senso? Il punto è proprio
questo, la lingua non è fatta per noi). Che cosa intende Chomsky?
Che quello che rende lingua un insieme di frasi è contenuto dentro la
stessa lingua: una lingua è una faccenda di sintassi (cioè di forma),
non di semantica e tanto meno di pragmatica. La lingua vive di vita
propria, e questa vita coincide con la sua «grammatica» che è da
intendere come «un dispositivo che genera tutte le frasi grammaticali
della lingua […] senza generare non frasi» (Ibidem).
Una lingua è un «dispositivo» che «genera» soltanto enunciati cor-
retti, anche se mai nessun corpo umano userà uno di questi enunciati
(nei termini di Eco, 1993, questa è una «lingua perfetta»). Questo vuol
dire, semplicemente, che la lingua non ha bisogno degli esseri umani;
di più, questo significa che la lingua si serve dei corpi umani per rea-
lizzare le sue – della lingua – possibilità sintattiche. Qui torna il caso
della «infinità discreta» (Hauser et al. 2002). Qual lo scopo intrinseco
di una lingua? Ancora una volta la risposta la troviamo nella lingua
stessa, non nelle intenzioni o negli scopi dei parlanti; in particolare,
«per grammatica intendiamo un insieme di regole che […] specificano
ricorsivamente le frasi di una lingua» (Chomsky, 1969, p. 121). Lo
scopo immanente della lingua è “generare” enunciati grammaticali:

consideriamo il caso […] di una grammatica contenente le due regole [di


riscrittura]:
F [frase]  aF; F  a.
Questa coppia di regole può generare ricorsivamente qualunque frase a, aa,
aaa, aaaa, …. (Ovviamente possono essere messe in corrispondenza biunivoca
con gli interi cosicché la lingua sarà infinita numerabile). Per esempio, per ge-
nerare aaa procediamo come segue:
F (il simbolo iniziale dato)
aF (applicando la prima regola di riscrittura)
aaF (riapplicando la prima regola di riscrittura)
aaa (applicando la seconda regola di riscrittura) (Ivi, p. 122).

Si parte da «F», e poi applicando ricorsivamente le regole alle pre-


cedenti applicazioni delle stesse regole si possono “generare” tutte e

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3. linguaggio e pulsione di morte 67

solo le infinite sequenze grammaticali della lingua (è sufficiente questo


punto, per capire perché la lingua non sia al nostro servizio; che se ne
fanno dei corpi finiti di infiniti enunciati?). Il «dispositivo» linguistico,
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dati il simbolo iniziale e le regole di riscrittura, non ha bisogno d’altro.


Non è un caso che ancora oggi per Chomsky il linguaggio non abbia
una spiegazione evolutiva: quello del linguaggio è un vero e proprio
«mistero» (cfr. Hauser et al. 2014). Può ricevere una spiegazione evo-
luzionistica una attività che abbia una evidente funzione biologica,
ma come spiegare ciò che non ha scopo? Chomsky non parla mai di
«pulsione di morte», eppure, che cos’è questa lingua che vive di vita
propria a spese dei corpi umani che la “usano”?
«La situazione del desiderio», dice Lacan nel Seminario VI, «è
profondamente marcata, fissata, rivettata ad una particolare funzio-
ne del linguaggio, ad un particolare rapporto del soggetto al signifi-
cante» (Lacan, 2013, p. 14). Anche Lacan, come Chomsky, non par-
la mai né di semantica né di significato. Il «dispositivo» linguistico,
come abbiamo appena visto nell’esempio delle regole di riscrittura di
Chomsky, “funziona” indipendentemente dal senso. Il movimento
intrinseco del linguaggio è puramente sintattico. Il «desiderio», cioè
la molla sempre carica che spinge l’umano e lo scuote senza soste, ha
a che fare con il significante. Torniamo per un momento al nipotino
di Freud, al gioco del rocchetto che lo trascina con sé, senza che lui
possa fermarlo. Qual è la forza irresistibile, la pulsione appunto, che
lo spinge sempre di nuovo a lanciarlo oltre le cortine del suo letto?

la soggettività di cui si tratta, in quanto l’uomo è preso nel linguaggio, in


tanto che è preso, che lo voglia o no, e che lo è ben al di là del sapere che ne ha,
non è immanente ad una sensibilità, se la si intende come qualcosa che abbia a
che fare con la coppia stimolo-risposta. La ragione sta nel fatto che lo stimolo
è dato in funzione di un codice che impone il suo ordine al bisogno, nel quale
deve essere tradotto (Ivi, p. 20).

La «soggettività» umana non è quella che si può spiegare attra-


verso la coppia stimolo-risposta (Lacan parla in anni segnati dalla
psicologia comportamentistica, tutta basata su questa coppia). La
«soggettività» umana è caratterizzata dal fatto che il «bisogno» (che
è proprio del corpo vivente, così come tutti gli animali hanno istinti)
umano è «in funzione di un codice», cioè appunto di una lingua. La
soggettività specificamente umana si costruisce nell’incontro fra bi-

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68 il taglio

sogni corporei e lingua. Il «bisogno», ad esempio la fame, si arresta


quando è soddisfatto: quando lo stomaco è pieno non c’è più bisogno
di cibo. Ma il «desiderio», invece, non si soddisfa così facilmente.
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Quello del nipote di Freud, ad esempio, non è un «bisogno» proprio


perché rimane sempre insoddisfatto. Per questa ragione l’alternanza
di “o–o–o” e “da” non si ferma mai. Perché qui è in campo un «de-
siderio», non un «bisogno». Il «desiderio» non si soddisfa mai, il de-
siderio agita sempre di nuovo il corpo dell’animale umano, il corpo
dell’animale che parla. E sappiamo anche perché il desiderio non si
arresti, perché nel corpo del bambino è in funzione un «dispositivo»
che continua a “generare” sempre nuovi pensieri. Il «desiderio» è
l’effetto psicologico del funzionamento del linguaggio. Non saremo
sorpresi, a questo punto, se scopriamo che anche Chomsky la pensa
così. Come si spiega, si chiede, la capacità umana di progettare com-
plessi piani d’azione proiettati nel futuro? Se li si analizza nel detta-
glio si scopre che sono organizzati gerarchicamente, proprio come
succede nella grammatica di una lingua:

Probabilmente non è un caso che una teoria della struttura grammaticale


possa essere generalizzata così facilmente e naturalmente quale schema per
teorie di altri tipi di comportamento umano complicato. Un organismo com-
plicato e altamente strutturato, al punto da eseguire le operazioni che […] sono
interessate nella comunicazione linguistica, non perde improvvisamente la sua
complicazione e la sua struttura quando si rivolge ad attività non linguistiche.
In particolare, questo organismo può formare piani verbali per guidare molti
suoi atti non verbali. Il meccanismo verbale produce enunciati – e, per gli uo-
mini civili, gli enunciati hanno un potere irresistibile di controllo sul pensiero
e l’azione (Chomsky, 1969, p. 375).

Non c’è nessun bisogno di forzare le parole di Chomsky, è tutto


molto esplicito: si parla di «meccanismo verbale [che] produce enun-
ciati», non di un parlante che decide di agire così e così. Il «mecca-
nismo» mette in movimento il corpo umano attraverso «enunciati»
(che sono stati “generati” in modo del tutto autonomo) che eser-
citano un «potere irresistibile di controllo sul pensiero e l’azione».
È chiaro chi comanda qui, e non è certo il corpo umano. Le conse-
guenze di queste premesse le trae Lacan, che in questo è molto più
chomskyano (e coraggioso) di Chomsky: «il soggetto che ci interessa,
soggetto non in quanto fa il discorso, ma in quanto è fatto dal di-
scorso, come un topo preso in trappola, è il soggetto dell’enunciazio-

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3. linguaggio e pulsione di morte 69

ne» (Lacan, 2014, p. 38). Chi “parla”, chi “prende” le decisioni, chi
“vuole” non è altro che «un topo preso in trappola». E la trappola è
il linguaggio: «il soggetto viene fabbricato tramite un certo numero
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di articolazioni che si sono prodotte e da cui egli è caduto come un


frutto maturo della catena significante» (Ivi, p. 44). La natura umana
è segnata dalla «pulsione di morte», che coincide con quella stessa fa-
coltà di linguaggio che lo rende umano (come dice Laplanche, 1972,
«pulsione di vita» e «pulsione di morte» sono due facce di uno stesso
meccanismo):

il nostro soggetto così com’è, il soggetto che parla, se volete, può ben ri-
vendicare il primato, ma non sarà mai possibile considerarlo puramente e sem-
plicemente come libero iniziatore del suo discorso, dal momento che, essendo
diviso, esso è legato a quell’altro soggetto che è il soggetto dell’inconscio e
risulta dipendente da una struttura di linguaggio. È questa la scoperta dell’in-
conscio (Ivi, p. 51).

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4. Il paradosso del ricordare
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Io continuerò a piangere e a non capire nulla.


È possi­bile capire la sofferenza degli altri, tro-
viamo persino pa­role di conforto, persino un
rimedio per coloro che han­no perduto tutto.
Ma nessuno riesce a capire il proprio dolore
(Fred Wander, Il settimo pozzo, p. 96).

1. La tesi di Wander

Perché «nessuno riesce a capire il proprio dolore»? Un consolida-


to luogo co­mune vuole proprio il contrario, soltanto io posso sapere
e capire quello che provo, tu sei costretto a limitarti all’apparenza, a
ciò che è esterno, puoi al mas­simo congetturare il mio stato interno.
Quello che c’è dentro la mia anima è invisibile per tutti meno, ovvia-
mente, per me. Sarebbe allora vero esattamen­te il contrario, solo chi
l’ha provato può comprendere quel dolore, e proprio nessun altro.
E invece Fred Wander (nato Fritz Rosenblatt, cambiò nome do­po la
fine della guerra), un ebreo viennese fra i pochissimi scampati ai cam-
pi di sterminio (Il settimo pozzo è la storia di quegli anni), di colpo ci
mostra un aspetto del problema che il luogo comune ci impedisce di
vedere: mentre «è possibile capire la sofferenza degli altri», persino
di «coloro che hanno perdu­to tutto», è proprio la nostra interiorità
che non capiamo. Ciò che è più vici­no a noi non riusciamo a vederlo,
mentre possiamo vedere e comprendere ciò che è lontano. È la tua
interiorità che io posso vedere, e tu la mia, non io la mia e tu la tua.
In questo capitolo proviamo a capire il senso delle parole di Wan-
der. Il te­ma che ci interessa è il complicato rapporto che si stabilisce
fra ricordo e indi­vidualità, e in particolare: il ricordo è un’esperienza

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72 il taglio

privata? Oppure (anche se è difficile immaginare in che modo pos-


sa esserlo) il mio ricordo è fin dall’inizio qualcosa di pubblico (per
questa ragione «nessuno riesce a capire il proprio do­lore»)? Detto
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altrimenti, il soggetto di un’esperienza individuale è un io o, con­tro


il luogo comune dell’interiorità, un noi? Dal modo in cui si risponde
a que­sta domanda discende anche il modo di pensare il rapporto
fra il cosiddetto «dovere della memoria» e ciò che quel dovere in-
giunge di ricordare (Margalit, 2002). Se infat­ti il ricordo non è mai,
paradossalmente, individuale, se non può esserlo, per­ché un’espe-
rienza radicalmente individuale non è una esperienza, allora l’uni­co
modo di provare a preservare la fedeltà del ricordo rispetto all’espe-
rienza originaria implica sempre una qualche forma di tradimento
dell’unicità di quel­la stessa esperienza. È possibile rimanere vicini a
quell’esperienza solo se accet­tiamo di allontanarcene, se la rendiamo
pienamente pubblica; ma in questo modo, appunto, se ne perde l’im-
pensabile e intollerabile individualità.
Lo psicoanalista Christopher Bollas definisce questo stato il «co-
nosciuto impensato», che può diventare qualcosa di «pensato» solo
se, attraverso la mediazione della lingua pubblica e del­la relazione af-
fettiva con l’altro, dà vita a «un’esperienza del tutto nuova, dato che
a “qualcosa” viene data una dose di spazio, di tempo e attenzione in
cui può emergere» (Bollas, 1987, trad. it. 2001, p. 282). È la psico-
analisi, in effetti, che prima di ogni altro sapere si scontra con la tesi
di Wander: il suo scopo dichiarato è giungere al nucleo originario di
ciascun essere umano, ai “suoi” ricordi più dolorosi, alle “sue” espe-
rienze fondamentali. Secondo questa tesi controintuitiva la persona
meno in grado di ricordare, pensare e dire quelle esperienze è proprio
colui che ha vissuto quelle esperienze. Com’è possibile?
Definiamo un’esperienza integrale quando assorbe completamen-
te chi la vive, al punto di escludere ogni altra possibile esperienza;
evidentemente l’internamento in un campo di sterminio nazista è
una esperienza integrale. La tesi di Wander è che un’esperienza del
genere è impossibile. E non perché sa­rebbe un’esperienza troppo
coinvolgente da un punto di vista psicologico (co­me se, cioè, una
persona emotivamente più forte potesse sopportare qualcosa del ge-
nere). È impossibile perché logicamente impossibile: per trasformare
un evento della vita in una esperienza, che quindi può essere ricor-
data e descritta, è necessario che non sia una esperienza integrale.

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4. il paradosso del ricordare 73

L’esperienza integrale è affatto individuale, perché coinvolge tutte le


risorse, corporee e psichiche, di chi la vive; ebbene, proprio questa
caratteristica impedisce che questa vicenda diventi una esperienza.
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L’esperienza integrale è assolutamente individuale; secondo Wander


una esperienza davvero individuale non è una esperienza, perché ciò
che è assolutamente individuale non può essere raccontato a nessu-
no, nemmeno a sé stessi. Solo un’esperienza individuale può essere
un’esperienza integrale, ma un’esperienza integralmente individuale
non è un’esperienza (cfr. Harvey, Briant, 2002; Foisson et al. 2006).
Il punto è dolo­rosamente chiaro per Primo Levi, che in una pagina
famosa de I sommersi e i salvati scrive, infatti:

non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. […] Noi sopravvissuti siamo una
minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o
abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gor-
gone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i “mussul-
mani”, i sommersi, i testimoni integrali, colo­ro la cui deposizione avrebbe avuto
il significato generale. Loro sono la rego­la, noi l’eccezione (Levi, 1986, p. 64).

Qui Levi pone un vero e proprio paradosso: il vero e uni­co «te-


stimone» è chi ha «toccato il fondo», chi cioè ha vissuto l’esperienza
in­tegrale dell’annientamento. Questa è l’esperienza integrale, quella
in cui è l’inte­rezza della persona, corpo ed anima, ad essere coinvolta
in un’esperienza che non lascia spazio per nient’altro, per nessun’al-
tra emozione, per nessun’altro pensiero, per nessun’altra parola. E
difatti soltanto un’esperienza del genere avrebbe potuto aspirare ad
un «significato generale», e non essere soltanto l’e­sperienza partico-
lare, per quanto terribile, di quest’uomo o di quell’altro. So­lo passare
per l’esperienza integrale permette ad un uomo di diventare un «te­
stimone» in senso pieno.
Ed ecco il paradosso, però: un’esperienza del genere è integrale
proprio perché non ammette ritorno, proprio perché non può essere
raccontata in pri­ma persona; perché se la si può raccontare allora
non è stata un’esperienza in­tegrale. Un uomo può essere un «testimo-
ne» solo se «non è tornato per rac­contare, o è tornato muto». Puoi
essere un «testimone» solo se non sei più un uomo, se non puoi più
raccontare nulla di quello che hai vissuto. Puoi essere un «testimone»
solo se, in realtà, non lo sei più. È questa la tesi di Wander, in sostan-
za. Si tratta di un paradosso che per Levi è evidente:

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noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapien-
za, di raccon­tare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei
sommersi, appunto: ma è stato un discorso “per conto di terzi”, il racconto di
cose viste da vicino, non spe­rimentate in proprio. La demolizione condotta a
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termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai
tornato a raccontare la sua morte. I sommer­si, anche se avessero avuto carta e
penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima
di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto
la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Par­liamo noi in
loro vece, per delega (Ivi, p. 65)

I «salvati» – come Levi e Wander – proprio perché sono riusciti a


scampare alla «demolizione condot­ta a termine», possono racconta-
re non solo il proprio destino, ma provare a descrivere anche «quello
degli altri, dei sommersi, appunto». Il fatto è che l’e­sperienza integra-
le è quella del sommerso, di chi ha vissuto l’esperienza dell’annien-
tamento fino in fondo, fino a raggiungere la situazione in cui ogni
te­stimonianza non è più possibile. La condizione piena ed integra-
le del testimo­ne impedisce la testimonianza; il «testimone» infatti è
«muto», non parla. Vedremo nelle pagine seguenti che la condizione
del mutismo non riguarda solo il linguaggio, ma anche e soprattutto
quella del ricordo. Senza parola non c’è nemmeno ricordo.
E così chi si è salvato parla «per conto terzi», il suo è «il racconto
di cose viste da vicino» certo, ma una vicinanza che è affat­to diversa
da quella assoluta identificazione di sé ed esperienza che prova, in­
vece, chi quelle vicende le ha «sperimentate in proprio». La verità,
integrale e definitiva, dell’esperienza l’ha vissuta solo chi non soprav-
vissuto a quella stes­sa esperienza; la condizione, terribile e afasica, di
vivere l’esperienza dell’an­nientamento è possibile solo se si perde la
possibilità di raccontarla. Posso sa­pere fino in fondo cos’è ciò che ho
realmente vissuto soltanto se perdo la pos­sibilità di raccontarlo, di
renderlo noto a chi non l’ha vissuto. Ma c’è di più, e così ci avvici-
niamo alla tesi di Wander. L’esperienza integrale non solo impe­disce
il suo racconto, da parte di chi l’ha vissuto, cioè del sommerso, ma
sem­bra impedire il suo stesso ricordo. In effetti ricordare un avve-
nimento significa, ad esempio, raccontarlo ad un amico, scriverne
su un diario, disegnarlo su un foglio, riviverlo nell’immaginazione.
Prendiamo il primo caso, raccontarlo ad un amico. Raccontare qual-
cosa significa scegliere alcune parole rispetto ad altre, individuare
una sequenza negli avvenimenti, e la sequenza che si sceglie non coin-

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4. il paradosso del ricordare 75

cide necessariamente con quella vissuta; c’è qui, anche se in modo


impli­cito, un confronto, una selezione rispetto ad altre parole che
avrei potuto usare al loro posto. Tutto questo equivale ad un lavoro
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di allontanamento dall’espe­rienza, che proprio per questa ragione


non è un’esperienza integrale, che inve­ce non ammette alcuno scarto
fra ciò che si vive e chi lo sta vivendo. Ora, è proprio questo allonta-
namento che i sommersi non potevano più realizzare, essendo ormai
in una condizione di identificazione senza ritorno con la vicen­da in
cui erano precipitati. Infatti, «anche se avessero avuto carta e penna,
non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata pri-
ma di quella corporale». Il ricordo, è il ricordo di qualcuno, è il mio
ricordo. E questo si­gnifica che io e ciò che ricordo non coincidiamo,
c’è una distanza fra me e la mia esperienza. E questo diaframma con-
siste appunto nella capacità di «osser­vare, ricordare, commisurare ed
esprimersi». Quando questa capacità s’è per­sa, quando non c’è più
un io che si differenzi da quanto sta accadendo, non c’è nemmeno
più la possibilità di un ricordo, perché non esiste un ricordo pri­vo
di qualcuno che lo ricordi: perché i ricordi non si ricordano da soli.
È un punto importante, spesso del tutto trascurato: il rapporto del
“ricordo” con il passato non è un rapporto ovvio. Una fotografia
ingiallita di un vecchio album non è, di per sé, una testimonianza
del “passato”. Infatti se la osserva un gatto non ci vede il passato,
vede solo un oggetto. Il passato non sta nella fotografia. Il punto è
che questo vale anche per i “nostri” ricordi. L’immagine mentale di
mia madre non è una testimonianza del “mio” passato; di per sé è
una immagine mentale come un’altra, occorre qualcos’altro perché la
possa collocare nel “passato”.
Non esi­ste una traccia mnestica autosufficiente, che non abbia
bisogno di qualcuno che la ricordi e la riconosca come un proprio
ricordo: «l’idea che debba esserci a di­sposizione della persona una
memoria immagazzinata, e che questa sia la condizione della sua ca-
pacità di ricordare presuppone la memoria […] e non può spiegarla.
Perché anche se ci fosse una simile registrazione, bisognerebbe co-
munque ricordarsi come leggerla […]. Allo stesso modo si può usa-
re un album fotografico come un aide-mémoire solo che si ricorda
di che cosa quel­le foto siano immagini» (Bennett, Hacker, 2003, p.
164). Se non so che quella persona che vedo ripresa nella foto è mor-
ta da anni, non potrei nemmeno “vedere” in quella foto il “passato”.

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76 il taglio

La fotografia è una cosa qualunque, il ’senso’ di quella cosa non sta


dentro di essa. E lo stesso vale per i ricordi.
Ci aiuta a comprendere questo groviglio un passo di Zettel, il
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libro che raccoglie una serie di pensieri di Wittgenstein sul problema-


tico statuto logi­co delle entità psicologiche: «Il ricordare: un vedere
nel passato. Il so­gnare si potrebbe chiamare così, quando ci presenta
il passato. Non però il ricordare; perché, anche quando ci mostrasse
scene con allucinante chiarez­za, sarebbe certo soltanto il ricordo a in-
segnarci che si tratta del passato» (Wittgenstein 1967, trad. it. 1986,
§ 662). Non basta vedere nell’immaginazione una scena «con allu-
cinante chiarezza»; di per sé non è altro che una immagine mentale,
senza alcuna colloca­zione temporale. Cosa rende quell’immagine un
ricordo, cioè la rievocazio­ne di una esperienza passata? «Ma se la
memoria ci mostra il passato, come fa a mostrarci che è il passato?
Appunto, non ci mostra il passato. Non più di quanto i nostri sensi ci
mostrino il presente» (Ivi, § 663). Perché quell’immagine rappresenti
una esperienza che abbiamo vissuto nel passato, occorre qualco­sa
d’altro, oltre al suo presentarsi alla nostra immaginazione. Witt-
genstein ci sta dicendo che l’esperienza del passato, quella che trova
espressione nel ricor­do, non è qualcosa di esclusivamente interno,
non è qualcosa di psicologi­co. Può venirmi in mente una certa imma-
gine, ma se in qualche modo (non interno, non privato) non aggiun-
go a quell’immagine una determinazione temporale, non potrei – ad
esempio – distinguerla da un sogno, che non è legato ad alcun tempo
particolare. La temporalità del ricordo non è una ca­ratteristica in-
terna dell’immagine che mi si presenta nell’immaginazione. «Non si
può nemmeno dire che ci comunichi il passato. Perché, anche se la
memoria fosse una voce udibile, che ci parlasse – come potremmo
comprenderla? – Se ci dice per esempio: “Ieri il tempo era bello”,
come posso fa­re per imparare cosa significhi “ieri”?» (Ivi, § 664).
Immaginiamo all’occhio della mente si presenti una certa immagine,
ed insieme ad essa ascoltiamo anche una vo­ce interna che aggiunge
questo commento: “ieri”. In questo modo potrem­mo capire che l’im-
magine è in realtà un ricordo del passato, e non un’imma­gine onirica,
senza tempo. Ma il problema, ci fa osservare Wittgenstein, l’ab­biamo
solo spostato. Perché si ripropone identico per la parola “ieri”: qual
è la temporalità di questa espressione linguistica? Il significato tem-
porale di questa parola non è contenuto nella parola stessa, e quindi

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4. il paradosso del ricordare 77

siamo di nuovo al­le prese con il problema di cosa distingua un ricor-


do da un’atemporale im­magine mentale. La conclusione di questa
analisi è sconcertante: l’esperienza del tempo non è dentro la nostra
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testa, non basta quindi che qualcosa si presenti nella immaginazione


perché la si possa trattare come un “ricordo”. Ma cosa rende, allora,
uno stato mentale una testimonianza del “passato”?

2. Di chi è il ricordo?

Siamo partiti dalla tesi di Wander, secondo la quale «nessuno ri-


esce a ca­pire il proprio dolore». Per comprendere il perché di questa
tesi così inconsue­ta, quando il luogo comune dell’interiorità vuole
esattamente il contrario, ab­biamo analizzato le pagine di Levi sul
paradosso del testimone: può testimo­niare della tragedia della Shoah
solo chi non l’ha vissuta fino in fondo. Chi, invece, ha vissuto l’espe-
rienza integrale di quella terribile vicenda «non è tor­nato per rac-
contare, o è tornato muto». Il problema, abbiamo capito, è quel­lo
dell’esperienza: che significa fare esperienza di qualcosa? Si tratta di
un fe­nomeno privato (psicologico) o invece è qualcosa di pubblico?
Abbiamo, con Wittgenstein, cominciato a capire che non può essere
un fenomeno individua­le, perché il ricordo di un’esperienza non è un
processo che possa aver luogo soltanto, o esclusivamente, all’interno
di una mente individuale. Abbiamo an­zi cominciato a scoprire, al
contrario, che un ricordo non è un’entità psicolo­gica, non è qualcosa
che si trovi all’interno dell’individuo che lo ricorda. Per quanto possa
essere paradossale abbiamo visto che la caratteristica temporalità del
ricordo (ciò che ci permette di dire che una certa immagine rappre-
senta il ricordo di qualcosa che ci è successo nel passato, e non un
sogno) non è con­tenuta nel ricordo stesso.
Prendiamo il caso di una fotografia in cui si vede una coppia si ab-
braccia. Ora, in che senso è il passato, che si vede in quella foto? Ad
esempio, nel suo essere ingiallita, oppure nella posa ormai desueta
della coppia, o nei loro vestiti, del tutto fuori moda, o ancora in una
data scrit­ta a penna sul retro della foto. Se non avessimo avuto nes-
suno di questi indi­zi, avremmo ancora inteso la fotografia come una
testimonianza (un ricordo) del passato? Come l’avremmo distinta da
una fotografia scattata oggi (o da una che sarà scattata domani)? Se

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78 il taglio

ora spostiamo l’immagine nella nostra mente, non si pone proprio


lo stesso problema? Un’immagine mentale, di per sé, non dice in che
modo debba essere osservata e compresa, e tantomeno rivela una
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sua intrinseca temporalità. Il tempo non è una caratteristica interna


degli sta­ti mentali. Se applichiamo il caso della foto a quello degli
stati interni, allora un’esperienza può diventare un ricordo proprio
perché – come nel caso della foto – aggiungiamo all’esperienza una
serie di caratteristiche che prendiamo dal mondo non psicologico,
dal mondo esterno al soggetto. In questo modo pos­siamo dargli una
collocazione non solo spaziale, ma anche temporale. Così di­venta,
appunto, un ricordo. Ma allora l’esperienza nasce pubblica, e la tesi
di Wander diventa comprensibile (ed anche tollerabile, per quanto ha
di tragico rispetto ai «sommersi»).
Si tratta pertanto di capire come sia possibile che il ricordo non
sia un fe­nomeno psicologico, e più in generale come si formi uno sta-
to interno, ad esempio come un’esperienza diventi un ricordo. La via,
ancora una volta, ce la indica Wittgenstein: «Una cosa la presento a
me stesso soltanto nel modo in cui la presento anche all’altro» (Ivi, §
665). Finora, proprio perché ci muovevamo seguendo il luogo comu-
ne dell’interiorità presumevamo che ciò che accade al nostro interno
ci fosse del tutto chiaro, mentre fosse oscuro quanto succe­de agli
altri, nella loro inaccessibile interiorità. Ma seguendo questa strada
ab­biamo visto che siamo incapaci, ad esempio, di distinguere un’im-
magine men­tale da un ricordo, un sogno da un ricordo, una fantasia
da una testimonianza. In realtà, ci dice Wittgenstein, posso chiarire a
me stesso quanto ho vissuto, le mie esperienze, solo se posso fare la
stessa operazione con un altro (cfr. Cimatti 2007a). In modo ancora
più netto: io posso ricordare qualcosa se posso rac­contare a te quello
che ho vissuto. La mia memoria dipende dalla tua (e vice­versa, na-
turalmente).
Torniamo allora al paradosso che ci mostra Levi, del te­stimone
che può testimoniare proprio perché non ha vissuto l’esperienza inte­
grale, proprio perché non ha vissuto fino in fondo ciò di cui testi-
monia; in realtà non tradisco l’esperienza che non ho vissuto fino in
fondo nel raccontartela, perché questo è l’unico modo, anzi il modo
naturale, di trasfor­mare un evento della vita in un ricordo: solo per-
ché la mia esperienza non è stata una esperienza integrale posso par-
larne, a te come a me. In questo modo il paradosso diventa forse

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4. il paradosso del ricordare 79

meno paradossale, e meno drammatica la condizione di chi parla


«per conto terzi». Poiché l’esperienza integrale impedisce il ricordo,
con la conseguenza che so­lo perché c’è un nucleo d’esperienza che
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non possiamo ricordare, è possibile – paradossalmente – il ricordo. E


questo nucleo che sfugge al ricordo è costitui­to da un’esperienza che
fino in fondo non abbiamo vissuto, o da un’esperien­za che abbiamo
sì vissuto, ma senza che diventasse per noi l’impensabile e ter­ribile
esperienza integrale. In effetti per Freud il compito dell’analisi, del
ricordo condiviso, è proprio quello di «ri­condurre […] al passato» gli
«elementi della malattia» che altrimenti sarebbero destinati soltan­
to ad essere meccanicamente ripetuti (Freud 1914, trad. it. 1977, p.
357). Il tempo, para­dossalmente, è il punto finale dell’esperienza del
ricordare, non la sua premessa. La temporalità non sta nel ricordo,
al contrario, possiamo ritenere “passato” uno stato mentale solo per-
ché lo abbiamo raccontato ad altri, e collocato così nel “passato”.
Il problema che solleva la tesi Wander lo possiamo riformulare
così, a questo punto: esiste qualcosa che soltanto io posso conoscere,
del mio mondo priva­to, e che è del tutto inaccessibile agli altri? La
posta in gioco, evidentemente, non è un segreto che non dirò mai a
nessuno, perché se alla fine lo dicessi a qualcuno questi non avrebbe
difficoltà a comprenderlo. Il problema è più ra­dicale: esiste qualcosa
della mia esperienza che in linea di principio nessuno al­l’infuori di me
potrebbe comprendere? Qualcosa di assolutamente incomuni­cabile,
perché anche se trovassi le parole per dirlo nessuno le comprendereb-
be nel mio – l’unico rilevante, in questo caso – senso? Se qualcosa del
genere esi­ste la tesi di Wander è falsa.
Prendiamo le mosse, allora, proprio dal modo in cui il senso co-
mune imposta il problema: «Che senso ha dire: questa esperienza
non è descrivibile? Vorremmo dire, è troppo complessa, troppo sot-
tile. Questa esperienza è in­comunicabile ma io la conosco – perché
sono io ad averla» (Wittgenstein 1993, trad. it. 2007, pp. 9-10). Già,
però subi­to viene spontanea una domanda: e tu, come lo fai ad essere
così sicuro di avere quest’esperienza, proprio questa e non un’altra?
Non basta, in effetti, ribadire con enfasi che chiunque sa bene quel
che prova. Ci si può sempre sbagliare, tutti i giorni ci sbagliamo, per-
ché non potrebbe succedere anche in questo caso? Il senso co­mune
ribadisce il punto, però: «Parlo della mia presenza, per così dire, in
sua presenza» (Ivi, p. 10). Ma questa, evidentemente, non è ancora

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80 il taglio

la risposta che cerchia­mo, una certezza interiore è certo una certezza,


ma soltanto soggettiva, e una certezza soggettiva e privata non è una
certezza. Si trat­ta di capire, intanto, in che modo stabiliamo quale sia
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l’oggetto della nostra esperienza, in che modo identifichiamo lo stato


interno che stiamo provan­do. Questa operazione è semplice quando
ci occupiamo degli oggetti alla lu­ce del sole: vado al mercato, sono al
banco della frutta, prendo in mano un paio di arance, e dico al frut-
tivendolo, “Me ne dà un paio di chili, per favo­re?”. Il fruttivendolo
non ha dubbi, sto parlando di arance, le abbiamo da­vanti agli occhi
io e lui. Oppure, siamo dal meccanico, il cofano della nostra auto è
sollevato, traffica con le mani nel motore, ci mostra una guarnizione
bruciata, e ci dice, soddisfatto, “Ecco la causa di tutto quel fumo”.
Anche in questo caso c’è qualcosa in comune fra noi e lui, qualcosa
di pubblicamente accessibile. Se c’è un dubbio non dobbiamo fare
altro che andare a vedere, in­sieme, l’oggetto che ci interessa; se la
frutta di quel fruttivendolo non mi piace posso passare da un altro
banco, se quel meccanico non mi convince posso andare da un altro
meccanico. Nulla del genere nel caso degli stati interni, dei pensieri,
dei ricordi. Per queste entità sembra esserci un solo esperto, io che li
provo: «Non vi è solo la parola “mal di denti” ma anche una cosa
come il mal di denti stesso» (Ibidem). La possibilità dell’errore sem-
bra essere esclusa in linea di principio. Anzi, sembra che sia proprio
questa la definizione del punto di vista interno: su quello che accade
dentro di me non posso sbagliarmi.
Ma torniamo alla domanda che ci siamo posti poco più sopra:
come identifichiamo – per noi stessi – uno stato interno? «Sembra
che dal mo­mento che non posso, per esempio, descrivere un’esperien-
za ma la ho, ne con­segua che posso conoscerla con più esattezza di
chiunque altro. Ma che signi­fica conoscere un’esperienza se non si-
gnifica descriverla e non significa aver­la? Vi è una conoscenza dell’e-
sperienza che non possiamo comunicare?» (Ibidem).
Tor­niamo al caso del meccanico. Poniamo che stia ancora stu-
diando per ricevere il diploma di perito meccanico, o qualcosa del
genere: l’esaminatore gli chie­de, «Che cos’è la marmitta?». Imma-
giniamo che il meccanico risponda co­sì, “Lo so benissimo cos’è, ho
davanti agli occhi nitidissima la sua immagine, ma non riesco ad
esprimerlo, le parole della mia lingua non sono in grado di dirlo”.
Ora, si potrebbe sostenere che il mecca­nico ha una conoscenza reale

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4. il paradosso del ricordare 81

della marmitta? In che senso si può dire di qualcuno che saprebbe


qualcosa se poi non sa né indicarcelo né usarlo prati­camente? Se-
condo l’immagine del luogo comune dell’interiorità succede pro­prio
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questo, invece, quando si tratta degli stati interni. So benissimo che


co­sa provo, qual è il mio stato interno, ma non riesco a dirtelo con
le parole. Ma che strano tipo di conoscenza è, questa? Facciamo un
esempio diverso, più vicino al problema che ci interessa in queste
pagine, l’identificazione di una immagine interna come un ricordo.
Ve­do un fiore rosso, e poi, in un’altra occasione, dico di un altro fiore
che il suo colore è lo stesso “rosso” del primo fiore. C’è un incontro
in un giardino – vedo un fiore ros­so – e poi – quando osservo l’altro
fiore – il ricordo di quella esperienza. Suc­cede tutti i giorni, non c’è
nulla di strano, eppure un problema c’è, almeno se ci atteniamo al
luogo comune dell’interiorità: «qual è il criterio per dire che lo stesso
colore ritorna due volte?» (Ivi, p. 37). Come facciamo a dire che è
lo stesso “rosso” dell’altra volta? Ci sembra un problema da nulla
perché senza accorgercene ci basiamo su quello che facciamo quando
casi come questi si pongono alla luce del sole. Dipingo una stanza
della mia casa di un certo colore, poi voglio di­pingere dello stesso
colore anche un’altra stanza. Prendo un campione del co­lore della
prima stanza, vado nel negozio di vernici e confronto il campione
con diverse sfumature della stessa tinta, fino a trovare quella che cer-
co. È un’o­perazione pubblica, che riesce proprio perché è pubblica;
il campione del colo­re, infatti, non è nella mia testa, ma ben visibile
sul banco del negozio di ver­nici, ed è facile così confrontare con esso
gli altri colori. Al contrario, nel ca­so del ricordo del colore “rosso”
quest’operazione è impossibile. E allora, cosa giustifica quest’ope-
razione? «Se descriviamo un gioco che egli gioca con sé stes­so, è
importante che egli usi la parola “rosso” [per] lo stesso colore nel
nostro senso, o lo chiameremmo ancora un gioco linguistico, comun-
que la usasse? Qual è allora il criterio per usarla nello stesso modo?
Non semplicemente la relazione fra “stesso”, “colore” e “rosso”»
(Ibidem). Posso dire che tu sai usare la parola “rosso” se la usi come
la usiamo nella nostra comunità, se quan­do vedi rosso dici “rosso”,
ad esempio. Qui il criterio per dire che sai usare que­sta parola è una
prassi pubblica. Quindi o il caso del ricordo del colore è di questo
tipo, oppure non c’è alcuna giustificazione per il tuo comportamento.
Nel primo caso, lo stato interno viene comunque individuato me-

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82 il taglio

diante un cri­terio pubblico; se si rinuncia al criterio esterno, sociale,


e si sostiene che ci si basa su una evidenza interiore, non abbiamo più
alcuna ragione per fidarci di te, perché un criterio privato non è un
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criterio (non ci fideremmo di un frut­tivendolo che pesasse la frutta


mediante una sua “infallibile bilancia interio­re”; o la bilancia la vedo
anche io, oppure non è una bilancia). «Qual è lo stes­so colore di
quello che ho visto? Non è quello a cui applico le parole “questo è
lo stesso colore”?» (Ibidem). So che riconosci il «rosso» quando sai
usare questa paro­la secondo le regole della lingua italiana. Può darsi
che per te queste regole sia­no inessenziali, e che in realtà ti affidi ad
una tua misteriosa intuizione priva­ta; può darsi, ma non ci interessa
né ci riguarda, quello che conta è che usi “rosso” come l’usa la co-
munità di cui fai parte.

3. Il grido nel deserto

Ma quanto riguarda, questo tipo di prassi, i privati pensieri sul


“rosso” del nostro ami­co? Può darsi pure che quando parla con noi
si attenga alle norme della comu­nità, ma nel suo “intimo” segua poi
regole del tutto diverse, affatto incom­prensibili per chiunque non sia
lui. È proprio questo che la tesi di Wander con­testa, che qualcosa del
genere possa accadere realmente. Prendiamo sul serio quest’ipotesi.
Immaginiamo che il nostro bizzarro amico abbia un suo sistema di
notazione esclusivamente mentale, che non trascrive su un quader-
no perché non vuole che qualcuno lo possa scoprire, in cui ad ogni
esperienza corrispon­de una parola determinata: ad esempio usa il
“segno mentale” “s” per la sensazione che prova quan­do si sorseggia
un buon caffè. Qui sorge subito un problema, evidentemente, perché
«nell’uso della parola “significato” è essenziale che lo stesso signifi-
cato sia mantenuto per tutto il gioco» (Ivi, p. 38). Proprio quello che
non succede in questo caso, perché come farà il nostro amico a deci-
dere se l’aro­ma del caffè che assaggia in questo momento è lo stesso
di quello che ha assag­giato quando lo ha privatamente battezzato
con il segno “s”? «“Ma definendo ostensivamen­te una parola per me
stesso, imprimo su di me il suo significato così da non dimenticarla
in seguito”. Ma come sai che questo serve? In seguito sai se la ri­cordi
o no correttamente?» (Ibidem). Un sistema di notazione privato per i

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4. il paradosso del ricordare 83

propri sta­ti interni – pensieri, sensazioni, ricordi, emozioni – non dà


alcuna garanzia di poter essere usato in modo sensato, perché non c’è
alcuna possibilità di sape­re, privatamente, se i segni vengono usati
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in modo corretto o scorretto: «Sei certo di chiamare “mal di denti”


sempre la stessa esperienza privata?» (Ibidem). In realtà il sistema
di notazione privato è completamente inutilizzabile: «La rico­nosco
come la stessa». E riconosci anche il significato della parola stessa,
così da essere sicuro che «riconoscerla come la stessa» significa per te
ora lo stesso che in passato?» (Ibidem). In realtà il nostro amico non
dispone di alcun mezzo per decidere con sicurezza che può usare i
suoi segni privati in un modo attendi­bile nel tempo; ma allora, in che
modo potrà essere sicuro di riconoscere ogni volta lo stesso stato in-
terno, lo stesso pensiero, lo stesso ricordo? Torniamo all’esempio del
meccanico: “Cos’è una marmitta? Questo oggetto qui, me l’ha con-
fermato il mio istruttore”, qui la stabilità dell’oggetto nella nostra
comunità è garantita dal riconoscimento pubblico. Ma come fare
quando questo riconoscimento è precluso in modo radicale? Certo,
forse l’a­roma del caffè è proprio lo stesso dell’altra volta, ma forse
no, forse mi sbaglio, però forse no. Come fissare l’identità di uno
stato interno nella varietà di tem­pi e luoghi in cui posso incontrarlo,
se nessuno, fuori di me, può aiutarmi a ri­conoscerlo? Il problema
qui è che quando abbandoniamo il campo pubblica­mente accessibile
cambia completamente la nozione di esperienza (ma è pro­prio quello
che il luogo comune dell’interiorità non fa, con il risultato di non
comprendere affatto la specifica natura dell’esperienza interna); in
realtà la no­zione stessa di una esperienza privata si rivela incompren-
sibile, almeno se ab­biamo come criterio la comune e familiare espe-
rienza pubblica. Una esperienza o è pubblica o non è una esperienza.
Una esperienza “privata” in realtà è pubblica perché il modo in cui
io la posso rappresentare a me stesso è basato sugli stessi mezzi che
uso quando ne parlo pubblicamente con altri. Qui è importante non
confondere privato con segreto: posso tacere qualcosa che mi è suc-
cesso, ma questo non rende questa esperienza radicalmente privata;
il segreto è ciò che è pubblico ad una sola persona, ma proprio per
questa ragione il segreto è originariamente pubblico.
In particola­re, qui è oscuro proprio il cuore di questa presun-
ta esperienza privata, ciò di cui sarebbe esperienza, il suo oggetto.
Perché non c’è un modo, nell’esperien­za privata, di individuarlo in

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84 il taglio

modo attendibile e costante nel tempo, come il caso del sistema di


notazione personale ha mostrato: posso dire che la marmitta è questo
oggetto qui, lo stesso che ho visto e controllato ieri, perché è sem-
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pre rimasto nello stesso posto, sul banco di lavoro dell’officina, ci


abbia­mo lavorato insieme io ed il mio assistente. Ma quando passo
alla sensazione privata dell’aroma del caffè, come fare a individuarla
come la stessa sensazione che ho avuto ieri? Qual è il criterio che mi
permette di esserne sicuro? Qui, in realtà, non c’è nessun criterio,
perché un criterio o è pubblico, o non è un cri­terio, e nel chiuso della
mia mente non c’è nulla – per definizione (questa è l’essenza del luo-
go comune dell’interiorità) – di pubblico:

se esaminiamo accuratamente questa idea di un’esperienza privata che noi


non cono­sciamo, non possiamo neppure parlare di una esperienza privata de-
terminata perché questa espressione è presa dal caso in cui allude a una deter-
minata classe di esperienze che noi conosciamo – sebbene non sappiamo quale
fra queste egli stia avendo. Piut­tosto, le esperienze /impressioni/ private che
immaginavamo sullo sfondo rispetto al primo piano delle nostre azioni, si dis-
solvono nella nebbia […]. O meglio, le espe­rienze private che immaginavamo
come tante x, y, z sconosciute, dietro le nostre azio­ni, si dissolvono nella nebbia
e nel nulla (Ivi, p. 44).

L’immagine del senso comune di un’interiorità inaccessibile agli


altri, traspa­rente solo per chi la prova e vive, precipita in un vero e
proprio abisso, ché ora svanisce del tutto ciò di cui sarebbe una espe-
rienza: «ma perché si dovrebbe parlare di una esperienza privata e
non di 100 esperienze private dal momen­to che non sai se ve n’è una
sola o se ve ne sono 100?» (Ibidem). Lo spettro di questo modello
della vita mentale umana è un angosciante solipsismo, in cui non
so­lo l’io è isolato dal resto della comunità – che ignora quello che
realmente pro­va e pensa – ma anche da sé stesso, perché è un io che
non sa né che prova né che pensa! Ma si potrebbe ancora definirlo un
io, un soggetto che è all’oscuro tanto dell’esistenza degli altri soggetti
quanto dei contenuti della propria stessa co­scienza?
In effetti non sembra esserci una risposta a queste obiezioni; si
potrebbe so­stenere che i nostri stati interni li conosciamo in modo
diretto e infallibile, ma non abbiamo alcuna reale giustificazione per
una asserzione del genere. Tornia­mo per un momento al caso del
linguaggio privato interiore. Si potrebbe soste­nere che quando, nella

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4. il paradosso del ricordare 85

nostra mente e solo per noi, battezziamo con il segno “s” una deter-
minata sensazione (è la procedura dell’ostensione), si stabilisce una
con­nessione diretta, e quindi infallibile, fra segno e oggetto: «sono
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giustificato se la parola mi viene in un modo e non lo sono se mi


viene in un altro. – Ma in che modo? – Sono giustificato quando mi
viene in modo diretto. Ma qual è il mo­do diretto? – Io lo so ma non
so spiegare come questo paradigma sia in me. – Ma finché è in te
non è di alcuna utilità per applicare in futuro la parola definizione
ostensiva privata» (Ivi, p. 51). Il confronto con il normale battesimo
è istruttivo: non è il neonato che dà il nome a sé stesso, sono i suoi
genitori, cioè la comunità. Pro­prio per questa ragione il nesso fra un
nome e la persona che porta quel nome è sicuro, perché non è una
connessione privata: «come so che [la parola] mi viene in modo diret-
to? Il modo diretto deve essere stabilito da un paradigma» (Ibidem),
cioè da una regola, e una regola o è pubblica o non è una regola, per
questa ragione logica (in tutta questa analisi non c’è nulla di psicolo-
gico, nulla di soggettivo) «la “definizione privata” non è vincolante»
(Ivi, p. 42). Cominciamo a capire, allora, perché la tesi di Wander,
benché controintuitiva, sia in realtà tragicamente vera. Quella che
abbiamo definito come esperienza integrale è l’esempio perfetto di
una esperienza affatto privata, e proprio per questa ragione del tutto
indicibile. Tanto più una esperienza è privata tanto meno ci sono le
parole per dirla e pensarla; ma se non sono in grado di raccontarla a
te, non sono nemmeno in grado di raccontarla a me.
L’analisi che precede ha tolto ogni credibilità logica all’immagine
del senso co­mune secondo la quale ognuno di noi avrebbe un acces-
so privilegiato alla pro­pria interiorità, mentre avrebbe un accesso
solo indiretto, ed ipotetico, ai sen­timenti e pensieri altrui. La tesi di
Wander, «nessuno riesce a capire il proprio dolore» ora possiamo
comprenderla (non sarebbe cioè una tesi psicologica sul­la partico-
lare ottusità di ciascuno di noi rispetto al proprio mondo interio-
re). Ricordare qualcosa significa, innanzitutto, individuare un certo
contenuto della coscienza come un’esperienza che ho già vissuto. Le
analisi precedenti ci hanno fatto capire che per individuare un con-
tenuto devo disporre di uno stru­mento pubblico, ad esempio una
parola della lingua della comunità a cui appartengo, attraverso il
quale lo riconosco come un contenuto che ho già in­contrato: così
posso plausibilmente sostenere (ai miei stessi occhi) che sto par­lando

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86 il taglio

dello stesso contenuto di allora, che sto effettivamente ricordando


qual­cosa. In questo modo il tempo entra nella mia esperienza come
effetto dell’uso di strumenti socialmente condivisi e pubblicamente
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accessibili. Ora la mia me­moria si può strutturare in una serie di av-


venimenti, ognuno dei quali ha una collocazione temporale perché li
posso disporre lungo una sequenza pubblica, come ad esempio il ca-
lendario, o il ripetersi periodico di grandi eventi collet­tivi. L’insieme
della vita interiore di una persona assume contorni diversi da quelli
da cui abbiamo preso le mosse: l’interiorità risulta dall’applicazione
a sé stessi di quello che abbiamo imparato con gli altri. Paradossal-
mente, ma solo in parte, posso occuparmi della mia anima soltanto
perché il meccanico mi ha insegnato a non confondere la marmitta
con la vaschetta del liquido per i tergicristalli.
Torniamo ad una delle domande che ci siamo posti all’inizio di
questo capitolo: è possibile uno stato interno che tuttavia non sia
privato? È proprio quello che abbiamo scoperto, perché sono io che
ricordo, ma il ricordare è possibile grazie a mezzi pubblici, che tu mi
hai insegnato ad usare, che tu mi hai offer­to: «“Si pensa”. È que-
sta proposizione vera e “io penso” falsa?» (Ivi, p. 26). In prima ap­
prossimazione sembra chiaro quello che ci sta dicendo Wittgenstein,
che il pensiero è uno strano fenomeno non privato, impersonale e
pubblico, che anzi io e te possiamo capir­ci proprio perché il nostro
individuale sentire e pensare presuppone l’apparte­nenza ad una co-
munità di pensiero originariamente pubblica: «si pensa» appunto.
Eppure si tratta di una domanda, non di un’asser­zione. C’è qui infatti
anche la consapevolezza che ogni ricordare implica un movimento,
che può essere estremamente doloroso, in cui quel linguaggio pri­vato
di cui abbiamo scoperto l’impossibilità spera confusamente e cerca
di di­ventare lingua comune, intersoggettiva e intelligibile. Ogni ricor-
do implica una solitudine ed una sofferenza che cerca condivisione.
Quel punto interro­gativo ci parla allora soprattutto della solitudine
di chi prova a ricordare: «im­magina una persona che, sola nel deser-
to, grida di dolore: sta usando un lin­guaggio? Diremmo che il suo
grido aveva un significato?» (Ivi, p. 83).
Ricordare signi­fica provare ad ascoltare, anche se ormai lontani da
quell’«universo deserto e vuoto» (Levi, 1987, p. 66) quel grido, e pro-
vare, incredibilmente, a rispondergli. Certo, ormai è disperatamente
tardi, chi ha lanciato quel grido non è più con noi per pro­vare sollievo

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4. il paradosso del ricordare 87

dalla nostra risposta, eppure rispondere a quel grido non è un ge­sto


inutile (Pogue Harrison, 2003), non è soltanto un alibi: «Non è forse
possibile che sviluppando un rapporto limitato con il conosciuto non
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pensato in noi stessi possiamo volgerci ai misteri della nostra esistenza


– il fatto strano dell’esistenza stessa – in particolare l’eredità dei nostri
antenati che dura da generazioni attraverso l’idioma della disposizione
ereditaria? Pensando al conosciuto non pensato non riflettiamo non
solo sul nucleo del nostro vero Sé, ma anche su elementi dei nostri
antenati» (Bollas, 1987, trad. it. 2001, pp. 286-287).

4. Quei ricordi che nessuno può ricordare

Quel grido, incomprensibile e inascol­tabile, è comunque una te-


stimonianza di una voce oscura a sé, eppure una vo­ce, una solitudine
che cerca un riscatto, che solo io posso dargli (perché lei non può più
riscattarsi, non avrebbe mai potuto riscattarsi, è questo il dramma
intrinseco dell’esperienza integrale). La voce che ascoltiamo proveni-
re dal «deserto» (ma che può benis­simo essere anche la nostra voce,
anzi, tutto questo movimento nasce spesso proprio da quella voce che
chiede riconoscimento e accoglienza) non ci dice nulla, in realtà, te-
stimonia soltanto di «qualcosa» che anche senza essere un’in­teriorità
individuata (e quindi ormai pubblica) ci interpella, spera attraverso
noi di diventare esplicita e comprensibile: «è come se le nostre de-
scrizioni dell’esperienza personale non avessero neanche bisogno di
scaturire da esperien­ze interne che ricorrono con regolarità ma solo
da qualcosa» ((Wittgenstein 1993, trad. it. 2007, p. 90). Sappiamo
be­ne, le pagine precedenti ce l’hanno mostrato a sufficienza, che l’in-
teriorità è subordinata all’esteriorità, che la psiche non è un giardino
privato e inaccessibile, al contrario, non è che un ripie­garsi su di sé
del pubblico, ma sentiamo anche che «da questo non consegue ne-
cessariamente che non esista «qualcosa» come l’esperienza interiore»
(Murdoch, 1999, trad. it. 2006, p. 69). È co­me se il nostro ricordare
anche per chi non c’è più completasse per gli altri, per i sommersi
appunto, il percorso che conduce dall’impossibile linguaggio pri­vato
alla lingua pubblica, dal “qualcosa” alla parola che tutti possiamo
inten­dere, restituendo il debito che abbiamo con chi ci ha aiutato a
compiere lo stes­so percorso.

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La posta in gioco su cui si misura il paradosso di Levi è allora la


solitudi­ne della «persona che, sola nel deserto, grida di dolore: sta
usando un lin­guaggio? Diremmo che il suo grido aveva un significa-
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to?». Si tratta di una so­litudine che può essere senza riscatto, ed è il


caso dei sommersi, di chi ha vis­suto l’abisso dell’esperienza integrale
(di chi è rimasto prigioniero della trap­pola del linguaggio privato);
ma può essere anche la vergogna e la solitudine del sopravvissuto, di
chi è «alla ricerca permanente di una giustificazione» (Levi, 1987, p.
63). Ed è chiaro, a questo punto, che siamo tutti salvati, senza meri-
to né ragione, che tutti siamo «colpevoli di omissione di soccorso»
(Ivi, p. 59). Perché questo senti­mento? Perché il fatto stesso di essere
in grado di ricordare implica che la pro­pria esperienza non è stata
integrale, significa essere vivi. Io posso parlare e ricordare proprio
perché il caso o l’astuzia mi hanno fermato prima di preci­pitare. Il
ricordare, in questo senso, tanto non è un fenomeno psicologico e
privato quanto è, invece, pubblico e semplicemente etico. Qui etico,
infine, vuole richiamare al fatto elementare che il ricordare, in questo
caso, assolve ad una sorta di impegno (cfr. Descombes, 1996) che ab-
biamo assunto nei confronti dell’altro quan­do abbiamo cominciato
a pensare e sentire, cioè quando abbiamo trasforma­to in strumenti
individuali (psicologici) quelli pubblici – la lingua, le tradi­zioni, gli
usi comuni – della comunità in cui siamo stati accolti alla nascita.
Non solo io posso avere un mondo interiore perché tu mi hai dato i
mezzi per poterlo avere, c’è di più: nel momento in cui scopro la mia
interiorità, quan­do comincio il movimento del ricordare, prendo la
parola anche in nome di quelli che non possono più farlo (o che non
hanno mai potuto farlo), perché io posso esistere in quanto io per-
ché qualcuno prima di me mi ha donato que­sta possibilità. Ed ogni
dono (anche se non abbiamo scelto di riceverlo, ma se non l’avessimo
comunque accettato ora non saremmo qui) implica un im­pegno alla
reciprocità (cfr. Hénaff, 2002). Ricordando, costruendo la memoria
del mio passato testimonio anche per loro, ricordando dichiaro la
mia umanità, e di coloro che mi hanno offerto questa possibilità. Si
vorrebbe di più, certo, quel dolo­re rimane impensabile, ma così non
svanisce del tutto, perché me ne faccio carico anche io.
C’è qui, però, una tensione, ed è proprio in questa tensione che si
colloca il soggetto umano, la sua inesprimibile “verità”. Da un lato,
come ci ha mostrato la tesi di Wander, io posso ricordare solo ciò che

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4. il paradosso del ricordare 89

non è davvero privato e personale; dall’altro, però, questo significa


che per poter ricordare, e attraverso il ricordo partecipare alla vita
pubblica, io devo in qualche modo “tradire” la “mia” individualità.
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Se posso pensare a me stesso solo mediante le parole della lingua


pubblica, solo attraverso l’Altro – è così che lo indica Lacan, un Al-
tro generico, che comunque viene prima di me, e senza del quale non
potrei definirmi come “io” – allora che ne è di quel me che nessuna
lingua potrai mai dire? Di quel me così privato e misterioso che “io”
per primo non ne so nulla? La tesi di Wander ci consegna allora un
altro, e ancora più radicale, paradosso: il prezzo da pagare, per poter
partecipare alla vita pubblica, alla vita del linguaggio, alla vita se-
condo i codici fissati dall’Altro è proprio ciò che ci caratterizza come
qualcosa di affatto individuale e privato. Lacan ha fissato questa ten-
sione nella distinzione fra l’Altro (A maiuscola) e «a» minuscolo. La
posta in gioco della tesi di Wander è proprio questo a piccolo. Per
fare un esempio, sono quei ricordi che nessuno può ricordare. Per
rievocare una vicenda della “nostra” vita dobbiamo trasformarla in
una “esperienza”, in un “ricordo”: questa operazione implica che
quella vicenda venga a forza adattata ai mezzi con i quali la comuni-
tà, cioè l’Altro, ricorda: parole, segni, immagini, lapidi, commemo-
razioni e così via. Il problema è che in questo passaggio tutto ciò che
era personale e “intimo” diventa pubblico e impersonale (la morale
dell’analisi di Wittgenstein è non esiste un linguaggio privato). Un
“ricordo” o è di tutti o è di nessuno. Il problema nasce dal fatto che
tutti noi sentiamo che fra tutti e nessuno c’è uno spazio intermedio,
anche se nessuno può starci, in quello spazio. O meglio, non può
starci nessun “io”, nessuna soggettività.
È la soggettività che “ha” i ricordi, ossia quegli stati mentali che
possono essere raccontati, a sé come agli altri. Prendiamo il caso di
un animale non umano, un gatto. Sta dormendo, improvvisamente si
sveglia perché ha percepito un fremito nell’aria, è una farfalla che gli
è appena passato vicino al muso. Di colpo si alza e cerca di afferrarla.
Ma questa è più veloce di noi, e sale alta nel cielo, e si nasconde fra
i rami di un albero. Il gatto rimane per un po’ con il muso sollevato
a fissarla, poi torna ad acciambellarsi e si rimette a dormire. È una
normale vicenda della vita del gatto. La domanda, ora, è: questa vi-
cenda può diventare, per il gatto, un “ricordo” (cfr. Cimatti, 2002)?
Se vale l’analisi che abbiamo condotto finora la risposta è semplice,

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90 il taglio

no, non è possibile. E non perché il gatto non abbia buona memoria,
ma perché se per “ricordo” intendiamo quello che è un “ricordo”
per noi umani, allora il gatto non dispone dei mezzi attraverso i quali
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Homo sapiens forma i cosiddetti “ricordi”. Un “ricordo” umano è


qualcosa che si può raccontare; quindi senza linguaggio articolato (e
quello dei gatti non è di questo tipo; cfr. Milani, 1993) non ci sono
“ricordi”. Ma questo non significa affatto che non rimanga qualcosa
di quell’incontro del gatto e della farfalla. Anche se non è un “ricor-
do” non per questo è un nulla. Anche se non c’è un soggetto che lo
ricorda (perché il soggetto umano è definito proprio dalla capacità di
“avere” ricordi, e quindi senza “ricordi” non c’è nemmeno soggetto)
«qualcosa» – come scriveva Wittgenstein – rimane, anche se nessuno
lo sa né potrai mai venire a raccontarcelo. Un ricordo senza nessuno
che lo ricorda è come quello che succede al gatto con la farfalla. La
tesi di Wander ci dice che di questi ricordi non c’è traccia, ma in fon-
do è solo di questi ricordi che nessuno ricorda che ci interessa. Perché
quella è la “nostra” impersonale verità. Una verità che per un verso
è proprio nostra, perché siamo noi e solo noi ad aver vissuto quella
vicenda, per un altro verso, però, è impersonale perché l’esistenza
stessa del soggetto – l’unico che potrebbe ricordarla – impedisce che
quella vicenda rimanga privata e personale.
Ma come facciamo, allora, a sapere che esiste un ricordo del ge-
nere, se è escluso che possiamo ricordarlo, e se addirittura il nostro
essere un soggetto esclude la possibilità stessa di ricordarlo? Non lo
sappiamo, infatti, perché se lo sapessimo potremmo parlarne. Allo
stesso tempo c’è sempre, nel nostro corpo, il sentimento di qualcosa
che resiste, muto e riservato, al linguaggio. “Io” non sa nulla di tutto
questo, ma il corpo sì, anche se davvero nessuno sa cosa sa il corpo,
nessuno (Deleuze, 2010). Tutti siamo passati attraverso quel disposi-
tivo, la «macchina antropologica» (Agamben, 2002; Cimatti, 2013),
che trasforma il corpo inerme e indifeso di un piccolo di mammifero
in un esemplare della specie Homo sapiens. È una operazione violen-
ta e pericolosa, di cui il corpo porterà per sempre le cicatrici. Sono
quelle cicatrici, per definizione mute (è “io” che parla, e può parlare
solo perché il corpo è escluso dal linguaggio), i ricordi che nessuno
ricorda. La tesi di Wander, in fondo, ci dice questo: «Io continuerò a
piangere e a non capire nulla» scrive. È il corpo che, impersonalmente
e silenziosamente, piange. Il corpo non si preoccupa di sapere, è “io”

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4. il paradosso del ricordare 91

che non sa e cerca di sapere. Il corpo è, gli basta. «È possi­bile capire


la sofferenza degli altri, troviamo persino pa­role di conforto, persino
un rimedio per coloro che han­no perduto tutto». È facile, parados-
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salmente, capire il dolore altrui, perché l’altro lo prova nello stesso


modo in cui lo proveresti tu, avete le stesse parole, gli stessi pensieri,
le stesse emozioni per vivere questo dolore (Cimatti, 2007a). Il pro-
blema è che «nessuno riesce a capire il proprio dolore», esattamente
perché è il proprio dolore (solo il corpo potrebbe capirlo, ma il corpo
non parla; è la definizione del corpo, quella entità che non parla). Un
dolore che è radicalmente fuori del senso e del linguaggio:

ma del “non-senso” non sappiamo che farcene, perché non riusciamo a ve-
dere oltre il senso. Sempre ci rivolgiamo al senso: al di là di esso, siamo costret-
ti a cedere […]. “Il corpo” è dove si cede. “Non senso” non indica qui qualcosa
come l’assurdo, né un senso alla rovescia o contorto (non è in Lewis Carroll
che arriviamo a toccare i corpi); ma indica che non c’è senso o che si tratta di
un senso che nessuna figura del “senso” può avvicinare. Senso che ha senso là
dove, per il senso, è il limite. Senso muto, chiuso, autistico: ma non c’è autós,
non c’è “sé stesso”. L’autismo senza autós del corpo, che lo rende infinitamente
meno di un “soggetto”, ma anche infinitamente diverso da esso: gettato e non
“soggettato”, ma anche duro, intenso, inevitabile e singolare come un soggetto
(Nancy, 1992, trad. it. 1995, pp. 14-15).

Il ricordo che nessuno ricorda è questo «autós del corpo» che


tuttavia non coincide con l’autismo, disturbo che può colpire solo il
soggetto che dice di sé d’essere un “io” (il corpo non è mai egoista;
l’egoismo è uno dei modi, oggi molto propagandato, di stare con
gli altri). Perché ogni corpo è soltanto questo corpo, che non può
essere generalizzato né sussunto sotto una categoria universale. Per
questo il «reale» del corpo, scrive Lacan, è «senza legge. Il vero reale
implica l’assenza di legge. Il reale non ha ordine» (Lacan, 2005, trad.
it. 2006, p. 134). Legge, ordine, linguaggio, sono le forme dell’Al-
tro, che non sanno che farsene del corpo e del suo silenzio, come di
quei ricordi che nessuno può ricordare: «il reale è ciò che resiste alla
struttura [alla legge appunto], in quanto si tratta di un puro c’è»
(Miller, 2012, p. 251). Ma allora la tesi di Wander, infine, non ci con-
segna una impossibilità, uno scacco. In realtà consegna ad ognuno
di noi un compito, quello di arrivare a quel corpo. Un compito che
nessun soggetto può realizzare, ma questo non toglie nulla alla sua
importanza. Finché il soggetto rimane un “io” la “sua” verità non

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è affatto sua, è quella dell’Altro. Per quanto “io” dica e pretenda


di essere il padrone del proprio destino non farà che realizzare il
sogno di qualcun’altro, dei genitori, del maestro, del principale, del
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partner, di Dio o del Mercato. La condizione di esistenza di “io” è di


realizzare il desiderio di un Altro. Questo è “io”, il volenteroso servo
dell’Altro (e nessuno è così servo come il servo che vuole diventare
padrone). Ora, accettare la tesi di Wander significa rendersi conto di
questa situazione (è solo perché “io” sono il sogno di un Altro che
non posso sapere nulla del corpo che scioccamente dico di “avere”),
e cominciare a muoversi verso il corpo. La psicoanalisi, nonostante
tutte le chiacchiere confuse e disperate di chi continua a pensarla
come una terapia della consapevolezza e della conoscenza (cioè come
una faccenda che si occupa di “io”), è la strada che porta al corpo.

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Dalla parola al corpo

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5. Per un’estetica del reale
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Asilo dei sogni, i nomi sono le calamite del desiderio


(Proust, L’età dei nomi, pp. 209-210).

Il linguaggio del resto mangia il reale


(Lacan, 2005, trad. it. 2006, p. 30).

1. Parola e immagine

C’è un luogo comune, riguardo a Lacan, che alla fine riduca tutto
al linguaggio. È un luogo comune. Per di più sbagliato. Il proble-
ma, clinico e teorico, di Lacan è come trovare una via d’uscita dal
linguaggio, verso il reale (il terzo elemento della tripartizione con
cui comincia, propriamente, il suo lavoro teorico nel 1953: immagi-
nario, simbolico, e appunto reale). È un problema clinico, perché la
talking cure può avere effetti terapeutici solo a condizione di portare
oltre la parola, perché altrimenti non si uscirebbe mai dal gioco delle
interpretazioni (in cui ognuna rimanda ad un’altra, senza fine; «la
stolida idea di un’interpretazione infinita», Agamben, 2014, p. 36).
È un problema teorico, perché il rapporto con il linguaggio segna la
natura umana, e quindi non riguarda soltanto il nevrotico. Il proble-
ma del reale è il problema di come un vivente che è impregnato di
linguaggio possa fare esperienza di qualcosa che non è linguistico.
In questi termini il problema di Lacan pare facilmente risolvibile,
perché sembrano molte le attività umane non toccate dal linguaggio:
l’immaginazione, la pittura, l’espressività non verbale, per non fare
che i primi e più ovvii esempi. Si esce dal linguaggio quando entra in
scena il corpo. Il punto è che il linguaggio e le lingue non interrompo-
no la loro azione quando la voce tace. Si rimane nel linguaggio anche

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96 il taglio

quando si osserva un paesaggio o si carezza un volto. Homo sapiens


vuol dire corpo fatto di linguaggio. E qui comincia il lavoro teori-
co, e clinico, di Lacan. Come vedremo il problema di un ipotetico
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“dopo” il linguaggio – ipotetico perché se non c’è Homo sapiens sen-


za linguaggio, dove cercare nell’umano un’esperienza davvero non
linguistica? – diventa quindi: quali sono le condizioni per vivere una
esperienza non linguistica, ossia appunto esclusivamente estetica?
Perché è questa la posta in gioco per Lacan: il campo di una estetica
genuinamente sensibile può aprirsi solo dopo il linguaggio, perché
finché si rimane al suo interno, di estetico (cioè di non linguistico)
può esserci ben poco nella vita dell’animale che parla. Ma il proble-
ma è, va ribadito: può accedere, l’animale che parla, ad un campo di
esperienza non linguistico (Recalcati, 2007; Vizzardelli, 2014)?
Durante il corso intitolato L’insu que sait de l’une-bevue s’aile
a mourre (Seminario XXIV), alla fine della lezione del 18 genna-
io 1977, qualcuno nell’uditorio (nella trascrizione di Jacques-Alain
Miller viene indicato come M. Z.) pone a Lacan una domanda, ri-
corrente quando si affronta il tema del linguaggio umano: «se la fun-
zione parlante isola l’uomo, che ne è delle manifestazioni preverbali,
come la pittura, la musica, tutte le arti che non passano attraverso la
talking cure? L’atto della pittura è il fatto di una apertura, ma attra-
verso una continuità che sarebbe un po’ come quando voi prendete
del caramello – fa dei fili» (in Lacan, 1977/1978, Pâques, p. 9). Pren-
diamo il caso della pittura, che c’entra con il linguaggio, si chiede
M. Z.? La sua domanda è quella di chi ritiene che il linguaggio sia
soprattutto un mezzo di comunicazione, e che quindi quando non
si parla la nostra mente (ed il corpo) sia al di fuori del campo del
linguaggio. Si dipinge con le mani e gli occhi, le parole non servono.
Che c’entra, allora, il linguaggio? C’entra, intanto, perché non si
ha nessuna prova paleontologica di attività pittoriche umane, come
ad esempio quelle delle celebri grotte di Lascaux, prima della compar-
sa dell’Homo sapiens. E la vera e distintiva novità evolutiva di questa
specie animale, rispetto agli altri ominidi, è la facoltà del linguaggio
(Tattersall, 1998). Non c’è traccia di attività di questo tipo prima del-
la comparsa del sapiens (preveniamo subito l’altra obiezione classica,
e l’arte animale? Detto in modo brutale, non ha niente a che cha fare
con l’arte “umana”, sia per le sue motivazioni, sia per l’uso che ne
fanno gli animali; qui è importante ricordare che la ricerca del bello

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5. per un’estetica del reale 97

solo marginalmente ha a che fare con la dimensione estetica, e tanto


meno con quella artistica; cfr. D’Angelo, 2011; Watanabe, 2013).
Prendiamo, ad esempio una immagine come la seguente, che si trova
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all’interno delle celebri Grotte di Lascaux:

Si distingue un cavallo, più probabilmente una cavalla gravida,


considerato il grado di realismo di queste immagini. Occorre parlare
una lingua, o comprenderne una, per vedere una cavalla in un prato?
Certamente no. Ma vedere un corpo vivente che corre per un prato
non è la stessa cosa che vedere una entità particolare, una “cavalla”.
Da quel che sappiamo del sistema visivo dei mammiferi la percezione
è un processo sempre legato alla azione (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006):
quando una scimmia vede una mela nel suo cervello si attivano, come
in un essere umano, non soltanto le aree cerebrali deputate all’ana-
lisi della informazione visiva, ma contemporaneamente anche quelle
che controllano i movimenti del braccio e della mano con cui quella
stessa mela potrebbe essere afferrata. La percezione è una forma di
azione, è «un vedere con la mano, rispetto al quale l’oggetto percepi-
to appare immediatamente codificato come un insieme determinato
di ipotesi d’azione» (Ivi, p. 49). L’oggetto percepito in realtà non è
mai soltanto un oggetto, ma anche e soprattutto una azione possibile
(una affordance, come la chiamava Gibson, 1966; sul rapporto fra
azione e percezione estetica cfr. Freedberg, Gallese, 2007).
C’è una grande differenza cognitiva fra un oggetto ed una azione.
Un oggetto è una entità che viene individuata, di solito in tre dimensio-

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ni, con una forma determinata, una certa tessitura, e un colore caratte-
ristico; un oggetto, soprattutto, ha un nome. Viene da chiedersi se un
animale non umano veda mai “oggetti”, come ad esempio quelli che
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osserviamo in un museo (si pensi agli animali impagliati in un museo


di Zoologia), oppure quello che ha noi sembra un oggetto non è per
lui un evento spazio-temporale molto rallentato. In questo senso un
oggetto è una astrazione, perché biologicamente non esiste un oggetto
come entità tridimensionale isolata: se quello che un animale vede, in
realtà, è una azione/evento, allora non esiste un oggetto 3d, esistono
(biologicamente) solo eventi 4d, cioè eventi spazio-temporali. Per ve-
dere una “cavalla”, in realtà, è necessaria una operazione cognitiva
molto particolare, per certi versi innaturale (rispetto al funzionamento
“naturale” del cervello di un qualunque mammifero): occorre estrarre
l’animale che corre nella prateria dalla situazione in cui si trova, e con-
gelarla in una entità autonoma, la “cavalla” appunto, un’entità solo
spaziale, come appunto l’animale immobilizzato del museo. Se, in quel
giorno di ventimila anni fa, nella prateria in cui correva, oltre all’uma-
no che l’avrebbe poi riprodotta sulle pareti della grotta, osservava la
cavalla anche un lupo, che cosa avrebbe visto, propriamente? Proba-
bilmente non avrebbe visto una “cavalla”, cioè non avrebbe visto un
oggetto in movimento, bensì avrebbe preso parte ad un evento unitario
che comprende il suo stesso corpo, la prateria, la cavalla al galoppo, la
sua fame e la possibilità di soddisfarla. Vedere un’immagine vuol dire
tirarsi fuori dal mondo, significa contemplarlo dall’esterno: un lupo
non è mai fuori dal mondo, è sempre mondo, è tutt’uno con il mondo.
Solo un “soggetto” può vedere il mondo come qualcosa da contem-
plare, come un “oggetto”. Solo ad un “soggetto” – cioè a quel corpo
che pensa sé stesso come un “io” – può venire in mente di raffigurare
il mondo, di trasformarlo in una “immagine”.
Al contrario, per vedere un oggetto in movimento (ossia una cosa che
si sposta nello spazio, ossia come una cosa nello spazio, come se fosse un
contenitore per le cose) occorre poter separare la cavalla dalla situazio-
ne in cui si trova, e soprattutto occorre tirare fuori il proprio corpo da
quella stessa situazione. Per vedere la “cavalla”, e non il resto della situa-
zione, occorre “fingere” di non essere lì nel prato con il proprio corpo ad
osservarla. Perché se ci fosse tutto il corpo, a vederla, allora non sarebbe
possibile separare percezione e azione, e quindi non si vedrebbe un og-
getto, bensì si prenderebbe parte ad una azione (talvolta solo possibile).

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5. per un’estetica del reale 99

Occorre appunto separare lo sguardo dalla azione, la rappresenta-


zione dal gesto, l’immagine dalla realtà. Torniamo ora alla figura nel-
la grotta di Lascaux. Non basta avere due buoni occhi per vedere una
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“cavalla”; è necessario essere capaci di vedere la “cavalla” in quanto


tale, come oggetto soltanto visibile. Ora, questa non è una abilità
percettiva, non dipende cioè da quanto è buona la vista dell’animale
che osserva la scena. Quello che è necessario è la capacità di pensare
l’evento complessivo, e non articolato, corpo + sguardo + cavalla +
galoppo + prateria + calore + sole (poniamo che la scena si svolgesse
di giorno, in piena luce solare) come, al contrario, una composizione
di pezzi staccati. Per raffigurare la “cavalla” sulle pareti della grotta
è necessario separare la cavalla dal suo galoppo, e quindi separare lo
spazio dal tempo/movimento. Ora, qual è il mezzo cognitivo in grado
di effettuare questa stranissima – e affatto innaturale – operazione? È
il nome (o i suoi derivati più recenti: l’immagine pittorica e poi la fo-
tografia). Per tirare fuori la “cavalla” dall’evento a cui prende parte
occorre uno strumento che permetta di isolarla dal resto della situa-
zione (Treisman, 2006); il nome permette di concentrare l’attenzione
dello sguardo solo sull’entità “cavalla”, come se tutto il resto non ci
fosse: «percezione [umana] e linguaggio si condizionano a vicenda»
(Garroni, 2005, p. 41). In questo senso l’immagine che osserviamo
stupiti sulle pareti della grotta di Lascaux è un’entità (anche, e so-
prattutto) linguistica; un vivente privo di parola non raffigura nulla,
e non perché gli manchi l’abilità manuale per farlo (la mano di uno
scimpanzé, ad esempio, è molto simile a quella umana; cfr. Cimatti,
1999), perché nel suo mondo cognitivo non ci sono né oggetti né
immagini, bensì solo eventi. L’immagine è un costrutto linguistico,
non sensoriale: «la percezione, non la sensazione come tale, è un
correlato del linguaggio» (Garroni 2005, p. 44).

2. E poi?

Proviamo allora a ricostruire i passaggi cognitivi che hanno porta-


to alla immagine della “cavalla”. C’è un Homo sapiens, che osserva
una scena, probabilmente dall’alto di una altura, al sicuro. Lo pos-
siamo ipotizzare perché il tipo di sguardo necessario per contemplare
una scena, e poterla osservare attentamente, distinguendone con cura

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100 il taglio

i diversi componenti, richiede essere distanti, anche spazialmente, da


quello che si sta osservando. Per separare lo sguardo dall’azione oc-
corre distanza. Una doppia distanza, fisica – l’altura – ma soprattutto
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cognitiva: disporre di nomi permette di distinguere nella scena una


serie di oggetti distinti e autonomi, “cavalla”, “prato”, ma anche
“criniera”, “zoccoli” e così via (lo zoom di un apparecchio fotogra-
fico non è che la trasposizione ottico-meccanica di un dispositivo
logico-linguistico, così come il mirino di un fucile è l’altra faccia della
parola. Il primo cacciatore è stato Adamo, quando ha cominciato a
nominare gli animali). La parola allontana il braccio dall’occhio, l’a-
zione dallo sguardo (può anche aiutare a mettere fra parentesi gli sti-
moli che provengono dal proprio corpo. Poniamo che il pittore fosse
affamato, quel giorno: tanto più l’azione è separata dalla sensazione,
tanto è più facile riuscire a vedere una “cavalla” anziché la “cena”).
Fino a che diventa possibile concentrare tutta la propria attenzione
solo su oggetto isolato (cfr. Cimatti, 2013).
E una volta che esiste l’oggetto, esiste cioè come entità a cui si può
pensare separatamente, diventa anche possibile provare a riprodur-
re la sua forma da qualche parte, per qualunque ragione si desideri
compiere questa curiosa operazione (nessun altro vivente produce
immagini, come nessun altro vivente, a parte Homo sapiens, è in
grado di usare una lingua). Ma allora la domanda che M. Z. pose a
Lacan il 18 gennaio 1977 è una domanda davvero mal posta, perché
la pittura non è una attività non verbale, è vero piuttosto il con-
trario, non potrebbe esserci pittura, e nemmeno immagine, senza la
parola, senza il linguaggio. «Per quanto mi riguarda», gli rispose La-
can, «credo che il vostro preverbale è, in questo caso, completamente
modellato dal verbale. Direi quasi che si tratta di un iper-verbale.
Ciò che voi chiamate fili, filamenti, è profondamente motivato dal
simbolo» (Lacan, 1978, Pâques, p. 9). I «fili» in questione – quelli
che legano la cavalla nella prateria all’immagine della “cavalla” nella
grotta – non sono l’effetto di una analogia sensoriale; al contrario, la
loro somiglianza è istituita simbolicamente.
Ora, se questa analisi è corretta, allora si applica anche agli altri
casi in cui compaiono immagini, e in generale anche alle altre attività
cognitive non verbali, nel sogno, ad esempio (con un corollario interes-
sante: il sogno degli animali non umani, per quanto fisiologicamente
simile al nostro – cfr. Ellmann, 2014 – in realtà è profondamente di-

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5. per un’estetica del reale 101

verso, perché manca della possibilità di essere raccontato. Il sogno del


topo nel labirinto è probabilmente molto simile all’esperienza reale; lo
stesso sogno da parte di un essere umano è una “storia”). L’influenza
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della parola sulla mente umana si estende molto al di là di quelle atti-


vità cognitive in cui è esplicitamente coinvolto il linguaggio. Ogni volta
che l’attività mentale si concentra su qualcosa, lì è all’opera il potere
individualizzante del nome. Per Vygotskij la funzione principale del
linguaggio non è quella comunicativa, bensì quella di mezzo per con-
trollare l’attenzione (distingue infatti l’attenzione naturale, quella che
si la lascia guidare dallo stimolo, e quella guidata dal linguaggio, che
chiama attenzione «artificiale»; cfr. Vygotskij, Lurija 1984).
La conseguenza teorica, e clinica, dell’analisi del caso dell’imma-
gine della “cavalla” di Lascaux è che nel mondo cognitivo, e pratico,
dell’animale umano non si dà il caso di una esperienza che in misura
maggiore o minore non sia segnata dal linguaggio. Da questa con-
statazione antropologica prende le mosse Lacan. La talking cure è
una terapia fatta di parole, e soltanto parole. Il fatto è che vale per
le parole quello che vale per i numeri, dopo ce n’è sempre un altro
(Hauser et al., 2002). La migliore interpretazione analitica e più ef-
ficace non pone fine alla potenza generativa di una lingua: rimane
sempre spazio per altre parole, per un’ulteriore interpretazione, per
una aggiunta. Il primo ad accorgersene è stato lo stesso Freud, nel
1937, nel celebre saggio “Analisi terminabile e interminabile”. Po-
sta in questi termini la talking cure non può mai finire, per motivi
logico-sintattici, prima ancora che psicologici. Freud lo dice in un
altro modo, ma la conclusione è la stessa: nell’analisi «dopo aver
attraversato tutte le stratificazioni psicologiche, siamo giunti alla roc-
cia basilare, e quindi al termine della nostra attività» (Freud, 1937,
trad. it. 1996, p. 535). Quando arrivi alla roccia – cioè alla biologia
umana – non c’è più niente da scavare, c’è solo la dura roccia (per
questo, nonostante Ricoeur 1965, la psicoanalisi non è un’ermeneu-
tica, perché ha come obiettivo dichiarato uscire dal linguaggio). E
allora, quando finisce un’analisi, tenuto conto che comunque prima
o poi deve finire? È «faccenda che riguarda la prassi» (Ivi, p. 532)
conclude lapidariamente Freud. Proviamo a schematizzare questo
suggerimento freudiano:

Psicoanalisi (talking cure): parole  parole  parole  … prassi

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102 il taglio

Alla fine delle parole, cioè della catena delle interpretazioni, si


deve trovare qualcosa che non sia ancora una parola, ecco perché
alla fine c’è la prassi, c’è l’agire, c’è un comportamento (nuovo, si
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spera; cfr. Miller, 2005). Ma che tipo di prassi? Perché dev’essere


una prassi che porti con sé l’eco del percorso che ha attraversato,
un percorso tutto intessuto di parole. Altrimenti un qualunque gesto
varrebbe come fine dell’analisi. Ma un gesto del genere è arbitrario,
e risulterebbe sconnesso dalla talking cure. La prassi si colloca nel
campo del reale, ma un reale – e qui comincia a svilupparsi il ten-
tativo lacaniano – che si presenta dopo il simbolico, non prima di
esso. Dei tre registri di Lacan, immaginario, simbolico e reale, il reale
non è il primo, bensì appunto l’ultimo, è un punto d’arrivo, non
di partenza. L’apparente stranezza di questa affermazione (prima le
cose poi le parole vuole il senso comune, ma l’umano viene al mon-
do a partire dal linguaggio) svanisce se si tiene conto della peculiare
costituzione biologica dell’animale umano: l’ambiente che accoglie
ogni corpo umano è un ambiente simbolico (linguistico). Il piccolo
umano non ne sa nulla, ma già prima della sua nascita c’è una attesa
simbolica per la sua venuta, un nome ad attenderlo, una posizione
nella gerarchia familiare, un desiderio da soddisfare, che non è certo
suo, ma dei genitori, degli antenati, di qualcuno che non conoscerà
mai e di cui nessuno conserva più il ricordo: «il soggetto viene fabbri-
cato tramite un certo numero di articolazioni che si sono prodotte e
da cui egli è caduto come un frutto maturo nella catena significante.
Già quando viene al mondo cade da una catena significante, forse
complicata, in ogni caso elaborata, alla quale, molto precisamente, è
soggiacente quello che chiamiamo il desiderio dei genitori» (Lacan,
2014, p. 44). Tutto questo insieme di pratiche simboliche precede la
sua effettiva comparsa fisica nel mondo. Quando il piccolo nasce c’è
già un ordine che l’aspetta, e cos’è un ordine se non una struttura
simbolica? «L’Altro», con la maiuscola, come lo definisce Lacan, «è
già lì» (Lacan 2004, trad. it. 2007, p. 25). «L’Altro è già lì», appun-
to, il simbolico c’è già, prima ancora che entri in campo il corpo. In
questo senso la biologia umana, le predisposizioni innate, il retaggio
evolutivo, pur naturalmente presenti, sono comunque subordinate
alla sfera del simbolico: «il linguaggio c’è prima dell’uomo […]. Non
solo l’uomo nasce nel linguaggio, esattamente come nasce al mondo,
ma nasce tramite il linguaggio» (Lacan, 2014, p. 31).

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5. per un’estetica del reale 103

Per questo il reale non è il punto di partenza dell’umano, bensì


il punto d’arrivo, se mai può essere raggiunto. Nascere nel simboli-
co, sostiene Lacan nel Seminario X, vuol dire nascere sotto il segno
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dell’angoscia. «L’Altro è già lì», solo dopo arriverà il corpo. Ma que-


sto vuol dire che il corpo definirà sé stesso a partire da quello che l’Al-
tro si aspetta da lui; fin dall’inizio il corpo è fuori di sé, letteralmente,
perché non è in sé (nella sua costituzione reale) che potrà trovare ciò
che lo caratterizza, ma appunto solo al suo esterno, nel simbolico,
nell’Altro appunto: «l’uomo trova la propria casa in un punto situato
nell’Altro, al di là dell’immagine di cui siamo fatti» (Lacan, 2004,
trad. it. 2007, p. 53). C’è una ferita, in ogni corpo umano, aperta
dal simbolico; l’angoscia è lo stato d’animo che corrisponde a questa
ferita: che, evidentemente, non può mai rimarginarsi, dal momento
che l’essere umano è quella ferita:

la dimensione del significante [cioè del simbolico] non è nient’altro, se vo-


lete, che ciò in cui si trova preso un animale all’inseguimento del suo oggetto
[cioè la sua consistenza reale]. In modo tale che l’inseguimento di tale oggetto
lo conduce su un altro campo di tracce, dove l’inseguimento stesso perde il suo
valore introduttivo per divenire il suo fine […] il quale lo riconduce a quella
catena indefinita di significazioni che si chiama destino (Ivi, p. 73).

Il «destino» dell’animale umano – cioè la condizione a cui non


può sfuggire, e quindi la sua natura – è di essere sempre di nuovo
ricondotto «a quella catena indefinita di significazioni» che è l’es-
senza del linguaggio. Ogni enunciato linguistico non è che un anello
di una catena potenzialmente infinita di altri possibili enunciati. Qui
vale l’analogia – che già abbiamo incontrato più volte in questo libro
– con l’aritmetica elementare: la serie infinita dei numeri naturali si
ottiene, partendo dallo 0, attraverso la funzione successore: dato un
numero qualunque n, il suo successore è n + 1. Un enunciato lingui-
stico può essere esteso indefinitamente allo stesso modo, ad esempio
attraverso la congiunzione “e”. Come non esiste un ultimo numero,
così non esiste una parola finale (secondo Hauser et al., 2002, facoltà
del linguaggio e capacità di contare definiscono il nucleo cognitivo
fondamentale della natura umana).
Una volta incatenato a questa struttura, l’«oggetto» che veniva
inseguito – il reale del suo corpo appunto – viene rimosso; e così il
«fine» della sua esistenza diventa l’«inseguimento» – il fine non è

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104 il taglio

il corpo, bensì le sue «tracce». Questa angoscia non sembra allora


emendabile, perché è connaturata all’animale umano, è la sua ca-
ratteristica strutturale. Per questo, Freud, osservava sconsolato che
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«questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della presenza,


nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo
pulsione di aggressione o di distruzione, e che consideriamo derivata
dall’originaria pulsione di morte insita nella materia vivente» (Freud,
1937, trad. it. 1996, p. 525).
Un’analisi può finire, allora, a condizione di liberare il corpo
dall’angoscia che lo segna; e per liberarlo dall’angoscia occorrereb-
be liberarlo dal simbolico, e quindi da «quella catena indefinita di
significazioni» che lo incatena (cfr. Cimatti, 2013) e gli impedisce di
arrivare al reale. Perché il reale è dopo il simbolico. Ci sono il corpo
e la prassi, nel reale. Qui si arresta l’analisi, o si dovrebbe arrestare,
quando è efficace.

3. A grande a piccolo

Se il simbolico è l’Altro, quel reale che stiamo cercando è invece


proprio ciò che gli sfugge, che Lacan indica come «a», in minuscolo,
«la riserva ultima, irriducibile della libido» (Lacan 2004, trad. it.
2007, p. 116). Prendiamo l’esempio dell’immagine della “cavalla”
che possiamo osservare nella grotta di Lascaux. La potenza di questa
parola consiste nel fatto che una “cavalla” è ogni cavalla, di tutti i
tempi e di tutte le praterie, al di là dello spazio e del tempo (per usare
la distinzione di Proust, “cavalla” è una parola, non un nome). Per
questa ragione il linguaggio annienta il reale, perché lo trasforma
in qualcosa di maneggiabile a piacimento, che non oppone nessuna
resistenza. Il simbolico scorre, per definizione, perché c’è sempre un
altro anello nella «catena indefinita di significazioni». Al contrario,
il reale è ciò che questo dispositivo seriale e articolatorio non riesce a
toccare: infatti «il reale è o la totalità o l’istante che svanisce» (Lacan,
1953, trad. it. 2006, p. 27). La «totalità» sfugge per definizione al
meccanismo che può solo aggiungere segno a segno, perché ci sarà
sempre un “e poi?” dopo l’ultima parola. Vale lo stesso per «l’istante
che svanisce», perché proprio perché istantaneo non può essere as-
sorbito da un segno che pretende, invece, di valere per tutti i tempi

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5. per un’estetica del reale 105

e tutti gli spazi. Il reale ha così due caratteristiche che sembrano fra
loro contraddittorie: è una totalità spazio-temporale che non manca
di nulla, ma è anche istantaneo, è l’evento che accade proprio ora, e
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mai più, qui, e solo qui.


Per questo il campo del reale è dopo e oltre il linguaggio, perché è
ciò che le parole non hanno la possibilità di afferrare. Il punto è che
neanche il corpo riesce a stringere il reale che lui stesso incarna. È qui
il paradosso intrinseco alla psicoanalisi: il simbolico, l’A con la maiu-
scola, precede e condiziona il corpo umano. Gli insegna a pensare per
oggetti e per immagini (come quella della grotta di Lascaux), a fissare
la sua attenzione su aspetti del mondo su cui altrimenti non sarebbe
in grado di concentrarsi. Ma lo strumento parola è efficace solo se
fa astrazione dal tempo e dallo spazio. Il reale come totalità o come
istante è inarrivabile per la parola. E così l’a piccolo, che «è ciò che
resta di irriducibile nell’operazione totale dell’avvento del soggetto
nel luogo dell’Altro» (Lacan 2004, trad. it. 2007, p. 175). L’«a» pic-
colo è un «residuo» (Ivi, p. 72), un «avanzo» (Ivi, p. 175), «qualcosa
di separato, di sacrificato, di inerte», una «libbra di carne» (Ivi, p.
238) che dischiude il movimento verso il reale. È qui che vorrebbe
arrivare l’analisi, ed è proprio qui che i mezzi dell’analisi – le parole,
il linguaggio – non possono giungere. Il problema è che il simbolico è
segnato dalla mancanza, perché il segno linguistico sta al posto della
cosa, e finisce per prendere il suo posto:

non esiste mancanza nel reale, […] la mancanza può essere colta solo trami-
te il simbolico. Rispetto alla biblioteca possiamo dire: Qui, il tale volume man-
ca al suo posto. Si tratta di un posto designato dall’introduzione preliminare
del simbolico nel reale. Per questo, il simbolo colma facilmente la mancanza
di cui sto parlando, in quanto indica il posto, indica l’assenza, presentifica ciò
che non c’è (Ivi, p. 143).

L’analisi cerca, mediante un lavoro tutto incentrato sulla mancan-


za, di arrivare al pieno, cioè al reale, a cui però «non manca nulla»
(Ivi, p. 201). È il reale la posta in gioco. Non sappiamo se, e come, si
possa arrivare al reale, tuttavia sappiamo quali devono essere le sue
caratteristiche: deve essere nello spazio e nel tempo, dev’essere pro-
prio qui adesso, deve tenere insieme la «totalità» ma anche «l’istante
che svanisce», dev’essere affatto individuale, perché deve coincidere
con quella «libbra di carne» che è ciò che ogni corpo è, assolutamen-

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106 il taglio

te, e irriducibilmente. Allo stesso tempo, questo reale irriducibile è


comunque la traccia del linguaggio sul corpo umano (non si diventa
umani senza passare per l’Altro): è il fantasma individuale, la cifra
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affatto specifica che individua un corpo umano, e solo quello, «un


fantasma che è soltanto una frase» (Miller, 2006, trad. it. 2012, p.
14); un fantasma (distinto dal sintomo, che può sempre essere inter-
pretato), l’effetto unico e irriducibile dell’incontro del linguaggio e
del corpo, «la cui caratteristica è di essere un residuo non modifica-
bile» (Ibidem).
Nessuna parola può stringere questo reale. Al contrario, il percor-
so teorico lacaniano (all’epoca di “Funzione e Campo della parola
e del linguaggio in psicoanalisi”, nel 1953) comincia invece con il
tentativo di ricondurre l’individuale al linguaggio, per renderlo in-
tersoggettivo e comprensibile. All’inizio la talking cure consiste nel
tentativo di trasformare il linguaggio privato dell’inconscio affatto
individuale in linguaggio pubblico: «per questo, all’epoca, Lacan po-
teva dire che l’inconscio sarebbe un paradosso se fosse rapportato a
una realtà individuale. Tutto ciò che fa non-senso esige un’esegesi che
ne ristabilisca il senso, e che oltrepassi quindi l’interruzione […], per
ottenere la continuità del discorso» (Miller, 2007, p. 42). Ma che ri-
mane, dell’inconscio indicibile e affatto individuale, di quella «libbra
di carne», se viene completamente ricondotto al simbolico, al grande
Altro? «La storicizzazione», cioè il tentativo di portare a completa
comprensibilità l’inconscio del paziente, «ha un aspetto davvero po-
tente, come se essa potesse, attraverso il vero, riassorbire completa-
mente, senza resto, il reale» (Ivi, p. 145). Il reale è quel «residuo» che
nessuna simbolizzazione può digerire completamente; il primato del
simbolico del primo Lacan cerca proprio, al contrario, di inghiottirlo
tutto, questo nocciolo irriducibile:

parlare vuol dire comunicare. Parlare implica l’altro, gli altri. Radicaliz-
zando questa concezione, diciamo che il dire è quello dell’altro, poiché ci si
esprime nel linguaggio dell’altro per essere intesi da lui. A tal punto che si può
anche arrivare a dire […] che questo dire viene dall’altro stesso (Ivi, p. 158).

Si tratta allora di cominciare a cercare quei fenomeni singolari, al


di là dell’individualità soggettivata (perché l’identità del soggetto la
stabilisce sempre l’Altro), che si sottraggono al campo del linguaggio.
Qui è il reale. Ecco, ad esempio, la distinzione fra «rimemorazione» e

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5. per un’estetica del reale 107

«reminescenza». La prima è una operazione linguistica, è il racconto di


un ricordo, è la storicizzazione di un evento passato; si rimemora per
condividere, per rendere comune, per farsi capire. La «reminescenza»,
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al contrario, è una memoria senza soggettività, è la durata, è imperso-


nale. È uno stile, il tono di un gesto, la grazia di un movimento. E così,
paradossalmente, è «fuori tempo […] extratemporale» (Ivi, p. 151). È
reale, perché lo stile non esiste se non incarnato, e lo stile è tanto più
presente (reale, appunto) quanto meno è saputo, quando letteralmente
costituisce la carne ed il sangue del corpo. Lo stile, pur essendo affatto
individuale, non ha bisogno del soggetto, né di essere esplicitato, di
essere detto; lo stile c’è, è lì, evidente e inafferrabile:

che cosa bisogna intendere qui per reminescenza? Ebbene, la reminescenza


è la supposizione che c’è qualcosa che è già lì, che c’è un’idea che è lì da sempre,
un’idea che non è inventata, che si sostiene in un soggetto supposto sapere e
che, quando appare, lo fa nel suo splendore solitario […]. Essa appare come
essendo stata appresa o acquisita in un’altra esistenza o in uno statuto eterno
del soggetto (Ivi, p. 167).

Ecco cos’è il reale, lo «splendore solitario», appunto perché senza


nome, non comunicabile né pensabile; e però proprio per questa sua
condizione di radicale singolarità, è uno «splendore», cioè qualcosa
che spicca, inconfondibile e meraviglioso. Un reale dopo il simbolico:
«il reale è esterno al senso» (Ivi, p. 172). Vediamo meglio il caso della
«reminescenza». Non si tratta di un “ricordo”, perché questo è affine
alla “immagine” (e quindi alla parola). Il “ricordo” è una sorta di
immagine nella mente, è un dettaglio di un evento, è l’attenzione che
ritaglia un momento delimitato nel flusso della vita psichica. Il “ricor-
do” è l’altra faccia della parola, appunto, quella “interna”. E così la
«rimemorazione» implica che ci sia qualcuno, che sta ricordando, e un
oggetto, il “ricordo” appunto, che quel soggetto si sta rappresentan-
do. La «reminescenza» al contrario, è un ricordare senza “ricordo”
e senza nessuno che lo ricorda; è il passato che è diventato carne del
presente, è uno stile, è il reale della memoria, impersonale e assoluto.
Rispetto all’«inconscio strutturato come un linguaggio» – la celebre
tesi lacaniana, che sembra segnare il primato del linguaggio rispetto ad
ogni possibile esperienza umana – assistiamo qui ad un ribaltamento
radicale: «l’Altro è destituito e il soggetto è pensato a partire dal reale
[…]. Ho torto nel dire il soggetto. In effetti non è più il soggetto del

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108 il taglio

significante, nemmeno il soggetto dell’identificazione, ma l’essere uma-


no, che Lacan qualifica come parlessere. Ecco cosa resta del primato
del linguaggio che Lacan aveva installato precedentemente nella psico-
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analisi» (Miller, 2008, p. 222). Dal soggetto al parlessere. Il soggetto è


legato a doppio filo al linguaggio, il soggetto ha un nome (il cosiddetto
nome proprio, che in realtà non lo è affatto, chiunque può portare
quel nome), e si identifica mediante una parola apposita, il soggetto
infatti è un “io” (come chiunque prenda la parola è, temporaneamen-
te, un “io”). Il soggetto non esiste al di fuori del linguaggio. Proprio
per questa ragione non è reale, perché il soggetto è letteralmente una
creatura linguistica, è sempre sotto lo sguardo dell’Altro; il «parlesse-
re», invece, è un corpo che è passato per il simbolico, senza tuttavia
restarci intrappolato. Il linguaggio è diventata la sua carne, e lì il suo
movimento centrifugo si arresta, finalmente. Nel senso che il «parles-
sere» è capace di sostare nel linguaggio senza un “e poi” che accende
la fuga dei significanti. Ricordiamo che il reale, per Lacan, presenta
due caratteristiche: è totalizzante e istantaneo. Al soggetto è preclusa
questa condizione, perché il linguaggio lo condanna al dettaglio e alla
successione temporale. Il «parlessere», invece, accede al reale del cor-
po: «tutto ciò che si trovava investito nel rapporto con l’Altro viene
qui ridotto alla funzione originaria del rapporto con il proprio corpo»
(Ibidem). Il «parlessere» è fatto di linguaggio, è linguaggio incarnato, e
tuttavia non è trascinato dalla deriva del significante come invece suc-
cede al soggetto. È un linguaggio che è diventato cosa, che finalmente
è diventato corpo (è il «letterale» di cui Lacan parla in “Lituraterra”;
cfr. Lacan, 2001).
Questo corpo, allora, è un corpo che ha traversato il campo del
linguaggio, e ne è uscito trasformato, non più dilaniato dalla sequen-
za significante. Questo nuovo corpo Lacan lo chiama «Un-corpo»
(deve essere un corpo perché da un lato è un corpo qualunque, senza
nome, dall’altro è un corpo affatto singolare, e per questa ragione in-
dicibile); è un corpo, appunto, nel senso di corpo ricomposto, unita-
rio, non più proiettato fuori di sé sul modello dell’Altro: questo cor-
po «non ha nulla a che fare con la definizione del soggetto che passa
per la rappresentazione significante. L’ego si stabilisce dal rapporto
con l’Un-corpo» (Miller, 2008, p. 222). Questo corpo è finalmente
unitario, perché non è più diviso dall’Altro, è tutto nel corpo che è:
«qui non c’è identificazione, c’è appartenenza, proprietà […] [che]

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5. per un’estetica del reale 109

non mira al punto di mancanza dell’altro soggetto. Tuttavia ha a che


fare con l’amore, ma non con l’amore del padre, è l’amore proprio,
nel senso dell’amore dell’Un-corpo» (Ibidem). L’amore del padre è
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un amore che passa per l’Altro, un amore che il soggetto può trovare
solo fuori di sé, nel modello paterno; è un amore della trascendenza,
perché questo Altro è sempre oltre, al di là del soggetto, irraggiun-
gibile. L’«amore dell’Un-corpo», invece, è nella immanenza assoluta
del corpo, che non deve più uscire da sé, per poter essere reale: «l’Un-
corpo […] è la “sola consistenza” del parlessere» (Ivi, p. 223).

4. «Un significante nuovo»

Ma si tratta comunque del «parlessere», cioè di un corpo fatto di


linguaggio. Com’è possibile che la sintesi di un corpo e di una lingua
non produca trascendenza, cioè quell’interminabile “e poi” del senso
che rimanda ad un altro senso, e così via e così via (sul rapporto fra
linguaggio e trascendenza cfr. Cimatti, 2013)? C’è un altro concetto
lacaniano che può aiutare a pensare questa condizione, il concetto
di «lalingua» (tutto attaccato, a ribadire che non è la lingua, come
il tedesco o l’osco, cioè una lingua particolare, con una sintassi ed
una semantica definiti). «Lalingua serve a tutt’altre cose che alla co-
municazione. Ce l’ha mostrato l’esperienza dell’inconscio, in quanto
esso è fatto di lalingua, […] ciò che per ciascuno è affar suo» (Lacan,
1975, trad. it. 2011, p. 132). «Lalingua» ha a che fare con il linguag-
gio, ma non con la comunicazione e con il senso intersoggettivo, e
quindi con l’Altro. Qui Lacan ci dice che l’inconscio non è una for-
ma nascosta di comunicazione, non è un linguaggio, è piuttosto «un
sapere, un saper-fare con lalingua. E quel che si sa fare con lalingua
supera di gran lunga ciò di cui si può rendere conto a titolo di lin-
guaggio» (p. 133).
«Lalingua» ha quattro caratteristiche: è un «sapere» (Ibidem);
non è uno strumento comunicativo; «per ciascuno è affar suo»; è «un
saper-fare». Intanto, lalingua non serve per comunicare. È la lingua
che ha questa funzione; e una lingua funziona perché è al servizio
dell’Altro. Altrimenti non potrebbe esserci comprensione reciproca.
Al contrario lalingua non serve a stabilire un contatto con altri. È
un sapere che coincide con un saper-fare, con il saper-fare del corpo,

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110 il taglio

che finalmente è soltanto il corpo che è. Per questa ragione non è un


insieme di conoscenze (che sono entità simboliche e comunicabili), è
una conoscenza incarnata. Lalingua è un sapere corporeo. In questo
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ossimoro sta la sfida della psiconalisi; arrivare ad un sapere che, tut-


tavia, non è fatto di parole e nozioni, ma è carne e sangue, è corpo
appunto. Del corpo che ognuno è, per questo «per ciascuno è affar
suo», e soltanto suo. Lalingua è allora un saper-fare che è inscritto
in ciascun corpo, non comunicabile e non pensabile, inconscio. Se il
soggetto che dice “io” è intercambiabile – chiunque può dire, di sé,
“io” – il corpo, questo corpo, è inconfondibile. Lalingua è la condi-
zione di una lingua che ha smesso di essere comunicazione e strumen-
to dell’Altro, per diventare carne, gesto, immanenza: «se si può dire
che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, è nella misura in cui
gli effetti di lalingua, già lì come sapere, vanno ben oltre tutto ciò che
l’essere parlante ha la possibilità di enunciare» (Ibidem). Quando il
linguaggio torna ad essere «lalingua» il dispositivo della trascenden-
za, da un senso ad un altro senso, da n a n+1, e così via, si arresta.
Laddove “io” finalmente tace c’è il corpo.
Prima di affrontare l’ultimo passaggio, che mira a portare al «rap-
porto diretto del reale con il reale» (Miller, 2008, p. 231), proviamo
a ripercorrere il movimento percorso finora. Il punto di partenza è
stato il primato della lingua nella costituzione del soggetto e di ciò
a cui si rapporta, l’oggetto. Lingua che precede, nel tempo e nella
struttura, la comparsa del soggetto. Questa situazione comporta che
il soggetto è sempre straziato dallo «sciame significante, uno sciame
ronzante» (Lacan, 1975, trad. it. 2011, p. 137) del linguaggio; un
ronzio all’interno del quale il corpo del soggetto finisce per perdersi.
La psicoanalisi è il tentativo di liberare il corpo umano da questo
sciame. L’obiettivo è il reale del corpo. La stranezza di questo tenta-
tivo è che la stessa cura analitica si svolge mediante parole. La scom-
messa dalla talking cure è quella di un uso non comunicativo – non
trascendente – della parola. «La mia ipotesi è che l’individuo affetto
dall’inconscio è lo stesso che costituisce quello che io chiamo il sog-
getto di un significante. Cosa che enuncio in quella formula minimale
secondo cui un significante rappresenta un soggetto per un altro si-
gnificante» (Ivi, p. 136). Il soggetto, in quanto costrutto linguistico,
non è altro che un anello della catena dei significanti. L’obiettivo
dell’analisi è tirare fuori il corpo da questa catena:

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5. per un’estetica del reale 111

colui che parla, l’animale parlante, il parlessere, colui che trae il suo essere
dal parlare, paradossalmente, s’imbroglia con il simbolico. Il fenomeno di im-
brogliarsi non appare […] come un incidente, un accidente, ma, al contrario,
come quel che nomina il rapporto fondamentale del parlessere con il linguag-
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gio (Miller, 2011, p. 225).

Siamo partiti dal linguaggio, dal significante, passando per l’im-


maginario, per arrivare al reale. Il reale è il corpo. Un corpo comun-
que segnato dal linguaggio, perché si diventa umani soltanto quando
si entra nel campo dell’Altro, cioè appunto del linguaggio. Il «parles-
sere» è l’«Un-corpo», è il corpo di lalingua. La posta in gioco, nell’ul-
tima fase del suo lavoro teorico è quella di immaginare – sul modello
della fine dell’analisi – un saper-fare non comunicativo della lingua.
«Che cosa resta, allora? Resta una x, che è la poesia» (Ibidem). In
effetti non rimane altra strada, trasformare la lingua da strumento
comunicativo a fenomeno sensibile: «ma è una poesia speciale, per-
ché è quella che opererebbe un rapporto diretto del significante con il
corpo» (Ibidem). L’esempio su cui riflette Lacan è il lavoro di James
Joyce – in particolare in Finnegans Wake – a cui dedica uno dei suoi
ultimi seminari (Seminario XXIII. Il sinthomo). Joyce rappresenta il
caso esemplare di colui che sa fare qualcosa di lalingua, cioè dell’in-
conscio. Lacan propone di definire questa capacità con il termine
«sinthomo», per differenziarlo dal sintomo: questo è un segno, che
come ogni segno chiede di essere interpretato, cioè chiama il linguag-
gio per poter entrare nella catena significante: il «sinthomo» è invece
un segno che ha smesso di essere significante, è un «reale fuori senso»
(Miller, 2007, p. 172). Il sinthomo è il segno incarnato, è il corpo che
ha traversato il linguaggio e se ne è, infine, liberato, perché «è fuori
dalla significazione» (Miller, 2012, p. 133).
L’esempio di Joyce è, nonostante la proverbiale oscurità della sua
scrittura, illuminante. Joyce non scrive nella lingua dell’Altro, scrive
in una nuova lingua, la sua lingua. In questo modo si completa il
passaggio da A grande ad a piccolo; e così il Finnegans Wake diventa
il nome proprio di Joyce: «il sinthomo è quel che c’è di singolare in
ogni individuo» (Miller, 2008, p. 244). Joyce coincide con la sua
scrittura, Joyce è Finnegans Wake: «identificarsi con il proprio sin-
thomo, essere il proprio sinthomo, vuol dire sbarazzarsi delle scorie
ereditate dal discorso dell’Altro, dopo averle attraversate» (Ivi, p.
252). In questo senso alla fine non c’è che la poesia. La quale non

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112 il taglio

chiede di essere interpretata, non chiede di entrare nel tritatutto del


significante: la poesia è una «consistenza», sta lì, non c’è che da pren-
derne atto.
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La poesia è un reale, e come ogni reale alla fine ci si va a sbattere,


non c’è altro da fare con il reale. Ed il reale è singolare, è solo questo
reale qui, ora, non c’è altro da aggiungere o da spiegare: «il sintho-
mo, il sinthomo come la cosa più singolare, è indecifrabile» (Ibidem).
Il sinthomo è quando il corpo smette d’essere un segno d’Altro (un
sintomo, appunto), e istituisce un «significante nuovo», un gesto ine-
dito, una forma inaspettata: «si parla di uso del sinthomo, precisa-
mente perché non si tratta di far sparire il sinthomo e sicuramente di
non farlo sparire interpretandolo» (Ivi, pp. 252-253). Joyce è riuscito
a sublimare il linguaggio nel corpo, e non per trasformarlo a sua
volta in un segno, al contrario, per dare vita ad un «significante nuo-
vo» pienamente sensibile; un significante che non parla più, ma che
appare, che si impone come reale sensibile: «la psicoanalisi potrebbe
essere definita come l’accesso alla identità sinthomatica, cioè non ac-
contentarsi di dire quello che hanno voluto gli altri, non accontentar-
si di essere parlati dalla propria famiglia ma, al contrario, accedere
alla consistenza assolutamente singolare del sinthomo» (Ivi, p. 250).
Con una precisazione: il sinthomo è l’inconscio, Joyce per primo non
conosce nulla di sé, Joyce incarna sé stesso, e questo è tutto (il pa-
radosso è che il «discorso universitario», invece, non fa che cercare
di spiegare quello che per Joyce, invece, era da prendere come gio-
co e apparenza). Perché l’«identità sinthomatica» non è conoscibile,
perché ogni conoscenza rimanda all’Altro, al simbolico. Joyce è così
«l’incarnazione del sinthomo» (Ivi, p. 250). Qui non c’è più il sog-
getto, con tutto il suo strascico di Altro, di identificazioni, di Edipo;
c’è solo – se ci si riesce – «incarnazione del sinthomo». Nel Semina-
rio XXIII, quello appunto dedicato a Joyce, questa condizione viene
descritta come un «reale senza legge» (come a dire, senza linguaggio,
senza Altro, senza nome del Padre): «il vero reale implica l’assenza
di legge. Il reale non ha ordine. È quello che voglio dire quando dico
che l’unica cosa che forse un giorno riuscirò ad articolare qui con
voi è qualcosa che riguarda ciò che ho chiamato un lembo di reale»
(Lacan, 2005, trad. it. 2006, pp. 134-135).
Si esce dall’analisi quando si diventa capaci di produrre un «si-
gnificante nuovo»: «i nostri significanti» dice Lacan nel Seminario

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5. per un’estetica del reale 113

XXIV, «sono sempre ricevuti. Perché non si inventa un significante


nuovo? Per esempio un significante che, come il reale, non avesse al-
cuna specie di senso?» (Lacan, 1978, p. 21). Alla fine dell’analisi c’è
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l’esperienza estetica, che non ha un senso (che instaura la distinzione


fra significato e significante), bensì è un senso. Alla fine c’è la poesia
come capacità di dare vita ad un «significante nuovo», come succede
nel «motto di spirito», quando «ci si serve di una parola per un uso
diverso da quello per il quale è stata fatta, la si accartoccia un po’,
ed è in questo accartocciamento che consiste il suo effetto operato-
rio» (Ibidem). Alla fine c’è un simbolico accartocciato, rimaneggiato,
incarnato. Non c’è più qualcosa da interpretare, bensì qualcosa da
sentire. Finalmente il reale, perché è lì che fin dall’inizio si voleva ar-
rivare, perché «l’interpretazione analitica […] accetta, assume, sup-
porta un certo non vuol dire niente» (Miller, 1996, p. 38). L’analisi
porta infine oltre il linguaggio, dove appunto non c’è più alcun senso
da cercare. Alla fine rimane soltanto una forma sensibile (la traccia
scritta, la «formalizzazione», «l’impossibile» del reale (Ibidem). Ma
a questo punto Lacan non parla più soltanto dell’analisi, parla del
lavorio dell’umano di fronte al linguaggio:

Sta di fatto che Joyce sceglie. E in questo egli è […] un eretico. […] Occorre
scegliere per quale via prendere la verità. Tanto più che, una volta fatta la scel-
ta, si può sempre sottoporla a verifica, vale a dire essere eretici nel modo giusto.
Il modo giusto è quello che, dopo aver riconosciuto la natura del sinthomo,
non rinuncia a servirsene logicamente, ovvero a usarlo fino a raggiungere il suo
reale. A quel punto ne avrà a sazietà (Lacan, 2005, trad. it. 2006, pp. 13-14).

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6. L’immanenza della vita
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Lawrence ce l’ha con la povertà delle immagini identiche


immobili, ruoli figurativi che sono altrettante allacciature
sui flussi di sessualità: “fidanzata, amante, moglie, madre”
– si potrebbe anche dire “omosessuali, eterosessuali”, ecc.
– tutti questi ruoli sono distribuiti sul triangolo edipico,
padre-madre-io, un io rappresentativo essendo supposto
definirsi in funzione delle rappresentazioni padre-madre,
per fissazione, regressione, assunzione, sublimazione
(Deleuze, Guattari, 1972, trad. it. 1975, p. 403).

1. Cosa cura la psicoanalisi?

Qual è l’obiettivo terapeutico della psicoanalisi? In questo capi-


tolo conclusivo proveremo a rispondere a questa domanda attra-
verso l’analisi del lavoro di uno scrittore, D. H. Lawrence, che si
è occupato specificamente della psicoanalisi. Scopriremo perché D.
H. Lawrence ritenesse che la psicoanalisi non potesse affatto essere
considerata una cura, ma anzi, al contrario, un modo insidioso per
ammalare il corpo umano. Crediamo che Lawrence avesse ragione. Il
punto è che la psicoanalisi che Lawrence critica è quella che descrive
sé stessa come una pratica di consapevolezza e conoscenza, come un
“sapere”. Quello che a Lawrence interessa è invece il corpo umano.
Ma prima di parlare di Lawrence, c’è da chiedersi, preliminar-
mente, in che senso la psicoanalisi è una cura? All’inizio c’è qualcu-
no che per qualche ragione (non importa quale) vive con disagio la
propria condizione, e chiede aiuto ad una o ad uno psicoanalista.
All’inizio, di fatto, c’è una individualità isolata. Si può dire di più, in
effetti, all’inizio c’è una singolarità che prova disagio proprio perché
è quella particolare individualità isolata. Essere quella individualità,

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116 il taglio

infatti, significa non essere come la regola sociale vorrebbe che si


fosse, significa essere diversi, significa, soprattutto, non poter comu-
nicare con gli altri: l’individualità è isolata perché è una individualità.
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Di qui il disagio, che è appunto la conseguenza del sentirsi tagliati


fuori dal resto della comunità, e si è tagliati fuori perché si è una
individualità.
È quella del linguaggio la questione più importante, perché rias-
sume tutte le altre. Perché qualcuno capisca quel che gli dico è neces-
sario usare le parole in un modo che l’altro le possa comprendere: è
necessario che condividiamo le stesse regole d’uso del linguaggio. Gli
dico, ad esempio, “mi passi per favore quel peperone rosso laggiù,
accanto a quello verde?”. L’altro mi capirà, e mi passerà il peperone
che gli ho chiesto, se ho usato la parola “rosso” nel modo in cui
si usa nella comunità a cui entrambi apparteniamo, altrimenti non
potrà capirmi. Nella letteratura filosofica questo problema è noto
come il problema del linguaggio privato, affrontato in particolare da
Ludwig Wittgenstein. Il problema di Wittgenstein è provare a capire
come sia possibile che persone diverse possano usare in modo reci-
procamente comprensibile una stessa lingua. Il modo più facile per
risolvere questo problema è ritenere che nella testa delle persone ci
siano dei pensieri comuni (secondo alcuni queste idee sono innate),
ad esempio l’idea che corrisponde alla parola “rosso”: quando uso
questa parola l’altro mi può capire perché anche per lui – che come
me parla l’italiano – “rosso” è collegato all’idea di rosso che ha in
testa. Wittgenstein osserva che questa soluzione è sbagliata, è logica-
mente sbagliata. Seguiamo il suo ragionamento:

immaginiamo questo caso: mi propongo di tenere un diario in cui registrare


il ricorrere di una determinata sensazione. A tal fine associo la sensazione alla
lettera “S” e tutti i giorni in cui provo la sensazione scrivo questo segno in un
calendario. […] [I]o parlo, o scrivo il segno, e così facendo concentro la mia at-
tenzione sulla sensazione – come se la additassi interiormente. […] Questo av-
viene, appunto, mediante una concentrazione dell’attenzione; in questo modo,
infatti, m’imprimo nella mente la connessione fra il segno e la sensazione. – Ma
“Me la imprimo in mente” può soltanto voler dire: questo procedimento fa
sì che nel futuro io ricordi correttamente questa connessione. Però nel nostro
caso non ho alcun criterio di correttezza. Qui si vorrebbe dire: corretto è ciò
che mi apparirà sempre tale. E questo vuol dire soltanto che qui non si può
parlare di “corretto” (Wittgenstein, 1953, trad. it. 1974, i, § 258).

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6. l’immanenza della vita 117

Ho deciso di tenere un diario, ma voglio che nessuno lo possa mai


leggere, e quindi, per evitare ogni rischio, lo scriverò in una lingua
privata, un idioletto, una lingua che solo io posso capire. Ora, per
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essere ancora più sicuro, ho inoltre stabilito che alle regole di questa
lingua privata potrò accedere soltanto io, pertanto le imparerò a me-
moria. Dopodiché comincio ad usare l’idioletto, e quindi decido che
tutte le volte che proverò la particolare sensazione che sto provando
oggi scriverò “S” sul mio diario. L’indomani provo di nuovo la stessa
sensazione, e quindi sul diario scrivo nuovamente “S”. Ma qui sorge
subito un problema, come faccio a sapere che è proprio “S” il segno
giusto, e non, ad esempio, il segno“P” che avevo deciso di usare per
una sensazione simile ma comunque diversa? Non basta dire, come
fanno tutti, “sono sicuro di non sbagliarmi, è proprio S che devo
usare, non P”, perché questa rassicurazione non è sufficiente.
Posso sentirmi sicuro, ma posso anche sbagliarmi, non c’è un
modo per scartare la possibilità che mi stia sbagliando. La regola
privata che stabiliva il nesso fra la sensazione ed il segno “S” non è
affatto affidabile. Ma se non sono sicuro che sia proprio “S” il segno
che devo usare, come posso fidarmi della mia lingua privata? E se
non posso esserne sicuro, come posso affidare a questa lingua le note
sulle mie sensazioni? Una regola privata non è una regola, proprio
perché è privata. Quello di cui il mio idioletto manca è un controllo
esterno. In una lingua pubblica, se ad esempio mi viene un dubbio su
quale sia la corretta ortografia di una parola, cerco in un dizionario,
e il dubbio viene risolto. Il dizionario non l’ho scritto io, perché è
pubblico, e proprio per questo me ne posso fidare, perché le regole
sono controllate da più persone, in particolare da esperti della lingua.
Tutto questo, nel mio idioletto, non c’è.
Ma allora il paradosso del linguaggio privato è che un idioletto,
se esiste, non lo può usare nessuno, nemmeno chi l’ha inventato. Un
idioletto non lo capisce nessuno. Un idioletto non è, propriamente,
una lingua. Per questo quella di Wittgenstein è una confutazione lo-
gica della tesi dell’esistenza di una lingua privata: una lingua o è pub-
blica o non è una lingua (Cimatti, 2004). Ma in questo modo Witt-
genstein ci pone di fronte ad un dilemma: se vogliamo salvaguardare
la singolarità che incarniamo, cioè il nostro impossibile idioletto, sia-
mo costretti a rinunciare alla possibilità di stabilire una relazione con
gli altri; se, al contrario, vogliamo salvare questa possibilità, siamo

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118 il taglio

però costretti a rinunciare alla nostra peculiare e incomunicabile in-


dividualità. O l’Altro (la lingua), come scriverebbe Lacan, o il «sog-
getto reale» (l’idioletto; cfr. Soler, 2009, p. 21).
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Se ora torniamo da dove siamo partiti, capiamo perché il proble-


ma del linguaggio racchiuda un po’ tutti i problemi dell’individualità
a disagio, che è a disagio proprio perché è una individualità. Essere
una individualità in senso pieno significa infatti non essere in grado
di stabilire una relazione con il resto della comunità. Il disagio men-
tale nasce da questo senso di isolamento. Uno dei modi teoricamente
più coerenti di intendere la psicoanalisi è pensarla proprio come una
cura che cerca di ristabilire il legame con la comunità; una cura che
trasforma l’idioletto in lingua (Lorenzer, 1970), ossia adatta l’indivi-
duo alla comunità, lo rende “digeribile” dalla comunità. In fondo è
quello che sostiene lo stesso Freud, nel Disagio della cività, quando
scrive che «l’uomo diventa nevrotico perché è incapace di sopportare
il peso della frustrazione che la società gli impone affinché egli possa
mettersi al servizio dei suoi ideali civili» (Freud, 1929, trad. it. 1978,
p. 578).
La psicoanalisi allora è una cura, una cura basata sulla parola.
Il meccanismo della cura lo spiega Freud nei saggi sulla Metapsi-
cologia, in particolare quello dedicato all’Inconscio. È importante
spiegarlo in dettaglio perché proprio a partire dalla funzione del lin-
guaggio nella costituzione della psiche che parte la critica radicale
di Lawrence alla psicoanalisi. Il punto di partenza del modello di
Freud è la distinzione (che riprende dal suo libro sulle afasie; Freud,
1891) fra «rappresentazione della cosa» e «rappresentazione della
parola» (Freud, 1915b, trad. it. 1976). La prima è l’insieme delle
«tracce mnestiche» che rimangono nella psiche dopo una qualunque
esperienza sensibile; la seconda invece è collegata ai gesti espressivi
– i movimenti coordinati dell’apparato fonatorio – che permettono
di articolare un suono linguistico (o un gesto manuale, nel caso del-
la lingua dei segni). Questa differenza, nota Freud, è parallela alla
differenza fra «rappresentazione inconscia», che corrisponde alla
«rappresentazione della cosa», e «rappresentazione conscia», che
invece corrisponde alla «rappresentazione della parola» (Ivi, p. 85).
Un contenuto psichico può diventare (auto)cosciente se si associa alla
«rappresentazione della parola»:

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6. l’immanenza della vita 119

la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più


la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la
rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc contiene gli investimenti che
gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettua-
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li; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene
sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazioni verbali.
Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrainvestimenti a determinare
una più alta organizzazione psichica, e a rendere possibile la sostituzione del
processo primario con il processo secondario che domina nel Prec (Ibidem).

Il passo di Freud è esplicito: la mente umana può divenire (auto)


cosciente soltanto perché è in grado – ciò che sembra precluso ad altre
specie animali (Cimatti, 2002) – di pensare in parole, cioè di articolare
pensieri letteralmente intessuti di lingua. Se non ci fosse la possibilità
di associare «rappresentazioni di cosa» a «rappresentazioni di paro-
la» la psiche umana sarebbe strutturalmente inconscia, perché, spiega
Freud, «i processi ideativi» sono «in sé stessi privi di qualità» (pertan-
to non potremmo auto-percepirli); per questa ragione rimarrebbero
«inconsci», mentre acquistano «la capacità di diventare coscienti solo
connettendosi ai residui delle percezioni verbali» (Freud, 1915b, trad.
it. 1976, p. 86), cioè appunto alle «tracce mnestiche» che rimangono
in noi dall’ascolto delle parole. In realtà per Freud il ruolo della lingua
rispetto al pensiero è ancora maggiore. Attraverso le parole possiamo
pensare anche a ciò di cui non abbiamo avuto, propriamente, nessuna
esperienza. Proviamo a chiarire con un esempio: vedo davanti a me
una cartella rossa poggiata su una sedia. A rigore che la cartella sia
sulla sedia non lo vedo direttamente, perché le relazioni fra gli oggetti
non sono visibili. Vediamo qualcosa di rosso, e sullo sfondo la massa –
di un altro colore – della sedia. Eppure ci sembra proprio di vedere una
cartella sopra una sedia. E allora, come facciamo a vedere, e quindi a
pensare, ad una relazione, come ad esempio la relazione “sopra”? «La
congiunzione con parole può dotare di qualità anche quegli investi-
menti che non possono derivare qualità alcuna dalle percezioni stesse,
in quanto corrispondono a mere relazioni fra le rappresentazioni degli
oggetti. Tali relazioni», come nel caso del “sopra”, «che diventano
comprensibili solo per il tramite delle parole, sono una parte essenziale
dei nostri processi di pensiero» (Ibidem).
Siamo partiti dal tema dell’individualità e della sua impossibile
forma espressiva, l’idioletto. La psicoanalisi in quanto talking cure è

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120 il taglio

il tentativo di riportare l’idioletto alla lingua, il privato al pubblico,


il soggettivo all’oggettivo. Il prezzo da pagare per compiere questo
percorso è perdere quella assoluta e irriducibile individualità da cui
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nasceva il disagio che abbiamo visto collocarsi all’inizio del percorso


analitico. Perché l’individualità è di per sé fonte di disagio – perché
produce esclusione – ma è anche ciò che caratterizza in modo esclusi-
vo ciascun essere umano. Il dispositivo analitico, che si basa proprio
sul passaggio dall’inconscia e incomunicabile «rappresentazione del-
la cosa» alla conscia e comunicabile «rappresentazione della parola»
incide esattamente su questa singolarità. Secondo Lawrence questo
prezzo è troppo alto, perché la cura – in un certo senso – finisce per
uccidere il malato; per questa ragione critica l’intero progetto della
psicoanalisi. Ma forse, lo vedremo nell’ultima parte di questo lavoro,
ammesso che la critica di Lawrence si applichi a Freud, sicuramente
non si può applicare alla psicoanalisi lacaniana.

2. Lawrence sull’animale umano

La psicoanalisi, per Lawrence, si inscrive in un movimento stori-


co di civilizzazione che allontana l’umano da sé stesso, rendendolo
cerebrale, contorto, costitutivamente infelice (cfr. Goodheart, 1969;
Dervin, 1979). Il passaggio «dalla rappresentazione della cosa» in-
conscia alla «rappresentazione della parola», e quindi alla coscienza
di sé, rende l’animale umano un essere intrinsecamente diviso, in-
stabile, sempre proiettato o verso il passato o verso il futuro, senza
mai veramente abitare il presente che sta vivendo. La posta in gioco
della critica di Lawrence alla psicoanalisi è l’immanenza (Ciccarelli,
2008; Pagliardini, 2011). Cioè la questione di una vita tutta al pro-
prio stesso livello, una vita rasoterra, una vita senza trascendenza:
«il pensiero dell’immanenza è un esempio di pensiero filosofico non
fenomenologico, non strutturalista, non antropologico, estraneo al
pensiero analitico che eccelle nello scientismo logico-matematico, nel
funzionalismo cognitivo, nell’intersoggettività normativa e linguisti-
ca» (Ciccarelli, 2008, p. 20). Immanenza significa rimanere attaccati
alla vita, e a nient’altro, ogni altra categoria è superflua. È lo stes-
so per Lawrence, che vede in particolare nella psicoanalisi il vertice
del processo storico che ha portato invece ad allontanarsi dalla vita,

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6. l’immanenza della vita 121

producendo corpi inevitabilmente segnati dal dualismo che separa il


mentale dal corporeo. La psiconalisi per Lawrence sembra invece d’a-
vere come fine il pensiero del corpo, perché nient’altro che questo è la
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mente, un pensiero inevitabilmente destinato ad allontanarsi dal cor-


po, fino a perderlo definitivamente: «Adamo ed Eva peccarono non
perché avessero un sesso, neanche perché commisero l’atto sessuale,
ma perché si accorsero di avere un sesso, e la possibilità dell’atto.
Quando il sesso divenne per loro un oggetto mentale […] allora furo-
no maledetti e cacciati dall’Eden» (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p.
163). Ecco il danno per la vita della psicoanalisi, trasformare il sesso
in un «oggetto mentale», e così separarlo dal corpo, e l’immanenza
dell’esistenza si perde per sempre: «la mente ideale», scrive Lawrence
in Fantasia dell’inconscio, «il cervello, è diventato un vampiro della
vita moderna, succhiando via il sangue e la vita» (Ivi, p. 63). Da no-
tare come, per Lawrence, «mente» e «cervello» siano in realtà espres-
sioni sinonime, perché testimoniano della avvenuta frammentazione
del corpo umano, una dualità che non può essere superata rendendo
la prima identica al secondo (come oggigiorno vorrebbero le scienze
cognitive), o abbandonando il corpo a vantaggio della mente (come
vuole l’eterna tentazione della trascendenza), ma rinunciando ad un
modo di vivere che instancabilmente produce quello stesso dualismo.
È l’immanenza della vita, semplicemente, quella che cerca Lawrence:

qual è allora il vero inconscio? Non un’orma fumosa derivata dalla mente.
È la spontanea pulsione alla vita in ogni organismo. Da dove ha origine? Co-
mincia dove comincia la vita. Ma questo è troppo vago. Non ha senso parlare
della vita e dell’inconscio alla rinfusa. Si può parlare dell’elettricità, perché è
una forza omogenea, concepibile separatamente da qualsiasi incorporamento.
Ma la vita è inconcepibile come oggetto generico. Esiste solo nelle creature
viventi. Cosicché la vita ha inizio, oggi come allora, in una individuale creatura
vivente. All’inizio dell’individuale creatura vivente c’è l’avvio della vita, sempre
e ogni volta, e la vita non ha altro inizio. Ogni tentativo di un’ulteriore genera-
lizzazione ci porta semplicemente oltre la considerazione della vita, nella regio-
ne della forza meccanica e omogenea (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 167).

L’inconscio sessuale, per Lawrence, non è quello originario, non


è il «vero inconscio». Al contrario, gli umani in formazione possono
sviluppare un inconscio sessuale perché subiscono una sorta di sedu-
zione da parte dell’inconscio dell’adulto (è interessante che Lawrence
usi il termine “seduzione” anticipando una tesi che, decenni dopo,

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122 il taglio

diventerà quella di Laplanche, per il quale l’inconscio nasce dal mes-


saggio enigmatico dell’adulto, non è cioè originario; cfr. Laplanche,
2007): «dai primissimi giorni, un bambino è soggetto alle influenze
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psichiche dell’io-cosciente del suo circondario, e reagirà quasi auto-


maticamente ad un suggerimento paradossale e conscio della madre.
Il questo senso viene evocato prematuramente il sesso personale, e
vengono costruiti i veri complessi» (Lawrence, 1921, trad. it. 1995,
p. 181). Lo sviluppo spontaneo (ma esiste davvero? Lawrence qui
non è troppo ingenuamente seguace di Rousseau?) del bambino viene
così perturbato dall’«io-cosciente», cioè dalla «mente» dell’adulto,
che introduce disturbi e perversioni.
Ma cos’è, propriamente, questo «vero inconscio», al di qua della
perturbazioni introdotte dalla «mente» e dalle razionalizzazioni della
psicoanalisi?
Lawrence identifica quest’entità con il nucleo affatto singolare
della vita di ciascun corpo. Una singolarità del tutto intraducibile
(ecco l’unico vero idioletto esistente), perché ogni lingua mira al co-
mune e all’intersoggettivo, cioè proprio a ciò che non è singolare e
unico. È questo il grumo originario che Lawrence vuole difendere ad
ogni costo, sempre e comunque. Un nucleo che la talking cure può
invece prendere in carico soltanto inquadrandolo (e quindi perden-
dolo) nelle sue categorie generali, l’Es, il Super Io, l’Io, e ancora l’Edi-
po, la castrazione, il Fallo, e così via. Lawrence, di conseguenza, per
evitare ogni categoria che possa fargli smarrire la radicale singolarità
di questo grumo, non può che definire il «vero inconscio» attraver-
so una tautologia: «al mio principio ci sono io. C’è una misteriosa
piccola entità che è il mio sé individuale» (Lawrence, 1922, trad. it.
1995, p. 55). Una entità che è «misteriosa» perché non esiste una
categoria che la possa spiegare, e ricondurre ad un principio supe-
riore, trascendente appunto. È questa l’immanenza, questa ottusa e
scontrosa tautologia. È questa la posta in gioco fra la psicoanalisi e
Lawrence, o almeno un particolare modo di intendere la psicoanalisi.
Il «vero inconscio» coincide allora con il grumo originale e affatto
singolare della vita: «l’inizio della vita è l’inizio della prima creatura
individuale. […] E dove comincia la vita ha inizio anche l’inconscio.
Ma tenete a mente, il primo e nudo organismo unicellulare è un indi-
viduo. È un individuo specifico, non un’unità matematica come un’u-
nità di forza. Dove comincia l’individuo, ha inizio la vita. I due sono

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6. l’immanenza della vita 123

inseparabili, vita e individualità. E allo stesso modo, dove comincia


l’individuo, comincia anche l’inconscio, che è la specifica pulsione
alla vita» (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, pp. 167-168).
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«Vita», «inconscio» e «individualità» vanno insieme, sono tre


modi diversi per indicare uno stesso movimento e unitario. Ogni ten-
tativo di stabilire per la vita una direzione, un vincolo, un ideale
equivale, per Lawrence, a stravolgerne la spontanea motilità. Qui
Lawrence coglie un problema reale della psicoanalisi, che da un lato
è il sapere che ha esattamente questo ambito brulicante di vita e de-
siderio come proprio oggetto specifico, dall’altro, però, è la prima
ad esserne impaurita. Di qui la perenne tentazione della psicoanalisi
a presentarsi come il sapere rispettabile e conformista che mira al
controllo e alla «sublimazione» dell’inconscio (cfr. Cimatti, 2011).
L’immanenza del vitale viene scoperta ma solo per rinchiuderla su-
bito dopo dentro nuove e più severe categorie di controllo, a partire
dall’Edipo (e qui vale tutta la differenza lacaniana, per il quale, in-
vece, «al centro della dottrina della soggettivazione è una sostanza
particolare, preontologica, non-fondata, priva di essenza che non si
lascia mortificare integralmente nell’universale del significante», Re-
calcati, 2012, p. 422). Per questo, nel confronto fra Lawrence e la
psicoanalisi, la posta in gioco è l’immanenza: «la meta non è ideale.
Lo scopo non è la consapevolezza mentale. Vogliamo esseri umani
reali, non consci» (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, p. 63). Appunto,
la meta non consiste nell’andare oltre il corpo e la vita, nella tra-
scendenza appunto (sia quella apparentemente più mondana delle
regole sociali e comunicative, come di quella dichiaratamente spi-
rituale della religione), al contrario, la meta coincide con il punto
di partenza, la meta è rimanere dove già si stava. Il problema che
pone la psicoanalisi, per Lawrence, è stabilire se intende collocarsi
dal lato della trascendenza (non c’è affatto bisogno di credere in Dio
per stare dalla parte della trascendenza, il culto della scienza ne è
la prova più evidente) o da quello dell’immanenza: «tutto il campo
della coscienza dinamica e reale è sempre pre-mentale, non-mentale»
(Ibidem). La vita è soltanto questo corpo vivente qui ed ora. Se allora
la psicoanalisi è il tentativo di «sublimare» questo processo vitale
trasformandolo in una «coscienza mentale, finita e statica» (Ivi, p.
64), allora significa che la psicoanalisi ha fatto la sua scelta di campo,
ha scelto la trascendenza. Mentre nell’altro, quello dell’immanenza,

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rimane la «coscienza primaria», quella non scissa, quella terra terra,


quella non divisa fra realtà e ideale (o fra Io e Super Io): «questa
coscienza, comunque, è assolutamente non ideale, non mentale, pu-
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ramente dinamica, una materia costituita da un interscambio dina-


mico e polarizzato di vibrazioni vitali, come uno scambio di messaggi
radio che non sono mai tradotti dal ritmo del polso in parole, perché
non ne hanno bisogno» (Ibidem).

3. Il trauma del linguaggio

L’esempio di quest’ultima citazione è chiarificatore, perché mostra


come il nodo teorico di fondo di questo confronto fra Lawrence e la
psicoanalisi sia, in realtà, il linguaggio. Lawrence parla della comu-
nicazione via onde radio, ma una comunicazione che non richiede
decodifica; il polso dell’operatore che riceve in cuffia i segnali radio
non sta pensando a come associare lettere a segnali, in realtà vibra
e risuona a quanto sta ascoltando, e la sua mano si muove di conse-
guenza, trasformando la vibrazione sonora in vibrazione gestuale (le
lettere che scrive nel blocco d’appunti). Questo non è il linguaggio,
almeno non il linguaggio umano (cfr. Lo Piparo, 2003). L’esempio
di Lawrence è quello di un flusso continuo di vibrazioni, come la
radiazione termica rispetto al movimento del girasole: il ruotare del
fiore verso il calore della luce solare non significa che il girasole abbia
compreso che il sole si trova in una certa posizione del cielo. Questo
non è un fenomeno mentale, non è un ragionamento, è invece un
risuonare della pianta ad una certa vibrazione ambientale (Gibson,
1966). Qui è il flusso in primo piano, la trasformazione, in corpi di-
versi, di uno stesso schema di vibrazione.
Al contrario, il linguaggio umano è costruito sull’interruzione del
flusso, a partire da quella che è forse la parola per eccellenza di ogni
lingua, la negazione, il “no” (Freud, 1925; Virno, 2013). Negare si-
gnifica infatti introdurre nel dinamismo del flusso dell’esperienza un
blocco, uno stacco: dire, di fronte alla cartella sulla sedia (l’esempio
che abbiamo discusso più sopra), “la cartella non è gialla” significa
esattamente prendere le distanze dal flusso percettivo. La cartella che
vediamo è rossa, non c’è niente di giallo nel nostro campo visivo,
eppure, attraverso l’operatore logico-linguistico della negazione im-

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provvisamente entra nel nostro campo mentale (e qui è proprio e


soltanto mentale) anche il “giallo”. Il flusso percettivo è interrotto,
non c’è più risonanza con l’ambiente esterno. Possiamo pensare al
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“giallo” – attraverso la parola – anche se non c’è niente di giallo da


vedere. La parola ha appunto questo potere, straordinario e dalle in-
finite conseguenze, separare quello che è continuo, dividere ciò che è
unitario, articolare quello che è compatto. In questo senso la psicoa-
nalisi, in quanto talking cure, cura della parola, rappresenta il vertice
di un modo di stare al mondo che allontana definitivamente dalla
immediatezza del corpo. Lawrence non può certo conoscere Lacan,
ma sarebbe stato del tutto d’accordo con lui quando questi dice «che
l’individuo affetto dall’inconscio è lo stesso che costituisce quello che
io chiamo il soggetto di un significante» (Lacan, 1975, trad. it. 2011,
p. 136). Quest’inconscio di cui sta parlando Lacan è molto simile a
quello di Lawrence, è qualcosa che arriva dall’esterno, dal «signifi-
cante», cioè dal linguaggio. Non è originario, questo inconscio; l’u-
mano è segnato dall’inconscio perché è segnato dall’Altro, per usare
un’altra formula di Lacan. Lawrence sarebbe stato d’accordo, all’i-
nizio non c’è l’inconscio, o meglio, c’è quello che lui chiama, come
abbiamo visto, il «vero inconscio», che appunto non è quello che «è
strutturato come un linguaggio» (Ivi, p. 133):

la mentalità [mentality], per suo principio automatica come una macchina,


comincia ad assumere vita. Comincia ad intaccare la vita, a pretendere di fare
e disfare la vita. “In principio c’era il Verbo”. Questa è la presuntuosa masche-
rata della mente. Il Verbo non può essere l’inizio della vita. È la fine della vita,
ciò che cade perduto. La mente è il vicolo cieco della vita (Lawrence, 1921,
trad. it. 1995, p. 193).

In questo caso è del tutto esplicita l’associazione che Lawrence


stabilisce fra «mente», «Verbo» cioè linguaggio (il «significante» di
Lacan) e «fine della vita». L’operazione linguistica, attraverso la pa-
rola e la presa di coscienza che l’accompagna, frammenta l’unitarietà
del flusso vitale. E questo preclude definitivamente la possibilità di
vivere l’esistenza con pienezza: «conoscere è perdere. Quando io pos-
siedo un concetto mentale dell’amato, di un amico, allora l’amore e
l’amicizia sono morti. Decadono al livello di mere conoscenze. Non
appena possiedo un concetto mentale finito, un’idea completa anche
di me stesso, allora da un punto di vista dinamico sono morto. Co-

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noscere è morire» (Ivi, p. 193). La coscienza, per Lawrence, è una


«dynamic consciousness» (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, p. 65),
che è viva finché permane in questo flusso non sostanziale, finché
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partecipa del movimento delle relazioni vitali, finché rimane fluida e


aperta a nuove relazioni. Ogni forma di irrigidimento semplicemente
la uccide. Ecco perché un progetto terapeutico basato sulla parola,
come appunto la psicoanalisi, è considerato da Lawrence come il
punto terminale di una storia che ha come fine l’annientamento di
quanto c’è di originario nella vita umana, «la libera psiche sponta-
nea, l’anima effettiva» (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, p. 184).
La psicoanalisi, allora, non è la cura della nevrosi, al contrario,
è il punto più alto della malattia. Bisogna liberarsi della cura, per
provare – finalmente – a guarire dalla malattia. La psicoanalisi, cioè
l’operazione attraverso la quale si prende coscienza linguistica del
proprio mondo interiore, è il problema, non la soluzione: iniettare
«l’ideale» (sotto forma di Super Io, ad esempio) nella «sfera passio-
nale […] rappresenta il pericolo conclusivo per la coscienza umana»
originaria, «è la morte di ogni vita spontanea e creativa» (Ivi, p. 166).
D’accordo, è alla «dynamic consciousness» che dobbiamo ri-
volgerci, è questa la via d’uscita dalla nostra condizione, ma dove
trovarla? Qui Lawrence si trova di fronte ad una alternativa, che è
logica prima ancora che letteraria o teorica. Se il «vero inconscio»
rappresenta la nostra condizione originaria, è però anche una con-
dizione ormai perduta, proprio per la nostra condizione di animali
parlanti. E allora, il «vero inconscio» semplicemente non esiste più, è
stato cancellato dal momento in cui l’umano è diventato, come dice
Lacan, il «parlêtre»: «quando affrontiamo il soggetto, sappiamo che
vi è già nella natura qualcosa che è il suo Es, strutturato secondo la
modalità di un’articolazione significante che [lo] contrassegna con le
sue impronte, le sue contraddizioni, con la sua profonda differenza
rispetto alle captazioni naturali, tutto ciò che si esercita nel soggetto»
(Lacan 1994, trad. it. 2007, p. 45). Ormai è questa, la natura dell’a-
nimale umano. Dove cercare, allora, il «vero inconscio»? Per questo
quello di Lawrence è un problema logico, perché non possiamo cer-
care di abitare in un tempo che è irrimediabilmente passato; in realtà
il «parlêtre» può esserci solo perché quel tempo non è più.
Per Lawrence tutto questo è chiaro, è una condizione che non è
alle nostre spalle, al contrario, può esistere (se esiste) solo come oriz-

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zonte. Quale sia la condizione d’arrivo è altrettanto chiaro, una volta


compreso che la posta il gioco è il rapporto con il linguaggio e la sua
potenza distanziatrice rispetto alla pienezza dell’esperienza. Quello
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che Lawrence cerca è l’assoluta immanenza, una condizione in cui


«vi è qualcosa di interamente nuovo» (perché l’immanenza è radicale
singolarità), «non derivato e non derivabile» (non esiste modello per
la singolarità, ognuna fa regola a sé), «qualcosa che è, e resterà per
sempre, fortuito» (perché non deducibile dalle premesse, è sempre
la prima volta e l’ultima che si presenta; il «reale è senza legge» dice
Lacan; 2005, trad. it. 2006, p. 134); «e questo qualcosa è l’inanaliz-
zabile, l’indefinibile realtà dell’individualità» (Lawrence, 1921, trad.
it. 1995, p. 168). Ebbene questa condizione è da raggiungere, o me-
glio, è da costruire, è il compito assolutamente non trascendente di
ogni essere umano:

eppure noi dobbiamo conoscere, anche se solo per imparare a non cono-
scere. La suprema lezione della coscienza umana è di imparare come non co-
noscere. Vale a dire, come non interferire. Ancora, come vivere dinamicamente
[…] e non staticamente come macchine guidate da idee e principi che partono
dalla testa, o automaticamente, a partire da un unico desiderio fisso (Lawren-
ce, 1922, trad. it. 1995, p. 69).

Il percorso che ci propone Lawrence è tortuoso, e apparentemen-


te contradditorio. L’animale che parla, l’animale scisso in corpo e
mente, l’animale autocosciente, deve imparare a smettere di essere
proprio ciò che è, il «parlêtre», l’animale intrinsecamente scisso.
Deve imparare, compito a cui solo una mente può applicarsi, a non
imparare; deve addirittura imparare a «non interferire». Questo è il
compito più difficile, perché non interferisce solo chi non ha nulla
da avanzare di proprio, solo chi partecipa della situazione, ma senza
pretendere di guidarla. Una mente, al contrario, è sempre lì con le
sue preoccupazioni, il suo orgoglio, il suo “io” da promuovere e di-
fendere. Per questo, il più perfetto esempio di «vero inconscio», per
Lawrence, è il «feto», che infatti «non è conscio in modo personale»
(Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 172). In effetti lo stesso linguag-
gio che produce, a partire dall’operazione originaria della negazione,
la distanza fra corpo ed esperienza – la “mente” è appunto la presa
d’atto di questa separazione – produce anche quella particolare en-
tità tutta linguistica che dice di sé “io” (Cimatti, 2000). E non po-

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trebbe esserci psicoanalisi senza “io”, e viceversa. E quindi liberarsi


del primo significherebbe anche liberarsi della seconda: «ci rendiamo
conto che l’inconscio», nel senso di Lawrence, quello non infettato
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dalla coppia mente-linguaggio, «non contiene nulla di ideale, nulla


di minimamente concettuale, e perciò nulla di minimamente perso-
nale, giacché la personalità, come l’ego, appartiene al sé cosciente,
mentale-soggettivo» (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 180).

4. Diventare un corpo

L’obiettivo, per Lawrence, è recuperare una radicale individualità,


questo è infine il «vero inconscio», quello che vuole salvare dall’in-
flusso pernicioso della mente autoriflessiva e della psicoanalisi: «per-
ché il fine, la meta, è il perfezionamento di ogni singola individualità»
(Ivi, p. 174). Ora, questo obiettivo è il contrario di quanto si potreb-
be pensare, non equivale affatto ad un imperativo egocentrico. Solo
un “io” può desiderare di affermare sé stesso, solo un “io” può essere
egoista. La «singola individualità» invece è tanto più sé stessa, e sol-
tanto sé stessa, quanto meno affaticata dal peso del proprio “io” con
tutto il carico delle sue preoccupazioni. Una singolarità che, a questo
punto, è finalmente e liberamente capace di risuonare con l’ambiente
di cui è parte integrale: «ciò che è individuale è la relazione, l’anima,
non l’io. L’io tende a identificarsi con il mondo, ma appartiene già
alla morte, mentre l’anima tende il filo delle sue “simpatie” e “anti-
patie” viventi. Smettere di pensarsi come un io, per viversi come un
flusso, un insieme di flussi, in relazione con altri flussi, fuori di sé e in
sé» (Deleuze, 1995, trad. it. 1996, p. 71).
La preoccupazione di Lawrence è salvaguardare il nucleo imper-
sonale e affatto singolare del vivente umano, nucleo che sfugge ad
ogni classificazione, ad ogni sforzo di assimilazione da parte dell’ac-
coppiata mente-linguaggio. Un nucleo, anche questo va ribadito, che
Lawrence ritiene non sia uno stato da ritrovare, bensì da raggiungere,
attraverso progressive identificazioni con sé stessi. Un processo che
non accresce l’“io”, al contrario, lo scarnifica, lo riduce alla condi-
zione non più ulteriormente riducibile dell’immanenza di una vita.
Ecco che, allora, si apre un nuovo spazio di riflessione rispetto alla
psicoanalisi. Non è affatto necessario, infatti, che la talking cure fini-

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sca nel primato della mente sul corpo, a prezzo di sacrificare il nucleo
di individualità che incarna ogni vita umana. La critica di Lawrence
forse non è indirizzata tout court alla psicoanalisi, ma forse solo ad
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un particolare modo di intenderla. Un modo che probabilmente non


è quello freudiano (Freud, 1937), ma certamente non è quello di La-
can. L’obiettivo dell’analisi, per Freud, è l’«opera di liberazione di
un essere umano dai suoi sintomi nevrotici, inibizioni e anomalie di
carattere» (Ivi, p. 499). Ma questa opera si può intendere in più modi.
Quello che Lawrence temeva era quello normalizzante che privilegia
lo spazio della mente rispetto a quello del corpo, il primato del confor-
mismo sociale sull’eccentricità anonima del corpo. Ma appunto, non
è l’unico modo né il più adeguato di intendere il processo analitico.
Chiariamo intanto l’obiettivo, di quest’altro modo di intendere
la psicoanalisi, un modo che accolga la critica di Lawrence, che pro-
tegga e rafforzi il nucleo impersonale del vivente umano. Ciò che
quest’altro modo di intendere la psicoanalisi intende salvare è – usia-
mo ancora le parole di Deleuze, uno dei pochi filosofi che hanno
saputo usare produttivamente il suo pensiero – «la parte inalienabile
dell’anima, [che] è quando si è smesso di essere un io: bisogna con-
quistare questa parte eminentemente fluida, vibrante, lottatrice» (De-
leuze, 1995, trad. it. 1996, p. 72). L’analisi è un lavoro di parole, non
c’è altro, fra analista e analizzato. Eppure in questo caso le parole
non cercano di trasformarsi in altre parole, in altre interpretazioni, in
altre ipotesi. È un processo questo sì interminabile, che non porta al
di là delle parole. Ecco, è questa la psicoanalisi che Lawrence critica,
e giustamente, perché produce soltanto compiacimento e uno sterile
godimento della parola. Mentre l’obiettivo della cura è passare «dal
simbolico al reale» (Izcovich , 2006, p. 18), cioè al corpo stesso. Ma
questo significa che la talking cure è una cura che ha come fine quello
appunto di liberare il corpo dalle parole (Di Ciaccia, 2013).
Quello che Lawrence chiama, con una punta di ingenuità, «vero
inconscio» il Lacan del seminario XX lo chiamerebbe forse «lalingua»,
tutto attaccato. Lalingua non è la lingua che parliamo tutti i giorni, la
lingua che incessantemente produce “io” e gli oggetti di cui “io” parla
e si preoccupa, la lingua che produce “tu” e la distanza che lo separa
da “io”, che genera frammentazione e parole che chiamano altre paro-
le, e altre parole ancora. Lalingua «serve a tutt’altra cosa che alla co-
municazione», infatti, «ce l’ha insegnato l’esperienza dell’inconscio, in

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quanto esso è fatto di lalingua» (Lacan, 1975, trad. it. 2011, p. 132).
Dove c’è lalingua non ci sono soggettività, e quindi non c’è nemmeno
comunicazione; lalingua è il flusso impersonale al qua di “io” e “tu”.
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Per questa ragione lalingua sconcerta, e infatti «il linguaggio è quel che
si cerca di sapere circa la funzione di lalingua» (Ibidem).
Lalingua è lo spazio di movimento e libertà che si può aprire, alla
fine dell’analisi, quando l’analizzato ha smesso di chiedere il perché
dei suoi sintomi; finché il sintomo è inteso come un segno non lo si
prende per qualcosa di reale, ma appunto soltanto come il rappre-
sentante di qualcosa d’altro. È questo altro, che interessa, il sintomo
è soltanto un modo per arrivarci. Ma il sintomo è il corpo, questo
corpo qui. Finché il corpo è soltanto sintomo, in realtà il corpo non
ci interessa per niente. Quello che ci interessa, invece, è il discorso sul
corpo, è cioè la mente che si compiace di essere separata dal corpo.
Per Lacan il compito dell’analisi, invece, consiste nell’andare nella di-
rezione contraria, dalla mente al corpo, dal simbolico al reale. Lacan
è d’accordo con Lawrence, la meta è l’immanenza, e allora «lasciamo
che il sintomo sia quel che è: un evento del corpo» (Lacan, 2001, trad.
it. 2012, p. 561). Per far meglio cogliere questo passaggio, dal sinto-
mo come segno al sintomo come «evento del corpo», Lacan ricorre ad
un espediente grafico: il sintomo non semiotico è un «symptôme» (La-
can, 2005). Il punto centrale è che per Lacan il «symptôme» è legato
al «godimento» (Lacan, 2001, trad. it. 2012, p. 570). Finché il corpo
è l’altro della mente, il godimento è interdetto, e può essere raggiunto
solo aggirando questo interdetto, e quindi attraverso il sintomo. Il sin-
tomo è infatti un modo per soddisfare il godimento, ma senza che la
mente lo sappia, di nascosto, furtivamente. Quando il sintomo diven-
ta «symptôme», quando cioè l’analizzato ha imparato, come diceva
Lawrence, a non voler più imparare (quando è il reale che cerca, non
più il simbolico), allora gli è possibile stare nel corpo, semplicemente.
Ora il corpo è, ed è tutto quello che ha da esserci. In questo senso il
«symptôme», scrive Colette Soler, «è il nome dell’identità del sogget-
to, il suo vero nome proprio che detronizza il patronimico» (Soler,
2009, p. 92), che invece è il nome che viene dall’Altro, dal linguaggio.
Questo nuovo nome, al contrario, non è propriamente un nome, per-
ché coincide con il corpo stesso: «identificarsi con il symptôme è […]
riconoscersi» (Ivi, p. 111). Un riconoscimento che non significa però
vedersi da fuori, perché questo processo sarebbe ancora un allonta-

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6. l’immanenza della vita 131

narsi dal corpo; è un riconoscersi immanente, è un coincidere con sé


stessi. A questo punto il corpo è semplicemente e per la prima volta il
corpo che è: non è più il corpo come lo vede l’Altro, come lo hanno
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immaginato i genitori e il Super-Io, la Chiesa e lo Stato. Il corpo alla


fine dell’analisi è il corpo oltre l’Altro.
La talking cure ha lo scopo di portare il simbolico fino al punto
di sciogliersi nel corpo (e quindi non di sublimare il corpo nella men-
te, al contrario, la mente nel corpo). Una operazione, e anche questo
Lawrence l’aveva capito, che solo un «parlêtre» può compiere: «se per
l’animale è lecito identificare l’essere e il corpo, per la specie umana
non lo è. Concerne lo statuto del corpo parlante: il corpo non rileva
dell’essere, bensì dell’avere» (Miller, 2000, p. 23). L’organismo umano,
una volta assorbito nel campo del linguaggio viene diviso in corpo e
pensiero sul corpo, cioè la mente che dice “io”. Ora, solo un organi-
smo del genere può provare la sofferenza che questa divisione compor-
ta, e quindi desiderare di ricomporla. Solo chi ha qualcosa, in questo
caso il proprio corpo, può scegliere di fare tutt’uno con esso; diventare
il corpo che si ha, questo significa, per l’animale umano, essere un
corpo. La cura analitica ha esattamente questo obiettivo, riportare il
corpo al corpo. La meta della psicoanalisi è incarnare il simbolico.
Lawrence, nel romanzo breve L’uomo che era morto, racconta
la storia del Cristo che, dopo la crocifissione, risorge, come corpo
d’uomo fra gli altri uomini. Non è più il figlio di Dio, è proprio
soltanto un corpo, ferito e profondamente addolorato, di un uomo
che è morto, e che per qualche inspiegabile ragione è tornato alla
vita. Anzi, non ne vuole sapere della vita, che per lui ha significato
dolore e tradimento, ma la vita l’ha richiamato, anche contro il suo
desiderio, ché alla fine – nella tortura della croce – desiderava solo
la morte. Ora è vivo, e scopre, suo malgrado, che può finalmente
essere il corpo che è: «che bello», si dice, «aver concluso la missione
e averla superata. Ora posso stare solo e lasciare le cose a loro stesse.
Il fico può essere sterile se lo vuole e il ricco può essere ricco. La mia
strada è mia e la percorrerò da solo» (Lawrence, 1931, trad. it. 1995,
p. 384). Il corpo che è diventato è ancora un corpo che parla, non
smette d’essere un «parlêtre», ma il suo rapporto con il linguaggio
è cambiato. Parla, ma la parola non lo allontana più dell’assoluta
immanenza della sua esistenza. È un corpo che vive, e nient’altro. È
certo curioso come esempio, ma se la possibilità del «symptôme» si

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dà realmente, allora questo corpo ha fatto della coincidenza con sé


stesso la propria singolarità:
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«il verbo non è altro che una zanzara che morde di sera. L’uomo è tor-
mentato dalle parole come dalle zanzare e lo seguono dritto alla tomba. Ma
non possono andare al di là della tomba. Ora, sono passato al luogo in cui le
parole non possono più mordere e l’aria è chiara, non c’è niente da dire, e sono
solo, all’interno della mia stessa pelle che è il muro di recinzione di tutto ciò
che possiedo».
Così guariva delle sue ferite e si godeva la sua immortalità di essere vivo,
senza inquietudine, poiché nella tomba si era liberato di quel cappio che noi
chiamiamo preoccupazione. Nella tomba aveva lasciato la parte di sé che com-
batte, che si preoccupa e che si autoafferma. Ora la parte di sé indifferente
guariva e diventava intera all’interno della pelle ed egli sorrise a sé stesso con
pura solitudine, che è una sorta di immortalità (Ibidem).

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Bibliografia

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Weisman Ronald, Spetch Marcia


2010 Determining When Birds Perceive Correspondence Between Pic-
tures and Objects: A Critique, «Comparative Cognition and Be-
havior Reviews», 5, 117-131.

Wittgenstein Ludwig
1922 Tractatus Logico-Philosophicus, Routledge & Kegan Paul, Lon-
don (trad. it. Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-
1916, Einaudi, Torino 1995).
1967 Lezioni e conversazioni, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano
1967.
1967a Zettel, University of California Press, Berkeley (trad. it. Zettel,
Einaudi, Torino 1986).
1977 Vermischte Bemerkungen, Suhrkamp, Frankfurt am Main (trad.
it. Pensieri diversi, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano
1980).

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bibliografia 147

1993 Philosophical Occasions, 1912-1951, Hackett Publishing Com-


pany, Indianapolis & Cambridge (trad. it. parziale Esperienza
privata e dati di senso, Einaudi, Torino 2007).
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Zenoni Alfredo
1999 Il corpo e il linguaggio nella psicoanalisi, Bruno Mondadori, Mi-
lano.

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Quodlibet Studio
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analisi filosofiche

Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo


Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività,
fatti, valori
Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo
e fallibilismo
Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e
senso comune
Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente
Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e
pragmatismo
Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e
interazioni
Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003
Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia
e i linguaggi
Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale
Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione
Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale
nella filosofia dell’azione contemporanea
Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton
Marty
Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e
scienze cognitive
Antonio Rainone, Quale realismo, quale verità. Saggio su W. V. Quine
Giovanni Tuzet, La pratica dei valori. Nodi fra conoscenza e azione

campi della psiche

Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione


di conoscere
Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza
Stefania Napolitano, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della
psicoanalisi

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Luca Zendri, La fabbrica delle psicosi
Stefania Napolitano, Clinica della differenza sessuale. Fantasma, sintomo, transfert
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campi della psiche. filosofie dell’inconscio

Felice Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte

campi della psiche. lacaniana

Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan


Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive
Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi
Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psico-analitica
Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra
cinema classico e nuove tecnologie
Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi.
Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould
Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile
dell’insegnare
Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con
Kierkegaard
François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane
Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo
Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psico-analisi
Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi
Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di Jacques-Alain Miller
Chiara Mangiarotti (a cura di), Il mondo visto attraverso una fessura. A scuola
con i bambini autistici
Roberto Cavasola, L’isteria, la depressione e Lacan
François Ansermet, Ariane Giacobino, Autismo. A ciascuno il suo genoma
Éric Laurent, La battaglia dell’autismo. Dalla clinica alla politica

dietro lo specchio

Andrea Zucchinali, Jacques-André Boiffard. Storia di un occhio fotografico

discipline filosofiche

Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap


Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla “Metafisica della conoscen-
za” di Nicolai Hartmann

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Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio co-
scienza. Saggi di filosofia della mente
Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla
filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga
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Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi


Girolamo De Michele, Felicità e storia
Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative
Thoughts and I-Thoughts
Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il
problema fenomenologico del trascendentale
Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski
Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico
Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un
seminario su Wittgenstein
Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e
fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza
Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della
conoscenza
Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno
Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo
Benjamin
Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive
Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive
Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il “nuovo neokantismo” di Richard
Hönigswald e Wolfgang Cramer
Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger
Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di
Ernst Cassirer
Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson
Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto
giuridico e teoria della catogorizzazione
Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille
Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong
Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia del-
la storia di Hegel (1818-1831)
Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz
Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascen-
denza dell’altro
Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas
Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del cre-
aturale
Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo
Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di
Erlangen»
Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia

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Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes
Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio
della mente
Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza
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Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica


Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, sen-
so e linguaggio
Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia
americana contemporanea
Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresenta-
zione tra Ernst Cassirer e Paul Klee
Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma
Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo
kantiano. Filosofia, scienze, sapere
Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito
Mariannina Failla, Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762
Caterina Zanfi, Bergson e la filosofia tedesca 1907-1932
Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo
Benjamin

estetica e critica

Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora


nell’estetica musicale contemporanea
Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon
Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch
Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’“amoroso regno”
Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai
Hartmann
Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla
Critica della facoltà di giudizio
Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro)
Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee
sensibili
Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di
Vittorio Stella
Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp
Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan
Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine
Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani
Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica
Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione
Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia
Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma

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Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica
Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault
Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin
Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto
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Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio


Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato
Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile»
Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema
Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo
Occidente
Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e
figurazione
Dario Cecchi, La costituzione tecnica dell’umano
Francesca Iannelli (a cura di), Vita dell’arte. Risonanze dell’estetica di Hegel

filosofia e politica

Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della


giustizia
Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi
Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile
Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a
cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione
Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umana nel ven-
tunesimo secolo
Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in
Walter Benjamin e Jacques Derrida
Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine. Saggio su Ernst Bloch
Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin,
a cura del Seminario di studi benjaminiani
Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sen-
tieri interrotti della democrazia
Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura
Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente
Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione
delle pulsioni nella politica contemporanea
Mauro Farnesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes
Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700)
Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale.
Walter Benjamin: capitalismo e religione
Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700)

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filosofia e psicoanalisi

Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi.


Un’introduzione in ventuno passi
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Felice Cimatti e Alberto Luchetti (a cura di), Corpo, linguaggio e psicoanalisi


Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere. Estetica e psicoanalisi

il pensiero etico e religioso

Isabella Adinolfi, Giuseppe Goisis (a cura di), I volti moderni di Gesù. Arte
Filosofia Storia

lettere

Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera


di Gregor von Rezzori
Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto
Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo,
opera, individuo
Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno
Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo
Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento
Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica
Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello,
Bilenchi, Calvino
Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano
Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna
Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo
Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poe-
sia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi
Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura
Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise
Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo
Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia
contemporanea
Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea
Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della nar-
rativa italiana degli anni Zero
Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il
Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto
Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento
Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale
Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George

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Vito Santoro, Calvino e il cinema
Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati
Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del
xx secolo
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Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno


Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo
Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre
Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann
Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini
Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi
Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti
Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica
Susanna Spero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di
Samuel Beckett
Marcella Biasi, Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il pa-
radigma Celan
Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia
Paola Laura Gorla, Sei diversioni nel Chisciotte
Davide Colussi, Paolo Zublena (a cura di), Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure
Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione
Barbara Ronchetti, Caleidoscopio russo. Studi di letteratura contemporanea
Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja
Paolo Amalfitano, L’armonia di Babele. Varietà dell’esperienza e polifonia del-
le forme nel romanzo inglese
Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione
italiana

lettere. ultracontemporanea

Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni


nell’ultima narrativa francese
Matteo Majorano (a cura di), Il ritorno dei sentimenti
Marinella Termite, Le sentiment végétal. Feuillages d’extrême contemporain
Gianfranco Rubino, Dominique Viart (a cura di), Le roman français contem-
porain face à l’Histoire. Thèmes et formes
Gianfranco Rubino (a cura di), Le sujet et l’Histoire dans le roman français
contemporain. Écrivains en dialogue

lingua, didattica, società

Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina


Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in
America Latina

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scienze del linguaggio

John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del lin-


guaggio
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scienze della cultura

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa


Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni,
trasgressioni
Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna
Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio
della cultura
Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’im-
maginazione letteraria
Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti,
modelli, letture
Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei
“Promessi Sposi”
Maria Carolina Foi, La giurisdizione delle scene. I drammi politici di Schiller
Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Lessico mitologico goethiano.
Letteratura, cultura visuale, performance
Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Critica/crisi. Una questione degli
studi culturali
Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Rappresentanza/rappresenta-
zione. Una questione degli studi culturali

teoria delle arti e cultura visuale

Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo


Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo
sguardo di Jacob Burckhardt
Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizza-
zione mediatica
Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italia-
na del primo Novecento
Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappre-
sentazione. Letteratura e cultura visuale
Luca Pietro Nicoletti, Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore
d’arte a Parigi

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